sabato 9 febbraio 2019



1926

 

 


Estratti.

 

 

  Onorato di Balzac, Il colonnello Chabert, in Fernando Palazzi, Le Opere e i Secoli. Antologia di scrittori italiani e stranieri dalle origini a tutto il sec. XIX ad uso delle scuole medie superiori. Volume II. Classicismo e Romanticismo, Milano, A. Mondadori, 1926, pp. 380-382.

 

 

  Onorato di Balzac, La morte dell’avaro, in Fernando Palazzi, Le Opere e i Secoli … cit.,pp. 378-380.


  Da: Eugénie Grandet.



Traduzioni.

 

 

  Onorato de Balzac, Memorie di due giovani spose. Versione italiana di Laudomia Capineri Cipriani, Firenze, Adriano Salani, Editore (Stabilimento A. Salani), 1926 («Biblioteca Salani Illustrata»), pp. 301.

 

  Cfr. 1906.

 

 

  Onorato Balzac, Mercadet l’affarista. Commedia in cinque atti. Il Lutto. Commedia in un atto di Onorato Balzac, Milano, Casa Editrice Sonzogno, 1926 («Biblioteca Universale», 13), pp. 91.

 

  Cfr. 1882 e ristampe successive.

 

 

  Onorato Balzac, Storia dei Tredici. Scene della vita parigina. Ferragus. La duchessa di Langeais. La ragazza dagli occhi d’oro, Milano, Casa Editrice Sonzogno della Società An. Alberto Matarelli (Stabilim. Grafico Matarelli), s.d. [1926] («Collezione Sonzogno», 18), pp. 315 pagine.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Prefazione, pp. 5-10;

  Ferragus, capo dei divoranti, pp. 11-117;

  La duchessa di Langeais, pp. 119-246;

  La ragazza dagli occhi d’oro, pp. 247-314.

 

  Cfr. 1903 e ristampe successive.

 

 

  Onorato de Balzac, Una figlia d’Eva di Onorato de Balzac. Romanzo. Traduzione di M. Domenichini, Lanciano, Carabba, (Ottobre) 1926 («Scrittori italiani e stranieri», N. 108), pp. IV-174.


  Struttura dell’opera: 

 

  Alla Contessa Bolognini Vimercati, pp. III-IV;

  Una figlia d’Eva, pp. 5-174.

 

  Cfr. 1917.



 Raccolta di lettere. Da Onorato di Balzac, in Marcellina Desbordes Valmore, Poesie e lettere precedute da uno studio biografico critico a cura di Fernanda Fratoddi, Foligno, Franco Campitelli editore, 1926, pp. 157-158.

 

Senza data

 

 Mi sono arrivate due piccole lettere, troppo corte, di due pagine, ma tutte trasformate in poesia, e che ricordano il cielo d’onde venivano, e che mi hanno ricordato, come i passaggi più belli di una sinfonia di Beethoven, i due giorni che io ebbi da voi, cosicchè, ciò che mi accade raramente, io sono rimasto pensoso, con le lettere in mano, facendo a me stesso un poema, e dicendomi: Essa ha dunque conservato il ricordo di un errore sul quale hanno piamente risuonato, essa e le sue parole, essa e tutte le sue poesie, poichè noi siamo dello stesso paese, signora, del paese del pianto e della miseria. Noi siamo tanto vicini quanto possono esserlo, in Francia, la prosa e la poesia, ma io mi avvicino a voi grazie al sentimento col quale vi ammiro e che mi ha fatto rinascere, un’ora e dieci minuti, dinanzi al vostro ritratto al Salon. Andiamo, addio, la mia lettera non vi dirà tutti i miei pensieri, ma trovatevi intuitivamente tutta l’amicizia di cui la incarico, e tutti i tesori dei quali vorrei disporre se Dio mi prestasse la sua potenza. Ah! tutti quelli che io amo avrebbero, secondo i loro gusti, una grande, una media, una piccola Granatiera (I) e in anticipo, tutte le gioie del paradiso; tanto, perché farli aspettare?

 Addio dunque, baciate per me Ondina su la fronte, e considerate, vi prego, come qualche cosa di vero, la mia sicura amicizia, e la mia viva e simpatica ammirazione.

De Balzac.

  (I) La Granadiere (sic), romanzo di Balzac.


 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  “Bedouck”, il talismano di Balzac, «La Basilicata. Politico Quotidiano di Potenza», Potenza, Anno VIII, N. 6, 7 Gennaio 1926, p. 3.

 

  «Bedouck», il talismano al quale Balzac fa parecchie allusioni nelle «Lettres à l’étrangère», è il tema di una interessante comunicazione di Marcel Bouteron alla «Revue des deux Mondes». [Cfr. M. Bouteron, Bedouck, ou le Talisman de Balzac, «Revue des deux Mondes», Vol. XXX, 15 Décembre 1925, pp. 943-947; «L’Écho de Stan», N. 9, 15 Juin 1926, pp. 199-204 ; Paris, à la Cité des Livres (Castellan et Cie), 1925 («Balzaciana», N. 1), pp. 22].

  Il talismano era un anello che Balzac chiamò col nome strano e sibillino di «Bedouck», ed al quale attribuiva ogni sorta di virtù; era un anello che Balzac aveva ricevuto in regalo a Vienna nel 1835 dall’orientalista de Hammer, che gli aveva detto: «Un giorno Voi conoscerete l’importanza di questo piccolo regalo che io vi faccio».

  Era una pietra semplice incisa di qualche carattere arabo che, decifrato, dava le lettere: B. d. u. h. che, lette alla francese, formavano la parola «Bedouh»; Balzac ne fece «Bedouck».

  Una notte Balzac arriva tutto sconvolto dall'amico pittore Lorenzo Jan, che fa alzare, e misteriosamente conduce fin presso al lume dicendogli: «Guarda questo anello!» Lorenzo Jan stimò l’anello sei soldi ... ed allora Balzac disse che, essendosi una sera trovato ad una festa dall’Ambasciatore di Napoli, ebbe l’idea d’informarsi dall’Ambasciatore turco sul significato dei caratteri incisi sulla pietra del suo anello. Appena l’Ambasciatore turco ebbe guardato l’anello gettò un grido, e inchinandosi fino a terra disse:

  «Voi avete un gioiello che viene direttamente dal Profeta; esso è stato portato dal Profeta, e là c’è il nome del Profeta. Esso è stato rubato dagli inglesi al Gran Mogol circa un centinaio d'anni fa, poi venduto ad un principe tedesco ... Andate subito nell’impero del Gran Mogol che ha offerto delle tonnellate di oro e di diamanti a chi gli riporterà l’anello del Profeta, e voi ritornerete ... con le tonnellate!».

  Balzac andava dall'amico Jan per sentirlo, essendo deciso ad andare dal Gran Mogol ... ma Jan, con grande scorno di Balzac, preferì ritornarsene a letto!

  M. Bouteron ha voluto cercare il significato della parola «Bedouck» scritta sul talismano di Balzac, che il donatore de Hammer credeva che fosse uno dei nomi di Allah. Ora nei trattati di magia di El Bouni e di Sovuti, «Bedouck» è segnalato come una formola, scendente in linea retta dal padre Adamo, e chiunque la porti incisa su di un rubino montato in oro è sicuro di essere felice.

  «Bedouck» ha tutte le virtù. Oggi tra i mussulmani il popolo minuto non ne conosce più esattamente il significato, ed alcuni vedono in esso il nome di un antico mercante dell’Heggiaz, altri il nome di un genio, di un angelo, e qualcuno persino quello di una Venere orientale.

  Balzac testimoniò la sua riconoscenza al donatore dedicandogli: «Le Cabinet des antiques», ma non andò mai a cercare le tonnellate di oro e di diamanti del Gran Mogol.

 

 

  Marginalia. I manoscritti di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXI, N. 7, 14 Febbraio 1926, p. 4.

 

  La morte colse la vedova di Balzac nella peggiore miseria. Colei che le facili censure hanno sfigurato, quella Madame Hanska che pare più un personaggio dii romanzo che non una donna della realtà, fino all’ultimo coltivò la religione balzacchiana rimanendo custode dei ricordi e delle reliquie di cui il valore commerciale doveva servire, dopo la sua morte, a soddisfare la folla dei creditori. Fra queste reliquie avevano un’importanza suprema— oltre che la biblioteca – i manoscritti di Balzac; materiale tutto che venne venduto all’asta a cura di un libraio, il quale non si dimostrò certo all’altezza della situazione se non seppe compilare che un arido elenco dove i compratori non riuscivano a raccapezzarsi. Come ricorda A. de Bersaucourt in un articolo dei Marges (15 gennaio 1926)[1] ben pochi furono i presenti all’asta. Eppure si trattava di disperdere un materiale prezioso, poiché i manoscritti di Balzac danno la storia viva del suo travaglio intellettuale e come erano il terrore dei tipografi sono oggi la delizia di chi mercé loro perviene a rendersi conto di questa elaborazione miracolosa che non conosceva tregue né riposi. Irrisori ci sembrano oggi i prezzi a cui furono venduti volumi di incalcolabile pregio, edizioni originali o speciali dell’opera di Balzac e anche più grami quelli raggiunti dai manoscritti che, come è noto, furono acquistati tutti per meno di diecimila franchi da un intelligente mecenate, il famoso collezionista Spoelberg (sic) de Lovenjoul, il quale così assicurava alla nazione questo tesoro; poiché le sue raccolte furono da lui legate al Museo di Chantilly. Lo strano è che proprio in questi giorni è stato annunziato dalla stampa quotidiana che un bibliofilo di New-York, fervido balzacchiano, ha acquistato per una grossa cifra il manoscritto di «Eugénie Grandet»che si disse mancante alla collezione del Museo di Chantilly. Viceversa, il manoscritto di «Eugénie Grandet» fu tra i primi messi all’asta nella vendita del 1882 e fu acquistato dopo una breve gara, nella quale intervenne anche Edmondo di Goncourt, per la somma di duemila franchi dal solito incaricato degli acquisti di Spoelberg di Lovenjoul. Sicché è lecito domandarmi con l’articolista in che cosa precisamente consista il manoscritto di «Eugénie Grandet»passato in America proprio in questi giorni.

 

 

  Letture amene. La riscossa dei grassi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 67, 19 Marzo 1926, p. 3.

 

  Era obeso Gioacchino Rossini, maestro nell’arte della musica e in quella della gastronomia. E ad Onorato Balzac, il grande romanziere, la pinguedine non solo non impediva d’avere del genio, ma neanche d’essere svelto ed agile della persona; il che è confermato da Giorgio Sand, la quale scrive: «il grimpait avec son gros ventre tous les étages de la maison au quai Saint-Michel, et arrivait soufflant, riant, bavardant, sans reprendre haleine».

 

 

  Corriere Milanese. Una conferenza del prof. Farinelli al “Convegno”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 77, 31 Marzo 1926, p. 6.

 

  Nelle sale del «Convegno» in via Borgospesso 7, affollate specialmente di signore, Arturo Farinelli ha tenuto ieri l’annunciata conferenza: «Il Romanticismo e la musica». […].

  Dai latini — Leopardi in primo luogo, la Staël, De Vigny, che nella musica trovava i canti interiori del suo pensiero, Manzoni, Chateaubriand, Lamartine, De Musset, Chénier e persino Balzac — il Farinelli è passato all’esame dei tedeschi, presso i quali la vita sentimentale romantica tendeva alla musica in quanto essa ha maggiore presa sull’anima.

 

 

  Ultime di cronaca. Macchiette cittadine. Il fidanzato delle Muse, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, Edizione Supplemento, 7 Aprile 1926, p. 7.

 

  Eppure questo trattore umanitario esiste. si chiama Manlio Delaini ed ha un esercizio popolaresco in una via della città, che non nominiamo anche per evitargli clamori di pubblicità.

  Naturalmente questo singolare tipo di esercente è un poeta. Non di quelli che scrivono versi, ma di quelli che sentono la poesia, il che, tante volte, vale più che scriverla. […]. Scriveva singolari novelle per. conto suo e talvolta ne pubblicava, studiava i classici, rincorreva appassionatamente le manifestazioni grandi e piccole della letteratura, ma non trovò incompatibile la passione interiore col mestiere esteriore. Più coraggioso di Balzac, che rimpiangeva sul declinar della vita di non poter aprire un negozio con la scritta: «Onorato di Balzac, droghiere», Delaini aprì un negozio senza insegna, preferendo la gente umile e il guadagno modesto.

 

 

  Uno svarione di O. de Balzac, «Il Tesoretto della coltura italiana», Bologna, N. 71, Maggio 1926, pp. 80-81.

 

  Onorato de Balzac (1799-1850), francese di Tours, molto scrisse, e troppo: nell’opera sua, son gemme tra non poco terriccio: ma di questo parlerò altrove.

  Qui voglio ricordare un curioso pasticcetto cronologico che il Balzac ammannì ai lettori d’una scipitella novelluzza intitolata Naïveté.

  Dice: «La regina Caterina [de’ Medici] era, allora delfina [principessa ereditaria di Francia]. Per farsi ben volere dal re [Francesco I] suo suocero ... gli regalava, ogni tanto, quadri di pittori italiani, poiché sapeva che gli piacevan molto, essendo amico [étant ami] del signor Raffaello da Urbino e dei signori Primaticcio e Leonardo da Vinci, ai quali mandava ragguardevoli Somme [auxquels il envoyoit de notables sommes]».

  Parli, ora, la semplicetta cronologia.

  Caterina de’ Medici, nata nel 1519, andò moglie al delfino di Francia (poi, Enrico II, re) nel 1533. Raffaello era morto nel 1520. Leonardo era morto nel 1519. Come diavolo faceva il re Francesco I a mandar le notables sommes a Raffaello ed a Leonardo, allorché essi eran morti già da almeno tredici o quattordici anni?

 

 

  Marginalia. Nomi propri nell’opera di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXI, N. 18, 2 Maggio 1926, p. 3.

 

  Non è una novità, che Balzac, con una sorprendente disinvoltura, ha preso spesso degli autentici cognomi, appartenuti realmente ai contemporanei, per designare i personaggi che mette in scena. Ma quello che più desta meraviglia, dopo la ricerca compiuta da Maurice Serval nella Revue Bleue,[2] è la straordinaria rassegnazione con cui molti sopportavano quell'uso dei propri nomi, quando erano applicati a personaggi presentati dal romanziere sotto gli aspetti meno lusinghieri. Per parecchi di quel nomi l'articolista ha condotto un’inchiesta rigorosa; così siamo informati, a proposito del nome Rastignac, non soltanto che esso corrispondeva a una famiglia del tempo, ma anche della verosimile occasione che indusse Balzac a introdurre quel nome nella «Peau de chagrin», Nella città d’Issoudun, nel 1750, un personaggio della famiglia Chapt-Rastignac fu assassinato nelle più tragiche circostanze e ancora se ne parlava nel secolo successivo, mentre Pérémé, amico di Balzac, ne dava notizia in un suo volume di ricerche storiche e archeologiche sulla citta d’Issoudun. Se la famiglia Rastignac non reclamò contro lo scrittore, che applicava quel nome a un piacevole personaggio, più sorprendente è il silenzio tenuto dalla famiglia Hulot, nome che comparisce in due opere di Balzac: «Les Chouans» e «La Cousine Bette». Appartenevano a quella famiglia parecchi generali dell’esercito, a proposito di uno dei quali, il generale Hulot d’Osery, Balzac dovette conoscere un aneddoto assai strano che fu raccontato nel «Moniteur» dell’11 giugno 1833. Meno sorprendente è la mansuetudine di cui dette piova la famiglia d’un antipatico personaggio: Rogron. Era un fornaio di Provins, il cui nipote considerava, per confessione fatta all’articolista, come un vanto di famiglia l'uso che Balzac aveva fatto di quel nome. Anzi, pretendeva di possedere una lettera, con la quale Balzac avrebbe chiesto al fornaio l'autorizzazione di servirsi del suo nome. Continuando nell’indagine, siamo informati che il nome De Marsay è, con lieve alterazione, quello del Barone Demarsay, generale di brigata sotto l’Impero, deputato liberale ai tempi di Luigi Filippo. Ugualmente autentico è il nome de Rubempré, col quale viveva. sotto la Restaurazione, una mondana, madame Alberte de Rubempré, nota anche attraverso l’opera di Stendhal.

 

 

  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 60, Num. 107, 6 Maggio 1926, p. 3.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Marginalia. L’italiano di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXI, N. 26, 27 Giugno 1926, p. 3.

 

  È noto che Balzac si compiaceva di ostentare la conoscenza della nostra lingua, spargendo qua e là nei suoi romanzi vocaboli e frasi italiane. Ma un collaboratore del Mercure de France[3] porta oggi una testimonianza che Balzac non era sempre capace di proceder da sè, senza guida, in questa via. Per lo meno, prima del 1837 aveva bisogno di consigli, come è dimostrato da una lettera che può essere verisimilmente datata con l’anno 1836. È scritta alla contessa Fanny Porcia, moglie del conte Vimercati-Sanseverino, l’amica che ebbe a presentarlo a Clara Maffei durante il viaggio in Italia del 1837, Il documento, rintracciato nell’archivio Porro-Lambertenghi, contiene la preghiera di Balzac per avere dalla competentissima signora la traduzione, in antica lingua italiana del Cinquecento, di queste due frasi: I. L’avons-nous bien entortillé, trompé, rossé, battu ...; II. Qu’il s’en dépêtre». Balzac aveva gran fretta di una risposta, perché quelle frasi dovevano terminare «Le Secret de Ruggieri» che doveva essere pronto per la domenica successiva. Si scusava anche della ineleganza del biglietto perché scritto in fretta, sul punto di recarsi a rendere le estreme onoranze a un grande pittore, «all’amabile e buon vecchio perduto», la cui amicizia costituiva una vera eccezione nel mondo parigino della insincerità e dell’adulazione. Chiude la lettera una raccomandazione perché in ciascuna delle due frasi ci sia un intercalare del tempo. E chiede Balzac se «corpo di Bacco» era in uso nel Cinquecento. Se adesso ci riportiamo al romanzo «Sur Catherine des (sic) Médicis», dove «Le Secret de Ruggieri» costituisce la seconda parte, vi ritroviamo le due frasi italiane, la cui paternità spetta evidentemente alla bella patrizia lombarda: «Affé di Dio! come l'abbiamo infinocchiato!» e «Gran mercé, a lui sta di spastoiarsi». Per datare con maggiore esattezza questo biglietto, bisognerebbe sapere chi era il vecchio e grande pittore ai cui funerali Balzac doveva partecipare. L’articolista porta nuova conferma alla congettura del 1836, pensando che potesse trattarsi di Jean-François Mérimée, morto precisamente in quell'anno, quasi ottantenne.

 

 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 152, 28 Giugno 1926, p. 4.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Fra riviste e giornali. L’italiano di Balzac, «Minerva. Rivista delle Riviste. Periodico quindicinale», Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Anno XXXVI, N. 16, 16 Agosto 1926, p. 637.

 

  Cfr. le due schede precedenti.

 

 

  Marginalia. Postilla, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXI, N. 31-36, 5 Settembre 1926, p. 4.

 

  In un marginale comparso nel N. 26 del Marzocco anno XXXI (27 giugno 1926) riassumeva una nota del «Mercure de France» dove si davano curiose notizie sui procedimenti seguiti da Balzac per procurarsi nozioni di lingua italiana che gli occorrevano per i suoi romanzi. Il nucleo della notizia era costituito da una lettera che il Balzac indirizzava alla Contessa Fanny Porcia moglie del Conte Vimercati Sanseverino che era in questo caso la sua maestra. Ora dobbiamo rilevare che il collaboratore del «Mercure de France» indica il prof. B. Sanvisenti come colui che ha ritrovato negli Archivi Porro Lambertenghi il suddetto documento. Ciò che fu omesso nel nostro riassunto. Possiamo anche aggiungere che la notizia della rivista francese appare ricavata da uno studio del ricordato prof. Sanvisenti. Questo studio uscito tino dall’ottobre 1913 nel «Libro e la Stampa». Bollettino ufficiale della Società Bibliografica Italiana, anno VII, fascicolo IV-V, pagg. 189-93 porta infatti il titolo: «Tra gli autografi: una lettera di Balzac».

 

 

  La Duchessa di Langeais. Romanzo d’appendice. Puntata N. 1 – Puntata N. 7, «Cine-cinema. Letture per tutti», Milano, Anno II, N. 20 – N. 26, 11 Settembre – 23 Ottobre 1926, pp. 12-13; pp. 12-13; pp. 12-13; pp. 13-14; p. 14; p. 10.

 

  Questo romanzo è tratto dal film omonimo interpretato da Norma Talmadge e Adolfo Menjou e realizzato per lo schermo da gli Artisti Associati.

 

  Puntata N. 1, p. 12.  Balzac ne ha già del resto narrato [del Duca di Langeais] la vita e non staremo quindi a ripeterla. Ciò che vogliamo invece narrare è specialmente uno degli episodi più curiosi della sua vita intima e sopratutto far conoscere come quell’uomo coraggioso ed elegante, uno fra i più aristocratici dell’epoca della Restaurazione, agisse in alcune circostanze e divenisse vittima della sua grande versatilità, nonché della fiducia che egli riponeva in sua moglie. […].



  Cronaca di Cremona. Spettacoli d’oggi, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno V, N. 220, 15 Settembre 1926, p. 4.

 

  Teatro Ponchielli — Questa sera il grande capolavoro di O. Balzac «L’albergo rosso» interpretato da Mathot, il grande interprete del «Conte di Montecristo».

 

 

  Corriere Milanese. L’on. Teruzzi e l’on. Belloni a Niguarda per i cinquant’anni d’un calzificio, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 224, 20 Settembre 1926, p. 4.

 

  Ma a vedere quelle calze grosse, sgraziate, più pesanti di un paio di scarpe, sembra impossibile che l’industria sia arrivata alla delicatezza moderna, che ha ridotto le calze ... a una mano di vernice, e ancor più impossibile che le celebri donne del risorgimento, a cominciare dalla principessa Belgioioso, per cui spasimò persino il Balzac, imbottissero le loro snelle gambe di sì goffa maglia.

 

 

  Ultime di cronaca. Il morto sul lastrico, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 225, 21 Settembre 1926, p. 5.

 

  «Bisogna morire per imparare a conoscere i propri figli», scriveva Balzac, mettendo queste parole in bocca a papà Goriot. A Luigi Marozza fu Giuseppe è capitato di dover fare un’esperienza analoga: con la differenza che papà Luigi si è risparmiato il disturbo di morire, e oggi sostiene il ruolo, alquanto curioso, di morto risuscitato.

 

 

  La vita allegra. Clubs, «Cine-cinema. Letture per tutti», Milano, Anno II, N. 22, 25 Settembre 1926, pp. 16-17.

 

  p. 17. Nella sala di riunione del «Club delle donne brutte» v’era stampato a caratteri di scatola su un cartello fenomenale: «Se una donna brutta si fa amare, lo sarà perdutamente, perché ciò dipende da una strana debolezza del suo amante o da attrattive più segrete e più invisibili della bellezza. Balzac».



  Riviste e giornali, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno V, N. 238, 6 Ottobre 1926, p. 3.

 

  Tutti sanno che Balzac fu un lavoratore formidabile e che la sua fine precoce si deve certo in gran parte alla sua eroica maniera di lavorare. Egli visse certamente una rude giornata, e per averne una idea adeguata basta confrontare la mole e la grandezza dell’opera sua con il tempo impiegato a crearla. Ben si può dire che gli bastarono pochi anni. Più che ad un lavoro forzato il suo sforzo prodigioso è dovuto però in gran parte ad una felice fecondità. Nei periodi di grande lavoro, cioè quasi sempre, usava coricarsi alle sei di sera per rialzarsi poco dopo la mezzanotte, e da quest’ora — che anche per l’umanità cittadina segna generalmente, l’ora del riposo — intrepidamente lavorava per dodici ore consecutive. E come il Machiavelli dicesi avesse bisogno di coprire l’uomo fra gli uomini con l’abito del personaggio insigne, ogni qual volta si metteva all’opera; così il Balzac — certo per meglio intonare l’esteriorità della persona fisica ai motivi spirituali del suo genio — nell’austera solitudine della sua stanza da lavoro soleva indossare una specie d’abito claustrale di sua invenzione. Era questo composto di un camice bianco da domenicano, di stoffa fine e più o meno densa a seconda della stagione. Sotto dì esso portava pantaloni d’egual colore. Intorno alla vita, tutt’altro che sottile, passava una spessa catenella, in oro veneziano, a cui erano sospesi un temperino, una stecca e un paio di forbici dello stesso metallo. Ai piedi calzava pantofole in cuoio rosso, con arabeschi dorati. Era questa l’uniforme di quella sua quotidiana battaglia ch’egli guidava, alimentando l’esercito delle sue idee con innumerevoli tazze di caffè, per lui l’eccitante cerebrale più efficace.

 

* * *

 

  Egli stesso ci ha lasciato in proposito il relativo bollettino di guerra:

  «Il caffè cade nel vostro stomaco; dopo di che tutto si agita; le idee si mettono in moto come battaglioni della Grande Armata sul terreno della battaglia, e la lotta incomincia. I ricordi arrivano a passo di carica, con le bandiere al vento; la cavalleria leggera dei paragoni si dispiega in un magnifico galoppo; i pezzi della logica accorrono coi loro traini ed i loro cartocci di polvere; i motti di spirito aprono il fuoco di fucileria; i personaggi si muovono, la carta si copre d’inchiostro chè il combattimento incomincia e finisce con torrenti d’acqua nera, come la battaglia con la sua polvere nera».

  A misura che scriveva, gettava, ogni foglio riempito dietro di sé, a, terra, senza neppur rileggerlo o numerarlo. A mezzodì, quando il suo domestico gli recava la colazione, avveniva la raccolta degli innumerevoli fogli sparsi che venivano subito portati alla tipografia. E là cominciava il martirio dei compositori. Il manoscritto d’ogni suo romanzo non era che una specie d: sunto, ch’egli poi. via via sviluppava sulle bozze stampate, ogni volta che queste gli ritornavano dalla tipografia. Quelle bozze, verace spavento dei compositori, rimasero celebri per tutte le aggiunte di cui le caricava l’autore in alto, in basso, ai margini, incollandovi speso altri fogli, densi d’una scrittura da far imbestialire un crittografo consumato.

  Quanto amava il caffè, tanto disprezzava il tabacco. E’ sua la frase: «Il tabacco infesta l’ordine sociale». Il the in vece teneva in buona opinione e il suo in particolar modo elogiava con quella cert’aria misteriosa e solenne che usava talvolta assumere. In occasioni speciali offriva a qualche privilegiato la bevanda ch’egli diceva aver in comune solamente con l’Imperatore della Cina. E ad un suo ospite, ch’egli un giorno «iniziava» piuttosto parsimoniosamente a una tazza del suo ... rarissimo the, disse: «Se sì beve tre volte di questo the dorato si perde un occhio; se se ne beve sei volte si diventa ciechi». Al che l’ospite che aveva dello spirito rispose: «Rischio un occhio ... ma datemene!». Così Il Lavoro d’Italia.

 

 

  Un esasperato amore di madre nel dramma della suocera assassina?, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 258, 29 Ottobre 1926, p. 3.

 

  Attraverso l’emozionante dibattito che si svolge al processo contro la vecchia avara che ha assassinato la nuora con un colpo di rivoltella, l’accusata, la signora Lefebvre, appare veramente come una figura uscita dalla fantasia di un romanziere. La sua durezza di cuore, l’avarizia spinta fino all’inverosimile, il carattere autoritario, l’esasperante metodicità hanno riportato alla memoria il carattere di taluni personaggi di Balzac e un giornale ha pensato di pubblicare in riassunto, quasi a commento del processo, il romanzo del grande scrittore in cui è dipinto il vizio dell'avarizia: e bisogna dire che la pubblicazione ha avuto successo.

 

 

  Che ne dice lei?, «al Cinema», Torino, Anno 5, N. 45, 7 Novembre 1926, p. 2.

 

  Juno. […]. Un solo amore è sempre pericoloso … e finisce o tosto o tardi in una amara delusione. Non dimenticatelo! Balzac disse che il matrimonio è la tomba dell’amore.

 

 

  Marginalia. Una prefazione di Balzac e il cinematografo, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXI, N. 47, 21 Novembre 1926, p. 4.

 

  Chi ha qualche pratica del mondo balzacchiano o conosce non soltanto i romanzi o i racconti più fumosi ma anche il vincolo che lega le diverse serie — scene della vita di provincia, della vita parigina, della vita privata, della vita politica, ecc. ecc. – coordinate nella mente dell’autore a rappresentarvi la gigantesca Commedia umana, è indotto a gustare in modo affatto particolare i chiarimenti che Balzac stesso si è compiaciuto di dare intorno all’opera propria: uno specialmente col quale l’autore previene una facile obiezione che gli poteva esser mossa dai lettori. Romanzi e racconti non uscivano dalla sua fantasia con ordine cronologico; spesso accadeva che dei suoi personaggi si conoscessero le gesta della maturità e della vecchiezza quando ancora se ne ignoravano i primi anni e la gioventù. Prodigiosa facoltà del romanziere il quale aveva così netta nella mente la fisonomia e l'avventura dei suoi personaggi che poteva trattarli come figure reali della cronaca e coglierli, a suo piacimento, in quella o in questa fase della loro esistenza. Data la rigorosa precisione del metodo, egli stesso immaginò che si potesse un giorno o l’altro comporre una specie di indice biografico di questi suoi personaggi per aiutare il lettore a raccapezzarsi nell’«immenso labirinto». E si compiacque di darne un saggio a proposito di una delle sue creature: Rastignac (Eugenio Luigi) figlio maggiore del barone e della baronessa di Rastignac nato a Rastignac dipartimento della Charente nel 1799; arriva a Parigi nel 1819 vi segue il corso di legge, abita nella casa Vauquer, vi fa conoscenza con Giacomo Collin, detto Vautrin, e amicizia con Orazio Bianchon il celebre medico: ama la signora Delfina di Nucingen — quando è abbandonata dal De Marsay — figlia di tal Goriot antico negoziante, ecc. ecc.». È noto che un repertorio della «Commedia umana» fu redatto effettivamente a cura di due studiosi e costituisce un elemento prezioso per aggirarsi nel «labirinto». Ma interessante ricordare l’argomento di cui si valeva Balzac per combattere l’obiezione pur ragionevole del lettore. Questa inversione di tempi è comune anche nella vita, e qui con molto brio Balzac fa il caso della persona veduta e conosciuta in un salotto quando abbia già raggiunto un posto eminente in società, mentre se ne ignorano precedenti prossimi e remoti che ci verranno poi raccontati, magari a varie riprese. Ma insomma Balzac stesso non si dissimulava gli inconvenienti della cosa ed è curioso di osservare oggi che i suoi lettori si trovavano spesso nella condizione di uno spettatore di cinematografo che veda una «film» non secondo lordine delle parti ma cominciando dalle ultime per continuare con le prime. L’osservazione di Balzac torna benissimo anche per giustificare allo spettatore del cinematografo la invertita prospettiva cronologica alla quale ormai del resto ha finito con l’abituarsi.

 

 

  Fra riviste e giornali. Balzac e il cinematografo, «Minerva. Rivista delle Riviste. Periodico quindicinale», Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Anno XXXVI, N. 24, 16 Dicembre 1926, p. 959.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Raffaello Barbiera, Nella gloria e nell’ombra. Immagini e memorie dell’Ottocento. Milano, A. Mondadori, 1926.

 

Glorie e tempeste del Liszt a Milano, pp. 9-22.

 

  p. 12. Francesco Liszt non fu meno festeggiato del Balzac, quando il sommo romanziere della Commedia Umana venne a Milano.

 

Achille Torelli in casa del Manzoni, pp. 97-111.

 

  p. 108. La cecità la [Maria Teresa Sanseverino] colse nel tramonto della vita, come sua madre, la contessa Sanseverino, una dama coltissima, graziosissima, che aveva conosciuto il Balzac a Parigi, dove andò un bel giorno a trovarlo su in una soffitta, ricca d’ogni lusso e di rarità preziose da ricordare La peau de chagrin il racconto dello stesso Balzac, epicureo dell’immaginazione e della vita.

 

Memorie di Giuseppe Giusti, pp. 283-299.

 

  p. 296. Il Puttinati aveva improvvisato, o quasi, anche il ritratto di Balzac, con tanto di tunica fratesca come l’autore della Comédie humaine amava vestire per capriccio e per posa artistica.

 

 

  Maurice Barrès, La morte di Venezia. I giardini di Lombardia. Altre pagine sull’Italia. Traduzione di Decio Cinti, Milano, Edizioni Pervinca, 1926.

 

Fino a mezzodì, ne’ suoi quartieri poveri.

 

  p. 26. Michelangelo, Shakespeare, Beethoven, Balzac (ed io propendo ad aggiunger loro il Tintoretto) vogliono abbattere a colpi di fronti – fronti d’arieti sublimi come quella del Mosè cornuto, – le pareti che imprigionano l’intelligenza umana.

 

L’autunno a Parma.

 

  p. 159. Per chi possiede il segreto di far parlare le cose, Parigi, su cui è impresso il sigillo imperiale di Balzac, dà lezioni di volontà […].

 

Rappresentare sè stesso.

 

  p. 216. Si osservi in Santa Maria della Vittoria, a Roma, la celebre statua di Santa Teresa, del Bernini. E’ una gran dama languente d’amore. Pensare a ciò che volevano i secoli XVII e XVIII, e Stendhal e Balzac. Il pittore mette i suoi personaggi in un’azione nella quale essi potranno fornire esattamente quel tanto che esigiamo di confusione, di debolezza, per commuoverci e per sapere.



  A. G. Battaglia, La parola bugiarda, «L’Eloquenza siciliana. Rivista Meridionale mensile», Palermo, Anno IV, N. 9-10-11-12, Settembre-Dicembre 1926, pp. 253-259.

 

  pp. 258-259. Qual demone agitava incompostamente l’animo di Minoret-Levrault contro la povera Orsola Mirouet, che aveva spogliato di tutto un patrimonio, rubandone il testamento che la istuiva (sic) erede?

  La povera fanciulla saluta quella casa in cui era trascorsa la sua infanzia felice. quella stanza modesta in cui era cominciato il suo amore, e, rassegnata nella sua indigenza, con animo fermo affronta la vita. Il delitto è sconosciuto. E pure Minoret-Levrault sente divampare nel suo cuore un complesso cocente d’odio per Orsola Mirouet. «Spiegare — osserva Balzac — perché in un uomo di quella tempra la vista di Orsola, che neppure sospettava il furto commesso a suo danno diventasse così insopportabile; spiegare come lo spettacolo di quella serenità nella sventura gl' ispirasse il desiderio di allontanare dalla città quella giovinetta, e come questo desiderio prendesse i caratteri dell’odio e della passione, forse ci costringerebbe a fare un trattato di morale ...». Comunque nessuno avrebbe potuto intuire le fila di quella misteriosa selvaggia persecuzione che investe la povera Orsola, l’attanaglia nelle sue spire malefiche, la rende quasi demente e la spinge sull’orlo della tomba. Il buon curato le dice una volta: «Voi siete senza dubbio perseguitata da qualche malvagio». «E perché? — risponde la vittima — Nè Saviniano nè io abbiamo fatto male a nessuno: non lediamo alcuno interesse qui». Il male l’aveva fatto Minoret-Levrault, ed il primo delitto lo spingeva ciecamente ad altri delitti ed alla più iniqua calunnia, alleato a Goupil, uomo abbietto ed ingordo, capace di tutte le cattiverie e di tutte le bassezze.

 

 

  Marziano Bernardi, Veleni letterarii, «I Libri del giorno. Rassegna mensile internazionale», Milano, Anno IX, N. 9, Settembre 1926, pp. 464-466.

 

  [Su: René Benjamin, La prodigieuse vie d’Honoré de Balzac, Paris, Plon, 1926; Sainte-Beuve, Mes poisons, Plon, 1926].

 

  p. 464. […] e così è di oggi quella “straordinaria vita” di Balzac dove René Benjamin con troppa bravura ostentando qualità di scrittore abbondante si compiace di accumulare pagine turgide nelle quali lo scrittore della Commedia umana appare congestionato dallo sforzo di alzar sempre la voce: pittura monotona come quella del pittore che, dimentico dei chiaroscuri, insiste forsennatamente sul colore dominante ch’egli ritiene caratteristico e ambientale. […].

  pp. 465-466. [Su: Sainte-Beuve, Mes Poisons, Paris, Plon, 1926]. Certo non sa se sia gustosamente acre (quanti riflessi di verità, conveniamone, in questo atroce veleno!) o umanamente doloroso sentir definire Lamartine il primo dei ciarlatani politici e degli industriali letterari, Villemain il Tersite degli ingegni brillanti, Cousin un ciarlatano di talento, Saint-Marc Girardin anima spilorcia e sordida, Stendhal detestabile, George Sand “une Christine de Suède a l’estaminet” Balzac “un marchand à la toilette qui vend, rachète et— procure”, Michelet “nature de cuistre qui fait le pimpant”, Victor Hugo le plus grand tapageur pindarique qui ait esisté” […]. È un lezzo che sale dalle pagine, implacabilmente, e vi mozza il respiro; per dirla con le stesse parole scritte da Sainte-Beuve a proposito di Balzac, “maintenant qu’il n’y a plus de fleurs et qu’il n’en poussera plus, le fumier monte, monte toujours».

 

 

  Ferdinando Bernini, La bizzarra cronaca di Frate Salimbene, «Rivista d’Italia», Milano-Roma, Anno XXIX, Fasc. IV, 15 Aprile 1926, pp. 345-366.

 

  pp. 349-350. Ma giudicar Salimbene esaminando la sua filosofia e la sua politica sarebbe come giudicare la Commedia Umana dalla filosofia di Balzac.



  Guglielmo Bilancioni, Un grande allucinato dell’udito: Martin Lutero, Roma, Luigi Pozzi Editore, 1926 e, con il titolo di: I grandi allucinati dell’udito. I rumori auricolari di Martin Lutero in «L’Illustrazione medica italiana», Genova, Anno VIII, Num. 3, Marzo 1926, pp. 45-51; cit. p. 48.

 

  p. 36. Non visse più che questa idea, le parole stesse che le si riferiscono si dilatano quasi e si foggiano di continuo sotto quella che è per lui la realtà impellente e quotidiana. In altro campo, fa pensare a Balzac che incontrandosi con un amico, dopo aver parlato delle notizie cittadine, soggiunse: «Ora entriamo nel mondo reale, discorriamo di Nucingen» - un personaggio della Commedia umana. Per lui nulla esiste di più reale di quanto si agita nel suo interno. Che è mai la fredda verità registrata nella storia a confronto delle verità ardenti, dolorose e palpitanti che scaturiscono dalla mente di un poeta? Le più belle e più vive figure dell’antichità, non giunsero a noi che a traverso il pensiero di un uomo di genio, nelle cui opere vi sono fremiti e drammi e tragedie più vere di qualsiasi fatto documentato.


  

  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Confessione del Critico, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 136, 9 Giugno 1926, p. 3.

 

  [Su: Sainte-Beuve, Mes Poisons].

 

  Balzac è «immondo» (come Stendhal è «detestabile»). Balzac è «fumier»; Balzac sporca; Balzac pute; Balzac, colpevole di aver ripreso nel Lys dans la Vallée il tema della Volupté san-boviana, è il «gibier favori» del cacciatore Sainte-Beauve (sic).



  Antonio Bruers, Crisi intellettuale, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno IX, N. 7, Luglio 1926, pp. 143-144.

  p. 143. Orbene, da venti o trent’anni, salvo poche eccezioni la produzione libraria è quasi tutta del genere effimero.

  La poesia, da circa vent’anni come fa si tace, senza alcun segno di risurrezione. Quanto alla prosa quasi tutti i romanzieri ci regalano ogni anno per il periodo delle vacanze, un romanzo o un volume di novelle. Un romanzo all’anno, mentre Manzoni spese quindici anni di vita per il suo unico! E non si citi, ad esempio, la fecondità di Balzac. Innanzi tutto Balzac è Balzac, cioè un’eccezione che conferma la regola. E poi anche per l’autore della «Commedia umana» ne torneremo a discorrere, o amico lettore, fra un paio di secoli, per vedere che cosa sarà rimasto in vita della sua enorme produzione. D’altronde la fecondità degli autori non ci preoccupa se non nel senso che da essa non emerge qualche libro che ci sembri destinato a sopravvivere nei secoli.

 

 

  Raffaele Calzini, Il principe dei ghiottoni. Brillat-Savarin, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 34, 9 Febbraio 1926, p. 3.

 

  [La] Physiologie du goût [è] un breviario fondamentale della sensibilità moderna con L’amour di Stendhal e la Physiologie du mariage di Balzac. […].

  Intoniamo la marcia funebre ora che fu celebrato il centenario dalla morte del principe dei ghiottoni ed è cominciata la decadenza di un’arte fissata all’apice della fortuna: ai grandi banchettameli dei Re Luigi seguono subito la sobrietà fulminea del Bonaparte e la distratta ingordigia di Balzac.

 

 

  I Cambusieri, Spropositi, «La Fiera letteraria», Milano, Anno II, N. 3, 17 Gennaio 1926, p. 2.

 

 «Sono le undici – ripetè il personaggio muto». 

Balzac (Béatrix).

 

 

  I Cambusieri, Spropositi, «La Fiera letteraria», Milano, Anno , N. 6, Febbraio 1926, p. 2.

 

 «Non ci vedo più chiaro – disse la vecchia cieca». 

Balzac (Béatrix).

 

 

  Rodolfo Cazzaniga, Un amore sfortunato di Balzac, «La Basilicata. Politico Quotidiano di Potenza», Potenza, Anno VIII, N. 16, 19 Gennaio 1926, p. 3.

 

  Quando, il 28 febbraio 1832, ricevette da la marchesa de Castries l’invito a recarsi in casa sua — Rue du Bac — Honoré de Balzac era già noto, in Francia e fuori, come scrittore di «piacevoli romanzi», ma era sempre un ingenuo ragazzone specialmente per ciò che si riferiva alle «battaglie d’amore» cui egli non aveva combattuto ancora. Peciò (sic), la speanza (sic) di una straordinaria avventura galante ebbe il potere di accendergli, compiutamente, il cuore.

  Madame de Castries, egli lo sapeva, era una gran dama, bellissima, che — divisa dal marito — aveva libato l’amore a mille coppe, ultima quella offertale dal principe Vittorio Mettenrich ... che poteva desiderare di più un povero scrittore, anche se aveva dato alle stampe qualche cosa come la «Peau de chagrin?».

  Indossò una redingote nuova, verde Louviers, e un panciotto di «cachemire», ordinò una vettura, e si fece condurre in Rue du Bac pensando che una alleanza fra il Faubourg Saint-Germain e Honoré de Balzac sarebbe stato un ... colpo da maestro; si trattava di due forze che avevano gisogno (sic) l’una dell’altra, e la cui unione avrebbe dato chi sa quali frutti ...

  Giunto al palazzo, fu introdotto in un elegantissimo «boudoir», dove la marchesa lo aspettava in compagnia di un signore dai lunghi favoriti. Egli s’inchinò e la marchesa gli sorrise.

  — Sono tanto lieta di vedervi, signor de Balzac. Cattiva giornata, però: mi trovate sofferente.

  – Signora, non chiamate medici e guarirete subito.

  La gentildonna, allora, si rivolse all’uomo dai favoriti e sospirò: — Avete sentito, dottore?

  E quegli, alzandosi: — I miei omaggi, marchesa. A domani.

  E se n’andò, senza degnar d'uno sguardo lo scrittore che, confuso, balbettò: — E’ uno scherzo, uno scherzo innocente — stizzito con se stesso poiché aveva commosso, presentandosi appena, una «gaffe» che non poteva perdonarsi. Ma la de Castries lo persuase che egli non doveva preoccuparsi affatto: gli parlò dei suoi libri che tutti conosceva (sic); volle che le dicesse del suo lavoro, delle sue speranze; si confessò gelosa di ciò che altre dame — ad esempio la marchesa di Bourdonnaye — prima di lei l'aveva ricevuto ne’ loro salotti.

  Sarebbe bastato anche meno per entusiasmare l’esuberante Balzac il quale, mentre parlava senza fermarsi un istante, la divorava con gli occhi e già si sentiva navigare attraverso un mare di rosee speranze. Era l’amante deliziosa, l’amante nobile, l’amante classica, che gli prometteva un avvenire di dolcezze infinite!

  E quando ella lo congedò, invitandolo però a tornare a palazzo tra pochi giorni, egli se ne andò felice, benedicendo Iddio che l’aveva fatto scrittore tale da destare l’ammirazione della — per lui — più eletta fra le donne dell’aristocrazia parigina.

 

•••

 

  Più volte, il grande ed ingenuo Honoré tornò in Rue du Bac; finché una sera non potendo più oltre contenere la passione che lo torturava, cadde ai piedi della marchesa e le dichiarò il suo amore.

  Ella parve, un poco, sorpresa e turbata; con acconce parole volle calmarlo, quindi fattolo sedere vicino a sé disse sorridendo:

  — Poiché provate tanto affetto per me, accettereste, per farmi piacere ...

  – Tutto, marchesa! — scattò Balzac.

   Aspettate. Accettereste di scrivere nel «Rinnovatore», cui dirige un amico mio carissimo, un articolo in favore della duchessa de Berry?

  Egli non esitò: – Sono ai vostri ordini!

  Scrivere sul «Rinnovatore», foglio legittimista, significava prendere vigorosamente partito; ora per uno scrittore che aspirava a toccare le vette della gloria con un’opera di alta osservazione imparziale, il risolversi ad un tale atto – che potrà, vita natural durante, essergli rimproverato da una parte de’ suoi lettori – significa rinunziare a tante e tante cose. Ma Balzac era come ebbro e, pur di stringere la sognata alleanza col Faubourg Saint-Germain, si sentiva disposto a dire e a scrivere tutto il male possibile del governo di Luigi Filippo, re senza regalità cui egli sentiva di non dovere rispetto alcuno.

  Per Madame de Castries e per la folle passione che gli ispirava, l’autore della «Donna di trent’anni» diventò dunque legittimista; per lei, volle essere un perfetto gentiluomo, e comperò cavalli e carrozze e ordinò abiti e abiti al suo buon sarto Buisson, il quale era beato quando poteva servire il romanziere in cui vedeva – chiaroveggente più di certi critici, egli, lavoratore delle cesoie e dell’ago – una futura gloria della letteratura francese e non si preoccupava se aumentavano quei conti che Balzac non si sarebbe mai deciso a pagare.

  Balzac, intanto, s’infiammava sempre più. Ormai, per lui, una sola persona esisteva al mondo cui valesse la pena di dedicarsi; le altre erano … cose trascurabili!: tutte, Madame de Berny – la tenera amica di tanti anni – compresa.

  Egli pensava e agiva come un innamorato, preoccupato unicamente di vedere, a ogni ora, la donna de’ suoi sogni. Tutti i giorni, nel pomeriggio, era vicino a lei ad ammirarla, a dirle il fuoco che lo rodeva, a proporle mille abboccamenti cui ella non accettava mai. Alla sera, l’accompagnava al teatro, mettendosi in bella mostra al suo fianco ne’ palchi di prima fila, quindi, la riconduceva a casa e, durante la lunga corsa in vettura, quante cose insensate le diceva, quanti baci le rubava serrandola contro il suo petto robusto, quanti peccati di desiderio commetteva, mentre ella – sempre vigile a malgrado del … rapimento in braccio al quale pareva cadesse – lo lasciava fare, pronta però a riprendersi, a balzare dalla carrozza quando giungevano al palazzo, a dirgli, con voce dolce ma calmissima, mentre egli si allontanava nella notte:

  – Arrivederci, signor de Balzac.

  Il signor de Balzac soffriva invece, domandandosi di continuo se ella fosse un angelo di bontà o non, piuttosto, un mostro di vizio e di perfidia che, burlandosi di lui, sodisfacesse alle proprie inconfessabili, e forse turpi, brame! Perché lo accendeva così, per poi negarsi sempre? perché se non l'amava, continuatamente gli permetteva di varcare la porta della sua casa non solo, ma anche di esibirsi al suo fianco in faccia al mondo?

  Una ragione, e grave, c’era; e il romanziere parve indovinarla una volta: ma fu il barlume d’un attimo, spento il quale, egli quel giorno, nel salotto della enigmatica ammaliatrice, vide che un alto prelato era con lei.

  — Oh, Balzac — ella esclamò — Monsignore e io vi aspettavamo, per sentirvi sostenere la necessità di rendere alla Chiesa il suo antico splendore. La Francia deve — non è vero? - ristabilire il banco dei vescovi alla Camera del Pari.

  I due volevano farlo cedere; capì che miravano a strappargli qualche dichiarazione che l'avrebbe irrimediabilmente, compromesso. Balbettò una riposta insignificante e, quando il prelato fu partito, si scagliò contro la signora rimproverandola dicendole che — ben conoscendo il suo pensiero a proposito dei preti e della Chiesa — ella «doveva avere un cuore di criminale» per condannarlo, alla leggera, a una simile tortura. E la marchesa, imperturbabile: «Voi sapete che la religione è intimamente legata alla proprietà. Quando si è nobili, caro mio, bisogna subire il peso della nobiltà. E voi siete nobile, poiché firmate «Honoré de Balzac» dall’età di ventisette anni, e non avete dimenticato il vostro «de» che una volta, quando avete aperto una tipografia ...».

  Ella non ignorava di colpirlo profondamente, ricordandogli uno fra i più tristi, e forse il più disastroso periodo della sua vita: quello in cui aveva creduto di potersi dedicare agli affari, andando incontro a un fallimento clamorosissimo, dalle conseguenze del quale soltanto l’intervento di un ricco parente l'aveva salvato.

  Balzac, fu lì lì per saltarle al collo e strozzarla, ma si contenne; pianse, le chiese perdono (di chè?), le ripetè che l'amava furiosamente. E perse l’occasione per sapere come la de Castries e i suoi amici del partito legittimista non mirassero ad altro che a legarlo al loro carro, per avere a disposizione una penna famosa che sostenesse e difendesse le loro ragioni.

  Quanto sofferse ancora, povero uomo!

  Dopo alcuni giorni di calma relativa e di lavoro accanito in campagna, presso i buoni amici Carraud, egli corse a raggiungere la malaria ad Aix-les-Bains desideroso di farle leggere il «Louis Lambert» che aveva finito di scrivere, e più desideroso ancora di tentare l’assalto della fortezza che non gli appariva inespugnabile.

  Inutile attacco: la marchesa resisteva, ora più che mai, poiché sentiva che nulla di più di quel che già avevano ottenuto i legittimisti potevano sperare da Balzac, il quale poteva essere tutto fuorché il «pamphlétaire» che essi avrebbero voluto.

  Nove scenate; il leone si ribellava, ruggiva, ma la perfida femmina noi, piegava alle sue voglie.

  Decise di abbandonarla al destino, ma un invito della de Castries lo trattenne: il giorno dopo, partiva con lei e col cognato suo, per Ginevra, donde avrebbero prose­guito per l’Italia.

  L’amore, durante il viaggio, si riaccese più violento.

  Sostarono in un albergo. Uscito il cognato di lei per una passeggiata, Balzac volle conquistare di forza la gentildonna. Ella lo respinse, disse che le leggi, la religione, le impedivano di diventare la sua amante, ma egli, fuori di sé, la investi gridando: — Voi non potete invocare le leggi e la religione; avete trasgredito alle prime e presa a gabbo la seconda, poiché già vi siete concessa, siete stata l'amante del principe di Metternich».

  — Basta! — strillò la donna— Basta!

  Ma egli continuò a inveire e, finalmente afferrata la sua valigia, si precipitò in istrada, andò in cerca della diligenza per Digione e partì senza più rivederla, ma­ledicendo a lei e al suo destino.

 

***

 

  Così si chiuse la poco lieta avventura di Honoré de Balzac con la marchesa de Castries; così fallirono le … trattative per l’alleanza fra il grande romanziere e il Faubourg Saint- Germain.

  Ma la passione dello scrittore per la bella ingannatrice durò ancora. Le sue fiamme, per molto tempo, gli arsero il cuore che soffriva crudamente. Finché non si spensero un giorno, definitivamente, ed egli dimenticò. E nell’oblio — che sana anche le piaghe più orribili — rinacque a vita nuova.



  Civis Barensis, L’edilizia sempre all’ordine del giorno, «La Gazzetta di Puglia. Corriere delle Puglie», Bari, Anno XL, Num. 311, 31 Dicembre 1926, p. 4. 

  Onorato De Balzac, come è noto, ha detto peste dei giornalisti e de’ giornali al punto di asserire che nel giornalismo i caratteri perdon la vigoria. L’anima si affievolisce, lo stimolo de’ nobili pensieri si spunta, gli ingegni si inebetiscono, ecc. ecc. Birsmarck (sic) chiamava il giornalista, senz’altro, uno ... spostato. Ma. Onorato De Balzac è stato un ... giornalista e Birsmarck appellava apostati i giornalisti di ... opposizione ed esaltava i propri, servendosi spesso del giornale per la sua ferrea politica, come Napoleone, che, come è risaputo, pur dispregiando i giornalisti, non sdegnava ... scrivere e con assiduità articoli sui suoi giornali.


  Lucio D’Ambra, La rinascita del “Film” italiano, «Rivista d’Italia e d’America. Rassegna mensile illustrata di vita, cultura ed economia americana e italiana», Roma, Anno IV, Num. XI, Novembre 1926, pp. 40-42.

 

  p. 40. Come i grandi romanzi che si scrivevano una volta, cioè quando ancora i romanzieri vedevano con occhio di bove l’umanità e non contemplavano col microscopio le vibrazioni del loro ombelico spirituale, come tutt’i grandi romanzi del gran periodo romantico, anche il romanzo della cinematografia italiana ha un formidabile protagonista centrale. Non è certamente Vautrin o Goriot, papà Grandet o Cesare Birotteau. Ma è, senza dubbio, una grande figura. Ha nome Stefano Pittaluga. È genovese.

 

 

  A.[rturo] Farinelli, Memorie. Il romanticismo e la musica, «Rivista Musicale Italiana», Torino, Fratelli Bocca Editori, Anno XXXIII, Fasc. 2°, Giugno 1926, pp. 161-180.

 

  p. 170. Corinna, Consuelo, Gambara, eroine ed eroi che esercitano l’arte trasfiguratrice d’ogni umana miseria e sciagura e svelano coi divini accenti le verità profonde e dànno al cuore le vibrazioni più dolci ed intime! Gambara, il virtuoso musicista, a cui il Balzac dava vita, commovente e bizzarra figura, degna della fantasia dell’Hoffmann, quando s’immerge nell’arte sua è come seduto alle porte del Paradiso: e intorno gli fluttuano, mosse dai soavi accenti, le immagini di sogno. «Grazie a voi vengo ad abitare il bel paese dei sogni, ove i nostri sensi si allargano e l’universo si distende c rivela proporzioni gigantesche».

 

 

  Antonio Fradeletto, Emilio Zola I., «La Lettura. Rivista mensile del “Corriere della Sera”», Milano, Anno XXVI, N. 10, 1° Ottobre 1926, pp. 721-732.

 

  p. 729. Rileggendo Balzac, egli esclama: «Il écrase tout le siècle». «Victor Hugo et les autres» pour moi «s’effacent devant lui». […].

  Mosso da quell’istinto del grandioso e del «ciclico» […], stimolato dall’esempio de La Comédie humaine del Balzac, lo Zola aspirava a dipingere una serie collegata di grandi affreschi della vita contemporanea.

 

 

  Antonio Fradeletto, Emilio Zola II., «La Lettura. Rivista mensile del “Corriere della Sera”», Milano, Anno XXVI, N. 11, 1° Novembre 1926, pp. 815-829.

 

  p. 815. I romantici si erano particolarmente compiaciuti nella rievocazione del passato, perché questo, con lo sfoggio del colore, col gusto decorativo, con la varietà del costume rispecchiante la gerarchia delle caste e degli uffici, appagava il loro amore del pittoresco, di fronte al quale scialbe e antiestetiche dovevano apparire le sembianze della vita nostra. Chi prese a considerare queste sembianze sott’altra e più intima luce, fu il Balzac. Pensando giustamente che noi lasciamo sempre qualche impronta sulle cose circostanti e qualche impronta ne riteniamo, egli diede alla descrizione degli ambienti moderni significato e interesse umano; e talvolta trascorse nelle minuzie dell’inventario, riuscì più spesso ad eccitare la nostra sensibilità solo col descriverci, che so, una stanzaccia, un modesto salotto, una bottega, un cortile, un andito buio. Senonchè nel Balzac, il quale ritraeva la nostra società nel periodo della sua formazione, quest’interesse umano si restringe quasi sempre ai luoghi abitati da un individuo, da una famiglia, da un piccolo gruppo, mentre nello Zola, che ce la ritrae quale fi regime economico della macchina e il regime politico e sociale della democrazia l’hanno ormai plasmata, l’interesse si allarga ai vasti campi e alle vaste orme della collettività.

  p. 824. Le due commedie [Les héritiers Rabourdin; Le Bouton de rose], o meglio farse, inspirate l’una dal Volpone di Ben Johnson, l’altra da uno dei Contes drôlatiques del Balzac, sono ingenue, qua e là un poco goffe, e insistono prolissamente sulle identiche situazioni. […].

  Lo Zola formulava l’augurio che un grande scrittore drammatico sapesse emulare l’opera magnifica compiuta nel romanzo del Balzac. Quest’augurio non s'avverò; ma la sua propaganda ebbe una ripercussione benefica sul gusto, contribuì ad un parziale rinnovamento della scena, inspirò alcune opere ammirevoli per senso aspro o accorato d’umanità.

  p. 828. Meglio, assai meglio, che l’autore dei Rougon-Macquart, se pur non voleva condividere l’atteggiamento ironico e sdegnoso di Alphonse Daudet, si fosse serenamente astenuto dal battere alle porte dei presunti immortali, accontentandosi di rimanere nella compagnia di quei reietti dall’Olimpo accademico che furono il Molière, il Balzac e il Flaubert.

  p. 829. In questo gruppo, un grado al di sotto dell’autore della «Comédie humaine», sta il romanziere dei Rougon-Macquart.

 

 

  G. G., Rassegna bibliografica. Charles Léger,Eve de Balzac” […], «Nuova Antologia. Rivista di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Soc. Nuova Antologia; Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli, Settima Serie, Volume CCXLVII – Della Raccolta CCCXXV, Fascicolo 1299, 1° Maggio 1926, pp. 109-110.

 

  p. 109. Si prova una certa amarezza nel vedere esattamente documentate le vicende dell’amore di Balzac per la giovane sposa di Venceslao Hanski, la deliziosa «Etrangère» ammantata di poesia, amore terminato nel 1850 col tragico matrimonio, celebrato quando il poeta era quasi moribondo. L’autore, come un chirurgo inflessibile, mette a nudo tutte le piaghe del povero Balzac deluso nelle sue più belle speranze.

  «Et l’on parle du premier amour! Je ne connais rien de terrible comme le dernier: il est strangulatoire!». È un libro che, nonostante l’esattezza della documentazione e la profondità delle ricerche (o forse appunto per queste qualità?) lascia la bocca amara.

 

 

  G. G., Rassegna bibliografica. René Benjamin, «La vie prodigieuse d’Honoré de Balzac» […], «Nuova Antologia. Rivista di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Soc. Nuova Antologia; Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli, Settima Serie, Volume CCXLVII – Della Raccolta CCCXXV, Fascicolo 1306, 16 Agosto 1926, p. 498.

 

  In tanta febbre di ricerche documentate e di citazioni di fonti, vi sono ancora degli autori che si prefiggono di far rivivere le grandi figure della storia e della letteratura, come fossero personaggi viventi, o — diciamolo pure — eroi da romanzo.

  La vita di Balzac, quale la racconta il Benjamin, ci appassiona e ci fa seguire a cuore sospeso le vicende sempre varie occorse a quella natura turbolenta e vulcanica che fu Honoré de Balzac. Noi non lo vediamo quale un eroe, troneggiante nelle nuvole, al disopra dei miseri mortali; possiamo anzi sorridere delle sue debolezze, come ne sorride, non senza una punta di commiserazione, l'aristocratica M.me Hanska. la divina Etrangère, che interrompe gli entusiasmi lirici del suo amico, per fargli osservare che non è di buon genere mettere in bocca un coltello, o arresta freddamente i suoi sproloquii sulla nobiltà, facendogli notare che l’aristocrazia vera non parla mai delle proprie origini! Povero Balzac! E dire che, fino ai suoi ultimi giorni, l’idea d'imparentarsi con il ... sangue bleu lo faceva delirare di gioia! V’è tutto il Balzac uomo nel libro del Benjamin: non v'è però tutto il Balzac artista. […].

 

 

  Vito G. Galati, Profili. A. G. Cagna, «L’Italia che Scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, A. F. Formíggini Editore, Anno IX, N. 4, Aprile 1926, p. 69.

 

  La vita per lui non è eroica; gli eroi son morti con i poeti; e, al contrario di Balzac, che fa dell’eroismo, o del carattere, il fondo dell’anima umana e l’energia della storia, egli non può scolpire personaggi che emergano dalla corrente comune. Ci si domanda, per ciò, che arte è codesta, se non crea dei caratteri scolpendo figure, ma disegna delle silhouettes, che si disperdono come ombre fuggevoli, inghiottite dalla notte. Eppure Balzac, il maestro del Cagna, risorge alla nostra mente, più che nei Contes drolatiques, in Eugénie Grandet. Perché mai se in questi romanzi manca l’eroina di Saumur e l’avaro tonnelier, che parla «sur quatre tons dramatiques», e i personaggi innumerevoli che li popolano sono più tosto della categoria dei Grassins e dei Cruchot?

  Egli è che A. G. Cagna, di Honoré de Balzac non può nè pure imitare qualcuna delle potenti eroine della sua «comedia umana», che s’incontrano, più spesso, «au fond des provinces», la cui esistenza, calma alla superficie, racchiude secretamente passioni tumultuose e travolgenti; perché la creatura viva, dalle malinconie sorridenti tra le lacrime, e dalle improvvise risate torrenziali, ch’egli ama, e a torno a cui lavora appassionatamente il suo spirito di artista, non è l’uomo, ma la provincia col suo eroe scarabattolo: il provinciale.



  Vincenzo Gerace, La disciplina dello stile (Giornale d’Italia, 17 marzo 1925), «Le Fonti. Rivista mensile di letteratura e d’arte», Roma, Anno VIII, Fasc. X-XII, 1926, pp. 202-204.

 

  Al contrario, vi sono opere alle quali, in coscienza, noi non possiamo negare un effetto d’arte anche singolarissimo e anche potentissimo e che tuttavia, o in parte o in tutto, non finiscono di piacerci; non hanno facoltà di guadagnarsi intero il nostro spirituale consenso; ci urtano, ci respingono: onde siamo soliti di esclamare a loro riguardo: «quest'arte non ha stile!».

  Balzac, per un esempio, ci induce di solito in questa precisa esclamazione; Flaubert, nella esclamazione contraria. Un romanzo di Balzac ci fa l’impressione d’una materia grezza e viva, ma tumultuante e caotica, che ancora non abbia avuta una sua forma definitiva. Si direbbe che l’attenda da noi, questa forma; dalla nostra fantasia, a lettura compiuta. Nell’atto di leggere, quella prolissità verbosa di notazioni ambientali e psicologiche accavallate, quel dialogo improprio e spesso stonato e voluminoso ci fastidiscono. Ma a distanza di tempo dalla lettura, se mai ci avvenga di rammemorare le vicende di quei suoi personaggi, questi nella nostra fantasia, con nostro stupore, giganteggiano. [...].

  Ora, a parte qualsiasi altra considerazione di valore che possa nascere da impressioni così fatte; a parte, cioè, se sia meglio o peggio per l’intima forza di un’opera d'arte ch’essa richieda o non richieda la nostra collaborazione fantastica, durante o dopo la lettura, che è altro problema, del quale qui non si tocca; certo è a ogni modo che dell’uno, del Flaubert, noi diciamo che ha stile e del Balzac diciamo che non ha stile. E intendiamo la parola «stile» non nel senso di «personalità», non nel senso, cioè, che l’uno abbia e l’altro non abbia personalità; che sarebbe erroneo, essendo la personalità dell’uno e dell’altro artista eminentissima; ma proprio nel senso che l’arte dell’uno sia perfetta o compiuta e l’arte dell’altro imperfetta o incompiuta. [...].

  Ma lo stile che ammiriamo in Flaubert è intimo, non estrinseco; non è qualche cosa di aggiunto alla sua arte, anzi è tutta la sua arte. Tuttavia, ecco il problema che risorge: se è senza stile l’arte di Balzac, che pure a suo modo è arte; dunque lo stile è qualche cosa che può esserci e può non esserci? [...].

  Infatti Flaubert si era disciplinato all’arte mediante uno studio appassionato dei classici, e cioè, di tutte le capitali esperienze estetiche dell’umanità; e Balzac li aveva appena sfiorati con indifferenza o, forse, con appena una curiosità da dilettante. L’uno è perfetto e l’altro è informe. L’uno ha stile e l’altro non ha stile.



 Cesare Giardini, Onorato Balzac, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno 184, N. 351, 17 Dicembre 1926, pag. III.

 

 René Benjamin ha scritto una bella vita di Onorato Balzac (1). Si tratta d’una biografia che si legge come «La peau de chagrin» o «La Cousine Bette». Anzi, con più diletto, se è lecito dirlo, perché un romanzo balzacchiano lascia spesso scontenti, col desiderio di sapere che cosa avverrà dei personaggi seguiti pagina per pagina, i quali sono sempre così vivi che non basta chiudere il libro per abolirli e per dimenticarli. Balzac ha sentito pel primo la qualità dei suoi figli letterari, la cui vita non s’esaurisce in un volume, e ha dato loro modo di vivere in un quadro più ampio, ha fatto della sua opera un’opera ciclica, una delle poche opere cicliche – insieme con quella prodigiosa anch’essa, di Alessandro Dumas padre, che dia un senso di pienezza, di compattezza e di necessità assoluta in ogni sua parte. L’opera di Dumas (poiché ho accennato a lui) è rettilinea. Quella di Balzac è tutta fatta invece di incontri e di spezzamenti, costruita a vari piani. L’una si svolge in superficie, l’altra in profondità. Un qualsiasi volume staccato dalla prima può vivere per sé e di sé e appagare il lettore. Un romanzo di Balzac non dà invece che un aspetto del mondo balzacchiano, si sente che dietro questo aspetto altri ve ne sono ch’è imprescindibile conoscere per giungere a comprendere il creatore e la sua opera. Un romanzo di Balzac è corso in tutti i sensi da linee diagonali incrociantesi nei più bizzarri modi, binari su cui corrono vicende secondarie rispetto a quella su cui il romanzo è impostato, ma che preparano, fatalmente, altri libri.

 Una vita di Balzac, invece, ha questo vantaggio: che dà una specie di quadro sintetico dell’opera balzacchiana, inquantochè quest’opera è intimamente legata alla vita del suo autore, il quale è di quelli che vivono per scrivere.

 Pochi autori rivelano tanto facilmente quanto Balzac i loro segreti di laboratorio, quello che Cocteau chiama il segreto professionale. Quel fenomeno per sempre misterioso per cui un’opera nasce nel cervello dell’artista, dapprima embrionale, e s concreta poi in opera particolare, sino a giungere alla sua forma ultima, che il pubblico conoscerà; quel lavoro intimo e geloso su cui gettano appena qualche sprazzo di luce le note di diario, gli appunti, gli epistolari degli scrittori (vedete, soprattutto, quello di Flaubert) pare non esistere per Balzac, per questo gagliardo costruttore, che diceva di voler far concorrenza allo stato civile.

 Balzac lavora all’aria aperta, in mezzo alla piazza. «Prego osservare signori! Né trucchi, né doppiofondi!». Balzac non conosce distanza, tra il pensiero e la sua attuazione. Appena un’idea gli balena nel cervello che comunica ad altri. Non ha paura d’essere derubato. Anzitutto idee egli ne ha sin troppe: trovarsene, a conti fatti, una di più o una di meno, per lui, gran signore, non ha importanza. In secondo luogo è convinto, giustamente, che nessuno riuscirà a realizzare con una perfezione e una rapidità pari alle sue. Per questo, egli ama esporre trame di romanzi, piani e dettagli e disegni d’opere agli amici e ai parenti, spesso anche agli sconosciuti. E’, forse, questo un modo per dare una prima concretizzazione, una prima obbiettivazione alle sue fantasie. Ma i suoi piani, i suoi disegni sono, anche in queste prime esposizioni, fissati in una linea pressochè definitiva. Non muteranno quando egli si troverà dinnanzi al foglio bianco che Mallarmé, vero spirito pavido di decadente, temeva tanto. La tortura cui sottoporrà le bozze di stamperie, aggiungendo pezzi di carta ai margini, verso i quali diramerà tutto un sistema complicato di linee, di richiami, di segnali, ragnatela del genio, nelle mani della quale il povero proto stenterà ad orientarsi, non avrà altro scopo che di aggiungere particolari, di sviluppare situazioni, rami e foglie su un tronco scabro: ma il tronco resterà quale è stato.

 Quando l’idea della Commedia umana gli si presenta alla mente, il primo pensiero di Balzac è di correre dalla sorella, che vive col marito e le figlie una mediocre vita borghese. La sua entrata in quella pacifica casa, prossima l’ora del pranzo, mette tutto a soqquadro. Stupore e confusione sono i sentimenti dei congiunti dinnanzi alla gioia dilagante, rumorosa del creatore che crede di aver trovato la sua strada. Ma egli vuole l’ammirazione: – Non vedete – grida – che sto per avere del genio? – Ed eccolo lanciato sulla via delle confidenze, se confidenze si possono chiamare le sue. Eccolo spiegare il suo piano con quella foga che egli solo possiede, che è uno dei suoi fascini irresistibili: «Io farò il quadro fisico, psicologico, fisiologico, metafisico della nostra società» ed espone: «Prima parte: Studi di costume. Rappresenteranno tutti gli sforzi sociali, tutti. Nessuna situazione della vita, nessun carattere, nessuna professione, nessuna classe sociale, nessun paesaggio francese sarà dimenticato. Ecco la base! Seconda parte: studi filosofici. Dopo gli effetti, le cause. Io dirò la ragione dei sentimenti. Dopo avere percorso la società per descriverla, la percorrerò per giudicarla. Finalmente gli studi analitici. Stabiliti gli effetti e le cause, bisogna cercare i principi. I costumi sono lo spettacolo, le cause sono le quinte e i meccanismi, i principi sono l’autore».

 Su queste basi Balzac ha realizzato un’opera enorme. Enorme per la mole ed enorme per il contenuto. Ma la sua forza sta in questo: che mentre egli credeva di agire a posteriori, di copiare, cioè, la vita, egli arriva invece a priori a creare la vita. Balzac non ricerca il documento umano, non indaga la realtà, come più tardi Zola (autore, anch’egli, di un’opera ciclica, ma fallita), ma trae dal suo spirito una realtà umana eterna e superiore sulla quale la piccola realtà quotidiana si modellerà. Egli può dire a un amico merciaio: - La merceria non sarà mai nulla se io non mi decido un giorno a dipingere un merciaio. – Giusto orgoglio! Giusto anche quando a un letteratucolo ch’egli aveva beffato e che voleva sfidarlo, rispondeva: - Bambino! Forse che ci si batteva con Napoleone?

 Io ho voluto e voglio bene a Balzac: c’è ancora qualche libro suo che non conosco e lo tengo in serbo come una scusa per guadagnare qualche giorno di vita allorchè T[h]anatos si ricorderà di me. Ma la maggior parte della sua opera l’ho letta tra i quindici e i diciott’anni. E’ l’età buona; passata questa è difficile che un uomo s’accinga a leggere Balzac, a meno che non giunga agli ottant’anni e goda d’una serena e vegeta vecchiezza. L’opera di Balzac va bene tanto come prologo quanto come conclusione della vita. Nel primo caso serve di iniziazione, nel secondo di commento. Dirò che è igienica in ambedue i casi: essa toglie ogni illusione, ma lascia qualche speranza al giovane; il vegliardo vi trova invece l’assicurazione che la vita da cui sta per dipartirsi non vale gran che ma che v’è un premio oltre la morte. Quest’opera pessimistica è scritta da un ottimista: ecco il suo secreto. E ottimista Balzac lo fu sino alla fine.

 C’è nel libro del Benjamin una frase rivelatrice: «L’anno 35 fu dei più penosi. L’anno 36 terribile. Egli (Balzac) s’era cacciato in un ciclo di lavoro così infernale, che non poteva più se non consumarvisi senza riposo. Ed è quello che egli cominciò a fare, con la coscienza di quel che faceva, alla quale s’aggiungeva una nuova voluttà, quella di accrescere la sua pena di galeotto con lo splendore del sacrificio, poiché egli sentiva che s’uccideva».

 Vita eroica, dunque, allietata da tre speranze: la ricchezza, che non venne mai, il matrimonio con la donna che amava, che ebbe luogo pochi mesi prima della morte, la gloria che l’accompagnò durante la vita, ma avvelenata di invidie, di rancori, di incomprensioni e non splendette intera che lui scomparso.

 Di questa vita il Benjamin ha visto il romanzo e ci ha dato un Balzac vivo, acceso d’un ardore che persiste in lui sino a poche ore prima della morte, appassionato pel suo lavoro, convinto del suo genio, tutto preso dalla sua missione, amante sovrabbondante di vita, bellissimo in ogni suo atto, insomma, eroico.

 Il procedimento del Benjamin, anche se contraddice ai severi metodi della critica storica, mi piace, perché mi dà un Balzac in funzione d’uomo, anziché un manichino letterario avvolto nei documenti ingialliti come una mummia nelle sue bende. E’ certo che a molti l’arbitrio di taluni dialoghi, di talune scene cui nessuno ha assistito, e che pertanto nascono dalla fantasia dello scrittore, non andrà a genio. Ma il Benjamin – volendo scrivere il romanzo della vita d’Onorato Balzac, volendo dare un’opera organica e antierudita, volendo, infine, ricreare il suo eroe nell’esistenza quotidiana, col suo sogno quale dovette essere, con le sue illusioni di ricchezza, con le sue bontà ingenue, con i suoi slanci d’amore e le sue esplosioni d’odio – s’è trovato a dover drammatizzare e riscaldare il gelido e arido materiale storico. E a ogni pagina si deve essere chiesto: – Come avrebbe agito, come avrebbe parlato Balzac in questa occasione? Il suo amore, la sua comprensione del soggetto lo hanno aiutato, cosicchè egli ha scritto su Balzac un libro balzacchiano. E non è dir poco.

 

 (1) Le roman des grandes existences. La prodigieuse vie de Balzac, par René Benjamin. – Librairie Plon, Paris. 10 frs.

 

 

  Ettore Lo Gatto, Dostojevskji nei suoi primi racconti (Note per una caratteristica), «Rivista di letterature slave», Roma, Anno I, Fasc. III-IV, Dicembre 1926, pp. 414-436.

 

  p. 418. In realtà quando scrisse Povera gente Dostojevskij non aveva subito ancora quelle influenze di carattere sociale e politico che, come vedremo, subì subito dopo, e le influenze nel suo spirito erano state sopratutto di carattere letterario. Eppure anche in queste si può trovare l’inizio delle idee, di cui Povera gente fu l’espressione prima. Del valore letterario delle influenze di Povera gente come opera d’arte non ci occupiamo ora; qui ci preme notare il contenuto proprio sociale di alcune di queste influenze letterarie: tra gli altri preferiti erano anche Victor Hugo, Balzac e George Sand. Di Balzac scriveva per es.; «Balzac è grande! I suoi caratteri sono creazioni del cervello del mondo! Non lo spirito del tempo, ma interi millenni hanno preparato con la loro lotta una simile soluzione nell’anima umana».

 

 

  GM., Profili letterari. Renato Boylesve, «Rivista di Letture. Bollettino della Federazione Italiana delle Biblioteche Cattoliche» Milano, Anno XXIII, N. 3, 15 Marzo 1926, pp. 68-69.

 

  p. 68. Nello stesso modo del suo quasi compatriota Joachin (sic) Du Bellay anche Renato Baylesve (sic), compiuto il «bel viaggio», poteva ripetere al suo ritorno in patria

 

  Plus que le marbre dur me plaît l’ardoise fine :

 

  l’ardesia fine dei piccoli ambienti provinciali, e particolarmente della sua provincia, quella stessa di Balzac, la Turenna.

 

 

  Mevio, Conversazioni letterarie. Una rara modestia, non interessata, «Novella. Rivista mensile di novelle italiane e straniere e di varietà», Milano, Edizioni Mondadori, Anno VIII, N. 1, Gennaio 1926, p. 63.

 

  Una sera Balzac era a cena in casa d’un suo ammiratore, di professione notaio. Pare che egli fosse troppo pensoso e taciturno, tanto che il suo ospite lo pregò di confidargli le sue pene.

  — Come posso essere allegro, se domani appunto mi scadono certe cambiali, e ho da pagare mille lire che non ho!

  Il notaio si offrì di dargli lui a prestito le mille lire, purché il gran romanziere tornasse di buon umore.

  — Me le renderete — gli disse — sul guadagno della vostra prima opera.

  — No — osservò Balzac — ve le renderò sul guadagno della mia opera migliore.

  Il notaio non pensava a malizie, e accettò; e così fu fatto l’impegno scritto.

  Avvenne che a ogni opera Balzac riceveva dal suo entusiastico ammiratore una lettera che proclamava essere quella finalmente il capolavoro di Balzac, mentre costui modestamente si schermiva, asserendo che l'opera non gli era riuscita come egli la voleva, e che la volta prossima avrebbe fatto meglio.

  Volete sapere come finì questa gara tra l’ammirazione fervida e la modestia pudibonda?

  Finì che il Balzac morì senza pagare il suo debito.

 

 

  Giuseppe Molteni, “Sous le soleil de Satan” di Giorgio Bernanos, «Rivista di Letture. Bollettino della Federazione Italiana delle Biblioteche Cattoliche» Milano, Anno XXIII, N. 6, 15 Giugno 1926, pp. 172-174.

 

  p. 172. È l’avvenimento letterario del giorno, in Francia: la rivelazione, conclamata, di un nuovo grande scrittore, un homo novus, al suo primo romanzo, pel quale non pochi critici hanno parlato addirittura di un nuovo Balzac profilantesi sull’orizzonte della letteratura d’oltralpi […].



  Eugenio Montale, Profili. Italo Svevo, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno IX, N. 6, Giugno 1926, pp. 117-118.

 

  p. 118. Abbiamo dato soltanto un cenno scheletrico di questo libro [Una vita] vastissimo in cui vive una folla di personaggi minori ritratti con evidenza impressionante. Per tale ragione, e; per certo senso avventuroso e romantico della vita borghese, il nostro ricordo corre a Balzac, non a Flaubert, come ha detto il presentatore francese dello Svevo.

 

 

  G. Edoardo Mottini, Il crepuscolo d’un dio. 1885-1925, «Rivista d’Italia», Milano-Roma, Anno XXIX, Fasc. III, 15 Marzo 1926, pp. 7-31.

 

  p. 10. Più nobile e più fiero certo del Monti, più indipendente di Goethe che con un grande saluto ad un piccolo re si alienò Beethoven; più universale, ecclettico e comprensivo di Balzac (che era snobista e conservatore) egli [V. Hugo] è più di tutti dotato di quelle facoltà d’orizzontamento rapido e prudente che, se non nuociono al musico e al pittore, al puro artista insomma […].

 

  p. 13. Per la Francia poi egli è stato un idolo per diverse ragioni: ha permesso alla rodentesi vanità di quel popolo di decorarsi d’una specie di genio della qualità che gli faceva difetto: il genio grosso, alla Dante, alla Shakespeare, alla Goethe: era forse facciata solo, ma la decorazione un po’ grossolana brillava. Il genio psicologico della razza, secco e realista, si arrotondava di polpe vistose, si dilatava in metafisiche spirali, di provincia diveniva impero, mondo forse! Montaigne, Voltaire, Balzac, erano specialisti: Hugo era l’intelletto universale, il poeta profeta, l’artista del genere umano. […].

  p. 27. Una smania incoercibile di dominare nel campo di ogni idea, di far della metafora un razzo a tre colpi che illumini la coscienza (salvo a perdersi dopo un attimo in un’ombra più sorda, lasciandoti le traveggole nel cervello) gl’impedì di sottomettersi a quell’epurazione ideale che crea i poeti e gli artisti-pensatori, profondi e durevoli. Comprendiamo come lo ammirassero artisti puri quali Balzac e Flaubert, ma è naturale che un Amiel si seccasse dei suoi apoftegmi torbidi e pretensiosi, che un Taine davanti alle sue sbottate di rettorica schiumosa, lo definisse una guardia nazionale in delirio, che Sainte-Beuve gli fosse avverso con precauzioni prudenziali, dichiarasse in confidenza negli acri Cahiers, che Hugo si sgolava e sparnazzava... Nelle sue descrizioni alluvionali, nei suoi abbandoni d’intimità, nelle sue liriche d’amore, fin nelle sue lettere, è diffusa una didascalia pedantesca, assordante, continua. Tutte le questioni morali e sociali vi sono così inopportunamente tirate in ballo, così superficialmente affrontate, da scorarci presto di un simile vaniloquio dottrinale, a cui è preferibile la predicazione pesante di Balzac o il pathos democratico di Eugenio Sue.

 

 

  Ada Negri, Le strade, Milano, A. Mondadori, 1926.

 

  p. 282. Fatica e calura lo avevano fulminato di sonno, sul ciglio della buca. Povero e semplice, egli riceveva da Dio la grazia di poter riposare così, in mezzo alla strada, con la fiducia d’un bambino in braccio alla mamma. Ripensavo, guardandolo, ad una frase del Balzac: «La force cubique de l’ignorance heureuse».

  Quella «forza cubica» mi incuteva rispetto e soggezione. Nulla sentivo di poterle contrapporre. Lo sterratore stanco dormiva sulla pietra, come un gran signore nel suo letto.

 

 

  Dario Niccodemi, Tre salotti, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, N. 68, 20 Marzo 1926, p. 3.

 

  Conobbi e vidi un’unica volta Marcel Proust proprio nel salotto di madama Arman de Caillavet. Lo ricordo sprofondato, quasi nascosto in una immensa poltrona, grigia, vicino alla fiamma viva del camino, come infreddolito anche in quel caldo e come intimidito di tutto. Adesso mi sembra che, se anche a quell’epoca lontana mi si fosse detto ch’egli avrebbe segnato una data memorabile nella storia letteraria del suo paese e che sarebbe divenuto un poderoso rinnovatore del romanzo e che da alcuni sarebbe stato messo nell’empireo in cui respiran gloria Saint-Simon, Balzac, Stendhal e Flaubert, forse non ne sarei stato stupito perché c’era da aspettarsi tutto, anche un miracolo, da quegli occhi impressionanti, radiosi, insaziabili.

 

 

  Ugo Ojetti, Scrittori che si confessano, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1926.

 

Lettera a Benedetto Croce, pp. V-XVI.

 

  p. XI. Per voi insomma l’opera è una conclusione; ma pei più dei lettori un fondamento e un principio. Così quel che voi scrivete di Guglielmo Shakespeare o di Ludovico Ariosto, di Balzac o di Verga. Un poco gotico siete […].

 

I figli in guerra, pp. 95-103. [Su: Amelia Rosselli, Fratelli minori, 1921].

 

  pp. 101-102. Ed ecco altri drammi e altri personaggi balenare su da queste pagine: appena accennati, talvolta, e appena vivi, ma che sarebbero tutti degni della piena vita dell’arte. C’è il figlio, munifico e spendaccione, del ricco affaticato industriale; uno spostato anche lui ma sincero, che quasi ha vergogna della sudata fortuna paterna e «gioisce in cuor suo ad ogni nuova conquista operaia destinata a impoverire suo padre e se stesso». Datelo a un Balzac, quest’altro feroce conflitto di potenza e di danaro, tutto d’oggi. Ma lo so, Balzac non c’è; o se c’è in ventiquattresimo, scrive frammenti lirici e spulcia i classici per farsi un frasario.

 

Gorki e Tolstoi, pp. 137-147.

 

  pp. 144-145. Cfr. 1920.

 

Scrittori allo specchio, pp. 259-267.

 

  pp. 261-262. Cfr. 1921.



  Dante Olivieri, Indicazioni geografiche di cognomi milanesi, Estratto dal fascicolo 11 dell’Annuario del R. Liceo Scientifico “Vittorio Veneto”, anno scolastico 1926-27; Milano, 1927.

 

  p. 187, nota (2). Ricordo che, a quanto narra il Cantù (Aless. Manzoni, reminiscenze, II, 94), Onorato Balzac, percorrendo le vie di Milano, si meravigliò «di vedere sulle botteghe i cognomi dei gran signori che gli davano pranzo e palchetto al teatro». Forse erano, in gran parte, i nostri «cognomi geografici», che mal si distinguevano da quelli di famiglie nobili, denominate da terre già state di loro giurisdizione (ad es. Agrati, Appiani, Arconati, Belgioioso, Càrcano, Melzi ecc.).



  Gian Luigi Olmi, Libri esotici, «Esotica. Mensile di letteratura e valorizzazione coloniale. Cronache artistiche e mondane», Milano, Anno I, N. 3, 15 Dicembre 1926, pp. 18-19.

 

  p. 18. Nel 1822 Lamartine aveva visitato la castellana del Libano. [...]. Balzac la ricorda nel Lys dans la vallée. La Signora di Bargeton che s’annoia a morte nella malinconica Angoulême invidia quella bas-bleu du désert [...].

 

 

  Fernando Palazzi, Onorato di Balzac (1799†1850), in Le Opere e i Secoli … cit., p. 378.

 

  Nacque a Tours, nel dipartimento della Loira; pubblicò dapprima molti romanzi di poco valore con diversi pseudonimi; stabilitosi quindi a Parigi si diede tutto alle lettere e vi ebbe i primi successi. Concepì l’idea d’una serie di romanzi che ritraessero tutta la società del suo tempo, e i romanzi infatti furono scritti e pubblicati, col titolo generale di Commedia umana. Balzac ebbe una vita molto agitata. La sua fervida fantasia gli faceva almanaccare una gran quantità di progetti, anche di affari industriali. Inoltre amava circondarsi di un certo fasto. Di qui molti debiti, e la necessità di lavorare enormemente per saziare lo stuolo dei creditori. La Commedia umana è rimasta incompiuta; ma i frammenti dell’immenso edificio sono, ciascuno di per sé, grandiosissimi. Balzac crea caratteri che hanno il rilievo e la vita illusoria di quelli di Shakespeare e di Molière: sono potenti statue delle passioni e delle debolezze umane. I suoi romanzi più famosi sono: Eugenia Grandet, Papà Goriot, La Cugina Betta, Il giglio nella valle, Massimilla Doni, Il medico di campagna. Quasi tutte le sue opere sono tradotte in italiano. Vedi del Balzac la bellissima biografia scritta da Renato Benjamin (Parigi, Plon).



  Fernando Palazzi, Notizie bibliografiche. Idem [A. G. Cagna]. “La rivincita dell’amore”. Torino, Piero Gobetti editore, 1925, pp. 326 in-16». L. 12, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno IX, Numero 2, Febbraio 1926, p. 25.

 

  Sono tutte ristampe di romanzi già conosciuti, ma forse non giustamente apprezzati. Il Gobetti infatti tenta con queste ristampe una riabilitazione — se così si può dire — del Cagna; e alcuni giudizi critici, stampati prudentemente in copertina, fanno addirittura imprudentemente il nome augusto di Balzac. Guardiamoci da queste pericolose esagerazioni.

 

 

  Pietro Pancrazi, I romanzi di Gotta, «Corriere della Sera», Milano, Anno 51, 30 Aprile 1926, p. 3.

 

  — In nove romanzi dunque s’incontrerebbero Claudio e Lula soltanto? — I personaggi di Gotta sono anzi molti e di varia specie, e molte le vicende e i casi narrati. Tuttavia il filo che lega l’un romanzo all’altro e ne fa il ciclo dei Vela non deve far pensare a uno di quei gruppi narrativi possenti, Balzac e Zola, dove il piano prestabilito e la coordinazione del ciclo stanno a ordinare e a dare argine a un’abbondanza prorompente di fantasia e di osservazione.



  Pasquale Parisi, Glorie defraudate, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno V, N. 73, 25 Marzo 1926, p. 3.

 

  Viveva a Napoli, fino a una trentina d’anni fa, uno strano tipo somigliante, nell’aspetto e nello spirito, al famoso antiquario descritto da Balzac nella Peau de chagrin.



  Pasquale Parisi, Ci si nasce, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno V, N. 257, 28 Ottobre 1926, p. 3.

 

  Ma è evidente che questa chiarificazione avviene negli spiriti detti, affinati dalle ristrettezze, protesi insaziabilmente verso il benessere, divenuti chiaroveggenti nello studio di sé medesimi e degli altri. Esempio classico: Balzac alle cui esigenze non erano sufficienti i frutti di un lavoro indefesso e anche ben retribuito. Ma non è necessario avere scritto La Commedia Umana per raggiungere quella chiaroveggenza che fa del debitore un uomo fiero che non supplica, non geme, non piatisce ma chiede con grazia e con dignità — e ottiene — ciò che sa che gli deve e che difficilmente potrà rendere. Quel dono è concesso anche ad altri che non spandono luce intorno a loro ma vivono di luce propria.

 

 

  Concetto Pettinato, La costanza di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 60, Num. 122, 23 Maggio 1926, p. 3.

 

 Parigi, maggio.

 

  «Balzac, il più fecondo dei nostri romanzieri, ebbe di bisogno di un letamajo alto più di questa casa per far sbocciare pochi fiori di serra». La scempiaggine è del Sainte-Beuve, e la trovi consegnata, fra molte altre dello stesso calibro, in quei residui inediti dei Quaderni che Vittorio Giraud raccolse e stampò di recente sotto il titolo, non propriamente apologetico: I miei veleni. Notevole quale primo insulto al naturalismo albeggiante nell’opera del grande romantico, può anche servire a dar prova dell’ingiustizia insigne che tanto discredito sta gettando da un po’ d’anni sul critico dei Lunedì. Renato Benjamin, lui, è caduto nell'eccesso opposto, componendo per una nuova collezione biografica dell’editore Plon una Prodigieuse vie d’Honoré de Balzac che è tutta un infocato panegirico. Confesso che, comunque, con opportuni temperamenti, il panegirista mi pare essersi avvicinato al vero di gran lunga più che non il detrattore, non foss’altro che per quella specifica superiorità di intelligenza cui suol far capo la simpatia. Da questa biografia narrata con colore e calore di romanzo la figura del Balzac esce viva, e, come in ogni originale vivente, lo spettatore può senza sforzo rintracciare da sè quei difetti del modello sui quali il ritrattista sorvolerà per non turbare le caratteristiche tradizionali dell’effigio vagheggiata. L’effigie resta, a dispetto del Sainte-Beuve, quella fermata nel bronzo da Rodin, che è a sua volta quella che intravvedemmo tutti, dopo una prima galoppata attraverso le prospettive monumentali e i cantieri in abbandono della Commedia Umana: la testa emerge come un’isola dalla tempesta di masse informi che la imprigionano, gli occhi avvistano già la Terra Promessa, si attende la spallata d’Ercole che liberi il collo, il busto, i lombi e doni al corpo ancora impietrato nel caos la direzione e il movimento irresistibili dell’uomo che cammina; ma la carcere è più possente dell’ala, e lo sforzo titanico si spegne in un anelito da leone ferito.

  Quello che Rodin. disse senza aprir bocca, con pochi colpi di scalpello, il Benjamin lo spiega in quattrocento pagine. E’ più lungo ma più comodo da ascoltarsi a domicilio. La vita di questo gigante del romanzo offre del resto una unità di linea che permette anche a un volume di quattrocento pagine la semplicità coerente del blocco di metallo. Il Balzac del 1850 è il Balzac del 1820. Pochi uomini dànno esempio di pari costanza psicologica. In arte, in amore, in politica è l’uomo delle note tenute. Intuitivo in sommo grado, adotta di primo acchito e una volta per sempre posizioni cui altri non arriva se non dopo lunghi complicati processi. Guardiamolo, ventenne, al lavoro nella sua soffitta della via Lesdiguières: è già tutto lui, definitivo. Non ha ancora la tonaca, ma è bell’è votato alla clausura. Scamiciato o sbuffante l’estate, sepolto l’inverno fra le coltri di un letto che imbratta d’inchiostro e che non lascia se non il tempo necessario a far scaldare il caffè nel bricco portato come un tesoro dalla casa paterna, abbozza in due o tre notti un romanzo, un'opera comica, una tragedia in versi. Ha nel cervello un ribollir confuso di idee, naviga alla ventura a vele spiegato per rotte contradittorie — Racine? Walter Scott? — in cerca di quella buona: ma la furia creativa, l'oblìo di sè stesso, l’irrequietudine … l’entusiasmo, la fede, l'insonnia, il caffè lo consacrano già Balzac.

  Un’ambizione di cui genio letterario e istinto borghese si associano a dosi eguali lo accompagnerà inalterata da questo primo momento di ebbrezza alla suprema ora del distacco mortale. Nel 1819 ha appena messo piede in Parigi, che già i calessi frullanti lungo i viali dei Campi Elisi e le coppie ingioiellate sedute a tavola al Quadrante Azzurro gli son cagione di tormento. Laura di Berny, la materna amica che sale puntuale e velata, premendosi il cuore infermo, i troppi gradini del suo secondo domicilio, all’angolo della via di Tournon e del Leoncino di San Sulpizio, gli porta in dono, per consolarlo, un paio di calzoni bianchi col sottopiede. Ma, avuti i calzoni, il povero figliolo dà in smanie alla vista delle camicie abbaglianti di due bellimbusti incontrati all’uscire in istrada. Una dozzina d'anni dopo, nel 1831, il debole è più forte che mai. Liberatosi delle camicie di percalle e delle scarpe chiodate che lasciavano il segno nei tappeti di Giulietta Récamier, come sussurrava maligno Filarete Chasles, accumula debiti ordinando all’impazzata al buon Buisson abiti a falda, panciotti di cascemire, panciotti di picchè, pantaloni di panno per visite, pantaloni di flanella per casa. Ma non si tratta di piacere alla contessa di Castries, una delle più nobili dame del sobborgo di San Germano? L’aristocrazia, i saloni, la conquista di Parigi: crepi l'’varizia! Eccolo Rastignac. D’ora innanzi non firmerà più se non di Balzac. E, per recarsi dalla contessa, comprerà a credito, un tilbury e un cabriolè sui quali ha fatto dipingere il proprio monogramma — perché, Dio, non può aggiungervi una corona? — e una coppia di cavalli inglesi, non senza essersi prima informato dal mercante se, quando corrono, schiumano. Nel 1833, perseguitato dai creditori, tiene corte bandita nel nuovo salotto da pranzo della via Cassini o nei gabinetti particolari del Rocher de Cancale, detta legge ai lions facendo dimenticare la sua figura piccola tonda e grassa e il suo naso di gomma elastica grazie alla novità della zazzera, del cannocchiale da teatro, dei guanti color burro fresco e del bastoncino dal pomo tempestato di turchesi. Diciassette anni dopo, sfinito, gonfio, morente, non sarà mutato di una linea, la vanità delle grandezze terrene non gli sarà ancora apparsa. Ha ormai sposato la contessa Hanska, nata Rzewuska, della più grande nobiltà polacca, sorella di un aiutante di campo dell’Imperatore di Russia, nipote della prima dama d’onore dell’Imperatrice di Russia: e questo pensiero lo infiamma di orgoglio fin sul suo letto di dolore. A Victor Hugo, venuto a visitarlo e a fargli l’elogio della rivoluzione del Quarantotto, non racconta, solenne, che ormai lui, Balzac, è nipote di Maria Leczinska regina di Francia, mentre la moglie da un angolo della camera si sforza invano a far cenni perché stia zitto, chè già tanto non è vero? Quella genealogia l’ha inventata lui. Ma per lui invenzione e realtà sono sempre state strette parenti. La sua smania di titoli nobiliari è del resto più seria di una semplice vanità, perché nel fondo delle sue convinzioni politiche, anch’esse refrattarie ai mutamenti, a dispetto delle irrequiete vicende nazionali. Conservatore, se non reazionario, a vent'anni, tale lo ritroviamo a tutte le epoche successive della vita: quando, tipografo, stampa Cinq-Mars di Alfredo di Vigny, disperandosi di dover collaborare alla diffusione di un’opera dove il ribelle è difeso contro l’autorità, quando vagheggia di farsi portare deputato a Cambrai con un programma legittimista, quando sul Rénovateur scrive, per compiacere alla di Castries, intrigante consumata, un articolo in favore della duchessa di Berry, quando a Boma scopre l'eccellenza della teocrazia, modello dei Governi, quando in Russia ed in Polonia ammira i benefici dell'assolutismo. E’ inalterabile come una forza naturale. Si sviluppa in quantità, non in qualità. Nel 1850, dopo trent’anni di speculazioni sbagliate e di dissesti, non è meno persuaso di essere un grande uomo d’affari del giorno che, presi a prestito i capitali di Laura di Berny, giurava di diventare in pochi mesi il più ricco editore di Francia. Percorre, febbricitante, in calesse i boschi di Wierzchownia e tornato a casa proclama alla Hanska: «Avete, qui sessantamila quercie alte dieci metri, del diametro di dieci pollici. E’ questa una dimensione che in Francia manca. A buttarle giù, possiamo guadagnare almeno cinque franchi per traversa. Quattrocentocinquantamila franchi d’utile netto: ecco quanto vi annuncio». Un brivido corre per le vene della prudentissima Eva, al pensiero che, diventata la signora Balzac, il progetto potrebbe essere attuato sul serio.

  Se almeno arricchisse coi libri! Ma è peggio che andar di notte. La Touche gli paga un romanzo mille franchi, Mame non gliene dà che settecento per la Pelle di zigrino, la vedova Béchet gli accorda un contratto di dieci mila franchi l’anno ma esige in cambio tante opere che il contratto non arriva nemmeno a entrare in vigore. «E tutto perché?», conclude logico, il Balzac. «Perdio non sono ricco». Se fosse ricco, gli editori, rassicurati, farebbero coda nella sua anticamera come nell’anticamera di quell’animale di Sue. Egli perde, a non esser ricco, «almeno trenta mila franchi l’anno». Per non cessare di esser logico, si sforza di assumere almeno le apparenze della ricchezza. Quindi debiti. Nel 1835 ne ha già per centocinquanta mila franchi, di cui mille e settecento dal solo droghiere: il caffè. Finirà col farli pagare dalla Hanska: ma, donna avveduta, la contessa non acconsentirà a sposarlo se non il giorno in cui sarà ben sicura che gli restano pochi mesi da vivere. Buon per lei che Balzac sa aspettare. Un uomo della sua costanza non potrebbe non essere fedele in amore. Le sue passioni durano vent’anni come niente. Sono, oltre tutto, le passioni di un romantico. La sola complicazione è che ne ha sempre in cuore più d'una, visto che le antiche non si decidono mai a cedere il passo alle nuove. Ma le donne, sicure di non essere sagrificate a una rivale, finiscono per acconsentire a lasciarsi amare a parecchie per volta, si rassegnano ad ascendere tutte insieme e per sempre in quell'empireo dov’egli colloca invariabilmente come in un museo tutto quanto gli appartiene o lo tocca, cieco ai loro difetti per un orgoglio analogo a quello che gli impedisce di ammettere che i quadri dalla sua galleria non sieno, tutti dei Reni, dei Tiziano, dei Greuze.

  Naturalmente, in nessun campo questa costanza doveva affermarsi meglio che in quello dell’arte. Dotato di pari fertilità, un altro artista avrebbe subìto, in trent’anni, variazioni e rivoluzioni più o meno profonde. Balzac, lui, concepisce la sua opera una volta per tutte e quando ne ha fissato il corso non le permette più di deviare. A ventinove anni, al momento di mettersi a lavorare sul serio, giacche prima d’allora non ha stampato se non sotto il velo dell’anonimo, sa già che quello che vuol fare, che farà, è la Commedia Umana. Con tutto il suo disordine, su questo capitolo è sistematico sino alla pedanteria. I dati caotici della realtà si dispongono sin dal principio in bell’ordine nella sua mente come nell’erbario di un naturalista. Nel 1833 l’erbario è già costituito. Quello che intende fare è un corpus di studi sociali, un de moribus Francorum. Prima le Scene della vita privata, che saranno soprattutto quelle dell’età giovanile, della fantasia e dell’istinto. Poi le Scene della vita di provincia, che illustreranno i calcoli, gli interessi e le lotte dell’età matura. Le Scene della vita parigina allargheranno il quadro, sostituendo all'angustia delle preoccupazioni provinciali fenomeni e problemi di più largo metro. Nelle Scene della vita politica l’individuo cederà il passo alle masse e agli uomini che le fanno muovere. Sarà quindi la volta delle Scene della vita militare, questo eterno epilogo della politica, questo dramma recitato dai popoli. Da ultimo, le Scene della vita di campagna presenteranno lo spettacolo della vecchiezza e della stanchezza dell’uomo, l’ora del riposo e della serenità. Procede alla disperata sforzandosi di condurre di fronte le varie parti dell’edificio, una pietra qua, una là, La fisiologia del matrimonio insieme con La donna di trent’anni, Luigi Lambert di paro col Medico di campagna e con La pelle di zigrino; ma, per lacune che lasci nella fabbrica, ai suoi occhi il profilo generale del monumento non si smarrisce un istante. Sarà, dice lui, una nuova cattedrale di Bourges.

  Unica incognita: farà a tempo a finirla? Gli ci vogliono ancora, a occhio e croce, una sessantina di tomi. Ha trentaquattr’anni: per poco che la sorte gliene conceda altri trenta, la cattedrale è salva. Trent’anni, due volumi all’anno: il conto torna. Ma nel conto egli novera, ahimè, tredici anni di troppo. Dal 1833 al 1850, fra lui e la morte è un duello di velocità. Ribelle ad ammettere che il solo modo di guadagnar tempo sia ormai per lui il perderne, fa le giornate di sedici, di diciotto ore, amputando a gran colpi, come un boscajolo di frodo, il tronco robusto di una salute privilegiata. Nel 1834 due poltrone gli si sfasciano sotto mentre lavora, come cavalli uccisi in battaglia. Si nutre di ova bollite e di caffè. L’estate, all'alba, dopo una notte a tavolino, spalanca i vetri, inghiotte a furia un paniere di ciliegie, e «per purgarsi», sputando i noccioli attraverso la camera sconvolta quasi dopo una colluttazione con una banda di fantasmi: e si rimette a scrivere. Non c’è rimedio. Il dottor Nacquart parla a un sordo. Ancora una volta, quel che domina in Balzac sino ad ucciderlo è il suo bisogno di simultaneità, la sua smania di veder tutto d’una occhiata sola e sino in fondo, l’incapacità di piegarsi alla successione dei tempi, delle idee, delle azioni. Un romanzo, non appena ideato, per lui è bell’e fatto. Non chiedetegli di stenderne i capitoli l’uno dopo l’altro, metodicamente, come un impiegato riempirebbe i fogli di un libro mastro: sin dal primo giorno a lui occorre vedersi sul tavolino le bozze di stampa dove il filo della favola sia già stato steso per intero come una statua estratta dalla creta in una sola seduta. E’ su queste bozze che lavora, a forza di aggiunte e di interpolazioni, spingendo innanzi azione e personaggi come un battaglione marciante al passo dal primo all’ultimo uomo, grazie a una trama fantastica di richiami, di note in margine, di fogli attaccati con gli spilli per dritto e per traverso, che trasformano le cartelle in carte geografiche da generale combattente. Se potesse, scriverebbe simultaneamente non solo tutti i capitoli di un romanzo ma tutti i romanzi della Commedia Umana. Avidità quasi mistica, in ogni caso tipicamente romantica, di immedesimarsi col mondo, aspirazione a farsi immanente e onnipresente, volontà temeraria di identificare noumeno e fenomeno, di contrarre in un sol punto il passato, il presente e l’avvenire. Dove Sainte-Beuve non volle vedere che scorie, c’era la fiamma di un Lucifero dannato a imitare, nello spazio fra una sera e un mattino, la creazione del mondo.

  Cadde fulminato, e del suo mondo di parole e di incantesimi non rimase se non uno scheletro di mura, dalle quali salgono ancora, come dalle rovine di una cattedrale, echi d’organo, litanie di angeli, gemiti di peccatori.

 

 

  Concetto Pettinato, Il ritorno di Mefistofele, «La Stampa», Torino, Anno 60, Num. 142, 16 Giugno 1926, p. 3.

 

  Sotto il sole di Satana (Paris, Plon, 1926) supera quanto s’era scritto di meglio in questo paese da Balzac e da Stendhal in poi […].

 

 

  Concetto Pettinato, Capricci, «La Stampa», Torino, Anno 60, Num. 269, 9 Dicembre 1926, p. 3.

 

  Ricordo che molti anni fa, allorché la vita era più spensierata di adesso, io e Raffaele Calzini incontravamo sovente per una certa via di Milano una strana donna recante a spasso, cosa a quei tempi nuovissima, una magnifica pelle di tigre del Bengala visibile lontano un miglio. […] C’era innegabilmente nella nostra sguaiataggine di ragazzacci maleducati una discreta dose di divinazione psicologica. Balzac pretende che fin il senso, lo spirito e i precedenti dei nomi propri influiscano sulla formazione del carattere. Che non avrebbe egli detto se avesse viste le donne trascorrere tutta una esistenza quale nella pelle di una tigre, quale in quella di una volpe, quale in quella di una marmotta, quale in quella di una jena o, last not least, di una scimmia! Rinunzio a figurarmelo.

 

 

  Arturo Pompeati, Emilio de Marchi, «Rivista d’Italia», Milano-Roma, Anno XXIX, Fasc. III, 15 Marzo 1926, pp. 367-389.

 

  p. 389. Tristezza per tristezza, meglio quella del De Marchi, che ricorda, con arte minore, quella di tanti romanzi del Balzac. Ricordate? Il grande romanziere prendeva il suo César Birotteau, il più onesto e il più felice dei commercianti parigini, e lo incalzava inesorabilmente, spietatamente, per la china della sventura, fino a fargli toccare il fondo della rovina.

  Ma da quella rovina balzava il martire e l’eroe.

 

 

  Giacomo Porcelli, La letteratura italiana nella critica francese durante la monarchia di luglio (1830-1848), Firenze, Vallecchi, 1926.

 

Limiti cronologici del presente lavoro, pp. 21-22.

 

  p. 22. Honoré de Balzac, il padre della nuova scuola, veniva appunto dal romanticismo.

 

 

Charles Didier e il saggio sul Manzoni, pp. 75-92.

 

  p. 87. Realismo [quello del Manzoni] di miglior lega che non quello del Balzac, il quale più di una volta ci presenta dei personaggi che lungi dall’essere «reali» risentono della rigidità del «tipo» cui un’unica passione fa agire quasi come automi […].



  Carola Prosperi, Noia di pioggia e silenzio di neve, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno V, N. 271, p. 3.

 

  Senza le lunghe eterne monotone giornate di pioggia, come potremmo immaginare le complicate provinciali di Balzac e le ribelli romantiche di George Sand?

 

 

  Egisto Roggero, Alla ricerca di una definizione della musica, «Rivista d’Italia», Milano-Roma, Anno XXIX, Fasc. IV, 15 Aprile 1926, pp. 503-523.

 

  p. 504. Per Balzac la Musica è «une vie dans la vie». […].

 

  p. 522. Mai come in questi momenti noi sentiamo che la Musica è veramente la figurazione dell’invisibile. Si ridesta al suo richiamo la nostra pena occulta, la gioia intima o la recondita speranza: certo qualcosa si accende in noi, nel nostro profondo. E’ veramente una vita dentro la vita nostra che si mette a palpitare in noi, come disse Balzac. È «l’inesprimibile» di Lamartine che trova finalmente la sua espressione; è la voce, o marchesa di Blocqueville, che imprende a raccontare a ciascuno di noi il dramma o il poema del nostro cuore!...

  Abbiamo detto altrove che la musica — che parla a tutti — ha però una parola per ciascuno di noi, una parola che è proprio e solamente nostra...

  In una delle sue lettere alla «straniera», Onorato di Balzac le scrive che andrà a passare qualche ora sprofondato in un palco dell’Opera. E le dice: «La Musica rappresenta per me il ricordo. Ascoltar della musica equivale ad amar meglio quel che si ama, a pensare voluttuosamente alle proprie voluttà, a vivere davanti agli occhi de’ quali s’ama lo splendore, ad ascoltare la voce amata. E così il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle sette e mezzo alle dieci io amo deliziosamente...».

 

 

  Aldo Sorani, La vita prodigiosa di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXI, N. 1, 3 Gennaio 1926, p. 3.

 

  La moda è ora alle vite di grandi scrittori o di comunque grandi personaggi, redatte in forma di romanzo. Sono, almeno per quel che riguarda gli scrittori, biografie atteggiate a romanzo storico-letterario, in cui la documentazione viene animata e drammatizzata, gli epistolari e le confessioni vengono dialogati, l’aneddotica inserita nella trama del racconto e il giudizio critico sull’eroe protagonista e i suoi satelliti e tutta la sua cerchia e la sua epoca reso implicito nella raffigurazione dell’ambiente e delle gesta e delle avventure.

  Un buon esempio di questo genere letterario ce lo diede, l'anno scorso. André Maurois col suo Ariel, romanzo della vita di Shelley. Il Maurois era andato fuor di patria a scegliere il suo eroe letterario, forse per la semplice ragione che egli è un anglicista e deve i suoi primi successi di scrittore a due o tre serie di racconti del tempo della guerra, in cui ha saputo maestrevolmente ritrarre dei tipi inglesi còlti sul vivo e rappresentati con una gustosa amenità; non certo che egli giudicasse inadatti ad una biografia romanzesca scrittori francesi egualmente famosi.

  L’esempio del Maurois è stato ben presto imitato da altri biografi, sospinti dal successo che egli aveva ottenuto e da quell’amore che i francesi, al pari degli anglosassoni hanno sempre per le belle biografie che pongono una vita nel suo quadro e la illuminano d’una luce diversa, se non maggiore, di quella che può gettare il saggio critico o storico o il semplice profilo o «medaglione». Ancora una volta si è, infine, riconosciuto che certe esistenze singolari han progredito e si sono affermate attraverso peripezie più appassionanti di quelle che potrebbe immaginare il romanziere più dotato di fantasia, che certe esistenze sono state realmente prodigiose quanto un romanzo d’avventure.

  Naturalmente, in una serie di «romanzi delle grandi esistenze» iniziata in questi giorni dalla Librairie Plon di Parigi il primo posto non poteva mancare a Balzac e, benché intorno a Balzac si siano ormai scritte diecine di biografie, è certo che La vie prodigieuse d’Honoré de Balzac scritta da Réné (sic) Benjamin, troverà festose accoglienze presso tutti coloro i quali pensano che poche vite di scrittori siano state più romanzesche e avventurose, di quelli dell’autore delle Comédie Humaine. Perfino la più fredda, sistematica. circospetta biografia di Balzac non può esimersi dall’essere profondamente agitata dall’ansia e dalla febbre di una personalità così drammatica e tempestosa, di una operosità così ciclopica e incandescente. Perfino il più arcigno ricercatore e vagliatore di documenti e di dati, di notizie e d’aneddoti non può esimersi dall’essere investito a pieno dalla vampa che irrompe fuor dalla fucina in cui Balzac colava il suo mondo e il suo genere umano, faceva «concorrenza allo stato civile» o «compiva con la penna quel che Napoleone aveva compito con la spada». Questa vita tumultuosa e frenetica, ribollente sempre di nuove ambizioni e di nuovi amori, questa attività sempre angosciata ed esaltata sino allo spasimo, questa potenza creatrice veramente pari ad una forza primigenia della natura e che prorompe in esplosioni di capilavori pur tra la profluvie di innumerevoli scorie, debbono dare di necessità un riverbero di calore anche alla più gelida pagina critica.

  Ma Réné Benjamin non è un critico: è un romanziere e un autore drammatico, il quale, di fronte a Balzac, non si trincera dietro prevenzioni e timidezze ma s’abbandona alla potente seduzione del suo eroe, lanciandosi prendere dalla sua febbre, facendosi conquidere dal suo ritmo e, quasi direi, dalla sua vertigine. Certo la prova di tentare il romanzo della vita di Balzac non sarebbe riuscita a chi non fosse stato capace di affrontare la mole spettacolosa della Commedia umana con occhi pieni di passione, di ripenetrare nel tumulto della sua esistenza con una immedesimazione accalorata, di affondare nella congerie caotica dei materiali accumulatisi intorno alla storia, all’opera, alla fortuna del romanziere con mani frementi. Ma René Benjamin è riuscito nel suo intento e il miglior elogio che si possa fare della sua «Prodigiosa vita di Balzac» è di dire cha essa si legge come un romanzo di Balzac e che si dimentica, leggendola, qualsiasi velleità di controllo, di revisione, di indicazione documentaria, di nota marginale.

  Le mende del romanzo balzachiano, se mai, ci si presentano quando si leva il capo dall’impeto e dal fascino della lettura, e ne basterà citare una sola. Nell’orgasmo di fondere tutti i materiali e gli elementi possibili alla fiamma vorticosa da cui deve sorgere e campeggiare la figura dell’eroe, il Benjamin ha dimenticato troppo di raffigurarci quella società in cui il suo eroe ha realmente vissuto. Nel romanzo del Benjamin il mondo circostante a Balzac è come assorbito e travolto nella persona di lui, o non vive che in funzione di lui, che s’innalza maestosamente imponente, ma troppo isolato.

  E tuttavia anche questa menda è perdonabile da chi constata con quanta evidenza e veridicità, net romanzo di Balzac narrato dal Benjamin, vivano e si illuminino di luce propria alcuni dei personaggi che ebbero una parte preminente nella vita dell’eroe, suscitando il suo amore, o la sua amicizia o il suo orgoglio, specialmente le figure di donne, M.me de Berny, M.me Carraud, la marchesa De Castries, la duchessa d’Abrantès, M.me De Hanska son personaggi del grande romanzo della vita di Balzac che Réné Benjamin sa far rivivere nei loro vari caratteri, e nella loro varia influenza sul cuore e sull’opera dell’eroe protagonista, con una virtù identificatrice che può contendere vittoriosamente con qualsiasi raffigurazione di storico letterario e davanti a cui i balzachiani più meticolosi non troveranno nulla a ridire. Si può anche affermar di più e ammettere senz’altro che alcune di queste figure escono più vive e indimenticabili dal romanzo del Benjamin che dalle pagine documentarie e critiche di certi ricercatori e bibliofili professionali che han dedicato tante esimie fatiche alla illustrazione di figure e di casi riguardanti lo scrittore portentoso.

  È che il Benjamin è un romanziere pieno di forza, di vena e di felicità il quale non s’è lasciato mai sfuggire il destro di rievocare un carattere nelle sue peculiarità più accusate ed eloquenti e di descrivere una scena nei suoi momenti e nei suoi significati più drammatici. La sua materia, i suoi argomenti, egli li ha trovati nelle memorie del tempo, nelle cronache, negli epistolari. nelle altre biografie, ma l’ha saputa scegliere e disporre con maestria personale e con una vivacità sempre anche troppo sostenuta, che appartiene a lui solo. Così avviene che anche quel che è tutto ben cognito in fatto di caratteri, di episodi, di aneddoti della vita di Balzac assume in questa nuova sceneggiatura e drammatizzazione generale della vita stessa un afflato nuovo ed una evidenza talvolta prima non realizzata, Anche là dove il Benjamin non racconta, ma lascia che i personaggi, anche il maggiore, si raccontino, pare che le parole degli epistolari e degli aneddotarî acquistino una nuova vitalità e si riinseriscano nella sequela naturale dei fatti e dei sentimenti.

  Facile è, ad esempio, proclamare l’eterna febbre di Balzac e disporre, secondo le date, le esaltazioni e le catastrofi, i trionfi e gli insuccessi della sua carriera: ma è difficile, invece far risentire questa febbre e mostrare come si succedano e s’incatenino le opere e gli episodi della vita del romanziere sgorgando dall’una all'altra passione e dall’una all'altra allucinazione. E difficile rimettere in movimento questa orgia di lavoro che si sostiene dalla prima giovinezza alla morte prematura sul palpito di questi febbre, come una smania di affermazione e di creazione, come un infrenabile intinto di sdoppiamento e di moltiplicazione Il Benjamin non è venuto meno a questo assunto che s’era preso non solo di mostrar Balzac in continua effervescenza e in immoderabile potenza generatrice, ma di concatenare le fasi e gli stati d’animo e di coscienza per cui passava il genio balzachiano così fremebondo, infocato e fecondatore. Io non oserei asserire che tutte le congiunzioni illustrate dal Benjamin tra l’uno e l’altro stato d’animo o proposito o attuazione del romanziere si basino precisamente sulla realtà vissuta e psicologicamente sperimentata, ma credo che si possa asserire che nella loro maggior parte le illustrazioni o le illazioni del Benjamin hanno la virtù della verosimiglianza anche quando difetta loro una sicura base documentaria.

  Il Benjamin ci presenta un «romanzo della vita di Balzac», ed è naturale che in un «romanzo» ci sia qualche cosa di immaginario, se non di più romanzesco o fantastico di quel che sia stata in vita e l'immaginazione reale di Balzac. L’autore della Commedia umana può non aver parlato a M.me de Berny o a M.me de Hanska come parla nel romanzo di Réné Benjamin quando Réné Benjamin non desume le sue parole dalle pagine stesse delle opere o delle lettere del suo eroe. In certi altri casi, Balzac non si sarà immerso precisamente in quelle riflessioni in cui qualche volta il Benjamin ce lo presenta immerso. Ma l’importante, anche se queste riflessioni non trovano riscontro nei documenti balzachiani, è che esse non contrastino con quel che sappiamo positivamente di Balzac e con quello che Balzac può plausibilmente aver riflettuto in quelle date occasioni e in quelle date circostanze.

  Ma in generale, come accennavo in principio, il fascino e la potenza del racconto del Benjamin sono forti abbastanza da non lasciarci, sul momento della lettura, adito a dubitazioni troppo critiche. Nessuno, io credo, si sentirà di andare a controllare i testi leggendo, ad esempio, l’episodio della tremenda notte di Saché in cui Balzac finì di scrivere il Père Goriot. E nessuno potrà lasciare che la sua emozione sia distratta o sopita dall’istinto critico alla lettura della lotta di Balzac stesso contro la morte quando lo scrittore domanda ansiosamente al suo medico se la morte gli lascerà almeno altri otto giorni, il tempo di scrivere un altro libro, o quando, nel vaneggiamento dell’agonia, Balzac invoca per medico un suo personaggio, il dottor Bianchon, gridando: «Chiamatemi Bianchon! Solo lui mi può salvare!».

  Questi e altrettali aneddoti impressionanti, se non si ritrovano nelle «vite critiche» di Balzac, si ritrovano tuttavia in certe cronache e ricordanze non meno degne di fede e non meno pregne di luce, che il Benjamin, a ragione, non ha trascurate. Ma di tutti i meriti di questo romanzo della grande esistenza di Balzac, il maggiore, al fine di tutti i conti, sarà quello di invogliare ancora a ritornare all’opera stessa del romanziere prodigioso. Dopo la lettura del libro del Benjamin non saranno pochi, infatti, coloro che ritorneranno alla Commedia umana con la certezza di sapersi ritrovar meglio in quel labirinto, così affollato ed ingombro di macerie e di monumenti, d’uomini e d’ombre.

 

 

  Silvio Spadazzi, L’arte e la malattia, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”», Roma, Anno XVI, N. 8, 1 Agosto 1926, pp. -515-519.

 

  p. 515. I più illustri medici ed alienisti dell’epoca, considerarono come colleghi i medici che Onorato di Balzac faceva agire nella sua «Commedia Umana»; tanto l’arte e la scienza, in quelle creazioni profondamente umane, sono strettamente unite.



  Maria Stella, I nostri romanzi, Roma, Liberia di Scienze e Lettere, 1926.

 

 

Il romanzo moderno. Verga e il regionalismo meridionale, pp. 25-27.

 

  p. 27. Romanzo regionalistico di prim’ordine, con pitture, figure e scorci, alcuni degni di Balzac, sorgeva intanto l’opera d’una giovine donna napoletana, voglio dire «Il paese di cuccagna» di Matilde Serao.

 

 

Il «pericolo roseo», pp. 46-57.

 

  p. 47. Uscita dalla scuola di Balzac, [Matilde Serao] aveva sentito l’influsso di Zola e poi, più vivamente di tutti, di Bourget.  

 

 

  L. P. T., Modi di lavorare e manie di scrittori illustri. Balzac e le bozze di stampa, «Il Pensiero. Rivista settimanale teatro, arte e scienza», Bergamo, Anno I, N. 3, 27 Febbraio 1926, p. 3.

 

  Balzac s’impone, forse sovra ogni altro, all’attenzione per il suo metodo di lavoro. Gli bastarono alcuni anni per mettere assieme quella mirabile raccolta di osservazioni e di documenti che è la Comedie (sic) humaine, ma al lavoro sottopose, per così dire, tutta la sua vita, formandosi persino un’igiene speciale.

  Ogni sera alle sei, preso il suo pasto, va a letto e dorme fino a mezzanotte.

  A mezzanotte s’alza, infila la tonaca fratesca che gli serve da veste da camera, ingoia una grande tazza di caffè ed alla luce d’un candelabro con sette candele lavora incessantemente fino a mezzogiorno. Man mano che riempie i foglietti senza rileggerli e senza numerarli se li getta dietro le spalle. A mezzogiorno il cameriere gli porta la colazione, raccatta i foglietti e li porta al tipografo; giacchè ciò che mandava manoscritto non era, si può dire, che un abbozzo.

  Egli correggeva, aggiungeva, toglieva, rifaceva spesso tutto sulle bozze di stampa. Cosicchè queste bozze erano uno spauracchio, un incubo per tutte le tipografie che dovevano stampare lavori di Balzac. Theophile (sic) Gautier ha fatto una pittoresca descrizione di queste bozze, nelle quali linee, alla fine qualche frase, partivano in tutte le direzioni verso il margine; poi richiami con lettere latine e greche, con numeri, con stelle, con piccoli soli tanto da parer un giuoco di fuochi artificiali buttato giù da qualche ragazzo; poi pezzetti di carta attaccati con bollini d’ostia, con spilli alla bozza, e questi pezzetti di carta scritti a carattere minuto per economia di spazio, ed anche in essi cancellature, aggiunte, modificazioni, richiami, perché appena scritta una frase ecco nell’attore un pentimento, una nuova ispirazione.

  Ciò può dare un’idea della fatica durata da quel grande nel porre assieme i lavori che lasciò; si spiega che Balzac morisse a 50 anni, vittima dell’eccesso del lavoro.

 

 

  Adriano Tilgher, Drammi silenziosi, «La Stampa», Torino, Anno 60, Num. 146, 20 Giugno 1926, p. 3.

 

  Romanzi del genere [quelli di Henry Deberly], come già quelli di Bourget, di Zola, di Balzac, ignorano gli ondeggiamenti, le perplessità e le riprese continue dei romanzi inglesi e rasi, e derivano da una visione della vita e del cuore umano lucida secca forte, sì, ma anche schematica e semplificata, che esclude chiaroscuri e fluidità.



  Miguel de Unamuno, L’Agonia del Cristianesimo. Prima edizione italiana, Traduzione di Angelo Treves, Milano, Casa Editrice Monanni, 1926.

 

  pp. 72-73. Bisogna economizzare virilità in un celibato, ossia in un monacato, attivo. L’autore della «Peau de Chagrin», Onorato di Balzac, che ci lasciò tanti figli dello spirito – tutto un popolo! – senza che ci sia noto ch’egli ne abbia lasciato uno solo di carne, in un profondo studio della vita di provincia – vita d’invidia – nel «Curato di Tours», dove si leggono quelle ammirabili linee su «la città dolente delle vecchie zitelle» a proposito della signorina Salomon che diventò madre restando vergine, Balzac, alla fine di quel gioiello psicologico, scrisse una pagina imperitura sul celibato. Vi si vede dapprima Ildebrando, il terribile papa, solo un celibe può essere infallibile, solo colui che economizza la propria virilità carnale può affermare o negare impudentemente dicendo: in nome di Dio ti scomunico, e pensando: «Dio in nome mio ti scomunica: anathema sit!» - E vi si parla «dell’egoismo apparente degli uomini che portano nel loro seno una scienza, una nazione o delle leggi ... per generare popoli nuovi o per produrre idee nuove»); è ciò che Balzac chiama «la maternità delle masse»: la maternità, e non la paternità. Come non dice procreare, ma generare popoli nuovi. E aggiunge che coloro devono «unire nelle loro teste possenti le mammelle della donna alla forza di Dio». La forza di Dio, è virilità? Dio è maschio o femmina? In greco, lo Spirito Santo è neutro, ma esso si identifica con santa Sofia, la santa sapienza, che è femminile.

  Bisogna economizzare virilità, ma ciò risolve forse l’agonia? L’agonia è il titolo dell’ultima parte del terribile studio filosofico – così lo chiamò il suo autore – della «Peau de Chagrin», e alla fine il protagonista, ossia colui che lotta, che agonizza, Rafael (sic) de Valentin muore sulla sua donna, Paolina, mordendole il seno, ed ella, Paolina, dice al vecchio servitore Gionata: «Che cosa chiedete voi? Egli è mio, io l’ho ucciso, non l’avevo forse predetto?).

  E non si stupisca il lettore di questo, che noi ci riferiamo, nel presente studio sull’agonia del cristianesimo, a quelle due opere di Onorato di Balzac, il quale fu, a modo suo, un evangelista, un cristiano.

 

 

  Pierre Veber, Un tipo di Balzac. Novella di Pierre Veber, «Il Mattino Illustrato», Napoli, Anno III, N. 10, 8-15 Marzo 1926, p. 155.



 Orio Vergani, Il racconto della domenica. Fantasma con una gamba sola, «La Tribuna», Roma, Anno XLIV, N. 87, 11 aprile 1926, p. 3.


 «Ho conosciuti pochi fantasmi monchi. Si trattava generalmente di scrittori, ai quali venne presa l’impronta della mano destra. Il più noto fra tutti è Balzac, la cui mano destra, gettata in bronzo, è rimasta in quella che fu la casa dello scrittore, a Parigi, adesso trasformata in una specie di museo balzacchiano. Si tratta di una pesante mano di bronzo che il povero fantasma ha cercato inutilmente di distruggere. L’infelice, pur essendo monco, non ha affatto perduto la sensibilità della mano perduta. Egli si lagna, perché se la sente toccare, sollevare, soppesare dagli innumerevoli visitatori della Maison de Balzac, come se si trattasse di un fermacarte o di un martello da portone. Ma la sua mano, tirata in copia unica, è troppo celebre perché egli si possa augurare di riconquistarla, anche in un tempo lontano. Melanconiche sono le giornate del povero monco nel cieco al di là».


 

  Ugo Viviani, [Onorato Balzac], in Panciuti, Grassi ed Obesi nell’Arte, nella Storia, nella Letteratura (Con N. 2 tavole fuori testo e N. 51 incisioni), Arezzo, Dott. Ugo Viviani – Editore, 1926 («Collana di pubblicazioni storiche, letterarie ed artistiche aretine», N. 17), p. 84.

 

  Onorato Balzac, celebre romanziere francese, nato a Tours nel 1799, fu obeso: lo attestano Lamartine e George Gand (sic). Scrive di lui il primo: «il portait un costume qui jurait aver (sic) toute élégance, habit étriqué sur un corps colossal, gilet débraillé, linge de gros chanvre, bas bleues, souliers qui creusaient le tapis, apparence d’un écolier en vacances qui a grandi pendant l’année et dont la taille fait éclater le vêtement, voilà l’homme qui valait à lui seul une biblioteque (sic) de son siècle». E George Sand conferma; «Il grimpait avec son gros ventre tous les étages de la maison au quai Saint Michel, et arrivait soufflant, riant, bavardant, sans reprendre haleine ...».



  Zino Zini, Poesia e verità, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1926. 

 

Un creatore di modelli, pp. 11-23.

 

  p. 20. Flaubert non ha forse una grande capacità d’invenzione, forse la sua fantasia creatrice può anche sembrarci povera, se la confrontiamo con quella di Balzac, di Dickens o Tolstoi, questi artisti d’una fecondità senza pari, i quali hanno fatto come Dio, infondendo il soffio del loro spirito in migliaia e migliaia di creature, per modo che ogni loro romanzo è un emporio di anime, un museo di tipi umani.

 

Boccaccio moderno, pp. 33-52.

 

  pp. 36-37. [Su: Le Horla di Maupassant]. Strano e potentissimo contrasto tra il mondo fisico e il mondo spirituale. Per esso, Maupassant, che l’eredità letteraria stringe solidamente per non interrotta catena, ai novellatori d’Italia e di Francia che dal Boccaccio al Balzac ci hanno insegnato la difficile arte di divertire narrando […]. […].

  In lui la Francia possiede il più grande scrittore naturalista dopo Balzac.



[1] Cfr. Albert de Bersaucourt, Les livres et les manuscrits de Balzac, «Marges», Vol. XXXV, 15 Janvier 1926, pp. 6-11.

[2] Cfr. Maurice Serval, Autour de Balzac. Quelques noms propres, «La Revue Bleue», 17 Avril 1926, pp. 235-240.

[3] Cfr. C. P., L’italien de Balzac, «Mercure de France», 37e Année, N° 672, Tome CLXXXVIII, 15 Juin 1926, pp. 762-763; cfr. anche Gaston Prinet, L’italien de Balzac nel numero del primo Agosto dello stesso anno alle pp. 757-758.


Marco Stupazzoni