mercoledì 27 novembre 2019



1945

 


 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, L’Amore in maschera ed alcuni dei più celebri “Contes Drolatiques”. Traduzione di Victor D’Haydé e di Maria Pia de Dominicis, Venezia, Edizioni La Bautta (Arti grafiche Garzia), (settembre) 1945 («La Bautta. Secondo volume della serie rossa»), pp. 175.

 

  Struttura dell’opera:

 

  L’amore in maschera, pp. 7-90;

  Perseveranza d’amore (Dai Contes Drolatiques), pp. 91-123;

  La Connestabile, pp. 124-150;

  La falsa cortigiana, pp. 151-169;

  Candore, pp. 170-173.

 

  Si tratta della traduzione de L’Amour masqué, opera di assai dubbia paternità balzachiana e dei seguenti Contes drolatiques: Perseuerance d’amour; La Connestable; La Faulse Courtizanne e Naifueté.

 

 

  Honoré de Balzac, Argow il pirata di Honoré de Balzac. Traduzione di Luigi Taroni, Milano, Edizioni Allegranza (Stabilimento Grafico R. Scotti), (dicembre) 1945 («I Maestri. Narratori dell’800», Volume V), pp. 369.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Luigi Taroni, Prefazione, pp. 7-9; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Argow il pirata, pp. 11-367.

 

  La traduzione del romanzo giovanile balzachiano fornita da Luigi Taroni si fonda non sul testo della prima edizione del romanzo [pubblicato nel 1824 con il titolo di: Annette et le Criminel], ma su quello, semplificato e ridotto, del 1836 compreso nei tomi VII e VIII delle Oeuvres complètes de Horace de Saint-Aubin, con il titolo di Argow le pirate. Non sempre la versione italiana del romanzo di Balzac fornita dal compilatore può ritenersi soddisfacente per fedeltà e aderenza rispetto al modello francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Caterina de Medici. Saggio di Honoré de Balzac. Traduzione di Orsola Nemi, Milano, Rizzoli Editore, 1945 («Collezione La Gaia Scienza», volume n. 5), pp. 317.

 

  Esemplata sul modello dell’edizione Furne (1846), la traduzione di Orsola Nemi ci pare, nel complesso, formalmente corretta nonostante qualche omissione testuale.

 

 

  Honoré de Balzac, La donna di trent’anni. L’abbandonata. Traduzione di Raoul Vivaldi, Roma, De Carlo Editore (Tipografia di Giovanni Bardi), (luglio) 1945 («La Commedia umana», raccolta completa delle opere di Honoré de Balzac, a cura di Raoul Vivaldi», Volume IV), pp. 234.

 

  La donna di trent’anni, pp. 5.185;

  L’abbandonata, pp. 187-230;

  Nota, pp. 233-234. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

 

  Condotte sul modello dell’edizione Furne (1842), le traduzioni che Raoul Vivaldi fornisce di La Femme de trente ans e di La Femme abandonnée sono assai sovente caratterizzate dagli interventi personali del compilatore soprattutto dal punto di vista stilistico e da scelte lessicali a volte discutibili.

  Limitandoci alle prime pagine della traduzione di La Femme de trente ans, riportiamo i seguenti estratti: «des cheveux grisonnants» è reso con «rari capelli grigi» (p. 7); «malgré la ceinture alors placé sous le sein» è tradotto: «nonostante la barbara cintura di moda, portata – come allora si usava – subito sotto il seno» (p. 8); «sa pétulante promenade» reso con «sua eccitante passeggiata» (Ibid.); «quand ces temps héroïques de la France» tradotto in «allorquando gli splendori di quei tempi eroici della Francia» (p.9).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione e note di Francesco Picco, Torino, S. Lattes e C. – Editori (Arti Grafiche Varetto), 1945 («Scrittori stranieri moderni. Collana diretta da F. Picco»), pp. XV-201.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Francesco Picco, Introduzione, pp. III-XV; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Eugénie Grandet, pp. 1-200.

 

  Il testo del romanzo balzachiano è suddiviso in sei capitoli (più la Conclusion) secondo il modello dell’edizione originale pubblicata da Mme Charles Béchet nel 1834; Balzac eliminerà tale suddivisione nell’edizione Charpentier del 1839, in cui sarà inserita la dedica ‘À Maria’.

  Siamo di fronte ad una edizione del capolavoro balzachiana (ideata presumibilmente ad uso scolastico) fortemente mutilata dove le parti omesse sono sostituite da brevi riassunti in lingua italiana.

 

 

  Balzac, Il Giglio nella valle. Traduzione di Bruno Romani, Roma, Colombo Editore, (aprile) 1945 («Labirinto d’amore», 6), pp. XIV-301.

 

  Bruno Romani, Introduzione, pp. VII-XIV; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Il Giglio nella valle, pp. 3-298.

 

  Il romanzo è suddiviso in quattro capitoli – preceduti dall’Invio alla contessa di Manerville e seguiti dalla Risposta all’Invio –, il che farebbe pensare che il Romani abbia avuto, come testo di riferimento, un’edizione anteriore a quella pubblicata da Charpentier nel 1839, nella quale la suddivisione in capitoli venne, da Balzac, definitivamente soppressa. L’esame del corpus delle varianti permette di stabilire che anche la traduzione della dedica al dottor Nacquart e dell’Invio si fonda su un modello anteriore all’edizione Charpentier; al contrario, il testo del romanzo parrebbe riferirsi all’edizione Furne del 1844. Nel complesso corretta, questa versione italiana di Le Lys dans la vallée contiene, al suo interno, alcuni grossolani errori di trascrizione; ne segnaliamo due, in particolare: quello presente nella dedica («Dedica a G B. Nacquart membro dell’Accademia navale di medicina») e quello a p. 31, dove l’anno 1789 è trascritto erroneamente con 1781.

 

 

  Balzac, Il peccato veniale nella traduzione di Salvatore De Carlo, Roma, De Carlo (Stabilimento “Edigraf”), 1945 («I Libri proibiti in edizione riservata agli studiosi ed ai bibliofili, a cura di S. De Carlo», Ottavo volume), pp. 58; 1 tav.

 

  Si tratta della traduzione, che giudichiamo, nel complesso, abbastanza corretta, del racconto compreso nella prima decina dei Contes drolatiques ed intitolato: Le péché vesniel. Il testo è preceduto da una breve nota del traduttore che qui trascriviamo integralmente:

 

  Questo racconto di Honoré de Balzac, che fa parte della serie «Les contes drolatiques», è una perla di quella collana cui il grandissimo scrittore turennese dedicò le sue migliori e più appassionate cure realizzando brillantemente un’ideale di novellistica trecentesca vivificato e rinnovato dalla malizia e dalla grazia francesi.

  Di quella collana, «Il Peccato veniale» è senza dubbio il capolavoro: un capolavoro di grazia, di arguzia, di finezza; un delicato ricamo cui conferisce maggiore attrattiva il substrato sensuale ed erotico che l’autore è riuscito a creare pur senza mai trascendere nel turpe o nel volgare.

  La traduzione che offriamo al lettore italiano è accuratissima, realizzata con vera probità artistica; ci sembra, in ogni caso, che essa sia egregiamente intonata al testo balzachiano.

 

 

  H. de Balzac, Pierre Grassou. Traduzione di Raffaele de Cesare. Litografie di Mino Maccari, Città di Castello, Edizioni dell’Angelo (Officine della R. Scuola Tecnica Industriale), 1945 («Romanzi e racconti illustrati da artisti contemporanei», 1), pp. 62; 4 tvv.

 

  [Introduzione], pp. 9-13; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Pierre Grassou, pp. 15-55;

  [Nota finale], pp. 57-60.

 

  Esemplata sul modello dell’edizione Furne (1844), la traduzione di Raffaele de Cesare è senz’altro da giudicarsi fedele, corretta e stilisticamente appropriata.

 

 

  H. de Balzac, I Tredici di H. De Balzac. Traduzione dal francese di E. Cremonese, Roma, Casa Editrice Perrella, s. d. [1945] («Prisma»), pp. XVI-387.

 

  Presentazione dell’editore (Roma, maggio 1945), pp. VII-XVI; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Prefazione; Ferragus; La duchessa di Langeais; La ragazza dagli occhi d’oro.

 

  Fondata sul testo dell’edizione Furne (1843), la traduzione che il Cremonese fornisce della trilogia di romanzi formanti l’Histoire des Treize può ritenersi, nel complesso, adeguata.

 

 

  Honoré de Balzac, Un dramma in riva al mare e altri racconti. Nuova traduzione italiana [e Nota del traduttore] di Giulia Veronesi, Milano, Muggiani Tipografo-Editore, 1945 («Narratori e prosatori italiani e stranieri»), pp. 211.

 

  Nota del traduttore, pp. 9-12;

  Un dramma in riva al mare, pp. 15-48;

  La Grenadière, pp. 51-92;

  Il capolavoro sconosciuto, pp. 95-143;

  Z. Marcas, pp. 147-195;

  Léon Gozlan, Balzac alla ricerca di un nome (1890), pp. 197-209.


  Le traduzioni di Giulia Veronese relative a queste quattro opere balzachiane ci pare, in più luoghi dei testi presentati, troppo personale e quindi scarsamente aderente al costrutto francese proprio dei rispettivi modelli originali (ed. Furne). Non vengono, inoltre, mai riportate le dediche delle singole opere. Si considerino gli esempî seguenti tratti dalle prime pagine di ogni racconto:

 

  p. 1159 [cfr. Balzac, Un drame au bord de la mer, a cura di Moïse Le Yaouanc, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1979, t. X].

 

  Les jeunes gens ont presque tous un compas avec lequel ils se plaisent à mesurer l’avenir ; quand leur volonté s’accorde avec la hardiesse de l’angle qu’ils ouvrent, le monde est à eux. Mais ce phénomène de la vie morale n’a lieu qu’à un certain âge. Cet âge, qui pour tous les hommes se trouve entre vingt-deux et vingt-huit ans, est celui des grandes pensées, l’âge des conceptions premières, parce qu’il est l’âge des immenses désirs, l’âge où l’on ne doute de rien : qui dit doute, dit impuissance. Après cet âge rapide comme une semaison, vient celui de l’exécution. Il est en quelque sorte deux jeunesses, la jeunesse durant laquelle on croit, la jeunesse pendant laquelle on agit ; souvent elles se confondent chez les hommes que la nature a favorisés, et qui sont, comme César, Newton et Bonaparte, les plus grands parmi les grands hommes. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 15. I giovani di solito piglian gusto a precorrere l’avvenire, a precederne audacemente i giorni e i fatti; quando la loro volontà s’accorda con tale audacia, il mondo è loro. È un fenomeno della vita morale che accade soltanto a una certa età, fra i ventidue e i ventotto anni, l’età delle grandi idee, degli eroici progetti, degli immensi desideri; allora non si dubita di nulla, il dubbio essendo un segno d’impotenza. Età rapida come il tempo della semina! Dopo vengono i giorni in cui le idee sono attuate, proprio come se ci fossero due giovinezze: una, la prima, in cui si crede, e un’altra in cui si agisce. Sovente esse si confondono negli uomini che la natura ha favorito e che sono, come Cesare, come Newton e Bonaparte, i più grandi fra i grandi uomini.

 

  p. 421 [cfr. Balzac, La Grenadière, a cura di Anne-Marie Meininger, in La Comédie humaine … cit, 1976, t. II].

 

  La Grenadière est une petite habitation située sur la rive droite de la Loire, en aval et à un mille environ du pont de Tours. En cet endroit, la rivière, large comme un lac, est parsemée d’îles vertes et bordée par une roche sur laquelle sont assises plusieurs maisons de campagne, toutes bâties en pierre blanche, entourées de clos de vigne et de jardins où les plus beaux fruits du monde mûrissent à l’exposition du midi. Patiemment terrassés par plusieurs générations, les creux du rocher réfléchissent les rayons du soleil, et permettent de cultiver en pleine terre, à la faveur d’une température factice, les productions des plus chauds climats. Dans une des moins profondes anfractuosités qui découpent cette colline s’élève la flèche aiguë de Saint-Cyr, petit village duquel dépendent toutes ces maisons éparses.

 

  p. 51. La Grenadière è una villa situata sulla riva destra della Loira, a circa un miglio verso valle dal ponte di Tours. In quel punto il fiume, largo come un lago, è sparso d’isole verdi, e sulle sue rive di roccia s’adagiano tante case di campagna fatte di pietra bianca, circondate di vigneti e giardini dove maturano, esposte a mezzogiorno, le frutta più belle del mondo. Nelle cavità della roccia, pazientemente rafforzate a terrapieni nel corso di parecchie generazioni, i raggi del sole si concentrano e vi fanno specchio sviluppando calore artificiale, sicché vi si possono coltivare senza serre i frutti dei climi più caldi. La collina è tutta frastagliata; in una delle sue anfrattuosità meno profonde s’erge l’aguzzo campanile di Saint-Cyr, piccolo villaggio da cui dipendono tutte quelle case sparse. 

 

  pp. 413-414 [cfr. Balzac, Le chef-d’œuvre inconnu, a cura di René Guise, in La Comédie humaine … cit., 1979, t. X].

 

  Après avoir assez longtemps marché dans cette rue avec l’irrésolution d’un amant qui n’ose se présenter chez sa première maîtresse, quelque facile qu’elle soit, il finit par franchir le seuil de cette porte, et demanda si maître François Porbus était en son logis. […].

  Le jeune homme éprouvait cette sensation profonde qui a dû faire vibrer le cœur des grands artistes quand, au fort de la jeunesse et de leur amour pour l’art, ils ont abordé un homme de génie ou quelque chef-d’œuvre. Il existe dans tous les sentiments humains une fleur primitive, engendrée par un noble enthousiasme qui va toujours faiblissant jusqu’à ce que le bonheur ne soit plus qu’un souvenir et la gloire un mensonge.

 

  pp. 95-96. Dopo aver camminato per un certo tempo su e giù con aria indecisa, come uno che non osi presentarsi alla prima amante per facile ch’ella sia, fini con l’entrare e domandò se il maestro Porbus era in casa. [...].

  Il giovane provava un’emozione profonda: sempre trema il cuore a un grande artista quando nel colmo della giovinezza e dell’amore per l’arte abbia la ventura di accostarsi a un uomo di genio o a qualche capolavoro. I sentimenti umani fioriscono tutti da un altissimo entusiasmo che a poco a poco si fa sempre più debole, fin che la felicità non è poi che un ricordo e la gloria una menzogna. 

 

  pp. 829-830 [cfr. Balzac, Z. Marcas, a cura di Anne-Marie Meininger, in La Comédie humaine … cit., 1977, t. VIII].

 

  N’est-il pas aussi doux qu’il est bizarre? mais aussi ne vous paraît-il pas inachevé? Je ne voudrais pas prendre sur moi d’affirmer que les noms n’exercent aucune influence sur la destinée. Entre les faits de la vie et le nom des hommes, il est de secrètes et d’inexplicables concordances ou des désaccords visibles qui surprennent ; souvent des corrélations lointaines, mais efficaces, s’y sont révélées. Notre globe est plein, tout s’y tient. Peut-être reviendra-t-on quelque jour aux Sciences Occultes. Ne voyez-vous pas dans la construction du Z une allure contrariée? ne figure-t-elle pas le zigzag aléatoire et fantasque d’une vie tourmentée? Quel vent a soufflé sur cette lettre qui, dans chaque langue où elle est admise, commande à peine à cinquante mots? Marcas s’appelait Zéphirin. Saint Zéphirin est très vénéré en Bretagne. Marcas était Breton. Examinez encore ce nom: Z. Marcas! Toute la vie de l’homme est dans l’assemblage fantastique de ces sept lettres. Sept! le plus significatif des nombres cabalistiques. L’homme est mort à trente-cinq ans, ainsi sa vie a été composée de sept lustres. Marcas! N’avez-vous pas l’idée de quelque chose de précieux qui se brise par une chute, avec ou sans bruit?

 

  p. 148. Dolce e bizzarro nome! Eppure sembra incompleto. Io non vorrei proprio assumermi di affermare che i nomi non abbiano influenza sul destino: tra i fatti della vita e il nome degli uomini esistono segrete e inesplicabili concordanze o evidenti disaccordi che sorprendono, e lontane ma efficaci rispondenze. Il mondo ne è pieno, tutto dipende da queste cose; e io credo che un giorno si ritornerà alle scienze occulte. È facile, per esempio, scorgere nella costruzione della «Z» un movimento contraddetto, quasi lo zig-zag aleatorio e fantastico di una vita tormentata. Quale vento ha soffiato su questa lettera che in ogni lingua dove sia ammessa entra appena in una cinquantina di parole?

  Marcas si chiamava Zefirino. San Zefirino è molto venerato in Bretagna; Marcas era bretone.

  Pensate ancora al suo nome: Z. Marcas! Tutta la sua vita è nella combinazione fantastica di queste sette lettere. Sette, notate: il più significativo dei numeri cabalistici. L’uomo è morto a trentacinque anni, dunque la sua vita è stata composta di sette lustri.

  Marcas! Pare qualcosa che si spezzi per una caduta, anche senza rumore. 


 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac Onorato di, in Nuovissima Enciclopedia Universale Illustrata. Dizionario di cognizioni utili compilato da professori delle singole specialità e corredato da numerose illustrazioni. Vol. I. A-CIL, Roma Istituto editoriale di cultura, 1945, p. 241.

 

  Romanziere francese, n. a Tours. Studiò legge a Parigi, ma non riuscì buon avvocato. Cominciò con romanzi mediocri pubblicati sotto finto nome. Fece il tipografo, poi ritornò alla letteratura. Nel 1834 s’innamorò della contessa polacca Hauska (sic), e la sposò dopo 17 anni. La sua attività può considerarsi eccezionale: egli conta, difatti al suo attivo, ben 85 romanzi, oltre a commedie («Vautrin», «Mercadet, l’affarista», ecc.), novelle e racconti. Nel 1842 diè opera a un suo grande disegno in una serie di romanzi destinati a rappresentare la vita umana e la società a lui contemporanea, nei suoi più intricati aspetti. Oltre ad un’interessante «Corrispondenza», lasciò: «Gli Scioani», «Il giglio nella valle», «Eugenia Grandet», «Orsola Mirouet», «Cesare Birotteau», «La cugina Betta», «Papà Goriot», «Il cugino Pons», ecc. (1799-1850).

 

 

  Commedia umana, La, in Dizionario dei Capolavori della letteratura, del teatro e delle arti con un Indice dei personaggi e un repertorio biografico degli autori a cura di Aldo Gabrielli et Alii. 16 tavole a colori, 300 illustrazioni in 120 tavole e numerosi disegni nel testo, Milano, Ultra, 1945, pp. 543-544.

 

  («La Comédie humaine»). – Complesso di romanzi di Honoré de Balzac (1829-1859).

  Balzac riunì sotto questo titolo tutti i romanzi che produsse con la sua prodigiosa fecondità, e divise l’insieme, 96 volumi, nel quale volle realizzare una sintesi della società francese de’ suoi tempi, in diverse parti: Scene della vita privata, Scene della vita di provincia, Scene della vita parigina, della vita politica, della vita militare, della vita di campagna, Studi filosofici, Studi analitici. In un tale «insieme» gigantesco l’autore dà vita a circa duemila personaggi, parecchi dei quali passano da un romanzo all’altro, e per mezzo dei quali egli forma un quattro completo della generazione a cui appartenne. Sono in massima parte «piccoli borghesi», in ragione dell’importanza preponderante della borghesia in quella generazione, e Balzac li rappresenta alle prese con quelle difficoltà della vita moderna che egli stesso dovette affrontare in una lotta incessante. Sono esseri ritratti dal vero, che agiscono soprattutto per assecondare ciascuno le proprie passioni, o i propri istinti, o le proprie aspirazioni, per guadagnarsi il pane o conquistare la ricchezza o il potere mediante l’intelligenza, o l’astuzia, o talvolta la violenza. Le loro passioni, le loro ambizioni, i loro vizi, sono riprodotti con una fedeltà meravigliosa e sotto mille aspetti diversi. Gente di città e gente di campagna, «arrivisti» e «arrivati», artisti e giornalisti, mercanti e possidenti, magistrati e militari, sono dipinti con una meticolosa preoccupazione della verità, nei loro diversi ambienti minuziosamente descritti, nei logici sviluppi delle loro personalità.

  «La Commedia umana — nota Diego Valeri — presenta innumerevoli modi di sentire, di parlare, di muoversi, di vestirsi di soddisfare gli appetiti naturali e di saziare le passioni: questi modi sono particolari ad un’epoca, ma d’altra parte sono universalmente umani. Quindi l’opera è il maggior repertorio di documenti sulla natura umana che sia mai stato accumulato da uno scrittore». I personaggi di Balzac sono tutti animati dal soffio possente del genio, in modo tale che a noi sembra di vederli realmente vivere davanti ai nostri occhi. Le figure principali del vasto quadro rimangono indelebilmente impresse nella mente, anche perché Balzac, nello scolpirle, si applicò a creare in ciascuna un «tipo» dominato da una sola grande passione, o da un solo vizio o da una virtù unica e sublime, di cui essa diventa una personificazione esemplare. Così Rubempré personifica e rappresenta la vanità, Rastignac l’ambizione, Grandet l’avarizia, Hulot la lussuria, Goriot l’amor paterno, Birotteau l’onestà. E dovremmo citare anche la Cugina Betta, Eugenia Grandet, il Cugino Pons, Vautrin, Gobseck, Brideau, Marneffe ed altri secondari.

  Oltre alla facoltà, posseduta al massimo grado, di dare l’illusione della vita, e a quella di vedere e di rendere tutti i particolari significanti degli esseri e delle cose, l’autore della Commedia umana ebbe il dono di vedere e di saper risuscitare, nell’opera sua, dei complessi, dei gruppi umani, quasi delle società organizzate con le azioni e le reazioni reciproche degli esseri che le compongono. Nella Commedia umana, questo dono di ordine superiore, posseduto da pochissimi altri grandi scrittori, fa di Balzac, come dice il Faguet, «una specie di poeta epico, che abbraccia la vita nel suo insieme, in tal maniera che ciascun essere da lui creato, già vivo per se stesso, diventa ancor più vivo per effetto del contatto, dell’attrito e dell’impulso della vita di tutti gli altri esseri».

  Bibl. — L’edizione definitiva di tutte le opere di Balzac fu pubblicata da Calmann-Lévy, a Parigi, fra il 1885 e il 1888. Sullo scrittore, leggasi: F. Brunetière, H. de B., Parigi, 1906. Sulla Commedia umana in particolare vedasi: A. Cerfbeer e J. Christophe, Répertoire de la Comédie humaine de B., Parigi, 1887, che è un dizionario di tutti i personaggi del grandioso ciclo. Alcuni romanzi della Commedia umana ebbero molte traduzioni italiane, altri, nessuna; la casa ed. Corbaccio (Milano) intraprese un’edizione italiana di tutte le opere, ma non la portò a compimento.

 

  Pelle di zigrino, La, p. 544.

 

  La («La peau de chagrin»). – Romanzo di Honoré de Balzac (1831).

  L’autore di quel grandioso complesso di romanzi realistici che è La Commedia umana fu qualche volta infedele alla verità alla riproduzione oggettiva ed esatta di tipi e di ambienti stupendamente osservati, studiati e analizzati. Lo fu soprattutto in quella serie di romanzi che chiamò «Studi filosofici», fra i quali il più bello è certamente La pelle di zigrino, opera ancora pervasa dal romanticismo attraverso il quale l’autore era passato e dal quale si era vittoriosamente svincolato per dedicarsi alla sua gigantesca rappresentazione della vita e dei «caratteri permanenti della razza umana».

  Il protagonista di questo romanzo «romantico» è un giovane povero, nobile, ambizioso, Raffaele de Valentin, che conduce una vita austera, tutta dedicata allo studio, ma che nello stesso tempo s’abbandona a sogni splendidi e sfrenati di ricchezza e di soddisfazione completa e inebbriante dei desideri, delle aspirazioni, delle impazienze latenti e contenute della sua anima condannata a sopportare la meschina realtà di cui è prigioniera. Egli è teneramente amato da una fanciulla povera come lui, Paolina Gaudin, per la quale non prova che un rispettoso sentimento fraterno. Desidera invece ardentemente la ricca e bellissima Contessa Fedora, civetta, capricciosa, inconsciamente crudele. Mentre è ridotto a meditare il suicidio, tanto sente impossibile la realizzazione delle sue aspirazioni, entra per caso nella bottega di uno strano vecchio antiquario, possessore di mille cose straordinarie, favolose, il quale gli dà un singolare talismano: una magica pelle di zigrino, che gli conferirà il potere di realizzare tutti i suoi più insensati desideri non appena li abbia formulati. Ma, appagato ciascuno di questi desideri, la pelle magica si restringerà un poco, e quando non ne resterà più nulla, Raffaele morirà. Egli accetta il talismano a questa condizione, si dà avidamente a godere, dapprima senza calcoli, di tutte le soddisfazioni, di tutte le gioie, di tutte le vittorie che gli son divenute possibili; ma non tarda a esser preso dall’angoscia, vedendo diminuire rapidamente le dimensioni della pelle, e si sforza di non aver più alcun desiderio. Ma i suoi giorni sono ormai contati, e presto viene l’ultimo.

  Una simile favola dà modo al grande scrittore di prodigarsi in ammirabili svolgimenti di pensiero sulle aspirazioni umane, sui vizi, sulla ricchezza, sulle ambizioni, sulla felicità irraggiungibile, sul suicidio, e così via, e di creare un’opera ad un tempo filosofica ed artistica di una originalità, di un interesse e di una potenza di suggestione assolutamente eccezionali.

  Bibl. — Su B. e le sue opere, si veda la voce Commedia umana. Di questo romanzo esistono una buona edizione nella collana «Maîtres du Livre», Parigi, 1923.


  Eugenia Grandet, pp. 544-545.

 

  («Eugénie Grandet»). – Romanzo di Honoré de Balzac (1833).

  Dei novantasei romanzi della grande Commedia umana, Eugenia Grandet è considerato generalmente come il migliore, come il più bello, come il meno censurabile, dal punto di vista della perfezione artistica, per quella disordinata esuberanza troppo spesso rimproverata al genialissimo autore. «In Eugenia Grandet», nota un critico, «il realismo del romanziere si fonda direttamente sul vero. A certe obiezioni mossegli su qualche particolare del romanzo, egli ebbe a rispondere che “essendo vera la storia, non avrebbe potuto far meglio della verità”. E questa verità del racconto, anche se non può essere documentata, è ben sensibile a chi legge».

  Eugenia è una ragazza di provincia la cui giovinezza trascorre triste e vuota in una casa tetra, fra Papà Grandet, avarissimo e duro, che con un’avidità maniaca, feroce, va conquistando oro, oro a palate, per l’unica soddisfazione di accumularlo in sempre maggior quantità, e una madre debole, silenziosa, assolutamente incapace di difesa contro l’aspra tirannia del marito. La disgraziata ha una fugace illusione d’amore quando Carlo un cugino, rompe per breve tempo la monotonia disperante della sua esistenza, e di tale illusione si fa per cinque anni una ragione di vita, finché le giunge dall’India una lettera di quel cugino, che le annuncia il suo matrimonio con un’altra donna. Muoiono intanto i genitori dell’infelice, che rimane sola, con un’immensa ricchezza inutile, nella tetra casa ormai deserta. Finirà con lo sposare un uomo qualunque, incolore, ed infine, rimasta vedova, si dedicherà, senza fervore, senza slancio, ad opere di beneficenza convenzionali ed aride che neppure le serviranno ad attenuare la profonda tristezza del suo tramonto.

  Le figure della protagonista, del vecchio padre, della madre, dei pretendenti alla mano di Eugenia, sono indimenticabili; Balzac raggiunge, in questo romanzo, il vertice della sua grandezza di scrittore e fa quasi presentire la scarnita perfezione di Flaubert.

  Bibl. — Di Eugenia Grandet sono state pubblicate in Italia parecchie traduzioni; raccomandabile, in modo particolare, quella di Grazia Deledda (Bibl. Romantica Mondadori, Milano, 1931). Sul B., vedi la voce Commedia umana.

 

  Ricerca dell’assoluto, La, p. 545.

 

  La («La Recherche de l’absolu»). Romanzo di Honoré de Balzac (1834).

  Nella Commedia umana, la Ricerca dell’assoluto fa parte della serie intitolata dall’autore «Studi filosofici».

  Baldassarre Claës, dopo essere stato per molti anni un ottimo padre di famiglia amorosissimo verso la propria moglie e le proprie figlie, cessa di essere un marito e un padre normale quando la sua passione per le scienze finisce per renderlo un maniaco ricercatore dell’«assoluto». La moglie, la Signora Claës, riesce in un certo momento a farlo ritornare alla realtà, ad intenerirlo, a fargli promettere di non insistere nelle ricerche alle quali sacrifica la sua famiglia e la sua felicità. Ma poi, vedendolo soffrire, la buona donna si rassegna a non tentare più d’impedirgli di abbandonarsi alla sua funesta mania. Ella si ammala gravemente, lo chiama al suo letto soltanto quando si sente morire, ed egli interrompe a malincuore i suoi esperimenti per recarsi da lei. «Stavi cercando di decomporre l’azoto?», gli dice la morente con un dolce sorriso. «Vi sono già riuscito!», risponde Claës, e si mette a spiegarle minutamente la cosa, e non cessa se non quando s’accorge che la poveretta si è spenta. Morta la moglie, il maniaco ha a che fare con la figlia Margherita. La sorprende un giorno mentre ella sta per nascondere un sacchetto di monete d’oro, consegnatole dalla madre come estremo per salvare la famiglia dall’indigenza e dal disonore. Allora, in una scena stupenda, Claës esige che sua figlia gli dia quel denaro che gli servirà per nuovi esperimenti. Margherita resiste, ed egli la maledice. Infine il maniaco è colpito da paralisi, e mentre sta per chiudere gli occhi per sempre, esclama trionfante: «Ho trovato!».

  Questo tipo creato dal grande romanziere è analogo a quelli, tanto potentemente scolpiti in altri romanzi, di Grandet, di Goriot, di Birotteau, del barone Hulot, di Vautrin, personificazioni ammirabili di una passione unica, dominante, e fra queste figure indimenticabili è forse la più fortemente drammatica, se non la più umana e la più vera.

  Bibl. — Su B. e le sue opere, si veda la voce Commedia umana. Questo romanzo ha poco tentato i traduttori.

 

  Papà Goriot, pp. 545-546.

 

  («Le père Goriot»), Romanzo di Honoré de Balzac (1835).

  Il protagonista del libro potè essere definito semplicemente «un padre imbecille», ma è certo un essere potentemente vivo, come tutti i personaggi della prodigiosa Commedia umana. È un «tipo» semplice, un carattere semplice, dominato da una passione unica e grande, l’amor paterno, e di quella passione Balzac lo ha reso una specie di personificazione esemplare, una di quelle sue personificazioni logiche, complete, che rimangono impresse per sempre nella nostra mente perché ci hanno dato una perfetta illusione di verità.

  Goriot è un vecchio padre debole che si sacrifica in tutto per le sue figlie, indegne del suo immenso affetto e della sua sconfinata bontà. Egli vive soltanto perché le sue figlie siano contente, seguano le loro inclinazioni, vedano soddisfatti i loro desideri, i loro capricci. Secondo lui, secondo il suo cuore, esse non possono aver torto, mai. Per lui, il bene è ciò che dà piacere alle sue figliole, il male è ciò che le affligge o semplicemente le contraria. Delfina s’invaghisce di Rastignac, ed egli fa tutto il possibile perché Rastignac si prenda Delfina; lo consiglia, lo incoraggia, gli fa da mezzano. Le figlie giungono alla ricchezza, vera o apparente, stabile o effimera; il padre si riduce per loro alla più penosa miseria, ed è da loro trascurato, abbandonato. Morente, le scusa, non ha una parola di biasimo per l’abbandono in cui lo lasciano; s’illude, nel delirio, di vederle al suo capezzale, e le chiama «i suoi angeli»; e chiude gli occhi per sempre, balbettando i loro nomi, in uno stato di beatitudine completa, invidiabile. L’amor paterno è dunque, senza che l’autore accenni a farlo risultare, la tesi del romanzo, e Goriot ne è un’incarnazione messa in vigoroso rilievo da un’arte la cui potenza deriva dall’osservazione costante e minuziosa della vita e da un profondo studio del cuore umano, delle sue debolezze, delle sue possibilità d’abnegazione, talvolta sublimi.

  Bibl. — Su Balzac, vedi la voce Commedia umana. Su questo romanzo in particolare, leggasi: Bertaut, Le «Père Goriot» de Balzac, Parigi, 1928. Questo romanzo ha avuto parecchie traduzioni italiane: ricordiamo quella di M. Fabietti (ed. Barion, Sesto S. Giovanni).

 

  Cesare Birotteau, p. 546.

 

  («Histoire de la Grandeur et de la décadence de César Birotteau»). – Romanzo di Honoré de Balzac (1837).

  Il tipo di Cesare Birotteau, profumiere parigino e buon padre di famiglia, è, fra quelli innumerevoli scolpiti da Balzac, uno dei più veri e dei più eroici: vero come «borghese» del suo tempo e del suo ambiente, ed eroico appunto come «borghese».

  Bottegaio arricchito, Cesare Birotteau ambizioso, un po’ megalomane, e aspira ad arricchirsi sempre più e soprattutto a maritare bene le sue figliole, perché siano felici. Le sue ambizioni e la sua megalomania lo spingono a commettere sciocchezze ed errori gravi, come commerciante, e alcuni falsi amici ed autentici imbroglioni lo trascinano al fallimento. Proprio allora si manifesta la sua capacità d’eroismo: onesto fino allo scrupolo, egli compie prodigi d’energia, di volontà e d’intelligenza per pagare fino all’ultimo centesimo le ingenti somme di cui è rimasto debitore e per vincere le cause in cui s’è impantanato. Esce infine vittorioso da questa sua lotta, e muore riabilitato e soddisfatto mentre si celebrano fastosamente le nozze di sua figlia Cesarina.

  Nel far vivere davanti ai nostri occhi quest’uomo qualunque, mediocre e semplice nelle sue passioni e nelle sue azioni, grande soltanto nei sentimenti, anch’essi comuni e semplici, dell’amore per la famiglia e della probità, l’arte di Balzac è meravigliosa. I mezzi di cui essa si serve per dare muscoli, sangue e cuore a quest’ultimo, e per farcelo vedere e conoscere come uno dei tanti che incontriamo ogni giorno, sfuggono all’analisi, tanto sono esenti da qualsiasi artificio letterario, e perciò appunto raggiungono magnifici effetti di verità simpatica e commovente. Cosicché Cesare Birotteau è, come tutti i più riusciti personaggi balzacchiani, realmente un uomo, cioè qualcosa di più e di meglio che un personaggio di romanzo; è un uomo degno di essere conosciuto da noi, un uomo la cui conoscenza c’interessa e ci giova, ed è, artisticamente, una figura bella e luminosa, quantunque sia semplicemente quella di un bottegaio.

  Bibl. — Vedi la voce Commedia umana. Il romanzo è fra i meno tradotti del Balzac. Ricordiamo un’edizione Treves, nella vecchia Bibl. Amena.

 

  Mercadet l’affarista, p. 546.

 

  («Mercadet ou le Faiseur»). – Commedia in 5 atti in prosa, di Honoré de Balzac (1851).

  L’autore della Commedia umana, scrisse, oltre ai novantasei romanzi che gli diedero la gloria, alcune commedie, delle quali Mercadet è la prima, la migliore e la più nota, specialmente per il tipo intensamente vero che l’autore vi mette in scena.

  Mercadet è un affarista attivissimo, abile astuto, dotato di un’indiavolata immaginazione

improvvisatrice di trovate e di espedienti e, in fondo, è anche un buon uomo. L’ha rovinato la fuga di Godeau, suo socio infedele, che ha preso il volo per le Indie con la cassa. Nella sua rovina immeritata cerca di cavarsela col farsi credere ricco e col far sì che sua figlia Giulia sposi un riccone. S’illude di aver trovato il genero che gli occorre in un certo signor de La Brive. Ma questo è, purtroppo, un nome falso, e il personaggio, che in realtà si chiama Michonnin, non possiede altro che un gran numero di debiti. Mercadet, quando scopre la verità, immagina prontamente un rimedio, che consiste nel far passare Michonnin per Godeau reduce dalle Indie. Così potrà far pazientare i creditori, che cominciano ad essere aggressivi e pericolosi. La moglie dell’affarista si oppone a questa manovra e sacrifica ai creditori i propri beni. Per fortuna, Godeau ritorna realmente, danaroso, e salva la situazione. Giulia può sposare il contabile Minard, suo devoto spasimante, nel quale vien riconosciuto un figlio naturale di Godeau. I tipi dei creditori risultano tratteggiati magistralmente, ognuno con caratteri propri e ben distinti. Le trovate, le frottole, i discorsi con cui Mercadet li mena per il naso sono d’una genialità mirabilmente disinvolta e briosa. Veri e divertenti i tipi dei domestici, inquieti per i loro salari, ma pieni di rispetto e d’ammirazione per l’abilità del padrone.

  La commedia, abbozzata nel 1838, fu rappresentata nel 1851, postuma, con ritocchi di E. D’Ennery.

  Bibl. — Su Balzac, vedi la voce Commedia umana. Questa commedia apparve in edizione italiana nella vecchia Bibl. Universale Sonzogno (Milano).

 

 

  Fra le quinte, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Anno LV, N. 1-2, Gennaio-Febbraio 1945, p. 32.

 

  Una notte, rincarando, Balzac trovò un ladro che, con chiavi false, cercava di aprire il tiretto d’un cassettone.

  — Ah! ah! — esclamò lo scrittore che nuotava sempre nei debiti. — Ma sapete che voi siete un bel tipo? Pretendete di trovare, con chiavi false, quello che io ogni giorno non riesco mai a trovare con chiavi vere!



  H. de Balzac, “I Tredici”, traduzione di P. (sic) Cremonese, Perrella, Roma, «Mercurio. Mensile di politica, arte, scienze», Roma, Anno II, N. 11, Luglio 1945, p. 144.

 

  Il risorgente interesse per Balzac, testimoniato da più parti (dal nord giunge notizia della traduzione separata del III racconto dei Tredici: La fille aux yeux d’or), è da mettersi in relazione anche con i temi politici, filosofici e sociali di cui Balzac ridonda. La prefazione dell’editore chiarisce perché le stravaganze di questo trittico gli siano parse meritevoli di nuova traduzione, al pari dei capolavori consacrati.

 

 

  Cinema. Imminente al Corso “Il marchio sulla carne” con Edvige Feuillère, «La Nuova Stampa», Torino, Anno I, Num. 105, 21 Novembre 1945, p. 2.

 

  Un maestro del romanzo, Onorato Balzac, è l’autore del soggetto di questo film passionale; un maestro dello schermo francese, Jacques de Baroncelli, è il regista che ha dato corpo alle figure nate dalla fantasia del grande romanziere.

 

 

  Bruno Astolfi, Tra la gente celebre. Ispirazioni, ambizioni e manie dei grandi, «Stampa Sera», Torino, Anno 79, Num. 64, 15-16 Marzo 1945, p. 2.

 

La vanità di Balzac.

 

  Questa rassegna sulle svariate anomalie degli uomini di eccezione, potrebbe essere nutrita smisuratamente, piluccando per ogni aspetto bizzarrie, stravaganze, vanità ed anche debolezze. Non è detto, ad esempio, che tutti i grandi sieno stati modesti; taluni pervennero, anzi, ad una vanità che persino sconfinò nel ridicolo. Balzac non nascondeva la sterminata stima, che aveva delle proprie opere e del proprio cervello. Durante un pranzo ad un giovane scrittore uscì di bocca:

  — Noialtri letterati ... — Balzac gli puntò in faccia due occhi divoranti, scattò in una risata e lo rimbeccò: — Voi osate proclamarvi un letterato? La vostra è una strana pretesa ed una folle presunzione! Osate paragonarvi a noi! Eh, no! Voi ignorate di aver l’onore di pranzare coi marescialli della letteratura ...

  Una manìa ambiziosa di Balzac era quella di discendere da magnanimi lombi, di avere nelle vene sangue blu; e perciò egli attribuiva le sue origini alla famiglia dei Balzac d’Entraquez, imparentati coi reali di Francia. E ad un tale che osò dubitare dell’autenticità di questa discendenza, l’immortale scrittore disse sdegnato:

  — Ah! Voi non credete ch’io discenda dai Balzac d’Entraquez? Ebbene, tanto peggio per loro! ...

 

 

  Vittore Branca, Recensioni. Alberto Moravia, “La Speranza ossia Cristianesimo e Comunismo”. — Roma, Documento, 1944. — L’Epidemia, racconti. — Roma, Documento, 1944, «Il Ponte. Rivista di politica, economia e cultura», Firenze, Anno I, Numero 1, Gennaio 1945, pp. 59-63.

 

  p. 60. Nessuno, come Moravia, mi sembrava candidato ad essere il pittore di questo mondo in tempesta, in cui le passioni riacquistano una violenta urgenza da primitivi; nessuno come Moravia, dico, cui ben si attaglierebbero le parole di Sainte Beuve a proposito di Balzac: «a saisi à nu la société dans un quart d’heure de déshabillé et de surprise; les troubles de la rue avaient fait entr’ouvrir l’alcôve, il s’y est glissé (mais — aggiunge Sainte Beuve, e pare lo aggiunga proprio per Moravia — si de pareils hasards sont précieux, il ne faut pas en abuser, ... sous peine de faire céder le charme au dégoût»).

 

 

  [Raffaele de Cesare?], [Introduzione], in H. de Balzac, Pierre Grassou ... cit, pp. 9-13.

 

  La scelta è caduta ora su questo poco noto racconto di Balzac principalmente per il fatto che, fra i romanzi brevi della “Comédie humaine”, esso è forse quello che si offre con le migliori promesse ad un pubblico di lettori contemporanei nel quale il traduttore (forse transitoriamente) si riconosce. A questo pubblico scaltrito negli esercizi del gusto e disincantato, più di quanto non sia probabilmente necessario, di emozioni romantiche (disposto, di conseguenza, a concedersi ad un controllato piacere dell’intelligenza piuttosto che ad abbandonarsi agli esiti imprevedibili di tumultuose intemperanze sentimentali) è dunque affidato il racconto che segue; e con sicura consensualità dal momento che (quasi ogni pagina sprigiona, serenamente, un piacere di lettura, di natura predominantemente mentale, e lo alimenta in sempre nuove scoperte ed avventure. Ma anche al difuori delle esigenze che si son dette, altri lettori con nessuna o con pregiudiziali diverse, concorderanno certamente nel ritrovarvi il senso di una gradita lettura, di una esperienza non superficiale e nemmeno momentanea.

  Nei chiarissimi termini d’arte nei quali il “Pierre Grassou” si esprime, il riso concreta gradualmente accordi che si risolvono in una satira fine e complessa e che nelle proporzioni e nel tono sono segnati ad una misura armonica e tersa e ad un equilibrio strutturale rarissimamente raggiunto da Balzac (anche in romanzi assai più largamente ammirati) nel corso della sua opera così vasta. Il senso della caricatura sapientemente realizzato in una più accesa o meno accesa intensità di colori vi si rivela squisitamente, attuale nella vivacità e nella immediatezza di espressione e ne fa quasi dimenticare la lontana data di nascita. E quanto, infine, al contenuto stesso del racconto esso esercita più che mai in questi tempi attrazioni vivissime, quasi che lo scrittore avesse preveduto un suo pubblico di oggi in cui pieno di desideri fosse l’interesse di veder rappresentati i modi della vita artistica nella finzione letteraria e scenica. Nello sviluppo della narrazione, anche nel corso di certi particolari di una compiaciuta cultura, tutto contribuisce a far vivere il lettore in una lieta, quasi felice, atmosfera di gioco intellettuale, di scherzo di testa.

  Non freddo, però, nè staccato, questo gioco; perché inavvertitamente, lungo il racconto, qualcosa di nuovo subentra che induce il lettore ad una inattesa (e forse inconfessata) partecipazione sentimentale alle avventure ridicole del pittore pompiere. Il tono caricaturale sfocia in esili profondamente umani e tali che ciascuno lascia Pierre Grassou non riconciliato con esso ma — in uno stato di quasi cordialità — scomparso del tutto quel ricordo di facile disprezzo che la iniziale posizione di scrittura aveva suggerito. Disgraziatissimo pittore, Fougères si salva per un ininterrotto senso di umanità, sempre più palesemente scoperto, di cui Balzac sa vivificarlo e che non si spegne in lui nemmeno quando, a naturale conclusione delle solitarie suggestioni lungo il “boulevard” sul colore rosso che è quello stesso dell’oro e delle pose dei Vervelle, ne sposa Virginie la figlia unica, rossa di capelli, lentigginosa e milionaria. Una buona fede da una parte, stranamente intesa ma quasi eroica perché, a modo suo, radicatissima ed incrollabile; una ininterrotta convinzione di riuscire attraverso un duro lavoro in una naturale fiducia di se stesso, del tutto spoglia di presunzione, dall’altra, sono i titoli migliori ai quali si affida una certa moralità di vita di questo simpatico non artista. E, oltre a ciò, Pierre Grassou si salva per una naturale bontà, per una modestia e per quella pronta generosità verso gli amici più grandi di lui, e naturalmente più disgraziati, che egli aiuta senza discussioni e dei quali ha il buon gusto di comprare i quadri, rimpiazzando con essi le croste personali della galleria. La sua salvezza è legata ad un insieme di qualità di onesto borghese che se costituiscono un insanabile contrasto con la missione d’artista, formano tuttavia, in mancanza di meglio, un fondo morale gelosamente valido della borghesia del XIX secolo (quella borghesia di cui Oscar Husson sarà in “Un début dans la vie” il modesto uomo rappresentativo: “Oscar est un homme ordinaire, sans prétention, modeste et se tenant toujours, comme son gouvernement, dans son juste milieu. Il n’excite ni l’envie ni le dédain. C’est enfin le bourgeois moderne”).

  La satira misurata, fine, di un saggio illuminismo (nell’assenza di ogni tormento e nell’incapacità stessa, da parte di Fougères di afferrare il concetto vero del genio e di istituire un paragone, necessariamente doloroso, con se stesso) corre per tutto il racconto ed investe di un sostenuto ridicolo ogni manifestazione pittorica del povero Grassou. Ma in quel suo “piocher” continuo (che reca il ricordo di un più valido “Streben” pur trasferito in altro piano spirituale ed adattato a proporzioni poco più che manuali) ed in quelle caratteristiche di buon giovane retto, modesto, economo e che al matrimonio stesso, per altri un tradimento alla vocazione, si abbandona con una spontanea e quasi giustificata naturalezza, risiede un superiore giudizio umano che il lettore, quasi senza accorgersi, coesprime alla fine, volentieri e sorridendo, con Balzac. Così che per l’autore è forse questa la più valida testimonianza di grandezza; come quella di una più complessa e non affrettatamente semplicistica visione della vita, di una superiorità spirituale incapace di farsi prendere nella comoda tipeggiatura di un facile simbolo.

 

 

  [Raffaele de Cesare?], [Nota finale], Ibid., pp. 57-60.

 

  Per evitare facili errori di lettura è necessario accordare le più ampie attenuanti a Balzac per le poche pagine che nel racconto che precede riguardano la parte introduttiva alla narrazione a tutta la critica pittorica che vi si annette; anche se, come è naturale, talune affermazioni, come quella conclusiva che “sans salon l’art peut périr”, si scoprano oggi di una quasi ridicola gratuità. A questo scopo conviene da una parte tener presente quanto fossero, nella Francia degli anni 1830-1840, indiscriminatamente universali ed incontrastati gli entusiasmi per i nomi di Sigalon, di Gericault, di Decamps e di Deveria e di tanti altri, maggiori e minori pittori di genere, e dommatica la fede nelle consacrazioni ufficiali del “salon”; dall’altra (ed è una considerazione che supera la prima) che questi medesimi entusiasmi, in un generale esame dell’opera di Balzac, devano essere considerati al modo di uno sfogo episodico e provvisiorio (sic) perché sono momentanei ed accessorii (e in ogni caso tiepidi) rispetto alle più profonde esigenze del gusto dello scrittore, che è un gusto finissimo o maturatosi principalmente su i grandi maestri dell’arte fiamminga ed olandese.

  Il lettore, nello scorrere la “Comédie humaine”, quasi ad ogni pagina, si incontrerà infatti in accenni ed in commenti a i grandi pittori del cinque-seicento animati e vibranti di una comprensione e di una ammirazione intense ed affidati sopratutto a proposito e con acutezza alla pagina. Non sono accordi spirituali veri e proprii, assoluti ed irrazionali (non è nell’indole di Balzac) ma sono apprezzamenti e ricordi che vanno al di là di una superficiale ed esterna valutazione. Giacchè l’evocazione non si limita agli artisti di gran moda in quella prima metà del secolo (giusto quel criterio gerarchico che, nei fatti estetici si stabilisce e si muta naturalmente in ogni tempo) ma investe anche quelli negletti dal gusto predominante di quegli anni e la valutazione dei quali si imporrà solo fra la fine del secolo e il principio del nuovo — van der Meer von Delft, per citarne uno, il pittore che sarà poi di Proust.

  Valga come esempio di grande chiarezza in questo caso e come documento di un gusto raffinato e di una folta conoscenza dell’arte, dalle sue manifestazioni pittoriche a quelle ceramistiche, fino alle minori del “bibelot” e del “bric à bac”, il ricordo di “Le cousin Pons”, l’infelice e raggirato maniaco, ma provvedutissimo collezionista, dei “Parents pauvres”che è un romanzo per tanta parte segnato ad una tendenziosa cultura artistica e, forse per questo, con più scoperte concessioni ad un “étalage” un poco snobistico di intenditore. (Difatti si raccomanda alla lettura per tutt’altri motivi, per le intense testimonianze tragiche, fra le più valide della visione balzacchiana, alle quali si apre). E accanto a questo romanzo, quasi a disperderne i dubbi che l’informazione tanto folta sia talora poco seria e affastellata di seconda mano, valga poi il peso che assumono centinaia di pagine della “Comédie humaine” dedicate ai più varii problemi delle arti figurative e ricche di intelligenti ed amorosi commenti.

  È vero che a tutte queste testimonianze si può sempre obbiettare che la pregiudiziale accademica, in generale, e il realismo fiammingo, specificatamente, fossero in ogni caso alla base delle aberrazioni di taluni di quei quadri di genere che sono qui ricordati e ne giustificassero di massima la malposta ammirazione; ma ad esse testimonianze molte altre se ne affiancano che, in un discorso sul gusto di Balzac, si rivelano per assai più convincentemente determinanti. Sono quelle che postulano, per così dire, una sua vitalità estetica e sono affidate a quella parte della “Comédie humaine” che crea, in un piano a metà fantastico, figure di artisti e problemi d’arte e atteggiamenti e realizzazioni pittoriche che non solo vogliono essere fuori da qualsiasi consacrazione ufficiale ma reagiscono ad ogni corrente dominante spezzando formule care e confacenti visioni borghesi.

  Bisogna dire che tutte le pagine alle quali ci riferiamo scoprono un Balzac largamente coinvolto nei nuovi movimenti artistici e decisamente schierato dalla parte di quelle energie giovani e reversive (seppur non ancora equilibrate e chiarificate con se stesse, come il Corot di quegli anni) che, a prezzo di eccezionali incomprensioni prepararono il terreno al “pronunciamento” del 1874 e alle emozioni che ne seguirono. E se non valesse a provarlo, in sede biografica, l’ammirazione per Daumier, basti pensare al fatto, ben più valevole, che nella “Comédie humaine”, uno dei personaggi più aderenti alla perfetta creazione balzacchiana per il quale» più intensamente vibrano note sentimentali è un pittore nuovo, Joseph Bridau, e che i personaggi che sovente ricorrono nel mondo di Balzac sono pittori ed artisti e cioè, con Bridau, Sommervieux, Schinner, Léon de Lora ecc. ecc. Si ricordino, solo per citare pochi esempi, “Un ménage de garçon” e quel breve, autentico capolavoro che è “Un début dans la vie”. E non solo in questi romanzi ma dovunque e con inaspettata frequenza – anche attraverso la mimica e la fisognomica dei personaggi artisti – sono espresse le esigenze una nuova nuova pittura e le scoperte e gli atteggiamenti sconvolgenti di essa. Pierre Grassou – che è fra i racconti tendenziosissimi - offre nella tumultuosa entrata di Bridau e nei consigli di lui all'amico, testimonianze che sono più che programmatiche. Dice Bridau a Grassou; “Aborde donc la nature comme elle est. Mademoiselle est rousse. Et bien, c’est un péché mortel? Tout est magnifique en peinture”. Ora non è chi non veda quanto questa affermazione (che sa supera qualsiasi concezione romantica, oltrepassa anche preconcetti realistici) dovesse suonare rivoluzionaria negli anni 1830-1840 e come fosse, se non altro, eretica nell’atmosfera molto “enseignes de parfumeurs” del salon di quel tempo.

  Le considerazioni che in questa nota sono state ora sommariamente esposte (e che hanno portato con loro un rapido esame degli interessi pittorici di Balzac) varranno dunque a giustificare, per un equo dovere di lettura il “cappello” di questo racconto, inconvincentemente oscillante fra un commento di cronaca artistica ed un saggio di critica in questo caso sfasato e malposto. Ma il lettore che non conoscesse assolutamente Balzac e che gli si avvicinasse per la prima volta, tenga presente un’altra giustificazione (e questa volta architettonica) che, in linea di massima, potrà servirgli anche altrove. Balzac è scrittore dispersivo, prolisso, pletorico, accumula pagine su pagine prima di entrare nel vivo degli avvenimenti fantastici che crea e che costituiscono il nocciolo della sua narrazione, non raggiunge che faticosamente (e solo in pochi, veri capilavori) quell’armonia e quell’equilibrio strutturale che è, in fondo, la misura di una creazione perfetta. Scrittore di getto che ad una abbozzata vicenda, generalmente immaginata, deve dare una consistenza tipografica di duecento o trecento pagine, assillato da preoccupazioni estranee e costretto a paurose necessità giornaliere i lavoro (l’osservazione, in questo caso può volere anche per Dostoievskj) non ha idee di sorta per una disposizione economica del testo e pausa il ritmo della sua creazione di pretesti d’ogni genere che trattengono – sotto forma di opachi excursus extraartistici e di ingiustificati ristagni – il controllato sviluppo della narrazione. Questa necessità che, permanendo necessità. ai trasforma in abitudine alla narrazione, fà sì che i suoi racconti brevi siano relativamente agli altri in minoranza e, in genere. meno riusciti degli altri sia perché Balzac ha possibilità minori di esprimersi, sia perché l’errore di costruzione – date le minori proporzioni — è più ravvisabile che altrove.

  Tuttavia taluni di essi, raggiungendo, per effetto di una concentrazione ottenuta in istato di grazia, armonica misura, assumono una inusitata intensità drammatica ed un serrato andamento di tragedia come, per via di esempii, la seconda parte di “Autre étude de femme” e “La grande Bretéche” (sic) o, addirittura, una lirica purezza di tono, come “Le message”.

 

 

  Milli Dandolo, Ritratto di Duchessa, in Memorie della Duchessa D’Abrantès. Vol. I. Ricordi storici sulla Rivoluzione e il Direttorio. Con introduzione e note di Milli Dandolo. 16 tavole fuori testo, Milano, Ultra, 1945 («Testimonianze. Biografie – Memorie – Epistolari a cura di Cesare Giardini»), pp. 11-29.

 

  Se molti anni più tardi Laura Permon, vedova di Junot, duca d’Abrantès, il fedelissimo (sergente a Tolone, aiutante di campo di Napoleone, ambasciatore, duca nel 1809, governatore di grandi città), se al tempo del suo ingresso nella carriera delle lettere, anzi nel mestiere delle lettere, Laura potesse vedere la propria vita con occhi da romanziera, e trarne dei romanzi, farebbe di se stessa una crea tura degna della fantasia di Balzac o di Dumas. Ma Balzac che l’aiuta a comporre questa prima parte delle Memorie, scrive nel 1838 alla Hanska, parlandole della morte di Laura: «I giornali vi avranno annunciato la misera fine della povera duchessa d’Abrantès; è finita come è finito l’Impero. Un giorno o l’altro vi spiegherò questa donna ...». Ci piacerebbe sentirlo, quando spiega all’amata, colei che fu amata, colei alla quale scriveva nel 1831: «Non credere, cara Marie de bonté, che il mio amore non sia pieno di pene. Oh cara, ti ho già detto abbastanza che si trattava per te di aggiungere sventura a sventura; e te l’avevo detto, e questa tua perseveranza ad amarmi mi ha stupito, l’ho ammirata, ha toccato il mio cuore e io ti amo».

  Probabilmente Balzac non parlerà di Laura all’amata. Eppure la duchessa è un personaggio dei suoi romanzi, la più tenera, la più pazza, la più ardente delle donne che egli può spiegare al mondo nella commedia umana. [...]

  Lo sentiamo, questo malinconico, amaro, ambizioso, tacitamente ansioso Napoleone; sentiamo le sue sorde ire, i suoi soffocati amori, le sue passioni elementari, e al tempo stesso quella teatralità ingenua che a volte Laura ci giustifica come un segno di grandezza, a volte ci addita con maliziosa indulgenza. Ma un uomo come quello va preso in blocco: e proprio noi lo vediamo, statua colossale, come se meglio di Laura l’avesse inventato Balzac.

  Però non bisogna troppo sospettare la piccola duchessa. Senza dubbio Balzac l’ha consigliata, aiutata; ma forse solo le donne possono capire che queste memorie le appartengono, perché solo una donna poteva scriverle così. [...].

  E nel salotto di Sofia Gay, sempre pieno di letterati e d’artisti d’ogni genere, incontra il giovane Balzac. «Guardatelo — così ella dice di lui — guardate con attenzione questo giovane dagli occhi neri come carbone, e dai capelli anche più neri; guardate il suo naso, la sua bocca specialmente, rialzata agli angoli da un maligno sorriso; c’è qualche cosa come disdegno e malizia nel suo sguardi ...».

  Per Balzac deve essere affascinante come una fiaba questa donna che ha visto Napoleone ragazzo; e questa duchessa è affascinante per il giovane provinciale che cerca conoscenze altolocate e avventure vestite di seta. Egli tutti vede che i suoi abiti hanno perduto la freschezza, egli non pensa che il raggiante sorriso nasconda compromessi, avvilimenti, paure. Finiscono per amarsi appassionatamente, e anche per intendersi. C’è ardore e letteratura in questo amore di Laura, c’è vero e falso, come c’è stata in tutta la sua vita. Ma ormai è tardi, ogni foglia verde strappata ha l’importanza d’un meraviglioso fiore.

  Nel 1826 Laura ha cominciato a scrivere le Memorie. Balzac le ha dato il suo consiglio e il suo aiuto. Nel 1831 egli la chiama «Maria l’adorata». Chi sa se per se stessa, o per vanità, o per bisogno di denaro o per stare vicina a Balzac che Laura scrive: forse per tutte e quattro le ragioni. [...].

  Finisce l’amore tra la duchessa e il romanziere. Ella gli scrive nel 1833: «Quanto alla mia amicizia per voi, è ciò che deve essere il sentimento che ci lega, inalterabile, tenero, profondo ...». Scrive nel 1835 con la mano sinistra: «Anche se non ci si vede, si deve essere sempre abbastanza amici per interessarsi alla sorte d’un’amica che come me ha giocato col bisturi, e che è ancora in un letto di dolore. Sono stata operata al braccio destro. Ho avuto trentacinque colpi di bisturi. Quanto ho sofferto, amico mio. Mi farà un gran bene vedervi».

  Ma egli non va, egli la trascura. Del resto, non le aveva promesso felicità, ma un mare di pene. Laura ha cinquantaquattr’anni, egli ne ha trentanove, è innamorato della Hanska. E quando guarisce la piccola duchessa è cambiata, ha perduto la sua piccante bellezza: colei che Napoleone chiamava «petite peste» diventa una vecchia seccatrice. [...].

  Nel 1836 Laura tenta di avvelenarsi. Qualcuno dice che si tratta di guai finanziarii, qualcuno di un amore non corrisposto per un giovane. Chi sa, forse tutto è vero. Ella si confida a Dumas – senza nominare Balzac – in una lettera- che vale tutti i suoi romanzi.

  «... Non si ama più d’amore alla mia età. Ma ci sono degli affetti spogliati d’ogni volgare involucro, che si provano ad agni età con un’anima fatta per tutto sentire e tutto comprendere, un’anima felice di aver trovato la felicità e tutte le gioie nell’epoca della vita in cui non si provano che rimpianti ...». Ma Balzac è in un’età diversa, non ha ancora bisogno di compromessi, la sua ricchissima vita si chiuderà prima che egli li cerchi. [...].

  Colpita da una violenta itterizia è ricoverata in una casa di salute, dove muore il 7 giugno 1838.

  Gavarni, che non l’ha mai abbandonata, le fa il ritratto sul letto di morte. La regina paga il funerale, Chateaubriand lo segue a piedi. David d’Angers farà il progetto per il monumento funebre. Ma Balzac, lui, pare che ne sappia più degli altri. «Vi spiegherò questa donna ...» scrive alla Hanska.

  È abbastanza romanziere per poterlo fare: ma forse è troppo uomo, ahimè, per riuscirvi del tutto. Così par che dica Laura col suo malizioso sorriso.



  Agostino Degli Espinosa, Lo spettro della proprietà. Lo sviluppo d’un ordine libero dipende dal progresso tecnico della produzione, «La Città libera», Roma, Vol. I, N. 8, 5 aprile 1945, pp. 7-8.

 

  p. 7. Vivere vale possedere, e chiunque, almeno nel silenzio della propria memoria, deve riconoscere di avere stabilito questa identità da quando, negli anni giovanili, ha dichiarato con frase romantica il proposito di «vivere la sua vita». D’altra parte se ognuno vivendo tende a possedere sé medesimo, ognuno incontra un limite nella simile tendenza altrui. Una norma che delimiti quanto si può dire «mio», è quindi in pratica necessaria per ridurre al minimo i conflitti di convivenza. «Il signor Grandet, dice Balzac, non sottraeva una mollica agli altri per un costante rispetto della proprietà», ma è facile capire che se questa non fosse stata saldamente definita, l’astuto bottaio di Saumur l’avrebbe tesa, fino agli irraggiungibili confini della sua cupidigia. In tal modo sorge, e si giustifica il diritto di proprietà. Nè sostanzialmente esso distingue fra beni personali e beni esteriori alla persona. Si possiede un cuor d’oro, o un pugno robusto, alla stessa guisa di una cassa di lingotti, come dimostra il caso del carceriere che non può disporre della sua bontà per lasciar fuggire i carcerati, o quello sublimato nella leggenda del pugno proibito, venerata ai tempi della mia infanzia.

 

 

  Eugenio d’Ors, Balzac, in La Valle di Giosaf. Traduzione di Celestino Capasso, Milano, Bompiani, 1945 («Portico. Critica e saggi», 1), pp. 133-134.

 

  Si è precisato in queste stesse pagine: Dante è molto grande; Dostojevskij è enorme; Balzac, come Shakespeare, si trova nella frontiera che separa l’enorme dal molto grande.[1]

  Precisiamo di più ancora: Shakespeare cade dalla parte di qua della frontiera; dalla parte di Dante. Balzac, dalla parte di là; dalla parte di Dostoevskij. Inutile dire che quelli della parte di qua sono gli artisti.

  Io sento per Balzac una fortissima simpatia, figlia di molte ragioni: alcune letterarie, extraletterarie le più. Fra queste ultime ve ne sono alcune puramene soggettive come la forma dei suoi baffi e certi costumi suoi nel lavorare, le ingenuità finanziarie, aver io abitato a Parigi in via Balzac, aver poi abitato a Passy, ecc.

  Malgrado questa simpatia, debbo confessare che mi procura più piacere leggere un buon libro su Balzac che un buon romanzo di Balzac.

  Il primo mi farà comprendere poderosamente il gran dono di accumulazione di forme umane che possedeva questo spirito — qui sì che sarebbe il caso di dire questo cervello —, dono, grazie al quale lo si è comparato a Shakespeare e che forse permetterebbe meglio di paragonarlo a Rubens. Il secondo, il romanzo, può solo presentarmi, naturalmente, un frammento, una briciola della gigantesca accumulazione. Il principale ostacolo per gustare nello stesso Balzac la grandezza di Balzac, consiste nel fatto che i suoi libri non siano sinottici.

  Vi è poi quel che stiamo per insinuare in un inciso: certo odore di fisiologia si sprigiona dal suo lavoro, che sembra più prodotto di un cervello che proiezione di uno spirito.

  O in altri termini, se si vuole: quello che in Shakespeare è creazione, è in Balzac, parto.

 

 

  Raimondo Escholier, Un pittore contro due dinastie (Onorato Daumier), Milano, Casa Editrice Bietti, 1945.

 

In piena tormenta.

 

  pp. 34-35. H. Bouchot — creò «una corrente artistica che fu per la litografia politica quello che i Voyages pittoresques di Taylor erano stati per la litografia romantica».

  Daumier cominciò a lavorarvi con lo pseudonimo di Rogelin. Le sue tavole fiancheggiavano curiosi studi di genere, firmati: conte Alessandro B ..., altro pseudonimo, dietro al quale si celava Onorato di Balzac.

  Si sa che per Balzac il tempo era, veramente, denaro. Sempre frettoloso, l’autore delle Scene della vita di provincia appariva al giornale per consegnare il manoscritto, correggere le proprie bozze o riscuotere qualche luigi ... d’anticipo. Tuttavia aveva notato Onorato Daumier ed aveva esclamato, vedendo certe sue composizioni, solide come bassorilievi:

  — In questo giovanotto c’è del Michelangelo!

  Giudizio che più tardi Baudelaire doveva accentuare scrivendo nella sua Arte romantica: «Giustamente è stato detto che le opere di Gavarni e di Daumier completano la Commedia umana».

  In quanto a Balzac, il quale predicava con l’esempio, egli aveva dato a Daumier un prezioso consiglio, che peraltro il giovane, sostegno di famiglia, ebbe il buonsenso di non seguire:

  — Se volete diventare un grande artista, fate dei debiti!



  Ennio Flaiano, La vita artistica. Intervalli, «La Città libera», Roma, Vol. I, N. 13, 10 maggio 1945, p. 15.

 

  Balzac trovò che ci si sposa per ragioni che non hanno niente da spartire con l’amore o con l’interesse, ritenuti comunemente i soli moventi del matrimonio. (Egli fece un elenco per ordine alfabetico delle sue ragioni: Abitudine, Bisogno, Curiosità, Debolezza, eccetera). Nessuno, volendo parafrasare Balzac con una «fisiologia del teatro», si è ancora chiesto perché il pubblico frequenta gli spettacoli. Molte domande sono forse declinate a ricevere risposte ovvie: circa il pubblico che va a teatro si è infatti da tempo stabilito che ci va per divertirsi. Ma esistono altre ragioni e, se vogliamo fermarci alla prima, ecco farsi avanti la stessa Abitudine che abbiamo ricordato per il matrimonio.

 

 

  M. G., Cinema. “Il marchio sulla carne” di J. De Baroncelli, «La Nuova Stampa», Torino, Anno I, Num. 107, 23 Novembre 1945, p. 2.

 

  Quando la duchessa di Langeais voleva rintuzzare il suo troppo focoso pretendente, s’attaccava al cordone del campanello; ora che è in convento, alla vigilia di pronunciare i suoi voti, e quello vorrebbe addirittura rapirla, l’ex-duchessa s’attacca alla corda del campanone. Fra i due concenti c’è il film: imbastito soprattutto sui disguidi, le irritazioni e le ... contumelie che questo amore-passionaccia trascina con sé. Tratto da un romanzo del Balzac, del romanzo in parte conserva e denuncia l’ossatura che è, psicologicamente, abbastanza macchinosa, voluta; e non donandole respiro di umanità e di intimi sviluppi ne sottolinea attriti e stridori. Edvige Feuillère è un po’ giulebbata. Pierre Richard Willm è, più del solito, contratto e legnoso.

 

 

  A.[ntonio] Ghislanzoni, Storia di Milano dal 1836 al 1848, Milano, Rosa e Ballo Editori, 1945. [1869].

 

  p. 27. Balzac soggiornava per alcun tempo a Milano, e durante quella breve dimora, notava che le figlie delle nostre portinaie avevano l’aspetto di altrettante regine. Il celebre romanziere veniva anche derubato di una preziosa tabacchiera che ben tosto gli era restituita per cura dell’imperiale regio direttore di polizia.

 

 

  Léon Gozlan, Balzac alla ricerca di un nome, in H. de Balzac, Un dramma in riva al mare e altri racconti … cit., Milano, Muggiani, 1945, pp. 197-209.


  Si tratta della traduzione del capitolo IX di: Balzac en pantoufles, pubblicato da Michel Lévy, frères e Jules Hetzel et C.ie nel 1856. Il testo del Gozlan è preceduto da questa breve nota redatta presumibilmente da Giulia Veronese, traduttrice del testo e curatrice di questa raccolta di traduzioni italiane di racconti balzachiani:

 

  Per Balzac, come per tutti i narratori, la scelta di un nome era cosa di grande importanza, ne cercava il suggerimento per le strade e fra le tombe dei cimiteri, dicono i suoi biografi, e tra questi l’autore della nota qui. pubblicata. Tuttavia la premessa al racconto «Z. Marcas» fa supporre, nonostante lo scritto di Gozlan, che tali ricerche fossero per Balzac soprattutto esigenza della sua fantasia, un dover trovare anche nel nome l’assolutezza e il piglio definitivo del personaggio il cui ritratto e il cui destino si determinano l’uno nell’altro. Z. Marcas non può che avere questo suo nome, è il suo nome: eppure non lo aveva, non lo era al momento di nascere. Balzac ne aveva in sé l’oscura e precisa idea e sapeva che nel mondo lo avrebbe trovato. 

 

  Un giorno del giugno 1840 mi arrivò dai Jardies un bigliettino di Balzac, il quale mi pregava di trovarmi il giorno dopo alle tre ai Champs-Elysées, fra i cavalli di Marly e il caffè Ambasciatori. Non dovevo mancare, diceva, tanto più che aveva da chiedermi un importante favore. Come sempre succede in simili casi, incominciai a non darmi pace per cercar di indovinare qual genere di favore attendesse da me Balzac, volevo prevenirne le difficoltà, possibilmente, e fare in modo che il mio desiderio di accontentarlo e la mia buona volontà non trovassero ostacoli. Ma non venni a capo di nulla. Attesi dunque nell'incertezza fino al giorno dopo. Il tempo era orribile, data la stagione, sebbene la bella stagione sia sempre orribile a Parigi.

  Alle tre quando entrai ai Champs-Elysées, un vento grigio d’autunno striato di pioggia strappava le foglie, la terra dei viali deserti era tutta bagnata. Faceva freddo come in febbraio o in marzo, passava soltanto qualche rada carrozza. Ed eccomi a passeggiare davanti ai cavalli di Marly al caffè Ambasciatori in attesa di veder arrivare Balzac. La mia pazienza non fu messa a lunga prova, erano appena suonate le tre alle Tuileries quando vidi venire Balzac dalla parte dell’Étoile; camminava col suo passo rapido e pesante, un’andatura da elefante che gli era caratteristica. Subito in un fiume di parole mi raccontò che usciva allora dalla casa di Madame de Girardin, dove per poco non era morto di freddo; infatti era verde come un annegato e tremava in tutto il corpo.

  «Non si può capire», mi disse, «non si può capire come una donna assolutamente superiore, una donna di spirito e sensibile come Madame de Girardin sia andata ad abitare in un appartamento che, sotto un cielo abominevole come il nostro, è addirittura impossibile. Abitare in un tempio quando non si è dèi, cioè quando non si ha il privilegio di potersi mettere al riparo, per la propria natura divina, dai raffreddori e dai reumatismi! Un tempio con portici, colonne joniche, pavimenti di mosaico, rivestimenti di marmo, muri di stucco lucido, cornicioni di alabastro e altri ornamenti greci, a quarantotto gradi e cinquanta minuti di latitudine nord! E col pretesto che siamo in giugno, il caminetto spento. D’altronde non basterebbe tutta la foresta di Dodona per riscaldare un simile monumento. Tanto varrebbe, parola d’onore, tanto varrebbe ricevere i propri amici sulla Mer de Glace, in Svizzera. Così, quando mi alzai per andar via e Madame de Girardin mi disse: “Ci lasciate di già, Balzac?” non ho potuto fare a meno di rispondere: “Sì, signora, me ne vado in istrada per scaldarmi un po’”. Ma lasciamo andare. Devo parlarvi; camminiamo in fretta, che il mio sangue ricominci a circolare; e ascoltatemi per piacere. Ho appena finito di scrivere per il primo numero della Revue Parisienne un breve romanzo di cui sono abbastanza contento; ve lo leggerò uno di questi giorni, quando avrò trovato ... quel che non ho trovato ancora e che adesso cercheremo insieme. Ma devo incominciare col dirvi chi è il personaggio principale, o meglio, l’unico personaggio di questa piccola storia di costumi, i dolorosi costumi della nostra epoca sociale così come è stata ridotta dalla politica di questi ultimi anni».

  Balzac mi disegnò poi, a grandi linee scultorie, la figura di quel suo personaggio, figura un po’ forte, a parer mio, per la leggera cornice di una novella; ma certamente era destinata, nella mente di Balzac, a muoversi in seguito nel più vasto spazio di un romanzo.

  Mi narrò nei suoi più intimi particolari la vita di quel personaggio creato da lui. Era la vita agitata di un uomo di genio sfruttato da uomini capaci soltanto di ambizione e di intrighi, il quale, ogni volta che ha sistemato uno di costoro in un palazzo, ritorna a languir di fame e di miseria nell’ombra di un solaio dove finisce col morire, dopo tante agonie, vinto dal peso della sua delusione ancor più che dalla miseria e dalla fame.

  «Ecco qual è l’aiuto che mi occorre da voi», riprese Balzac. «Per un uomo simile, per un uomo così straordinario ho bisogno di trovare un nome proporzionato al suo destino, un nome che lo spieghi, lo dipinga, lo annunci come avviene per il cannone, che si annuncia da lontano e dice: io mi chiamo cannone. Un nome che sia tutto imbevuto di lui e che non si possa applicare alla maschera di un altro. Ebbene, questo nome non mi viene, l’ho cercato in tutte le immaginabili combinazioni vocali, ma finora senza risultato. Tanti nomi stupidi ci sono! Non che io abbia paura di battezzare il mio personaggio con un nome stupido, non c’è da aver paura di questo; temo piuttosto — ed è cosa da temere forse più di un nome stupido — temo un nome che non s’attagli strettamente all’uomo come la gengiva s’attaglia al dente, il capello alla radice, l’unghia alla carne. Capite?».

  «Capisco, ma non ammetto ...».

  «Come, non ammettete? ...».

  «No».

  «Come, non ammettete che ci siano nomi che richiamano un diadema, una spada, un casco, un fiore?».

  «No».

  «Che nascondono e insieme svelano un grande poeta, uno spirito satirico, un profondo filosofo, un pittore celebre?».

  «No no, io sarei piuttosto portato ad ammettere il contrario; Racine, per esempio».

  «Racine, sì, stavo per dirlo io. Non sembra fatto apposta per un poeta tenero, appassionato, armonioso?». «A me, ve lo confesso, fa venire in mente un botanico o un farmacista, non un poeta tenero e patetico, nemmen per sogno».

  «Ma Corneille, Corneille?».

  «Corneille mi fa pensare a un uccello insignificante». «E Boileau, il nome di Boileau?».

  «Forma un giuoco di parole senza ortografia».

  «E il grande Pascal?».

  «È il nome di tremila portinai del Marais. Credetemi, tutti questi nomi vi sembrano brillanti, augusti, sublimi soltanto perché sono stati portati da uomini di alto valore».

  «Non lo credo», insistette Balzac terribilmente indispettito, e tenace come al solito. «Un nome viene da lontano, è un destino. È un mistero, questo, e per comprenderlo non servono le piccole regole dei nostri piccoli ragionamenti. Non sono il solo, sapete, a credere a questa meravigliosa concordanza del nome con l’uomo che se ne adorna come di un talismano divino o infernale, sia per illuminare il suo passaggio sulla terra, sia per incendiarlo. Molti studiosi sono della mia opinione, e cosa rara, in questo la gente minuta è d’accordo con gli uomini di pensiero: tutti, dunque».

  «Tranne me. Ma non è il caso d’indugiare sui miei scrupoli personali. Voi volete, mi avete detto, che cerchiamo insieme un nome significativo, qualificativo ed esplicativo del vostro personaggio, un nome che risponda ...».

  «Che risponda a tutto: al suo volto, alla sua statura, alla sua voce, al suo passato, al suo avvenire, al suo genio, ai suoi gusti, alle sue passioni, alle sue sventure e alla sua gloria. Ne avete uno?».

  «No».

  «Io da sei mesi sono spossato dal lavoro, e d’altra parte ho già messo in circolazione tanti nomi che nemmeno un almanacco; mi sento assolutamente incapace di trovar questo, soprattutto se deve rispondere alle con-dizioni volute».

  «Balzac, facciamolo insieme, questo nome».

  «Impossibile. Ho tentato, non ve l’ho detto? E mi son proprio convinto, dopo mille prove snervanti, che un nome non si può fare, così come non si può fare il granito, l’antracite, il marmo. Un nome è opera del tempo, delle rivoluzioni, di non so che altro. Si fa da solo, non si può crearlo come non si può creare una lingua. Ditemi, per favore, chi ha mai creato una lingua?».

  «Allora non abbiamo altra risorsa che quella di scoprirlo?».

  «Nessun’altra».

  «Se esiste ...».

  «Esiste», affermò Balzac solennemente.

  «In tal caso, dove scoprirlo?».

  «Ecco perché vi ho chiamato in aiuto».

  Dopo aver riflettuto un momento gli dissi:

  «E se facessimo come faccio io quando mi trovo imbarazzato per la stessa ragione, sebbene non abbia, come voi, un vero culto per il nome?».

  «Come fate voi?».

  «Io leggo le insegne».

  «Leggete le insegne!».

  «Sulle insegne si leggono i nomi più pomposi e i più buffi, i nomi che dicono le cose più bizzarre, le più opposte fra di loro, sempre, beninteso dal punto di vista del vostro sistema. Alcuni sembrano rivelare gli istinti più cattivi, nonostante la loro apparenza, altri esalano un dolce profumo di onestà e di virtù; ve n’è che fanno balzare il cuore ai librettisti di operetta, i quali li adoperano per i loro personaggi comici, e ve n’è che, una volta perduta una cert’aria a loro propria di allegria o di ambiguità, diventano nomi di briganti. Sono, di solito, nomi di mercanti di candele e di dolcieri».

  «Ma si possono leggere due o tremila insegne senza trovare il nome che si cerca», obiettò Balzac.

  «Anche senza trovarlo, vogliamo tentare?».

  «Tentiamo».

  L’idea sorrideva a Balzac; io non avevo previsto a che cosa mi obbligavo con la mia proposta.

  «Tentiamo», ripetè Balzac. «Da dove si comincia?». «Cominciamo da qui, dove siamo», risposi.

  In quel momento uscivamo dal cortile del Louvre per entrare in rue Saint-Honoré, che non era (non c’è bisogno di dirlo) una via larga e monumentale come oggi; ma era lunga il doppio, ed appariva tutta ricoperta, fasciata da insegne come una mummia dalle proprie bende. «Cominciamo dunque da qui», approvò Balzac. Avremmo dovuto aspettarcelo che i primi passi sarebbero stati inutili. Molti nomi, ma senza fisionomia, soprattutto senza la fisionomia che Balzac esigeva per il nome del suo personaggio. Lui guardava da una parte, io dall’altra, col naso in aria e i piedi chissà dove, sicché andavamo a finire ogni momento tra le gambe dei passanti, che ci prendevano per due ciechi.

  Usciti da rue du Coq, quante altre strade percorremmo, sempre senza risultato. La rue Saint-Honoré fino al Palais Royal, tutte le vie nelle immediate vicinanze del giardino, la rue Vivienne, la piazza della Borsa, la rue Neuve-Vivienne, il Boulevard Montmartre.

  All’angolo di rue Montmartre, stanco da non poterne più e come svuotato da quella lettura così poco naturale, atterrito nel vedere che Balzac non accettava mai nessuno dei nomi che gli andavo indicando come buoni, io mi rifiutai di andare avanti. Mi rivoltai.

  «Cristoforo Colombo sarà sempre abbandonato dal suo equipaggio», mi disse Balzac fissando gli occhi con dolore su un’altra serie di insegne inesplorate. Pazienza, toccherò da solo le rive dell’America. Andate pure».

  «Avete tante Americhe intorno a voi, e non volete approdare! Respingete tutti i nomi, siete ingiusto. Ci sono superbi nomi di rigattieri tedeschi, di stivalai ungheresi, di calzolai della Westfalia, e mille altri nomi quanto mai espressivi. Non fate che rifiutare, volete l’impossibile. La vostra America non avrà mai il suo Colombo».

  «Un uomo stanco è proprio ingiusto come quando è in collera, me ne rendo conto», mi rispose Balzac. «Andiamo, appoggiatevi al mio braccio, riposatevi, e venite con me fino a Saint-Eustache. Sono i tre giorni che Colombo riuscì a ottenere dal suo equipaggio».

  «Ma soltanto fino a Saint-Eustache!».

  «Va bene».

  E riprendemmo il nostro giro d’ispezione. Saint-Eustache non era che un pretesto per Balzac (avrei dovuto indovinarlo), per farmi misurare in tutta la loro lunghezza, e in tutta la loro altezza, le vie du Mail, de Cléry, du Cadran, des Fossés-Montmartre, e la Place des Victoires, tutta infiorata di magnifici nomi alsaziani che fanno venire il Reno in bocca.

  In mezzo a quel museo di nomi io dichiarai a Balzac che, se non avesse immediatamente scelto, me ne sarei proprio andato.

  «Solo la rue de Bouloi, solo quella ancora», mi pregò Balzac insistendo e prendendomi le mani. «Non ditemi di no, lo sento che in rue de Bouloi scopriremo finalmente ...».

  «Basta, vi concedo la rue de Bouloi».

  «Allora son salvo», esclamò Balzac. «Infiliamoci nella rue de Bouloi, dopo ritorneremo subito ai Jardies, il pranzo sarà pronto ad aspettarci».

  La rue de Bouloi, come tante altre, ha tre nomi; è una noiosissima superfetazione che rende difficile per gli stranieri la topografia di Parigi. Nel primo tratto si chiama rue de Bouloi, poi rue Coq-Héron, infine rue de la Jussienne. È proprio nell’ultimo tratto di questa via che Balzac (non lo dimenticherò mai), dopo aver alzato gli occhi a un’insegna sopra una piccola porta mal sagomata nel muro, una porta, oblunga, stretta, sfiancata, che s’apriva su un andito umido e scuro, improvvisamente impallidì, ebbe un trasalimento che dal suo braccio si comunicò al mio, e gettò un grido:

  «Là, là, là ... leggete, leggete, leggete!».

  L’emozione alterava la sua voce.

  E io lessi: MARCAS.

  «Marcas! che ne dite? Marcas! che nome, Marcas!» «Veramente non vedo in quel nome ...».

  «Tacete! Marcas!».

  «Ma ...».

  «Tacete, vi dico. È il nome perfetto, non cerchiamone più. Marcas!».

  «Io non domando di meglio».

  «Fermiamoci gloriosamente a questo: Marcas! Il mio eroe si chiamerà Marcas. In Marcas c’è il filosofo, lo scrittore, il grande politico, il poeta misconosciuto: c’è tutto. Marcas!».

  «Lo vorrei proprio».

  «È così, state sicuro».

  «Ma se il nome di Marcas, secondo voi, indica ed esprime tutto ciò che dite, anche colui che realmente lo porta dev’essere un uomo in qualche modo superiore. Vediamo di sapere che cosa fa, sull’insegna non è indicata la sua professione».

  «Deve avere una professione che è vicina a un’arte, ed a una bella arte, sono sicuro».

  Io scossi il capo, ma Balzac non si fermò ai miei dubbi; continuò:

  «Marcas, che io chiamo Z. Marcas per aggiungere al suo nome una fiamma, un ciuffo, una stella, è sicuramente un grande artista: un incisore, un cesellatore, un orefice come Benvenuto Cellini».

  «Come andate lontano!».

  «Con un nome come quello non si va mai troppo lontano».

  «Tra poco lo sapremo, corro subito dal portinaio a informarmi della professione del signor Marcas».

  E da lontano gridai a Balzac:

  «Sarto!».

  «Sarto!» Balzac chinò il capo ... ma subito lo rialzò con fierezza:

  «Meritava una sorte migliore», disse. «Non importa, io lo renderò immortale. È affar mio».

  La sera stessa ai Jardies, dove pranzammo con un appetito che soltanto può venire a gente che si sia lette tre o quattromila insegne in poche ore, Balzac scrisse per la Revue Parisienne, in testa alla sua novella intitolata Z. Marcas, la monografia di questo nome divenuto storico.

  E dopo avermi letto lui stesso il principio della sua novella mi disse, più calmo che in rue de la Jussienne:

  «Mi rincrescerà sempre che questo nome sia portato da un sarto; non che io disprezzi un sarto, tutt’altro, ma la parola ”sarto” mi ricorda certi debiti, certe cambiali protestate. Prevedo che sarò distratto più d’una volta mentre vi leggerò il mio lavoro. Non importa, Z. Marcas resterà, e sopravviverà nonostante tutto».

 

 

  Nemo, Milano piccolo mondo. Balzac a Milano, «La Libertà. Quotidiano liberale», Milano, Anno II, N. 208, 10 Dicembre 1945, p. 1.

 

  «Milano accoglie da due giorni tra le sue mura il signor di Balzac, lo scrittore francese più popolare anche fra noi, perché i suoi scritti corrono nelle mani di tutti, in originale o tradotti. Egli viaggia l’Italia per raccogliere materiale onde descrivere le campagne dei Francesi nella Penisola. Questa notizia tanto più riesce gradevole perché siamo certi che il genio del signor di Balzac avrà dal nostro cielo le più belle ispirazioni». Questo trafiletto, firmato da Defendente Sacchi, uno dei più autorevoli poligrafi del tempo, compariva in un giornale del febbraio 1837 dopo che la «Gazzetta Privilegiata» aveva dato l’annuncio ufficiale dell’arrivo del romanziere, nella rubrica degli «Ospiti illustri».

  Che la venuta di Balzac a Milano fosse accompagnata da fin curioso strepito di chiacchiere e da un diffuso sussurro di pettegolezzi è vero. Egli godeva di una certa notorietà, fu assai festeggiato, esaltato e ricevuto in molti salotti. Per lui nacque persino in quei giorni una moda «alla Balzac». Non sappiamo in che cosa consistesse una tal moda, se non forse quella di portare, come faceva lui, un bastone dalla vistosa impugnatura, o un panciotto sgargiante, o non sapremmo qual altro capo originale perché, quanto a eleganza, è noto ciò che di lui disse una sua ammiratrice, relativamente al fisico: «Aspetto da panettiere, modi da ciabattino, corpo da bottaio, camminata da venditore ambulante, abiti da bettoliere ...». Ma le esaltazioni per gli stranieri erano di moda anche nella piccola Milano d’allora, e durarono, e durano. Quando nel 1871 venne a Milano Massenet a rappresentare il suo Re di Lahore alla Scala, gli furono tributate feste ufficiali che non finivano più: banchetti con la partecipazione di sindaco e prefetto, lauri e medaglie, e vi fu chi reclamò persino il collocamento di una lapide nell’atrio del teatro. A questa proposta, però, un milanese scrisse ad un giornale proponendo che, sotto l’eventuale dicitura, fosse messo fra parentesi: «In questo stesso teatro e nello stesso anno un tal maestro Verdi rappresentò la sua opera Aida senza che nessuno gli offrisse nemmeno un bicchier d’acqua ...».

  Probabilmente, se fosse vissuto anche ai tempi della venuta di Balzac, quel milanese avrebbe appartenuto al novero non esiguo di coloro che giudicarono le espansioni pel romanziere francese assolutamente esagerate, e che finirono per aver l’ospite in uggia, giudicandolo un «vanesio fanfarone», biasimando l’eccessiva parzialità per i suoi compatrioti, la continua esaltazione apologetica di se stesso, e le sue manie. Ma a parte le eccentricità del pur grande scrittore, ciò che finì per disgustare la Milano intellettuale fu il giudizio che, non richiesto, egli espresse sui Promessi Sposi, romanzo di cui forse egli aveva letto soltanto quattro o cinque pagine. Toccare Manzoni ai milanesi era come dir male del Duomo. Perciò si comprende come nascessero sfavorevoli commenti e si scatenassero violente satire contro l’incauto ospite e come la popolarità e la simpatia declinassero rapidamente. E se questo rancore non si sfogò in modo clamoroso gli è perché Balzac se n’era già ito, ma bastò perché egli non rimettesse più piede a Milano.

  Al Manzoni egli aveva fatto visita, ma i due genii non si compresero. Il Manzoni fu parco di parole e, invitato a discorrere su vari argomenti, che a quel tempo si chiamavano filosofici, o per pigrizia mentale o per la noia che gli dette la vulcanica loquacità del francese, si accontentò di ascoltare, forse attizzando il fuoco con le molle, operazione nella quale il nostro si vantava di non aver competitori. Balzac trasse indubbiamente da quell’incontro un’idea del tutto errata, e non comprese il severo e alto ingegno del suo competitore, strana mancanza certo per uno scrittore di sì profonde possibilità intuitive. Fatto si è che, recatosi pochi giorni dopo a Venezia e invitato a pranzo dalla contessa Mocenigo-Soranzo, si espresse sul Manzoni con tal supponenza da provocare il giusto risentimento dei convitati. I quali poi, parlando e sparlando della cosa, fors’anco ne esagerarono le tinte, donde si comprende come gli stessi giornali veneziani attaccassero vivamente Balzac, non solo, ma come il Fusinato gli scrivesse indignato, e il poeta veneziano Nalin gli dedicasse una satira regalandogli l’appellativo di «lasagna». E da Venezia la notizia della piccola battaglia letteraria arrivò a Milano, con l'effetto che abbiamo denunciato.

  Balzac, accortosi dell’errore e della propria grossolanità, tentò di ripararti scrivendo alla contessa Maffei, e pregandola di trasmettere al «collega lombardo» le sue scuse. Le quali in verità giovarono poco, non tanto presso il Manzoni, che aveva sì tante ragioni per infischiarsene, ma per la società nella quale Balzac aveva sperato di lasciare vive e durature simpatie. Di questa visita e di quanto pensasse del romanziere francese la parte più sana e più intellettualmente seria del tempo, rimane un documento nel giudizio che uno studioso diede di lui: «Come scrittore incanta, in politica è biasimevole, in società è un gran farfallone».

 

 

  Pietro Pancrazi, Sottosuolo del romanzo, «Il Ponte. Rivista di politica, economia e cultura», Firenze, Anno I, Numero 7, Luglio 1945, pp. 21-24.

 

  p. 22. Tuttavia, per come oggi s’usano, spesso resta intorno a loro un certo imbroglio o equivoco; talvolta, quando sono rivolte a scrittori più ambigui o sottili o pii, un certo odore di Tartufo. Sainte-Beuve (tra i suoi Veleni) dette di Balzac questa definizione: «Balzac — le romancier qui savait le mieux la corruption de son temps, et il était même homme à y ajouter». Chi non sente che, meglio che all’ormai paterno Balzac, la definizione calza ad alcuni romanzieri moralisti d’oggi? I quali si dicono, o sono detti, moralisti, sol perché meglio degli altri essi accolgono e riflettono il male.

 

 

  [Perrella?], Presentazione dell’editore, in H. de Balzac, I Tredici … cit., Roma, Perrella, 1945, pp. VII-XVI.

 

  Narrano i biografi che la Storia dei Tredici diede a Balzac l’idea di fondare una società segreta, i cui membri avrebbero dovuto prestarsi aiuto e protezione in ogni circostanza. La società, prese nome dal restaurant dove i primi affiliati si riunirono, lo Cheval rouge.

  «C’était Théophile Gautier, Léon Gozlan, Alphonse Karr, Louis Desnoyers, Eugène Guniot, Altaroche, Merle, Granier de Cassagnac qui lui prêtèrent serment de fidélité et le nommèrent d’enthousiasme, grand maître du nouvel ordre. Le lieu de réunion changeait chaque semaine, pour ne pas attirer l’attention des garçons qui servaient les chevaux – nom cabalistique des conjurés — et leur secret ne devait pas être découvert, car il ne s’agissait rien moins que de se distribuer entre les membres du Cheval Rouge, les premiers postes de l’Etat, ministères, ambassades, les plus hautes situations des arts et de la littérature, Académie française et Institut. Les réunions secrètes cessèrent après quelque mois – il n’y avait plus de foin au ratelier – c’est-à-dire que la plupart des chevaux n’avaient pas de quoi payer leur écot».

  L’autore del passo citato ammette che tali chimere servivano a Balzac per distrarsi, e insinua, che egli forse credeva ai «mezzi occulti per dominare la società».

  Che in Balzac l’immaginazione integrasse fortemente, o addirittura deformasse il sentimento e l’intelligenza della vita, ribadiremo più tardi.

  Che Balzac credesse ai mezzi occulti per dominare la società, ci par dimostrato da tutta la sua opera, né oseremmo definire tale atteggiamento come prodotto di individuale immaginativa, quando è più facile riconoscerlo conseguenza del costume di un secolo in cui logge d’ogni specie andavano affermandosi o maturandosi in Europa.

  Piuttosto, saremmo inclini a pensare che la Storia dei Tredici sia, appunto, il tentativo di trasfigurazione di un’esperienza umana avverata o sognata come vera, e non la determinante fantastica dello Cheval Rouge. Insomma., questo (sia pure informe e anonimo) avrebbe precettato quella, nello spirito di Balzac, e non, come vuole cronologia, il contrario.

  Balzac, stretto d’assedio dalle difficoltà economiche in cui si dibatte quasi costantemente, esperto osservatore dei fenomeni sociali da cui si poteva apprendere il valore della colleganza, tra partecipi di medesimi interessi, era incline a immaginare, come nessun altro, qual beneficio potesse, trarsi da una massoneria, dell’ingegno; e, intanto, cercando di chiarire in sede artistica, il problema, dell’associazione reale, indulgeva a suoi interessi economici, riparava le falle della propria barca, andava incontro al pubblico maleducato e frastornato dalle recenti rivoluzioni, controrivoluzioni e restaurazioni, e perciò incline ad ammirare le organizzazioni misteriose e malefiche, quasi per un punto di sfiducia critica relativo alla potente insufficienza del lecito.

  Quando avremo fissato le principali ragioni pratiche per cui Balzac scrisse l’Histoire des Treize, ci appariranno più chiari i limiti artistici entro i quali la troviamo costretta, come quella che risponde a una richiesta dei lettori, si fonda sulla facile e fluttuante eticità dell’autore, e rimane polemica senza substrato morale, osservazione non trasfigurata, immaginazione e non fantasia.

  Balzac, rotti i rapporti con i vecchi editori, affidò ad altri tutta la propria opera già nota, raccogliendola sotto il titolo di Etudes de moeurs du XIX siècle. La somma di ventisettemila franchi ancor datagli contrattualmente, è così esorbitante per i tempi (si osserva che in siffatta misura erano state compensate le opere di Chateaubriand), che non può spiegarsi tanto con la fiducia che l’editore avesse nel Balzac già edito, quanto in quello inedito, che, sotto un rispetto commerciale, doveva, apparire, anche alla cieca, ottimamente integrato e integrante dell’antico. A cui, nella nuova, edizione, si aggiungono infatti come inediti: Eugénie Grandet, L’Illustre Gaudissart, Les Marana, Ferragus, La Duchesse de Langeais, Le (sic) Fille aux yeux d’or, La Recherche de l’Absolu, Le Contrat de Mariage, La Vieille Fille e la prima parte delle Illusions perdues.

  Tal mole di attività, può ragionevolmente sospettarsi promossa da intenti pratici più che da esigenze artistiche, ma il sospetto non sarebbe destinato a chiarirsi, quando si dovesse illustrare il perché, accanto al mediocre, viva anche l’ottimo, per esempio, Eugénie Grandet. Sarà, più facile dir cosa lapalissiana, e cioè che il talento di Balzac è quel che è, e si manifesta anche nelle condizioni più sfavorevoli; pur tuttavia seguendo una logica genetica a cui ci appiglieremmo con miglior risultato se dovessimo parlare di Eugénie Grandet, invece, che dei Treize.

  L’Histoire des Treize, trittico le cui parti sono rispettivamente datate, Ferragus 1833, La Duchesse de Langeais 1834, La Fille aux yeux d’or 1835, è preceduta da una prefazione che risale al 1831.

  Il contenuto di essa (scrittore, a programmi che è Balzac) è riuscito un programma, un disegno in forma di offerta, una promessa che potrebbe rivolgersi tanto al pubblico dei lettori quanto a un editore (che è poi la medesima cosa).

  In realtà, una prefazione a quel libro poteva più ragionevolmente scriversi nel 1835, ad opera compiuta, come avrebbe fatto qualsiasi altro autore, non fosse che per togliere ogni possibile discordanza tra i propositi e gli effetti. Se Balzac non ha sentito questa elementare necessita, vuol dire che qualche forte motivo agiva su di lui. Forte motivo, non potrebbe certo essere che egli, assillato dal lavoro, non avesse nè il tempo nè la voglia di rifare una prefazione già pronta; mentre è facile ammettere che egli credesse di riprendere un giorno la Storia dei Tredici, il cui meccanismo è tipico dei racconti a serie, da continuarsi, e interrompersi secondo l’estro dell’autore e l’accoglienza del pubblico.

  Non è nostro còmpito precisare il mondo artistico e morale di Balzac, ma è inevitabile riferirsi all’estrema predominanza dei suoi interessi sociali, per intendere la genesi dei Tredici. E non sembri un paradosso l’affermazione che tali interessi dovettero esplicarsi in Balzac, più di una volta, antisocialmente.

  A trentadue anni, quanti egli ne aveva all’epoca in cui disegnò i Tredici e dettò la Prefazione,è più facile affermare che la società non è bene organizzata, che suggerire quanto par necessario a organizzarla meglio. D’altronde, nemmeno più tardi Balzac, pur con tutti i suoi riconosciutissimi intenti politici e filosofici, par che abbia arrecato all’umanità il lucido contributo di una critica sociale.

  «... chi ha veramente intelletto e capacità, originale di osservatore e di filosofo non si accomoda a comporre favole ed apologhi, a cincischiare d’immaginazioni il suo pensiero, e impugna sùbito 7a buona spada della prosa scientifica, storica e polemica». Così il Croce, proprio a proposito di Balzac: parole che, nell’intenzione del loro autore e nell’impiego medesimo che noi ne facciamo non vogliono diminuire la grandezza di Balzac, ma ricondurla nel, mio campo piò, appropriato, che è quello dell’arte.

  Dunque, accertata con giovanile baldanza l’insufficienza della società, né sapendo come fondarne una migliore, Balzac trentaduenne si accontenta di immaginare una associazione antisociale, o, per meglio dire, una società ristretta: la société de Jésus au profit du diable.

  Nella Prefazione, si riconosce il dispetto e l’insofferenza che l’ingegno, l’astuzia, la bravura, la lealtà, la fedeltà, l’amicizia, la virtù, insomma, – anche se in senso un po’ machiavellico – non trovino nella vita normale un sufficiente campo d’azione o l’estrinsecazione più valida; nella prefazione è una macchinazione e tenebrosa promessa di simpatia per i reprobi che sieno buoni tra di loro, per l’anticristo che conceda almeno ai suoi dodici un regno terreno meno fallito di quello del Cristo. Ma Ferragus, artisticamente, resta al di qua delle intenzioni dell’autore, e i suoi dodici apostoli invano si agitano nella tenebra morale parigina, senza splendere mai di propria luce, senza spiccare nemmeno come più tenebrosi sullo sfondo buio, senza conquistarsi un diritto di vita mnemonica, né la visività pulita che è, infine, il solo modo di riconoscere una nascita legittima, in arte.

  Ci sovviene l’accusa crociana che Balzac non abbia fantasia, e l’accettiamo anche se estesa a tutta l’opera balzachiana; ma per accettare il credito di immaginazione concesso dal Croce allo scrittore francese, dobbiamo rivolgerci ad altri scritti che non siano la Storia dei Tredici, perché in essa non troveremmo giustificata nemmeno la comparazione del Sainte-Beuve, tra Balzac e Dumas padre o Eugenio Sue. Amara comparazione, in certo senso, per gli estimatori di Balzac, ma fin troppo benevola, in certo altro senso, se dovessimo applicarla ai Tredici e a tutto il Balzac minore, perché almeno a Dumas vorremmo concedere il riconoscimento di più candidi meriti, sì deteriori, in assoluto, ma conseguenti, logici, fusi, come di autore che vive esclusivamente d’immaginazione, e che offre con essa una fonte di innocenti piaceri, mai turbata da inquinamenti eterogenei.

  Infine, non ci par lode tutta convincente quella del Brunetière, che chiama in causa Dostoievskij e Tolstoi, asserendo che questi grandi romanzieri non abbiano mai sorpassato Balzac. Infatti, secondo noi, anch’essi, rappresentanti di una seduzione, di un’arte, di un pensiero, di un impegno altrettanto limacciosi, rimasero non meno distanti di Balzac da quella bellezza purificata e proporzionata, dalla Bellezza infine, intuita da secoli a poi scoperta, si può credere, definitivamente, come meta ultima dell’arte.

  Eppure, la pubblicazione dei Tredici ci è parsa opportuna, e la nuova lettura di essi non meno interessante, se non più proficua, di tutto il resto dell’opera balzachiana. Per esempio, in Eugénie Grandet, il concerto delle parti è riuscito, la saldatura operata dallo stato di grazia di Balzac, sì che il lettore è messo nella condizione di accettare il meglio, lasciando volentieri che la ricchezza del drappeggio copra il peggio, e non è indotto ad approfondire. Invece, a intendere la vera origine del buono e del cattivo Balzac, i suoi limiti, sia pur vastissimi, e la sua debolezza, non meno importante della sua forza, i Tredici ci aiutano inestimabilmente.

  Il Croce ha felicemente corretto una stortura critica, secondo cui in Balzac i caratteri sarebbero eccellenti, l’azione meno buona e lo stile vizioso: «quelle tre cose ne fanno una sola, l’una non può andare esente dal difetto delle altre, e i difetti di tutte debbono essere riportati a una comune origine». Ciò, in sede di «teoria esatta». Ma è facile intendere come la critica sia giunta all’inesatto, se, appunto, si prenda in esame il Balzac minore.

  Le verbose presentazioni di certi personaggi, parvero a Balzac (e paiono ai suoi zelatori) pitture di caratteri: il che non è, perché il carattere emerge dall’azione, e, in certo senso, non può nemmeno precederla descrittivamente; la logica, determinante detrazione può essere sottintesa, ma non può mai sostituire la rappresentazione di essa; e lo stile non è altro che la risultante della perfetta rispondenza tra logica determinante e azione rappresentata, che è quanto dire, tra l’autore e la sua opera, fusi in una partecipazione, reciproca. Ove il mondo costruito esorbiti per eccesso o non riempia, per difetto la personalità del costruttore, il risultato non sarà opera d’arte; cosicché si avranno opere mancate per difetto d’impegno o per eccesso di materia indigesta. È il punto del discorso in cui potremmo rientrare nell’estetica crociana, avvertendo che la sovrabbondanza dell’immaginazione non è meno deprecabile della mancanza di essa, ove si accetti che il momento della fantasia realizzata è lo stato di equilibrio, il solo porto dell’essere di un artista, dove confluiranno per virtù d’istinto tutti gli elementi costitutivi della personalità di lui, e tutti puntualmente, nessuno escluso.

  In Balzac, invece, predominano, come ben si sa, alcune componenti a scapito di altre. Ciò che fu detto erroneamente spirito di osservazione o, addirittura, studio scientifico del vero, non è in lui altro che impotenza, a dominare la parte a vantaggio del tutto, e incapacità di sintesi. Egli si disperde con la facilità degli scrittori ricchi e articolati, generosi e polifonici, ma vittime di questa molteplicità di interessi.

  Il pensiero balzachiano, come non partecipe di filosofica sistematicità né inserito in armonico impiego d’arte indebolisce se stesso, e dilunga il segno da sè, non riuscendo insomma che raramente a quella meta di suprema bellezza di cui sopra discorrevamo.

  Balzac, per esempio, quando percorre con un suo personaggio una strada, indulge a una descrizione di essa, che non risponde a esigenze narrative né riesce sempre utile a completare psicologicamente il personaggio. Balzac cede al suo cosiddetto genio dell’osservazione, e si impegna, in un pezzo, talvolta splendido di luce propria, ma opaco e opacante nel tutto; e frena e strania l’attenzione del lettore, riprendendosela sì spesso, ma per tutt’altre ragioni che non quelle primamente valide.

  Una finestra, un vestimento, un salotto, un arredo, uno stato d’animo, un’invenzione qualsiasi non sono quasi mai inseriti nel racconto con perfetta, subordinazione alle esigenze di esso; se è vero com’è vero, che spesso tali pagine hanno virtù antologica, hanno anche sempre vizio costruttivo, per cui diremmo quasi che vivono meglio a se stanti, e, espunte dal contesto, lo lasciano più vigoroso, agile e conseguente.

  Di tali pagine, i Tredici sono ricchissimi. Le chiameremo divagazioni; meglio, con un neologismo etimologico introdotto da un filologo italiano, stravaganze; e pensiamo che, se un editore accettasse mai l’idea di raccogliere in antologia siffatte pagine balzachiane, in quell’antologia i Tredici figurerebbero copiosamente, non meno di altre opere giudicate assai più perfette.

  Non ci sembra di poter addurre argomento più persuasivo, sia per dimostrare l’opportunità di una nuova presentazione e traduzione dei Tredici sia per documentare i nostri frettolosi appunti critici sull’opera di Balzac.

  Risultato di tutto ciò è una specie di disarmonico barocco, anche quando si manifesta informa assolutamente romantica come in Ferragus e nella Duchessa de Langeais; disarmonia che risulta meno evidente (pur essendo ugualmente vera) nella Fille aux yeux d’or, e in ogni caso in cui Balzac, invece che al sentimentalismo, indulga a qualcosa di più vibrato, truculento, vizioso e sensuale, che ce lo fa ravvicinare, non già ai Dumas o ai Tolstoi, chiamati arbitrariamente in causa, ma ai d’Annunzio e a tutta la sua moda, per amor della quale soltanto ci par possibile che un Brunetière sentenzi che Balzac è «le roman même».

  Ma, anche quando si sperde in un dedalo di strade, Balzac trova sempre la sua, quella a cui è condotto dall’irresistibile inclinazione; e in essa ricompare dominatore, ispirato, ricco perfino di lirismo, che, se pur contenuto in breve respiro, lo innalza tuttavia, tra i grandissimi, e lo eterna nelle sue più vere qualità.

  Pagine, insomma, non libri. Elzeviri e saggi di gran seduzione, da cui sarebbe facile dimostrare quanta e quanto inferiore letteratura, si sia sviluppata più tardi.

  Infine, accettata la contestazione di Baudelaire, che Balzac non sia un osservatore, ma un «visionnaire passionné», l’osservazione del medesimo, che i personaggi balzachiani sono tutti Balzac, tanto che «chacun, chez Balzac, même les portières, a du génie», rimeditata la pagina crociana in cui si dice che il difetto delle creazioni balzachiane sta nel capriccio del loro autore, donde viene che «i caratteri dei suoi personaggi girino rapidamente e crescano vertiginosamente sopra sé medesimi, diventando via via sempre più folli di se stessi, e talora, nel vertice a cui pervengono, si convertano nell’opposto di ciò che erano ... etc. etc.», torniamo a riconoscere la disequalità balzachiana frutto, appunto, del giustapporsi infrenato, della stratificazione e della proliferazione perpetua di pensieri su pensieri, visioni su visioni, necessariamente tendenti allo squisito, all’eccezionale, all’abnorme, senza che ci riesca sempre di stabilire a qual punto della calefazione la materia balzachiana abbia raggiunto il giusto grado, per cui certamente è passata.

  Madame Jules e Monsieur de Malincour, in Ferragus; Armando e Antonietta, nella Duchesse; de Marsay e La fille aux yeux d’or, nel terzo racconto, sono eroi in cui la virtù è, in certo modo, viziosa, il vizio virtuoso o eroico; e, nudi, disvelati, crudamente scoperti, discettanti tutti con identica dialettica, e tutti privi di penombre, non fanno corpo, non partecipano di quei divini sottintesi o di quelle umane pregnanze, che, per esempio, non solo valgono ma non potrebbero essere sostituite da pagine e pagine, nella storia della monaca di Monza del Manzoni, nell’Educazione sentimentale o nella Bovary di Flaubert.

  La illuminante contrapposizione del grande italiano con il grande francese conclude il saggio del Croce, in cui troviamo la notizia preziosa: «che sui Promessi Sposi il Balzac pronunziò in una conversazione a Milano» poco favorevole giudizio. Notizia che può interessare, oltre che l’aneddotica, anche la critica, ove si ponga mente alle vere ragioni per le quali due autori dotati di ingegno supremo, e sospinti quasi da medesimi interessi, siano pervenuti a mete così distanti, che ci appaiono situate agli antipodi.

  La lettura diretta della Storia dei Tredici chiarirà, meglio delle nostre parole l’affermazione che la grandezza di Balzac non sta nella meta da lui perseguita, quanto nei risultati colti, per sua inevitabile inclinazione, strada facendo.

 

 

  Francesco Picco, Introduzione, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet ... cit., pp. III-XV.

 

I. - La vita.

 

  Onorato de Balzac, nato a Tours, «rue de l’Armée d’Italie»», ora via Nazionale, il 20 maggio del 1799, da Bernardo, originario della Linguadoca, e da Laura Sallambier parigina, riunisce in sè le tendenze caratteristiche delle regioni donde provengono i suoi genitori. Dotato di animo esuberante, d’ingegno vivacissimo e pronto, ha fantasia straordinariamente eccitabile che lo porterà a concepire vasti disegni, a inseguire le più folli chimere. I biografi lo raffigurano fanciullo «gros, rouge, joufflu, couvert d’engelures», scolaro negligente, collegiale irrequieto, incompreso dai suoi, i quali poco lo curano e in seguito lo avviano alle leggi per cavarne un notaio; dodicenne appena, egli compone un Traité de la volonté, si abbandona a letture appassionate fino a guastarsi la salute; indi si volge risolutamente alle lettere. Una delle due sorelle, Laura, sua fedele alleata, ne frena gli impulsi, lo inspira, talvolta collabora con lui e, da ultimo, ne tesse la biografia.

  Per esperimentare le proprie forze nei cimenti letterari, ottiene di vivere libero di sè, fornito d’un modesto assegno, a Parigi; e nella soffitta ove lavora con entusiasmo e con gioia a opere narrative e drammatiche, avendo la convinzione assoluta di essere designato a un grande avvenire, conduce a termine nel ‘21 la tragedia Cromwell, persuaso d’aver prodotto un capolavoro. La sentenza nettamente sfavorevole di quanti, parenti e amici, ne ascoltano la lettura, non lo abbatte; chiede una proroga al suo soggiorno alla capitale, rinnova con tenacia i suoi tentativi e dà fuori. in quattro o cinque anni, giovandosi della collaborazione di altri per produrre più in fretta, una grande quantità di romanzi (basterà citare il primo, l’Héritière de Birague, 1822), i quali, benché di scarso valore ed editi con pseudonimi, hanno larga diffusione. Nonostante il ricavo della sua penna, spesso a corto di quattrini, escogita mezzi singolari per guadagnarne: dal 1825 al 1828 s’improvvisa editore, tipografo, fonditore di caratteri e, pur difettando di qualità amministrative, s’ingolfa in imprese industriali che soltanto il generoso intervento della madre e di conoscenti salvano dal fallimento e che gli lasciano un lungo strascico di debiti non mai totalmente estinti. Più e più volte par ch’egli si accasci deluso e amareggiato: e tuttavia non sa distogliersi dai suoi sogni alquanto ingenui (nel ‘38 torna a mani vuote dalla Sardegna dove s’era recato a rimettere in efficienza vecchie miniere d’argento dell’epoca romana) che tanto contrastano con le scaltrezze messe in atto dai suoi personaggi per far milioni a palate; e cerca in altro campo, in quello a lui più consono, la sua strada.

  In seguito, tornato a Parigi da un soggiorno di raccoglimento e di riposo trascorso in Bretagna, con un romanzo Les Chouans, che reca finalmente in fronte il suo nome, e in cui ritrae l’insurrezione della Vandea, nonché con un’opera audace, che suscita scandalo, La physiologie du mariage, consegue fama e fortuna.

  Così, dopo una lenta formazione spirituale e una lunga preparazione tecnica, a trent’anni sonati, il Balzac acquista piena coscienza di sé e libera al grande volo il suo genio; a partire da questa data i romanzi che pubblica a getto continuo, a tre, a quattro, a cinque all’anno, non si contano più. Sempre in lotta con una masnada di creditori, spendendo a profusione i lauti proventi per adornarsi di eleganze lussuose, o nell’illusione ... di far economia, come quando comperò una casetta non lungi da Parigi, «aux Jardies», che presto dovette rivendere con perdita; sempre in preda a febbrile travaglio creativo, condanna se stesso a lavori forzati di tavolino scrivendo talvolta interi volumi in poche settimane (La Cousine Bette, nel ‘46, in sei) o in pochi giorni (César Birotteau, nel ‘37, in quindici; Honorine, nel ‘43, in tre) o in poche ore (La Vieille fille. nel ‘36, in tre notti) sorretto in questa estenuante fatica che non conosce soste da eccitanti deleteri, e particolarmente da una vocazione sincera e da una volontà eroica, da una vigoria intellettuale e fisica del tutto eccezionale. Piccolo, tozzo, ma forte come un atleta; non bello, ma illuminato in volto da due occhi folgoranti («ils avaient» dice Théophile Gautier, «une vie, une lumière, un magnétisme inconcevable») rivela nei lineamenti esterni il suo temperamento morale. Uomo positivo, in certi tratti grossolano fino a rasentare la volgarità, non ha saldi ideali, nè in religione di cui si vanta paladino nei suoi scritti, nè in politica in cui professa fede monarchica; e non viene favorito dalla fortuna sia allorché, candidato per due volte alla deputazione, non raccoglie che pochi voti, sia allorquando aspira, invano, a ottenere un seggio all’Accademia Francese. Giornalista, critico, fonda riviste dalla vita effimera (nel 1840 la Revue parisienne, durata tre mesi, redatta da lui solo, con saggi notevoli sul Sainte-Beuve, sullo Stendhal, su V. Hugo); polemista ardente, in lotta spesso con direttori di periodici, con editori, trascinato in processi ai quali interviene di persona con autodifese iperboliche, analoghe a quelle d’un altro spirito focoso par suo, il Beaumarchais, trova tempo di viaggiare da un capo all’altro della Francia, sostando a lungo in questa o in quella provincia, e di far soggiorni all’estero, in Isvizzera, in Austria, in Russia, in Italia, meritando teatri e salotti, stringendo rapporti con donne insigni e uomini illustri, col Manzoni, col Tommaseo. A Parigi, in certo suo periodo mondano, durante il quale sfoggia cavalli e carrozze, e frequenta società letterarie e aristocratiche, s’incontra, nel salotto di Mme de Girardin, con i granii poeti romantici, con il Lamartine, l’Hugo, il de Musset, ai quali, come al Gautier e a George Sani, dedica alcuno dei suoi romanzi. Vanitoso, loquace, col suo rider franco e gioviale, con la sua famosa canna dal pomo tempestato di pietre preziose, con gli abiti, coi mobili fastosi, con gli oggetti d’arte, attira su di sè gli sguardi di tutti, dà origine alla moda «à la Balzac» e a più d’una leggenda, scambiato spesso co’ suoi personaggi, dei quali gli si attribuiscono stravaganze e difetti, è preso di mira dai caricaturisti, in ispecie dal Gavarni, ed è circondato da una popolarità che valica le frontiere.

  Tre donne, in diverso modo amate, gli ricambiano affetto e gli spianano il cammino della sua agitata esistenza non a torto definita romanzo: la già rammentata sorella Laura, andata sposa al signor de Surville; un’altra Laura, madre di numerosa prole e assai più anziana di lui, la signora de Berny, la sua vera, grande passione, la «dilecta», che ne dirige il lavoro letterario, lo persuade, dopo l’infelice Cromwell, a dedicarsi alla prosa narrativa, e che egli, alla di lei morte (1836), piange con lagrime amare; infine, la ricca polacca, moglie d’un russo, principessa Hanska, «l’Étrangère», com’egli la denomina, con la quale intrattiene una lunga corrispondenza e che poi incontra a Vienna, a Pietroburgo, e segue in alcune città italiane. Dopo più di tre lustri di questo strano idillio che si svolge da lontano con radi incontri, essendo ella rimasta vedova, egli riesce, non senza contrasti e rinvii, a vincerne le riluttanze: ormai malato di cuore, va in Russia, la sposa e la conduce a Parigi, quattro mesi prima che la morte lo colga, cinquantunenne, il 18 agosto 1850, proprio quando gli arridono le mete da lui tanto agognate: dell’amore, dell’opulenza, della gloria.

 

II. – Le opere.

 

  Astrazion fatta dalla congerie dei romanzi di cui s’è detto, messi insieme a scopo di lucro, e che tuttavia valsero ad addestrargli la mano all’opera futura, questa è dal Balzac composta nello spazio di vent’anni (1829-‘48), con un centinaio di volumi (esattamente 97) ed è raccolta sotto il titolo unico di La Comédie Humaine, suggeritogli da un amico e plasmato su quello della Divina Commedia.

  Sotto forma d’una vasta, immensa commedia che abbracci in migliaia di scene l’umanità intera, sono così adunati nella grande edizione illustrata, curata dall’autore (1842-46) due serie di «studi», com’egli ama qualificare i suoi romanzi: Études de moeurs au XIX s. ed Études philosophiques; ai quali, nell’edizione definitiva, uscita postuma (1869-70), se n’aggiunge una terza di Études analytiques.

  La prima serie, che con la terza costituisce più propriamente «l’histoire en action de la società française», si suddivide, a sua volta, in sei sezioni: in «scènes de la vie privée, de la vie de province, de la vie parisienne, de la vie militaire, de la vie politique, de la vie de campagne»; la seconda, apparsa in un primo tempo con la denominazione di Contes et romans philosophiques, comprende ciò che non è entrato a far parte delle «scènes» sopra indicate. Senonché, per quanto questo ordinamento tradisca il proposito ambizioso dell’autore di formare, con le diverse sezioni della sua opera, un insieme armonico e di conferirgli «la vivante unité de l’oeuvre d’art», è duopo riconoscere che la varia, e talvolta incondita materia, manca di intima coesione. Esso non fu, infatti, concepito fin dall’inizio con criterio organico, ma è venuto attuandosi solo nel ‘41 a lavoro inoltrato, non senza incoerenze e sproporzioni fra le partii con modifiche successive, a volte anche arbitrarie, che il Balzac, con ragioni poco plausibili, si sforza di giustificare nelle varie prefazioni. Il disegno, circoscritto da prima alla società francese provinciale e parigina d’allora, durante l’esecuzione si dilatò nel tempo e nello spazio risalendo dalla stona contemporanea moderna a quella del medioevo, sconfinando dalle classi sociali della Francia a quelle di altre nazioni (Les Proscrits ci riportano, con Dante e la Sorbonne, al sec. XIV; in Massimilla Doni viene esaltato il genio italiano).

  Dalla costituzione in tal forma dell’opera risultano evidenti le due maggiori aspirazioni del Balzac. Egli si propose, anzitutto, di redigere in prosa artistica la storia universale del costume umano, esemplificato prevalentemente su quello francese; e, in secondo luogo, di attribuire a codesta sua storia, in veste di romanzo, un valore etico, frutto d’una personale, concezione filosofica, a dir vero più artificiosa e fragile che non profondamente pensata e costruita a sistema. L’impresa, quant’altra mai ardua, — benché rimasta forzatamente incompiuta, non potendo bastare la vita d’un uomo a portarla a termine — per il solo fatto d’averla egli vagheggiata e condotta a buon punto, ha recinto il Balzac d’una perenne aureola di gloria. Dozzine e dozzine di romanzi, editi e riediti più volte, anche con titoli mutati, quasi sempre ampliati e in parte rifatti con tormentosa elaborazione sulle bozze; un certo numero di essi appena avviati, o lasciati a mezzo, rimaneggiati, e terminati poi, morto l’autore, da altra mano; tutta una lista di cui si possiede il solo titolo, progettati e non scritti, comprovano che la mole dell’opera era andata via via ingigantendo nella mente vulcanica del romanziere. Il quale, emulo di Napoleone, infatuatosi del sogno di «achever par la plume ce qu’il a commencé par l’épée», venne elevando, con l’ansia febbrile di chi crea, il grande monumento della Comédie Humaine: questa, secondo la sua immagine, si erge come la «Madeleine» a guisa di superba cattedrale a cui fa da ornamento «l’immense arabesque» dei Contes drolatiques, da lui scritti in vari periodi, per capriccio d’artista, a ristoro intellettuale e a svago della sua diuturna attività narrativa. Questa triplice decina di racconti d’un realismo crudo, di sapore e di stile, rabelaisiani, gettati nello stampo dei «fabliaux» medievali, fa, ben intende, gruppo a sè; essi sono del tutto diversi ed estranei alla sua opera fondamentale, ispirata essenzialmente alla vita moderna.

  Inoltre, il Balzac, avido di ricchezze e di trionfi, fu ripetutamente ripreso dalla sua passione giovanile per il teatro. E a questo tornò, dal ’39 al ’43, con l’École des Ménages, rifiutata dai capocomici, e con Vautrin, Les Ressources de Quinola, Paméla Giraud, che, cadute clamorosamente, confermarono in pubblico l’insuccesso toccatogli in privato col Cromwell. Solamente nel ‘48 gli riuscì di ottenere buon esito con la Marâtre, mentre Mercadet le faiseur, il suo miglior lavoro, non ebbe che dopo la di lui morte gli onori della ribalta e gli applausi del pubblico. Ciò, strano a dirsi, ad onta dell’innegabile drammaticità di certi suoi soggetti e del potente influsso da lui esercitato sul teatro contemporaneo e posteriore dell’Augier, del Barrière, del Dumas figlio, e di quanti, sulle sue orme, diedero nelle loro composizioni, più che non si solesse antecedentemente, forte rilievo alla rappresentazione veritiera della realtà.

  Certo è che, dotato delle qualità specifiche del grande scrittore, assai meglio che negli scorci e nei dialoghi della scena, e che nel taglio sobrio del racconto e della novella, il Balzac eccelle nella narrazione dal largo respiro, nel romanzo vero e proprio, a cui imprime un accento del tutto originale e moderno. La sua osservazione è rapida, penetrante; la sua intuizione pronta e perspicace: egli scopre e disvela l’anima delle cose e degli uomini. La sua mente, non ingombra di troppe reminiscenze culturali, lascia libero corso alla fantasia: questa amplifica e completa i fatti, e, intorno ad uno spunto anche minimo, colto dal vero, costruisce l’intrico e ne ricava, con logica materialistica, le inesorabili conseguenze. Il suo stile non ha ricercatezze letterarie; la sua lingua, a volte negletta nella foga e nella fretta del comporre, ma sempre gagliarda, è quella dei suoi personaggi e del ceto a cui essi appartengono. La sua arte, che al fervore d’una immaginazione romantica associa la precisa notazione realistica, inserendosi con quest’ultima nell’antica tradizione francese che dal Molière risale al Rabelais e che per la documentazione storica ha punti di contatto con Walter Scott e col Richardson, manca talora di misura, eccede nella minuta analisi descrittiva con sovrabbondanza di particolari non essenziali, ha esordi prolissi, epiloghi bruschi; sa rendere, però, con sincerità e calore, la vita intensa delle sue creature, tradurre la passione, che agita, sconvolge i loro cuori. Osservatore della realtà, non rifiuta argomento alcuno offertogli dalla vita, colloca tutti i soggetti, belli e brutti, obbiettivamente, allo stesso livello; mira, senza preoccuparsi di scrupoli morali, al suo unico scopo che è quello della rappresentazione imparziale di ciò che vede.

  Il suo animo non conosce il dubbio del filosofo, nè i turbamenti del credente; il pensiero della morte, le angoscie dell’al di là non fan breccia nel suo spirito. L’amore che per solito dipinge, è quello fisiologico; nel trattar di sentimenti elevati difetta quasi sempre, di delicatezza, di garbo. La «question d’argent», alla quale nella società a lui contemporanea vien data capitale importanza e che fu il tarlo roditore della sua stessa esistenza, tiene gran posto nella maggior parte dei suoi romanzi, ne determina gli sviluppi, ne provoca le catastrofi. Fra i molti tipi che artisticamente ricrea, non prevalgono quelli eccezionali, ma quelli comuni; dà la preferenza non alle classi umili, o alle aristocratiche, bensì, perché meglio la conosce, alla borghesia media e mediocre. Della provincia, rimasta pressoché ignota ai suoi predecessori e che egli per contro mette in primo piano (senza pur lasciar in ombra i foschi retroscena della vita parigina), tutto descrive: la regione, con esatta collocazione geografica, i borghi, le strade, le case, gli interni, gli abitanti, le professioni, i mestieri, le usanze, le forme più varie della vita, le vicende storiche, le industrie, i commerci. Meno s’interessa degli aspetti naturali, o solo quanto basti per studiarne le rispondenze con l’indole delle popolazioni, preoccupato altresì di conoscere l’«humus» sociale in cui cresce e vigoreggia una determinata «pianta-uomo». Dal «milieu» come dai fatti, dai gesti, da un’infinità di elementi esteriori, deduce l’essenza intima, la psicologia delle persone. E poiché egli concepisce le varie «espèces sociales» come altrettante «espèces zoologiques», non isola il suo protagonista dal nucleo familiare, né la famiglia dalla società di cui è parte, ma considera, come farà poi lo Zola, ogni piccolo mondo come un modello del mondo sociale più grande. Ne deriva che anche i suoi romanzi si concatenano fra di loro e sono, nel loro insieme, il riflesso della vasta umana commedia.

  Su questo immenso scenario fantastico lo scrittore, che a buon diritto si vanta di aver fatto «concurrence à l’état civil», fa agire una folla di personaggi, i quali, alla resa dei conti, superano le parecchie centinaia; fra di essi fa capolino egli stesso in Louis Lambert. Dalla interminabile galleria di figure maggiori e minori, che sfilano sotto ai nostri occhi, molte delle quali ritornano di romanzo in romanzo, con gli stessi nomi e con i medesimi caratteri, emergono tipi spiccatamente rappresentativi: «père» Grandet, dell’avarizia; «père» Goriot, del cieco amor paterno; Vautrin, del genio del male; Hulot, della lussuria; Eugénie Grandet, della virtù immacolata e del fedele amore, ecc. E accanto a essi, Gobseck, l’usuraio; l’«illustre» Gaudissart, il commesso viaggiatore; Rastignac, l’ambizioso dominatore di Parigi; César Birotteau, il commerciante probo; Cousin Pons, il collezionista di oggetti artistici; Philippe Brideau, il depredatore rapace; Balthasar Claës, l’inventore; e altri, altri ancora, rimangono indelebili nella nostra memoria con le loro qualità buone o cattive, con le loro manie bizzarre, con le loro particolari fisonomie, e si confondono con le persone, reali, amate od odiate, da noi conosciute direttamente nella società.

  Dei molti romanzi inclusi nella Comédie Humaine, non pochi, col mutar del gusto, sono caduti in oblio. Un buon numero, tuttavia, è vivo d’una vitalità che sfida il tempo. Sono segnalabili, e ancora cercati, con maggiore o minor favore, Gobseck (1830), La Peau de chagrin (1831), La Femme de trente ans (1831-42); Le Colonel Chabert; Le Curé de Tours; Louis Lambert (1832); Le Médecin de campagne; Eugénie Grandet (1833); La Recherche de l’Absolu; Le Père Goriot (1834); Le Lys dans la vallée (1836); Les Illusions perdues; César Birotteau (1837-43); Le Curé de village (1839); Ursule Mirouet; Une ténébreuse affaire (1841); La Cousine Bette (1846); Le Cousin Pons (1847), ecc.; quelli cioè che, qual più qual meno, ebbero voga al tempo loro, e che, o per il loro valore intrinseco, o per il profondo sentimento che li inspira, fan parte del patrimonio culturale della nazione.

  Merita un cenno speciale un romanzo, composto dal Balzac ne suoi ultimi anni, L’Envers de l’histoire contemporaine, in cui egli ci mostra il rovescio della medaglia, la faccia bella di essa. Donde risulta che nella vita sociale non vi sono soltanto quei difetti e quei vizi, dei quali l’opera sua vuol essere specchio impassibile e sincero, ma dietro di essi esistono virtù ignorate, tesori spirituali nascosti, anime benefiche che si associano in opere di carità a conforto dell’umanità sofferente.

  La Comédie Humaine, unica nel suo genere, commedia più di costume che di carattere, alla quale si affianca, preziosa testimonianza quotidiana, la fittissima Correspondance, ha avuto in Francia e fuori di Francia un’influenza enorme sugli sviluppi del romanzo realista di cui il Balzac è universalmente riconosciuto creatore. Essa ha spianato la via ai grandi scrittori francesi d’opere narrative del suo secolo, al Flaubert, al Maupassant, allo Zola, al Bourget.

 

III. – Eugénie Grandet.

 

  È il dramma dell’avarizia. È il romanzo in cui si ritrovano, come in compendio, le doti caratteristiche di questo scrittore e, in minor grado che altrove, le sue trascuratezze stilistiche, le sue digressioni stucchevoli, le sue prolissità descrittive. Dalla prima all’ultima pagina la narrazione si snoda con logica serrata, con una serie di vicende vere o verosimili che nulla hanno in sè di straordinario: fuor del normale è, invece, l’attività tenebrosa di «pére» Grandet, che, con consumata perizia, e con diabolica scaltrezza, accumula incommensurabili ricchezze.

  Dei sei capitoli, alcuni dei quali brevi, quattro servono alla descrizione minuziosa della città di Saumur, della strada, della casa dell’avaro, e alla presentazione dei personaggi. Facciamo così la conoscenza del padre, che tutto e tutti piega alle sue voglie, sfrutta virtù e difetti, interessi e passioni dei congiunti e dei conterranei, è causa della morte prematura della moglie e delle sventure della figlia, è insensibile al male che cagiona; della madre, donna buona e pia, votata a tutte le rinuncie e rasserenata da speranze ultraterrene; della figlia, ingenua fanciulla provinciale, che s’innamora del cugino Carlo, elegante zerbinotto parigino, costretto dal dissesto e dal suicidio paterno a cercar fortuna alle Indie; della «grande Nanon», la serva affezionata alla famiglia, la schiava devota del dispotico padrone, la complice involontaria dei suoi loschi maneggi; dei singoli membri delle due casate fra le quali si è accesa una subdola gara a vantaggio dell’aspirante, favorito da ognuna di esse, alla mano della doviziosa ereditiera. I due capitoli finali corrono a precipizio alla conclusione, e ci fanno assistere allo sfiorire del sogno di Eugenia, tradita da Carlo, che, tornato ricco a Parigi, contrae un matrimonio aristocratico per aprirsi, con l’acquisto d’un titolo nobiliare, la via alle alte cariche —; alle nozze della derelitta che, serbando pur sempre in cuore un affetto inestinguibile verso il cugino indegno, con vendetta generosa ne paga i debiti e concede la sua mano a uno dei suoi pretendenti, al quale però altro non promette che un’onesta amicizia. Rimasta presto vedova, sola, accetta con cristiana rassegnazione la sua sorte, e vive esule dal mondo nella casa avita, devolvendo a opere di bene gran parte delle sostanze del padre, di cui, per istinto atavico e per consuetudine di vita, mantiene, immutate la rigida economia e la frugale parsimonia.

  Fra tante nefandezze, in mezzo allo spettacolo del più cinico egoismo, spiccano le due creature femminili in tormento, che, negli intimi colloqui in cui effondono dai loro animi mesti sentimenti, sono tratteggiate, dal Balzac con insolita levità di tocco. Anche l’avaro, vittima cieca della sua mania, viene ritratto con umana verità psicologica: anch’egli, ad onta di tutto, è «un peu père». Inflitta la clausura in camera ad Eugenia, colpevole d’aver consegnato il suo oro al cugino, Grandet non sa frenare il suo desiderio di rivedere la figlia, che a modo suo ama, e si nasconde dietro il tronco d’un gran noce per spiarne le sembianze, mentr’ella, alla finestra, pettina i suoi lunghi capelli ...

  Artisticamente di gran lunga superiore alle classiche figure, alquanto unilaterali, tramandateci dall’Aulularia di Plauto e dall’Avare del Molière, questa, complessa e completa, dell’avaro moderno, si staglia formidabile sullo sfondo del romanzo, che tuttavia non da lui s’intitola, ma dalla figlia. Denuncia spietata d’un vizio abietto, storia accorata d’un amore infelice, Eugénie Grandet, sgorgatagli dalla penna nel primo periodo della sua attività letteraria, è una delle opere più insigni del Balzac: fa parte, nella Comédie Humaine, delle Scènes de la vie de province ed è anzi il tipo del romanzo provinciale, degnamente considerato come un autentico capolavoro.

 

IV. – Notizia bibliografica.

 

  Le opere del Balzac, stampate in edizione definitiva nel 1869-70 in 24 volumi con la Correspondance, a cui si aggiunsero nel 1890-906 le Lettres à l’Étrangère in 2 volumi, vennero ristampate, complete, in 40 volumi, nel 1912 e sgg., da Marcel Bouteron et Henri Longnon.

  Laure de Surville (Balzac) nel 1858 pubblicò Balzac, sa Vie et ses Oeuvres. — Ne considerarono criticamente l’opera il Sainte-Beuve (1850). il Taine (1865), ecc.; Spoelberch de Lovenjoul ha tessuto la Histoire des Oeuvres de B. (3a ediz., 1888) e Cerfbeer et Jules Cristophe hanno composto il Répertoire de la Comédie Humaine con Introduction di P Bourget (1893).

  Scrissero più recentemente sull’autore o sull’opera: Edmond Biré (1897): André Le Breton (1903); F. Brunetière (1906); E. Faguet (1913); Gabriel Hanotaux et Georges Vicaire (1922); André Bellesort (1925) ecc. – Particolarmente notevole per i rapporti con l’Italia, il saggio di Maria Pisani, L’Italia nella «Commedia Umana» (1927).

 

 

  [Marco] Ramperti, Errata corrige, «Stampa Sera», Torino, Anno 79, Num. 78, 31 Marzo-1 Aprile 1945, p. 1.

 

  Tutti gli scrittori e tutte le scrittrici di questo mondo — lo abbiamo già notato un’altra volta — trattano la botanica con molta, forse con troppa disinvoltura. Rolle parlava di «camelie profumate», Balzac vedeva delle azalee «arrampicarsi sui muri»; e quanto a Jules Janin, non esitava a far indossare da un dandy, in una sua esaltata narrazione, una maraina fregiata da un garofano verde!

 

 

  Giuseppe Rigotti, Ricordi milanesi. La pipa a scarpetta, «Stampa Sera», Torino, Anno 79, Num. 83, 6-7 Aprile 1945, p. 2.

 

  Febbraio 1837. Eusebio, il garzone del parrucchiere della Scala, uscì, tutto acceso in volto, dalla camera numero 19 dell’Albergo Venezia. Il suo padrone, dato che il teatro era a due passi, serviva anche la clientela del «Venezia». Eusebio era furente. Che barba dura e che mento tutto pieno di bitorzoli! No, davvero, non gli era mai capitato di radere una barba simile! Ci aveva sudata una camicia e rimesso l’affilatura di due rasoi. E, imbattendosi, alla svolta del corridoio, in Celestino, il capo cameriere, Eusebio accennando all’uscio n. 21, l’interpellò:

  Chi l’è quel muster lì? Dopu tut el me da fà el m’a da des ghei de mancia.

  Celestino si portò l’indice al mento per significare che non doveva avere il cervello in ordine.

  Sì, l’è un po’ matt ... Chi l’è? El so no ... Me par ch’ei sia un minister frances ... El se ciama Balsac ... che nom, vera?

  E bussò discretamente all’uscio. Giù, nella sala d’onore, c’era tutta una deputazione che attendeva, a capo della quale stava nientemeno che il principe Alfonso Serafino Porcia, ciambellano dell’Imperatore d’Austria, che sollecitava d’essere ricevuto dal signor Balzac, o meglio Onorato di Balzac, perché colui al quale Eusebio aveva fatta la barba con tanta difficoltà era il noto romanziere francese. In mutande, sbuffando e borbottando s’aggirava per la camera, proprio come avrebbe fatto un orso in collera, Balzac non riusciva ad abbottonare le bretelle ed aveva smarrito lo spillo d’oro della cravatta. E, naturalmente in francese, bestemmiava come un turco per la tema di far tardi. Il principe Porcia, al quale Balzac aveva recata una lettera di sua sorella che abitava a Parigi, la contessa Vimercati Sanseverino, veniva ad invitare lo scrittore francese a nome della contessa Andrea Maffei, dove le belle intellettuali milanesi si sarebbero date convegno per esternare la loro ammirazione. 


***


  Ma le belle intellettuali milanesi, come Onorato di Balzac apparve nel salone splendidamente illuminato di Palazzo Maffei, si strizzarono gli occhi e fecero i visi lunghi. E, una piccolina, più maliziosa delle altre, la giovanissima contessa Bice Bolognini, scoppiò in una gustosissima risata. Oh Dio! Quello Onorato di Balzac, il sedicente custode delle chiavi del cuore femminile?! Quello l’autore della patetica storia di «Eugenia Grandet» che aveva fatto spargere tante lagrime?! Possibile?! Il grande scrittore francese, quel personaggio irsuto che a prima vista lo si sarebbe scambiato per un mercante di cavalli! ... Il custode del cuore femminile, quell’omaccione che, mutati i panni, aveva tutto l’aspetto di «Jack lo sventratore di donne»! Possibile?! No, doveva essere una burla. Ma no! Era pure il romantico-realista Balzac che sfoggiava un panciotto di velluto rosso, una catena d’oro del peso di una libbra e adorna di numerosi ciondoli contro il malocchio, che maneggiava una canna dal pomo d’avorio raffigurante un teschio (brrr ..., rabbrividirono quelle donne!) e offriva tabacco tendendo una tabacchiera d’oro massiccio recante non so quale stemma gentilizio.

  Tuttavia le dame si raccolsero in crocchio, e fu loro facile far dimenticare allo scrittore la sconveniente risata della piccola contessa e le loro smorfie. Attorniarono il grosso monsieur, considerandolo come una specie di babau. E Balzac, che di spirito non difettava (basterebbe dare una guardatina alla sua «Fisiologia del matrimonio», un libro che sembra scritto oggi) se la cavò discretamente. Molte delle belle signore invitarono lo scrittore a pranzi ed a ricevimenti. Raffaello Barbiera, nel «Salotto della contessa Maffei», ne fa fede.


***

 

  Balzac lasciò Milano verso la fina di marzo. Le sue ammiratrici se ne rammaricavano. Egli era stato prodigo di discorsetti ed aveva distribuito lusinghiere dediche a iosa. Bisognava fargli avere un ricordo. La contessa Bolognini fece la proposta ed a lei fu affidato l’incarico di trovare qualcosa di conveniente. Ad un uomo come Balzac bisognava fare un regalo che soddisfacesse la sua vanità. Che diamine! La Bolognini aveva notato dall’orefice Platen, in via Agnello, una pipa. Cosa, una pipa? Perché proprio una pipa? Già la canna l’aveva. L’orologio e la catena li aveva. La tabacchiera di cui faceva sfoggio era addirittura sbalorditiva. E allora gli ci voleva una pipa. Ma fumava Balzac? In pubblico pareva di no, annusava tabacco soltanto, ma in privato doveva fumare, magari per prender calore. E poi non si trattava di una pipa comune. Quella vista nel negozio dell’orefice Platen, era una magnifica pipa a scarpetta (degna di fare il paio con la tabacchiera), con coperchio ed incrostazioni d’argento. Un vero capolavoro del genere, assicurava la Bolognini.

  Ebbene, per troncare, Balzac lasciando Milano si portò via quella pipa che le sue ammiratrici milanesi gli avevano offerto, concorrendo ciascuna con poche lire, tante esse erano.

 

***


  Quali furono le vicende della pipa a scarpetta, per quali mani passò durante la bellezza di più di un secolo, non si sa bene. Vero è che nel 1925, nella vetrina di un antiquario del «Quai Malaquais» (Parigi), era esposta una pipa a scarpetta, che il proprietario assicurava come l’autentica pipa milanese posseduta da Balzac, e ch’egli diceva, aveva acquistata ad un’asta dell’Hôtel Drouot (?).

  La pipa un giorno scomparve dalla vetrina dell’antiquario parigino. Forse l’aveva acquistata qualche miliardario americano, allevatore di bufali, per il suo museo privato.

 

 

  Bruno Romani, Introduzione, in Balzac, Il Giglio nella valle … cit., Roma, Colombo, 1945, pp. VII-XIII.

 

  Nella prefazione alla Commedia umana, Balzac scriveva che vagheggiava per l’uomo e per la società un’opera che fosse quello che il libro di Buffon è per le scienze. La Commedia doveva avere un triplice contenuto: gli uomini, le donne e le cose. Il romanzo che abbiamo tradotto ha per contenuto l’amore ideale, e traccia il disegno di due tipi opposti di donne. La diversa nazionalità data da Balzac alle due donne, non ha valore di caratterizzazione, ma solo di risalto.

  Il proposito di Balzac nello scrivere la Commedia era molto ambizioso. L’infaticabile scrittore lo ha realizzato solo in parte. La morte prematura gli impedì di portare a compimento il ciclo. Egli era di una attività prodigiosa. Nello spazio di tre anni, scrisse ben sedici romanzi.

  Si potrà discutere libro per libro, non l’opera, che è un monumento della letteratura moderna. In ogni libro si troveranno delle cadute, delle alternative di sole e di pioggia, ma ciò che accomuna tutti i libri, ciò che imprime la sigla all’opera, è il suo tono di epopea. La Commedia umana è l’epopea della borghesia francese nella prima metà del secolo XIX. «Ma anche — notò Benedetto Croce nel suo saggio su Balzac — in quei romanzi, e in quella serie di romanzi che il Brunetière giudica “obiettivi’’ e “naturalistici”, il Balzac non fa altro che dare a ciò che è ordinario, borghese e popolare l’aspetto dello straordinario; e non v’ha pittura di carattere e di ambiente che egli non iperbolizzi a tal segno che ne riesce tutta meravigliosa e fantastica».

  La stessa osservazione era stata fatta da Baudelaire nell’Art romantique: «Tutti i suoi personaggi sono dotati dell’ardore vitale da cui era animato egli stesso. Tutte le sue finzioni sono profondamente colorate come i sogni. Dal sommo dell’aristocrazia fino ai bassifondi della plebe, tutti gli attori della Commedia sono più preparati alla vita, più attivi e maliziosi nella lotta, più pazienti nella disgrazia, più prodighi nella gioia, più angelici nella devozione, di quel che ci mostri la commedia del vero mondo».

  Balzac è il poeta epico del suo tempo. Vi è, nella sua opera, una continua sovrapposizione dell’epos alla realtà. Così che anche un suo mediocre romanzo finisce per avere una attrattiva e una forza singolare. Ma il vizio fondamentale dell’opera di Balzac, più che le cadute e la discontinuità del suo stile, mi sembra essere la insanabile contraddizione tra la eccessiva statura dei personaggi e la realtà del mondo che li circonda e dell’ambiente in cui vivono.

  Balzac è giudicato come uno dei padri del realismo e del naturalismo. Certo, la minuta e spesso prolissa descrizione delle cose, della società, la tendenza a caratterizzare i personaggi, l’impiego di un linguaggio particolare per ogni ambiente e ceto che descrive, anticipa il realismo di Flaubert e il naturalismo di Zola. Ma Balzac, più che la poetica del realismo e del naturalismo, ne ha adottato il metodo.

  Quando egli descrive la vita e il mondo in cui si muovono Cesare Birotteau e Eugenia Grandet, va fino in fondo nei particolari. Egli ci rappresenta un mondo che è vivo, reale, preciso; ma i personaggi principali, gli eroi della Commedia, non corrispondono a quel mondo. Si sente che Birotteau è troppo alto rispetto alla sua società, ed anche Eugenia Grandet. Si veda, invece, in Flaubert come la corrispondenza tra i personaggi e il mondo sia intera e perfetta. In Flaubert, il realismo diventa arte; cioè, l’osservazione e la riproduzione del reale non costituiscono solo una movimentata e colorita tappezzeria, ma diventano parte del tessuto della narrazione stessa. In Balzac l’arte nasce fuori del realismo.

  Ma Balzac non è meno scrittore di Flaubert. La posizione storica dei due è diversa, opposta, anche se sono così vicini nel tempo. Balzac ha davanti a sé lo spettacolo di un mondo nuovo, in via di transizione tra il vecchio e il nuovo regime. È il tempo eroico della borghesia; è uno di questi suoi borghesi liberati dai ceppi, dalla subordinazione, con l’infanzia nel vecchio mondo e la giovinezza nel nuovo. Siamo al tempo delle grandi scoperte scientifiche, dei prodigiosi progressi dell’umanità. Nascono le ferrovie, il telegrafo, i giornali moderni, le grandi industrie chimiche e metallurgiche. Si può non avere fiducia in questo nuovo mondo? Non sono ancora nati i borghesi Bouvard e Pécuchet, che annegheranno nel nulla della scienza. Ogni romanzo, ogni racconto di Balzac è un inno sciolto in onore della grande borghesia del periodo 1800-1848.

  L’eroe della Commedia umana è lo stesso Balzac. Tutti i personaggi son dotati della sua energia, del suo formidabile ottimismo nell’avvenire dell’umanità. Hanno tutti l’eroismo, lo spirito di sacrificio e la forza dei pionieri della vecchia America. Rastignac parte alla conquista di Parigi come un cercatore d’oro, in quello stesso periodo, andava alla ricerca dell’oro nelle province del West. Anche la signora Mortsauf è una donna energica; trasmette a Felice il suo fluido, e lo spinge sulle vie del mondo, a tentare la fortuna politica.

  Flaubert, invece, viene una generazione dopo Balzac. È bastata una generazione per far maturare e decomporre il frutto borghese. Balzac non vedeva, che la bellezza, la grandezza, l’epopea del nuovo mondo; Flaubert non ne vede che la meschinità, la decadenza. Tra il borghese di Balzac e il borghese di Flaubert, corrono appena vent’anni. Il borghese di Balzac è del 1830; quello di Flaubert è del 1850.

  Che cosa è accaduto nel frattempo? Può, un borghese, cambiare a tal punto nello spazio di venti anni? Forse, diversità non c’era, perché il borghese di Balzac aveva gli stessi difetti, le stesse meschinità di quello di Flaubert; ma erano mutati il clima e le condizioni storiche. Lambiente no; era sempre lo stesso, tanto è vero che leggendo certe descrizioni di Balzac, ci si ricorda subito di Flaubert. Ma nel 1830 la borghesia non era ancora sicura del suo successo; doveva lottare a fondo contro la reazione dei vecchi ceti, affermare la sua capacità e la sua autonomia. Nel 1850, più nulla ostacola la marcia della borghesia. Il tempo della lotta è passato, ed essa si adagia sulle sue conquiste, comincia a vivere di rendita sul passato. Nasce la critica antiborghese, che è il sintomo della decadenza.

  Anche Flaubert è un borghese, ma un borghese che non ha più fede nel suo ceto, che è imbevuto di principi e di critica antiborghese. Egli è il poeta di una società già in declino.

  Questa diversità di clima, a prescindere dai diversi temperamenti dei due scrittori, risulta dal confronto di due libri che sono molto vicini come vicenda e come scioglimento: Il giglio nella valle e L’educazione sentimentale.

  Il giglio nella valle non è uno dei migliori romanzi di Balzac: al tessuto e al metodo realistico si sovrapporle un armamentario romantico che, talvolta, deforma i caratteri e gli ambienti. È un romanzo pieno di difetti; si potrebbe dire che è il riassunto di tutti i difetti di Balzac scrittore. Slegato, con cadute e riprese improvvise, con spreco di descrizioni, come quelle, del resto bellissime, della flora della Turena, o quelle, meno persuasive, delle campagne e dei tipi di conduzione agricola. Ma il tono del romanzo, la sua ispirazione poetica e filosofica, la verità dei personaggi, non hanno nulla a che fare con le minute descrizioni di cui sopra. Balzac dà l’impressione di voler eccedere, di voler mostrare la sua bravura di analizzatore del cuore umano e di pittore realista.

  Théophile Gautier aveva ben individuato il vizio dellopera balzacchiana. Diceva che Balzac mancava di «dono letterario» e che «non è nè la grandezza, nè la potenza espressiva, né la forza che manchino allo stile di Balzac. Quel che gli manca, è il livello, un livello mantenuto uguale con un istinto sicuro». La stessa riserva esprimeva Sainte-Beuve nel suo saggio del 1834: «Balzac ha la penna corrente, ineguale, scabrosa; egli va, parte decentemente al passo, galoppa a meraviglia, ed eccolo che improvvisamente si abbatte, salvo a rialzarsi per cadere ancora».

  In questo romanzo, il lettore troverà distesi, come gli abiti in un guardaroba aperto, i difetti di Balzac. Ma quando sarà arrivato alla fine del libro, e lo giudicherà in prospettiva, cioè per il suo rilievo, troverà che i difetti si fondono a meraviglia con i pregi, e che essi contribuiscono a dare non so quale forza alla narrazione. Perché Balzac, preso riga per riga e pagina per pagina, mostra i suoi difetti di tessitura; preso nell’insieme, vive sulla forza, sull’energia, sulla persuasione che promana.

  Noi, perciò, non ci soffermeremo sui singoli difetti di questo libro. Basti dire che rimane uno dei più belli, dei più strani e dei più arditi romanzi d’amore scritti negli ultimi centocinquant’anni. Vi sono, in queste pagine, accenti così puri; vi è un continuo trapasso dei personaggi nel paesaggio, e viceversa; vi è un fluido impalpabile ma sempre presente, e il taglio dei personaggi non è così truculento ed eccessivo come in tante altre opere. Sono questi gli incanti del romanzo.

  Naturalmente, al lettore d’oggi questa raffigurazione dei due amori, l’amore spirituale e l’amore sensuale, apparirà un po’ ingenua e sforzata. Oggi è difficile concepire un uomo che possa amare con tanta purezza e devozione Enrichetta, mentre ama con tanta irruenza e sensualità lady Dudley. E noi sappiamo che nella vita di ieri come in quella di oggi, creature come Enrichetta non esistono. Ma ai tempi di Balzac ancora si discuteva sull’amore ideale e sull’amore sensuale, prima che venisse di moda la filosofia pessimistica di Schopenhauer. E lo stesso Flaubert, che era un pessimista, nell’Educazione sentimentale adombra il conflitto tra amore ideale e amore sensuale nelle due figure contrapposte di madame Arnoux e di Rosanette; e la sola amata per Federico Moreau sarà madame Arnoux, la mai posseduta, allo stesso modo che la sola amata sarà, per Felice, Enrichetta.

  Vero è che nell’Educazione sentimentale i personaggi e le situazioni sono più naturali e umani, anche se più mediocri. Del resto, è la differenza che corre tra Felice Vandenesse e Federico Moreau.

  Provengono ambedue da un ceppo borghese di provincia, tutti e due intraprendono la loro educazione la guida di due donne, nobile l’una e borghese l’altra. Madame Arnoux è più donna di Enrichetta, ma questa è più eroica, di una sublimità perfino manierata, come Felice è più eroico di Federico, sebbene più artificioso. Felice riesce nella vita, e percorre una carriera bellissima. Federico, invece, è un inetto, e fa fallimento. Quel che accomuna i due destini, è il loro amore per due donne che non potranno mai possedere. Quando Enrichetta, spinta dalla gelosia, è sul punto di concedersi, muore di un male misterioso. E quando madame Arnoux, gelosa anch’essa, sta per concedersi, è già vecchia, ed ella mostra a Federico i suoi capelli grigi.

  Così, pur essendo partiti da strade diverse e opposte, i due scrittori arrivano alla medesima conclusione pessimistica sull’amore. L’amore è tale fin che rimane puro, fin che rimane nella sfera del desiderio. Non fu la triste esperienza di Emma Bovary, sotto tanti aspetti, la madre di Federico Moreau?

  Ma si osservi come un identico scioglimento richieda, nei due scrittori, un diverso svolgimento. In Balzac vi è una soluzione teatrale, da ultimo atto della Signora delle Camelie; la stanza da letto di Enrichetta, e Enrichetta morente, vestita in un abito da festa. Balzac deve presentarci Enrichetta morente nel momento supremo dell’amore: se ella non fosse morente, Felice la possiederebbe e l’incantesimo della favola sarebbe rotto. Flaubert non ha bisogno di ricorrere a questo stratagemma. Nella scena madre dell’Educazione sentimentale non vi è nulla di teatrale, di artefatto. Federico Moreau e madame Arnoux si rivedono dopo molti anni; sono entrambi invecchiati. Le illusioni e i sogni della giovinezza sono passati; dieci anni prima, Federico avrebbe posseduto madame Arnoux, ora no. È troppo tardi. Non vi è nulla di sforzato, di caricato in questo epilogo.

  Ciò che indusse i due scrittori a trattare un argomento tanto simile, fu il ricordo dei loro amori giovanili. Nella signora Mortsauf, Balzac ha voluto adombrare la la signora de Bery (sic), che egli amò da giovane. La signora de Bery ebbe una grande importanza nella vita di Balzac, perché lo incoraggiò e lo spronò nella carriera letteraria. In madame Arnoux, invece, Flaubert ha adombrato la signora Schlésinger, della quale egli si innamorò a quindici anni su una spiaggia normanna. Furono due puri amori giovanili, ed è naturale che il ricordo si vestisse di colori talvolta così patetici e romantici.

  In Balzac, non è solo il ricordo che agisce. Il giglio nella valle vorrebbe assurgere a un alto significato morale e mistico. Il romanzo fu scritto nel periodo in cui Balzac, influenzato dalla lettura delle opere di Swedenborg, Saint-Martin, e altri filosofi, visse una profonda esperienza mistica. Il risultato di cotesta esperienza furono i romanzi Séraphita e Il giglio nella valle, tra i meno balzacchiani.

  La tesi principale del Giglio nella valle è l’amore ideale contrapposto all’amore sensuale. «Ma simile ideale dell’amore — nota E. R. Curtius nel suo Balzac — suppone una tensione enorme, che non è altra cosa che l’antagonismo tra l’anima e i sensi. Tutti i grandi poeti che sono apparsi fino ad oggi nel corso dell’èra cristiana, da Dante fino a Goethe, si sono sforzati di equilibrare questo antagonismo. Nessuno è riuscito. Balzac a sua volta ha tentato, e non è riuscito. Là dove egli ha dipinto più profondamente l’amore, è dove precisamente, dopo avere tentato la fusione di tutti questi elementi, constata il suo insuccesso. Di questo tentativo e di questo insuccesso, non vi è esempio più bello del Giglio nella valle».

  Questa ragione ci ha fatto preferire, tra le moltissime opere di Balzac, la presente. È un romanzo d’amore dalla prima all’ultima pagina, con un tono di elegia e di favola che, in molti luoghi, rende leggera la materia. A tratti raggiunge una rarefazione, quasi una sublimazione, dello stile, come nelle descrizioni della valle dell’Indre, della Loira lontana, della Turena, o nei casti colloqui tra Felice e Enrichetta. Sono vette che la poesia non troppo spesso riesce a raggiungere.

 

 

  Raffaele Russo, Un problema vitale. Rinnovare la magistratura, «Voce del Popolo. Settimanale politico indipendente», Taranto, Anno 62°, N. 42, 10 novembre 1945, p. 1.

 

  Perché, ricordiamolo, la funzione di chi giudica gli altri uomini è la più tormentosa delle attività umane quando è compiuta con alta coscienza e non per mestiere. E’ quasi l’interpretazione e l'esecuzione di un pensiero di Dio. Difatti, Balzac, il grande Balzac, diceva: «La justice humaine est, je crois, le développement d’une pensée divine qui plane sur les mondes!».

  Per questo il magistrato si avvicina tanto al sacerdote. Ma è un vero magistrato solo colui che si avvicina alle virtù di un vero sacerdote!



  Nino Salvaneschi, Intermezzo di Nino Salvaneschi, Torino, A. Lamberti Editore, 1945.

 

Intermezzo.

 

  pp. 73-74. Esistono autori che si esauriscono con un unico libro e dopo non fanno che ripetersi con piccole varianti. E vi sono libri che costituiscono le diverse tappe della continua evoluzione spirituale d’uno scrittore. Così, se talvolta un volume è sufficiente per dare il ritratto somigliante del suo autore, altre volto, solo attraverso molti libri, si riesce ad inquadrare la vera fisionomia dello scrittore. E vi sono autori di un solo libro e scrittori di una fecondità prodigiosa. Autori che coltivano la loro preziosa orchidea come un esemplare raro e scrittori che possiedono tutto un giardino nel quale altri autori vanno a passeggiare e anche a spigolare. E certo Balzac è stato il coltivatore di un meraviglioso giardino. L’Autore della «Commedia umana», formidabile lavoratore, poteva stare a tavolino diciotto ore al giorno. E’ noto che si alzava alle due del mattino e, vestito di un saio di lana bianca, armato della sua penna e delle sue forbici d’oro, continuava a scrivere fino alle otto di sera, interrompendosi soltanto per un bagno caldo e una frugale colazione composta per solito di uova e molto caffè, che amava preparare da sè, fortissimo, pur sapendo che minava la sua salute. Si sa anche che Balzac, morto a cinquantun’anni, ha scritto in poco più di trent’anni novantasette volumi, e solo in un anno, nel 1832, esattamente tredici. Tuttavia, in quanto a fecondità l’autore di «La peau de chagrin» rimane assai distanziato da san Agostino che in quarant’anni di lavoro è riuscito a scrivere millecentotrenta opere, tra le quali «La città di Dio» che consta di ventidue volumi.

 

 

  Luigi Taroni, Prefazione, in Honoré de Balzac, Argow il pirata ... cit., pp. 7-9.

 

  Honoré Balzac o, se si vuole, Honoré de Balzac — come a suo torto amò farsi chiamare dopo il 1830 — è un esempio vivente di quanto, secondo Buffon, il genio debba essere «una lunga pazienza». Non iniziò dunque la sua carriera di scrittore con dei capolavori; per quanto se ne sa, sembra anzi che i suoi esordi fossero parecchio faticosi; oltreché contrastati, come esige la migliore tradizione nella vita dei grandi uomini, dai genitori del Nostro.

  Cominciò a vent’anni con un drammone su Cromwell; continuò, solo o associato [?] a un tale Orazio di Saint-Aubin, a scrivere macchinosi feuilletons; infine, venne fuori con Gli ultimi Scioani, che dimostrò come il laborioso tirocinio non fosse stato inutile: per dirla con lo stesso Balzac, si era «fatta la mano».

  Scrivere era evidentemente più forte di lui, e per un trentennio, fino alla morte, questa prepotenza d’arte non avrà più pace: fino a. quando, sulla soglia dei 52 anni l’autore della Commedia Umana non, cadrà vinto dall’immane fatica.

  Ma parliamo del romanzo che viene a far parte della collana I Maestri. Esso è il secondo in cui si tratta di un pirata Argow, di un ammiraglio di Saint-André, e di altri personaggi che sono già stati protagonisti del Vicario delle Ardenne. Ma qui, in questo romanzo (che prima apparve col titolo di Annetta ovvero il Delinquente, titolo che è tutto un programma), non si parla più delle scorrerie, più o meno interessanti del fuorilegge: i motivi della vicenda sono più umani e commoventi: il pirata vorrebbe redimersi, l’amore lo ha folgorato, ma il «fato è diverso e non consente». Ecco appunto ciò che distingue, sin dal primo sguardo, questo racconto dagli altri dello stesso periodo.

  Ma non sarebbe bastato a giustificare una nuova traduzione e pubblicazione nel 1945: Argow il pirata non è un capolavoro, né noi tentiamo di spacciarlo per tale. Tuttavia alcune sue qualità hanno oggi, innegabilmente, un nuovo valore: il romanzo si fa leggere dalla prima parola all’ultima; è a forti tinte nel senso più cinematografico della parola; è persino giallo (Balzac è stato uno scrittore di gialli avanti lettera).

  Qualità deteriori, ci si potrà dire, e allora aggiungeremo che accanto al solito delinquente che è tale perché, trovatello, fu allevato in un ambiente men che adatto al trappismo, abbiamo dei personaggi delineati magistralmente, alla brava, come l’aiutante del pirata o l’amante di lui; e altri, sui quali Balzac indugia in modo da far pensare che ne avesse presenti i modelli, forse fra i suoi stessi familiari: si veda, fra tutti, il buon papà Gérard, il burocrate, pensionato, col quale ha inizio la narrazione e col quale la narrazione ha termine. Abbiamo già una predilezione per il movimento di masse, per l’insistenza sui contrasti sociali, per gli intrighi a base di tribunali e di gente della giustizia.

  Manca, è vero, l’introspezione: i problemi spirituali sono semplificati al massimo; ma è poi una vera manchevolezza? Vorremmo leggere un romanzo in cui i pensieri, i dubbi, i conflitti intimi dei personaggi risultassero soltanto dall’azione e dalle parole dei personaggi stessi ...

  Nella Commedia Umana ricompariranno i grandi delinquenti, le grandi innamorate, i grandi o meschini ambiziosi, i magistrati integerrimi e corruttibilissimi, i piccoli ambienti provinciali e la babelica Parigi; ma, senza esagerazione, si può affermare che in questo romanzo è già in germe tutto Balzac; che qui, egli comincia a intravvedere se stesso.

 

 

  Agostino Trabalza, Stati uniti d’Europa. Contributo alla formazione di una coscienza internazionale, Roma, Atlantica Editrice, 1945.

 

  p. 71. […] il numero di ore che occorreva a un parigino del 1848 per portarsi (in diligenza bene inteso; in una di quelle diligenze di cui Balzac fa così perfetta descrizione quando narra Un début dans la vie) [...].

 

 

  Marcello Venturoli, I giorni di Ignazio, Roma, Sandron, 1945.

 

  pp. 74-75. […] giacevo sul letto con un libro di Balzac in mano e languivo tra quei personaggi come se si passassero dinnanzi agli occhi delle figure come nei digiuni. Ho acceso una sigaretta, ho ripreso Balzac.



  G.[iulia] V.[eronese], Nota del traduttore, in Honoré de Balzac, Un dramma in riva al mare ... cit., pp. 9-12.

 

  Questi quattro racconti, poco noti ai lettori italiani, raramente o mai tradotti, sono fra i più tipici dell’opera di Balzac. In essi l’iperbole dei sentimenti trasferita alla parola (fu detta, questa, la rettorica di Balzac) tocca punti massimi. Strema a volte il linguaggio in dolcezze e languori, in sfinimenti da fiore appassito, come nella gentile oleografia della Grenadière che ricorda le più belle pagine di Le lys dans la vallée, in una maniera che la «misura» dello scrittore salva appena dal lezioso. Altrove è ancora la stessa iperbole che, invece, asciuga quasi la pagina in un discorso chiuso e agro, senza amore di se stesso, sì che l’assoluto dei sentimenti contemplati diventa nuda parola: è il caso dello stupendo racconto del pescatore nel Dramma in riva al mare, e anche del racconto della vita di Z. Marcas. La vaga enfasi del Capolavoro sconosciuto non è che la forma di una fantasia leggermente rigonfia e un po’ compiaciuta di se stessa, di cui son sempre segnate le pagine meno vive di Balzac; tuttavia questo racconto (una tragica recherche de l’absolu) è pieno di delicatezze e di passione; celeberrimo in Francia da quando Cézanne si volle riconoscere nella figura di Frenhofer, e Picasso, che ne disegnò le illustrazioni, parve scoprire nei ragionamenti sulla pittura e forse nella follia dello stesso Frenhofer quasi un presagio del cubismo, mi sembrò, anche per questo, che meritasse d’esser meglio conosciuto. Son quattro racconti assai differenti fra di loro eppure un filo li lega, una fonda «ragione»: è l’umano sapore della fatalità che vince, ogni volta, il protagonista, è l’immanenza del suo destino, un destino tuttavia più forte di lui. Ma non v’è alcuna giustificazione psicologica dei fatti, la loro trama fa parte del meccanismo delle cose, che si muove concorde — anche negli urti, anche negli strappi — coi sentimenti, col carattere, con la natura di ciascun uomo: a quella natura, quella e non altra, risponde quel destino, nessun altro sarebbe possibile. Aveva ragione Marx di amare Balzac, anche per lui il destino umano era come se fosse determinato dalle cose viventi minuto per minuto intorno all’uomo e nascenti l’una dall’altra, una trama infinita ... a sua volta tutta determinata dalle azioni umane: vita. Ha ragione anche Alain di amare Balzac, lui apparentemente così lontano da Marx. E non soltanto l’ama per la sua qualità «artigiana» e realistica di scrittore «qui n’invente que ce qu’il écrit», non soltanto per la sua forza stilistica (una vera classicità) ch’egli ritiene assai superiore, per esempio, a quella di Flaubert; ma proprio, anche lui, per l’epica immagine del destino umano che è in Balzac. Somiglia a Omero, somiglia a Shakespeare, dice Alain. Soltanto, si può aggiungere, gli dèi non c’entrano; Balzac cerca nella vita dell’uomo i termini e la profezia del suo destino. Nella vita, s’intenda bene: non nel modo di viverla, nemmeno nella capacità di soffrirla. Da ciò una totale assenza di psicologia nei suoi eroi, da ciò l’assoluto dei loro sentimenti, d’ogni loro bene come d’ogni loro male; una violenza, un assoluto che non sono soltanto il dono di un cuore romantico, sono un’immagine grande della vita, un’immagine eroica in cui essa è considerata al di là dell’umana condizione. Non vuol dir nulla che il «quotidiano» abbia tanta parte, in Balzac (si veda Z. Marcas, per esempio, e si ricordi che l’ambiente, i piccoli episodi, quella Parigi dominata dalla sete di denaro, quelle miserie politiche e sociali somigliano, anzi sono gli stessi di tanti racconti e romanzi suoi); ha tanta parte, ma non è, in fondo, che la zolla ricca d’umori, di germi, di polline, di sterco e di fiori in cui trovano alimento le grandi passioni, cioè il sovrumano dell’uomo, bene o male che sia, la verità e l’eterno della vita. E non importa che l’uomo soccomba al proprio destino, come in questi quattro racconti, non importa che debba morire: un destino compiuto è sempre giusto.

 

 

  [Raoul Vivaldi], Nota, in Honoré de Balzac, La donna di trent’anni ... cit., pp. 233-234.

 

  I personaggi, che agiscono in questo volume, si troveranno nelle opere seguenti:

 

  Aiglemont (Vittorio d’):

  All’insegna del gatto che giuoca a palla, La banca Nucingen.

  Beauséant (marchese de):

  Memorie di due giovani spose.

  Beauséant (de):

  Babbo Goriot.

  Beauséant (Clara de):

  Babbo Goriot, Alberto Savarus.

  Bonaparte (Napoleone):

  La Vendetta, Un losco affare, Il colonnello Chabert, Pace in Famiglia, Fra le quinte della storia contemporanea.

  Camps (signora de):

  La signora Firmiani, Figlia d’Eva, Gli impiegati, Il deputato di Arcis.

  Champignelles (de):

  Fra le quinte della storia contemporanea.

  Chatillonest (de):

  Modesta Mignon.

  Crottat (Alessandro):

  Cesare Birotteau, Il Colonnello Chabert, Incomincia una vita, Il cugino Pons.

  Desroches:

  Casa di scapolo, Il Colonnello Chabert, Incomincia una vita, L’Interdizione, Gli impiegati, Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane, La banca Nucingen, L’affarista, I piccolo-borghesi.

  Duroc (Gerardo Cristoforo Michele):

  Un losc0 affare.

  Giacomo:

  Babbo Goriot.

  Nueil (Gastone de):

  Alberto Savarus.

  Saint-Héreen (Moina de):

  Figlia d’Eva, Il deputato di Arcis.

  Serizy (Leontina de):

  Incomincia una vita, Storia dei Tredici, Orsola Mirouet, Splendori e miserie delle cortigiane, Altro studio di donna, La falsa amante.

  Vandenesse (Carlo de):

  Incomincia una vita, Figlia d’Eva.

 

 

  Giulia Zannini, “Eugénie Grandet” di H. de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Vittorio Scardovi, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1945.

 

 

  Stephen Zweig, Tre maestri: Balzac-Dickens-Dostojevskij. Traduzione di Berta Burgio Ahrens, Milano, Sperling & Kupfer, 1945 («I costruttori del mondo», 1), pp. 226.

 

  Cfr. 1932; ristampato nel 1938.



[1] Cfr. E. D’Ors, Dostojevskij, Ibid., p. 55.


Marco Stupazzoni