mercoledì 11 dicembre 2019



1946

 

 


Estratti in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Balzac. Un avare, in Ada Bernardini, Pages littéraires con sommario storico della letteratura francese. Per i ginnasi, gl’istituti tecnici e i licei scientifici. Manuale per la preparazione agli esami di maturità scientifica e di abilitazione tecnica, Roma, Gismondi, 1946 («Manuali Gismondi per la preparazione agli esami», 4-5), pp. 148-149.

 

  Da Eugénie Grandet.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Babbo Goriot. Traduzione di Raoul Vivaldi, Roma, De Carlo Editore (Tipografia di Giovanni Bardi), (maggio) 1946 («La Commedia umana, raccolta completa delle opere di Honoré de Balzac a cura di Raoul Vivaldi», Volume XI), pp. 247.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Babbo Goriot, pp. 7-244;

  [Raoul Vivaldi], Nota, pp. 245-247. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

 

  Nonostante alcune scelte lessicali non sempre condivisibili, la traduzione che il Vivaldi fornisce di Le Père Goriot può considerarsi, nel complesso, abbastanza corretta.

 

 

  Honoré de Balzac, Cesare Birotteau. Traduzione di Maria Bastide, Milano, Istituto Editoriale Italiano, (gennaio) 1946 («Narratori», 3), pp. 481.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Maria Bastide, Introduzione, pp. 9-21; [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Cesare Birotteau, pp. 23-478.

 

  Il testo è suddiviso in sedici capitoli secondo il modello dell’edizione originale del romanzo pubblicata dall’editore Boulé nel gennaio 1838. La traduzione, nel complesso corretta, si fonda sul testo di una edizione sicuramente anteriore a quella comunemente denominata ‘Furne corrigé’.

 

 

  Onorato Balzac, Eugenia Grandet, Torino, S. A. Tipografica Editrice Taurinia, 1946, pp. 195; 1 tav.

 

  Il testo è arbitrariamente suddiviso in 26 capitoli; non è riportata la dedica ‘A Maria’ inserita da Balzac nell’edizione Charpentier del 1839. Siamo di fronte ad una traduzione condotta con estrema libertà e non priva di stravolgimenti sul piano tanto strutturale quanto stilistico. Trascriviamo, come esempio, alcuni estratti tratti dalle prime pagine del romanzo:

 

  pp. 1027-1028 [cfr. Balzac, Eugénie Grandet, a cura di Nicole Mozet, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1976, t. III].

 

  Cette rue, maintenant peu fréquentée, chaude en été, froide en hiver, obscure en quelques endroits, est remarquable par la sonorité de son petit pavé caillouteux, toujours propre et sec, par l’étroitesse de sa voie tortueuse, par la paix de ses maisons qui appartiennent à la vieille ville, et que dominent les remparts. Des habitations trois fois séculaires y sont encore solides quoique construites en bois, et leurs divers aspects contribuent à l’originalité qui recommande cette partie de Saumur à l’attention des antiquaires et des artistes. […]. Là se présentent des appuis de fenêtre usés, noircis, dont les délicates sculptures se voient à peine, et qui semblent trop légers pour le pot d’argile brune d’où s’élancent les œillets ou les rosiers d’une pauvre ouvrière. Plus loin, c’est des portes garnies de clous énormes où le génie de nos ancêtres a tracé des hiéroglyphes domestiques dont le sens ne se retrouvera jamais. Tantôt un protestant y a signé sa foi, tantôt un ligueur y a maudit Henri IV. Quelque bourgeois y a gravé les insignes de sa noblesse de cloches, la gloire de son échevinage oublié. L’Histoire de France est là tout entière.

 

  pp. 5-6. Tale strada, ora poco frequentata, calda d’estate, fredda durante la lunga stagione invernale, in parecchi punti semibuia, è notevole per la grande sonorità del suo acciottolato sempre asciutto e pulito, per la sua tortuosa strettezza medioevale, per la pace delle sue case, che appartengono alla città vecchia e sono dominate dalle mura merlate del castello.

  I fabbricati che la fiancheggiano, alcuni dei quali tre volte secolari, sono ancora salsi, sebbene nella loro costruzione sia stato impiegato più il legno che la muratura, e i loro aspetti caratteristici, diversi l’uno dall’altro, danno alla via un’impronta di originalità che la impone all’attenzione degli amatori di antichità e degli artisti. [...].

  Più in là vi sono porte munite di chiodi enormi, colla particolare disposizione dei quali il genio dei nostri antenati ha composto geroglifici domestici, il cui senso non potrà mai essere interpretato, ai nostri giorni. Su di un battente un ugonotto ha lasciato il segno della propria fede protestante; su di un altro un affiliato alla lega cattolica ha manifestato la propria maledizione per Enrico IV. Qualche borghese ha voluto mettervi le insegne della propria «nobiltà di campanile», per rammentare ai posteri il periodo della sua dignità di scabino.

  Fate ancora qualche passo innanzi e potrete vedere davanzali di finestre consumati ed anneriti dagli anni, dalle delicate sculture che ormai si vedono appena, e che sembrano troppo lievi per sostenere i grossi vasi di terracotta rossastra, ove fioriscono i garofani e le rose di una povera operaia.

  In quella strada accidentata la storia di Francia è riprodotta interamente.

 

 

  Onorato di Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione italiana di Luigi Pescetti, Livorno, Società Editrice Tirrena (Stabilimento poligrafico Belforte), 1946 («Capolavori dell’800»), pp. 244.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Eugenia Grandet, pp. 7-242;

  L.[uigi] P.[escetti], Nota, pp. 243-244. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

 

  Traduzione, nel complesso, fedele e corretta nonostante alcune scelte stilistiche piuttosto libere e personali presenti nel corso dell’opera.

 

 

  Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro. Romanzo, a cura di Attilio Bertolucci, Modena, Guanda Editore (Tipografia Ferraguti), (febbraio) 1946 («Il Castello», 18), pp. 126.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Attilio Bertolucci, Nota, pp. 9-11; [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  La ragazza dagli occhi d’oro, pp. 13-126.

 

  Non sempre rigorosamente aderente al modello originale, questa traduzione che Attilio Bertolucci fornisce de La Fille aux yeux d’or merita comunque un giudizio favorevole per l’intensità drammatica che essa trasmette al lettore e che rispecchia pienamente, a nostro avviso, la forza espressiva con la quale Balzac ha voluto descrivere, ad esempio, gli orrori e la decadenza morale dell’inferno parigino:

 

  pp. 1039-1040. [cfr. Balzac, Histoire des Treize. La Fille aux yeux d’or, a cura di Rose Fortassier, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1977, t. V].

 

  Un des spectacles où se rencontre le plus d’épouvantement est certes l’aspect général de la population parisienne, peuple horrible à voir, hâve, jaune, tanné. Paris n’est-il pas un vaste champ incessamment remué par une tempête d’intérêts sous laquelle tourbillonne une moisson d’hommes que la mort fauche plus souvent qu’ailleurs et qui renaissent toujours aussi serrés, dont les visages contournés, tordus, rendent par tous les pores l’esprit, les désirs, les poisons dont sont engrossés leurs cerveaux; non pas des visages, mais bien des masques: masques de faiblesse, masques de force, masques de misère, masques de joie, masques d’hypocrisie; tous exténués, tous empreints des signes ineffaçables d’une haletante avidité? Que veulent-ils? De l’or, ou du plaisir?

  Quelques observations sur l’âme de Paris peuvent expliquer les causes de sa physionomie cadavéreuse qui n’a que deux âges, ou la jeunesse ou la caducité: jeunesse blafarde et sans couleur, caducité fardée qui veut paraître jeune. En voyant ce peuple exhumé, les étrangers qui ne sont pas tenus de réfléchir, éprouvent tout d’abord un mouvement de dégoût pour cette capitale, vaste atelier de jouissances, d’où bientôt eux-mêmes ils ne peuvent sortir, et restent à s’y déformer volontiers. Peu de mots suffiront pour justifier physiologiquement la teinte presque infernale des figures parisiennes, car ce n’est pas seulement par plaisanterie que Paris a été nommé un enfer. Tenez ce mot pour vrai. Là, tout fume, tout brûle, tout brille, tout bouillonne, tout flambe, s’évapore, s’éteint, se rallume, étincelle, pétille et se consume. Jamais vie en aucun pays ne fut plus ardente, ni plus cuisante. Cette nature sociale toujours en fusion semble se dire après chaque œuvre finie: – À une autre! comme se le dit la nature elle-même. Comme la nature, cette nature sociale s’occupe d’insectes, de fleurs d’un jour, de bagatelles, d’éphémères, et jette aussi feu et flamme par son éternel cratère. Peut-être avant d’analyser les causes qui font une physionomie spéciale à chaque tribu de cette nation intelligente et mouvante, doit-on signaler la cause générale qui en décolore, blêmit, bleuit et brunit plus ou moins les individus.

 

  pp. 17-18. Uno degli spettacoli più spaventosi che esistano sulla faccia della terra è senza dubbio l’aspetto dei parigini, gente smunta, gialla, terrea, orribile. Che cos’è Parigi se non un vasto campo scosso senza tregua da una tempesta di interessi, sotto cui turbina una messe di uomini che la morte falcia più che in qualsiasi altro luogo della terra e che rinasce sempre più fitta? I loro visi tesi e contratti sprigionano da tutti i pori lo spirito, i desideri, i veleni che riempiono i loro cervelli; non son visi quelli, ma maschere; maschere di debolezza, di forza, di miseria, di gioia e di ipocrisia, estenuate e segnate dal marchio indelebile di un’ansiosa avidità. Che vogliono dunque essi: oro e piacere!

  Qualche osservazione sull’anima di Parigi può spiegare le cause di quella tinta cadaverica che non ha che due età, giovinezza e vecchiaia: giovinezza pallida e scialba, imbellettata vecchiaia che vuol sembrare giovane. Alla vista di questo popolo dissotterrato, gli stranieri provano dapprima un senso di disgusto per questa vasta fucina di piaceri, ma ben presto non riescono essi stessi a liberarsene e finiscono per soggiacervi di buon grado. Poche parole basteranno a giustificare fisiologicamente la tinta quasi infernale dei visi parigini, poiché non si è punto scherzato quando si è detto che Parigi è un inferno. Là tutto fuma, brucia, brilla, fermenta, arde, evapora, si spegne, si riaccende, sfavilla, crepita e si consuma. Nessuna vita fu mai più ardente. Questa natura sociale sempre in fusione sembra dirsi, al termine di ogni opera: — Passiamo ad altro! — come fa la natura stessa. E come essa si occupa di insetti, di fiori effimeri, di bagatelle, di futilità, così essa getta fuoco e fiamme dal suo eterno cratere. Ma prima di analizzare le cause che danno una particolare fisionomia a ogni tribù di questa nazione perennemente mobile e intelligente, è necessario risalire alla causa prima che ne scolora e illividisce gli individui.

 

 

  Balzac, Storia dei Tredici. Traduzione di C. Faraglia, Roma, De Luigi, 1946.

 

  L’opera, al momento, non è stata reperita nei Cataloghi delle Biblioteche consultate.

 

 

  Onorato Balzac, Suor Teresa, Torino, S. A. Tipografica Editrice «Taurinia», 1946, pp. 190; 1 tav.

 

  Si tratta della traduzione (anonima) di La Duchesse de Langeais; Soeur Thérèse è il titolo del primo dei due capitoli del romanzo balzachiano che ritroviamo nell’edizione pre-originale del romanzo pubblicata ne «L’Écho de la Jeune France» tra l’aprile e il maggio 1833. Questa versione italiana dell’opera di Balzac, alquanto approssimativa e disinvolta fin dall’inizio, è lontana dal potersi definire fedele e corretta rispetto al modello francese, come testimonia l’esempio che qui sotto riportiamo:

 

  p. 906 [cfr. Balzac, Histoire des Treize. La Duchesse de Langeais, a cura di Rose Fortassier … cit.].

 

  Il existe dans une ville espagnole située sur une île de la Méditerranée, un couvent de Carmélites Déchaussées où la règle de l’Ordre institué par sainte Thérèse s’est conservée dans la rigueur primitive de la réformation due à cette illustre femme. Ce fait est vrai, quelque extraordinaire qu’il puisse paraître. Quoique les maisons religieuses de la péninsule et celles du continent aient été presque toutes détruites ou bouleversées par les éclats de la révolution française et des guerres napoléoniennes, cette île ayant été constamment protégée par la marine anglaise, son riche couvent et ses paisibles habitants se trouvèrent à l’abri des troubles et des spoliations générales. Les tempêtes de tout genre qui agitèrent les quinze premières années du dix-neuvième siècle se brisèrent donc devant ce rocher, peu distant des côtes de l’Andalousie. Si le nom de l’Empereur vint bruire jusque sur cette plage, il est douteux que son fantastique cortège de gloire et les flamboyantes majestés de sa vie météorique aient été comprises par les saintes filles agenouillées dans ce cloître. Une rigidité conventuelle que rien n’avait altérée recommandait cet asile dans toutes les mémoires du monde catholique. Aussi, la pureté de sa règle y attira-t-elle, des points les plus éloignés de l’Europe, de tristes femmes dont l’âme dépouillée de tous liens humains, soupirait après ce long suicide accompli dans le sein de Dieu. Nul couvent n’était d’ailleurs plus favorable au détachement complet des choses d’ici-bas, exigé par la vie religieuse. Cependant, il se voit sur le Continent […]. [Il corsivo è nostro].

 

  pp. 5-6. In una città di un’isola spagnuola del Mediterraneo sorge da tempo un convento di suore carmelitane scalze, nel quale si conserva tuttora, con il primitivo rigore, la regola istituita da Santa Teresa. Per quanto questo fatto possa sembrare strano, tuttavia esso è vero. Gli istituti religiosi del continente, in genere, sono stati tutti sconvolti o addirittura distrutti dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche, ma quell’isola fu costantemente protetta dalla marina inglese, cosicché il suo convento e la città intiera rimasero al sicuro da ogni disordine e soprattutto da tutte le spogliazioni effettuate altrove. Tutti gli sconvolgimenti dei primi decenni del XIX secolo non riuscirono a penetrare in quella rupe che si eleva, a poca distanza dalla costa, di fronte all’Andalusia. Anche ammettendo che il nome di Napoleone sia giunto in quel lembo di roccia, tuttavia si può mettere in dubbio che la sua sfolgorante gloria e il fastoso trionfo della sua meteorica esistenza siano stati compresi dalle sante donne preganti in quel volontario esilio. L’inflessibilità della regola, che nulla aveva alterato, raccomandava quel chiostro in tutte le menti cattoliche del tempo. La purità di questa regola stessa attirava dalle terre più lontane d’Europa donne la cui anima rattristata, svincolata da ogni legame mondano, anelava quella sorta di annientamento compiuto in seno a Dio. Si vedono nel continente [...].

 

 

  Honoré de Balzac, Tre racconti. Il colonnello Chabert - La messa dell’ateo - L’interdizione. A cura di Michele Lessona, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese (già Ditta Pomba), 1946 («I Grandi Scrittori Stranieri, diretta da Arturo Farinelli», n. 122), pp. 221; 1 ill. [Honoré de Balzac (Quadro di Boulenger)].


  Struttura dell’opera:

 

  Michele Lessona, Introduzione, pp. 5-20; [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Il colonnello Chabert, pp. 21-101;

  La messa dell’ateo, pp. 103-226 (sic; lege: 126);

  L’interdizione, pp. 127-220.

 

  Esemplate sui testi dell’edizione Furne (1844), le traduzioni di queste tre ‘scènes de la vie privée’ balzachiane ci sembrano, nel complesso, fedeli e corrette. 

 


 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Il marchio sulla carne. Grande film d’amore tratto da una celebre novella di Onorato di Balzac. Regia di Jaques (sic) de Baroncelli. Produzione: E. I. A.. Interpreti. Antotonietta di Langeais: Edivige Feullère; Armando di Montriveau: Pierre Richard Wilm, «I Grandi Cine-Romanzi illustrati», Torino, N. 28, 24 Marzo 1946, pp. 1-15.

 

  Si tratta della narrazione, anche in forma dialogata, che vede come protagonisti i personaggi di questo film ispirato alla Duchesse de Langeais di Balzac.

 

 

  Cinema. Domani all’Ambrosio “Il Forzato di Rochefort” (“Vautrin”), «La Nuova Stampa», Torino, Anno II, Numero 173, 25 Luglio 1946, p. 2.

 

  Nata dall’incandescente, prodigiosa fantasia di Onorato Balzac, l’immortale figura del criminale «Vautrin» ha trovato, sullo schermo, la personificazione più evidente e magistrale in Michel Simon accanto al quale rivedrete, in questo superfilm «Enic», la soavissima Madeleine Sologne e il maschio ed irruente George (sic) Marchal.

 

 

  La Minerva Film per la stagione 1946-47. “Eugenia Grandet”, «Il Satanello. Settimanale di Sports, Cinema e Varietà», Foggia, Anno 13 [?], Num. 9, 4 Novembre 1946, p. 4.

 

  Vi presentiamo una lista di films che la Minerva Film ha in programma per la stagione cinematografica 1946-47 e che saranno proiettati a Foggia nei mesi entranti.

  Eugenia Grandet - Tratto dal romanzo omonimo di Balzac e realizzato da Mario Soldati. Protagonista è Alida Valli che qui appare nella pienezza della sua maturità artistica nelle vesti di uno dei personaggi più difficili della letteratura narrativa. Altri interpreti sono Gualtiero Tumiati, Giorgio De Lullo, Giuditta Rissone, Enzo Biliotti, ecc.

 

 

  La firma del signor Rothschild, «Il Tribuno del Popolo. Settimanale indipendente di Capitanata», Foggia, Anno I, N. 11, 7 dicembre 1946, p. 3.

 

  Balzac, l’autore dello «Comédie Humaine», visse e morì ricercando la ricchezza e la gloria nelle speculazioni commerciali. Ma non doveva certo ai suoi talenti di speculatore l’amicizia del grande banchiere Giacomo Rothschild, capo della grande Casa europea rappresentata in ogni capitale da Napoli a Varsavia, da Londra a Costantinopoli.

  Rothschild stimava il genio del romanziere Balzac quanto almeno compativa le sue manie di finanziere. Balzac sposò una ricchissima signora polacca, la contessa Hanska e alla vigilia del suo viaggio in Ucraina, ove doveva recarsi per impalmarla, andò da Rothschild a chiedergli una lettera di accredito per la filiale di Varsavia. Rothschild infatti scrisse e congegnò aa suo amico una presentazione che il collerico quanto orgoglioso romanziere ritenne piuttosto freddina e inadeguata. Di ritorno a Parigi Rothschild gli chiese: «Avete dunque presentata la mia lettera a Varsavia?» E Balzac con rude franchezza: «No, non mi parve degna della nostra amicizia». Ma il suo banchiere con un sorriso ironico ribattè: «Male, il geroglifico della mia firma conteneva un segno convenzionale che vi apriva un credito di 40000 franchi». [...].

 

 

  Antonio Baldini, Tastiera, «Il Nuovo Corriere della Sera», Milano, Anno 71, N. 188, 14 dicembre 1946, p. 1.

 

  Dante e Goethe morirono quando da poco, si può dire, avevan levato la mano dagli ultimi versi del Paradiso e del secondo Faust; Ariosto passò di vita che ancora stava lavorando a perfezionare l’Orlando; Tasso, che pure non ebbe la vita comoda né la mente sempre a posto, dopo il Goffredo scrisse il Monte Oliveto, i Dialoghi e il Mondo creato; Tolstoi dopo Guerra e pace dette la Karènina e il resto, Balzac per poco non seguitò a scrivere romanzi anche dopo morto ...



  Umberto Barbaro, Al Festival di Venezia. Alida Valli, Soldati e Honoré de Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXIII, N. 212, 11 Settembre 1946, p. 2.

 

  [...]. Così è di questa Eugenia Grandet – ridotto da Aldo De Benedetti in una sceneggiatura inverosimile; dove sembra non succeda mai nulla e che proceda con noiosa lentezza attraverso descrizioni interminabili e inutili ripetizioni esasperanti fino all’amaro finale bene previsto, che si frantuma nella sospensione di otto o dieci scenette che tutte dicono la stessa cosa e che danno la sgradevole sensazione della ripresa d’aria di uno sternuto che non si decide a venire; dove i dialoghi sono di una sciatteria triviale che porta non infrequentemente a una irresistibile comicità involontaria, come quando il vecchio Grandet dice che in un momento di smarrimento si capisce che una ragazza possa dare un qualcosa, ma non il suo denaro, o il “ti dispiace” dell’uomo che in quel momento fa crollare tutto il mondo e tutto il senso della vita allo donna che lo ama.

  Dove i fatti prima si vedono distesamente ripresi con assoluta mancanza di sintesi, di allusività e di pregnanza, e poco dopo vengono raccontati diffusamente dal protagonista. Dove gli attori Tumiati e Di Lullo recitano con una tecnica che già a teatro apparirebbe disonesta, tant’è esagitata, e che tuttavia non riesce mal a persuadere e a commuovere e dove inutilmente si sacrifica la grazia di Alida Valli in una mutria greta-garbeggiante.

  La storia poi che si narra è giunta da uno dei migliori romanzi di Balzac. Non si capisce proprio che interesse possa presentare oggi, specie se privato di quell’artefatto, ma genialissimo fervore del romanziere francese. I pregi? Ahimè! Anche decantato il valore formale del film di Soldati si sarebbe inclini ad annoverarlo fra le sue peggiori carenze cinematografiche; si tratta di un «pittoricismo» che ti avvale qui dell’assurdo ricordo di Machaty nella fotografia di Fich; una patinatura che più che bella può al massimo dirsi elegante; elegante essendo questione di commercio e di moda e non di arte. Una moda ormai vecchia di almeno dieci anni e che appare, come ogni moda pezzata, goffa e buffa.

  Alla casa produttrice non si può negare il riconoscimento d‘un coraggioso e costoso sforzo produttivo e la volontà di produrre un film d’arte; a fare il quale niente però sembra meno ragionevole che incaricarne un regista che all’arte del film non crede.

 

 

  Maria Bastide, Introduzione, in Honoré de Balzac, Cesare Birotteau ... cit., pp. 9-21.

 

  Balzac nacque a Tours il 27 floreale dell’anno VII, ossia — per intenderci meglio — il 16 (sic) maggio 1799, giorno di Sant’Onorato, di cui gli fu dato il nome, e morì a Parigi il 20 agosto 1850.

  Non ostante le sue pretese aristocratiche, Balzac era di nascita popolare. La sua famiglia, originaria della Linguadoca, si componeva di umili braccianti di nome Balssa o Balsa. Suo padre, stabilitosi a Tours, fu il primo che firmò «Balzac», e il grande romanziere stesso non assunse la particella nobiliare che nel 1836. Allevato modestamente, più che agli studi attese a vaste e confuse letture: dalla scuola uscì con una vaga aspirazione alle lettere, e soprattutto alla gloria, alla celebrità. Venuto giovane a Parigi, vi condusse fino ai trent’anni una vita singolarmente avventurosa, piena di brancolamenti, di sforzi in diverso senso, di svariate iniziative, che si risolvevano regolarmente in disastri finanziari. La sua testa era un vulcano di progetti di cui si invaghiva e che via via abbandonava per nuove ideazioni di affari che lo rovinavano e che egli doveva poi riscattare con un enorme lavoro intellettuale.

  Alloggiato durante lunghi anni in una soffitta parigina, accumulò dal 1821 al 1829 volumi su volumi, ora in collaborazione con Le Poitevin Saint-Alme, che prendeva il nome di Villerglé, ora solo, sotto i pseudonimi di Horace de Saint-Aubin e di lord Rhoone; per lo più romanzi infelici (non però così mediocri come fu detto da taluni), che non ebbero successo. Tentò allora di assicurarsi l’indipendenza con speculazioni industriali. Comperò una stamperia a Parigi, poi vi aggiunse una fonderia di caratteri; ma entrambe queste imprese, con le quali si era illuso di conquistare una fortuna, andarono male, lasciandogli debiti insanabili, che trascinò per tutta la vita. L’insuccesso lo restituì alla letteratura. «La stamperia — diceva — mi ha preso tanto capitale, che bisogna che me lo renda». E, sia per liberarsi dai suoi creditori, sia per soddisfare i propri gusti fastosi e la sua inguaribile prodigalità, dotato com’era di una tempra ingenua ed entusiasta, di incrollabile fede nel proprio genio e di un bisogno febbrile di attività, si rimise coraggiosamente e incessantemente, come un robusto operaio, a quel lavoro letterario che era, del resto, la sua vocazione naturale. Il suo metodo di lavoro era coricarsi alle diciotto, «con la cena in bocca», alzarsi a mezzanotte, prendere caffè e scrivere fino a mezzodì.

  L’esplosione, poi la superba continuità del suo genio creativo, sono un fenomeno. Nel 1827 Le dernier Chouan apre la serie delle opere da lui riconosciute e firmate con il proprio nome. Nel 1829 la Physiologie du mariage (con capitoli assai scabrosi) e alcune novelle, come Gloire et malheur, La maison du chat qui pelote, Le Bal de Sceaux, valsero a toglierlo dalla mediocrità. Ma non era ancora classificato fra i romanzieri di fama, quando apparve, nel 1831, La Peau de chagrin, che fece molto rumore e il cui successo fu completo. Da quel momento, grazie a un lavoro accanito, la sua produzione letteraria fu di una regolarità sorprendente. Ma per pubblicare in vent’anni 97 opere fra romanzi, racconti, saggi e lavori teatrali, non gli bastarono le forze di una natura pletorica, esuberante e impetuosa, e di una costituzione erculea, ed a 50 anni, in piena maturità, moriva vittima di un logorante lavoro di cui pochi uomini sarebbero stati capaci, e dell’abuso degli eccitanti ai quali lo avevano condannato le sue veglie forzate.

  I suoi imbarazzi pecuniari, bisogna dirlo a sua lode, provenivano in parte dalla sua coscienza, dalla sua probità letteraria. Egli avrebbe potuto, una volta salito in fama, non prendersi la briga di pulire e ripulire le sue minime frasi: ma su questo punto fu sempre inflessibile, non dando il «visto, si stampi» se non dopo aver rimaneggiato quattro, cinque e perfino dieci volte, ogni bozza di stampa. Le spese di correzione, messe a suo carico, sorpassavano qualche volta il compenso pattuito per uno dei suoi libri. Alcuni dei suoi romanzi non gli furono pagati che 1800 o 2000 franchi, mentre gli venivano addebitati 4000 franchi per le correzioni!

  Nel 1845 Balzac aveva stabilito un piano che comprendeva un gran numero di opere, che poi non ebbe il tempo di scrivere; malfermo in salute, la sua attività si concludeva nel 1847. Di tutti i suoi romanzi, il più interessante è forse quello della sua stessa vita, il più reale, quello che non ha avuto la fatica di inventare, e i cui capitoli ha via via scritto in ognuna delle sue lettere. Tutto ciò che i suoi biografi — Gozlan, Gautier, Sainte-Beuve, Taine — ci hanno detto del suo estenuante lavoro, delle sue difficoltà pecuniarie, delle sue concezioni chimeriche, della sua fiducia in se stesso, della sua avidità di sfarzo e di grandezze, è non solo confermato, ma accresciuto di particolari precisi che egli solo conosceva e poteva dire. La maggior parte delle sue lettere sono dirette a sua sorella, Madame de Surville, e a sua madre; specialmente interessanti quelle dirette a Madame de Hanska, la contessa polacca da lui sposata nel marzo del 1850, cinque mesi prima della sua morte.

  I suoi romanzi ci fanno pensare a un Balzac osservatore meticoloso e paziente di fisionomie e di caratteri, raccoglitore di «documenti umani». Le sue lettere rivelano invece che egli non ne ebbe mai l’agio, oppresso com’era da una produzione incessante. La sua osservazione era più che altro frutto di intuizione: un tratto intravvisto gli bastava per ricostruire un carattere.

  Nel 1842 cominciò a collegare le une alle altre tutte le parti della sua opera romantica sotto il titolo generale di Comédie humaine, suddividendole a lor volta in diverse categorie: Scènes de la vie privée (Le Père Goriot, etc.), Scènes de la vie de province (Eugénie Grandet, etc.), Scènes de la vie parisienne (Grandeur et décadence de César Birotteau, etc.), Scènes de la vie politique (Une ténébreuse affaire, etc.), Scènes de la vie militaire (Les Chouans, etc.), Scènes de la vie de campagne (Les paysans, etc.), Etudes philosophiques (La recherche de l’absolu, etc.). Ma tale classificazione sistematica non ha importanza intrinseca per il contenuto delle singole opere, trattandosi più che altro di uno sforzo astratto di unificazione, generalmente estraneo all’impulso creativo dello scrittore. Nei suoi romanzi la trama e i caratteri finiscono ad avere quasi sempre la preminenza sulle sue manie dottrinarie. Ed è bene che sia così, perché altrimenti egli ci avrebbe lasciato una quantità di opere a tesi o di pitture d’ambiente assai discutibili dal punto di vista artistico. Tutt’al più, parecchi personaggi passano e ripassano da un romanzo all’altro, quali anelli di collegamento fra le classi, le condizioni e le famiglie dell’immaginaria società balzacchiana, famiglie che si ramificano e delle quali si segue l’ascensione o la decadenza. Già nel Père Goriot l’autore presenta alcuni fra i personaggi destinati a figurare poi in successivi romanzi, come Rastignac, il gentiluomo provinciale che frequentando l’alta società parigina ne diventa uno dei dominatori; il galeotto Vautrin che si trasforma in poliziotto; le figlie di Goriot, sposate l’una al conte de Restaud, l’altra al banchiere Nucingen; personaggi che si collegano a nuove famiglie, a nuove figure, che il Balzac richiama dall’uno all’altro romanzo, dandoci l’illusione di persone già note, che tornano alla nostra memoria con i loro tratti caratteristici e ben determinati.

  Balzac conobbe il nostro Paese: fu a Torino nel 1836, nel 1837 a Milano ed a Venezia, frequentando i salotti della contessa Maffei e della contessa Soranzo; a Genova nel 1832 e nel 1837-38; in Sardegna, dove sperava di sfruttare una miniera d’argento, e nel 1846 a Roma. Le gazzette del Lombardo-Veneto salutarono il suo soggiorno a Milano ed a Venezia con articoli laudatori dell’ospite e dell’opera sua. A dame, gentiluomini, artisti italiani, dedicò alcuni dei suoi romanzi, e questi non tardarono ad essere tradotti fra noi.

  Spirito possente, scrittore di genio, e tuttavia responsabile di tante licenze contro la purezza della lingua, produttore troppo frettoloso per non esser stato inuguale e tormentato, Balzac con la sua grandezza e le sue imperfezioni esigerebbe un lungo studio. Pochi uomini hanno esercitato sulla letteratura un influsso più considerevole. Gustato dapprima da un cenacolo assai ristretto, egli vide il numero dei suoi lettori aumentare con la sua fama. Poi la massa intiera del pubblico salutò in lui il maestro del romanzo moderno, che ha abbracciato nelle sue prodigiose creazioni tutta la società del XIX secolo, specialmente la borghesia provinciale e parigina, la cui rappresentazione formò la sua passione e la sua gloria. Egli è l’uomo dell’epoca e della massa, poiché incarna veramente tutto il suo tempo. Ciò egli deve a due qualità: il suo genio di rievocazione e la sua potenza di pensatore. Come creatore di figure viventi, la sua maestria è indiscutibile. Nella folla immensa di uomini politici, banchieri, usurai, giornalisti, avvocati, notai, artisti, medici, magistrati, funzionari, impiegati, commercianti, piccoli borghesi, contadini, che si muovono ora nella curiosa vita di provincia, ora nell’affascinante vita parigina, popolando i suoi 97 volumi, e che secondo una frase comune fanno concorrenza allo stato civile dell’epoca, vi sono ben pochi personaggi che non abbiano la loro fisionomia ben definita. Perfino le figure di terzo piano sono anch’esse inaudite di verità e di potenza suggestiva, e restano una volta per tutte scolpite nel ricordo. A tale qualità si deve soprattutto il crescente interesse che la sua opera suscita nel lettore. La sua potenza di pensiero completò meravigliosamente la sua forza immaginativa. Tutti i suoi racconti, sotto la vivente agitazione degli uomini, rivelano una flora profonda di idee, di sistemi, di teorie. Tutto si trova in Balzac: estetica, etica, politica, metafisica, religione, sociologia, filosofia della storta.

  Il soggetto della sua multiforme opera non è altro che la vita comune, sempre la stessa e pur sempre varia. Un mondo, e più esattamente un’epoca: la fine dell’Impero, la Restaurazione, il Governo di luglio. Cinquemila personaggi, parecchi dei quali passano e ripassano da un romanzo all’altro, e che appartengono a tutti gli ambienti. L’uomo d’affari che c’era in Balzac ha reso un impareggiabile servizio al romanziere. La maggior parte dei letterati non sanno uscire dall’amore, e non si servono che delle avventure d’amore per caratterizzare i loro eroi. I personaggi balzacchiani non si occupano esclusivamente di amare e di guardare entro sé stessi, ma anche, e specialmente, di guadagnarsi il pane, di conquistare la ricchezza, il potere, con la loro intelligenza, le loro astuzie, anche le loro violenze; ciascuno di loro è situato in mezzo a minuziose circostanze che gli sono, proprie, in una decorazione determinata, concreta, esatta. «La mia opera ha la sua geografia — diceva Balzac nel prologo della Comédie humaine — come ha la sua genealogia e le sue famiglie, i suoi luoghi e le sue cose, le sue persone e i suoi fatti».

  Si è detto che Balzac scriveva male, pesantemente, senza nota personale, e lo si è accusato di intemperanza di gusto e di misura, di mancanza di senso artistico, di tumultuaria prolissità, di romanticismo melodrammatico, di stile non sempre corretto («detestabile e ridicolo» lo ha perfino qualificato il Lanson); ma tutti i difetti scompaiono nella grandezza dell’insieme. Di fronte a un’opera simile, a nulla valgono le riserve dei critici delicati. «La qualità essenziale del suo stile è di essere vivente — ha detto Henri Mazel —: egli resterà il più grande creatore di esseri, il più vivente degli scrittori francesi del XIX secolo; quando si ha questa virtù, ci si può pagare qualche difetto». «Il problema della scrittura, dello stile — ha scritto Diego Valeri — non esisteva per Balzac: la sua arte era la sua natura stessa». E in questo senso è giusta la definizione datane da Michelet: «una forza della natura».

  Giustamente ha però osservato il Lanson che mancano in Balzac le notazioni delicate di sentimenti poetici, le fini analisi di tenere passioni, di esaltazioni idealiste; «le sue fanciulle sono ingenuamente banali; la virtù, come la grazia, riesce male a Balzac; il suo genio comincia dalla volgarità e dal vizio». Manca pure totalmente nell’opera sua il sentimento della natura. «Davanti ai campi e ai boschi — dice ancora il Lanson — questo grande pittore ha emozioni da commesso viaggiatore. Non c’è che l’uomo che lo interessa, e tutto ciò che accompagna e rivela l’uomo. È esclusivamente pittore delle relazioni sociali e delle nature umane».

  Egli aveva un sentimento finissimo delle realtà quotidiane e volgari, delle piccole miserie dell’esistenza; sotto questo rapporto la sua facoltà di osservazione, servita da una vasta memoria, gli fornisce effetti di una realtà sorprendente. Quando traccia un ritratto, si direbbe che il modello gli posa davanti. Egli distingue benissimo anche i diversi gruppi sociali; mondo elegante, aristocrazia, borghesia ricca, popolo di Parigi, piccolo commercio, consorterie, professioni: in ogni gruppo gli individui-tipo. E nei saloni, come negli uffici e nelle campagne, il corteo di maldicenze, calunnie, gelosie, invidie, spionaggi, eredità, elezioni, matrimoni, etc.

  Balzac è poi incomparabile anche nel caratterizzare i suoi personaggi mediante l’ambiente nel quale vivono. Si può dire che anche le descrizioni degli interni riflettono la loro profonda psicologia: la tipografia di papà Séchard, la casa di Grandet, un appartamento di curato o di zitella, le tappezzerie sontuose o stinte di un salone; è il suo metodo di analizzare le abitudini morali della gente che ha foggiato l’aspetto dei luoghi.

  Il denaro ha una parte assai importante nelle opere di Balzac. Divorato lui stesso da un amore sfrenato per le ricchezze e per tutti i godimenti che esse procurano, non potè esimersi dal mettere il denaro in primo piano nella maggior parte delle sue opere. I suoi tipi prediletti, da Rastignac a Rubempré, non hanno altro dio che l’oro, altra legge che l’interesse, altra religione che i sensi. Balzac ci fa entrare nelle loro ambizioni, ci spiega minutamente come la loro fortuna fu acquistata e perduta: tutto un mondo losco di procuratori, di uscieri, di sbirri, si agita nei suoi romanzi, come si agitavano intorno a lui stesso nella vita reale.

  Balzac aveva 38 anni quando fini di scrivere l’Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau, che qui presentiamo in veste italiana. Egli era già celebre: Les Chouans, Gobseck, Le Colonel Chabert, Le curé de Tours, Le médecin de campagne, ma soprattutto Eugénie Grandet e Le Père Goriot, due autentici capolavori, lo avevano reso noto anche fuori di Francia, pur non procurandogli mai una tranquilla agiatezza. In questi due ultimi libri vi è al centro della favola una passione forte e dominante, che è l’unica molla interna degli atti delle singole persone: l’avarizia del vecchio Grandet, l’amor paterno di Goriot, sullo sfondo minuto e realistico, scrupolosamente osservato, dei costumi e degli oggetti consueti. I grandi personaggi balzacchiani affondano ciascuno le proprie radici in un fenomeno sociale e ne rivelano una crisi: così Rubempré, poeta illuso, Bridau, ufficiale napoleonico egoista e malvagio, la «cousine Bette», vecchia zitella invidiosa e gelosa, il «cousin Pons», curioso tipo di parassita; e così anche il protagonista di questo romanzo, Cesare Birotteau, commerciante abile, ma di fondo onesto, travolto in un fallimento, a cui il Balzac conferisce i colori grandiosi dell’epica.

  Da ogni punto di vista, questo romanzo è uno dei più significativi dell’opera balzacchiana, in quanto si può dire che partecipa di tutte le principali caratteristiche che si riscontrano negli altri suoi romanzi. Anche qui il lettore noterà qualche pagina debole, come ve n’è in Eugénie Grandet, nel Père Goriot e altrove; alcune forse non abbastanza limate e rimaneggiate dall'autore, altre invece da lui probabilmente volute proprio così. Comunque, anche qui le pagine labili non incidono sull’architettura dell’edificio, né offuscano il vigoroso rilievo delle figure che lo popolano. Anche qui Balzac non s’interessa che all’elemento umano, minuziosamente ritratto nella sua figura e nel suo ambiente, materia in cui l’autore è inesauribile: vedi Birotteau, la sua casa, il suo negozio e quello di Popinot, la casa di Claparon, gli uffici dei banchieri Keller e Nucingen; Birotteau, di cui fa risaltare la probità, la lealtà, il sentimento religioso; uomo debole, ingenuo, ma vanitoso, facile vittima della malvagità altrui, che trova però, fra tanti imbroglioni, anche qualche anima buona che lo aiuta, lo difende e lo conforta; sua moglie, buona, affettuosa, donna pratica e dotata di buon senso, che Birotteau deve poi pentirsi di non aver ascoltato. Anche qui Balzac non si diffonde nelle notazioni di sentimenti teneri: la figlia Cesarina, fanciulla docile, modesta, ingenua, arriva a sposare Popinot, ma del loro amore quasi nemmeno una parola. Anche i suoi genitori, Cesare e Costanza, si capisce che si vogliono bene, ma si direbbe che Balzac abbia un certo pudore che lo trattiene dal descrivere sentimenti affettivi, pur lasciandoli intravvedere qua e là con sobrie pennellate. Anche qui si nota l’assenza totale del sentimento della natura: non c’è pericolo che Balzac accenni al cielo, alla luna, alle stelle, ma neppure allo stato del tempo.

  In cambio, la vita parigina del commercio e della banca, con tutte le furberie dei banchieri grandi e piccoli, e i pettegolezzi relalativi (sic), è magistralmente descritta, come lo è pure la vita intima e familiare. Anche qui vi è il solito contrasto di tipi buonissimi con tipi di gente ipocrita e malvagia. E anche qui l’autore si compiace di descrivere curiose scene di costumi locali o professionali. Birotteau e Popinot lanciano un’acqua pei capelli: eccone il brevetto d’invenzione, i prospetti, ed eccone la pubblicità, e il conto delle spese relative. E che particolareggiate descrizioni di prestiti, di speculazioni, di bilanci, di atti notarili! Anche qui il denaro ha una parte assai importante: vi è addirittura una ridda di cifre, di biglietti di banca, di cambiali. Il fallimento di Birotteau induce l’autore a farci in un intero capitolo la storia generale dei fallimenti, che si può ritenere suppergiù di attualità ancor oggi, a un secolo di distanza, e non solo a Parigi, non solo in Francia.

 

 

  René Benjamin, Vita prodigiosa di Onorato Balzac. Traduzione di V. Benetti, Milano, Barbieri, 1946 («Collana romantica internazionale Barbieri»), pp. 340.

 

  Cfr. 1932.

 

 

  Ada Bernardini, Le roman dans la première moitié du XIXième siècle. Honoré de Balzac, in Pages littéraires ... cit., pp. 122-123.

 

  Honoré de Balzac (1799-1850) naquit à Tours. Il a écrit plus de cent romane sous le titre de la Comédie humaine, qui retracent, au moyen de plus de 2.000 personnages, la physionomie de son époque. Toujours harcelé par le besoin d’argent il travaillait jour et nuit, mais cette vie de «galérien de plume et d’encre» mina sa forte fibre et il mourut d’un coup d’apoplexie en 1850.

  La Comédie humaine comprend plus de quatre-vingts romans, groupés, par catégories; Scènes de la vie privée: La Femme de trente ans, Modeste Mignon, Béatrix; Scènes de la vie de province: Eugénie Grandet, Le lis (sic) dans la vallée; Scènes de la vie. parisienne: La cousine Bette, Le cousin Pons; Scènes de la vie politique: Une ténébreuse affaire etc.; Scène (sic) de la vie militaire: Les Chouans; Scène de la vie de campagne: Le curé du village, Les paysans.

  Balzac ne possède point les qualités artistiques du style, élégance et harmonie, mais il fait revivre à nos yeux tout un monde qu’il a connu en observateur exact.

 

 

  Attilio Bertolucci, Nota, in Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro … cit., Modena, Guanda, 1946, pp. 9-11.

 

  «La fille aux yeux d’or» fa parte dell’«Histoire des Treize», e se la presentiamo tradotta a parte faremo forse un piccolo tradimento, non più grave però di quanti ne compie ogni giorno il critico d’arte che pubblica particolari peregrini di tediose macchine pittoriche. Hanno cominciato i decadenti a isolare questo racconto, da Beardsley che l’ha illustrato a Hoffmanstahl che ne ha fatto lodi eccessive in una sua curiosissima valutazione simbolista. E se è vero che i misteri parigini alla Sue di «Ferragus» hanno il loro tenebroso incanto, è pur vero che per lettori di stomaco delicato, come sono o credono di essere i moderni, la «Fille aux yeux d’or» può rappresentare un’esperimento (sic) eccitante, l’intera «Histoire des Treize» è certamente una lettura assai indigesta, quasi impossibile.

  Questa «Fille aux yeux d’or» è un libro di sangue, di voluttà e di morte in anticipo, o un romanzo nero in ritardo? Forse è un po’ dell’uno e dell’altro, con in più il formidabile lirismo da fognatura proprio di Balzac e delle celesti deviazioni di Baudelaire e Lautréamont. (Vedi ad es. quella sorta di preludio frastornato e senza respiro che apre il racconto, pieno di maledizione e di tenerezza, di statistica e di sogno).

  Quanto al valore anticipatorio di quest’operetta riguardo al romanzo decadente, cui abbiamo accennato, non è solo il soffocante profumo di vizio e di delitto che esce dalle sue pagine a metterci sull’avviso, ma qualche cosa di più inerente all’arte e alla tecnica stessa. Si sa che Balzac esce dal romanzo del Settecento, e chi pensi al mondo nudo e smobiliato in cui si muovono i personaggi di quell’illustre tradizione narrativa, non può non rimanere stupefatto davanti alla minutissima, quasi ingombrante descrizione di furniture che c’è nelle poche pagine di questo libro. E’ un gusto, che ritroveremo altrettanto vorace e dispendioso, solo tanti anni più tardi, che so, in Lorrain o nel peggiore D’Annunzio. Nel salotto che pure è neoclassico ove avvengono i primi incontri di de Marsay con Paquita non circola l’aria ventilata e freddina di quel libro veramente impero che è «Adolphe», ma ristagna un tanfo caratteristico appunto del romanzo decadente verso la fine del secolo.

  Per passare dal décor agli uomini, che cos’è de Marsay se non un elegante superuomo avanti lettera, naturalmente non nella pura accezione di Nietzsche ma nella volgarizzazione sperelliana?

  C’è naturalmente, al di sopra di tutte le analogie che abbiamo notato, l’arte di Balzac, che è, per salute e vigore creativo, quanto di più [l]ontano si possa immaginare da quella dei maestri manieristi della fine del secolo.

  E ad un lettore d’oggi che non se la senta di affrontare la meravigliosa farragine della «Comedie» (sic) questo racconto può mostrare uno degli aspetti meno noti e più stimolanti dì quella personalità straordinaria.

 

 

  Augusto Caricati, Le Roman. A. Dumas, père – G. Sand – Honoré de Balzac – Flaubert, in Précis de l’Histoire de la Langue et de la Littérature Française depuis leurs origines jusqu’à nos jours, Milano, Carlo Signorelli – Editore, 1946, pp. 124-126.

 

  p. 124. Georges (sic) Sand et Honoré de Balzac sont les initiateurs du roman psychologique et du roman réaliste. […].

  pp. 125-126. Honoré de Balzac (1789 (sic)-1850) était destiné par les siens à être notaire, mais il voulut être homme de lettres et y parvint à force de travail. Après avoir entassé pendant vingt ans volumes sur volumes, il groupa la plupart de ses romans sous le titre de La Comédie Humaine, qu'il divisa en plusieurs catégories: scènes de la vie de province; scènes de la vie privée; scènes de la vie parisienne; scènes de la vie militaire.

  «Balzac conquit son immense réputation par ce talent de créer des types inoubliables, et surtout, hélas! par la manière habile dont il flatta la foule». (M. J. M. J. de Nantes).



  Eugène Delacroix, A Honoré de Balzac, in Lettere di un pittore a cura di Maria Luisa Gengaro, Milano, Alessandro Minuziano Editore, 1946 («Testimonianze di artisti», 3), pp. 155-157.

 

  [Fine 1832].

 

  Permettetemi, come ringraziamento, di dirvi quali idee mi sian sorte a proposito di quelle del vostro Lambert (1). Le venivo scrivendo accanto al mio fuoco solitario leggendo il vostro lavoro, non alla svelta, ciò che mi è impossibile, soprattutto coi libri che mi piacciono: ossia quelli in cui le idee dell’autore ne suscitano continuamente in noi stessi.

  Che Lambert sia un parto della vostra mente oppure Lambert sia esistito, è comunque un personaggio che vive: perché creare per un poeta, è mostrare agli altri ciò che essi potrebbero scorgere al par di lui nella natura e che essi infatti trovano, quando, a somiglianza di uno specchio, egli riflette gli oggetti incorniciandoli ad uso del volgo dal cervello limitato, la cui vista animalesca, colpita vagamente da ogni cosa, non sa con precisione arrestarsi su nulla. Ho conosciuto dei Lambert o dei caratteri simili a quello. Sono stato io pure una specie di Lambert, pur non avendone la profondità: ma in quanto alle ore deliziose che il bimbo passa in mezzo alle sue poetiche immaginazioni, l’isolamento che raggiunge pure in mezzo alla sua classe, col naso appiccicato sul suo libro o facendo finta di seguire la spiegazione, mentre l’anima sua vaga costruendo palazzi, ho provato tutto questo come voi, come il vostro Lambert, e oserei dire come tutti i bambini. A quell’età, tutto è nuovo e si osa pensare a modo proprio. Più tardi l’originalità si comprime quando si fa la conoscenza del libro. Il libro d’un grande scrittore è un compromesso fra il lettore e lui. È un terreno neutro sul quale consente a discendere per trattare da pari a pari e riassumere in termini chiari i suoi sogni intermedi fra la sua immaginazione creatrice e la facoltà comprensiva del comune dei lettori. Per formulare delle idee, anche per uso di spiriti elevati, si deve sminuzzarle, squadrarle, passarle per un’imboccatura alquanto ristretta che le modella dandole alla luce. Come il vetro che si raffredda uscendo dalla fornace, e si trasforma da materia ardente, che bolle nel gorgo divorante, in un mobile, in un’ampolla per gli usi più comuni, così l’idea nuda, fredda, ma precisa e determinata, non è più una lava bollente, un lampo che illumina, ma è un utile recipiente che contiene per ognuno insegnamenti o diletto: diletto per gli oziosi, per le femminucce e tutto il pubblico che assiste freddamente al parto delle nostre opere, per adattarle ad uso proprio o per fischiare sia il padre che la creatura, piacere innegabilmente straordinario.

  C’è dunque un libro da fare sul libro e sull’illusione che esso sia un’eco fedele di ciò che ha colpito lo spirito del suo autore.

  Il brano sulla parola fa rimpiangere che esso occupi soltanto una pagina. V’è, come voi dite, tutta una competenza, lì come in tante altre cose, e avete certo dovuto abbandonar l’argomento con dispiacere.

  Non vi riempie d’ammirazione il fatto del complesso di circostanze favorevoli che occorrono per sviluppare il genio e ottenerne i frutti?

  Ho avuto un amico come Lambert; fondavamo delle repubbliche, ma ero meno entusiasta di lui. Credo che questo sviluppo precoce, conduca raramente a una grande superiorità. Ci vuole per la gente un genio pratico, che sappia discendere alle intelligenze comuni ...

 

(1) Louis Lambert vide la luce nei Nouveaux contes philosophiques nell’ottobre 1832. È questa l’unica lettera conservata dell’epistolario di Delacroix con Balzac.

 

 

  Arturo Farinelli, Don Giovanni, Milano, Fratelli Bocca – Editori, 1946 («Letterature Moderne»).

 

  pp. 216; 221. Cfr. 1896.

 

 

  Fraka, L’argomento, «Corriere d’informazione», Milano, Anno II, N. 210, 6-7 settembre 1946, p. 2.

 

  Ma scrivere sarebbe ancora il meno peggio: la cosa più grave consiste nel cominciare. Diceva Balzac: «Scrivere un romanzo è niente, è lo scrivere le prime righe che mi spaventa». Ecco lì lo scrittore dinanzi alla cartella candida, penna in mano, occhi fissi dinanzi a sé, nel vuoto.



  Luigi Gullo, I Giovanissimi. Il processo Cirimele-Annuzzi. Corte di Assise di Cosenza. L’arringa di Luigi Gullo, «Oratoria. Rivista mensile di eloquenza», Napoli, Anno II, N. 3, Marzo 1946, pp. 130-139.

 

  p. 135. Ma Cirimele ci è dipinto da tutti come un avaro. Egli è anche avaro, dunque. Per cui al naturale senso di sbigottimento pel danaro perduto, si aggiunge il cruccio, il dolore, il tormento che dilania il cuore dell’avaro, allorchè vede il suo peculio inutile, frantumato e distrutto ... Ricordate il padre di Eugenia Grandet, nel romanzo di Onorato Balzac? Cirimele, come Grandet, concentrava i suoi sentimenti in quei risparmi. Perduti questi, il sentimento perde il suo centro di gravità e si inabissa!



  Michele Lessona, Introduzione, in Honoré de Balzac, Tre racconti ... cit., pp. 5-20.

 

  Parlare di un particolare aspetto, o «momento» dell’arte di Onorato Balzac non è cosa facile: tutto, nella sua opera monumentale, dai muri maestri al menomo particolare decorativo, si collega in un insieme così rigorosamente sistematico, m un complesso così logicamente organico, che il proposito di metterne in rilievo un determinato elemento, o qualunque tentativo di analisi parziale indurrebbero ineluttabilmente a un riesame del tutto, con un’ampiezza di discorso, che non ci sarebbe consentita da questo scritto.

  Teniamo presenti le parole dello stesso Balzac: «Ogni cosa essendo causa ed effetto, producente e prodotta, giudico impossibile conoscer le parti senza conoscere il tutto, o il tutto senza conoscer le parti». In modo non dissimile si esprimeva Leonardo da Vinci — l’analogia fu acutamente notata da Luca Beltrami nel suo studio sul Codice Atlantico — dicendo che la certezza «nasce dalla cognizione integrale di tutte quelle parti, le quali essendo insieme unite, compongono il tutto».

  Ciò che Leonardo aveva detto della vita cosmica, Balzac ripetè della vita sociale; e ciò che Balzac disse della vita sociale, noi possiamo ripetere dell’opera sua, che della vita sociale è nitidissimo specchio, anzi rappresentazione libera e fedele ad un tempo, ricca di luci e d'ombre, e in cui alla precisa obbiettività dell’osservazione si unisce l’azione impercettibilmente deformatrice dell’arte, quella che vi fa riconoscere una mediocre pittura dalla più bella fotografia.

  Ogni lettore di Balzac dovrebbe dunque conoscer la prefazione dettata dallo scrittore, nel luglio del 1842, a dichiarazione dei suoi intenti per l’edizione definitiva della sua opera, quando questa comparve per la prima volta riunita sotto il titolo di Commedia umana: quadro dei costumi francesi nel secolo decimonono, sorta di «dramma a tre o quattromila personaggi», rievocazione della vita di tutti i ceti sociali, di tutte le professioni, di tutti gli «ambienti», dalla magistratura al giornalismo, dal clero alla milizia, dalle arti liberali all’artigianato, all’industria, alla borsa, alla banca: poco meno di quattordicimila pagine di stampa in ottavo, contributo potente alla storia, mezzo ausiliario efficacissimo all’indagine sociologica, e, soprattutto, rappresentazione artistica di straordinario vigore, che fa assurgere l’arte della prosa narrativa ai suoi più alti fastigi.

  Basti qui ricordare la partizione, stabilita dallo stesso Balzac, in Scene della vita privata, della vita di provincia, parigina, politica, militare e rurale: sei «libri» che comportano, nel loro insieme, non meno di sessantaquattro fra romanzi e novelle, spesso, queste ultime, di notevole ampiezza: specchio di una umanità che riflette, come lo apprendono i titoli, gli ambienti più varii, i quadri più disparati della società francese del tempo suo.

  Ma non bastava – così ancora Balzac nella prefazione sopra ricordata — dipingere in modo più o meno fedele, più o meno felice, coraggioso o paziente, i tipi umani, i drammi della vita privata, rappresentare l’arredo sociale, le professioni, le arti e i mestieri, il bene e il male del mondo: bisognava ancora indagare le cause o la causa di quegli effetti sociali, sorprendere la significazione riposta in quell’immensa raccolta di persone, di passioni e d’eventi; e infine — cercata almeno, se non trovata, questa causa, questo primo motore sociale — meditare e giudicare sui principii regolatori che possono mantenere l’attività umana nell’orbita dei due poli supremi del vero e del bello, cioè del bello e del giusto.

  Dopo lo studio dell’anatomico, insomma, quello del fisiologo; dopo la descrittiva, la sistematica.

  Ed ecco, allora, dopo gli «Studii di costumi», gli «Studii filosofici», seconda parte della «Commedia», dove si dimostra la causa dei fatti sociali; ecco, dopo gli «Studii filosofici», gli «Studii analitici», rimasti incompiuti, e destinati probabilmente a un ulteriore approfondimento della fisiologia sociale. Infine — allo stato di progetto, che non potè mai avere nemmeno un principio di esecuzione per la morte dello scrittore, ucciso a cinquantun anno dalla fatica della sua opera immane — una «Patologia della vita sociale», una «Anatomia dei corpi insegnanti», ed una «Monografia della virtù».

  Abbiamo dunque un Balzac romanziere e un Balzac sociologo (che tuttavia espresse le sue opinioni e formulò la sua dottrina quasi sempre nella forma di opere narrative).

  Il primo è assai maggiore del secondo.

  Il Balzac pensatore, sociologo e politico si salva, ai nostri occhi, per l’alta moralità dell’uomo, pel possente afflato di umanità che anima la sua visione del mondo, pel senso profondamente cristiano e latino che informa e sorregge il suo giudizio su ciò che è giusto, su ciò ch’e buono.

  Ma se consideriamo il suo pensiero sociologico e politico nelle affermazioni di principio, nelle professioni di fede formulate con carattere e valore di dogma, nei teoremi costruiti ex-professo per dar vita a un coerente sistema di concetti e di idee, non possiamo non ritrovarvi — e forse con sorpresa e dolore — uno spirito antiliberale e retrivo, un’ortodossia ristagnante, una staticità la cui fermezza confina talora con la grettezza.

  I poli della sua orbita dottrinale sono il principio cattolico e il principio monarchico, il trono e l’altare, principii ch’egli definisce gemelli. Sua è l’affermazione, per vero grave, che «l’insegnamento, o, meglio, l’educazione a mezzo di enti religiosi è il grande principio d’esistenza pei popoli, il solo mezzo per diminuire la somma del male e per aumentare la somma del bene nella società». Non solo combatte l’insegnamento laico ed aconfessionale, ma esclude sinanco la possibilità di una morale che non sia fondata sulla religione; dichiara la monarchia «una verità eterna». Se le sue critiche al liberalismo, al parlamentarismo e al sistema elettorale — specialmente per ciò che riguarda il suo modo di attuazione — sono piene di moderazione e di acume, così da poter esser discusse e in parte anche accettate da qualunque spirito equilibrato e sereno, appare pur sempre aberrante l’affermazione che il governo democratico, «l’unico veramente irresponsabile, dà luogo a una tirannia senza limiti, perché questa vi è denominata la legge» : come se l’impero illimitato della legge non fosse appunto il solo cui debba e possa volonterosamente sottoporsi qualunque uomo degno di questo nome!

  Ancora, egli considera la famiglia, e non l’individuo, come il vero elemento sociale: e non è l’importanza così attribuita al nucleo familiare come cellula della società e dello Stato, che sembra riprovevole agli occhi di un pensiero più liberale, sibbene la recisa condanna del sistema della successione testamentaria nel Codice Napoleone: contro l’istituto della quota legittima — o della riserva a favore dei discendenti — che ha conciliato così bene il diritto dell’individuo con le esigenze della famiglia nella legislazione francese e in quelle da essa imitate, non esclusa la nostra, Balzac spezza continuamente lance, rimpiangendo ad ogni passo i maggioraschi, i fedecommessi, le istituzioni addirittura medioevali, che avevano una ragion d’essere quando alla nobiltà feudale spettava una specifica funzione di governo, quando — in omaggio all’interesse sociale — tutti trovavano naturalissimo che i figli primogeniti ereditassero patrimonii ingenti, mentre i cadetti dovevano vivere della loro spada o di un qualunque mestiere, e le figliuole che non trovavano da accasarsi perché non sufficientemente dotate finissero in un convento, astrette senza vocazione di sorta ai voti monastici.

  Seppure codeste dottrine del grande scrittore siano temperate dal correttivo di un incomprimibile amore della giustizia e siano immuni da qualunque eccesso d’intransigenza, esse appaiono formulate con tanto preciso rigore da costringerci a considerarlo come uno spirito antiliberale, come un legittimista ad oltranza, come un campione della Chiesa, che fa salvo il suo diritto di critica soltanto in confronto dei membri di essa, e non delle sue istituzioni e dei risultati sociali della sua azione.

  Perciò dovremmo pensare che se Balzac fosse vissuto qualche lustro più tardi, ai tempi dell’«affare Dreyfus», egli sarebbe stato indotto dai suoi convincimenti politici e dalla sua presa di posizione a schierarsi fra gli anti-dreyfusiani, a prender partito per le cricche di uno Stato Maggiore falsificatore di documenti, per le conventicole dei monarchici legittimisti, per la dominante opinione pubblica insufflata dai parroci, contro la vittima di una calunnia, contro la verità e la giustizia, contro Zola ed Anatole France, contro la stessa magistratura del suo paese, dove non mancò allora, anche nei più alti seggi della Corte di cassazione, qualche giudice tagliato nella stoffa di quel Popinot che domina eroicamente fra i personaggi d’uno dei racconti contenuti in questo volume.

  Ma noi non ci crediamo neppur per un attimo al supposto — e logicamente supposto — «anti-dreyfusismo» di Onorato Balzac: Balzac, senza far gettito dei suoi principii, e forse affermando ch’essi non possono esser toccati dai traviamenti, dall’iniquità e dalla turpitudine degli uomini che, servendosene, dicono di servirli, Balzac si sarebbe schierato con Zola, con France, con gli spinti liberi, per la verità e la giustizia: perché egli era un animo infiammato dall’amore del giusto e del buono, perché egli, politico e sociologo discutibile, era indiscutibilmente un grande e nobile cuore.

  D’altra parte il pensiero sociale di Balzac si desume con bastante chiarezza dai suoi quadri di vita, senz’uopo di ricercarlo nelle sue affermazioni dogmatiche; ed ogni lettore accorto se lo potrà formulare da sé: si legga, per citare un esempio fra mille, la descrizione dell’anticamera del cancelliere del tribunale correzionale nella storia del colonnello Chabert, o del parlatorio del giudice Popinot, per non uscir dall’àmbito di questo volume. Nè è detto che una facilmente supponibile varietà d’interpretazioni, o anche una netta divergenza di conclusioni per parte dei varii lettori, debbano necessariamente attestare l’errore dell’una o dell’altra opinione dei lettori medesimi.

  Un lettore, al cui giudizio non si può negare un valore probante, è Victor Hugo, il quale, nell’orazione funebre pronunziata il 21 agosto 1850 al cimitero del Père-Lachaise, disse queste parole: «A sua insaputa, volente o nolente, l’autore di quest’opera immensa è della forte razza degli scrittori rivoluzionari».

 

***

 

  Queste brevi premesse ci consentono ora di dedicar qualche cenno, in particolare, ai tre racconti contenuti nel presente volume. Essi appartengono alle «Scene della vita privata», che constano complessivamente di ventisette composizioni, tra romanzi e novelle. Scritti nel 1832 il primo, nel 1836 il secondo e il terzo, essi appartengono alla piena maturità dell’autore; probabilmente nacquero prima che Balzac desse forma concreta al gigantesco disegno della «Commedia umana», ma in questa trovarono naturalmente il loro proprio luogo, poiché è ben verosimile che lo scrittore sia stato sempre guidato, sub-coscientemente, dal suo genio così potentemente intuitivo e divinatore, nella composizione della sua opera e delle singole parti di essa, da quel grandioso disegno, anche prima che — otto anni soltanto avanti la sua morte — gli si concretasse nella mente con tanta precisione di lineamenti.

  Queste tre opere ci sembrano offrire un saggio perfetto della mirabile arte narrativa di Onorato Balzac; accanto agli amplissimi affreschi, popolati di centinaia di figure — ad esempio Illusions perdues, che contiene la più straordinaria pittura del mondo giornalistico, quale forse non fu mai tentata nè prima nè dopo, o La rabouilleuse, quadro di spettacolosa potenza rappresentativa della vita provinciale — accanto a tali ed altre simili opere di proporzioni grandiose, e non meno che in esse, ma con diversi mezzi l’arte balzachiana si afferma nella pienezza dei suoi caratteri; vive nella perfetta armonia delle sue leggi di proporzione, di equilibrio, di squisitissimo stile. Le poche pagine de La messa dell’ateo sono, ci sembra, il saggio definitivo della grandezza di uno scrittore.

  Ma, soprattutto, i tre racconti ci sembrano una testimonianza suprema della moralità dell’artista e dell’uomo. L’aver saputo, potuto creare due figure come quelle di Bourgeat e di Popinot attesta un tal fervore d’umanità, una tale generosità di sentire, un tal calore di simpatia per tutto ciò che è bello, nobile e grande, che bastano a far certi della grandezza dell’uomo.

  Davvero ci riesce incomprensibile il giudizio condannatorio di Amiel, per solito così acuto, così equilibrato, cauto, sensitivo, pronto a riconoscere, sia pur nel dissenso determinato da ragioni di incompatibilità di temperamento, i valori non pure artistici ma semplicemente umani degli scrittori studiati. È vero che il giudizio non è riferito espressamente ed esclusivamente al Balzac: ma unisce questo, nella recisa riprovazione, allo Stendhal ed al Taine, e colpisce tutta la «scuola fisiologica» alla quale Balzac appartiene per sua espressa dichiarazione.

  Dice l’Amiel, dopo aver letto alcuni capitoli della Storia della letteratura inglese del Taine: «Il profondo spregio dell’uomo, che distingue la scuola fisiologica, e l'intrusione della tecnologia nella letteratura, iniziata da Balzac e Stendhal, spiegano l’aridità celata in quelle pagine, che sale alla gola come le esalazioni di una fabbrica di prodotti chimici». E, peggio, parlando di Stendhal, afferma che il romanzo naturalistico, in genere, sopprime l’intervento del senso morale; che esso subordina la letteratura alla storia naturale, negando all’uomo l’onore di un posto a parte, per collocarlo tra le formiche, i castori e le scimmie: «torto di tutta la scuola è il cinismo, il disprezzo per l’uomo, che vien messo al livello del bruto, il culto della forza, l’assenza dì generosità, di rispetto, di nobiltà, che trapela ad onta di tutte le proteste contrarie: è, insomma, l’inumanità». Ripetiamo: questa catilinaria prende le mosse da una lettura della Certosa di Parma, e non di un’opera di Balzac: ma le parole «torto di tutta la scuola» (naturalistica) sono testualmente di Amiel. E Balzac, di un’appartenenza a una tale scuola, si faceva gloria: anzi si sarebbe sentito meravigliato e offeso pel fatto di non esserne riconosciuto il fondatore, e di vedersi anteposto il geniale ma meno completo e più discontinuo Stendhal. Nella sua citata prefazione del 1842 egli dichiara testualmente che l’idea della «Commedia umana» gli fu suggerita da una comparazione tra l’umanità e l’animalità; vi si riferisce alla famosa disputa fra Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire, prendendo partito contro quello per questo, per l’evoluzionista, pel precursore di Darwin (il quale ultimo è, appunto, una delle bestie nere di Amiel); afferma, chiaro e netto, che «sono sempre esistite, e sempre esisteranno, delle specie sociali, come vi sono delle specie zoologiche»; dice che se Buffon ha fatto una magnifica opera cercando di rappresentare in un libro l’insieme della zoologia, rimaneva da compiere un’opera analoga per la società umana; nota soltanto che il compito è assai più difficile, perché le differenze tra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un ozioso, uno scienziato, un uomo di Stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero, un prete, sono altrettanto considerevoli, e più difficili da afferrare, che quelle che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, il pescecane, la foca, la pecora, ecc. Aggiunge, a sottolineare la maggiore difficoltà del compito, che quando Buffon dipingeva il leone, poteva completare in poche parole il ritratto della leonessa, mentre nella società umana non sempre la donna può essere semplicemente considerata come la femmina dell’uomo: la moglie d’un bottegaio e talor degna di esser la moglie di un principe, e spesso quella di un principe non vale quella d’un artista: «lo stato sociale ha delle singolarità che la natura non si permette, perché esso e la natura più la società». Infine, il continuo impiego di termini quali fisiologia, anatomia, monografia, trattato, per designare lo studio della struttura e del funzionamento delle istituzioni sociali, dimostra ad evidenza l’atteggiamento meditatamente assunto dallo scrittore nella ricerca dei fatti e delle leggi che li governano.

  E che perciò? Il materialismo di Darwin e di quanti altri scienziati lo precedettero o lo seguirono in quella via è uno dei luoghi comuni più frusti ed inconsistenti che abbiano traviato il giudizio di tanti nobili ingegni: fa meraviglia che una mente colta ed acuta come quella del simpatico, umanissimo filosofo ginevrino vi si sia lasciata invischiare.

  Questa sosta sul nome di Amiel parrà forse un po’ lunga, ma la crediamo non inutile, in quanto l’esame della condanna ci porge il destro a trarre, dall’esame di ogni capo d’accusa, una giusta ragione di esaltazione.

  Spregio dell’uomo? Si ripensi alle figure di Bourgeat, di Popinot, del marchese d’Espard, tratteggiate in questi racconti, o anche soltanto al ritrattino del dottor Bianchon.

  Soppressione del senso morale? Si pongan di fronte il colonnello Chabert a sua moglie, il marchese d’Espard alla consorte e al fratello, l’avvocato Derville all’avvocato Desroches, e poi si dica se il giudizio morale dell’autore e vacillante o assente.

  Cinismo, assenza di generosità, di nobiltà, di rispetto? Si torni alla scena del parlatorio di Popinot, al colloquio di Popinot col marchese, dove questi si induce a parlare soltanto quando è certo che il tribunale si asterrà dal censurare l’infame tentativo della moglie.

  L’introduzione della tecnologia nel romanzo? Non vedrei come si possa dolersene. Il solo risultato è quello di una più precisa e fedele pittura della società. Troppi romanzi di ambiente giudiziario formicolano di strafalcioni perché si abbia a lagnarsi se quelli di Balzac rappresentano con robusta evidenza il Foro e la Curia, citandovisi a proposito anche gli articoli del codice civile. Un noto avvocato di Parigi soleva dire che teneva costantemente sulla sua scrivania il romanzo intitolato César Birotteau — la storia di un commerciante andato in rovina — «perché utilissimo in materia di fallimento». E che perciò? Ciò che soltanto importa, si è che l’arte non vada sommersa, nella fotografica rappresentazione delle attività umane: quella di Balzac non corre pericoli di tal sorta.

  Il primo e il terzo di questi racconti si svolgono per gran parte «negli antri della chicane», parola questa difficilmente traducibile, che indica a un tempo l’arte della cavillazione, il mondo degli uomini di toga e di legge, giudici, avvocati, procuratori, notai e ufficiali giudiziarii La perfetta disinvoltura con cui vi si muove Balzac è facilmente spiegabile: destinato dal padre alla professione di notaio, egli compì tre anni di studi giuridici, conseguendo la «licenza in diritto», che è il titolo di studio immediatamente sottostante al dottorato, o laurea in giurisprudenza; e in pari tempo fece un paio d’anni di pratica presso lo studio d’un procuratore, domine de Merville, e sei mesi presso un notaio, domine Passez, ivi redigendo istanze, citazioni, ricorsi, strumenti e contratti. Neppure è escluso che dal suo primo principale, Maître de Merville, Balzac abbia preso a prestito, leggermente modificandolo, il cognome del geniale, generoso e onesto patrono del colonnello Chabert.

  Ancora, sul valore morale di questi racconti in confronto all’autoritratto di Balzac sociologo, politico e moralista, un breve richiamo: disse Balzac, come s’è veduto testè, di non ravvisare neppur la possibilità di una morale che non sia fondata sulla religione: qual più felice contraddizione di quella che sorge tra questo reciso asserto e la creazione delle due figure antitetiche di Bourgeat e Desplein, il fervente cattolico e l’ateo demolitore implacabile d’ogni dogma? o di Bourgeat e di Bianchon, ateo anch’esso, onesto fino al midollo, prodigo del suo tempo, del suo sapere e del suo denaro, temuto dagli amici per la severità della sua censura morale? Si potrebbe dunque scrivere una confutazione dei principii politici di Balzac traendo argomenti e ragioni dallo stesso Balzac; scrivere un «Balzac contro Balzac» con fondatezza e profitto maggiori di quanto non ne abbia messo e tratto Federico Nietzsche scrivendo il suo «Wagner contro Wagner».

 

***

  Un’impressione che può sorgere nel lettore, e che ci sembra poter esser dissipata utilmente, è quella che la prima e la terza di queste Scene della vita privata siano dominate da un pessimismo eccessivo e da certa quale misoginia.

  Certo, lo scioglimento della triste avventura del colonnello Chabert è assai doloroso, e segna il trionfo dell’audacia e della perfidia sull’onestà e sulla bontà disarmate. Del pari, l’estromissione del giudice Popinot, sia pur operata col mezzo di un’astensione volontaria garbatamente ma irrecusabilmente richiesta dal presidente del tribunale, segna il trionfo di un ignobile intrigo, di una cabala odiosa.

  Ma, a ben considerare, tutto ciò non comporta l’opinione — che potrebbe sembrare attribuibile all’autore — di una necessaria ineluttabile soccombenza del buon diritto di fronte alla malvagità umana e alla corruzione sociale. Anzi Balzac dimostra, anche attraverso lo scioglimento delle due scene, una certa fiducia nella validità di funzione, nell’efficacia delle pur imperfette e claudicanti istituzioni sociali.

  La desistenza del colonnello Chabert non è da attribuire ad un irrimediabile difetto della macchina giudiziaria, sibbene a una paralisi della volontà nel protagonista. Si tratta di una vera e propria malattia morale, i cui caratteri e aspetti sono delineati con un’indagine psicologica di estrema precisione e finezza. Se Chabert avesse lasciato fare a dòmine Derville, avrebbe ricuperato un suo tranquillo ed onorato posticino al sole degli amati «boulevards» parigini; egli sapeva di aver in mano carte bastanti ad uscir senza danno dalla partita, ad evitare di finire i suoi giorni allOspizio di carità: ne fece gettito appunto perché ammalato, ammalato di quella fatal malattia, ch’egli stesso definì «il disgusto dell’umanità».

  L’astensione di Popinot non ci dice ancor nulla sull’esito del processo intentato dalla marchesa d’Espard; e nulla ci fa pensare che sarebbero bastate le compiacenze del giudice Camusot a procurarle una vittoriosa sentenza. Bene aveva detto Popinot al nipote Bianchon che simili tentativi, seguiti da sentenze di rigetto, non erano rari presso il suo tribunale; e meglio aveva detto alla stessa marchesa che l’avvocato dell’interdicendo avrebbe potuto darle tanto filo da torcere, così da farle pensare se non sarebbe stato anche più vantaggioso, per lei, il desistere subito dal malvagio proposito.

  I difetti degli ordinamenti sociali hanno i loro correttivi naturali, od anche i loro rimedi escogitati apposta per prevenire l’azione nefasta dei disonesti. L’umanità si compone di delinquenti, di uomini moralmente mediocri — che sono i più — di eroi e di santi: nulla, nell’opera di Balzac e nemmeno in queste due scene, autorizza ad affermare ch’egli pensasse che il mondo appartiene esclusivamente ai malvagi, e che di fronte a costoro i buoni, gli ottimi, gli eroi ed i santi sono assolutamente impotenti.

  Quanto a una supposta misoginia, è innegabile che, nelle due scene, la parte peggiore tocca alla contessa Ferraud e alla marchesa d’Espard. Ma sarebbe avventato trarne conclusioni generali: anzitutto, nell’Interdizione c’è la spassosa figura di madama Jeanrenaud, quella — dice il giudice Popinot — che non mentisce, quella che agisce sotto l’impulso di una «probità scontrosa», che rinunzierebbe all’ultimo centesimo del suo patrimonio, pur di non dare una noia ad un uomo per cui professa gratitudine e stima.

  E un qualunque giudizio su questo tema sarebbe senza fondamento, qualora non si avessero presenti le figure di Pierrette Lorrain, di Ursule Mirouët, di Costanza Birotteau, di Eugenia Grandet, di Eva Chardon, di Madame Firmiani, di Renata di Maucombe, per non trarre che qualche nome dalla folla dei più cari personaggi femminili del mondo balzachiano.

 

***

  Certo si è che le persone di queste Scene, uomini e donne, vivono di una loro vita non meno concreta, non meno materiata di verità umana, di quanto non lo sia la vita reale; la potenza creatrice dell’arte compie ancora una volta il miracolo; Popinot e Bourgeat sono più vivi oggi di tanta gente che cammina e veste panni, come son più vivi di tante persone reali l’Uomo del guanto di Tiziano, o Boris Godunoff di Mussorgskj.

  È noto che Balzac soleva dire di sè — e lo ripeteva nei momenti di gioia trionfale che seguivano la concezione o il compimento di un capolavoro — ch’egli «faceva concorrenza allo stato civile» : accanto alla popolazione della sua Parigi o della sua natale Turenna c’è invero la folla di uomini e donne creati dalla sua fantasia, partecipi di una realtà artistica che li fa veri e concreti come persone realmente vissute, che abbiano consegnati i loro atti di nascita, di matrimonio e di morte nei registri del municipio.

  A un lettore abituale di Balzac, bene imbevuto dell’opera sua, è avvenuto talora di esitare un attimo nel collocare qualche figura di particolare rilievo, conosciuta nel campo di un’ampia esperienza di vita, quale può darla il lungo esercizio di una professione liberale, o tra le persone della vita reale o tra quelle fittizie create dalla fantasia dell’artista.

  Perciò non stupisce che Balzac, delirante sul suo letto di morte, chiamasse a gran voce Bianchon:

  — Bianchon! ... Fate ventre Bianchon! Soltanto Bianchon può salvarmi!

  E quando avrete, vivi davanti agli occhi, presenti per lunga consuetudine alla memoria, foggiati secondo l’immagine che ve ne sarete fatta attraverso le minute precise descrizioni fisionomiche del Maestro, gli esemplari umani più belli fra quanti ne conta l’umana commedia: Giuseppe Lebas, Benassis, i due parroci Bonnet e Chaperon, i medici Minoret e Bianchon, il giudice Popinot, e tanti umili e oscuri dal cuore ben fatto e dall’anima nobile, Bourgeat, Séchard, Pillerault, avrete allargato la vostra vita, avrete la ventura d’aver conosciuto dei galantuomini e dei valentuomini in numero maggiore di quel che vi sia stato concesso dai quotidiani incontri della vita reale.

  E proseguendo la consuetudine, mantenendosi e corroborandosi la vostra simpatia per quelle ormai animate e viventi creazioni dell’arte, vi sembrerà che la simpatia si stabilisca tra voi e coloro come in una corrente reciproca, così da esserne compresi, confortati ed amati. Essi non vi negheranno la loro amicizia. Il che non è cosa da poco. Nella vita, i buoni amici non sono mai troppi.

 

 

  Josette Lupinacci, La Donna nella vita politica, «L’Azione democratica. Settimanale della Provincia di Foggia», Foggia, Anno III, N. 9, 1 marzo 1946, p. 1.

 

  Balzac nel suo libretto sulla fisiologia del matrimonio dichiara che «il n’y a pas de femmes frigides, il n’y a que des hommes maladroits» Domando perdono ai miei amici se sono costretta a fare una citazione erotica per far loro capire il mio concetto sull’assenteismo della donna in politica.

 

 

  Francesca Meroli, Riflessi francesi di De Quincey, «Anglica. Rivista di studi inglesi e americani», Firenze, G. C. Sansoni – Editore, 1946, pp. 260-270.

 

  pp. 262-264. In Balzac invece vediamo un’intuizione acuta del significato simbolico delle visioni di De Quincey che subì poi una trasformazione alla luce dello spiritualismo mistico di Swedenborg.

  Balzac[1] non conobbe che il rifacimento Mussettiano delle Confessioni e non lo confrontò mai con l’originale: nome e personalità dì De Quincey gli rimasero del tutto ignoti.

  Nel 1830 egli scrisse un racconto «L’Opium», travestimento romanzesco di De Musset, in cui tuttavia traluce già la concezione chiara dell’oppio come rivelatore di mondi e di eternità all’insaziabile spirito umano.

  In «La Peau de chagrin», l’oppio materialmente non ha parte, ma il suo eroe Raphaël che prima di uccidersi vuole liberarsi per una notte dalla vita reale e contemplando nel negozio di antichità innumerevoli, ricordi di civiltà e di culti antichi, di esistenze e divinità scomparse, «arriva nei palazzi dell’estasi, dove l’universo gli appare in tratti di fuoco»[2], ha una visione le cui scene drammatiche gli procurano «le atroci delizie contenute nell’oppio»[3]. Molte di queste evocazioni ricordano direttamente, spesso con le medesime parole, le scene antiche e orientali dei sogni di De Quincey: l’Egitto misterioso e le sue mummie, l’India e le sue cupe divinità, la Cina e i suoi mostri contorti, i solenni cortei romani. In Raphaël è simboleggiata l’aspirazione a perdersi nel sogno, ad afferrare spiritualmente la totalità del mondo e nello stesso tempo il terrore di questo infinito. Vediamo già in Balzac una intuizione della, personalità strana del Mangiatore d’oppio, quale appare dalle Confessioni, farsi strada attraverso le mascheratine romantiche di De Musset, e modificarsi sotto l’influsso delle sue meditazioni.

  In «Massimilla Doni» egli pone in scena un fumatore d’oppio, Vendramin, in cui le allucinazioni della droga si fondono con le mistiche percezioni e corrispondenze dello spiritualismo swedemborgiano[4].

  Nel 1835 Balzac aveva scritto «Seraphita (sic)», che rappresenta il culmine di questa influenza nordica sul suo spirito, e vi leggiamo una frase rivelatrice dell’avvicinamento che già si operava nel suo pensiero. Ci sono nella natura inesplorata del mondo spirituale degli esseri che agiscono «comme l’opium qui endort la nature corporelle, dégage l’esprit de ses liens, le laisse voltiger sur le monde, le lui montre à travers un prisme, et lui en extrait la pâture qui lui plaît le plus»[5].

  Il dramma di Vendramin, come anche quello degli altri personaggi di «Massimilla Doni», è l’inconciliabilità fra il reale e l’ideale, la ricerca di un godimento sopraterrestre, di un assoluto che acquieti le aspirazioni inesauste. Egli descrive: così quel dramma: «Ces deux hommes appartiennent à la légion des esprits purs qui peuvent se dépouiller ici-bas de leurs larves de chair, ils vont dans l’art là où te conduit ton extrême amour, là où me mène mon opium. Moi de qui l’âme est exaltée par un triste moyen, moi qui fais tenir cent ans d’existence en une seule nuit, je puis entendre ces grands esprits quand ils parlent du pays magnifique appelé le pays des chimères par ceux qui se nomment sages, appelé le pays des réalités par nous autres qu’on nomme fous»[6].

  Nelle visioni di Vendramin si notano molte reminiscenze dell’«Anglais Mangeur d’opium». Passano nel suo cervello civiltà, imperi, città meravigliose. L’umanità tormentata e urlante che popolava l'oceano negli incubi di De Quincey, si trasforma qui, con più accesi colori, nel simbolo della decadenza di Venezia.[7]

  Tuttavia la fine è romantica, Vendramin muore, incapace di superare l’intimo contrasto, troppo immerso nel mondo fantastico per poter sostenere l’urto continuo della vita.

  Questo ricorrere di Balzac ad esperienze altrui è anche spiegato, dal fatto che nonostante l’attrazione che tali paradisi di sogno esercitavano sul suo spirito inquieto: e visionario, egli non esperimentò praticamente le droghe. Baudelaire racconta che partecipando a una delle riunioni dell’Hôtel Pimodan, Balzac, sebbene profondamente interessato alla discussione sui prodigiosi effetti dell’haschisch, rifiutò di prenderne: «L’idée de penser malgré lui-même le choquait vivement ... Il est difficile se figurer le théoricien de la volonté consentant à perdre une parcelle de cette précieuse substance»[8].

 

 

  Eugenio Montale, Solitudine, «Corriere d’Informazione», Milano, Anno II, N. 306, 28-29 dicembre 1946, p. 2.

 

  Suonano le dieci e fuori il vento soffia impetuoso. E’ un po’ ridicola l’attrazione di quest’ago anche su chi ha sottomano le più squisite novità letterarie: Il bel Paese dello Stoppani con la retta accentuazione toscana, a cura di Policarpo Petrocchi da Cireglio; La capanna dello zio Tom che non rileggo da allora o gli irresistibili Chouans di Balzac, mia imperdonabile lacuna.

 

 

  Antonio Monti, Ottimismo romantico dal 1830 al 1847, in Milano romantica 1814-1848, Milano, Editoriale Domus, 1946 («La ruota della fortuna. Raccolta di memorie, biografie, cronache, saggi e testimonianze», 11 serie diretta da Franco Bondioli, vol. VIII), pp. 83-126.

 

  pp. 110-112. Tutta Milano fece il tifo, come si dice oggi, per la venuta in quell’anno di Onorato Balzac. Si fece la ressa per poterlo vedere. Se due amici si incontravano a caso, era inevitabile la domanda, se l’aveva veduto. Ognuno poi pretendeva di averlo incontrato e si raccontavano i più gustosi aneddoti. Un giovanotto, trovandosi in teatro, ad un crocchio d’amici raccontava di essere stato in grande intimità con lui a Vienna, quando entrò un capitano dei granatieri vestito in borghese: «Ecco Balzac», disse il giovanotto: naturalmente non era lui, ma solo gli assomigliava.

  Ecco il ritratto che ce ne dà la Gazzetta di Milano di allora: «Il signor Balzac è piuttosto basso che alto alla persona; i proventi della sua letteratura lo conservano florido ed allegro; la sua educazione e la sua nascita lo rendono amabile e disinvolto; i suoi talenti, spiritoso e vivace; la sua fervida immaginazione, parlatore fecondo, preciso, inesauribile.

  Una felice inclinazione se non lo ha reso fashionable in tutto il significato della parola, gli ha fatto però rinunciare alla lunga capigliatura. Non è bello e non è brutto: ha sotto il naso una specie di chiaroscuro che dà qualche lontana idea di mustacchi. Chiome nere ed incolte, naso savoiardo (!) e due occhi nerissimi, nei quali si può leggere compendiato il fuoco e il brio del grande scrittore. Parla con modestia di sé, e speriamo che parlerà un giorno con lode anche degli Italiani, i quali lo ammirano, lo festeggiano, lo accarezzano e lo presentano di palchetto in palchetto[9].

  Se vi imbattete per via con lui, è impossibile che non fermiate in esso lo sguardo. Nulla di radiante, di etereo, di sovrannaturale: ma un complesso di vita, di insolito, di notevole, che non può facilmente sfuggire all’occhio dell’osservatore.

  Egli cerca con ansietà i quadri del Luini e aspetta un mattino sereno per salire sul nostro Duomo. Si direbbe che l’ingegno desti in lui una tendenza speciale per le regioni alte, poiché anche a Parigi abita in una specie di specola, dalla quale lo sguardo domina gran parte della città.

  La festosa accoglienza con la quale tutte le classi sociali ricevettero Balzac, è certo premio lusinghiero alle sue fatiche letterarie, incoraggiamento agli ingegni, sprone alla emulazione italiana». 

 

Colloqui romantici su pagine d’album.

 

  pp. 276-277. [Sull’Album di Giulietta Pezzi]. Le sue liriche, i suoi romanzi, i suoi drammi, ispirati in parte agli ideali mazziniani, sono spesso laceranti singhiozzi d’amore, sono sfoghi a volte zingareschi, e si capisce perfettamente come anche il Cattaneo l’abbia osservata con simpatia e come il Balzac l’abbia ammirata per il suo ingegno ed anche, – perché no?, – per i bei riccioli d’oro che le scendevano sulle spalle. La chiamava l’Ange, ma un angelo essa fu specialmente per un uomo di grande ingegno, al quale offrì senza esitazione la fiorente sua giovinezza, riportandone infiniti dolori.


 

  Marino Moretti, I coniugi Allori. Romanzo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1946.

 

  p. 124. Orso intervenne come riassumendo la discussione.

  – Balzac dice che il vecchio è uno che ha già mangiato e guarda gli altri pranzare. [...].

 

 

  Carlo Pellegrini, Storia della letteratura francese. Seconda edizione, Milano-Messina, Casa editrice Giuseppe Principato, 1946, pp. 392-397; 419.

 

  Cfr. 1939.

 

 

  L.[uigi] P.[escetti], Nota, in Honoré de Balzac, Eugenia Grandet ... cit., Livorno, 1946, pp. 243-244.

 

  Onorato di Balzac (1799-1850), il celebre autore de La Comédie humaine, scrisse il suo capolavoro, Eugenie (sic) Grandet, nel 1833, come quinto volume delle «Etudes de moeurs au XIX siècle» e primo delle «Scènes de la vie de province». La dedica «a Maria» (la de Berny, che fu la donna che amò veramente il Balzac e che egli amò giovine, morta nel 1836) suona così: «Che il nome vostro, di voi il cui ritratto è il più bell’ornamento di quest’opera, sia qui come un ramo di bosso benedetto, còlto da non si sa quale albero, ma certamente santificato dalla religione e rinnovellato, sempre verde, da mani pie per proteggere la casa». Una lettera alla contessa polacca Hanska (che il Balzac sposò pochi mesi prima di morire è da considerarsi quasi una prefazione al romanzo. In essa, fra l’altro, si legge: «Bisogna amare, Èva mia, mia cara, l’amore di Eugenia Grandet, amore puro, immenso, fiero».

  Ed alla sorella Laura Surville, in quel medesimo tempo, scriveva: «Sto correggendo Eugenia Grandet; non dormo più né voglio; questa creatura mi tien sempre sospeso ...». I personaggi principali del romanzo son còlti dal vero nella vita di provincia, vivificati nell’arte. Così la figura dell’avaro pare che sia stata inspirata al Balzac da un certo Jean Niveleau, che in Saumur accumulò grandi ricchezze verso il 1793. Ma creazione tutta balzachiana è la rappresentazione di papà Grandet, la cui manìa di ricchezza ha veramente una sua pietosa e terribile grandezza. La stessa indimenticabile Eugenia, che doveva essere il fulcro del romanzo, ha dovuto cedere artisticamente di fronte alla passione violenta, dominante e quasi delirante del vecchio bottaio e vignaiuolo di Saumur.

 Il libro è fra i più armoniosi di Balzac, e non molte sono le pagine fiacche e frettolose. Come è stato osservato, esso raccoglie quasi tutti i temi classici del romanzo balzachiano: le grandi fortune ammassate dalle famiglie borghesi attorno al 1793, la fanciulla umile, l’artigiano trasformato in capitalista, gli avidi del denaro, il cacciatore di doti. È una perfetta dipintura della vita di provincia nel primo Ottocento francese, in piena Restaurazione; e ambienti e figure sono trattati con mano abile e leggera, come di rado accadde al Balzac, il quale forse soltanto in questo romanzo mantenne simpatia costante co’ suoi personaggi, infondendo loro l’eterna vita dell’arte.

  Le Opere di Balzac furono pubblicate a Parigi dall’editore Houssiaux, nel 1855, in 20 voll.; dal Calman-Lévy (sic), 1869-1876, in 24 voll.; 1883-1880, in 52 voll.; 1899, in 53 voll. (ediz. del Centenario). È in corso di stampa l’edizione critica, a cura di M. Bouteron e H. Lagnon (sic), Parigi, Conard, 1912 e segg.

  Sulla vita e l’opera di Balzac, si veda principalmente: E. Biré, Honoré de Balzac, Parigi, 1897; J. Bertaut, Balzac anecdotique, Parigi, 1899; L.-J. Arrigon, Les années romantiques de Balzac, Parigi, 1927; R. Benjamin, La vie prodigieuse d’H. de B. (vita romanzata) Parigi, 1923; A. Le Breton, B. l’homme et l’oeuvre, Parigi, 1903; A. Bellessort, B. et son oeuvre, Parigi, 1923; E. R. Curtius, Balzac, Bonn, 1923. Si veda inoltre l’ampia nota di A. Borgognoni alla traduzione di Eugénie Grandet a cura di Grazia Deledda (Milano, Mondadori, 1931). Per maggiori notizie, si consulti W. H. Royce, A Balzac bibliography, Chicago-Parigi, 1930.

 

 

  G.[iovanni] Titta Rosa, Balzac in casa Manzoni, «La Nuova Stampa», Torino, Anno II, Numero 1, 1 Gennaio 1946, p. 1.

 

  Nella primavera del 1837, quando Balzac passeggiava per le vie di Milano, dove anche le figlie delle portinaie gli parevano tante regine — come scrisse in Cousine Bette parecchi anni dopo – non doveva essere diverso da come lo aveva ritratto Boulenger (sic): un faccione fornito d’abbondante pappagorgia, i capelli spioventi sulle orecchie e rialzati sulla fronte da un tocco, obliquo al vento, la grande bocca sensuale malamente coperta dal baffi non folti, il gran naso ciccioso, e gli occhi aggrottati sotto le sopracciglie corrusche. Quegli occhi soprattutto, penetranti e avidi, dallo sguardo spassante divoratore imponevano; e facevano pensare ch’egli fosse davvero quel commesso viaggiatore o addirittura quel mercante di porci a cui l’avevano assomigliato Paul Lacroix e il giornalista Gozlan. Le figlie delle portinaie, da lui tanto ammirate, vedendolo andare in giro col naso all’aria, massiccio e curioso, con quel collo taurino invano nascosto da un ampio nastro a cravatta, avranno tutt’al più pensato a qualche mercante di campagna, o a uno di quei grossi fittavoli della Bassa venuto in città a vender granaglie. Invece, ed esse non lo sapevano, le migliori famiglie milanesi che avevano letto Cesare Birotteau ed Eugenia Grandet, facevano a gara per conoscerlo, averlo in casa, festeggiarlo. Qualcuno diceva anche — tanto potevano le trombe della fama che suonava Parigi — che egli fosse più grande di Don Lisander. Lo invitavano a pranzo, al palchetto della Sesta; e quando un ladruncolo gli rubò l’orologio, il governatore di Milano si fece personalmente in quattro per ritrovarlo, e ci riuscì. Cesare Cantù commenta: «Questa prova, di abilità nel ricuperar un oggetto rubato accusava la negligenza di lasciarne perdere tant’altri»; che è una punta ironica contro il governatore austriaco e un’indirette constatazione che a Milano non fossero scarsi i ladruncoli.

 

***

  Una delle più grandi meraviglie di Balzac, mentre andava a zonzo per le vie milanesi — non certo con l’animo di quel giovine dragone di Grenoble a cui forse, per via di una bella donna che lo faceva disperare, era tanti anni prima piaciuto persino un certo odore di «fumier» che si alzava da quelle stesse vie — una delle sue meraviglie più grandi, dico, era il constatare che certe insegne di botteghe avevano gli stessi cognomi di quelle famiglie di signori che lo invitavano a pranzo e a teatro. E non avrà certo mancato di riflettere che l’aristocrazia lombarda non dovesse assomigliare molto, in quanto a ideali civili e alle attività pratiche, a quella aristocrazia tornata in Francia con la Restaurazione, distaccata e superba, e con ancora in testa le ubbie dell’ancien régime.

  In Lombardia, invece, se non si era potato mescolare ancora negli affari dello Stato perché la felix Austria non lo consentiva, si mescolava, senza sentirsi diminuita, coi borghesi, e gareggiava con essi per intraprendenza e attività nell’agricoltura e nei commerci. Poteva essere, questo, un tema ben balzacchiano, se l’autore di Eugenia Grandet l’avesse potuto e voluto studiare, in una cornice diversa da quella che l’Impero, la Restaurazione e la Monarchia di Luglio gli offrivano alla fantasia, che andava allora muovendo, come dice Sainte-Beuve, quella «immense ronde de la Comédie humaine qui donne un peu de vertige».

  Ma Balzac era venuto a Milano en touriste, e, come si piccava d’essere, da uomo di affari, anche e soprattutto sballati. In quella primavera, a esempio, visto l’enorme successo dei suoi libri, dal Medico di campagna al Curato del villaggio, dal Giglio nella valle a Eugenia Grandet — tutti prontamente tradotti in italiano s’era messo in mente di fare una specie di consorzio fra i librai italiani per lo smercio di questi e d’altri suoi romanzi; una succursale milanese della Commedia umana. Inoltre, aveva saputo, non si sa da chi, che in Sicilia c’erano miniere d’oro; I Romani, o per inesperienza o perché perduti dietro le loro guerre, non se n’erano mai accorti; le pepite grandi d’oro, simili a quelle trovate da Cacambo e da Candido nel paese di Eldorado, giacevano dunque ancora sotto le rovine dei templi greci, e i ragazzi siciliani ci giocavano a piastrelle; e forse erano anch’esse «rotonde e alquanto larghe, di color giallo, rosso e verde, e mandavano strani bagliori». Perché non fare un piccolo consorzio?

  Con queste idee, e con tante altre che gli rutilavano nell’accesa fantasia, come mai gli venne in mente di andare a far visita ad Alessandro Manzoni? Fatto sta che ci andò; e ce lo accompagnò — come attesta Cantù — il Cav. Felice Garrone marchese di San Tommaso. Era costui un bravo giovine, aveva scritto articoli e libri, fra cui uno sulla Casa di Savoia. I piemontesi, anche per fedeltà sabauda, lo avevano largamente letto e apprezzato. Pietro Giordani, che gli aveva fatto un po’ da mentore negli studi, gli voleva bene; e Don Alessandro, unitario per la pelle, («liberi non sarem se non siam uni» aveva scritto nel Proclama di Rimini: un brutto verso senza dubbio, ma si giustificava dicendo: «io feci per l’Italia il più gran sacrificio che possa fare un poeta, quello di far per essa un brutto verso»), e sabaudista poiché lui vedeva volentieri questo marchese piemontese, che ogni volte che capitava a Milano lo andava a riverire; e fu così che Balzac varcò col marchese, la soglia della casa rossa di via del Morone.

  Fu una sera; e nella stanza di ricevimento par che non vi fossero altri ospiti di riguardo. Ma c’era riunita, la famiglia; donna Teresa, ancora in luna di miele col suo Alessandro (l’aveva sposata qualche mese prima, esattamente il 2 gennaio di quello stesso anno); c’era la madre, marchesa Beccaria, colei che Giuseppe Barri, il fratello di donna Teresa, chiamava «Monna aristocrazia viva e vera»; e c’era, pare, anche il genero D’Azeglio, a cui Balzac, certo pour épater, disse a bruciapelo che l’editore parigino, per «lanciare» la traduzione dell’Ettore Fieramosca, aveva speso più quattrini di quanti l’autore stesso non ne doveva aver probabilmente ricavati pubblicandolo in Italia. Invece il suo editore, soltanto per il Cesare Birotteau, gli aveva versato ben 20 mila lire. E’ presumibile che don Alessandro se lo stesse zitto a sentire. Difficilmente, quando qualche ospite non gli garbava, apriva bocca. Ma aveva letto Eugenia Grandet, e pare che gli fosse piaciuto. Era piaciuto anche a donna Giulia e a donna Teresa. «Il suo miglior romanzo», dicevano. E furono cortesi con l’ospite. Il quale parlò, per l’intera serata, sempre di sè. Disse che stava scrivendo un nuovo romanzo, che l’avrebbe intitolato La recherche de l’absolu e che aveva in tela una commedia, la quale avrebbe fatto indubbiamente fatto furore sulle scene parigine; e che intanto raccoglieva certi suoi Juvenilia. E si dichiarò panteista ...

  Don Alessandro taceva, e non fu scosso nemmeno quando Balzac si mise a parlare di una scienza nuova, che aveva già adepti di gran riguardo: una scienza cui era riserbato un enorme avvenire: la cranioscopia ...

  E poiché Manzoni, mentre attizzava con le molle il fuoco, che — sebbene fosse già primavera inoltrata — ardeva ancora nel caminetto, continuava sempre a tacere, Balzac credette di fargli un complimento molto lusinghiero, e gli disse: «Voi somigliate a Chateaubriand!». Al che don Alessandro, freddo freddo: «E’ sembrato anche a Cantù». Frase che, sapendosi come non fosse grande la stima che Manzoni aveva per Cantù, non sembra priva di quella sua ironia nascosta dietro le più urbane parole. Ma Balzac non mostrò di sentirla e si mise a parlare dei Promessi Sposi col risaltato di far capire a tutti che non l’aveva mai letto. Infine chiese a Manzoni un autografo; e don Alessandro, chi sa come, accondiscese. Tuttavia, la serata finì fredda; e Balzac forse l’avvertì. Fu per questo che, riferendo poi per lettera alla contessa Hanska e di quella sua visita e d’aver avuto un autografo da Manzoni, aggiunse di non poterglielo mandare «perché l’aveva inavvertitamente bruciato per accenderà il fuoco»?



  Stefano Terra, Rancore, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1946.

 

  p. 88. Il respiro largo di Balzac lo prese per molto tempo.

  I suoi eroi in continua ascesa avventurosa gli davano un sentimento malinconico della sua condizione, della sua staticità sui libri e dei suoi silenziosi colloqui con il padre. Ma lui era rimasto fuori da quei personaggi.

 

 

  G. V., Un film italiano a Venezia. Grande successo di «Eugenia Grandet», «Il Nuovo Corriere della Sera», Milano, Anno 71, N. 107, 11 settembre 1946, p. 2.

 

  Stasera un altro film italiano ha avuto successo al Festival. Si è proiettato Eugenia Grandet di Mario Soldati, film desunto dall’omonimo romanzo di Balzac. Soldati si è conquistata ormai una solida fama per le sue riduzioni cinematografiche di romanzi largamente conosciuti e questa di Eugenia Grandet viene ultima in ordine di tempo. La tetra avarizia del vecchio Grandet, la tristezza della provincia francese, il carattere fermo e insieme tenero della sfortunata Eugenia offrivano motivi sufficienti per spirare un regista come Soldati.

  La vicenda di questi personaggi è nota Un giorno, in casa al un ricco proprietario di Saumur, arriva il giovane Carlo Grandet suo nipote. Carlo viene da Parigi e porta nella grigia esistenza di sua cugina Eugenia la speranza di una vita felice. Ma, appena arrivato, Carlo apprende che suo padre si è ucciso per debiti. Figlio di un fallito e rimasto senza un soldo. Carlo non ha altra alternativa che di cercare fortuna all’estero Unico conforto è il tenero amore di Eugenia che gli consegnerà i suoi risparmi e gli prometterà di aspettare il suo ritorno.

  Il tempo, intanto, trascorre ugnale nella vecchia casa di Saumur, dove Eugenia vede scendere nella tomba prima la madre e poi il padre dispotico, che l’avidità del denaro e l’avarizia avevano reso maniaco. Eugenia rimane sola ad aspettare il ritorno di Carlo. Egli ritorna dopo sette anni, ma il suo animo è cambiato. Quando si reca a Saumur è soltanto per restituire a Eugenia la sua libertà e dirgli che sposerà la figlia di un marchese. perché questo matrimonio gioverà alla sua carriera. E allorché le nozze di Carlo sono messe in forse per l’antica colpa del padre, Eugenia saprà ancoro una volta intervenire in aiuto di suo cugino per pagargli i debiti che lo riscattano dal disonore, sacrificando per sempre l’unico amore della propria esistenza.

  Una storia triste con pochi effetti esteriori e tutta affidata alle intime passioni dei protagonisti. Soldati l’ha raccontata come meglio ho potuto, ma forse senza chiedere agli interpreti il loro impegno più intelligente. Il compito era difficile, trattandosi di evitare i pericoli che i personaggi di Balzac con i loro caratteri tutti d’un pezzo sempre presentano. Non diremo che Gualtiero Tumiati sia riuscito a impersonare efficacemente il vecchio Grandet. che risulta convenzionale; né è sembrato felice il giovane De Lullo nella parte di Carlo; molto sobria, ma talvolta profondamente espressiva, Alida Valli che ha dato ad Eugenia i suoi tratti e il suo sentire di interprete delicata e precisa. Il film, che pur avendo i suoi difetti, non manca di alcune scene perfettamente intonate alla atmosfera del romanzo, è stato applaudito da un pubblico numeroso.

 

 

  [Raoul Vivaldi], Nota, in Honoré de Balzac, Babbo Goriot ... cit., pp. 245-247.

 

  I seguenti personaggi, che agiscono in questo racconto, si ritroveranno nelle opere a fianco di ciascuno indicato.

 

  Rastignac (Eugenio de): Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane, L’ultima incarnazione di Vautrin, Il ballo di Sceaux, L’interdizione, Studio di donna, Altro studio di donna, La pelle di zigrino, I segreti della principessa de Cadignan, Figlia d’Eva, Un affare, tenebroso, La banca Nucingen, La cugina Betta, Il deputato di Arcis, Attori inconsci.

  Rastignac (barone e baronessa de): Illusioni perdute.

  Rastignac (Laura, Rosa e Agata de): Illusioni perdute, Il deputato di Arcis.

  Rastignac (Gabriele de): Il parroco del villaggio, Figlia d’Eva.

  Nucingen (baronessa Delfina de): Storia dei Tredici, Cesare Birotteau, Melmoth, Illusioni perdute, L’interdizione, L’ultima incarnazione di Vautrin, Splendori e miserie delle cortigiane, Modesta Mignon, La banca Nucingen, Figlia d'Eva, Il deputato di Arcis.

  Nucingen (barone Federico de): La banca Nucingen, Pierina, Cesare Birotteau, Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane, Altro studio di donna, I segreti della principessa de Cadignan, L’affarista, La cugina Betta, Una musa di provincia, Attori inconsci.

  Restaud (contessa Anastasia de): Gobseck, La famiglia Beauvisage [cfr. Le Député d’Arcis].

  Restaud (conte de): Gobseck.

  Vautrin (Giacomo Collin): Illusioni perdute, Splendori e miserie delle, cortigiane, L’ultima incarnazione di Vautrin, Il deputato di Arcis, Il conte de Sallenauve [cfr.Le Député d’Arcis], La famiglia Beauvisage.

  Bianchon (Orazio): La messa dell’ateo, Cesare Birotteau, L’interdizione, Illusioni perdute, Pace in famiglia, I segreti della Principessa de Cadignan, Gli impiegati, Pierina, Studio di donna, Splendori e miserie delle cortigiane, L’ultima incarnazione di Vautrin, Onorina, Fra le quinte della storia contemporanea, La pelle di zigrino, Una doppia famiglia, Un principe della Bohème, Memorie di due giovani spose, Una musa di provincia, La falsa amante, I piccolo-borghesi, La cugina Betta, Il parroco del villaggio, Altro studio di donna, La grande Bretèche.

  Poiret (signore e signora): Incomincia una vita, Splendori e miserie delle cortigiane, I piccolo borghesi.

  Ajuda-Pinto (marchese Michele di): Splendori e miserie delle cortigiane, I segreti della principessa de Cadignan, Beatrice.

  Selerier (detto l’Alvergnate): L’ultima incarnazione di Vautrin.

 Beauséant (viscontessa de): L’abbandonata, Alberto Savarus.

  Beauséant (marchese de): L’abbandonata, Un episodio durante il Terrore.

  Beauséant (visconte de): L’abbandonata.

  Gondureau (Bibi-Lupin): L’ultima incarnazione di Vautrin.

  Carigliano (maresciallo, duca de): All’insegna del gatto che giuoca a palla, Sarrasine.

  Franchessini (colonnello): Il deputato di Arcis, Il conte de Sallenauve.

  Galathionne (principe e principessa): I segreti della principessa de Cadignan, I piccoli borghesi, Illusioni perdute, Figlia d’Eva, Beatrice.

  Gobseck (Giovanni): Gobseck, Gli impiegati, Attori inconsci.

  Langeais (duchessa Antonietta de): Storia dei Tredici.

  Marsay (Enrico de): Storia dei Tredici, Attori inconsci, Altro studio di donna, Il giglio nella valle, Il salotto delle anticaglie, Orsola Mirouet, Il contratto di matrimonio, Illusioni perdute, Memorie di due giovani spose, Il ballo di Sceaux, Modesta Mignon, I segreti della principessa de Cadignan, Un affare tenebroso, Figlia d’Eva.

  Maurizio: Gobseck.

  Taillefer (Giovanni): La banca Nucingen, La pelle di zigrino, L’albergo rosso.

  Taillefer (Vittorina): L’albergo rosso.

  Teresa: Figlia d’Eva.

  Tissot (Pietro Francesco): Un principe della Bohème.

  Trailles (Massimo de): Cesare Birotteau, Gobseck, Orsola Mirouet, L’affarista, Il deputato di Arcis, I segreti della principessa de Cadignan, La cugina Betta, Il conte de Sallenauve, Beatrice, Attori inconsci, La famiglia Beauvisage.



Filmografia.

 

 

  Eugenia Grandet. Regia di Mario Soldati. Soggetto: Honoré de Balzac. Sceneggiatura Emilio Cecchi, Mario Soldati, Aldo De Benedetti. Fotografia: Václav Vích. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche:Renzo Rossellini, Roman Vlad. Scenografia: Gastone Medin, Maurice Colasson. Costumi: Gino Carlo Sensan. Casa di produzione: Excelsa Film. Distribuzione in italiano: Minerva Film. Interpreti e personaggi: Alida Valli: Eugenia Grandet; Giorgio De Lullo: Charles Grandet; Gualtiero Tumiati: Félix Grandet; Giuditta Rissone: La madre di Eugenia; Maria Bodi: Madame Des Grassins; Giuseppe Varni: Banchiere Des Grassins; Pina Gallini: Nanon; Lina Gennari: Marchesa d’Aubrion; Enzo Biliotti: Notaio Cruchet; Liana Del Balzo: la cameriera; Enrico Luzi: il giovane De Grassis; Lando Sguazzini: Abate Cruchet; Cesare Olivieri: Presidente Cruchet; Gabriella Bornura: Clorinda d’Aubrion; Egisto Olivieri: Marchese d’Aubrion; Mario Besesti: il vinaio; Vittorio Blasi: il contadino, Roma, 1946; data di uscita nelle sale cinematografiche: 4 gennaio 1947.




[1] Come ha dimostrato Georges-Albert Astre, Balzac et l’Anglais Mangeur d’Opium, in «Revue de Littérature comparée», 1935. [N. d. A.]. [La numerazione delle note è nostra].

[2] Études philosophiques, pp. 14-23 e sgg. [N. d. A.].

[3] Études philosophiques, pp. 14-23 e sgg. [N. d. A.].

[4] È curioso notare che De Quincey non aveva nessuna simpatia per Swedenborg. Del resto la sua conoscenza dell’autore di Arcana coelestia era molto superficiale. Egli lo accusa stranamente di avere spogliato il mondo delle ombre di tutto il suo mistero, e di avere lacerato ogni celeste velame portandovi un’atmosfera terrestre. [N. d. A.].

[5] Études analytiques (sic), p. 137. [N. d. A.].

[6] Études philos., pp. 432-434. [N. d. A.].

[7] Études philos., pp. 432-434. [N. d. A.].

[8] Baudelaire, Les Paradis artificiels, p. 220. [N. d. A.].

[9] S’intende, alla Scala. [N. d. A.].


Marco Stupazzoni