domenica 28 febbraio 2021



2004

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Un romanzo di Balzac inedito in Italia. Le Memorie di un boia, «la Repubblica», Roma, 1 febbraio 2004, pp. 34-35; ill.

 

  Un atto d’accusa al sistema giudiziario.

 

  Le Memorie di Sanson di Honoré de Balzac, di cui qui anticipiamo parte del primo capitolo, non sono mai state tradotte in italiano. Ora, per la cura di Paola Dècina Lombardi vedono la luce negli Oscar Mondadori [...]. Il libro risale al 1830, quando Balzac aveva poco più di trent’anni, ed è rimasto fra le opere meno note dello scrittore della Commedia umana, della quale annuncia alcuni temi e spunti narrativi. Le Memorie di Sanson raccontano, in prima persona, i travagli morali e le inquietudini di colui che svolse le mansioni di boia durante il regno di Luigi XVI e poi durante l’epoca del Terrore. Figlio e nipote di boia, Sanson lamenta la sua condizione di ineluttabile braccio della legge. Attraverso il suo dramma personale si vivono i delicatissimi passaggi fra l’ancien régime e la Rivoluzione. Ma il libro è anche un violento atto d’accusa contro il sistema giudiziario ancora vigente durante gli anni in cui Balzac scrive.

 

  Ci sono uomini la cui strada è segnata. Dal principio alla fine, la loro esistenza procede in linea retta: quello che hanno fatto ieri, lo fanno oggi, lo faranno domani, lo faranno sempre. Succede per colpa della predestinazione sociale, e i figli subiscono la legge degli avi, perché la società si compiace delle sue forme e ha creato delle caselle per certi individui, mentre per altri individui essa non ne ha creata alcuna.

  Quante razze maledette si contano sulla terra! E quante razze privilegiate! Chi mi rivelerà l’origine dell’aristocrazia, chi mi spiegherà da cosa nasce l’emarginazione? M’è toccato riflettere su tutte queste cose, le ho meditate e, sia alla gloria del mondo che alla sua infamia, il mio pensiero si volge sempre con amarezza.

  Povero paria, perché la tua casta è stata proscritta? Perché neanche la tua virtù può redimerti dall’onta originaria? Imprigionato nell’obbrobrio della tua nascita, vai orgoglioso di tuo padre, perché tuo padre era onesto, e questa venerazione filiale è un legame in più, ma un legame che ti è caro, un legame che non spezzeresti, quand’anche ti fosse concesso di farlo. Dove andrai? Che ne sarà di te? Ti trascinerai dietro madre, fratelli e sorelle? Li rinnegherai? Resta con loro, che ti vogliono bene, ti cercano. Gli altri ti respingeranno, e l’isolamento è morte.

  Credo che ovunque, tranne a qualche migliaio di leghe da qui, ai confini della Cina, nei pressi della Grande Muraglia, i discendenti della tribù di Giuda siano disprezzati e respinti da ogni nazione: per loro non esiste borghesia, i cittadini li avversano, e quando il legislatore li risolleva, il pregiudizio li riabbassa. La ragione ha soltanto una voce, il pregiudizio mille. La maggioranza significa tenebre, il numero ristretto significa luce. La cosa migliore è essere contenti di sé e non essere scontenti di nessuno: solo questo implica la condizione umana, ed è più di quanto comporti la condizione sociale; ma è sufficiente essere in pace con la propria coscienza.

  Non c’è contrada in Europa in cui lo zingaro non sia errante, vagabondo e condannato all’obbrobrio. La filosofia lo invita alla stabilità, il pregiudizio gli grida: «Cammina e non fermarti!» Finché un giorno, esasperato dal bisogno e dalla fatica, si riposa, ma uccide, e la legge lo uccide a sua volta. Per quale motivo lo uccide? Perché essa non deriva dalla filosofia, e guarda al pregiudizio.

  La legge è frutto della riflessione: si fonda su interessi; ma spesso la piramide è poggiata sul vertice, e la base rovesciata. Per trovare la fonte del pregiudizio, è necessario risalire al sentimento. E’ raro che all’origine delle antipatie e delle avversioni non vi sia qualcosa di vero. Oggi chi ci mostrerà come distinguere il vero dal falso? Il chirurgo che grazie alla decisione di un consiglio di medici amputa un membro incancrenito affinché il corpo non venga infettato è accolto e celebrato nelle corti. Lo chiamano per la nascita dei principi, e lo chiameranno per la loro morte; lo colmano di favori e nei palazzi, in cui va a testa alta, riceve il saluto dei potenti. Su di lui non grava alcuna responsabilità, eppure viene trattato con lo stesso riguardo dei dotti di cui si limita a seguire i pareri. E’ ineccepibile se non difetta di abilità, e nessuno lo disprezza se manca di abilità. Che abbia operato bene o male, non deve nascondersi, nessuno lo sfugge, e al suo passaggio nessuno si scansa per evitarne il contatto. L’uomo che applica la giustizia nemmeno regge la bilancia che soppesa cosa deve vivere e cosa deve cessare di vivere. Gli dicono: «Prendi la spada: davanti all’Arbitro supremo, davanti a colui che giudicherà i giudici, non sarà il ferro a rendere conto del sangue versato». Perché colui che esegue la sentenza non indossa la toga? Perché non incede ornato di ermellino? Forse perché il corpo sociale è immortale, e la necessità di distruggere uno dei suoi membri non solo è poco evidente, ma neanche può essere dimostrata; probabilmente la natura, più intelligente della società, si ribella all’annientamento di un’esistenza reale a favore di un’astrazione; perché il corpo sociale non è palpabile, non è collegato in ogni sua parte, e la sua dissoluzione non è la conseguenza rigorosa della depravazione di uno degli individui che lo compongono; perché, infine, l’azione della giustizia non sopprime un membro, bensì un corpo, un organismo, ed è scritto dalla notte dei tempi: «Non uccidere, né con il consenso né con l’atto».

  Per di più il corpo sociale non si ammala a causa di un misfatto, per quanto esso sia grave; gli dà solo tormento, e la legge del taglione che reclama l’assassinio per l’assassinio non gli offre che una magra consolazione: un assassinio non porta alcun rimedio.

  Cresciuto nella fede cattolica, non mi sono mai prostrato davanti all’altare per chiedere il pane dell’eucarestia senza provare una terribile stretta al cuore. Credevo nelle sublimi verità del cristianesimo, vi credevo fermamente; tuttavia dubitavo dell’efficacia del perdono accordatomi nel tribunale della penitenza; il prete mi assicurava che la misericordia di Dio è inesauribile, e malgrado l’indulgenza delle sue parole ritenevo che esistono peccati che un prete non può assolvere: mi toglieva gli scrupoli, e gli scrupoli mi ritornavano laceranti come rimorsi, il comandamento così male osservato, «Non uccidere», era continuamente presente nella mia mente, l’idea del divieto e della violazione mi seguiva ovunque, ero innocente nell’intenzione, deploravo persino il consenso, ma mi veniva ordinato di compiere l’atto, e l’atto si compiva. Quando Pilato si è lavato le mani e si addormenta dopo la sentenza, posso ritorcergli contro ciò che diceva al popolo: «Sta a voi pensarci». Ma, anch’io, non posso fare a meno di pensarci. Pilato dorme perché è più vicino alla legge, io veglio perché sono più vicino alla spada; le sue notti sono calme, le mie lunghe e agitate; al suo risveglio, è circondato di onori, gli viene tributato il rispetto pubblico, è venerato fin sotto al trono. Il sole splende e mi illumina, ma a me arreca solitudine, ed è una solitudine tremenda, perché piena di gente. Mi vedono e rabbrividiscono; mi allontano, mi rifugio in seno all’oscurità, e l’oscurità che mi avvolge è ancora più spaventosa: racchiude solo orrori, è la compagnia dei morti. Mi porto dentro questo mondo di spettri: mi faccio paura io stesso, sento delle grida, dei lamenti e il clamore di una folla feroce, avida di assassinio. Una febbre bruciante mi invade, il sangue ribolle, mi soffoca; il tumulto assordante della folla che si accalca e sbraita mi dà le vertigini; i miei nervi si contraggono e si distendono via via. Giro la testa, l’assassinio è consumato. Sussulto, mi sento mancare, mi tremano le gambe, e mentre affranto mi allontano, mentre sto patendo i tormenti più crudeli, chi con lo sguardo chiedeva di pascersi con quel sinistro spettacolo, chi ora è sazio e sarebbe stato scontento della clemenza, mi vomita addosso le turpi emozioni che cercava: sono io l’abietto, il mio volto è esecrato, e leggo, su una nube rossa, le parole della dannazione eterna: «Ora dunque, sarai maledetto anche dalla terra che ha aperto la bocca per ricevere ...». Provoco spavento. Il cavallo, avvistandomi, rizza l’orecchio e nitrisce, come all’avvicinarsi della lince; il cane annusa i miei abiti e si allontana con la coda tra le gambe, lanciando verso il cielo quei lunghi ululati che gli abitanti della campagna considerano un presagio sinistro. L’intera natura si rivolta contro di me. Sembro un flagello, una catastrofe presentita dall’istinto di conservazione di cui il creatore ha provvisto ogni essere. Attraverso uno spazio pieno di vergogna e confusione. Finalmente giungo al termine del percorso, e le parole «Non uccidere» risuonano ancora una volta. Mi precipito nella mia dimora, i miei figli mi tendono le braccia e io respingo le loro carezze, il loro sorriso mi affligge, mi disturba, mi irrita, mi avvelena. Eppure quanta dolcezza! Più tardi sarà l’unguento che verseranno sulle mie ferite; ora non potrei sopportarlo.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac con Auguste Le Poitevin de l’Égreville, L’Anonimo ovvero Senza padre né madre. A cura di Paola Dècina Lombardi, Milano, Oscar Mondadori, (novembre) 2004 («Oscar classici», 607), pp XLIX-301.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Paola Dècina Lombardi, Introduzione. L’anonimo di un grand’uomo, pp. V-XVIII;

  Id., Nota al testo, pp. XIX-XXXII;

  Cronologia, pp. XXXIII-XL;

  Bibliografia, pp. XLI-XLIX;

  L’Anonimo ovvero Senza padre né madre, pp. 1-298.

 

  Il fitto alone di mistero che fino ad oggi avvolgeva la questione della presunta (se non assoluta, almeno diffusa) paternità balzachiana del romanzo in tre tomi L’Anonyme ou Ni père ni mère pare essersi dissolto grazie (e non solo) alle ricerche di M.-B. Diethelm negli archivi della Bibliothèque Nationale de France. L’edizione integrale dell’opera, pubblicata nel 2003 (Le Passage), è corredata infatti da una documentata prefazione e da un ricco apparato di note al testo che contribuiscono, probabilmente in misura determinante, a chiarire uno dei tanti ‘misteri’ che, a torto o a ragione, aleggiano intorno alla produzione letteraria del giovane Balzac. Su L’Anonyme, avevano già avuto modo di riflettere anche critici balzachiani di notevole spessore: da A. Prioult a B. Guyon (piuttosto scettico circa la paternità balzachiana del romanzo); da M. Bardèche a P. Barbéris fino a R. Chollet.

  L’autore ufficiale dell’opera in questione, registrata nella «Bibliographie de France» il 24 maggio 1823, è A. de Viellerglé Saint-Alme, pseudonimo anagrammatico di Auguste Lepoitevin detto Le Poitevin, autore di opere letterarie oggi giustamente dimenticate, che si legò a Balzac a partire dal 1820. Redatto tra il settembre 1821 e l’agosto 1822, L’Anonyme è contemporaneo ad altre oeuvres de jeunesse balzachiane: Jean-Louis, Le Vicaire des Ardennes e Le Centenaire, e rivela forme e caratteri eminentemente balzachiani, ben lontani dai ‘clichés’ narrativi sviluppati da Viellerglé. Oltre all’influenza delle opere di Sterne e di Pigault-Lebrun, preponderante risulta essere, nell’Anonyme, la presenza di temi e di colori propri del romanzo nero, a cui si aggiunge, però, scrive P. Dècina Lombardi nel saggio introduttivo, l’eco di un periodo «di formazione e di passaggio, di presa di distanza dalla famiglia e di attivismo frenetico, di speranze e progetti continuamente messi alla prova» (p. VIII). Nell’Anonimo, Balzac, giovane anticonformista che può contare solo su se stesso, dà corpo a «fantasmi e proiezioni, traducendo metaforicamente il processo della sua costruzione dell’io» (Ibid.). Significativo, da questo punto di vista, è l’identificazione dell’anonimo con Enea, il cui mito prefigura, anche in ottica sociale, «il motivo prometeico di una rifondazione che metta fine alle macerie del passato» (p. XVI).

 

 

  Honoré de Balzac, L’elisir di lunga vita [trad. di A. Vittorini], in AA.VV., Storie di Don Giovanni. Da Hoffmann a Brancati, a cura di Guido Davico Bonino, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli – Classici Moderni, 2004, pp. 32-53.

 

  In questa antologia di racconti otto-novecenteschi sulla figura e sul mito di Don Giovanni in Europa, trova un posto di primo piano L’elixir de longue vie di Balzac, pubblicato nella «Revue de Paris» il 24 ottobre 1830. Sullo sfondo di una Ferrara cinquecentesca, il personaggio di Don Giovanni incarna, nella novella filosofica balzachiana, la lotta dell’ateismo contro gli eccessi del cristianesimo assumendo «la difesa di un’idea laica del Destino contro le aberrazioni di una presunta religiosità» (p. 15 dell’Introduzione).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 2004 («Biblioteca romantica. I tesori della letteratura d’amore»), pp. 249.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2004 («BUR. I classici blu», 266), pp. 200.

 

  Per la traduzione, cfr. 1949 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet nella traduzione di Grazia Deledda. Introduzione di Riccardo Reim. La cugina Bette. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Lucio Chiavarelli. Edizioni integrali, Roma, Newton & Compton Editori, 2004, pp. 442.

 

  Supplemento al quotidiano «La Sicilia» del 21 maggio 2004.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Stefano Doglio, Nota biobibliografica, pp. 7-14;

  Eugénie Grandet.

  Riccardo Reim, Nota alla traduzione di Grazia Deledda, p. 16;

  Id., Balzac, la «Comédie humaine» e la famiglia Grandet, pp. 17-20;

  Eugénie Grandet, pp. 21-136;

  La cugina Bette.

  Lanfranco Binni, Crimini privati, morti quotidiane, pp. 139-143;

  La cugina Bette, pp. 144-437.

 

  Cfr., per le traduzioni: 1930 e successive ristampe; 1999.

 

 

  Honoré de Balzac, Il medico di campagna. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Andrea Zanzotto, Milano, Garzanti Editore, 2004 («I grandi libri», 534), pp. XXII-229.

 

  Cfr. 1977 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Memorie di Sanson boia della Rivoluzione. A cura di Paola Dècina Lombardi, Milano, Oscar Mondadori, (gennaio) 2004 («Oscar classici», 592), pp. XXXVIII-357.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Paola Dècina Lombardi, Sanson, caso di coscienza, pp. V-XIX;

  Cronologia, pp. XXI-XXVIII;

  Bibliografia, pp. XXIX-XXXVI;

  Paola Dècina Lombardi, Nota alla traduzione, pp. XXXVII-XXXVIII;

  Memorie di Sanson, pp. 1-324;

  Appendice:

  Paola Dècina Lombardi, Edizioni e storia dell’opera; pp. 327-338;

  Paul Lacroix, Incontri con Sanson, pp. 339-340;

  Laure Surville, Testimonianza della sorella Laure, p. 341;

  Lettera di Marco de Saint-Hilaire ad Armand Dutacq [13 gennaio 1853], pp. 343-350;

  Prospetto, pp. 351-356.

 

  Pubblicati dalla Librairie Centrale tra il febbraio e il marzo 1830, i due volumi che formano i Mémoires pour servir à l’Histoire de la Révolution française par Sanson exécuteur des arrêts criminels pendant la Révolution vedono luce per la prima volta in Italia grazie al testo curato da P. Dècina Lombardi. Redatta a quattro mani, almeno per quel che riguarda i capitoli aneddotici del secondo volume, visto che lo scrittore si è avvalso della collaborazione di L’Héritier de l’Ain – poligrafo mesteriante al servizio dell’editore Mame – (cfr., a questo proposito, la lettera di E. M. de Saint-Hilaire ad A. Dutacq del 13 gennaio 1853 pubblicata alle pp. 343-350), quest’opera di Balzac trasmette al lettore già «tutta la sua carica passionale di osservatore dei costumi e di grande moralista che, guardando con animo ribelle ai mali sociali, nutre il sogno di cambiare il mondo» (p. V). Uscita ad un anno di distanza da Dernier jour d’un condamné à mort di V. Hugo, le Memorie nascono certo da congetture speculative di mercato editoriale, ma restituiscono contemporaneamente l’immagine di un ordine politico, morale e religioso ormai perduto e senza ritorno, inducendo il lettore a riflettere sui risvolti più nascosti e dolorosi della natura umana, in questo senso, i Mémoires «non si esauriscono in una requisitoria contro la pena di morte» (p. VII): in essi, Balzac riversa molti degli elementi psicologici, morali, estetici e socio-politici che «costituiscono la strumentazione della Comédie humaine» (p. XIV). Le Memorie di Sanson, si legge nel Prospetto del 1829, è «un quadro in cui tutto e nuovo e tutto è vero; non vi sono ruoli che non finiscano o dissimulazioni che non giungano a termine» (p. 355): la figura di Sanson è il ritratto di un personaggio moderno in quanto egli è vittima senza scampo perché ridotto all’oblio di se stesso sotto il peso delia disuguaglianza e del pregiudizio sociale. Nel suo monologo interiore, «Sanson sente infatti tutto il peso del suo agire ma anche tutta l’ingiustizia dell’impossibilità di sottrarsi a una sorte comune a tante vittime della disuguaglianza che governa il mondo» (p. VIII).

 

 

  Honoré de Balzac, Il padre Goriot. Traduzione e cura di Cesare De Marchi. In appendice il “Catalogo” delle opere e la “Premessa” alla “Comédie humaine”, Milano, Feltrinelli, (febbraio) 2004 («I Classici Universale Economica»), pp. XXIV-263.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Cesare De Marchi, Un visionario appassionato, pp. V-XXI;

  Chiave delle citazioni da “Le père Goriot”, pp. XXII-XXIII;

  Cesare De Marchi, Nota al testo, p. XXIV;

  Il padre Goriot, pp. 1-237;

  Appendice 1. Catalogo delle opere contenute nella “Commedia umana” di Balzac, pp. 239-246;

  Appendice 2. Premessa a “La Commedia umana”, pp. 247-262.

 

  Il modello originale di riferimento di questa nuova versione italiana del capolavoro balzachiano è quella della seconda edizione Werdet del maggio 1835 con la sola eccezione della suddivisione in capitoli che rimanda alla prima edizione del romanzo pubblicata nel marzo precedente. Come indicato nel frontespizio, il volume propone all’attenzione dei lettori italiani due documenti capitali per comprendere i fondamenti estetici e progettuali del sistema-Comédie humaine: ci riferiamo al catalogo stilato da Balzac nel 1845 per un’edizione completa in 26 tomi della sua opera e all’Avant-propos del 1842.

  Nel suo saggio introduttivo, De Marchi individua le luci e le ombre che, a suo giudizio, attraversano il tessuto narrativo e le dinamiche testuali del Père Goriot con particolare riferimento alla funzione svolta dai personaggi protagonisti nell’economia della narrazione. In questo romanzo «dalla trama incalzante e dalla grande teatralità delle scene principali» (p. XIII), dove Balzac, da romanziere assoluto qual è, trasferisce la sua intelligenza di scrittore fino a giungere ad una «trasfigurazione romanzesca della realtà» (p. XV), la posizione nella trama di colui che incarna religiosamente il sentimento della paternità pare essere relativamente marginale rispetto al ruolo assunto da altre figure di primo piano, come, ad esempio, Rastignac. A proposito del giovane eroe balzachiano, De Marchi rileva che «le vicende interiori di Eugène, pur disponendosi in una struttura narrativa robusta, non danno luogo a un romanzo di formazione: vi manca il soggetto unificante; non c’è la personalità che muta, c’è soltanto il mutamento» (p. XII).

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione e note di Anna D’Elia, Milano, Superbur classici, 2004, pp. 319

 

  Cfr. 1995.

  Alle pp. 313-318, è presente una Cronologia della vita e delle opere di Balzac dove il compilatore confonde tra loro la data dei soggiorni balzachiani a Torino e a Milano collocando nell’anno 1836 (sic) la visita dello scrittore francese ad Alessandro Manzoni (avvenuta, in realtà, il 1° marzo 1837).

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Torino, La Stampa, 2004 (29 giugno) («I Classici La Stampa», 27), pp. LXIII-247.

 

  Cfr. 2003.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione e traduzione di Maurizio Cucchi, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2004 (7 luglio) («Ottocento», 29), pp. XXXVIII-309.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Maurizio Cucchi, Introduzione. Affetti, denaro e società, pp. VII-XV;

  Cronologia della vita, pp. XIX-XXX;

  Cronologia delle opere, pp. XXXI-XXXII;

  Traduzioni italiane, p. XXXIII;

  Maurizio Cucchi, Nota del traduttore, pp. XXXV-XXXVIII;

  Papà Goriot, pp. 1-307.

 

  In abbinamento al quotidiano «la Repubblica» del 7 luglio 2004. Nel testo balzachiano, osserva il curatore nella citata introduzione, gli affetti e il denaro alimentano «pressoché tutti gli intrecci e le dinamiche del romanzo» (p. XIII): un romanzo in cui i personaggi vivono «profondamente immersi nella realtà sodale del loro tempo» (p. XV), configurandosi come «figure plausibili, in cui il male e il bene [...] coesistono» (p. IX). In quest’ottica, conclude M. Cucchi, Balzac «oltrepassa il realismo e penetra nella vertigine incontrollabile del sentimento, coinvolgendo il racconto – anche, in una sorta di drammatica tensione lirica» (p. XV).

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. A cura di Riccardo Reim. Edizione integrale, Roma, Biblioteca Economica Newton, (giugno) 2004 («Classici», 155), pp. 247.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Riccardo Reim, «Le père Goriot» e «La Comédie humaine», pp. 7-12;

  Stefano Doglio, Nota biobibliografica, pp. 13-20;

  Riccardo Reim, «La Comédie humaine», pp. 21-23;

  Papà Goriot, pp. 25-245.

 

  Riccardo Reim si sofferma in modo particolare sul rilievo narrativo delia descrizione degli ambienti interni ed esterni del romanzo, i quali, come nel caso della pension Vauquer, divengono gli specchi deformanti ma, allo stesso tempo, fedeli del «macrocosmo cittadino» (p. 8). Non meno significativa è la galleria dei personaggi monomani che attraversa la scena del palcoscenico balzachiano: personaggi che, per la prima volta in forma dichiarata ed esplicita, sono uniti tra loro da un’unica rete di fili che penetrano, fino a sconvolgerle, le categorie del tempo e dello spazio. Ecco allora che, nel Père Goriot, Balzac si fa «storiografo dell’immaginario, rivelando un’ambizione sociologica pari alla sua ebbrezza di romanziere» (p. 11).

 

 

  Honoré de Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Attilio Bertolucci, Milano, Garzanti Editore, 2004 («I grandi libri», 650), pp. LX-69.

 

  Cfr., per la traduzione, 1946; 1998, per l’introduzione.

 

  Come Ferragus e La Duchesse de Langeais, anche La Fille aux yeux d’or deve molto ai romanzi giovanili di Balzac; ma il racconto, scrive Binni, rivela allo stesso tempo «un dominio maturo della tecnica narrativa» (p. XXXVIII): inoltre, la «visione spietata del funzionamento della società borghese» (p. XXXIX) teorizzata nel prologo segna «un ulteriore importante progresso nello scavo delle ‘vite private’, ormai pienamente inserite nel più ampio contesto sociale» (p. XXXVIII).

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  La gelosia vista da Honoré de Balzac, «La Nuova Venezia», Venezia, 4 marzo 2004.

 

  Il Gran Teatrino La Fede delle Femmine (Margot Galante Garrone, Paola Pilla, Margherita Beato) propone domani e il 6 marzo alle 20.30 e domenica 7 marzo alle 11 nella Sala Tommaseo dell'Ateneo Veneto La grande Bretèche, tratto da un racconto “nero” di Honoré de Balzac. E’ la storia di una sadica gelosia: Monsieur de Merret sospetta che la moglie nasconda nel guardaroba il proprio amante. Lei nega e giura sul crocefisso di essergli fedele. Ma il marito non le crede e fa murare lo stanzino dove ritiene sia nascosto il rivale, rimanendo per 20 giorni a sorvegliare la moglie che, alla fine, cede all’angoscia e tenta di salvare l’amante murato vivo, affrontando così il suo destino. La messa in scena coniuga la gestualità delle marionette con le immagini video che costituiscono il filo conduttore dello spettacolo, con le musiche di Gluck, Kurtág, Rota, Saint-Saëns. Tra gli interpreti l’avvocato Sergio Camerino, la clavicembalista Sara Mancuso, l’italianista Sergio Zambon.

 

 

  Balzac e le lusinghe del mondo, «Avanti!», Roma, 17 marzo 2004.

 

  In una Parigi dominata dalla brama di denaro e di potenza, un moderno Re Lear consacra la propria vita alle figlie ingrate mentre il giovane studente Eugène de Rastignac viene iniziato ai segreti del bel mondo. Ospite della pensione di madame Vauquer, scopre l’ipocrisia che si cela dappertutto, dietro l’amicizia, l’amore, la pietà, il matrimonio, sotto lo splendore aristocratico come nella mediocrità borghese.

 

  I figli sono le persone che più amiamo, che più vogliamo tenerci accanto, ma non ci ripagano con altrettanto affetto. È il tema del celebre romanzo Il padre Goriot di Honoré De Balzac (riedito da Feltrinelli, Universale economica, traduzione di Cesare De Marchi, 2004). Balzac, nato a Tours nel 1799 e morto a Parigi nel 1850, si fece conoscere con il saggio La fisiologia del matrimonio (1830); fu anche giornalista ed editore. Cercò ardentemente il successo e la fama, ma ebbe molti problemi economici. Come scrittore, lavorò soprattutto ad un progetto; la realizzazione di un ciclo di opere dal titolo La commedia umana, in cui voleva raccogliere i suoi romanzi facendone parti autonome, ma complementari, di un unico quadro e riutilizzando anche alcuni personaggi. Balzac fu uno degli iniziatori del realismo; seguendo l’insegnamento del positivismo (da Comte a Spencer) trasformò lo scrittore in un osservatore scientifico dei comportamenti dell’uomo; nell’ultima parte della sua vita fu però influenzato dal misticismo cosmico di Swedenborg. Come Emile Zola, Victor Hugo e Gustave Flaubert (oppure Giovanni Verga in Italia o Charles Dickens in Inghilterra) egli fornì quindi una formidabile spaccato della società del suo tempo, con le sue diverse classi e i suoi costumi, che, per certi versi, è «ancora attuale. Nel romanzo Papà Goriot (1834) ribadì che l’uomo, nei suoi comportamenti sociali, tende all’ipocrisia: dietro le apparenze fastose degli aristocratici e la mediocrità dei borghesi, secondo Balzac, si nasconde una sostanziale bassezza morale. Opportunismo, ricerca del potere e del piacere, sono i caratteri di un mondo che calpesta i sentimenti più puri e profondi. Balzac riuscì ad esprimere queste convinzioni soprattutto grazie ad un’accurata caratterizzazione dei protagonisti dei suoi libri. Celebri anche le descrizioni dei drammi domestici e degli ambienti malfamati dei fuorilegge. I suoi personaggi, dotati di forte vitalità, sono esseri abnormi, monomaniaci, irremovibili nel perseguire le proprie idee fisse. Protagonista della vicenda di Papà Goriot è il giovane studente universitario Eugène de Rastignac, ingenuo e povero, ma ambizioso, intento ad introdursi nel bel mondo parigino (il Faubourg Saint Germain). Egli ricorda Julien Sorel, protagonista del Rosso e nero di Stendhal. Rastignac vive una serie di avventure che formeranno il suo carattere, privandolo delle illusioni giovanili e rendendolo più maturo. Il romanzo è ambientato nella squallida pensione della signora Vauquer, nella pittoresca zona di Montagne Sainte-Geneviève, dove Rastignac trova alloggio. Gli ospiti della locanda sono un campionario umano di fallimenti e le loro vicende faranno da viatico al giovane Eugene. Uno dei clienti è Vautrin, un ex evaso: sembra che, sotto queste vesti, l’autore avesse ritratto il celebre Vidocq, realmente esistito, popolarissimo all’epoca per la sua abilità nei travestimenti e nei trabocchetti, poi diventato capo della polizia di Parigi. Ad un certo punto, Vautrin spiega a Rastignac: L’onestà non serve a nulla E così, l’uomo onesto è il nemico comune. Se dunque volete far presto fortuna, bisogna giocare grossi colpi; se no, il giuoco è da spilorcio, e servitor vostro! Un altro ospite appunto è il signor Goriot, un vermicellaio, cioè un commerciante di pasta e farina: questi, definito un buon uomo e vedovo inconsolabile, aveva riversato tutto il suo affetto sulle sue figlie, Anastasia e Delfina, assecondandole in ogni loro desiderio, pure nella scelta dei mariti. Goriot (che esemplifica l’amore paterno), viene perfino convinto a vendere la sua attività, subisce i raggiri dei generi, un conte e un banchiere di origine tedesca. Essi lo allontanano dalle loro case e lo costringono a trovarsi un alloggio in un modesto albergo. Papà Goriot si dispera per la sorte delle ragazze: O, figlie mie! È questa la vostra vita? Vorrei divorarli, quei due. Che ne sarà di voi quando io non ci sarò più? I vostri padri dovrebbero vivere quanto i loro figli Non mi fate conoscere altro che le vostre lacrime? Ebbene sì, voi mi amate. Venite, venite a piangere qui! Le figlie però sostengono di essere innamorate dei mariti e vanno a trovare il padre solo per carpirgli altro denaro. Invece, quando lui sta per morire, le due ingrate non corrono ad assisterlo: una è trattenuta dagli affari, l’altra dal ballo. Sarà Eugene ad occuparsi del moribondo (che, finalmente accortosi dell’egoismo delle figlie, invoca il Parlamento perché faccia una legge contro il matrimonio). Anastasia giungerà al suo capezzale quando lui è ormai senza coscienza. Dopo il funerale di Goriot, Rastignac verserà l’ultima lacrima della sua giovinezza e lancerà la sua sfida alla società (l’alveare ronzante) con le celebri parole: Ed ora, a noi due.

 

 

  L’appetito di Balzac, «il Resto del Carlino. Edizione di Reggio Emilia», Reggio Emilia, 17 ottobre 2004, p. XXXVII.

 

  Il grande scrittore Honoré de Balzac aveva un appetito che non conosceva limiti. In un pranzo offertogli dal suo editore divorò 120 ostriche, una gigantesca sogliola normanna, dodici cotolette, un’anatra ai porri, due pernici arrosto e dodici pere del Doyonné. Quando scriveva invece si “accontentava” di sardine con il burro, un pezzo di montone, pane ed acqua. E naturalmente caffè a litri.

 

 

  Le memorie del boia buono: le inventò Balzac, «Corriere della sera», Milano, 12 febbraio 2004, p. 35.

 

  Quando ancora il successo non gli aveva arriso ed era un giovane scrittore scapigliato sempre in fuga dai debitori, Honoré de Balzac, per sbarcare il lunario, non disdegnava di mettere la sua penna brillante al servizio di operazioni commerciali. Fu l’editore Louis Mame a commissionargli le memorie apocrife del boia Sanson, in servizio già da prima della Rivoluzione, che aveva calato la ghigliottina sul capo di Luigi XVI. All’epoca, sottolinea Luzzatto nel capitolo del suo libro dedicato a questo episodio, opere del genere esercitavano un fascino morboso sul pubblico francese, affamato di testimonianze a sensazione sugli eventi successivi al 1789.

  Oggi le Memorie di Sanson, che Balzac scrisse in tandem con l’assai meno talentuoso collega Louis-François L’Héritier, sono disponibili per la prima volta in una traduzione italiana, curata da Paola Dècina Lombardi per gli Oscar Mondadori (pagine 357, € 8). Uscito in due volumi nel 1830, il libro risente del suo carattere occasionale e presenta sfasature tra i diversi capitoli. Tuttavia, come nota la curatrice, «l’opera annuncia alcuni grandi temi della Commedia umana»: soprattutto l’episodio introduttivo reca evidente l’impronta del genio di Balzac, che lo riutilizzò più tardi, con alcune modifiche, nella sua opera Scene della vita politica. Ne esce il ritratto di quello che Luzzatto definisce un «boia buono», contrario in cuor suo alla pena capitale, che svolge con riluttanza il suo triste compito nella consapevolezza di quanto imperfetta, a volte iniqua e feroce, sia la giustizia degli uomini.

 

 

  Raccontare un addio con cinico distacco, «Il Denaro», Milano, 4 febbraio 2004.

 

 

  La Comédie humaine. Rastignac illustra i paradossi del turismo individuale, Rozzano, «Domus», n. 867, febbraio 2004, pp. 142-143.

 

 

  Rastignac. La Comédie humaine II, «Domus», Rozzano, n. 870, maggio 2004, pp. 194-195.

 

 

  Rastignac. La Comédie humaine III, «Domus», Rozzano, n. 874, ottobre 2004, pp. 262-263.

 

 

  Masolino d’Amico, Balzac, una Parigi in salsa maledetta, «La Stampa», Torino, 25 novmbre 2004, p. 28.

 

  Sotto il titolo «La Comédie Humaine – Études philosophiques» il regista Dominique Pitoiset propone alla Cavallerizza un suo adattamento di due romanzi-racconti di Honoré de Balzac, «Il talismano», meglio noto come «La pelle di zigrino», e «Il capolavoro ignoto». Il primo è come tutti sanno un’ennesima versione della storia di Faust, con un poeta che vende l’anima al diavolo in cambio di una stagione di piaceri forti. La vicenda è intrisa di maledettismo, perché all’inizio il nostro stava comunque per suicidarsi, non tanto per disperazione quanto per sarcastica presa di coscienza della propria incompatibilità con la società; né la breve carriera di gaudente cambia il suo atteggiamento – il momento cui costui dica «Fermati, sei bello» non viene mai. Nel frattempo egli incontra vari esponenti della fauna della brulicante Parigi che Balzac dedicò la sua immane opera a esplorare: giornalisti, accademici, ecclesiastici, professionisti, festaioli e via dicendo. Pitoiset li veste come gente di oggi, sia pure senza enfasi, più che altro in generici completi neri – costumi di Kattrin Michel; fa dominare lo splendido salone vuoto della Cavallerizza da uno schermo video su cui si proiettano scritte, o primi piani di qualche personaggio, o immagini di altro tipo; sottolinea certi momenti con un sound martellante, molto amplificato, tipo quello che piove dalle automobili che gironzolano per il centro la notte del sabato sera; e mette nel party due cubista. L’attualizzazione non è un male di per sé, se vedono tante analoghe e riuscitissime, soprattutto ad opera dei giovani registi tedeschi, per i quali è ormai prassi irrinunciabile davanti a qualunque classico. Non è dunque per questo che le poco meno di due ore di questa parte dello spettacolo risultano così atrocemente tediose. Il guaio è che curando amorosamente i dettagli nella sobrietà del vasto spazio nessun momento è visivamente meno che squisito – Pitoiset perde di vista la storia, che quindi è quasi impossibile seguire. Molti attori incarnano più personaggi, ma senza cambiare d’abito, il che rende arduo capire chi sono in quel momento, senza contare che gran parte di quello che viene detto non arriva (il quaranta per cento del Raphaël di Mariano Pirrello, per esempio; l’ottanta per cento della sua compagna Pauline ovvero Cristina Spina). Consistendo di episodi più o meno analoghi, la stessa parabola di Raphaël ingenera monotonia. E insomma malgrado l’ottimo impegno dei coinvolti, i vari Gigi Dall’Aglio, Paolo Bocelli, Marcello Vazzoler, eccetera, l’operazione rimane inerte, un arido esercizio di calligrafia col quale lo spettatore rinuncia presto a sintonizzarsi. [...]. Questa volta, miracolo, del testo, nella validissima versione di Luca Fontana, si capisce ogni parola, e se ne viene coinvolti, benché, o forse proprio perché, la situazione sia molto meno scontata. Anche qui gli abiti sono odierni, ma ci troviamo addirittura nel Seicento, nello studio del pittore Porbus, cui fa visita un imberbe e promettente Nicolas Poussin. Il protagonista però è un altro, e inventato da Balzac: tale Frenhofer, vecchio pittore ricco di suo e già allievo del grande Mabuse. Frenhofer si sente depositario dei segreti del maestro, pontifica eloquentemente su tecniche e effetti del mestiere (esordisce demolendo la Madonna appena dipinta da Porbus), e da dieci anni si accanisce a concentrare tutto quello che sa di poter dare su di un unico dipinto che non mostra a nessuno. Porbus e Poussin portano al vecchio una modella, la recalcitrante fidanzata di Poussin, per dargli la spinta finale a terminarlo, ma il risultato sarà deludente per non dire tragico. Appassionante apologo sull’arte e sull’artista accecato dalle proprie aspirazioni, è superbamente interpretato da Roberto Abbati, Michele de’ Marchi, Mariano Pirrello e Cristina Spina, diventati, come dicevo, intelligibili; che il merito sia della scena zeppa di cavalletti/tele, armadi ecc., tutti di legno chiaro, dove forse la voce non si disperde? Sono i misteri del teatro.

 

 

  Vittorino Andreoli, Se le colpe dei figli passano sui padri, «Avvenire», Milano, 24 febbraio 2004.

 

  [...]. Le storie dei padri sono per lo più scandite dai loro errori e dalle conseguenze che finiscono per evidenziarsi nei figli.

  Con padri addirittura mancanti, che in quanto tali determinano danni irreversibili nel vissuto delle nuove generazioni.

  Vicende penose che si pongono nella direzione famosa delle “colpe del padri che si riversano sui figli”.

  Questo canovaccio risente certamente della difficile posizione del ruolo paterno, ma soprattutto di quel diritto “naturale” secondo il quale i figli devono essere educati, e dunque devono “ricevere”.

  Eppure, gli effetti di una buona educazione ricadono anche sui padri.

  Così come esistono storie quotidiane in cui i padri sono sconvolti, travolti dai figli, da una loro palese insensibilità.

  E si conoscono vissuti in cui il padre è rovinato sia sul piano dell’immagine sociale, sia sul piano della propria individualità.

  Vogliamo fare riferimento a un caso che, pur situato storicamente nell’Ottocento, ha caratteristiche del tempo presente, inclusa un’analisi psicologica e sociale straordinaria. Non è strano che se ne stia facendo un film, con la regia di Jean Daniel Verhaeghe e, come attore, Charles Aznavour, il grande compositore-cantante che oggi ha 79 anni.

  E’ la storia di “Papà Goriot” (Le père Goriot, Rizzoli, Milano 2002), scritta nel 1834 da Honoré de Balzac, sicuramente uno dei suoi più riusciti romanzi assieme certo a “Eugénie Grandet”.

  Balzac, autore prolifico, pone questa storia in quell’ampio progetto de La Comédie humaine con cui egli si proponeva di descrivere i sentimenti e i drammi dell’uomo nella vita quotidiana.

  Una contrapposizione con La Divina Commedia di Dante, che si occupa prevalentemente dell’al di là, e quindi dell’uomo dopo la morte.

  Papà Goriot, «un vecchio fabbricante di vermicelli, di pasta e di amido vecchio di circa sessantanove anni, si era ritirato presso la signora Vauquer nel 1813, dopo aver abbandonato gli affari».

  Goriot arrivò alla pensione Vauquer con oggetti carichi di memoria: ricordano il legame con la moglie deceduta, ma anche una posizione sociale di prestigio, come la tabacchiera d'oro.

  Sul petto portava due spille, unite da una catenella, su ciascuna delle quali era montato un grosso diamante.

  Un uomo che si ritira in un pensionato borghese significa evidentemente che è solo, lui però poteva vantare un passato di commerciante di paste affermato e una rendita che gli faceva dire: Non sono da compiangere, io: ho il pane assicurato per molto tempo.

  La casa di ricovero offriva posti a diversi prezzi: il costo massimo era per un appartamento al terzo piano, e si riduceva via via quanto più si scendeva alle stanzette minute e buie del primo.

  E vedremo che papà Goriot passa dall’appartamento migliore a luoghi sempre meno accoglienti, e alla fine sarà in un tugurio. Attraverso questi cambiamenti si capisce che la sua condizione economica peggiora fino a non avere più nemmeno un soldo.

  Pur figlio di una famiglia povera, Goriot era uno che, con la sua volontà di giovane caparbio, era riuscito durante la rivoluzione – tempo in cui il pane e la pasta erano elementi di sopravvivenza – ma sviluppare un’attività che lo aveva arricchito, e soprattutto gli aveva permesso di mettere le sue due figlie in condizioni di esser sempre eleganti, di frequentare scuole esclusive e quindi di godere del benessere da nobildonne.

  E non è un modo di dire, perché Anastasie è contessa sposata Restaud, mentre Delphine andò in sposa ad un banchiere, il barone de Nucingen, e quindi a sua volta baronessa.

  Egli può dunque esibire per le figlie una condizione di successo.

  Papà Goriot nella sua ascesa sociale proiettava tutto sulla felicità delle figlie, e si sa che la felicità non è indipendente dalla ricchezza e da un nome che permetta di avere carrozze, vetturini eleganti, un palazzo nella parte di Parigi che conta, e la possibilità di organizzare feste e di frequentare il “gran mondo”.

  Così lui arriva alla pensione con questo risultato, che è di grande significato per un padre e certo per papà Goriot, partito dal nulla.

  Ma Balzac ci conduce soprattutto dentro la sua discesa, che lo vedrà vendere i simboli dei ricordi più cari fino a smarrire la dignità.

  Alla fine del secondo anno chiede alla signora Vauquer di passare al piano di sotto, per aver ridotto il prezzo della pensione.

  Il segreto dell’incipiente povertà è subito spiegato: papà Goriot deve aiutare le due figlie, le quali ricorrono a lui solo per chiedere denaro, e deve intervenire persino per liberarne una da un usuraio.

  Fa impressione constatare che due nomi di tal lignaggio abbiano bisogno di denaro, e soprattutto che lo estorcano a un padre a cui è rimasta solo una rendita che lo salva appena dalla miseria.

  Ma si viene a sapere che i due generi non lo vogliono vedere, anche perché lui aveva un passato da rivoluzionario e adesso, con la Restaurazione, si vergognano di vederselo attorno.

  Si scopre inoltre che le stesse figlie, troppo prese dalle occupazioni mondane, non hanno tempo per occuparsi del padre: a lui ricorrono solo per prosciugargli tutto il denaro che possono, fino a lasciarlo senza nulla.

  E Goriot scende da quel secondo piano del pensionato allo stanzino.

  Quando parla delle figlie il tono però rimane quello di sempre: Non ne ho che due, replicò il pensionante, con la dolcezza di un uomo rovinato che arriva a tutta la docilità della miseria. Sembra un settantenne inebetito, affetto da cretinismo.

  I suoi movimenti ormai sono tesi a deprivarsi di tutto per correre a saldare i debiti di una o l’altra delle figlie, le quali non smettono di dedicarsi alla bella vita che poi è una vita di antagonismi, di doveri di rappresentanza, per conquistare una visibilità salottiera sempre maggiore.

  Si muove di preferenza al mattino, verso mezzogiorno, poiché le figlie a quell’ora sono abituate a passare per gli Champs Elysées ognuna con la propria carrozza, e lui le vede anche se loro non se ne accorgono, e certo non lo salutano.

  Il contrasto tra il padre invecchiato, e senza più nulla, stride con la descrizione ora dell’una ora dell’altra delle due figlie. Così appare Anastasie agli occhi di un giovane che si è invaghito di lei [...].

  Quel padre aveva dato tutto, per vent’anni aveva dato le sue viscere il suo amore, aveva dato il suo patrimonio in un sol giorno e, dopo aver ben spremuto il limone, le figlie ne hanno gettato la scorza all’angolo della strada. “Goriot trovava la felicità nel soddisfare i capricci delle figlie” le innalzava al rango di angeli.

  Nonostante il comportamento riprovevole delle figlie, Goriot cerca di capirne le intenzioni.

  Un padre è con i suoi figlioli come Dio è con noi, penetra in fondo ai cuori e giudica le intenzioni “la mia vita è nelle mie figlie, e se loro si divertono, se sono contente, vestite con eleganza, se camminano sui tappeti, che m’importa la stoffa di cui sono vestito e dove dormo”.

  “Non sento il freddo se loro sono al caldo, non mi annoio mai se ridono e non ho altri dispiaceri che i loro”.

  “Un giorno saprete che si è assai più felici della loro gioia che della propria. Insomma io vivo tre volte; e volete sapere una cosa strana: Ebbene quando sono diventato padre ho compreso Dio soltanto che io amo le mie figlie più di quanto Dio ami il mondo, perché il mondo non è bello quanto Dio, mentre le mie figlie sono più belle di me”.

  E continua senza tentennamenti in questo vissuto di paternità: “quando mi chiamano papà mi sembra ancora di vederle bambine, mi restituiscono tutti i ricordi; sono ancor più il loro padre”.

  I padri devono sempre dare per essere felici: dare sempre, è questo che ci fa padri.

  E siamo all’epilogo.

  Papà Goriot non ha più nulla, nemmeno un soldo, ma non gli resta neppure più nulla di umano.

  E questa è la condizione in cui uno muore, il momento drammatico in cui non può più illudersi, né fingere, neppure di essere amato dalle figlie.

  Sta morendo e le vorrebbe rivedere, ma le figlie non compaiono, poiché una è rientrata alle cinque dal ballo e l’altra deve affrontare problemi legati al proprio status sociale e dunque ad una diatriba con il marito, che non le passa il necessario mentre è generoso con la propria amante.

  Sta morendo papà Goriot e le desidera vicino a sé, ma non arrivano.

  Le mie figlie, le mie figlie, Anastasie, Delphine!

Voglio vederle: mandatele a prendere dai gendarmi, con la forza! “Io protesto! La patria perirà se i padri saranno calpestati”.

  E’ chiaro: la società, il mondo, si basano sulla paternità, e tutto crolla se i figli non amano i loro padri.

  “Ho vissuto per essere umiliato, insultato; ma le amo tanto che ingoiavo tutti gli affronti in cambio dei quali mi vendevano una povera, miserabile e vergognosa gioia”. Io ho dato loro la mia vita e loro, oggi, non mi daranno neppure un’ora (per morire).

  E mentre le figlie appaiono così volgari da quasi non meritare il nome umano, pur se coperte d’eleganza, di bellezza, e con nomi altisonanti, papà Goriot fa un’analisi di grande introspezione e di formidabile attualità.

  Sono le sue ultime parole.

  Le mie figlie sono innocenti. “Soltanto io sono colpevole, perché le ho abituate a calpestarmi” ho commesso la sciocchezza di abdicare ai miei diritti.

  Mi sarei annientato per le mie figliole. “Sono un miserabile e sono giustamente punito, poiché io solo ho causato gli eccessi delle mie figlie, viziandole”.

  Io sono colpevole, colpevole per amore.

  “In questo momento vedo tutta la mia vita: sono stato ingannato, non mi amano, non mi hanno mai amato, è così chiaro!”

  Ecco la mia ricompensa: l’abbandono.

  Papà Goriot muore.

  Questa storia dentro l’Ottocento ci appare cronaca del tempo presente.

  Un tempo in cui il denaro è grande protagonista in molte relazioni malate tra padri e figli.

  Forse ancor più oggi che allora, il denaro è sinonimo di successo e si tende ad averlo comunque, dentro e fuori la legge, e per un po’ di denaro si arriva persino ad ammazzare, come se la vita non valesse che poche banconote.

  La stessa vita di un padre e quella della propria madre si possono ridurre ad un salvadanaio da rompere, se è il caso.

  Oggi non c’è neppure spazio per trarre da questi avvenimenti dei romanzi, del “Père Goriot”, giacché il campo della fantasia è espropriato dalla cronaca. [...].

  Il denaro è entrato nella dinamica padre-figlio, situazioni in cui i figli si comportano da vere sanguisughe, da aguzzini, da ricattatori che fanno leva sulla generosità dell’amore, su quella voglia dei padri che i figli siano sereni e certo non sprechino la vita magari arrischiando il carcere. [...].

  Proprio alla maniera di padre Goriot, che tutto giustifica sulla forza dell’amore paterno, mentre dall’altra parte le figlie fondano la loro estorsione fredda sulla consapevolezza della debolezza dell’amore.

  Vedono il padre – appunto – come un salvadanaio da rompere per impossessarsi di poco denaro, che serve ad andare alle feste e per mantenere il tono elevato che l’aristocrazia impone per non uscire dal giro dell’effimero.

  Dentro il silenzio di madri e padri si cela talora il dolore per una violenza quotidiana che pretende denari, e si arriva persino a rubare per il proprio figlio, per scongiurare che egli possa essere punito. Meglio che a soffrire sia la madre o il padre.

  Mi pare che vada meditato, e a lungo, il discorso che papà Goriot fa poco prima di morire, solo, quando si attribuisce la colpa di aver viziato le figlie, di aver perduto persino la propria dignità per loro e per il loro superfluo, per aver proiettato la ricchezza che lui non aveva avuto e che diventa un sogno da far sperimentare e vivere alle figlie. Sembra insegnare che la dignità di padre non può essere mercanteggiata mai, e mai tradotta in alcuna somma di denaro.

  L’autorevolezza del padre non può arrivare a disfarsi dei propri principi per i figli, non può pervenire a una rinuncia di sé per l’effimero, non può giungere ad una collusione con stili di vita inaccettabili.

  La copertura dei figli fino all’illecito annienta la paternità, e immette in una condizione che impedisce di essere padri. Distrugge una relazione che a quel punto non potrebbe più dare nulla.

  Non si salva un rapporto d’amore con il denaro, una modalità falsa per credere che i sentimenti persistano, mentre sono già sepolti sotto le banconote.

  Oltre a simbolo di successo, il denaro tende a diventare anche il regolamento dei rapporti tra padri e figli e surrogato dei legami sentimentali, un legame materiale che tenta di sostituire quello d'’more.

  Bisogna che i padri siano attenti a non proiettare la propria giovinezza mancata dentro quella dei figli, perché inevitabilmente si toglierebbe ai figli la possibilità di una loro specifica scelta su come spendere la vita, e poi perché si sarebbe portati ad attribuire loro i bisogni dei padri.

  Il padre deve rimanere padre sempre e non confondere mai la propria esistenza con quella dei figli, deve conoscerla certo per favorire una crescita dentro un clima d’amore, non di ricatto.

  Sforzo non facile forse in certe circostanze, ma nemmeno impossibile.

 

 

  Mario Baudino, Balzac, entomologo della Restaurazione, «La Stampa», Torino, N. 177, 28 giugno 2004, p. 28; 1 ill.

 

  Amori, fallimenti e scalate sociali nella Parigi del 1819.

 

  Guarda caso, è il primo libro di cui si dia un resoconto essenziale nell’ultimo romanzo di Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista è un libraio antiquario che ha perso la memoria e tenta di ricostruirsela. Appena tornato a casa lo estrae dallo scaffale, ne fa scorrere rapidamente le pagine come un mazzo di carte, e poi pesca nel ricordo una fulminea recensione: «Papà Goriot si sacrificava per le figlie, una si chiamava Delfina, mi pare, entrano in scena Vautrin alias Collin e l’ambizioso Rastignac, Parigi a noi due». Il romanzo di Honoré de Balzac in poche righe. «Leggevo molto?» chiede ancora il signor Yambo alla moglie, dopo questa sintetica presentazione, riferendosi alla sua vita prima dell’infortunio, quella di cui non sa più quasi nulla. E la donna non può che rispondergli, al presente e non all’imperfetto: sì, «sei un lettore instancabile».

  La storia di Papà Goriot, tuttavia, è assai consigliabile anche per i lettori più pigri, perché innanzi tutto non si tratta di un romanzo fiume (rispetto alla media balzacchiana, le dimensioni sono contenute) e poi, come ormai è opinione diffusa e assodata, quasi un luogo comune, dentro c’è tutto Balzac. Ci sono i primi passi della monumentale, affascinante, labirintica Commedia umana, ci sono i caratteri essenziali e già sontuosamente delineati, ci sono figure memorabili ed eterne come quella del padre generosissimo e infelice, che si svena per le figlie, o dell’ambizioso giovane provinciale che farà una strepitosa carriera, il prototipo dell’arrampicatore sociale elegante e senza scrupoli, insomma Eugène de Rastignac. Infine, come non può non ricordare lo smemorato Yambo del romanzo di Eco, c’è una delle «frasi celebri» più note al mondo, ovvero «Parigi a noi due», che nell’originale non è esattamente così, ma la differenza è poca.

  Rastignac, dopo il misero funerale di papà Goriot al Père Lachaise, rimane per un attimo a guardare sotto di sé la grande città sulle rive della Senna, dove cominciano ad accendersi le prime luci. Fissa gli occhi sui quartieri del «bel mondo», poi finalmente esclama: «A noi due, adesso!». C’è una leggera ambiguità: si rivolge all’intera Parigi o alla zona che sta tra la place Vendôme e Les Invalides, insomma all’alta società che vuole penetrare e far sua? Valgono entrambe le risposte. Rastignac ha capito tutto della vita e del mondo, è pronto alla sfida. Pronunciate infatti le sue «grandiose parole», se ne va a cena da madame de Nuncigen, la Delfina di Eco [...], ovvero la sua amante in carica, che è poi delle due figlie di Goriot, la più bella forse, sposata a un grande finanziere, mentre il marito di Anastasie è un gran nome dell’aristocrazia.

  Per loro il padre, che si era arricchito con vari commerci all’epoca di Napoleone, si è letteralmente svenato, pagando lussi e amanti con tutti i suoi prima cospicui e poi sempre più magri risparmi. Come un Geppetto sfortunato, che non ha avuto la gioia di vedere il suo Pinocchio tornare a lui rinsavito e soccorrevole, è sprofondato nei bassifondi della società ed è morto senza il conforto delle figliole, in una miserabile pensione. Persino il suo funerale da quattro soldi è stato pagato da «due studenti», Rastignac e un amico. Il feretro non è stato seguito da figlie in lacrime, come si vorrebbe in questi casi, e dai generi pentiti, ma solo da due carrozze – vuote – con le loro insegne. Rastignac ha dovuto farsi imprestare pochi spiccioli per dare la mancia al becchino.

  Parigi a noi due, allora. Davanti a un mondo che funziona così, gli scrupoli non servono a nulla. Bisogna essere spietati e badare solo al proprio interesse. Grazie al povero vecchio (e a Vautrin, naturalmente, che è un malfattore ricercato) il giovane ambizioso ha completato la sua istruzione, fino al punto di diventare l’amante delle figlie di Goriot e scegliere infine quella che avendo spostato un finanziere può aprirgli le porte del ceto che sta per diventare il più potente in assoluto nella Parigi della restaurazione (la vicenda narrata nel romanzo inizia nel 1819). In questo libro Balzac è di una cattiveria senza limiti. Infierisce sui suoi personaggi, schiaccia i deboli senza pietà e persino con sadismo, mette a nudo quelli che secondo lui sono i puri meccanismi della convivenza sociale, improntati all’avidità e all’inganno, non ha nessun dubbio su come vadano le cose a questo mondo, trapassa le anime con lo sguardo freddo di uno scienziato sociale.

  Naturalmente, è tutto un sogno. Lui che sapeva tutto, che aveva capito ogni cosa, e che in qualche modo pensava di sfruttare queste «regole» a proprio vantaggio, se ne dimostrò per tutta la vita incapace. Lavorò come un ossesso, spese sempre più di quanto guadagnava, si trovò sovente in bolletta, morì letteralmente di fatica, sfiancato dal suo immenso lavoro, insomma non riuscì mai a seguire l’esempio del suo Rastignac. Un po’ come papà Goriot, che si era svenato per le figlie in cambio di qualche carezza e di moltissima ipocrisia, dedicò ogni energia ai suoi personaggi in cambio dell’esaltazione momentanea e altalenante che assale lo scrittore geniale quando capisce d'aver scritto un capolavoro. Goriot è l’esempio di una fedeltà canina, anzi secondo le parole dello scrittore «si eleva al sublime della natura canina». Rastignac (che è un po’ il figlio naturalmente ingrato dello scrittore) ha capito che dovrà servirsi di Delfina proprio come Delfina si è servita di suo padre.

  Questo scrittore straordinario, dotato d'ima energia indomabile, che ha lasciato un’opera monumentale e perfetta, sembra voler chiudere ogni porta alla speranza di uscire dalla giungla. Ma poi, leggendolo, dato che Balzac è un mondo, si scopre che i percorsi sono molto più complicati. Non è riuscito a tenere attaccate alla cintura tutte le chiavi. Il suo genio, che travolge noi lettori ad ogni pagina, ha meravigliosamente travolto anche lui.

 

 

  Lanfranco Binni, Crimini privati, morti quotidiane, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. La cugina Bette ... cit., pp. 139-143.

 

  La cugina Bette e Il cugino Pons, con i quali si conclude la monumentale impresa romanzesca della Comédie humaine, sono una proiezione spietata delle ossessioni e della visionaria lucidità dell’ultimo Balzac. Il gigante, l’eroe, il demiurgo, il creatore onnipotente di un universo in continua espansione, indossa l’abito patetico di un vecchio musicista nato per essere imbrogliato e depredato, il cugino Pons, e le vesti ridicole di una zitella inacidita, la cugina Bette, che vive in odio al mondo divorata dall’invidia. I due hanno in comune una penosa condizione di “parenti poveri”, vittime entrambi, presunte o reali, di parenti ricchi e di un’intera società fondata sul valore unico del denaro e del possesso di cose. I due romanzi nascono e muoiono nello stesso periodo, e la loro composizione è pressoché simultanea. Il loro messaggio è analogo, disperato e brutale. Non è un messaggio semplice e agisce contemporaneamente su piani diversi di rappresentazione e di scrittura. La loro lettura può essere veloce e di superficie, ma conviene lasciarsi guidare da Balzac su percorsi altrimenti profondi e convincenti, destinati a perdersi lontani in abissi profondi.

  L’inizio dell’estate del 1846 è per Balzac un periodo fortunato, di grandi aspettative e di energia dopo anni di insuccessi e delusioni. E la sua vita privata a impegnarlo totalmente sul terreno della speranza. Il sogno che persegue con tenacia fin dal 1832, sposare la contessa polacca Eveline Hanska, vedova dal 1841, sta per realizzarsi. Con la sua amata contessa ha viaggiato per tutta l’Europa nel corso del 1845 e nei primi mesi del 1846. Ma soprattutto Madame Hanska è incinta, e Balzac già si vede padre felice di un maschietto di nome Victor-Honoré. C’è bisogno di un’abitazione prestigiosa, lussuosamente arredata, e di un patrimonio consistente. Dopo anni di insuccessi editoriali, Balzac fu appello a tutta la sua forza creativa con il preciso obiettivo di riconquistare il favore del pubblico parigino. Il momento è propizio perché gli autori alla moda, Eugène Sue e Alexandre Dumas, che per anni hanno sfruttato il genere del romanzo d’appendice, il roman-feuilleton che coinvolge i lettori, di puntata in puntata, in percorsi avventurosi e avvincenti (si pensi allo straordinario successo editoriale dei Misteri di Parigi di Sue e del Conte di Montecristo di Dumas), cominciano a incontrare difficoltà. Il genere, di rapido consumo, esige di essere rinnovato; il pubblico pretende novità. Balzac e sicuro di poter cogliere l’occasione proponendo – sui ritmi e i tempi del roman-feuilleton – due novelle di argomento contemporaneo, ambientate nella Parigi della più immediata attualità. Al pubblico che chiede novità, Balzac intende proporre la formula vincente di opere di sperimentato successo come Eugénie Grandet e Papà Goriot; la realtà sociale svelata nelle sue dinamiche più quotidiane, a partire da dettagli scavati in tutte le loro implicazioni, insomma quel processo visionario di sprofondamento dal dettaglio al tutto, dal concreto al cosmico, che costituisce la cifra inconfondibile e straordinariamente coinvolgente della poetica balzachiana.

  Il momento è davvero propizio: l’ultimo roman-feuilleton di Eugène Sue, Il trovatello, non ha incontrato il favore del pubblico, che al contrario di lì a poco, nel mese di luglio, apprezzerà l’ultima parte di Splendori e miserie delle cortigiane pubblicata a puntate da Balzac sul «Constitutionnel». E in ragione di questo successo inatteso sarà lo stesso direttore del giornale a chiedere a Balzac di trasformare le due novelle già concordate in romans-feuilletons di grandi dimensioni, capaci di mantenere l’attenzione del pubblico più a lungo possibile. Il 15 giugno Balzac scrive a Madame Hanska: «Il Cugino Pons è il “parente povero” di buon cuore, sempre umiliato. La Cugina Bette è la “parente povera”, sempre umiliata, che vive nell’intimità di due o tre famiglie e si vendica di tutti i suoi patimenti». Dunque due storie parallele che hanno per protagonisti due “parenti poveri”, “sempre umiliati” in ragione della loro condizione, presumibilmente umiliati da parenti ricchi; uno dei due, la cugina Bette, si vendicherà. Per alcuni giorni Balzac fantastica liberamente sui due personaggi, e ne parla nelle lettere a Madame Hanska: il 20 giugno («Ho tutto da inventare per La cugina Bette», il 28 giugno («Sto per applicarmi alla Cugina Bette, terribile romanzo poiché il carattere della protagonista è un miscuglio di mia madre, della signora Valmore e di zia Rosalie. Sarà la storia di non poche famiglie»).

  È tipico della poetica e del metodo di lavoro di Balzac farsi attraversare personalmente dalle dinamiche della creazione letteraria, mettersi in gioco totalmente, coinvolgersi nelle passioni più estreme dei suoi attori. La cugina Bette sarà un romanzo “terribile” anche perché nel carattere della protagonista confluiranno l’odio di Balzac per la madre, un «mostro» (così l’ha definita in una lettera dell’ottobre 1842 a Madame Hanska) che gli ha rovinato l’esistenza, e il vivo risentimento contro la zia deli amata contessa, Rosalie, che non perde occasione per manifestare il suo altezzoso disprezzo nei confronti del borghese Balzac, un volgare parvenu. Quanto alla poetessa Marceline Desbordes-Vulmore, alla quale Balzac ha dedicato nel 1845 il racconto filosofico Gesù Cristo in Fiandra, il suo modello non può certo avere connotazioni negative: come Lisbeth Fischer, la cugina Bette, la Valmore ha avuto una giovinezza di miseria e di lavori servili, umilianti.

  Fino alla metà di agosto Balzac lavora a una prima stesura del Cugino Pons. Il 18 giugno ha scritto a Madame Hanska: «Ho appena terminato Le parasite, poiché questo è il titolo definitivo di ciò che si è chiamato Le bonhomme Pons, Le vieux musicien ecc. È, almeno per me, uno di quei capolavori di straordinaria semplicità che racchiudono l’intero cuore umano. È anche più grande e luminoso del Curato di Tours; è altrettanto desolante. Ne sono entusiasta». L ’8 luglio annuncia all’amata che «Le Constitutionnel» sta preparando il testo (il cui titolo è cambiato ancora una volta; ora è Les deux musiciens) per la stampa; nei giorni seguenti comincia a correggerne le bozze, mentre inizia a scrivere La cugina Bette. Corregge, taglia, aggiunge, riscrive ... In realtà il romanzo che sarà Il cugino Pons è tutt’altro che finito, e Balzac è sempre più scontento. Il 10 agosto comunica la sua profonda insoddisfazione a Madame Hanska: «Non mi piace; manca d’intelligenza, non riesce a suscitare interesse. E si tratta di pubblicarlo sul “Constitutionnel”, che tira venticinquemila copie, e dopo E. Sue». È soprattutto l’idea di competere con Eugène Sue a preoccupare Balzac, che il 16 giugno ha scritto alla sua contessa, proprio a proposito di autori di grande successo come l’autore dei Misteri di Parigi: «Il momento esige che io faccia due o tre opere capitali che abbattano i falsi dèi di questa letteratura bastarda, e che provino che io sono più giovane, più fresco e più grande che mai». Verso la metà di agosto, un improvviso bisogno di soldi lo convince a chiudere comunque Il cugino Pons; consegna il testo alla tipografia, poi ci ripensa, se lo riprende e lo trattiene. Intanto comincia a consegnare, giorno dopo giorno, questa volta senza mai rivedere le bozze, un nuovo manoscritto, quello della Cugina Bette, che apparirà sul «Constitutionnel» tra l’8 ottobre e il 3 dicembre in quarantuno puntate. Balzac scrive con foga, senza un piano prestabilito; segue i fili della ragnatela che il roman-feuilleton va tessendo, di puntata in puntata, intorno alla personificazione quasi allegorica di una passione sociale assai diffusa: l’invidia che si trasforma in odio distruttivo. È la riproposta in chiave contemporanea del mito di Caino e Abele, un archetipo iscritto nei paesaggi più profondi dell’ego: Lisbeth Fischer, brutta, povera e sfortunata, avvelenata fin dall’infanzia dall’invidia per la cugina Adeline, bella, benestante e fortunata, può realizzare la propria identità soltanto distruggendo, con odio freddo e tenace, la causa e l'oggetto del proprio antico rancore. Tutta la sua energia sarà concentrata su un unico obiettivo: provocare la rovina della bella e buona Adeline, distruggerla con ogni mezzo. Stratega del male, si vendicherà così delle umiliazioni che è convinta di aver subito e di continuare a dover subire. In realtà Lisbeth, con le connotazioni sgradevoli del suo cattivo carattere, non è affatto un personaggio negativo; rappresenta anzi un modello avvincente per i lettori che la seguono sul «Constitutionnel». “Angelo della famiglia”, candido e perfido, rappresenta sentimenti diffusi nella piccola borghesia parigina — grande consumatrice di romans-feuilletons – nei confronti dei suoi “parenti ricchi”, alla vigilia della “rivoluzione” del 1848; i suoi comportamenti, i suoi pensieri, la sua vita quotidiana hanno un impatto immediato nella sensibilità di chi legge, lo guidano alla scoperta del proprio mondo, della propria realtà sociale. Altro che i moschettieri di Dumas! L’avventura è nel quotidiano, nelle strade e nelle case private di Parigi.

  Bette, infatti, non è una maschera isolata. Intorno a lei si agita tutto un mondo: la Parigi moderna, la città d’oro e di fango, il tempio del denaro facile e delle cadute rovinose. Le comparse sono tante, le loro apparizioni più o meno rapide, ma tutte ugualmente destinate alla mortale condizione di fugaci fotogrammi. La Parigi moderna, crocevia di mille storie, successione vorticosa di strade e di interni ingombri di oggetti preziosi e paccottiglia, è il terreno di gioco dell’unica partita veramente sociale, che accomuna tutti: ricchi e poveri, bottegai arricchiti e aristocratici sdruciti, voraci arrampicatori e idealisti ingenui. Sullo scenario di questa unica realtà, ritmata dai passaggi di proprietà e dagli scambi monetari, fino alla vendita dei corpi e delle coscienze, alla prostituzione e al piacere di servire, si muovono lentamente gli sguardi di ragno della vendicativa cugina Bette. Decisa ad affermare la propria autonomia attraverso una battaglia silenziosa e clandestina, agisce il prossimo con grande senso della tattica per conseguire il suo obiettivo. E ci riesce, senza che la sua perfida e tenace volontà venga mai scoperta. Fino alla fine, fin sul letto di morte, sarà considerata un candido, vergineo, angelo della famiglia. Avrà dunque vissuto fino in fondo, totalmente, la sua privata passione di gelosia. Intorno a lei, disastri e infelicità. A partire dalla patetica storia del barone Hulot, prigioniero della sua passione monomaniacale per le donne. Anche lui perseguirà fino alla morte le sue incontenibili pulsioni erotiche, vittima volontaria di amanti spregiudicate e donnette senza scrupoli. Accanto a lui, la moglie, la patetica Adeline, perseguirà a sua volta fino alla morte il proprio ruolo di vittima della propria incontenibile bontà.

  Quali messaggi comunica dunque Balzac al suo pubblico nel 1846, alla vigilia delle giornate rivoluzionarie del 1848? Perché il romanzo incontra un successo così grande presso il pubblico piccolo-borghese dei lettori di romans-feuilletons? Il risentimento e l’ostilità nei confronti della grande borghesia dei banchieri e degli industriali, l’invidia per gli arricchiti e il bisogno di rivalsa sono sentimenti sociali assai diffusi. La catastrofe è nell’aria. Ci si sente alla vigilia di grandi cambiamenti, di rese di conti. Balzac, il visionario, percepisce questo clima, sente gli umori del suo pubblico e vuole esserne interprete. Senza nessun intento rivoluzionario, sia chiaro. Balzac scava nell’esistente, e la sua posizione politica non è certo a favore di quella rottura rivoluzionaria di cui si scriverà — due anni dopo, nel 1848 — nel Manifesto dei Comunisti di Marx ed Engels. Ma Balzac scava talmente a fondo e senza autocensure nell’esistente, da compiere un’opera di cruda analisi che mette a nudo la natura terribile e spietata della società borghese. L’onnipotenza del denaro, i rapporti sociali determinati dal duro interesse economico, l’egoismo dei ricchi e dei poveri, tutto questo è rappresentato senza reticenze. E Balzac va oltre la realtà visibile, e affonda la sua indagine nelle regioni profonde della condizione umana: nelle pulsioni sessuali, negli atavici istinti di sopraffazione, nelle ambigue dinamiche di complicità tra vittime e carnefici. Lo fa senza giudizio. Bette non è “cattiva”, anzi è considerata da tutti un “angelo della famiglia". E Hulot non è soltanto un perverso erotomane. Così come sua moglie Adeline non è erto assolta dalla sua sottomissione a oltranza.

  Il fatto è che la vita quotidiana, per Balzac, si inabissa in ogni momento in regioni profonde che lo scrittore sa percepire e restituire attraverso la sua scrittura energetica e materialistica. Una sorta di viaggio al termine dell’essenzialità, attraverso il logoramento del quotidiano e di tutto ciò che appare in superficie. Così Bette porterà nella tomba il segreto della sua anima. E La cugina Bette lascerà ai lettori l’impressione di una corsa velocissima attraverso un labirinto di vicende umane, ognuna proseguibile a volontà, e nella memoria i fotogrammi del viaggio sembreranno immersi in un solo silenzio di morte.

  La vita non è altrove per Balzac. Ci vorrà, venti anni dopo, un giovane veggente come Rimbaud per intuire consistenti vie di fuga dal grigiore dell’inferno sociale. Allora inizierà il tempo delle speranze e delle bandiere al vento. Per Balzac, alla fine del proprio drammatico e tormentato percorso, non è certo tempo di speranza. La realtà che descrive è senza vie d’uscita, e la disperazione ha radici profonde nella condizione umana. Dopo La cugina Bette, Il cugino Pons lascerà un messaggio, testamentario, ancora più nero: per le vittime non c’è scampo, meglio morire che vivere da prede in quest’inferno.

 

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, in Honoré de Balzac, La ragazza dagli occhi d’oro ... cit., pp. VII-LV.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Veronica Bonanni, «L’antiquaire des littératures détruites». Balzac lecteur de Bandello, in Collectif, «Une liberté orageuse». Balzac, Stendhal: Moyen Age, Renaissance, Réforme. Textes réunis par Michel Arrous, Florence Boussard et Nicolas Boussard, Paris, Eurédit, 2004, pp. 81-97.

 

  L’A. illustra le influenze della produzione novellistica di Bandello sulla poetica romanzesca di Balzac e individua nel «système dédicatoire du nouvelliste» il modello a cui il romanziere francese si è ispirato «pour construire celui de la Comédie humaine» (p. 86) e fornire in tal modo alla propria opera la sua coerenza interna e la sua leggibilità.

 

 

  Veronica Bonanni, Quelques lectures de Balzac, «L’Année balzacienne», troisième série, n° 4, 2003, Paris, Presses Universitaires de France, 2004, pp. 333-341.

 

  L’A. si sofferma sulle letture giovanili di Balzac alla luce di un inedito catalogo dove figura anche l’indicazione del Decameron di Boccaccio.

 

 

  Monica Bonetto, Si recita la Comédie, «La Stampa. Torino sette», Torino, N. 810, 19 novembre 2004, p. 13.

 

  Il progetto, nato da un’idea del direttore Walter Le Moli che proponeva una riflessione sulla grande opera balzachiana, si è presto orientato verso Les Etudes Philosophiques e in particolare verso i «contes artistes», le storie che narrano del destino degli artisti. Scegliere poi il racconto «La pelle di zigrino», testo che rese molta notorietà a Balzac, è stato per il regista francese e direttore del Teatro Nazionale di Bordeaux quasi immediato: «Ho pensato subito a “La peau de chagrin” – ha affermato in un’intervista – perché è al tempo stesso un racconto realistico e fantastico e si concentra su come sia possibile vivere i propri desideri in quanto realtà». Si narra infatti la vita e la morte di Raphaël de Valentin, giovane scrittore senza successo cui un giorno viene offerto un talismano, una pelle d’asino che ha una straordinaria proprietà: realizza i desideri di chi la possiede riducendogli in cambio l’esistenza. Una fortuna che diventa subito schiavitù angosciante, priva di sbocchi che non siano la morte del protagonista. A questo racconto, che nella traduzione di Luca Fontana si intitola «Il talismano», è stato affiancato nell’allestimento un altro «contes-artistes», «Il capolavoro ignoto», che ha «per sfondo l’universo della pittura e per soggetto la tentazione al mistero», spiega il regista. In entrambe le storie l’affresco di Balzac sul mondo dell’arte è, a detta di Pitoiset, ancora molto attuale: «Si tratta delle stesse problematiche degli artisti di oggi. Non esiste solo lo stato dell’artista nella propria ricerca di sublimazione, ma anche il denaro. Balzac parla di capitalismo, di liberalismo perché vive in un mondo in cui l'unica legge che conta è quella del denaro». In esso «la gioventù non ha altro futuro se non il successo sociale, niente ha più senso, e noi uomini del XXI secolo possiamo, in questo, trovare ima corrispondenza con le problematiche odierne». Motivo che concorre a giustificare la scelta iperrealistica dell'allestimento, priva dello sfondo storico originale e plasmata invece sul nostro presente. [...]. Ed è ancora da un racconto di Balzac che è stato tratto anche il secondo spettacolo in scena alla Cavallerizza Reale (nella Manica corta) nei prossimi giorni. Ci riferiamo a «La Grande Bretèche», programmato dal 23 al 27 novembre alle 15,30 (il 27 anche alle 20,45), prodotto e realizzato dal Gran Teatrino «La Fede delle Femmine» delle marionettiste veneziane Margherita Beato, Margot Galante Garrone e Paola Pilla. Un racconto semisconosciuto livido e crudele, reso in forma multimediale con marionette, attori e la proiezione di un video a far da sfondo e commento all’azione sulla scena.

 

 

  Gabriella Bosco, L’89 è un romanzo di vecchi, «La Stampa ttL tuttoLibri», Torino, N. 1400, 21 febbraio 2004, p. 5.

 

  A romanzi ben più grossi per peso e paternità, come i Mémoires de Sanson, autobiografia fittizia del boia della Rivoluzione, quel Sanson esecutore di Luigi XVI, rampollo “obiettore” della celebre schiatta dei Sanson, boia dal Seicento, che se pur ha continuato a svolgere il suo compito è fermo nemico della pena di morte. A scrivere le sue memorie, per incarico dell’editore Mame nel 1829-30, furono un giovane scrittore all’epoca emergente, Honoré de Balzac, e il suo socio in “negritudine”, L’Héritier de L’Ain (il romanzo Memorie di Sanson esce proprio ora – attribuito al solo Balzac – curato e tradotto, per la prima volta in italiano, da Paola Dècina Lombardi).

 

 

  Annie Brudo, Le Langage en représentation. Essai sur le théâtre de Balzac, Fasano-Paris, Schena-Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 2004 («Biblioteca della ricerca. Cultura straniera», 135), pp. 282.

 

  Questo volume di Annie Brudo è interamente dedicato allo studio attento della ricca produzione teatrale di Balzac; in esso, sono considerati e analizzati con precisione e con un costante e puntuale riferimento ai testi, la natura, i meccanismi, i procedimenti, le tecniche verbali e non verbali inerenti al teatro balzachiano (tragedie, commedie, melodrammi) e alla sua particolare specificità. Il corpus dei testi studiati dall’autore comprende soltanto l'insieme delle cosiddette “oeuvres achevées” (da Le Nègre del 1822 a Le Faiseur del 1848) con l’esclusione di Cromwell.

  L’opera di A. Brudo si articola in due momenti fondamentali: nella prima sezione, «L’Univers de la représentation», l’autore indaga sulla complessa eruzione di situazione teatrale c, più particolarmente, sulle differenti accezioni a cui questa nozione può riferirsi e applicarsi. Anzitutto, la situazione espositiva iniziale (prologo e primo atto) dove le informazioni «utiles à l’établissement de la situation sont généralement claires et exhaustives» e assumono la finizione di «véritables indices» (p. 31). La situazione drammatica, ossia gli elementi che formano l’intreccio favoriscono la progressione dell’azione e alimentano la tensione drammatica dell’opera: generalmente, scrive A. Brudo, si tratta di un’azione «riche en péripéties et en coups de théâtre, aux antipodes de la rigueur et de la simplicité de la tragédie classique» (p. 40), che, però, in molti casi, si rivela eccessivamente ridondante «par excès de données de matière» (p. 54). Di particolare interesse, è l’esame della “situation d’énonciation”, vale a dire del contesto di comunicazione (spazio e tempo) entro cui agiscono i personaggi. Le figure (soprattutto maschili) del teatro balzachiano, il cui fascino e le cui azioni spesso eclatanti si inscrivono in una dimensione di «action excessive» (p. 63), presentano non poche affinità con i loro omologhi romanzeschi. Per quel che riguarda la funzione del tempo nel teatro di Balzac, A. Brudo osserva giustamente che lo scrittore, «peu sensibile à la révolution opérée par le drame romantique», resta quasi sempre fedele alle regole dell’unità di tempo: egli infatti «recourt peu au drame historique préférant de beaucoup illustrer les moeurs de la société contemporaine» (p. 91). Quanto all’impiego diffuso del tempo diegetico, L’A. ritiene che esso rappresenti «l’indice du lien qui le rattache aux procédés de l’écriture narrative», anche se si rivela, a suo giudizio, come uno dei «points faibles de la production théâtrale» (ibid.) balzachiana. Visto in stretta correlazione con il tempo, lo spazio (mimetico) dà corpo, nel teatro di Balzac, all’azione confermando ancora una volta quel «sens inné de la théâtralité» che è proprio dello scrittore.

  Balzac, puntualizza A. Brudo, «a le sens du spectacle, de la scène à effet» e «la précision avec laquelle sont indiqués les gestes et les attitudes des personnages en sont une preuve ultérieure» (p. 116). Non meno significativa è la “situation finale” sempre rigorosamente inscritta da Balzac nell’azione e dove lo scrittore mostra le sue qualità di autore drammatico nel mantenere vivi l’interesse e la curiosità del lettore spettatore.

  Nella seconda parte del volume, «La Représentation du langage», A. Brudo considera più da vicino gli elementi costitutivi della rappresentazione teatrale di Balzac con un riferimento particolare ai procedimenti stilistici propri del discorso drammatico balzachiano. Lo scrittore cura particolarmente la qualità e l’efficacia degli scambi dialogici: la sua abilità dialettica lo conduce «sans effort à trouver le juste équilibre entre la variété des tons et l’unité de style» (p. 180), L’azione trova quindi la sua più efficace esplicitazione di senso nella parola e la sua realizzazione più compiuta nel dialogo in un costante equilibrio, volutamente ricercato da Balzac, tra tradizione e modernità. Da questo punto di vista, l’impiego frequente e disinvolto di procedimenti tradizionali quali i monologhi, le “tirades” e gli “apartés” trovano a volte «une utilisation originale, indice d’un renouvellement de la matière dramatique», soprattutto quando sono «les personnages secondaires qui les exploitent» (p. 270). A questo si aggiunga che l’abbondante utilizzo di varie tipologie didascaliche rappresenta una ulteriore conferma della dedizione con cui Balzac redigeva le sue “pièces” in vista della loro rappresentazione. Nel ribadire la positività e il rilievo dell’esperienza teatrale balzachiana, A. Brudo riflette, in conclusione, sui rapporti che legarono il Théâtre di Balzac alla sua produzione romanzesca: «dans le théâtre – sottolinea l’autore – Balzac ne voyait pas d’ailleurs une simple transpositton de ses romans mais bien plutôt l’exploitation d’autres thèmes qui lui tenaient à coeur et qu’une représentation scénique aurait pu rendre plus efficaces» (p. 271).

 

 

  Antonia S. Byatt, Ritratti in letteratura, traduzione di Anna Nadotti e Fausto Galuzzi, Milano, Archinto, 2004, pp. 99.

 

  Le relazioni, spesso ambigue ma sempre feconde e suggestive, tra arte e letteratura sono evocate in questo acuto e piacevole saggio di A. S. Byatt: è, in particolare, il tema del ritratto nelle sue molteplici espressioni e variazioni letterarie ad attirare in modo specifico l’attenzione della scrittrice inglese in considerazione del fatto che il potere evocativo oltre che documentano dei ritratti e il rapporto seduttivo che si instaura tra l’artista e il modello dipinto sono al centro di molti capolavori della letteratura occidentale otto novecentesca. Tra le opere di autori francesi su cui l’A concentra maggiormente la sua attenzione, figurano Le Chef-d’oeuvre inconnu di Balzac, L’Oeuvre di Zola e Du côté de chez Swann di Proust. In un romanzo o in un racconto, «si possono ritrarre cose invisibili»: se i ritratti pittorici sono variamente oggetto della letteratura, nei ritratti letterari, osserva A. S. Byatt, «gli scrittori fanno affidamento sulle in finite immagini visive dei singoli lettori e sul loro co struttivo lavoro di visualizzazione» (p. 6). Da questo punto di vista, Le Chef-d’oeuvre inconnu di Balzac, in quanto «favola sulla raffigurazione» (p. 28) e «mito di creazione e distruzione» (p. 27), rappresenta agli occhi della scrittrice inglese probabilmente «l’opera più celebre che sia stata mai scritta su un ritratto» (p. 21). Una questione importante che, secondo l’autrice, merita di essere posta in evidenza nell’analisi del racconto balzachiano è quella di stabilire se il quadro di Frenhofer sia effettivamente «un ritratto fallimentare, o se invece sono i giovani pittori [Porbus e Poussin] che non sanno come guardarlo» (p. 23). Scrive, a questo proposito, A. S. Byatt: «personalmente, credo che un’attenta lettura suggerisca che il ritratto era un disastro, un passo troppo in là nell’arduo e sensualmente ossessivo processo di costruzione della donna in pittura. Ma subito aggiungo che Balzac capiva, e sapeva tradurre in parole il rapporto tra colpi di pennello, luce e corpi, i problemi tecnici, la differenza tra ciò che è automatico e ciò che è immaginato» (pp. 23-24).

 

 

  Antonia S. Byatt, Balzac. Storia di un racconto meraviglioso, «la Repubblica», Roma, 25 ottobre 2004, p. 33.

 

  È pubblicata la parte dello studio sul Chef-d’oeuvre inconnu di cui abbiamo dato notizia nella scheda precedente.

 

  Il Capolavoro sconosciuto di Balzac è probabilmente l’opera più celebre che sia stata mai scritta su un ritratto, salvo forse Il ritratto di Dorian Gray. E’ una storia che ha attirato l’attenzione di pittori, storici dell’arte e critici letterari, ed è stata variamente interpretata. Racconta le relazioni tra due pittori reali del XVII secolo, Nicolas Poussin e Franz Porbus, e il vecchio maestro Frenhofer, demoniaca creazione di Balzac. Frenhofer ha trascorso gli ultimi dieci anni dipingendo in segreto il ritratto di una donna; ne parla come della sua amante e si considera un Pigmalione, che a poco a poco le dà vita. Pur di essere ammesso a vedere quel capolavoro nascosto, Poussin convince la sua amante vera, Gillette, a posare per il vecchio Frenhofer. Gillette, che è imparentata con innumerevoli mogli, amanti e modelle della letteratura, sente che il suo innamorato preferisce donne dipinte, opere d’arte, al calore degli abbracci, a un corpo amoroso. Frenhofer è assai più geloso dell’intimità e solitudine della sua amante dipinta di quanto Poussin lo sia di Gillette. Ma quando infine Porbus e Poussin vengono ammessi in presenza del ritratto, tutto ciò che riescono a vedere è una caotica confusione di colori e colpi di pennello, in mezzo a cui è riconoscibile un piede dipinto alla perfezione.

  Si è molto discusso se Frenhofer/Balzac sia stato un precursore che anticipa l’Impressionismo e l’arte astratta. E’ risaputo che Balzac studiò gli scritti di Diderot sulla pittura e che rivide il suo testo dopo avere discusso con Théophile Gautier. E’ dunque legittimo domandarsi se quello di Frenhofer sia un ritratto fallimentare, o se invece siano i giovani pittori che non sanno come guardarlo. Personalmente, credo che un’attenta lettura suggerisca che il ritratto era un disastro, un passo troppo in là nell’arduo e sensualmente ossessivo processo di costruzione della donna in pittura. Ma subito aggiungo che Balzac capiva, e sapeva tradurre in parole il rapporto tra colpi di pennello, luce e corpi, i problemi tecnici, la differenza tra ciò che è automatico e ciò che è immaginato.

  Balzac era solito ambientare le scene storiche attraverso ricostruzioni verbali di dipinti del passato. Descrive il primo fuggevole incontro di Poussin e Frenhofer nella luce drammatica di una rampa di scale. Descrive meticolosamente la fronte calva e bombata del vecchio, il piccolo naso schiacciato, gli occhi «verde mare, appannati forse dall’età», ma ravvivati dal «bianco madreperlaceo sul quale galleggiava la pupilla», senza ciglia e con sopracciglia quasi invisibili. Poi si rivolge ai lettori: «L’avreste detta una tela di Rembrandt, che camminava silenziosamente e senza cornice nella buia atmosfera tipica di quel grande pittore». Balzac descrive proprio quei dettagli sui quali indugiamo, davanti a un quadro di Rembrandt, poi rende spettrale l’intera scena facendola vivere, camminava silenziosamente e senza cornice.

  Frenhofer deriva da qualche sinistro e grottesco personaggi di E. T. A. Hoffmann. Le sue azioni con il pennello sono un’aggressione sensuale al corpo dipinto, e lo scrittore a sua volta trasforma la faccia del pittore in un pennello animato dal desiderio, «la sua barba a punta si agitò in modo minaccioso, indizio dell’insorgere d’una fantasia erotica». Frenhofer fa delle critiche puntuali alla Maria Egiziaca di Porbus, individuando dove il lavoro pittorico ha saputo o non ha saputo dar vita al corpo dipinto, e la sua disquisizione, seguita dai febbrili ritocchi ch’egli stesso apporta sulla tela, costituisce un’interessante, enigmatica immagine del ritratto come vita, morte, statua immobile, senza vita.

  «No, amico mio, non scorre il sangue sotto questa pelle d’avorio, e la vita non gonfia con la sua purpurea rugiada le vene e le fibrille che s’intrecciano a reticolo sotto la trasparenza ambrata delle tempie e del petto; questa parte palpita, ma quest’altra è immobile, la vita e la morte lottano in ogni particolare: qui, è una donna; là, una statua; più in là, un cadavere».

  Vita e morte, donna, statua, cadavere. I ritratti in parole muovono continuamente tra questi stati.

  Frenhofer sostiene di aver scoperto una tecnica che riproduce il lavoro della luce sulla materia senza l’artificio di linee e contorni. A Balzac interessa qui la pelle stessa della pittura, il lavoro materiale dell’artista. Lo spesso impasto di Frenhofer, ci dice, ha catturato la luce fermandola sulla superficie. (...)

  È interessante che il titolo originale di questa favola, tuttora occasionalmente utilizzato, fosse il nome dell’amante/modella, Gillette. Quando da questa storia è stato tratto un film, La bella scontrosa, il linguaggio cinematografico ha reso più centrale il ruolo della donna. Ma Il capolavoro sconosciuto è ciò che dice di essere: una favola sulla raffigurazione, sulle sue arcane glorie e sui suoi pericoli.

  Gli storici dell’arte e della letteratura sono cauti nel valutare l’effettiva consapevolezza di Balzac sia rispetto al passato (Tiepolo), sia rispetto al suo essere profeta del futuro dell’arte. Sono cauti anche rispetto all’eventualità che avesse discusso di tecniche pittoriche con Delacroix, cosa possibile, dal momento che nel 1843 Balzac gli dedicò un libro. Quel che è certo è che i pittori reagiscono al Capolavoro sconosciuto con una passione e un entusiasmo che generalmente non riservano agli scritti sulla pittura. Picasso addirittura dipinse Guernica nella casa in Rue des Grands Augustins dove ha inizio la favola di Balzac. Sono studi sul rapporto tra il pittore, o lo scultore, e i loro modelli o modelle, studi molto intensi e originali, con una carica più o meno forte di sensuale realismo e tracce di caos. Sono sempre erotici, e sempre analitici sia nel rapporto tra l’artista e chi posa per lui, sia dello stile, il fine, la tessitura compositiva.

  La più accesa reazione al Capolavoro sconosciuto fu probabilmente quella di Cézanne. Nel resoconto delle sue conversazioni con il pittore, Emile Bernard racconta come egli si fosse totalmente identificato con Frenhofer.

  “Una sera, mentre gli parlavo del Capolavoro sconosciuto e di Frenhofer, si alzò da tavola, rimase in piedi di fronte a me e, battendosi il petto col pollice senza una parola, solo ripetendo quel gesto, indicò se stesso quale personificazione di quel personaggio di romanzo”.

  In seguito, scrivendo di Cézanne, Bernard cita una frase di Balzac e ci fa notare come nell’eroe balzachiano sia riconoscibile il pittore: «Frenhofer est un homme passionné pour notre art qui voit plus haut et plus loin que les autres peintres» (Frenhofer è un uomo appassionato della nostra arte, che vede più in alto e più lontano degli altri pittori).

  Si dice che Cézanne parlasse di Frenhofer come di una persona reale, e in uno dei sondaggi popolari dell’epoca, quando gli venne chiesto a quale personaggio letterario o teatrale si sentisse più vicino, rispose «Frenhoffer» (sic). In effetti alcuni nudi femminili di Cézanne sembrano direttamente imparentati con la belle noiseuse.

  L’autoidentificazione di Cézanne con il pittore di ritratti creato da Balzac è meravigliosamente, e tragicamente, complicata dai suoi rapporti con Emile Zola. Amici d’infanzia, il pittore e il romanziere erano cresciuti ad Aix-en-Provence dove entrambi avevano studiato, e amici restarono per gran parte della loro vita, anche se Zola andò a Parigi ed ebbe successo, prima come giornalista e più tardi come autore dell’ambiziosissimo ciclo di romanzi dei Rougon-Macquart, mentre Cézanne progressivamente si isolò nel Sud. Nel 1886 Zola pubblicò L’opera, quattordicesimo romanzo del ciclo. Il titolo originale è L’Oeuvre. Ci racconta la storia di un giovane pittore, Claude Lantier, un genio febbrile, figlio di Gervaise de l’Assommoir, assorbito in modo ossessivo dalla creazione di una grande opera d’arte, e dal lavoro artistico in sé. Ha un amico, giornalista e scrittore, Sandoz, e sposa una giovane donna, Christine. E’ una passione travolgente, lei gli dà un figlio, lo sposa e infine gli fa da modella. Il rapporto tra pittore e moglie-modella spinge la rivalità tra donna e lavoro d’arte ben oltre il punto cui era arrivato Balzac. Quando la incontra per la prima volta, Claude «ruba» a Christine dormiente un’immagine del viso e del seno per un nudo di donna all’aria aperta cui sta lavorando. In seguito lei acconsente a posare nuda per il quadro, che viene esposto al Salon des Refusés e suscita l’ilarità del pubblico. Qualche anno dopo, quando vivono in miseria in un magazzino, lei posa per un enorme ambiziosissimo quadro di Parigi e dell’Ile de la Cité: una donna gigantesca, una bagnante che, novella Venere, emerge dalla Senna. Zola si dilunga senza rimorsi in una narrazione prolissa. La donna reale è vittima del fanatismo artistico.



  Mara Cambarau, L’immagine dell’ebreo in Balzac: tra esotismo ed antisemitismo. Tesi di laurea. Relatore: prof. Alberto Beretta Anguissola, Viterbo, Università della Tuscia, Facoltà di Lingue e letterature straniere moderne, Anno accademico 2003-2004, pp. 207.

 

 

  Antonio Carioti, Che bella Rivoluzione, sembra un romanzo, «Corriere della Sera», Milano, 12 febbraio 2004, p. 35.

 

  Honoré de Balzac pose in rilievo la permanenza di un lato oscuro del potere, ai margini tra legalità e arbitrio criminoso, anche nelle condizioni della modernità democratica, cui la rivoluzione aveva aperto la strada.

 

 

  Patrizio Collini, Iconolatria e iconoclastia: “Le chef-d’oeuvre inconnu” e il romanticismo tedesco, in Iconolatria e iconoclastia nella letteratura romantica, Pisa, Pacini editore, 2004 («Saggi critici», 46), pp. 163-172.

 

  Il tragico e sublime calvario artistico di Frenhofer nel Chef-d’oeuvre inconnu di Balzac esemplifica l’intensa poetica dell’infinito propria del romanticismo: una poetica che, paradossalmente, si può «costituire solo in assenza dell’oggetto» (p. 163) e che può realizzarsi attraverso una scrittura iconoclasta in cui l’opera può soltanto «divenire senza poter essere» (p. 164). Questa «estrema drammatizzazione del processo creativo» (p. 165) che ritroviamo nella novella d’artista romantica tedesca (come, ad esempio, in Wachenroder, in Tieck e soprattutto in Hoffmann, quest’ultimo ben noto a Balzac) si accompagna al tentativo di sottrarre all’universale mercificazione e prostituzione l’opera d’arte: nella parabola di Frenhofer, si determina il «punto di non ritorno della pittura» (p. 169), l’assoluta astrazione di un’immagine che, in quanto metaforicamente invisibile, finisce per non essere più consumabile. Da questo punto di vista, osserva l’A., nel Chef-d’oeuvre inconnu balzachiano «si riassume, come in una sorta di raptus orgasmico, la parabola stessa dell’arte moderna nei cui epicedî il momento aniconico e iconoclasta si accompagna sempre più a uno sconfinamento della pittura nella sfera della musica» (p. 168), di cui Gambara e Massimilla Doni costituiscono una testimonianza esemplare.

 

 

  Alessandra Comuzzi, La morte nella “Comédie humaine”. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Alan Freer, Università degli studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 2004, pp. 137.

 

 

  Franco Cordero, Il profumiere, gli argentieri, una via lattea, in Nere lune d’Italia. Segnali da un anno difficile, Milano, Garzanti Editore, 2004, pp. 5-13.

 

  In questa pungente, ma sempre lucida, galleria di ritratti di vita politica e economica e sociale dell’Italia negli ultimi decenni, trova spazio, proprio nell’articolo inedito che inaugura la raccolta, il curioso, ironico, a volte grottesco parallelismo tra la figura di César Birotteau e quella di un noto industriale bancarottiere italiano, entrambe ‘vittime e carnefici’ di una filosofia del commercio senza scrupoli e senza alibi. Il personaggio balzachiano, scrive Cordero, «è un piccolo astro dell’avanguardia cosmetica e relativo mercato, con felici lampi intuitivi: [...] ha la testa piccola, vede rosa, è troppo onesto; perciò tenta l’affare propostogli dall’amico notaio, [...] e affoga; nella «Comédie humaine» impersona il santo bottegaio. Poi una madre e i due figli, piccoli argentieri insolventi, muoiono suicidi dal ponte (Roma, ventesimo secolo, anni Novanta). Infine, il re del latte, contegnoso, pio benedicente, allestisce una bancarotta quale non s’era ancora vista, mentre l’Italia vive congiunture balzachiane, definibili in quattro parole: gli affari del potere» (p. 5).

 

  Dall’autunno 1833 Balzac cova la storia d’un profumiere, César Birotteau. Nell’aprile seguente salpa: «opera capitale», scrive alla contessa polacca Ewelina (sic) Rzewuska, ancora consorte del nobile ucraino Wenceslas Hanski, le cui terre misurano 21 mila acri e 3.035 anime (corrispondono: lei firmava «l’Etrangère»; la sposerà 17 anni dopo, quando gli restano solo più 5 mesi; e Madame perde i beni del defunto marito); voleva finire in 10 giorni; racimola solo 30 cartelle, i primi due capitoli; tali restano quando ritenta a settembre, avendo cambiato editore. Stupiscono due false partenze d’un erculeo «fictor» (l’Index des personnages fictifs de La Comédie humaine, ed. Pléiade, riempie 437 pagg. a 64 righe, caratteri da microscopio). Se ne riparla dopo un’impresa giornalistica finita male, La Chronique de Paris, e 17 nuovi titoli editi o quanti siano: sfuggono al conto, tanti ne fabbrica; La Vieille Fille inaugura il genere «feuilleton» sulla Presse, 23 ottobre-4 novembre 1836. Sotto tale veste i lettori aspettano Birotteau. L’annuncia Figaro, diventato Journal-Livre-Revue quotidienne, 15 dicembre 1836; poi cambia formula: gli abbonati ricevono fascicoli settimanali. L’8 luglio 1837 s’accinge al tour de force ma è materia ostinata: gli resiste, sebbene lavori freneticamente, con i piedi a bagno nella mostarda affinché non gli bollano le meningi; dopo 15 giorni sta ancora lì, fermo sui due capitoli e frammenti del terzo; appena nove fogli, tre puntate. Fortunatamente il giornale subisce una seconda eclisse. Aveva due facce la medaglia narrativa: appartiene all’angelica quel profumiere che non vuol nascere; l’infernale salta fuori d’un colpo, ottobre novembre, Maison Nucingen, dapprima intitolata Haute Banque. Risuscitato Birotteau, consegna il manoscritto «goutte à goutte». Eccolo, avverte Edouard Ourliac nell’articolo d' anteprima Malheur et adventures (sic) de C. B. avant sa naissance, e stavolta è vero: esce venerdì 15 dicembre o l’indomani, presso Boulé, rue du Coquéron, 2 tomi, 15 fr.; 2 fogli meno dei 46 richiesti dal contratto. Che fatica ma ne valeva la pena, a parte 20 mila franchi sonanti.

  Il clou riempie sette settimane, tardo novembre 18 sabato 16 gennaio. Sette settimane dalla notte in cui Madame Birotteau, nata Constance Pillerault, svegliandosi verso l’una da un incubo, esplora l’appartamento sopra la bottega, rue Saint-Honoré 397: s’era vista in due figure, seduta alla cassa e mendicante alla porta, una mano rugosa sulla maniglia; l’allunga verso il marito; il letto è freddo e vuoto; il panico la inchioda; erompono pensieri convulsi. Lo stream of consciousness entra nella storia degli artifici narrativi. Vagamente Constance prefigura Molly Bloom, quel caotico monologo finale d’Ulysses, ma non è solo femmina tellurica: ha un côté olimpico; somiglia alla Venere di Milo; quante proposte riceveva, première demoiselle nel Petit Matelot, bazar delle novità a buon mercato; percepisce d’istinto le congiunture pratiche; vuol bene al marito. Lo vede assorto, che prende delle misure. Il dialogo apre una serie d’eventi. Lampi retrospettivi illuminano persone e relativi destini. Aveva 14 anni César quando è venuto a piedi da Tours, sapendo leggere, scrivere, contare. Garçon de magazin (sic) ossia facchino nella profumeria Ragon, 6 fr. mensili, vitto e giaciglio in soffitta. L’anno dopo tiene già la cassa, secondo commesso e salario rispettabile, 50 fr.: li risparmia; specula anche sulla rendita, giudiziosamente. Il padrone, fornitore della Real Casa, gl’inocula passioni monarchiche: è titolo d’onore una lieve ferita nella marcia realista dispersa a cannonate dall’ancora ignoto generale Bonaparte (13 vendemmiaio anno IV = 5 ottobre 1795); impara i segreti della «Reine des Roses». Sui vent’anni la rileva, perché Ragon, immalinconito dal colpo bonapartesco (18 brumaio anno VIII = 9 novembre 1799), vuol vivere en bon bourgeois. Scopre Constance: l’adora da lontano; lei s’è commossa; convolano ad nuptias. Testa piccola, buona vista mercantile, laborioso, galantuomo, assessore nel Tribunal de commerce, infine prosindaco del secondo Arrondissement. A 39 anni fiorisce d’onesta fortuna: nei cosmetici, industria d’avanguardia, è un piccolo astro; la «Double pâte des Sultanes» e l’«Eau carminative» hanno largo mercato; studia un terzo articolo monstre; sa usare la réclame. Torniamo al dialogo notturno con l’ancora bellissima Costanza (bruna, occhi verdi, ecc., e altrettanto bella è la figlia Césarine, adorata dal primo commesso Anselme Popinot, nipote dei Ragon). Progetta cose enormi: appartamento e bottega (in affitto) da rifare; s’è disamorato della vecchia insegna, meglio «Parfumeries» a lettere d’oro; vuol dare un ballo. Sta sognando? Da ieri «je suis chevalier de la Légion d’honneur». Non esistono più barriere: ricchi vinattieri diventano gentiluomini benvisti a corte; dunque, «étendons notre commerce» puntando alle «hautes sociétés». I liberali del quartiere, «mes ennemis», vedranno «qu’aimer le Roi c’est aimer la France». Allibita, predice sciagura: «la politique brûle aujourd’hui»; non è la sua partita. Hanno da parte 100 mila fr.: compri titoli della rendita, come 25 anni fa; stanno bassi, al 72%; o vendendo la «Reine des roses», acquistano i «Trésoriers», piccola tenuta presso Chinon dove sognava d’insediarsi. «Voilà où je t’attendais», le spiega: 100 mila franchi sono una dote esigua, se vogliono maritare Césarine al notaio Alexandre Crottat, futuro titolare dello studio Roguin, presso cui li tiene; ne occorre il doppio, più un capitale su cui loro due, ritirandosi, vivano comodi (15 mila franchi annui, ossia 175 mila all' 8%). «Si tu as le Peru». Lo chiama Birotteau, secondo l’uso borghese, e lui «mia amata gatta» o «cerbiatta bianca». Ecco il Perù, un affare proposto da Roguin, sicuro «comme de l’or en barres»: i terreni della Madeleine presto varranno 4 volte tanto; c’è un lotto in vendita; ne compra metà, trasferendo un ottavo allo zio Pilleraut e al vecchio Ragon, che apportano 100 mila fr.; lui ne mette 300. Dove li piglia? I 100 in mano al notaio: 40 mediante cambiali a un cliente dello stesso, garantite da ipoteca sui terreni della fabbrica; 20 mila contanti; 140 mila li presta un banchiere, Charles Claparon, acquirente della seconda metà, e lui firma cambiali. Non c’è da spaventarsi. Scadenze comode: «qui a terme ne doit rien»; quando servisse denaro, Roguin lo procura al 5%; ma ne affluirà tanto dallo «Huyle Comagène», miracoloso farmaco della capigliatura, estratto dalle nocciole, la cui produzione e vendita affida al bravissimo Anselme Popinot. La domenica seguente stipulano l’accordo. Sabato 19 dicembre casa Birotteau dà un memorabile ballo. Lunedì 28 architetto e impresa presentano il conto. In pochi giorni le fatture toccano i 60 mila fr. Scoppia la folgore: è sparito Roguin, amico notaio nelle cui mani stavano i soldi. César ignora i retroscena: Roguin manteneva la «belle Hollandaise» (Sarah van Gobseck, calamitosa traviata e «femme folle»); è anche succubo del perfido Ferdinand Du Tillet, già primo commesso nella «Reine des Roses», ladro confesso. Costui odia l’ex-padrone: non era riuscito a sedurre Constance; né gli perdona l’avallo spudoratamente chiesto e ottenuto. S’era messo in affari con i proventi d’una missione all’estero, emissario dell’usuraio che nell’agonia dell’Impero comprava crediti verso nobili emigrati: manipola somme depositate dai clienti presso il notaio, nonché un capitale affidatogli da Mme Roguin, consorte del predetto, sua amante; adopera l’homme de paille Claparon, apparente creditore (erano finti i 140 mila fr., mai consegnati al notaio, intermediario della compravendita, ma le cambiali Birotteau sono autentiche e circolano). È lui lo stregone occulto. Seconda parte, «César aux prises avec le malheur»: vive tempeste emotive: rampa sugli specchi; cerca disperatamente credito, affossato da Du Tillet, le cui calorose intercessioni firmate senza la «i» significano «affoghi»; sviluppa fantasie e riti da pio giocatore d’azzardo; ogni mattina sente una messa a San Rocco e se tornando non vede divise militari, è una risposta positiva da Dio al quale ha chiesto aiuto; «ma demande réussira»; no, i banchieri se lo scambiano «comme un volant sur des raquettes»; gli vengono idee suicide (così muore Victor-Ange Grandet, fratello minore del ricchissimo Félix, «avare come le tigre est cruel»); infine, inebetito, s’arrende alla diagnosi dell’avvocato Derville, «Madame, il faut déposer», i libri contabili. Sabato 16 gennaio 1819 la campana suona a morto. Caso anomalo: aveva le vele al vento; tutti sanno quanto sia scrupoloso; non nasconde nemmeno un bottone; consegna persino i mille franchi d’un soccorso dal fratello curato. Du Tillet schiuma livido: mirava al fallimento vergognoso; invece l’«ange du commerce» vi passa immacolato; i creditori sono arcicontenti del 60%. Raccomandato dalla Casa Reale, César trova impiego nella Cassa d' ammortamento, 2.500 fr. annui. Tremila ne riceve Constance, cassiera nella Maison Popinot. Mille scudi guadagna Césarine, ora vendeuse d’una maison de nouveautés nel quartiere degl’Italiani. Nessuno dei tre spende un soldo. Vogliono pagare il residuo 40%, affinché César sia riabilitato. Incredibile ma succede: dopo 3 anni (o 4, le cronologie balzacchiane fluttuano), rinasce grazie allo «Huile comagène», o «céphalique» prodotto e venduto dal futuro genero Anselme Popinot (aveva riscattato dal fallimento la quota dell’ex-padrone ma lo considera ancora partner: famiglia ugonotta; e oltre alla meritata fortuna nella «droguerie», ha un futuro politico sotto la monarchia orléanista; Camera dei Pari, conte, varie volte ministro, raffinato collezionista). Sua Maestà ha mandato 6 mila fr. Uscito dalla Corte con i complimenti del presidente e il nastro rosso all’occhiello, raccoglie l’applauso dei mercanti nella Borsa. Lo tengono sotto braccio Pillerault e Joseph Lebas, figure insigni del vecchio rigore mercantile: ogni tanto lo guardano preoccupati; è talmente fragile dopo la spaventosa peripezia. L’accompagnano nel vecchio appartamento sulla rue Saint-Honoré, dove non osava più passare. L’aspetta una sorpresa, un ballo, stavolta fausto: entrando, sente il tema finale beethoveniano della Quinta o è illusione acustica?; l’aveva udito quel sabato 19 dicembre 1818. È troppo: «je ne suis pas bien», bisbiglia all’atterrita Constance, nella cui camera arriva stremato; cade seduto chiamando «Monsieur Haudry», medico, «Monsieur Loraux», confessore; e muore d’aneurisma; sulla porta convitati e signore vestite da ballo. «Voilà la mort du juste», esclama l’abate indicando la spoglia inanimata come nel Rembrandt dove Gesù evoca Lazzaro. Nel dialogo notturno l’avevamo visto al culmine della parabola. «Tiens, ce gens-là veulent ton argent», l’avvertiva Constance. Ma chi, «ma belle?». Roguin è un notaio loro amico, 25 anni d’onorata professione. Povero Birotteau, sconta la colpa d’essere organicamente onesto, con una corta vista intellettuale: proietta sé stesso negli altri, non vede i pericoli, paga senza ricevute; l’affare della Madeleine era buono, purché l’avesse regolato comme il faut, presupponendo le ipotesi peggiori. Mai fidarsi. Quanto poco renda l’essere seri, lo vediamo da Claude-Joseph Pillerault, zio della savia Constance: repubblicano d’estrema sinistra, stoico cristiano, testa matematica, agonista quieto, più forte delle sciagure domestiche (perde moglie, figlio, un figlio adottivo); commerciava ferramenta sotto l’insegna «Cloche d’or», s’è ritirato con 70 mila fr. nel debito pubblico (rendono 5 mila e qualcosa), più 40, dalla vendita della bottega; come Ragon, ne perde 50 nei famosi terreni, l’unica volta che s’è permesso un rischio deviando dall’austera economia; e soccorre i nipoti. Quando tutto vada bene, uomini simili sopravvivono negli angoli bui. È vizio costoso essere homme moral. I vincenti violano estrosamente ogni regola: fallisce varie volte, arricchendosi, il banchiere Frédéric Nucingen (la cui moglie Delphine è figlia ingrata del Père Goriot, distrutto da un folle sentimento della paternità); Du Tillet scuoia persino Roguin, scaltro notaio affarista; Claparon, sguaiato ex-commesso viaggiatore, arraffa soldi reggendo la coda agli alligatori (bravo «gros père», esclama rifiutando la proroga invocata dal povero Birotteau: firma cambiali, dà un ballo, incanta tutti e viene a chiedere il rinnovo della prima; «vous pouvez aller très loin»; gli presti quel buon nome). L’avventura del profumiere, anni 1818-22, anticipa scenari d’anni Trenta e Quaranta sotto Louis-Philippe: denaro che pullula; economia drogata dagli appalti ferroviari; «enrichissez-vous». Saltiamo in Italia, fin de siècle novecentesca. La cronaca nera romana annovera tre cadaveri sotto un viadotto, madre e due figli: il senior, non ancora trentenne, era promotore finanziario e guadagnava bene (5 o 6 milioni al mese); lei e lo junior conducevano un laboratorio d’argentiere. Suicidio. L’avevano già tentato con l’ossido di carbonio. Talvolta l’ambiente domestico incuba spirali psicotiche ma qui niente indica patologie mentali o affettive. Banali difficoltà economiche. L’azienda fioriva, poi s’è indebitata. Il figlio adulto aveva mantenuto i rapporti con un’ex-impiegata (pesava troppo lo stipendio). In articulo mortis le telefona: va tutto bene; esiste la soluzione; l’hanno trovata. Indi saltano dal ponte. Le ipotesi ruotano sull' ovvio. Prima: che abbiano alle calcagna gli usurai, uomini d' anima plumbea come Jean-Esther van Gobseck, nonno o prozio della «belle Hollandaise», ammazzata in un bordello dopo avere ridotto all’osso Roguier; Du Tillier gli manda César, e Claparon, dalla cui alluvione bavosa ogni tanto affiorano battute icastiche, scherza sul titolo professionale; banchiere sui generis, come il boia è medico; «son premier mot est le cinquante pour cent». Seconda ipotesi: che, acqua alla gola, il figlio avesse preso denaro dei clienti, tentando gli en plein speculativi che non riescono mai a chi vi gioca la testa; o entrambi gli sfondi. Calcoliamo anche l’effetto cumulativo: temono gli usurai; sentono vergogna; nessuno li aiuterà; vedono prospettive orribili; sfiniti dai tentativi deluderle, scelgono una morte rapida (illusi, durano eterni i secondi dell’irreversibile volo). Basterebbe che qualcosa rompesse il teorema funesto prospettando dei futuribili: vale la pena tentarli; ridotti alla nuda pelle, cos’hanno da perdere?; niente, né sono bancarottieri fraudolenti; minimi i rischi penali, inclusa l’ipotetica appropriazione indebita; male che vada, il ponte resta lì. Argomenti buoni, purché uno abbia ancora dell’adrenalina. L’avevano spesa tutta. I ponti attirano i disperati. Se ne sceglie uno anche A. B., venerdì 23 gennaio 2004, ore 14, sebbene abbia poco da spartire con i bancarottieri, falsari, agiottatori, ecc. su cui indagano due procure: era un contabile; gl’inquirenti l’avevano sentito senza contestargli atti perseguibili. Episodio marginale d’una via lattea delittuosa. Nella «Chartreuse», Parma è luogo dell’anima. Balzac, lettore entusiasta, dissente sull’identità geografica: «supprimer Parme!», consiglia; «l’esprit ne consent pas à [y] rester»; lasci indefiniti i luoghi, così «tout devient réel» (lettera 5 aprile 1839), 6 giorni glielo ripete nella libreria Boulay. Gli stendhaliani s’indignano. [...].

  Il fallimento, insegna Balzac, «est une opération chimique: «le négociant habile» vi passa ingrassandosi, o almeno lo tenta; Nucingen lo fa tre volte a regola d’arte. Birotteau cade in trappola, vive come un santo l’iniqua peripezia, rende l’anima a Dio la sera del giorno in cui la Corte lo riabilita trionfalmente. [...]. Sono meno ardui i teoremi discussi a tavola, in una saletta riservata chez Véry, famoso ristorante del Palais-Royal, dai quattro «cormorani» conversanti sulla Maison Nucingen: Jean-Jacques Bixiou, Emile Blondet, Andoche Finot, giornalisti amabilmente cannibali, e l’avventuriero Couture, quello dei gilets; alla fine Bixiou enuclea «une vérité» sommersa, che il debitore sia più forte dei creditori. L’aveva detto Montesquieu metaforicamente, ricorda Blondet: è una ragnatela la legge; cattura solo mosche piccole. Esistono rimedi?, domanda Finot. Il regime assoluto, unica difesa dalle incursioni dell’«Esprit» (id est ingegno empio) «contre la Loi». Sotto le nere lune d’Italia volano mosconi più grossi dei draghi, ma stiamo peggio rispetto alla monarchia orléanista: là governa François Guizot, protestante, uomo austero, eminente storiografo; qui tiene allegro banco Monsieur B., sulle cui dubbie maniere 17 anni fa l’evangelista parmense sollevava le sopracciglia; a Balzac mancava la materia prima d’una saga degli affari al potere. Rilievo finale destinato agli hommes pratiques: i guasti d’anima pesano anche nell’economia; e li sconteremo perché le società evolute hanno alti tassi intellettuali; non s’è mai visto che le furberie sostituiscano l’intelligenza.

 

 

  Franco Cordero, La Commedia umana. Se Balzac fosse vissuto nella Parma dei giorni nostri, «la Repubblica», Roma, 15 aprile 2004, pp. 48-49.

 

  Viene istituito un paragone fra César Birotteau, uno dei personaggi che compaiono nella Comédie humaine di Honoré de Balzac, e Calisto Tanzi, l’ex presidente della Parmalat protagonista di un clamoroso scandalo finanziario. Cfr. scheda precedente.

 

 

  Maurizio Cucchi, Affetti, denaro e società, in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., Roma, pp. VII-XV.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, L’anonimato di un grand’uomo, in Honoré de Balzac, L’Anonimo ... cit., pp. V-XVIII.

 

  Cfr. supra.

 

  Nota al testo, pp. XIX-XXXII.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, Sanson, un caso di coscienza, in Honoré de Balzac, Memorie di Sanson ... cit., pp. V-XIX.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, Come sono ingrate le figlie di Père Goriot, «La Stampa-ttL Tuttolibri», Torino, N. 1418, 26 giugno 2004, p. 3; 1 ill.

 

  «Un brav’uomo che si è spogliato di tutto per le figlie e che muore come un cane»: questo, nelle parole di Balzac, è Père Goriot. E «All is true – avverte. Non è né finzione né romanzo, è tutto vero e così vero che ognuno può riconoscere intorno a sé, o addirittura nel proprio cuore, gli elementi di questo dramma». Per quanto centrale, la tragica vicenda dell’operaio che a forza di sudore e parsimonia ha avuto la fortuna di costruirsi un cospicuo patrimonio di cui si priva per dare una posizione alle figlie, non esaurisce tuttavia questo capolavoro che, scritto e pubblicato a caldo sulla Revue de Paris, incontrò un tale successo da triplicare le edizioni in poche settimane quando apparve in volume nella primavera del 1835. Intrecciandosi ad altri destini, il dramma di Goriot si rivela infatti come la variante più clamorosa e sofferta del prezzo dell’ascesa sociale in un mondo dominato dal successo e dal denaro.

  Siamo a Parigi, alla fine del 1819. Nella squallida pensione Vauquer al quartiere latino dove si è ritirato il benestante e benportante pastaio diventato genero di un marchese e di un barone, s’intrecciano vari destini. Mentre Goriot declina miseramente dilapidando il suo capitale per pagare i debiti di gioco dell’amante di Anastasie e i lussi di Delphine, fino a trasformarsi in un vecchio malandato, istupidito dal dolore e costretto a spiare da lontano le figlie che ora si vergognano di lui, il giovane Eugène de Rastignac scalpita per entrare nel bel mondo dei quartieri alti da cui il povero padre è bandito.

  Per questo nobile di provincia, tanto povero di mezzi quanto ricco di ambizioni, il tragico epilogo della «riuscita di Goriot» costituisce una lezione di vita come i consigli di Mme de Bargeton, la cugina che dopo averlo introdotto in società fugge l’Inferno parigino invitandolo, da vera aristocratica, a non cedere a un «mondo diviso in vittime e furfanti». La ritroveremo, di nuovo innamorata e disillusa, nel bel racconto La donna abbandonata.

  Ma ancora più incisiva è la cinica filosofia di Vautrin, un pezzo d’uomo dallo sguardo penetrante e terribile, i modi affabili e i comportamenti misteriosi. «La vita è un po’ come la cucina – spiega satanicamente all’angelico Rastignac –. Puzza altrettanto e se si vuol mangiare bisogna sporcarsi le mani. Basta cavarsela con eleganza, è tutta qui la morale del nostro tempo ... l’importante è arrivare ... e l’onestà non serve». Campione dichiarato dell’insubordinazione a delle regole che i potenti violano impunemente, l’ex forzato difende la sua legge come l’unica alternativa all’obbedienza e alla miseria. Nell’oceano parigino diventato una fetida “fogna”, i suoi crimini e la sua associazione a delinquere, vera mafia ante litteram, non sono peggiori – sostiene – della violazione delle leggi e della morale da parte dei ricchi, come le losche speculazioni edilizie del barone de Nucingen marito di Delphine Goriot, i diffusi “matrimoni morganatici” o il rapace egoismo e le ciniche convenzioni sociali.

  Père Goriot, uno dei primi studi di costume della Commedia umana, si rivela allora anche come il romanzo di formazione di Rastignac dove Vautrin, il cui desiderio di paternità nei confronti del giovane tradisce un’ulteriore trasgressione, gioca un ruolo decisivo. Verrà arrestato, ma agli ospiti di Mme Vauquer la spiata di chi lo ha venduto alla giustizia per denaro appare più odiosa dei suoi confessi crimini. Balzac, che inaugurando il ritorno dei suoi personaggi seguirà i loro destini in altri romanzi, lascia al lettore il giudizio ma proprio perché all is true gli dà elementi per cogliere la vera morale. Goriot è vittima del suo eccesso d’amore o di un malinteso senso della paternità e dell’educazione, stravolti da vuoti modelli sociali? Perché il denaro, che finirà per maledire, è diventato l’unico legame con le figlie?

  Con la cruda verità che tormenta l’agonia solitaria del vecchio, l’iniziazione di Rastignac può dirsi conclusa. Sepolto Goriot dopo averlo amorevolmente assistito, lui è pronto a «sfidare la società» lanciandosi nella mischia alla conquista di Parigi, altra grande protagonista con i suoi contrasti di splendidi palazzi e fangosi sobborghi.

  Sono passati quasi due secoli, ma chi può dubitare della attualità di questa storia vera, introduttiva al grande affresco delle Illusioni perdute, che pare quanto mai raccomandabile per l’educazione sentimentale di padri e figli?

 

 

  Andrea Del Lungo, Non-lieux balzaciens. Le désert comme territoire a-topique, in Collectif, Balzac géographe. Territoires, a cura di Philippe Dufour et Nicole Mozet, Saint-Cyr-sur-Loire, Christian Pirot, 2004 («Balzac»), pp. 165-174.

 

  Balzac, infatigable créateur de mondes, aurait-il laissé des zones d’ombre dans la géographie fictionnelle de La Comédie humaine? Telle est la question qui m’a poussé à la recherche de territoires a-topiques, voire de véritables «non-lieux», dans l’univers fortement référentiel de l’œuvre balzacienne. Car c’est une tension propre à la littérature de toute époque que celle de concevoir des non-lieux, des espaces qui échappent à la représentation elle-même. Essayons d’éclairer la notion: le non-lieu littéraire pourrait se définir globalement comme un espace fictionnel imaginaire impossible à situer sur une carte géographique. Rentrent dans cette catégorie les multiples «Voyages aux pays de nulle part», les utopies ou les anti-utopies. Cependant, la littérature moderne nous offre aussi une acception extrême du concept, le non-lieu étant alors un espace non seulement imaginaire mais proprement inimaginable et inconcevable, qui déjoue la logique de la représentation ainsi que les lois de la physique; on en trouve des exemples chez Borges, notamment dans les Fictions, où l’écrivain argentin se plaît à décrire minutieusement ce qui est impossible à décrire: l’interminable Bibliothèque de Babel, ou la concentration cosmique de l’Aleph.

  Avouons que ces deux perspectives semblent étrangères à Balzac: on peut facilement étaler sur une carte géographique l’univers fictionnel de La Comédie humaine; quant aux lieux inimaginables, ils sont précisément tels chez Balzac, même si ce dernier nous a laissé une image borgésienne avant la lettre: celle, empruntée à Leibniz, du «miroir concentrique», qui présente des similitudes étonnantes avec l’Aleph. Mais le miroir balzacien, le speculum mundi, est métaphore du talent de l’artiste et de l’œuvre elle-même, sans jamais être fictionnalisé.

  Cependant, si l’on adapte la notion de non-lieu selon une perspective sociale, elle pourrait se révéler pertinente pour définir certains espaces qui, dans l’univers balzacien, semblent se dérober au savoir de la géographie et résister à l’emprise de l’histoire: des lieux de délitement du social, où les lois qui régissent la logique référentielle de la représentation et le système topographique balzacien n’auraient plus cours. Moins non-lieux que «non-territoires», des sortes de «creux» dans l’ordre géographique, historique et social, qui échappent au système de valeurs de l’univers balzacien et à sa cartographie spécifique déterminée par le pouvoir et le savoir.

  Je crois qu’il existe dans l’œuvre balzacienne un cas exemplaire de non-territoire: il s’agit du désert, conçu aussi bien sur le plan réel (en particulier dans la nouvelle intitulée Une passion dans le désert) que sur le plan figuré, comme espace «intime» de retraite du monde social (je pense notamment à La Peau de chagrin, et à la deuxième partie de La Femme de trente ans). Ce territoire a-référentiel, qui se dérobe aux déterminations sociales, semble constituer l’espace privilégié d’une dialectique entre culture et nature, espace où se déploie une tentation d’infini se concrétisant dans le vide du désert. À l’analyse de ce non-lieu d’égarement du sujet sera consacrée la première partie de cette étude, pour examiner ensuite les différents moyens d’une reconstruction cognitive qui permet aux personnages d’appréhender l’espace inconnu, de définir une identité ainsi qu’un nouvel ordre spatial. Le désert sera ainsi conçu comme l’espace du renversement d’un système de valeurs, qui condamnera cependant les personnages qui le traversent à un tragique et inéluctable retour dans le monde social. […].

 

 

  Elena Del Panta, ‘L’incognito Du Génie’. Riflessi d’autore nella “Comédie humaine”, «Paragone Letteratura», Firenze, N° 51-52-53, 2004, pp. 84-102.

 

  L’evidente complicità tra autore e narratore presente negli spazi testuali e paratestuali della Comédie humaine e caratterizzante gli stili della scrittura balzachiana così esemplarmente inserita in un contesto che rende solidali gli estremi più lontani e apparentemente inconciliabili della realtà e della finzione, è efficacemente analizzata da Elena Del Panta in questo studio. Seguendo da vicino gli scenari narrativi e lasciandosi guidare dalle indicazioni fornite dallo stesso romanziere, l’A. delinea la concezione balzachiana di autore e verifica in quale misura e in quali termini tale istanza risulta registrabile nel testo narrato in terza persona, «indipendentemente dalla volontà – o dalla consapevolezza – del suo creatore» (p. 86). In una strategia combinata di enigmaticità e di svelamento, il binomio ‘auteur/narrateur’ si configura, nell’opera di Balzac, come un Giano bifronte, come un «tutto unico» in cui la differenziazione tra i due termini incarna soltanto «una funzione pratica e ideologica: al primo – l’ ‘autore’ incognito che appare negli scritti liminari – il compito di presentare, spiegare, difendere, polemizzare; al secondo – suo organo o doppio nel testo – quello di raccontare, ossia di strutturare in parole il mondo riflesso nello sguardo-miroir» (p.90).

 

 

  Elena Del Panta, Balzac e la poetica del romanzo drammatico, «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», Firenze, Vol. LVII nuova serie, Fasc. 4, ottobre-dicembre 2004, pp. 451-476.

 

  Le forme e le tecniche riconducibili all’arte drammatica e, più in generale, al genere teatrale investono profondamente e connotano in maniera costante e sorprendentemente feconda le strutture e i ritmi della narrazione balzachiana. A partire grosso modo dal 1830, Balzac affianca ai suoi scritti di aperta polemica contro il moderno dramma romantico (ricordiamo, su tutti, gli strali contro Hugo e i suoi seguaci nella stroncatura di Hernani) una riflessione attenta e sempre più sistematica e precisa sulle nuove o, in un certo senso, rivoluzionarie potenzialità incarnate dal romanzo, il genere letterario più consono ad esprimere sinteticamente e a valorizzare a tutto tondo le forme visibili e invisibili del reale accogliendo e incorporando in sé tutti i generi, tra cui il dramma stesso. Le riflessioni di Balzac sui generi conduce lo scrittore, osserva E. Del Panta, a «confrontarsi dialetticamente con le teorizzazioni dei romantici e ad enunciare, fin dal 1830, appunto, le regole di base di una sintassi drammaturgia del racconto destinata ad arricchirsi nel corso degli anni ma i cui tratti fondamentali resteranno sostanzialmente immutati» (p. 456). La lettura balzachiana della realtà così come essa emerge dai romanzi della Comédie humaine è una lettura «teatrale» dal «potenziale complesso e quasi illimitato» in grado di cogliere ogni minima sfaccettatura del visibile e dell’invisibile. È il caso, ad esempio, de La Peau de chagrin, di Sarrasine (un testo narrativo «che si fa luogo teatrale accogliendo dei micro-saggi di drammaturgia», p. 463), della Maison Nucingen, dei Comédiens sans le savoir o di Adieu, fino a giungere a Splendeurs et misères des courtisanes in cui il versante melodrammatico balzachiano, inteso come «una sorta di micro-genere nel genere» (p. 468), rivela al massimo grado tutte le risorse del romanzo-dramma attraverso soprattutto le poliedriche capacità di simulazione e di dissimulazione incarnate da Vautrin, vera e propria proiezione metaforica del suo creatore.

 

 

  Luigi Derla, Nota in margine a “Séraphîta” di Honoré de Balzac, «Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica», Milano, 48, Nuova serie, Anno XXV, Luglio-Dicembre 2004, pp. 79-91.

 

  Destinato ad incarnare in forma romanzesca la dottrina mistico teosofica di Swedenborg, Séraphîta – l’ultimo tassello romanzesco del Livre mystique – rappresenta, almeno nelle dichiarate intenzioni del suo autore, il punto più alto (e quello più faticosamente raggiunto) della produzione filosofico-letteraria di Balzac. Nel romanzo, infatti, lo scrittore vede il proprio capolavoro assoluto, un’opera in cui – leggiamo nella Préface al Livre mystique – «la plus incompréhensible doctrine a une tête, un coeur et des os» e da cui si riflette il verbo dei mistici attraverso la resa, stilisticamente poetica, di un’idea: quella dell’amore per l’Angelo.

  In questo studio, Luigi Derla ricostruisce e ricompone con equilibrio e pertinenza le diverse componenti ideologico letterarie del testo balzachiano, nel quale si trova esemplificato, parallelamente a Louis Lambert, un percorso di ricerca privilegiato lungo il quale «si muove l’aspirazione di Balzac alla conquista di quelle conoscenze occulte» al fine di assicurare «il superamento della condizione umana» e che, nel caso specifico di Séraphîta, coincide con «la via mistica che conduce all’assunzione dell’eletto nel pléroma divino» (p. 80).

  Tradotto sul piano di una psicologia realistica, il misticismo fantastico dell’opera di Balzac rimanda, dal punto di vista della caratterizzazione dei personaggi, alla natura metafisica e simbolica propria dell’androgino, la cui ambivalenza sessuale, immagine esemplare dell’uomo perfetto, ricorda, nell’interpretazione di alcune teorie mistiche non lontane dal credo balzachiano, la «misteriosa metasessualità» (p. 82) di Cristo. In essa, Balzac trasfigura il personaggio centrale del romanzo in un simbolo (o, se si preferisce, in un’icona) inquietante di sacralità da cui procede e in cui si concentra al massimo grado il sogno balzachiano di «una rivoluzione religiosa» (p. 87) per certi versi incompiuta, ma ipotizzabile secondo una particolare idea di sublime, ossia con «la Ricerca dell’Assoluto nella Conoscenza, nella Spiritualità, in un Amore che esige il sacrificio dell’amore, nell’Arte» (p. 90).

 

 

  Luigi Derla, Balzac tra romanzo e melodramma: l’«Histoire des treize», «Aevum. Rassegna di scienze storiche linguistiche e filologiche», Milano, Anno LXXVIII, 3, Settembre-Dicembre 2004, pp. 825-839.

 

  L’alta tensione drammatica e l’intensa profondità insite nella rappresentazione dei personaggi, degli ambienti e delle vicende descritti da Balzac nella trilogia di romanzi che forma l’Histoire des Treize rivestono un interesse del tutto particolare sia dal punto di vista storico-sociale sia da quello psicologico. Nel constatare la sostanziale inverosimiglianza che connota i tasselli narrativi di questo intenso mosaico letterario, Luigi Derla ci conduce alla ricerca (o alla riscoperta) di nuove categorie estetiche che, superando l’ormai sterile contrapposizione tra i concetti di verosimile e di inverosimile, possano cogliere e valorizzare appieno la consistenza critico-metodologica dell’arte romanzesca balzachiana, finalmente liberata dagli angusti schemi e dai soffocati vincoli del ‘realismo’. Il modello che si offriva a Balzac per rappresentare – nel bene e nel male quasi fino all’eccesso – situazioni, personaggi e comportamenti esemplari era quello del melodramma: proprio il Melodramma, infatti, osserva l’A. riprendendo criticamente gli assunti formulati da Peter Brooks, «può simulare procedimenti mimetici, ma per concezione e tecnica è estraneo al realismo [...], proponendosi piuttosto come modo di invenzione [...] di una dimensione dell’esserci, vera o illusoria, che la superficie del mondo vela o nasconde» (p. 827). Nell’Histoire des Treize, Balzac concentra una molteplicità di tematiche, di idee, di tipi e di esperimenti tecnici e stilistici che, nello svelare gli ‘envers’ e gli ‘endroits’ della società del suo tempo, mette felicemente a profitto «tecniche, convenzioni, topoi, tipi ed enfasi retorica» (p. 832) propri del genere melodrammatico nel senso più letterale e teatrale del termine toccando addirittura, nel racconto La Fille aux yeux d’or, la materia del tragico: un tragico nuovo e problematico che, alimentato, come del resto le altre due opere della trilogia, da «una percezione più estetica che etica dei comportamenti umani» (p. 831) e quindi sostenuto da un moralismo, quello di Balzac, tutto personale, intermittente e, non di rado, contraddittorio, si colora dei tratti intensi e sorprendentemente attuali della modernità.

 

 

  Mariella Di Maio, Catherine et Robespierre. Machiavel expliqué par Balzac, in Collectif, “Une liberté orageuse” ... cit., pp. 415-430.

 

  L’A. riflette sui significati profondi della riflessione di Balzac sulla Rivoluzione in Sur Catherine de Médicis, dal punto di vista storico, politico, filosofico e sociale.

 

 

  Mariella Di Maio, La matière d’Italie: Stendhal, Balzac, in Gilles Delercq et Michel Murat, Le Romanesque, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2004.

 

  Cfr. 2003.

 

 

  Francesco Fiorentino, Denaro, snobismo, sesso, popolo. Gli ingredienti del successo del romanzo francese ottocentesco, «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 15 gennaio 2004.

 

  Il romanzo francese è diventato – a partire dal 1830 – il maggior prodotto di esportazione culturale del secolo, imponendosi come riferimento inevitabile in tutte le letterature europee. A che cosa è dovuto questo primato? Certamente a una combinazione di forze: lo stato e l’economia continentale più consistenti, la lingua più conosciuta, l’industria culturale meglio organizzata. Ma anche a una libertà e spregiudicatezza dei ceti intellettuali che non aveva eguali né nell’Europa della Santa Alleanza né nell’Inghilterra vittoriana. Balzac di passaggio per Milano nel 1836 (sic), sorprese le dame che gli chiedevano delle glorie parigine, traducendo istantaneamente queste glorie in numeri: quello delle copie vendute e dei soldi guadagnati.

  Il segreto è che i romanzieri francesi parlano spregiudicatamente. alla maniera dei salotti parigini, delle cose che veramente contano nella nuova società ottocentesca. Per loro il denaro non è più il segno del diavolo o un argomento troppo volgare per essere mescolato alla letteratura. E’ un oggetto che soltanto individui eccezionali riescono a procurarsi. Così nel balzachiano Eugénie Grandet, il vecchio Grandet non è l’avaro di commedia che sotterra il tesoro: è un grande capitalista, dallo straordinario fiuto che accumula una fortuna immensa. Alla sua avarizia si contrappone la sublime figlia Eugénie in nome dell’amore e della carità. E il finale vi farà capire come è difficile emanciparsi da una figura paterna forte e dalla tirannia dell’economico.

  Dopo il denaro, lo snobismo. [...].

 

 

  Francesco Fiorentino, Eugénie e Bette. Per Balzac anime agli antipodi, «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 20 maggio 2004.

 

  Eugénie Grandet e La cugina Bette si collocano ai due estremi della carriera di scrittore di Balzac. Il primo romanzo appare nel 1833: Balzac trentaquattrenne è un autore alla moda dalla reputazione sulfurea. Si è creato molti nemici tra concorrenti meno fortunati e critici benpensanti. Sembra destinato vivere nella bufera delle polemiche. E invece Eugénie Grandet riceve quell’apprezzamento unanime che nessun’altra opera balzachiana riceverà mai. Da Sainte-Beuve, suo nemico personale, alle redazioni dei giornali, ai salotti mondani, tutti si commuovono e amano il romanzo e la sua eroina. Il successo è tale che Balzac finirà per nutrire una certa antipatia per questo suo capolavoro che puntualmente verrà evocato dai critici che volevano stroncare gli altri suoi romanzi.

  La cugina Bette è del 1846. Balzac ha quasi smesso di scrivere. Sente che il suo tempo è finito. Soffre la concorrenza di nuovi autori come Eugène Sue che con i Misteri di Parigi, pubblicato a puntate in un giornale, ha raggiunto un successo inaudito. Con le ultime forze riesce tuttavia a creare due nuovi capolavori, Il cugino Pons e La cugina Bette, che insperatamente si impongono al pubblico e alla critica. Dopo non scriverà che ultimi completamenti al grande ciclo della Commedia umana.

  Eugénie Grandet e La cugina Bette portano i segni delle loro rispettive origini. Romanzo di gioventù il primo, non certo per l’inesperienza dello scrittore, che invece è nella piena maturità, ma per la storia e i personaggi. Romanzo di vecchiaia il secondo; cupo, disperato, con protagonisti vecchi viziosi e con sentimenti come l’invidia e l’avidità a tenere il campo. Se qualcuno non conoscesse ancora l’arte di Balzac, leggendoli uno dopo l’altro si potrebbe fare un’idea della vastità del suo spettro morale e della inesorabilità del suo spirito di osservazione.

  Eugénie Grandet è ambientato in provincia, a Saumur, e degli umori della provincia è impregnata. Notate la celebre descrizione della casa. Buia, arcigna. vi si svolge una vita regolata fino nei più minuti dettagli a causa della mania assurda del padrone. Grandet è un avaro. Ma non un avaro di commedia. E’ un avaro capitalista che ha saputo profittare di tutte le occasioni che dalla Rivoluzione in poi gli si sono offerte. Ha accumulato una delle più grandi fortune di Francia (diciassette milioni circa) ma non vuole che in casa si usino le candele di cera. Eugénie, sua figlia, si è piegata naturalmente a questa vita di ristrettezze fino alla sera in cui arriva ospite il cugino. Charles è un fatuo dandy parigino. Eugénie se ne innamora e tutto cambia: persino la casa, che improvvisamente sarà baciata dal sole. Ma ben presto l’insipido Charles proditoriamente (e scioccamente) si dilegua e restano i due giganti in un terribile tête-à-tête.

  La critica ha unanimemente osservato che il romanzo si regge, ancor più che sul rapporto tra i giovani, sulla relazione padre-figlia. Relazione contraddittoria, fatta di amore inconfessato e di irriducibile avversione, di somiglianza e di opposizione. Il finale – morto il padre – vede Eugénie sola nella grande casa, da una parte dedicarsi alla carità, dall’altra condurre un’esistenza regolata ancora secondo le abitudini paterne. Sul senso di questo ambiguo finale la critica è divisa: c’è chi (come anche la barese Maria Grazia Porcelli nell’edizione Marsilio del romanzo) sostiene che la fanciulla si è emancipata dal giogo paterno grazie a una virtù celeste; e chi invece contempla la sua vita come un processo fallito di emancipazione da un padre che anche dalla tomba continua a dettare le regole della sua esistenza.

  La cugina Bette è un romanzo terribile, come lo definì lo stesso autore. Non vi campeggiano fanciulle innamorate o conflitti. C’è una vecchia zitella invidiosa che porta la rovina nella sua stessa famiglia. C’è un vecchio barone erotomane che non riesce a sottrarsi al suo vizio. Intorno a loro, dame di piccola virtù, pronte a scegliere il letto più vantaggioso, affaristi che non conoscono remore, artisti velleitari, una umanità degradata e irredimibile. Torbido non è soltanto l’universo rappresentato, ma anche l’ispirazione di questo Balzac malato, deluso, che sta rivedendo per intero il proprio passato. Infatti, in una lettera confessa che nel personaggio di Betta, macchinatrice e invidiosa, ha proiettato, tra altre, la figura di sua madre.

 

 

  Francesco Fiorentino, Vita e opere di un dandy sempre sull’orlo del fallimento, Ibid.

 

  Honoré Balzac nacque a Tours, nel 1799, da un padre illuminista e una madre più giovane, ambiziosa e insoddisfatta, che non si curò della sua educazione. A 15 anni si trasferisce con la famiglia a Parigi dove, dopo la facoltà di diritto, comincia a frequentare gli ambienti artistici e le redazioni delle riviste. Ma per il suo debutto letterario bisogna attendere. Si lancia negli affari: fonda una casa editrice, poi una stamperia, infine una fabbrica di caratteri tipografici. Fallisce per mancanza di fondi.

  A partire dal 1830 – data in cui comincia a fregiarsi della particella nobiliare «de» – i primi racconti delle Scene della vita di provincia dimostrano l’originalità del suo progetto letterario, che ambisce a disegnare il grande affresco della società contemporanea. Nel 1834, a partire da Papà Goriot, concepisce l’idea di un ciclo di romanzi che possa far concorrenza allo stato civile. Collegherà tutte le sue opere facendovi ricorrere gli stessi personaggi. Chi è protagonista in uno tornerà comprimario altrove; se in un romanzo abbiamo conosciuto un giovane debuttante, lo ritroveremo maturo in un’altra opera. Nei quindici anni successivi si dedicherà ossessivamente al titanico progetto della Commedia umana, distruggendo la sua salute e il suo patrimonio. E’ come se avesse svuotato la Francia dei suoi abitanti e l’avesse ripopolata di personaggi fittizi mescolati ad altri reali, facendo loro vivere la storia dalla Rivoluzione all’Impero. Solo Dante ha avuto un progetto così grandioso.

  Honoré de Balzac diventa subito un autore famoso. Ma la fama non si accompagnò alla ricchezza. Il più grande scrittore della sua epoca passò la vita a difendersi dai creditori e dalla miseria a cui lo destinava uno stile di vita da dandy abituato a circondarsi di opere d’arte, a vestire con eleganza, a frequentare signore aristocratiche ed esigenti. Ad una di loro, Madame Hanska, una contessa polacca di nobilissime origini, fu fedele fino alla fine, nella attesa di coronare l’ambizioso progetto di farne sua moglie. Morì nel 1850, accompagnato al Père-Lachaise da Victor Hugo, James de Rothschild e dal suo nemico Sainte-Beuve. Quel riconoscimento ufficiale che le lettere francesi non gli attribuirono in vita rifiutandolo all’Académie, glielo avrebbe riservato subito la nuova generazione di scrittori. Baudelaire e Flaubert lo trattarono come un idolo.

 

 

  Alberto Fiz (a cura di), Rodin e gli scrittori/et les écrivains. Dante, Balzac, Hugo, Baudelaire, a cura di/par les soins de Alberto Fiz, in collaborazione con/en collaboration avec Musée Rodin, Paris, Milano, De Agostini-Rizzoli Arte & cultura, (dicembre) 2004, pp. 183; ill.

 

  Un sorprendente fascino e un grande interesse riveste questo Catalogo della mostra su Rodin e gli scrittori curata da Alberto Fiz in collaborazione con il Musée Rodin di Parigi, che il Centro Saint-Bénin di Aosta ha ospitato dal 18 dicembre 2004 al 3 aprile 2005.

  La prestigiosa rassegna, dal taglio inedito, analizza la ricerca di Auguste Rodin sottolineando la stretta relazione della sua opera plastica con il mondo poetico e letterario. Suddiviso in quattro sezioni: Rodin e Dante (pp. 86-107); Rodin e Balzac (pp. 108-131); Rodin e Hugo (pp. 132-143) e Rodin e Baudelaire (pp. 144-161), il catalogo presenta oltre sessanta opere dell’artista tra bronzi, marmi, gessi e tecniche miste. Tra queste, si ricordino: La Porte de l’Enfer e Fugit amor ispirate a Dante, i busti e il Monument in bronzo dedicati a Victor Hugo e il celebre Portrait de Baudelaire. Ma il monumento di Rodin che ha suscitato più polemiche è stato quello dedicato a Balzac: il Balzac che Émile Zola, allora presidente della Société des Gens de Lettres, gli commissionò, nel 1891, in vista delle celebrazioni del primo centenario della nascita di Balzac rappresenta una delle più intense indagini sul significato della rappresentazione e sul ritratto che siano mai state realizzate. La straordinaria potenza del Monument à Balzac oltre che la sua indiscussa originalità provocarono uno scandalo artistico di grande risonanza (l’opera fu infatti rifiutata nel 1898). Prima della versione definitiva dell’opera, Rodin si era cimentato in numerose prove tra cui: Étude de nu C del 1892 e Balzac en robe de moine del 1893. Rodin, scrive Martine Contensou (Un lettore anonimo: Auguste Rodin/Un lecteur anonyme: Auguste Rodin, pp. 51-54; 55-59), «ha voluto essere “lo scultore di Balzac” non in nome di un’intima conoscenza della Comédie humaine ma in nome di un’attenzione costante rivolta al suo autore, sostenuta dall’ammirazione che provava nei suoi confronti» (p. 51). In altri termini, precisa Éric Hoppenot (Auguste Rodin e la letteratura francese dell'Ottocento/Auguste Rodin et la littérature française du XIXe siècle, pp. 61-64; 65-69) nel Balzac di Rodin «tutto sembra provenire dall’interno, nessuna respirazione, nessuno spazio vuoto, lo osserviamo, gli occhi inchiodati su questa massa, impenetrabile, che preserva il suo mistero e la sua stranezza» (p. 64).

 

 

  Daria Galateria, Honoré de Balzac. “Essere padre è come diventare Dio”, «la Repubblica», Roma, 6 luglio 2004, p. 40.

 

  Avendo dato la vita a 2500 personaggi, Balzac aveva ben diritto di pensare che la vita, a concepirla come un romanzo, è sconsiderata. All’inizio, ad esempio, le sue donne si chiamavano tutte Laure. Alla quarta, Balzac prese provvedimenti, e comincia a chiamarla Marie. La duchessa Laure d’Abrantès – spirito caustico e collo di cigno – se ne stupì appena, e si fece convincere a scrivere delle memorie; era stata la stella filante dell’epopea napoleonica. Non se ne faceva una ragione l’altra Laure, materna e rotondetta, Laure de Berny, figlia del professore d’arpa di Maria Antonietta, aveva vissuto un’altra epoca – i suoi avevano tentato di far fuggire la regina dal Temple: aveva un anno più della madre di Balzac, la freddissima Laure che a diciannove anni, e rigidamente educata – poteva parlare solo se interrogata, e mai guardarsi allo specchio – aveva sposato il cinquantunenne Bernard-François Balzac, frammassone e fornitore di viveri per l’esercito della Rivoluzione; a ottant’anni, ancora figliava con le contadine delle sue origini. Con la sorellina Laure, l’unico affetto dell’infanzia, quando la vita di collegio lo riduceva a una sorta di «coma», Balzac si confiderà quando a sua volta diventerà padre. Si era innamorato, scrive nel 1833 alla sorella, «di una persona gentile, caduta come un fiore dal cielo; mi dice: amami per un anno, ti amerò tutta la vita». Maria de Fresnay era figlia di una scrittrice, e non era contessa. Così, scompare presto dalla nostra storia; ma la bambina, Marie, nata nel giugno 1834, visse fino al 1930. A lei dobbiamo uno dei capolavori del romanzo, Papà Goriot, presentato per Repubblica in una nuova traduzione dallo scrittore Maurizio Cucchi.

  Essere padre, è diventare Dio, pensava Balzac, sempre energetico nelle sue formulazioni. A settembre del 1834 Balzac è al lavoro, come un forsennato, per venti ore al giorno; a gennaio del ʼ35 il romanzo è finito. E’ nato il «Cristo della paternità»; quando parla delle figlie, il viso di papà Goriot «scintilla come un diamante». Per loro si è rovinato; e ora le giovani donne, come le due figlie ingrate di re Lear, se ne vergognano, e lo lasciano morire solo, in un’agonia che è una delle letture più possenti della letteratura.

  Il romanzo però non è la storia della paternità come vizio distruttore; perché papà Goriot ha viziato le figlie, le ha sposate a uomini potenti e atroci – tutte le passioni sono alla fine asociali, anche l’amore di padre, in un mondo pur costruito sulla famiglia. Papà Goriot è più complesso, come la vita. Una pensioncina a Parigi, nel 1819; Balzac descrive, stanza per stanza, i clienti. C’è il tenebroso Vautrin, con i suoi favoriti ritinti e i mille misteri. E poi giovani diseredate, donne sfiorite, studenti poveri e ambiziosi. A lungo, il vecchio commerciante di pasta Goriot viene guardato come un vecchio licenzioso, perché riceve, in visite sempre più rare, delle giovani elegantissime; quando dice che sono le figlie, tutti pensano a un civile alibi. E’ il giovane nobile di provincia, e studente squattrinato Rastignac, a prendere spazio nella storia, che diventa la sua educazione sentimentale alla carriera, e alla conquista di Parigi. Vautrin – che è un evaso dal bagno penale – vorrebbe occuparsene, tramite un piccolo delitto. Ma è papà Goriot a dare al giovanotto le più profonde lezioni sulla vita. Quando Rastignac si trova a occuparsi della sua morte e del suo funerale – disertato da tutti, e anche dalle figlie – sa ormai cosa pensare di Parigi, che si stende sorniona come un’ape ronzante, nella sera punteggiata dalle prime luci; dall’alto del cimitero del Père Lachaise, sfida la città: «E ora, a noi due!». L’eco della sfida si rifrange in cento altri romanzi della Comédie humaine, l’affresco sociale in cui circolano e tornano i personaggi e le passioni dei cento romanzi di Balzac.

  Nel 1845 lo scrittore progetterà un nuovo libro sulla paternità, ma ormai «il padre, la madre uccidono quasi, moralmente parlando, i figli». «Tu e Dio sapete bene che non mi hai soffocato di carezze e di tenerezza da che sono al mondo», accuserà Balzac in una famosa lettera alla madre. Nel 1842, rincara, sempre per lettera: «Se sapeste cos’è mia madre! E’ un mostro. In questo momento, è occupata a uccidere mia sorella, dopo aver ucciso la povera Laurence e la nonna. Mi odia per molte ragioni. Mi odiava da prima che nascessi». Una strana luce sugli affetti parentali emana da una lettera di Balzac padre del 1825, all’epoca in cui la figlia Laurence sta morendo. Scrive dunque Bernard-François a un nipote: «A 81 anni la mia salute è inalterabile. La mia seconda figlia, che ha ventisei anni, sarà morta quando riceverete questa lettera, è una desolazione. La maggiore è incinta; il marito ha progettato un nuovo canale che costerà diciassette milioni; il governo l’ha scelto, la compagnia cerca i fondi per dare avvio ai lavori». (Sarà il denaro, naturalmente – rovescio borghese del romanticismo – il grande motore della Comédie humaine).

 

 

  Giuseppe di Giacomo, Le idee estetiche di Stendhal. Stendhal e Balzac: a proposito dello stile, in AA.VV., Arrigo Beyle “romano” (1831-1841). Stendhal fra storia, cronaca, letteratura, arti. Atti del Convegno internazionale, Roma, 24-26 ottobre 2002, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2004.

 

 

  Maria Grazia Gregori, La techno sta a Balzac come la sua ‘Comédie humaine’ sta ai drammi dei nostri tempi, «l’Unità», Roma, 25 novembre 2004, p. 21.

 

  È di scena il romanzo. Anzi alcuni romanzi che, riuniti nel titolo generale La comédie humaine, la commedia umana, sono il monumento al genio di Honoré de Balzac grande scrittore francese della prima metà dell’Ottocento. Nell’avvicinarsi sia pure a una parte limitata – gli (sic) Etudes philosophiques e all’interno di essi esplicitamente a Il talismano e Il capolavoro ignoto – il regista francese Dominique Pitoiset (che ne firma anche la riduzione per il Teatro Stabile di Torino) sceglie uno spazio non convenzionale e affascinante come quello della Cavallerizza (con un’acustica da sistemare, però, se si vuole continuare ad usarlo) e una chiave decisamente moderna che si esalta nella bella, nuova traduzione di Luca Fontana. [...].

  Ma chi sono e cosa rappresentano in una società in crisi irreversibile che ha perduto il gusto della vita per quello dell'arraffo? Protagonista assoluto di Il talismano è Raphaël de Valentin che dopo una vita appartata, depressioni e istinti suicidi, decide di prendersi il posto che considera suo. Nella società smagata e ironica della capitale, con l’aiuto di un talismano in pelle d’asino con scritte arabe e il sigillo di Salomone, inizia la sua ascesa; ma ogni desiderio realizzato gli sottrae un po’ di vita. Comincia così il viaggio di Raphaël nella grande Parigi fra medici alla moda, azionisti di giornali che inveiscono con toni berlusconiani contro i giornalisti, donne di piacere qui trasformate in cubiste, scienziati di grido e fanciulle in fiore: un inferno metropolitano mentre il talismano si «beve» la sua vita fino alla morte per tisi. Diversissimo il tema di Il capolavoro ignoto tutto centrato sul mistero dell’arte. Ne sono protagonisti, in un atelier popolato da grandi tele, tre pittori: due realmente esistiti, un giovanissimo Poussin e il fiammingo Porbus, e uno completamente inventato Frenhofer. Il tema è quello che affascinò anche Amleto: compito dell’arte è riprodurre la natura oppure saperla cogliere nella sua profonda essenza, nella sua vita interna, nel suo fluire? Due visioni contrapposte alle quali Frenhofer cercherà di dare una risposta tentando di dipingere il ritratto di una cortigiana famosa talmente vero da diventare vivo. Ma quando la vita irrompe davvero nello studio prendendo le sembianze della giovane amica di Poussin non gli resta che la morte. Temi affascinanti, trattati con ironica profondità da Balzac che lo spettacolo di Pitoiset non restituisce fin in fondo. Pur cogliendo nel testo quella mercificazione, quell’ambizione sfrenata che sono i cardini di una società violenta e liberistica, della rovina di generazioni a cui sembra negato addirittura un progetto per l’avvenire, il regista resta alla superficie della sua incandescente materia, malgrado l’impegno di tutti gli attori [...].

 

 

  Enrico Guaraldo, Frammenti di Balzac e il “piacere del testo”, in In cerca del mattino. Il senso della nascita in letteratura, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 239-245.

 

  Su Proust e Balzac.

 

 

  Osvaldo Guerrieri, Il regista racconta «Il capolavoro ignoto» e «La pelle di zigrino» in prima nazionale per lo Stabile di Torino. Con Pitoiset un Balzac a suon di techno, «La Stampa», Torino, N. 318, 17 novembre 2004, p. 28.

 

  Una cascata di decibel sta per abbattersi su Balzac, sul techno Balzac E’ così, con un bombardamento di techno music, che il digionese Dominique Pitoiset si accinge a mettere in scena alla Cavallerizza «La comédie humaine», cattedrale letteraria con la quale Honoré de Balzac ha sconsacrato la Francia di primo Ottocento, le sue illusioni perdute e i suoi affaristi trionfanti. Direttore del Teatro nazionale di Bordeaux e noto al nostro pubblico almeno per la messa in scena di «Pene d’amor perdute», Pitoiset torna a lavorare per il Teatro Stabile con questa «Comédie» che, significativamente, ha per sottotitolo «Etudes philosophiques», studi filosofici.

  Naturalmente non propone l’impossibile sintesi di una creazione letteraria tanto vasta quanto vertiginosa. Si limita a due soli racconti. «Il capolavoro ignoto» e «Il talismano» Il secondo titolo è fittizio. Si tratta in realtà della «Pelle di zigrino», ribattezzato per aggirare una insormontabile ambiguità. Zigrino in francese si dice «chagrin» e «chagrin» ha un doppio significato: indica la pelle d’asino con cui si rilegano i libri e insieme lo sconforto, il dolore. La nostra lingua non sa restituire questo gioco di parole, che fa dell’esistenza un libro vuoto nel quale la vita è già consumata. «L’unica traduzione che poteva mantenere l’ambiguità è talismano», dice Pitoiset.

  «La pelle di zigrino» racconta la vita e la morte del pittore Raphaël de Valentin che, dopo un patto col diavolo, entra in possesso di una pelle d’asino dalle proprietà magiche: esaudisce i desideri, ma ogni volta si restringe un poco, fino a che non si riduce a una porzione minima, segno della vita giunta al termine. Balzac raccontava questa vicenda fantastica nel 1830. Pitoiset la trasferisce ai nostri giorni, dimenticando «la scenografia storica» e ponendo in evidenza la metafora del racconto, ossia quel suo essere «come una carta di credito a fondo limitato, che non possiamo rimborsare se non con la nostra durata di vita». E accentuando il rapporto tra l’artista e la società.

  Dice Balzac: «Preferisco una vita breve ma intensa a una lunga e passiva». E spiega Pitoiset: «Balzac parla della generazione successiva a Waterloo, una generazione perduta che non vede futuro dopo la rivoluzione. La rivoluzione era l’utopia, una tirannica utopia. Ma dopo Waterloo, il ritorno del vecchio regime deprime un’intera generazione. Ecco perché è così presente il tema del suicidio, dei soldi, del profitto, della perdita del valore meritocratico». E’ in questo contesto che agisce Raphaël. Il giovane provinciale si ritrova a Parigi nel gran brodo della cultura e qui vede che i deboli soccombono, i meno preparati vengono esclusi. Gli artisti, dice Pitoiset. «cedono al fallimento perché cercano l’assoluto in un mondo pragmatico. Ciò dà modo a Balzac di esercitarsi in uno dei suoi famosi affondo ironici. Se non vuoi perdere le illusioni, meglio non averne». «Il talismano» occupa la seconda parte dello spettacolo: un’ora e cinquanta contro la prima di soli quaranta minuti («un aperitivo»). Il regista la definisce tecno-romantica e densa di rischi. Rivela: «Poiché la Cavallerizza è minata da seri problemi acustici, ho cercato due possibili soluzioni: il silenzio e l’eccesso di rumore, che è la dialettica giusta per Balzac. Ho voluto una cornice contemporanea perché, se avessimo utilizzato costumi d’epoca, il testo avrebbe perso tutte le sue risonanze. E’ stato scritto nel 1830, ma non possiamo definirlo datato, poiché ci accorgiamo che risuona ancora dentro il nostro spazio-tempo. In altre parole, il cinismo del 1830 non ha nulla da invidiare a quello che domina l’Italia di oggi».

 

 

  Mario Iazzolino, Honoré de Balzac e «Les (sic) Illusions Perdues», «Quaderni dell’Accademia Cosentina», Cosenza, 40, dicembre 2004, pp. 5-37.

 

  Insieme a molti altri capolavori della Comédie humaine, Illusions perdues – l’«oeuvre capitale dans l’oeuvre» secondo la definizione dello stesso Balzac – è il romanzo in cui lo scrittore francese ha espresso con maggiore lucidità e intensità narrativa la sua concezione circa le mutevoli e spietate dinamiche del reale, di un mondo (e di una umanità) in continua trasformazione dominato da passioni e volontà «incapaci di inscriversi nella tradizione» (p. 13). Romanzo del reale conoscibile, dunque, ma anche romanzo sociale e romanzo di formazione teso allo svelamento dei principi e dei meccanismi ideologici e filosofici che determinano la fisionomia della nuova (e ambigua) società borghese, Illusions perdues riveste altresì un valore altamente problematico. Balzac, osserva Iazzolino, «descrive una società dove è ormai abolita la frontiera tra conoscenza e prassi» poiché «pensare significa desiderare e mettere in pratica i propri desideri» (p. 37). In questo senso, quest’opera è anche un romanzo aperto che risponde «ai bisogni di un’epoca votata ai vari cambiamenti, dove tutti, individui e gruppi, accedono a nuove forme di esistenza» (p. 15).

 

 

  Paul Lacroix, Incontri con Sanson, in Honoré de Balzac, Memorie di Sanson ... cit., pp. 339-340.

 

 

  [Carlo Levi], «Manzoni sublime. Balzac mediocre. Zola non ha poesia», «Corriere della sera», Milano, 13 maggio 2004, p. 35.

 

  BALZAC: «Imprime impulso capriccioso ai personaggi. I personaggi crescono su se stessi. Mediocre». (1933).

 

 

  Sergio Luzzatto, Balzac tra il poliziotto e il boia, in Ombre rosse. Il romanzo della Rivoluzione francese nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2004 («Saggi», 607), pp. 81-115.

 

  Lo studio (fino ad ora inedito) che forma il secondo capitolo di questo volume di Sergio Luzzatto che tratta dei riflessi e delle ripercussioni (quasi invasive) della Rivoluzione francese sulle ideologie storiche, politiche ed estetiche dell'Ottocento, coglie nelle trasformazioni narrative di due figure emblematiche del contesto rivoluzionario (e post-rivoluzionario), quali il boia Sanson e l’ex-galeotto Vidocq, un segno particolarmente significativo della riflessione di Balzac intorno alla questione della Rivoluzione. L’esercizio di lettura svolto dall'A. sui testi balzachiani ha come opere principali di riferimento proprio i Mémoires de Sanson e i Mémoires de Vidocq, due testi pubblicati entrambi intorno al 1830, di cui soltanto il primo è attribuibile (benché parzialmente) al futuro autore della Comédie. Attraverso l’analisi del «contesto genetico» entro cui si colloca il messaggio ideologico proprio dello due opere, Luzzatto rivaluta anzitutto il valore culturale dei Mémoires e precisa la loro influenza sull’«evoluzione intellettuale di Balzac rispetto al problema storico della Rivoluzione francese» (p. 112). Se la figura di Vidocq consente a Balzac di censurare «sia il potenziale romanzesco del mondo del crimine, sia l’ambiguità di statuto di una polizia operante al confine tra interesse pubblico e vizi privati» (p. 107), Sanson, espressione di una condizione esistenziale ai limiti della sopravvivenza, incarna, anche dal punto di vista sociale, «la necessità dell'espiazione» (p. 95). Nei Mémoires de Sanson, osserva l’A., lo scrittore restituisce «un’aura al carnefice» nel tentativo di «scongiurare quel principio di impersonalità e neutralità» della macchina per uccidere (la ghigliottina), «vagamente intuendo, forse, il futuro primato dell’attrezzo sull’uomo» (p. 97).

 

 

  Sandro Manfroni, La donna-anima in un personaggio di Honoré de Balzac, «Studi junghiani. Rivista semestrale dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica», Milano, 20, Luglio-Dicembre 2004, pp. 79-93.

 

  Secondo l’A., Le Médecin de campagne di Balzac si annovera tra quei testi letterari che, in misura diversa, costituiscono «vere e proprie anticipazioni di concetti successivamente formulati [...] dalla dottrina psicoanalitica e dalla psicologia junghiana» (p. 79). È, in particolare, nell’opposizione tra i concetti di Persona e di Anima che la teoria di Jung individua quel complesso sistema di relazioni tra coscienza individuale, inconscio e proiezione sociale (o esterna) della coscienza stessa. Nel romanzo balzachiano, questa dicotomia tra Persona e Anima troverebbe la sua personificazione letteraria nella figura del dottor Benassis e in quella della Fosseuse (la donna-Anima) e configurerebbe allo stesso tempo la tormentata situazione tipica dell'artista e del suo mondo interiore.

 

 

  Cesare de Marchi, Un visionario appassionato, in Honoré de Balzac, Il padre Goriot ... cit., pp. V-XXI.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Pier Vincenzo Mengaldo, Un’introduzione al “Cousin Pons”, in In terra di Francia, Taranto, Lisi editore, 2004 («Palazzo Ateneo»), pp. 49-73.

 

  Cfr. 2003.

 

 

  Due capitoli sul “Cousin Pons”, Ibid., pp. 75-104.

 

  Cfr. 2002.

 

 

  Ida Merello, Racconti fantastici di Balzac, «Annali della Accademia ligure di scienze e lettere», Genova, Serie VI, Volume VII, 2004, pp. 111-119.

 

  Oggetto di questo studio è la produzione narrativa balzachiana riconducibile al genere fantastico, un genere che, soprattutto negli anni venti e trenta dell'Ottocento, ha goduto di notevole successo in Francia come altrove. L’analisi dell'A. si focalizza in modo particolare su alcuni romanzi/racconti pubblicati tra il 1820 (Le Centenaire) e il 1835 (Séraphîta) che si pongono certo «come una sintesi di tendenze alla moda» (p. 113), ma che testimoniano allo stesso tempo della rivisitazione e della rielaborazione del tutto personali da parte di Balzac di alcuni miti che hanno dominato l’immaginario romantico: Faust, Don Giovanni, il vampiro e l’ebreo errante. Il genere fantastico consente a Balzac di «rappresentare attraverso una mitologia ben identificabile certe ossessioni esistenziali» e di «suggerire un mondo spirituale compensativo e consolatorio, che consenta di sfuggire, attraverso il sogno, alla prigionia della société de l’argent» (p. 119).

 

 

  Max Milner, Le passé et le présent de Venise dans l’oeuvre romanesque de George Sand et de Balzac, in AA.VV., Présences de l’Italie dans l’oeuvre de George Sand. Préface d’Annarosa Poli, introduction de José-Luis Diaz (Actes du Colloque de Vérone et de Venise, 9-12 mai 2002), Moncalieri, C.I.R.V.I., 2004 («Bibliothèque du voyage en Italie», 66) pp. 355-370.

 

  Su: Massimilla Doni e Facino Cane.

 

 

  Davide Monda, I divini tormenti dell’artista. Riflessioni su “Le Chef-d’oeuvre inconnu” e “Pierre Grassou”, in Amore e altri despoti. Figure, temi e problemi nella civiltà letteraria europea dal Rinascimento al Romanticismo, Napoli, Liguori editore, 2004 («Critica e letteratura», 56), pp. 195-220.

 

  Questo studio riprende, con qualche variazione, il testo dell’introduzione all’edizione italiana delle due opere balzachiane pubblicata dall’editore Rizzoli nel 1992.

 

 

  Domenico Nunnari, Le invettive di Balzac, in Dal giornale al portale. Storia e tecniche della comunicazione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 13-27.

 

  pp. 13-14. Parigi, 1843. I giornali da qualche anno vengono stampati e diffusi con regolarità e scritti da giornalisti di professione. Sono intellettuali sui generis, non sono scrittori e non sono storici, non sono politici e non sono economisti, ma di storia, di politica e di economia scrivono, e di molto altro ancora.

  Il primo a interessarsi organicamente del lavoro dei giornalisti fu Honoré de Balzac.

  Al massimo della popolarità e del successo, pubblicò la Monographie de la presse parisienne, un libello dedicato al variopinto mondo del giornalismo. Balzac iniziava una discussione mai terminata su una professione, allora come adesso, molto attraente per i giovani, che, allora come adesso, sognano il successo e la fortuna nel mondo di un mestiere davvero speciale.

  Il celebre autore della Comédie humaine, che senza confessarlo aveva subito, egli stesso, l’attrazione per una professione già a quell’epoca mitizzata, giudicava le redazioni dei giornali nient’altro che luoghi di “perdizione del pensiero” e, con acida ironia, chiudeva il suo terribile libretto con una bruciante sentenza: «Se la stampa non esistesse, non bisognerebbe inventarla».

  A metà dell’Ottocento, Balzac fu dunque il primo ad aprire le ostilità contro giornali e giornalisti, con taglienti giudizi e una minuziosa descrizione dei vizi e dei peccati dell’ambiente della carta stampata, ma non fu certo l’ultimo. [...].

  Lucien, il personaggio del libro di Balzac su les journalistes vedeva l’ambiente parigino dei giornali, da cui era stato categoricamente rifiutato, come «disseminato di scogli e pericoloso, pieno di pozze fangose».

  Ma davvero se la stampa non ci fosse non bisognerebbe inventarla?

 

 

  Marco Nuti, Da “Le Père Goriot” a “La Peau de chagrin”: lo sguardo sulla morte in Honoré de Balzac, «Il lettore di provincia. Testi ricerca critica», Milano, anno XXXV, fascicolo 121, settembre-dicembre 2004, pp. 25-43.

 

  Il tema della morte attraversa gli spazi e segna i destini dei personaggi della Comédie humaine quanto quello della vita: l’oggetto di studio di questo saggio di Marco Nuti è la visione tanatologica dello scrittore esemplificata in due opere-chiave del suo universo narrativo, Le Père Goriot e La Peau de chagrin. La scelta di questi due romanzi, puntualizza l'A., è stata determinata dalla volontà di «delineare il quadro della ritualità della morte sociale del povero nella grande città» e di far emergere come «la ricerca ossessiva dell’Assoluto romantico diventi un micidiale strumento di autodistruzione e morte» (p.  25). Sotto il peso del nuovo equivalente morale della società borghese, il denaro, la sublime, ma cieca, paternità di Goriot soccombe alla logica della mercificazione degli affetti: la solitudine del morente che avvolge e accompagna il personaggio balzachiano fin negli ultimi istanti della sua vita riflette quel processo di «reificazione dell’umano» (p. 29) che costituisce uno tra i fulcri dell’intera vicenda. Con Balzac, scrive l’A., «la visione della morte viene ricondotta all’hic et nunc, perde qualsiasi significato verticale, cioè soprannaturale, per ampliarsi in orizzontale, a livello, cioè, della concretezza e della tangibilità che l’accompagnano» (p. 28). Tuttavia, il lettore che partecipa alla lenta agonia di Goriot, riconosce e coglie in quegli istanti il segno di un riscatto, di una nuova possibilità di rinascita di una «libertà totale» (p.30) interiore che proprio nella solitudine e nell’abbandono trova la propria sublimazione. Diversamente da Goriot, il Raphaël de Valentin de La Peau de chagrin percorre il breve ciclo della sua esistenza terrena sottostando ai frenetici impulsi del desiderio e della conquista dimostrando «l’inadeguatezza della vita a qualsiasi sogno e a qualsiasi aspirazione dell’umanità» (p. 40). L’ambiguità di questa figura, anche nella morte, fa de La Peau de chagrin un «romanzo dell’incertezza, in cui Balzac fonde i due contrari: il tragico impasse del desiderio che sfocia nella follia e nella morte» e la «sublime evasione di un angelo straniero a questo mondo che riesce a sottrarsi alla bieca materialità terrestre per raggiungere la sua agognata patria celeste» (p. 43).

 

 

  Annalisa Passigli, La figura del collezionista ne “Le Cousin Pons” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Cristina De Benedittis, Università degli studi di Firenze, Facoltà di Lettere e filosofia, 2004.

 

 

  Susi Pietri, L’Invention de Balzac. Lectures européennes. Textes de H. von Hofmannsthal, H. James, B. Pasternak, R. M. Rilke, R. L. Stevenson, A. Strindberg, I. Svevo, A.C. Swinburne, A. Tchekhov, O. Wilde, W. B. Yeats, Saint-Denis, Presses Universitaires de Vincennes, 2004 («Créations européennes»), pp. 242.

 

  L’invention de Balzac. Lectures européennes di Susi Pietri è anzitutto un libro affascinante e non esitiamo a definirlo come una vera e propria primizia nell’ambito degli studi sulla ricezione critico-letteraria di Balzac dentro e fuori di Francia. L’eterogeneo mosaico di testi letterari proposti e raccolti dall’A. in forma antologica si collocano cronologicamente tra la fine del XIX secolo e i primi anni Trenta del Novecento e sono presentati – in molti casi per la prima volta in traduzione francese – seguendo il ‘fil rouge’ di molteplici avventure intellettuali che hanno coinvolto Balzac e la sua opera, verso cui si sono catalizzate le più diverse e singolari esperienze estetiche tutte accomunate dalla medesima esigenza di confrontarsi con un modello assoluto e di «travailler et mûrir l’exercice d’autocompréhension du “tournant historique des temps modernes”, de ses ruptures et de ses continuités» (p. 17). Scrive S. Pietri: «les textes présentés ici [...] composent un réseau de figures et de postures, produites par quelques protagonistes majeurs de la scène littéraire européenne entre les deux siècles, qui articulent le tournant esthétique de la crise de la représentation et le tournant critique de la réception balzacienne, en faisant de La Comédie humaine l’objet d’une redécouverte» (p. 6).

  Il ritorno alla Comédie humaine è vissuto da molti autori come una sorta di trasfigurazione e di ri-appropriazione di un modello narrativo e di scrittura in perpetua evoluzione all’interno di uno spazio (auto-) riflessivo teso verso la ridefinizione di nuovi spazi e momenti estetici (e genetici) da riconquistare e da proiettare verso il futuro. In questo senso, per H. James, la frequentazione intima di Balzac coincide con «la recherche d’une synthèse a posteriori de l’ensemble de sa production romanesque» attraverso una «réappropriation du processus génétique de La Comédie humaine» che egli assume come esempio e modello della «réécriture comme pratique permanente, comme espace réflexif propre à récapituler et réorienter tous les possibles di déjà écrit» (p. 7). Non meno significativa e profonda è la presenza dello scrittore francese in Strindberg, per il quale Balzac assume i tratti di un ‘alter ego’ dell’autore; particolarmente vivaci e stimolanti sono poi le provocatone osservazioni di O. Wilde sul genio balzachiano visto in relazione al legame tra arte e vita; altrettanto suggestivo ci pare il conflitto interpretativo su Louis Lambert che oppone Alfonso e Macario in Una vita di I. Svevo.

  L’effetto-Comédie humaine si traduce anche nelle immagini che, di Balzac e della sua opera, ci hanno trasmesso i poeti e gli scrittori nelle loro opere: le metafore dell’«Oeuvre-monde» (James), dell’«Oeuvre-vi e» (Strindberg), del Liber mundi (Hofmannsthal) non sono che alcuni tra i paradigmi assunti per definire lo statuto del macrotesto balzachiano, la cui ricerca, mistica e mitica in Yeats, e la cui ridefinizione coinvolgono appieno l’orizzonte genetico e i processi di invenzione della Comédie humaine in quanto «espace performatif» (p. 12) e «réseau polycentrique en mouvement» (p. 14).

  «Refictionnaliser la fiction balzacienne, c’est d’emblée explorer toutes ses virtualités représentatives, et se mesurer en même temps à l’excès de la Comédie, à son pouvoir exemplaire de production de mondes possibles» (p. 15): parallelamente, non meno problematica risulta essere l’inquietante presenza della figura di Balzac « de l’autre côté du miroir» – e le sue più diverse reincarnazioni come vera e propria «fiction vivante» (p. 14). A questo proposito, riferiamoci al racconto introspettivo di Strindberg, Seul: osservando gli uomini attraverso il binocolo di Balzac, scrive l’autore, «j’avais appris aussi à regarder la vie avec les deux yeux, alors qu’avant je ne m’étais servi que d'un monocle el d’un seul oeil. Et lui, le grand magicien, il m’avait non seulement appris une certaine complaisance face au destin ou à la providence [...], mais il m’avait inspiré une sorte de religion que je voudrais appeler un christianisme aconfessionnel» (p. 212). Questo Balzac ‘fictif’, proiettato sulla scena europea della scrittura narrativa, sembra essere accolto e assorbito «dans le mouvement continuel des lectures et des reprises par lesquelles le travail de l’œuvre multiplie sa propre présence» (p. 16). Ricercando e riscoprendo un ‘autre’ Balzac, osserva l’A. in conclusione, non poursuit simultanément le premier chantre de la modernité et son plus lucide analyste, l’ancêtre de 1'invention héroïque du roman et sa conscience inquiète, le «principe absolu de la forme» et son horizon de critique et de contestation» (Ibid.). Ecco allora che lo spazio critico su Balzac che circonda e che attraversa i discorsi e le letture di questi scrittori diventa la scena di una «écriture réflechie», una sorta di viaggio immaginario della finzione e della poesia lungo le incerte, ma sempre affascinanti, strade della narrazione.

 

 

  Susi Pietri, Revue critique. Échos du bicentenaire. Stupazzoni (Marco), “Echi Italiani del Bicentenario Balzachiano”, “Quaderni del CRIER” (Centre universitaire de recherche sur le voyage en Italie, Université de Vérone), Supplemento al n° 4, 2000, 142 p., «L’Année balzacienne», 2003, Troisième série, 4, Paris, Presses Universitaires de France, 2004, pp. 376-377.

 

 

  Sandra Pietrini, Attrici. Commedianti e ‘cocottes’, in Fuori scena. Il Teatro dietro le quinte nell’Ottocento, Roma, Bulzoni editore, 2004 («Biblioteca teatrale», 130), pp. 167-219.

 

  pp. 174-175. Nelle Illusions perdues di Balzac, Lucien viene allettato soprattutto dalla prospettiva di una brillante carriera nel giornalismo come critico drammatico, ma la torbida malia del retroscena agisce fin da prima su di lui predisponendolo a una totale resa morale. Come possono ammaliare gli «sporchi corridoi ingombri di macchine», dove si respira l’aria soffocante dei lumi ad olio? Eppure, «il vento del disordine e l’aria della voluttà» vi aleggiano come esche pronte a catturare giovani ambiziosi giunti a Parigi pieni di speranze come Lucien. Sebbene sia un luogo oscuro e lercio, dall’aria satura e ammorbante, il teatro dietro le quinte possiede attrattive irresistibili; è come una realtà parallela in cui vigono regole assurde e si dissolvono i valori morali. L’accesso alle coulisses, ai retroscena del teatro, è oltretutto ambito in quanto apparentemente riservato a pochi eletti [...].

  pp. 198-199. Nella narrativa dell’Ottocento, l’idea che la finzione sia per le donne una predisposizione naturale prevale tuttavia sulla teoria dei condizionamenti culturali. I romanzieri alludono spesso alla capacità femminile di fingere, spesso utilizzata per ingannare e talvolta assimilata alla recitazione. Diane d’Uxelles, la protagonista del lungo racconto di Balzac Les secrets de la princesse de Cadignan (I segreti della principessa di Cadignan, 1844), dopo aver rovinato numerosi amanti ricorre all’astuzia e alla simulazione per conquistarsi un amore sincero Non è incapace di amare il giovane scrittore, ma si rende conto che per suscitare una vera passione deve usare tutta la malizia mondana che le movimentate esperienze dei suoi trentasei anni le hanno insegnato. Sospendendo in qualche misura il giudizio morale, Balzac osserva che «sarebbe delizioso essere ingannati a lungo così. Senza dubbio Talma, sulla scena, è stato spesso molto al di sopra della natura. Ma la principessa di Cadignan non è forse la più grande attrice dei nostri tempi? A questa donna non manca che una platea attenta».

  In altre personalità, meno complesse ed evolute della principessa, la capacità di fingere può diventare una tendenza alla teatralizzazione nel senso più deleterio del termine, alla rappresentazione melodrammatica di false passioni cd emozioni. In Splendeurs et misères des courtisanes (Splendori e miserie delle cortigiane, 1847), Europa — la collaboratrice dell’ex galeotto Jacques Collin che questi mette al servizio di Esther – è una mezzana che ricorre senza scrupoli ad atteggiamenti enfatici e teatrali, certamente ispirati ai drammi a forti tinte dell’epoca. Sono gli anni del mélo e di Frédérick Lemaître, del successo dei teatri dei boulevard davanti ai quali i parigini fanno la fila per entrare. Come scrive lo stesso Balzac, «tutta Parigi si recava allora alla Porte Saint-Martin, per assistere a uno di quei drammi ai quali la forza degli attori comunica un’impressione di realtà terribile, Richard d’Arlington [di Alexandre Dumas padre]». Mentre la recitazione di forza fa sembrare vere le avventurose peripezie della scena, nella vita quotidiana l’enfasi dei gesti e dei toni ispirata alle rappresentazioni sfocia però in una teatralità che rivela l’artificio. Come nei romanzi d’appendice, nella narrativa di Balzac e di Zola le pose di retorica sentimentale sono ricorrenti, ma per lo più in quanto espressione di emozioni simulate. Grazie alla loro capacità di fingere, anche le donne più prosaiche e triviali possono somigliare alle grandi attrici, di cui ricalcano pose e atteggiamenti, e per fare effetto sul barone di Nucingen la scaltra Europa accompagna le sue parole «commentando il suo dubbio con un gesto che avrebbe fatto invidia alla signorina Dupont, l'ultima attrice giovane del Théâtre Français». [...].

  pp. 207-209. Attrici e cortigiane sono accomunale da un insaziabile desiderio di purezza, che si rivela in tutta la sua profondità nel momento in cui amano veramente. Questa analogia, spesso implicita, è enunciata chiaramente da Honoré de Balzac in Splendeurs et misères des courtisanes. Esther, l’ex prostituta usata dal falso abate Carlos Herrera (un travestimento dell’evaso Jacques Collin) per spillare denaro al vecchio barone di Nucingen, è un esempio lampante di eroina del riscatto, che infine si uccide lasciando tutti i suoi beni all’adorato Lucien. dopo averlo amato «per sei anni come amano le attrici e le cortigiane che, rotolatesi nel fango e nelle impurità, hanno sete di azioni nobili, delle devozioni dell’amore vero, e che ne praticano allora l’esclusiva». Quando Esther è costretta, per amore di Lucien, a fingersi innamorata del barone di Nucingen. è lacerata dal «profondo disprezzo che l’angelo d’amore, racchiuso nella cortigiana, portava a quella parte infame e odiosa recitata dal corpo in presenza dell’anima». La dicotomia enunciata dalla metafora teatrale ribadisce i termini e i valori dominanti: il corpo è dalla parte delle apparenze e della finzione, mentre l’interiorità custodisce l’autenticità dei sentimenti.

  Balzac ripropone il tema anche in altre opere, impiegando le stesse metafore e similitudini per le attrici e le cortigiane: una vita dissoluta e disperata provoca in loro un’esasperazione della sensibilità affettiva, un anelito verso i sentimenti più elevati, «una poesia sconosciuta alle altre donne alle quali, fortunatamente, mancano questi violenti contrasti». Nel racconto Massimilla Doni (1839) la cantante siciliana Clarina Tinti si ritrova nel letto, per un equivoco, il giovane Emilio Memmi, innamorato della splendida duchessa eponima. La scena è di un’irresistibile malizia, anche perché la Tinti entra nella stanza insieme al vecchio duca suo amante (e marito di Massimilla), le cui deboli proteste si infrangono contro le sfrontate provocazioni della cantante [...].

  Rassegnato alle bizze dell’adorata diva, il vecchio duca se ne va lasciandola sola con Emilio. La Tinti usa dunque le sue doti di attrice per avere il sopravvento sul duca e riesce a riprendere in mano la sconcertante situazione. Appena cacciato l’amante, però, il suo atteggiamento mura di colpo e all’istinto di attrice subentra quello di femmina [...].

  E si mette a cantare, con la voce turbata dal desiderio, senza l’ostentazione fiera dei suoi atteggiamenti teatrali ma «umile come la cortigiana innamorata». Donne abituate a suscitare la bramosia nelle folle e a imporre i propri capricci ad amanti ricchi e potenti, si trasformano in deboli creature nel momento in cui sono anch’esse preda del desiderio, la cui potenza – argomenta Balzac – è persino superiore a quella del piacere, poiché in definitiva lo genera. Il desiderio amoroso ristabilisce l’equilibrio fra l’attrice-cortigiana e il mondo ribaltando la situazione, con una sorta di nemesi che riduce la donna in preda ai propri istinti. Dal calcolo astuto alla bramosia dell’animale che si piega alla volontà della natura: l’attrice non trova spazio come essere dotato di intelletto e ragione, e il suo riscatto dall’aridità della finzione la conduce senza mediazioni allo stato di femmina.

  L’attrice che si innamora di un giovane giornalista o poeta squattrinato è una figura ricorrente nei romanzi dell’Ottocento, dove anche il vecchio e ricco amante è un personaggio costante. Spesso si tratta di un pacioso banchiere o di un commerciante, immancabilmente ingannato dalla giovane diva ma pronto a perdonarle qualche scappatella. A una situazione tipica allude una litografia di Paul Gavarni, in cui un’attricetta si trucca allo specchio in camerino e rassicura il suo grasso amante sulla propria fedeltà, fingendo di disprezzare un giovane giornalista con cui è costretta a essere gentile. Nelle Illusions perdues, Coralie rinuncia al vecchio commerciante che la mantiene per appartenere soltanto a Lucien de Rubempré, che vizia come un bambino adorato. Balzac sottolinea il fatto che in Coralie “la maschera di commediante” non ha ancora avuto il sopravvento sulla sensibilità: «L’arte di rendere i sentimenti, questa sublime falsità, non aveva ancora trionfato in lei sulla natura». Coralie si eleva al di sopra del suo status morale degradato mediante un amore cieco di generosa abnegazione, quasi il riflesso distorto di una maternità negata. Da questo punto di vista, Balzac condivide in fondo i pregiudizi del suo tempo: soltanto se rinuncia alla sua radicata capacità di simulazione, l'attrice torna a essere una creatura sensibile e generosa. [...].

 

 

  Lo spettacolo dalla parte del pubblico, Ibid., pp. 261-302.

 

  Nelle Illusions perdues la presentazione di Lucien alla cugina altolocata di Louise avviene proprio sullo scalone del teatro. Poco più avanti, Balzac ci informa che Madame d’Espard, salendo le scale, aveva impartito una piccola lezione di bon ton alla cugina, consigliandole di non tenere in mano il fazzoletto spiegazzato. L’osservazione su questo dettaglio gestuale scivola en passant, sotto forma di un breve flashback, lungo il dipanarsi dell’azione, ma nella sua allusiva icasticità schiude agli occhi del lettore un nero universo di valori della mondanità. Lo scalone del teatro rappresenta per Madame de Bargeton l’ascesa al successo, l’entrata nell’Olimpo dell’aristocrazia parigina. Allieva docile e pronta, apprende subito le sfumature di eleganza della cugina, anche perché ha «l’innata distinzione» di una aristocratica». Nella sua ascesa, rinnegherà poi il povero Lucien, il cui percorso verso il successo sarà più lungo e tortuoso.

  Il provincialismo del giovane poeta emerse m modo eclatante nel salotto elegante per eccellenza, il teatro, dove ogni dettaglio assume un’enorme importanza. Quando Châtelet saluta Lucien all’Opéra, lo fa con «uno di quei saluti secchi e freddi con cui un uomo scredita un altro, indicando alla gente della buona società qual è il posto infimo che quello occupa». Mentre Châtelet ha i modi raffinati di un gran signore ed è oggetto di grande considerazione nel bel mondo, Lucien vi appare fuori luogo. Un motivo ricorrente fin dall’inizio della seconda parte del romanzo è l’inadeguatezza dell’abbigliamento di Lucien e di Madame de Bargeton – quasi una metafora che allude all’importanza delle apparenze e delle maschere nell’inesorabile gioco di potere dell’alta società. Lucien si accorge che la mise di Madame de Bargeton è fuori moda e la sua acconciatura orribile. Lo stesso effetto, come in uno specchio rivelatore, fa il poeta alla sua amante, che non può fare a meno di paragonare i modi impeccabili da vecchio dandy di Châtelet con il grezzo candore di Lucien, che le comparì davanti «nei suoi pantaloni di nanchino dell’anno prima, con la sua giubba striminzita e a buon mercato. Era bello, ma vestito in modo ridicolo». L’ambiente del teatro rivela dunque ai due amanti le rispettive debolezze della loro immagine pubblica; è la pietra di paragone su cui si misura lo scarto fra la situazione reale e le ambizioni dei due provinciali, determinati a intraprendere la scalata dell’alta società.

  Se l’astuto Châtelet conduce anche Lucien al teatro del Vaudeville non è per generosità, come Madame de Bargeton ingenuamente immagina, ma per mettere in risalto la goffaggine del giovane poeta in un ambiente frequentato da uomini di mondo. Il teatro esalta l’esteriorità, tutto ciò che determina l’appartenenza sociale e dunque, in primo luogo, l’abito e i modi. Ottenere una perfetta padronanza di questi mezzi di comunicazione significa acquisire potere, credibilità e fascino, significa entrare a far parte del milieu della gente che conta e sa esibirsi in modo appropriato alle circostanze. Nell’altro romanzo di Balzac in cui compaiono personaggi dell’ambiente teatrale, Une fille d’Ève, la contessa di Vandenesse resta deliziata nel vedere, all’Opéra, la cura particolare che Nathan ha prodigato al proprio abbigliamento. È un segno evidente del suo amore per lei, poiché fino ad allora il giornalista non si era affatto preoccupato del proprio aspetto, abitualmente trasandato e sciatto. Ma Nathan, a differenza di Lucien, può permettersi simili trascuratezze e inadempienze al culto della moda: infatti gode già di un prestigio letterario, al punto che quando viene respinto dal marito della contessa può rifugiarsi nel palco di Madame d’Espard, come per dimostrare all’impertinente aristocratico che «la Celebrità valeva la Nobiltà». [...].

  pp. 278-279. Nelle Illusions perdues il teatro non è soltanto l’ambiente in cui si svolgono alcuni episodi decisivi per lo sviluppo dell’azione, ma anche un termine di paragone ricorrente. L’analogia fra messa in scena e rappresentazione di sé riaffiora infatti a più riprese anche nelle metafore usate per descrivere il comportamento dei personaggi. A differenza di Lucien, impacciato e intimidito, Châtelet è «elegante e a suo agio come un attore che ritrova le tavole del palcoscenico del suo teatro», e i giovani parigini del faubourg Saint-Germain sfoggiano la loro eleganza «mediante una specie di messinscena».

  Mentre la scalata al successo di Madame de Bargeton segue il suo corso, i tentativi di Lucien si traducono in un fallimento. Se la sua prima apparizione al Vaudeville preannuncia una sconfitta, la seconda serata a teatro si rivela una disfatta. Procuratosi un vestito e un’acconciatura all’altezza delle sue aspirazioni, Lucien si presenta all’ingresso dell’Opéra «arricciato come un san Giovanni da processione, con tanto di panciotto, bene incravattato, ma un po’ impacciato in quella specie di astuccio dentro al quale si trovava per la prima volta». Nella società parigina tutti recitano una parte, ma Lucien non ha ancora imparato le regole del gioco. Châtelet lo saluta con degnazione di fronte agli amici altolocati, mentre de Marsay allude a lui come a «un manichino vestito alla porta d’una sartoria» e la marchesa d’Espard definisce il suo abbigliamento «da bottegaio nei giorni di festa». Il suo stratagemma di assumere il nome della madre, Rubempré. viene giudicato un’ignobile audacia dal milieu aristocratico, che lo respinge e lo deride, mentre un suo semplice gesto per indicare un palco provoca un moto di dispetto nella sua amante.

  Lucien non è meno ambizioso e spregiudicato di Madame de Bargeton; è soltanto più impetuoso e meno abile nell’organizzare la propria entrata nell’alta società. Significativamente, è da un teatro dei boulevard, l’Ambigu-Comique, che dovrà ripartire per penetrare nella cerchia delle persone che contano: non più come spettatore, ma introducendosi nell’ambiente dietro le quinte e intraprendendo la professione di giornalista. I palchi-salotto dell’aristocrazia hanno i loro retroscena, che non consistono in luoghi fisici ma in un complesso gioco di ruoli. Lucien non è ancora pronto a improvvisarvi una parte, mentre riuscirà egregiamente a cavarsela operando dietro le quinte dei teatri e del giornalismo, attraverso caustici e brillanti elzeviri che lo porteranno alla ribalta. [...].

  pp. 281-282. L’ambiente teatrale rende dunque a ufficializzare i legami illeciti attraverso le forme convenzionali della mondanità, rivestendo di una patina di decoro situazioni decisamente promiscue. I palchi sono piccole stanze private ma allo stesso tempo scene pubbliche, che in qualche misura rivelano all’esterno le tensioni e i desideri del clan che li abita. In Massimilla Doni, gli spettatori osservano il palco della duchessa protagonista domandandosi a che punto sia la sua relazione con Emilio e, poiché nel volto di lui scorgono soltanto «l’espressione di un amore puro e malinconico», ne concludono che Massimilla non si è ancora concessa al suo desiderio. Quanto alle visite nei palchi, raramente passano inosservate; sono anzi regolate da precise convenzioni mondane e nella Chartreuse de Parme il conte Mosca si domanda quanto tempo poca restare presso la contessa Pietranera senza che il suo comportamento sia giudicato sconveniente.

  Nell’osservare che in Italia i palchi sono il regno incontrastato delle donne, che vi ricevono visite protette dalla penombra e dai tendaggi, Balzac ripropone la dinamica già descritta da Stendhal e in parte da lady Morgan: vari uomini partecipano alia conversazione e, a mano a mano che qualcuno si congeda, un altro prende il suo posto accanto alla «maîtresse de la loge». Balzac nota che in Italia l’uso dei palchi è molto più disinvolto e sembra voler suggerire che le francesi fanno sfoggio di tutto il loro splendore di gran dame ma sono costrette nel loro ruolo, mentre le italiane riducono i palchi a salottini privati in cui sono libere di presentarsi anche in modo più negligé. [ ...].

 

 

  Daniela Pizzagalli, L’amore di Milano (1834-1838), in L’Amica. Clara Maffei e il suo salotto nel Risorgimento, Milano, BUR Saggi, 2004, pp. 16-32.

 

  Cfr. 1997.

 

 

  Magda Poli, Le cubiste di Pitoiset tradiscono Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 27 novembre 2004, p. 38.

 

  Quando si porta in scena un’opera non nata per la scena bisogna catturarne l’anima e riesprimerla nel nuovo linguaggio. Questa impresa non riesce a Dominique Pitoiset, regista e drammaturgo, che propone per lo Stabile di Torino La comédie humaine, spettacolo che accosta, nella bella traduzione di Luca Fontana due opere di Honoré de Balzac, Il talismano e Il capolavoro ignoto. La ricchezza evocativa balzachiana si rattrappisce in chiavi di lettura senza echi e risonanze che non spalancano nuovi orizzonti sui testi, ma li semplificano. Il talismano è una magica pelle di zigrino che consentirà al giovane poeta che sta per suicidarsi (Mariano Pirrello) di soddisfare ogni desiderio di gloria e potenza, ma che, a ogni desiderio esaudito, si rimpicciolirà. Quando sarà un grano di polvere, la vita de poeta finirà. Pitoiset immerge la vicenda in un oggi volgare e cialtrone, tra cubiste, manager in nero, musica techno, in una società in corsa per soldi e potere. Uno spunto che da riflessione socio filosofica in una lunga narrazione si perde e scivola in feuilleton. In una messinscena priva di tensioni e magia, si spegne il celebre Il capolavoro ignoto, ridotto a una sorta di patto faustiano di un giovane pittore pronto a vendere la sua amata per carpire a un eccentrico maestro ossessionato dal vero (Roberto Abbati) il segreto dell’arte.

 

  La comédie humaine di Balzac. Regia di Dominique Pitoiset. Con Mariano Pirrello, Roberto Abbati. Alla Cavallerizza di Torino.

 

 

  Pier Massimo Prosio, Balzac, in Stendhal e altri viaggiatori a Torino, Moncalieri, Centro Interuniversitario di Ricerche sul Viaggio in Italia, 2004 («Biblioteca del Viaggio in Italia», 69), pp. 145-157.

 

  In questo variopinto mosaico di ritratti e di esperienze di viaggio compiute a Torino da illustri rappresentanti della cultura europea, trova la sua collocazione più adatta e appropriata anche l’autore della Comédie humaine, protagonista del suo primo viaggio in Italia proprio a Torino nel 1836.

 

  Cfr. 1975.

 

 

  Alessandro Prunas, Gli specchi di Balzac, «In vena di scherzi», Novembre 2004, pp. 1-19, on-line.

 

  [...] la connotazione di guazzabuglio avanzata da Sainte-Beuve in rapporto allo straripante realismo balzachiano (e attribuiamo premeditatamente alla categoria realismo una dimensione estesa, generica, per certi versi impropria poiché spogliata di specificità storiche) sembra, oltre che sensata, difficilmente criticabile. In Balzac, il rischio di perdersi, di decentrarsi, è altissimo; d’altro canto, però, quello stesso rischio va controbilanciato, fronteggiato con una costanza priva di finalità (le finalità sono quasi sempre devianti rispetto alla pura attitudine alla meraviglia), e alla fine comparato alle fulgide impressioni, ai pezzi rari e alle autentiche gemme con cui si riemerge da un tale naufragio letterario. Tutta la grandiosità e il rischio della dispersione cominciano a interagire nell’attimo in cui il lettore mette da parte le riserve, si lascia trascinare e rimescolare nelle arterie della metropoli raccontata comprimere con variazioni di abbrivio tra le sue strutture anatomizzate, avvertendo in sottofondo il lavorio di una mente che è indiscreta quanto quella di uno studioso, divorata dall’ossessione per i collegamenti, in una sintonia abissale ed esclusiva con i nessi segreti che intercorrono tra l’uomo e il suo habitat sociale.

  In un senso profondo, la scrittura di Balzac appartiene a quel vasto spettro di manifestazioni artistiche caratterizzate dalla fenomenologia dello specchio. È qui che il contrassegno del realismo esibisce tutta la sua potenzialità nascosta, il suo lato oscuro. [...].

  Si potrebbe – al fine di chiarire ancora meglio “la particolare potenza di Balzac” – coltivare un’altra intuizione, ideale prolungamento della fenomenologia dello specchio: la relazione mappa-territorio.

  Balzac traspone sulla carta, sulla mappa del romanzo – con i suoi codici e le sue estensioni – tanto la massa organica quanto quella inorganica del territorio reale, giungendo quasi a fendere la comoda membrana concettuale che tra questi due ambiti si tenta di mantenere. Tuttavia, nel suo caso, questa dialettica instabile tra mappa e territorio non rientra affatto nell’ingenua pretesa di ridurre e annettere l’intera realtà al romanzo, la concretezza empirica del mondo al reticolo della letteratura, e quindi l’immenso territorio alla ristretta, per quanto precisa, mappa disegnata. Se Balzac non pare intenzionato a ricreare o a imitare semplicemente la realtà attraverso la scrittura (scrittura che sarebbe una copia banalissima, frutto di una sciagurata ambizione; una parodia, più che una fedele imitazione, di qualcosa che resta inaccessibile a ogni riduzione artistica), è perché in lui l’elemento propulsivo è ben diverso. Si ritrova, nel suo incedere, la tenacia dell’indagatore a tutto campo; sono la curiosità e il furor scientifico a spingerlo, ed è l’ossessione per la raccolta e la sistemazione dei dati a logorarlo.

  Balzac non vuole soltanto narrare. Pare, piuttosto, che egli si immerga, quasi fosse uno strano congegno dotato di molteplici sensori, nelle sovrapposizioni del reale – che sono sempre incerte, semiliquide; come negli specchi paralleli, il reale è quel tunnel dove le prospettive si ampliano, dove il linguaggio modella e assottiglia e allo stesso tempo arricchisce di nuove sfumature ciò che prima era ignoto, opaco, innominato, non-distaccato dallo sfondo; dove l’uomo pensa e comprende il mondo per mezzo del linguaggio, ma è a sua volta condizionato da quest’ultimo a vedere il mondo in un certo modo, poi in un modo magari capovolto, e alla fine in tutti i modi che la riflessione rende possibili. Immergendosi, Balzac sembra conservare piena coscienza del fatto che i suoi studi, le sue scene della vita (recuperate dalla vita, dallo scorrere tumultuoso del sangue nelle arterie architettoniche e sociali), rimarranno tali, non andranno oltre ciò che sono – tentativi analoghi a quelli di un biologo e a quelli di un pittore. Anzi, le sue opere sono proprio il tentativo di associare la visione del biologo, del sociologo, dell'antropologo, alla visione del pittore, del poeta per immagini; con un fervore sempre più inclemente, lo scrittore si avvicina a incarnare questa sorta di mente ibrida, le cui proiezioni complesse assomigliano davvero poco alle azioni generative di un dio marmoreo, avulso dalla materia che tratta (quell’Artista-Dio che costituisce il termine di paragone cui si affida Sainte-Beuve, come abbiamo visto, nel contrapporre Goethe a Balzac), mentre ricordano moltissimo embrioni di mappe tridimensionali, agglomerati di immagini virtuali all’interno delle quali è il pensiero stesso che naviga, acquisendo conoscenze, decodificando le approssimazioni e, a volte, smarrendosi.

  Solo grazie a questa tensione mai placata, a questa folle curiosità, allo sviluppo di una nuova liricità analitica, alla spinta di un’osservazione e una cognizione polarizzate dal caos del mondo – solo attraverso tutto ciò, Balzac può sentire di avvicinarsi a “quello che avviene dovunque” (come scrive in una lettera del 1834).

  Il tessuto descrittivo balzachiano, seppur contrassegnato da un’istanza morale ben riconoscibile, è poliedrico, traboccante, scosso da implacabili energie interne. Gli effetti di luce da cui i luoghi vengono sezionati, le prospettive graffianti tra ironia e tragedia, i quadri in cui ci si imbatte – anche negli scritti minori – serbano una qualche forza definitiva in grado di trasmettere il proprio andamento a tutto il resto. Si prenda, ad esempio, l’incipit di Ferragus [...].

  Osserviamo ancora quell’incipit: Balzac si accosta al territorio quasi planando. Non ci sono, sulla mappa, linee rette o comode scorciatoie che conducano subito alla vicenda centrale. Perché a Balzac interessa Parigi – la storia è poco più di un pretesto. Lentamente, la descrizione conferisce al luogo l’apparenza d’insieme della carta topografica, ma le linee sono contorte, erratiche, scavano sotto la crosta terrestre, trovano antiche gallerie di significato, risalgono in superficie. Balzac non inibisce il potenziale del suo occhio sistematico; anzi, lo lascia sfogare appieno, come se da questo dipendessero l’onestà e l’attendibilità del suo metodo (il quale è un metodo scientifico, oltre che figurativo, oltre che immaginativo). Ne consegue una descrizione che nessuna copia, nessuna semplice mimesi letteraria del mondo concreto, del mondo in-sé, potrebbero reggere. C’è un’addizione fondamentale; c’è, in più, il pensiero. La riflessione, accanto al riflesso.

  A questo punto, l’unico gesto possibile è l’abbandono, un inabissamento nella lettura che talloni, come un complice silenzioso, l’inabissamento della scrittura.

  “La particolare potenza di Balzac” si estende nel mondo e sul mondo, e il realismo così definito non è altro che l’abnorme lavoro deciso a colmare, senza successo (o forse con un successo parziale e imprevisto), la distanza tra il territorio e la mappa, portando la mappa dentro il territorio, scagliando la riflessione nel cuore del mondo di luce da cui proviene. L’artista (o il ricercatore, o il congegno dotato di sensori) – qualunque ruolo egli assuma, spingendosi sulle distese di spazio formicolanti di gesti, cose inanimate, parole, congetture, forme viventi, ed estendendosi al grado massimo delle sue possibilità descrittive -a partire da un certo momento si ‘spande’ e viene assimilato.

  Nella scrittura di Balzac non conta che la linea più breve per congiungere due punti sia, da sempre, una linea retta.

  Per decifrare il senso di questa asserzione-chiave, e per ottenerne uno schema visivo che possa aiutarci, analizzeremo la struttura delle cosiddette figure geometriche frattali [...].

  I frattali sono figure geometriche di forma irregolare o frammentata, che nascono da considerazioni matematiche astratte, e si generano attraverso continue divisioni dei tratti della figura, tratti che sono a loro volta i risultati di divisioni antecedenti. La loro caratteristica principale è data dall’autosimilarità: ingrandendo un qualsiasi tratto di una curva frattale, si visualizza un insieme di particolari che riprende, in scala ridotta, lo schema macroscopico (in cui cioè ogni parte “più piccola” appare approssimativamente simile all’intera figura). [...].

  Possiamo guardare all’opera di Balzac come a un frattale la cui radice letteraria è – e resta – umana; nel suo compimento, quindi, l’immaginazione e l’osservazione rigorosa appaiono risolte, frenate dalla forma della cornice, limitate. Per quanto ampia, la descrizione a un certo punto si chiude. La grande commedia incontra il suo epilogo. Balzac deve fare i conti con i margini del foglio, la finitezza del disegno, con la punta della matita diventata troppo grande in relazione ai particolari che ancora vorrebbe disegnare, e che potrebbero trovare spazio e vie di fuga nell’infinitamente piccolo. L’autosimilarità della scrittura balzachiana – espressa nello stile, nel tocco che accomuna ambiente e personaggi, nella presenza in sottofondo di quel costante contraccolpo morale cui abbiamo accennato, nella digressione, nella costruzione itinerante, nella ricerca smaniosa di un sistema il più possibile completo, nella miscela di “vivacità e foga, ma anche caso e molto fumo” di cui parla Sainte-Beuve – ebbene, questa autosimilarità letteraria può presentarsi in scale differenti, su mappe dettagliate, può aumentare di tre o quattro gradi nell’intensificazione della scrupolosità verso l’oggetto descritto (che siano la neuropatologia dell’animale-città o il dinamismo delle folle, i contrasti tra i singoli personaggi o la progettazione di armonie collettive), può disporre le parole in un’analogia che si riveli funzionale al suo continuo avvicinamento al mondo in-sé, può congiungere, mediare, ma non può realizzare l’assoluto di una descrizione infinita.

  Tra gli specchi di Balzac c’è, pur sempre, soltanto un metro di distanza.

 

 

  Franco Quadri, La Comédie humaine fa sempre la sua figura, «la Repubblica», Roma, 29 novembre 2004, p. 38.

 

  Bentornato Dominique Pitoiset che nel ciclo della Comédie Humaine è andato a puntare nel filone degli studi filosofici balzacchiani e in particolare su storie di artisti infelici. Nel Talismano un poeta maudit si lascia tentare dal possesso di una pelle di zigrino, secondo la leggenda appartenuta addirittura a Salomone, che gli permette di realizzare ogni suo desiderio accorciandogli però la vita ogni volta, fino a essergli presto fatale. Il capolavoro ignoto ci mostra invece un pittore immaginario che da sempre aspira a dar vita a un suo ritratto di donna, ma che finirà svergognato da due colleghi. Questo testo, adattato dal regista ed espresso con la stessa fine malizia del primo dalla traduzione di Luca Fontana, riesce più diretto ed efficace, anche se tirato un po’ via, ma con ritmo nello spazio maestoso della Cavallerizza, affastellato sul fondo da mobili e porte, che non l’atto precedente. [...].

 

 

  Maurizio Quilici, Il grido di papà Goriot, «TSP notizie. Notiziario dell’ISP-Istituto di studi sulla paternità», Roma, Anno XIV, n. 4, ottobre/novembre/dicembre 2004, p. 1.

 

  In questo intervento, Maurizio Quilici, presidente dell’Istituto di studi sulla paternità, riflette sul ruolo del padre nella società contemporanea facendo proprio il terribile e profetico grido del père Goriot, il quale, prossimo a morire nella solitudine, denuncia a se stesso e al mondo l’ormai calpestata dignità della figura paterna intesa come fondamento e garante del vivere sociale e civile.

 

 

  Gianfranco Ravasi, Mattutino. Come? Perché?, «Avvenire», Milano, 11 marzo 2004.

 

  Sa che ho bisogno ogni giorno di una citazione per alimentare questa rubrica e, così, un’amica che insegna francese mi fa avere questa frase per il “Mattutino” di oggi. Essa è tratta, infatti, da uno dei tanti romanzi dello scrittore francese Honoré de Balzac (1799-1850), La pelle dello zigrino. La domanda è effettivamente la molla che fa scattare la ricerca e quindi genera la scoperta e crea un tessuto di conoscenze. Sono tante le considerazioni che la nota di Balzac può suggerire. Innanzitutto quella relativa ai nostri giorni ove si assiste forse al proliferare delle domande, ma esse sono più frutto di curiosità che non di approfondimento.

 

 

  Riccardo Reim, «Le Père Goriot» e «La Comédie humaine», in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., pp. 7-12.

 

  [...]. L’economica pensione gestita da Madame Vauquer, oscura caverna di una Parigi sconosciuta, ospita il “coro” di figuranti che fanno ala attorno alla figura del protagonista, ed è un vero e proprio microcosmo che diviene specchio deformante (ma al tempo stesso inquietantemente fedele) del macrocosmo cittadino nel quale il giovane Eugène de Rastignac, nel suo avventuroso e difficile apprentissage, tenta i primi passi con l’ingenuità e la felice grazia della giovinezza, guidandovi per mano anche il lettore. È proprio questo “coro” a esigere, anzi imporre il passaggio dalla novella al romanzo: il contrasto con la sordida pensione borghese della rue Neuve-Sainte-Geneviève e gli eleganti salotti dell’alta società parigina viene reso da Balzac con straordinaria abilità: le due figlie di Goriot (sposate una con un banchiere, l’altra con un aristocratico) e il giovane Rastignac con il suo nome di antica nobiltà fanno da ponte tra questi due mondi, il cui contrasto permette antitesi e corruschi giochi di luce. Una pennellata dopo l’altra, l’autore porta avanti il suo affresco con spietata lucidità, descrivendo una giungla che altro non è che «un ’accozzaglia di sciocchi e di furfanti» dove bisogna considerare uomini e donne «come cavalli di posta da lasciar crepare a ogni tappa», senza il minimo spazio per i sentimenti e gli ideali, in cui «il segreto delle grandi ricchezze apparentemente inspiegabili è un delitto caduto nel dimenticatoio grazie al fatto che è stato perpetrato con eleganza»; un mondo che sembra non concedere scampo, popolato di disonesti e di arrivisti, dove l’egoismo e il cinismo tengono il campo da padroni assoluti, come dimostra in modo esemplare il destino del vecchio Goriot, simbolo vivente dell’amara lezione che Rastignac (il quale riesce comunque a mantenere una segreta purezza anche quando sembra acconsentire alla propria degradazione morale) riceve giorno dopo giorno dalla vita: la sua paternità sublime e cieca, il suo attaccamento quasi demente alle figlie saranno ripagati con la freddezza, l’ingratitudine e l’abbandono; verrà spogliato di tutto, spolpato come una preda inerme, privato perfino del necessario, calato nella miseria fino al limite dell’indigenza, abbandonato a morire come una bestia nella sua cuccia miserabile e infetta, mentre la sua adorata Fifine e la sua dolce Nasie sfoggiano vestiti e gioielli al fastoso ricevimento di Madame de Beauséant ... Delphine e Anastasie Goriot (come papà Grandet) rappresentano la nuova umanità avida e spietata, mentre il vecchio Goriot (come Eugénie) è un resto patetico e distruttibile di una storia che fu. Vittima delle sue figlie ma anche di se stesso (costruisce giorno per giorno con le sue amorose mani la catastrofe verso la quale si avvia con l’incoscienza di un cieco o di un sonnambulo), papà Goriot, autentico re Lear rovesciato, soccombe di fronte alla propria devastante idea fissa come tanti altri “monomani” di Balzac, tasselli di quel gigantesco puzzle che è la Comédie humaine, mondo immaginario dove vigono le medesime leggi della società reale, creazione di cui lo scrittore si fa sovrano indiscusso, forgiando vite e regolando destini, decidendo senza possibilità di appello, come Dio. [...].

 

 

  Riccardo Reim, Balzac, la «Comédie humaine» e la famiglia Grandet, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. La cugina Bette ... cit., pp. 17-20.

 

  Nel 1833, quando Eugénie Grandet fa la sua comparsa nelle vetrine dei librai, Honoré de Balzac ha trentaquattro anni: è nato il 20 maggio 1799 e morirà il 18 agosto 1850; mezzo secolo di vita che viene a coincidere perfettamente con l’affermarsi e il consolidarsi del dominio borghese in Francia. Ha dunque ragione Pietro Paolo Trompeo quando, a proposito di questo «Omero della borghesia egoista e affarista» osserva come «la Cronologia, che nel teatro della Storia ha tutt’al più la parte del buttafuori e che in certi casi sembra sbadata e inopportuna, nel caso di Balzac è stata puntualissima e quasi geniale»: cos’è infatti la Comédie humaine, questo labirinto in cui il lettore rischia disperdersi, questo «grande archivio di polizia» nella cui fitta rete «le esistenze si stemperano, si esaltano e si distruggono, ognuna legata all’altra come l’ostrica alla sua valva», se non l’epopea al negativo di quella borghesia gretta, avida e meschina che lo scrittore tanto disprezzava e detestava ritraendola con aristocratica e inappellabile crudeltà? Balzac, potremmo dire, trascina la sua platea in palcoscenico elevandola a protagonista, offrendole un’immensa galleria di specchi deformanti (ma atrocemente rivelatori) in cui riflettersi ed eventualmente riconoscersi: «tutti sono sottoposti a un rapido processo di semplificazione e classificazione», ogni personaggio è una sorta di «voce» che va man mano a comporre una nuova enciclopedia dove il genere umano è allo stato di animalità, dove la psicologia parte dalla fisiologia, dove non esistono barriere tra il materiale e l’immateriale. «Un cas pathologique», come ipotizzava Émile Zola? ... Balzac parte dall’occhio, dall’esperienza: vede, ha una mostruosa capacità di vedere, e nel suo stesso sconfinato, allucinato “realismo” (e “realismo”, bisogna ricordarsene, per Balzac non è affatto antitetico a “romanticismo”, tutt’altro) si innesta in forza del visionario. Se ne accorse Baudelaire, e ancora prima di lui se ne accorsero Philarète Chasles e Théophile Gautier. Come osserva Giovanni Macchia, è «la “visionarietà” del reale rivelata col massimo di precisione. Vedere: l’ossessione dell’occhio, dello sguardo, che raggiunge la profondità e il “cuore romantico delle cose", su cui i nostri moderni romanzieri nutrono non ingiustificati sospetti». Ed è ancora Giovanni Macchia, sempre a proposito di Balzac, a citare le parole di «un romanziere che gli sta tanto lontano», Alain Robbe-Grillet: «Rien n’est plus fantastique que la précision». Nulla è più fantastico della precisione. Con tutto il suo essere “lontano”. Balzac doveva pensarla allo stesso modo.

  Prima di giungere alla «preoccupazione estrema della rappresentazione esatta» e a interessarsi di «ce qui se passe partout» (la vera svolta avviene nel 1829 con Le Dernier Chouan, il primo romanzo firmato con il suo vero nome e la prima opera a essere inclusa, successivamente, nel piano della Comédie humaine), Balzac, come nota ancora Zola, «si era smarrito per lungo tempo nelle più stravaganti fantasie, ricercando false mostruosità e false grandezze». I suoi inizi di scrittore (all’insegna degli altisonanti pseudonimi di Horace de Saint-Aubin, Lord R’Hoone, Alfred de Viellerglé) sono infatti oscuri, vili, quasi umilianti: libri come l’Héritière de Birague, Le Vicaire des Ardennes, Clotilde ou le beau Juif, Le Centenaire ou les deux Béringheld, con i quali tenta, senza successo, la carta del romanzo popolare, sono dei brutti pasticci in cui galleggiano alla rinfusa ricordi e cascami di Scott, Byron, Nodier, nonché dei romanzi gotici di Ann Radcliffe e del Melmoth di Charles Robert Maturin, infarciti di pallide vergini, spietati persecutori, eroi satanici, segreti inconfessabili, crimini raccapriccianti, efferati delitti e luminose redenzioni ... «Cochonneries litteraires», insomma, come lo stesso autore non esiterà ad ammettere alcuni anni dopo, ma dove già, sia pure embrionalmente, risultano bene evidenti pregi e difetti di Balzac, come il suo vigore nel delineare in poche righe personaggi, ambienti e luoghi ma anche «la sua maniera rozza, incredibile di sviluppare vicende romanzesche», ricorrendo senza esitazione a «trucchi da mestierante e sdolcinature intollerabili», al punto di farsi tacciare da più di un critico (da Taine a Gide a Zweig) con gli attributi di “grossier ” e “vulgaire”. Anche per il Balzac della piena maturità, dunque, sembra tornare giusta l’osservazione di Pietro Paolo Trompeo: «Credo si possa affermare con sicurezza che in Balzac l’ambientista, il ritrattista e lo storico si lasciano indietro di gran lunga il narratore-inventore: quanto questi è maldestro e arruffone, tanto quelli sono vigorosi, intelligenti e profondi. Quel che Balzac ha da dirci, la sua grande parola, Balzac ce la dice nella rappresentazione degli ambienti in cui i suoi personaggi vivono e nella descrizione della fisionomia di questi: ambienti e fisionomie si rispondono come la terra e la pianta, e in essi è la preparazione e la rivelazione dei caratteri. (...) Il fascino di quelle descrizioni e di quei ritratti ci prende e non ci lascia, e poco importa se il racconto che segue ci appare come un corollario, inutile e magari sbagliato, con cui il moralista crede di perfezionare la rivelazione che aveva da farci». Un moralista, dunque – nel senso di «osservatore dei costumi umani», dato che scruta, studia, classifica, semplifica –, come è nella grande tradizione della letteratura francese? O forse un ritrattista? («Chi meglio di lui ha dipinto i vecchi e le belle dell’Impero, le duchesse e le viscontesse vissute alla fine della Restaurazione, e la classe borghese che trionfò sotto la dinastia di Luglio?», si chiedeva Sainte-Beuve in un lundi del 1850, poco dopo la morte dello scrittore), ma un ritrattista certamente vicino a Daumier, non a Daguerre. Un realista suo malgrado, come afferma Engels, o uno scrittore nel quale progetto ed esecuzione, pensatore e uomo politico si trovano in costante contraddizione, come asserisce Lukàcs? .... O magari una sorta di ricercatore mistico di un’ipotetica «terza via»? Un Balzac contro-realista, insomma, latore al tempo stesso di messaggi sia «palesi» che «occulti», uno scrittore, come conclude Ferdinando Camon, «contro la realtà perché «contro la storia», che riusciva a scorgere perfettamente, con sguardo impietoso, «la salutare necessità della fine dell’aristocrazia, ma nello stesso tempo ne descriveva l’agonia e la scomparsa con un’abbondante dose di nostalgia», ricercatore insoddisfatto di nuove, introvabili verità che il suo tempo non poteva offrirgli: «Balzac, sì sconfinava nell’utopia. Ma l’utopia non era il suo scopo, né costituiva il suo appagamento: era il suo dramma».

  Eugénie Grandet (concepito in origine come una novella da includere nelle Scènes de la vie de province) viene pubblicato nel dicembre 1833, subito accolto da una critica entusiasta che lo saluta quasi unanimemente come un capolavoro. Romanzo fondamentale nell’opera di Balzac (è, in effetti, il primo grande libro, con decine e decine di ammiratori devoti, come Dostoevskij che addirittura volle tradurlo in russo), questa storia in grisaille dà inizio al vero e proprio «genere balzachiano», con «i suoi caratteri “eccessivi”, le passioni dominatiti e lo sfondo sociale che lo scrittore d’ora in poi metterà a fuoco crudamente nella sua epica in negativo: quello del capitalismo nascente, di una borghesia intraprendente e avida, che deriva il suo potere non più dalla tesaurizzazione e dal risparmio, ma dalla compravendita e dalla speculazione». Ambientato nella torpida, malinconica cittadina di Saumur, il romanzo – di una linearità insolita che esalta le esemplari figure dei due protagonisti, il vecchio Grandet e sua figlia Eugénie, alle quali si affianca quella di Charles, il cugino senza scrupoli – contrappone «l’amore dell’oro» all’«amore», la smania di «possedere» alla volontà di «dare». Ogni pagina è permeata dal senso del denaro che urge sotto la vita degli uomini e delle cose, mutando volti e aspetti»: sarà proprio questa «urgenza» ad annientare Eugénie, vittima insieme dell’avarizia e del cinismo, questa spietata mistica dell’oro incarnata dal grandioso personaggio di papà Grandet, vero «monumento di monotonia cui soccorre incessantemente un estenuante bisogno di dominio»; moderno Harpagon (ma il personaggio di Molière è tutt’altra cosa e il paragone – del quale lo stesso Balzac si gloriava – e valido soltanto sensu lato) per il quale «la vita è un affare», capostipite di tutta una serie di figure sinistre e deformi che troveranno man mano posto in quell’«universo altro» che è la Comédie humaine.

 

 

  Rosa Romano Toscani, I Segreti di Balzac, Roma, Viviani Editore, 2004 («Le fonti»), pp. 173.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Parigi, settembre 1834;

  Verso la Touraine;

  Saché;

  Le Père Goriot;

  Laure de Balzac Surville;

  Anne-Charlotte-Laure Sallambier de Balzac;

  Parigi, agosto 1850.

 

  Trascriviamo il testo dell’ultimo capitolo di questa biografia romanzata dedicata a Balzac e scritta attraverso le narrazioni del personaggio di Michel-Ange, “valet de chambre” e testimone della tormentata esistenza dello scrittore francese (pp. 166-172).

 

  [...]. Le mani bianche, piccole, sottili, che Monsieur aveva tanto amato e che aveva reso immortali, tremavano nel sostenere i fogli leggermente azzurri, posati in parte sulle ginocchia. Un manto nero copriva la testa di Madame, lasciando scoperta una larga treccia di capelli che ricadeva sulle spalle.

  Le avevo appena consegnato le lettere ed ero rimasto in piedi accanto a lei, in silenzio.

  In quel lontano settembre, Monsieur mi aveva chiamato nella sua stanza e mi aveva mostrato un cofanetto intarsiato d’avorio, ancora più bello di quello nel quale conservava la posta di Evelyne.

  Anche se scriveva spesso alla Contessa, mi aveva detto che aveva deciso di raccogliere le lettere scritte a Saché, e di lasciarle come testamento spirituale. Mi aveva fatto giurare di consegnargliele quand’egli non ci sarebbe stato più. Ricordo che mi ero commosso e lo avevo rassicurato che avrebbe potuto contare ciecamente su di me. Avrei conservato intatto il suo segreto. Una volta arrivati a Parigi me le avrebbe affidate e io avrei dovuto custodirle come il tesoro più prezioso della mia vita.

  Erano così belle, che prima di darle alla Contessa le avevo ricopiate, per conservarle anch’io come ricordo di quei giorni e del mio padrone.

  In quel settembre a Parigi, Monsieur, affranto dal dolore per il timore di aver perso per sempre l’amore di madame Hanska, ascoltando l’idea che mi era venuta in mente per risolvere la situazione, aveva spalancato gli occhi e mi aveva guardato, mentre stava a letto, con uno sguardo intenso. Un silenzio interminabile era sceso tra noi.

  Avevo avuto paura che si fosse adirato, invece gridò un «sì!» che mi fece balzare il cuore in petto. Ci eravamo capiti.

  Umilmente avevo contribuito, come timido Cupido, alla continuazione della loro storia d’amore, inventando uno stratagemma che potesse riavvicinare quelle due anime così grandi, che sapevano donarsi vicendevolmente in modo completo e generoso, molto diversamente dalla gente comune.

  Mi ero ricordato, in quel tempo, di un racconto che Monsieur mi aveva fatto qualche mese prima. Mi aveva narrato che durante il loro primo incontro aveva scherzato con la bella Contessa, perché lei gli aveva chiesto cosa fosse per lui una lettera d’amore. Un’accesa discussione li aveva appassionati senza riuscire a metterli d’accordo.

  «Monsieur,» gli avevo detto allora «mandi al conte Hanski una lettera d’amore indirizzata alla Contessa. Il Conte chiederà alla moglie una spiegazione, lei dovrà rispondere per non insospettirlo e spiegargli la discussione che c’era stata tra voi su questo argomento» gli suggerii timidamente.

  «La Contessa dovrà trovare delle scuse, si dovrà mostrare adirata, offesa di fronte al marito, per il fatto che lei, Monsieur, abbia mandato una lettera così compromettente senza alludere allo scherzo ideato a Ginevra. Vedrà che le risponderà sicuramente» continuai.

  Il padrone mi aveva raccontato che avevano riso, nel discutere; quanta intimità in quei giorni, quanta gioia tra loro: non poteva svanire. Forse, solo per sfogare la rabbia madame Hanska avrebbe risposto.

  Gli avevo anche consigliato di scrivere al Conte che era sua intenzione regalare alla sua sposa gli (sic) Études de moeurs. Lei allora avrebbe dovuto ringraziarlo, lei così piena di contraddizioni, dolce e amabile, alla quale Monsieur aveva fatto una dedica così concepita: «figlia di una terra schiava, angelo per l’amore, demonio per la fantasia, bambina per la fede, vecchia per l’esperienza, uomo per il cervello, donna per il cuore». Questa seconda lettera avrebbe giustificato la prima.

  Sarebbe arrivata una risposta ufficiale e una più intima con il solito messaggero. Monsieur fu contento di questa trovata, mi ringraziò e si mostrò visibilmente sollevato.

  Quando, come avevo sperato e previsto, arrivò la lettera il padrone leggeva, piangendo. Conteneva accuse violente, accuse senza ritegno. Era come avevo pensato: la bella Eve, forse proprio dalla zia Rosalie, era purtroppo venuta a conoscenza dei suoi tradimenti, delle sue ragazzate, che erano avventure senza importanza per lui, necessarie per i sensi, ma lei ne soffriva.

  Prima che chiudesse la porta della camera da letto per risponderle, gli consigliai di mentire, e lui mentì, mentì fino allo spasimo, fino a non trovare più parole.

  Ero preoccupato per la Contessa, avrebbe dovuto dormire, riposarsi per poter affrontare le fatiche del funerale. Sua figlia era a Wierzchownia e chissà quando sarebbe potuta venire a Parigi. Nelle sue lettere Anna parlava di un anno.

  Madame era sola, in una casa di dimensioni modeste rimetto alla sua dimora, anche se ugualmente elegante, rispetto alla sua dimora, anche se ugualmente elegante. Una costruzione alta e stretta, con due finestre che si affacciavano sulla strada, e altre su un lungo giardino. La facciata principale, dal tetto arcuato, aveva quattro rosoni, due in alto e due in basso, vicino al portone sul quale si appoggiava il fregio. Caminetti incorniciati da festoni dorati, sormontati da specchi, scaldavano le camere. La stanza da pranzo aveva tappezzerie di cuoio di cordoue, con fiori d’oro e d’argento, quella da letto di damasco rosso di Cina, il salone era rivestito in blu e oro. Era stata restaurata da Hardouin. Quadri, fregi, mobili intarsiati, statue, ceramiche. Il suo sposo aveva speso una fortuna per farne la casa dei suoi sogni, degna della sua regina, anche se lei aveva disapprovato tutte quelle spese.

  Monsieur era orgoglioso in particolare di avere un accesso diretto alla famosa Cappella Saint-Nicolas, dove veniva a sentire la messa la nobiltà parigina.

  Madame non aveva ancora il coraggio di aprire il cofanetto di cuoio, che poche ore prima le avevo portato rispettando le volontà del defunto, e sulla cui sommità erano incise in oro le sue iniziali.

  La Contessa aveva sposato il mio padrone per amore, anche se con un sentimento intriso di pietà e di rassegnazione. Ora ne risentiva tutto l’ardore, la passione, le affinità di cuore che l’avevano legata a lui, i pensieri che si erano scambiati in quei tanti eppure pochi anni di vita.

  Lei, anche da lontano, era sempre stata vicina a Monsieur: condivideva i suoi pensieri, sviluppava con lui le sue idee, si sentiva parte della creazione artistica, e ciò la esaltava. Madame era stata il motore della sua arte. Il mio padrone era solito dirle che uno scrittore, un pittore, un musicista, senza una musa ispiratrice non avrebbero potuto creare.

  Era stata il suo sogno, al quale egli aveva sacrificato parte della sua vita e del suo lavoro, per farlo diventare realtà, con pazienza, perseveranza e fedeltà.

  «Mon amour aimé, d’une seule caresse, tu m’as rendu la vie», le aveva detto, aggiungendo che era stata lei a ispirargli molte eroine dei suoi romanzi.

  Un libro, diceva, è ciò che il lettore lo fa essere. In questo stava l’abilità dello scrittore, nel far sì che ognuno potesse trovarvi ciò che cercava.

  Spesso, negli ultimi tempi le diceva che le persone nelle quali si riconosceva erano sempre di meno. Cercava negli amici ciò ch’egli stesso possedeva: gentilezza di cuore, altruismo e generosità, ciò che secondo lui faceva grande l’uomo.

  Aveva sempre meno bisogno di affezionarsi o di cercare rapporti, perché ormai si reggeva su di sé e le delusioni subite gli avevano fatto comprendere bene l’animo umano, molto più incline a compromessi e a falsità che a sincerità e onestà.

  Era notte fonda, la strada era deserta, nessun rumore da fuori. Evelyne alzò gli occhi: uno sguardo mesto, lontano incontrò nel cielo una luna velata dalle nuvole, che rischiarava il giardino. Gli alberi gettavano ombre sinistre sul muro, il silenzio era opprimente.

  Faceva molto caldo in quel mese d’agosto a Parigi, madame Hanska non era abituata a quelle temperature, a volte rimpiangeva i boschi verdi dell’Ucraina, gli ampi spazi, le colline, le praterie: sentiva la nostalgia della sua casa. Ora che il mio padrone se n’era andato, come avrebbe affrontato la vita in un paese straniero dove veniva chiamata ‘La Moscovita’? I rapporti con la famiglia di suo marito non erano felici, ma Eve non poteva andarsene, doveva curare la sua memoria, le sue opere.

  Mentre passeggiava tra i fiori che lui amava, stringeva al cuore il cofanetto. Non era, ancora riuscita ad aprirlo, tanto era sopraffatta dalle emozioni. Il vuoto che Monsieur aveva lasciato poteva essere colmato solo da ciò che le aveva scritto. La loro storia si ripeteva. La distanza fisica era addolcita dalla vicinanza delle parole scritte, ma ora la lontananza era eterna.

  Tornò indietro con il pensiero, ai primi tempi del loro incontro d’anime, alla lettera inviata da Odessa il 28 febbraio 1832:

  «Monsieur de Balzac, voi mi avete dato attraverso i vostri libri la certezza che il mio sogno si potesse avverare. Ciò che io leggo nei vostri romanzi è la vostra anima. Io non credevo potessero esserci al mondo creature così sublimi, ma lo speravo. L’Etrangère».

  La sua speranza si era avverata. Anche lei aveva raggiunto il suo sogno e l’aveva vissuto, e ora tornava alla realtà.

  Rientrò in casa, salì l’elegante scala che Victor Hugo ammirava, e andò in camera da letto. Aveva portato con sé da Wierzchownia lo stemma degli Hanska. Su fondo rosso era centrato un giglio bianco, legato con nastro giallo; sopra la corona, piume di pavone contenevano di nuovo il simbolo del giglio. Questo fiore era rappresentato spesso negli stemmi di famiglie nobiliari, in Ucraina. Ora non aveva più senso tenerlo con sé. Lo staccò dal muro e lo portò fuori, chiamandomi affinché lo conservassi.

  Adesso lei era Eve de Balzac, per l’eternità.

  Tornò in camera, si sedette sul letto e con le mani tremanti aprì la prima lettera.

 

 

  Annie Roncin, Balzac et l’argent, in AA.VV., Mélanges de littérature française, belge et comparée offerts au professeur Jean-Paul de Nola à l’occasion de sa retraite. Textes rassemblés et présentés par Diana Martinez-Riposo et Rosalia Vella, Castelvetrano, Edizioni Mazzotta, 2004, pp. 55-62.

 

  [...]. Fils de la génération bourgeoise issue de la révolution de 89, écrivain à l’heure où Guizot lance son fameux “enrichissez-vous”, Balzac va complètement immerger son oeuvre dans ce tissu social de 1830, radicalement renouvelé par l’apparition de nouvelles catégories socio-professionnelles (banquiers, notables, commerçants, médecins ...) et, s’il est lui-même fasciné par l’argent et ses pouvoirs, sa véritable manière de s’enrichir va consister à inventer dans le roman, ou plutôt dans une somme romanesque, un monde qui soit l’exacte métaphore, dans sa consistance et son expansion, de la réalité sociale et historique.

  Brunel nous rappelle: l’avant-propos de 1842 prétend que le projet de la Comédie Humaine vient d’une comparaison entre l’Humanité et l’Animalité.

  Comme l’animal l’homme est un; mais de même que les différences de milieu ont engendré les espèces, de même la société a secrété des individus. Ainsi s’explique le grand axiome qui dirige la pensée de Balzac.

  C’est donc à la manière des naturalistes que l’écrivain a conçu l’étude de base de son histoire de moeurs: en analysant la vie parisienne et la vie provinciale, de la Révolution à la Monarchie de Juillet. Mais il voit plus loin encore, l’oeuvre ne doit pas être seulement reproduction du monde, elle doit en fournir l’explication.

  Dans la précieuse biographie que Stefan Zweig lui consacra- publiée en 1946 – l’écrivain autrichien voyait en Balzac un créateur unique, parce que capable de poser à côté du monde réel un autre cosmos, un monde accompli, et il fait de lui le premier véritable sismographe des mouvements et des contradictions du monde réel. Car il ne s’agit pas ici d’un univers autre né de l’imagination créatrice, permettant aux aspirations, à l’épanouissement et à l’expansion individuelle de se réaliser. Mais d’un univers historiquement repérable, né des bouleversements de la Révolution, dont Balzac le premier identifie les signes distinctifs. Avec le rôle désormais central de l’argent: “la toute-puissante pièce de cent sous” évoquée dans La cousine Bette.

  D’où le choix du titre de La Comédie humaine qui dénonce l’hypocrisie, le jeu de rôle qui gouverne la société, mais qui surtout désigne l’oeuvre comme l’entreprise par laquelle le romancier figure fictivement. […].

  En peignant une société dominée par l’argent, il établit une comparaison sous-entendue entre la conception de l’argent chez les Parisiens et chez les provinciaux.

  La province est le lieu d’accumulation du capital, opposé à Paris, lieu de la dépense et de la prodigalité. Ainsi dans Illusions Perdues Lucien Chardon paye son origine provinciale, jamais l’opposition entre la province et Paris n’a été aussi brutalement mise au jour.

  Pour sa part, Balzac aime tout autant les vaincus, David Séchard dans Illusions Perdues, ou Goriot.

  Les parents pauvres le fascinent: Cousine Bette ou Cousin Pons et plus encore le martyre de ceux qu’il appelle “les titans ensevelis”, Goriot lorsqu’il broie dans ses mains des coupes de vermeil.

  Quant à Vautrin, dans le même roman, simple farceur de table d’hôte au début, est en fait une figure égale et symétrique à celle de Goriot le martyr, et il va s’agrandir lui aussi; peu à peu, jusqu'au symbole.

  Il est la Révolte!

  Au total, l’auteur révolté lui-même, et comme malgré lui, par bouffées d’humeur, il flétrira dans la Duchesse de Langeais l’Ordre Moral paravent de l’Ordre Economique.

  Mais il y aurait quelque abus, par contre, à le dire révolutionnaire.

  Au fil des pages du Père Goriot, on ressent vivement que Balzac a dén0ncé la corruption et les injustices de la société, et on ne peut rester indifférent à ce chef-d’oeuvre, car c’est une véritable leçon de morale adressée à tous les hommes: les grandes leçons d’arrivisme de Madame de Beauséant, l’ambition qui s’impose après la perte des premières illusions, le passage de l’ambition désintéressée à l’ambition qui calcule.

  De plus, Balzac prend parti et nous amène à nous interroger sur le sens fictif ou réel de l’oeuvre: la corruption est-elle vraiment maîtresse de la société? Il arrive à donner une force, une vie et un relief sublimes.

  Dans une lettre à Madame Hanska, Balzac s’exclamait “Mes romans sont les mille et une nuits de l’Occident!”.

  Entendons par là que de la traduction littérale des faits à la conception d’une vaste “légende des siècles” il y a chez lui une continuité pénétrant avec subtilité la matérialité du réel; il la dépassée pour la remodeler selon les exigences de sa mythologie personnelle. Là réside, en effet, le vrai génie de l’auteur de la Comédie Humaine: avoir fait accéder dans des fictions plus de deux mille personnages, intérêts, passions, souffrances, mêlées; personnages déchirés par la vanité, l’ambition, l’égoïsme, car les “Mille et une nuits de l’Occident”, Balzac savait qu’elles seraient politiques, sociales et économiques.

 A la magie de l’Orient répond la réalité de l’Occident.

 

 

  [Emile Marc de Saint-Hilaire], Lettera di Marco de Saint-Hilaire ad Armand Dutacq [1853], in Honoré de Balzac, Memorie di Sanson ... cit., pp. 343-350.



  Andrea Sartini, Il capolavoro impossibile. Balzac attraverso Blanchot, in AA.VV., Ermeneutica e pensiero tragico. Studi in onore di Sergio Givone a cura di Claudio Ciancio, Fabrizio Desideri, Carlo Gentili, Raffaele Milani, Giampiero Moretti, Federico Vercellone, Genova, il melangolo, 2004(«Università», 68), pp. 189-195.

 

  Comme Orphée, je descendrai dans l’enfer de l’art pour en ramener la vie: l’esclamazione di Frenhofer, protagonista del racconto balzachiano Le chef-d’oeuvre inconnu, non lascerebbe adito a dubbi. Il condizionale è d’obbligo dal momento che da una parte Frenhofer/Orfeo lavora al corteggiamento du vivant, essendo la passione che dimora nella sua pittura passione per l’opera come corpo vivo, nudo fremito, mentre dall’altra, lungo tutto il racconto, il suo fare di artista sospende indefinitamente l’affermazione o meglio ne rivela la superficialità. L’attività di Frenhofer non finisce di smentire l’universo del possibile tendendo incessantemente, nel suo articolarsi, al disastro di qualsivoglia creazione: attendere all’opera, così come vi attende Frenhofer, equivale a rovinare l’intento che lo anima, creare è consegnarsi rovinosamente all’inoperoso. Il pittore è, per gran parte della vicenda, preda dell’illusione che l’opera/capolavoro sia una realtà sul punto di accadere. Sappiamo che tale illusione non verrà mai meno, fatta eccezione che per il momento in cui, al cospetto della tela, Frenhofer urlerà: “nulla, nulla! E ho faticato per dieci anni”, seguito immediatamente dall’accusa rivolta ai pittori Poussin e Porbus, rei di non riconoscere, a suo dire, l’immenso valore del dipinto, “[...] e volete farmi credere che ho guastato la mia tela per rubarmela! Ma io la vedo!”. Che cosa scorge Frenhofer? La “muraglia di pittura” che sommerge la tela è veramente il segno della “chiusura più irrimediabile”, come qualcuno ha osservato [J. P. Richard], o forse ad essere irrimediabile è la fedeltà che anima il diabolico pittore? L’artista esce effettivamente sconfitto dal racconto di Balzac, ma non su questo punto deve cadere l’accento: Frenhofer si offre come figura della fedeltà, fedeltà verso il tratto distintivo dell’opera, vale a dire il fatto di essere intimamente en défaut de soi. La “chiusura” non è da rintracciare dove l’indistinto, esito della fidélité vissuta dall’artista, si è insediata, ma nell’atto stesso di bruciare le tele del suo atelier e con esse di morire. L’indistinto, l’informe, i colori sedimentatisi sul capolavoro testimoniano non soltanto la chiusura come esito del processo creativo, ma l’inoperosità all’opera: parafrasando quanto Blanchot scrive a proposito della scrittura potremmo dire che per Frenhofer dipingere “vuol dire produrre l’assenza d’opera (l’inoperosità), [...] è l’assenza d’opera così come si produce attraverso l’opera attraversandola”. [...].


 

  Giuseppe Scaraffia, Sono un artigiano, non chiamatemi «boia», «Il Sole 24 Ore - Domenica», Milano, N. 80, 21 marzo 2004, p. 33.

 

  «Che uomo quel Sanson! Va e viene come qualsiasi altro. A volte va al teatro del Vaudeville. Ride, mi guarda; la mia testa gli è sfuggita, lui non ne sa nulla e, dato che gli è indifferente, non mi stanco di contemplare in lui l’indifferenza con cui ha mandato tanti uomini all’altro mondo. Ricomincerebbe se ... E perché no? Non è il suo mestiere?», si chiedeva sarcasticamente il poligrafo Mercier. I tragici giorni del Terrore erano ormai lontani e Sanson, il boia di Parigi, che aveva ghigliottinato un’intera classe dirigente e molti altri capitati per caso sotto la sua lama, era stato processato e assolto dopo la caduta di Robespierre.

  Fino alla rivoluzione del 1789 un cupo alone separava i boia dai loro simili. Nessuna ragazza accettava di sposarli ed erano costretti a scegliere la consorte tra le figlie dei colleghi. Quella silenziosa maledizione s’estendeva sino ai loro parenti, cui era impedito persino di ricorrere agli ospedali. I figli di quegli scomodi personaggi non venivano tollerati nelle scuole e ogni cosa, anche le più necessarie, veniva venduta loro a un prezzo maggiorato. In cambio la loro familiarità con la morte li faceva considerare degli abili medici, procurando dei guadagni supplementari tramite le visite e la produzione artigianale di medicinali.

  Charles-Henri Sanson, erede di una carica tramandata nella sua famiglia per ben tre generazioni, dal 1684, sembrava non appartenere a quella imbarazzante categoria. Amava frequentare la buona società e offrire delle cene rinomate, servite su una sfarzosa argenteria. Si mostrava suscettibile sulla denominazione di boia. «Non tutti sono destinati alla stessa condizione. Il caso mi ha procurato questa, io cerco di farle onore, e ritengo in tal modo di poter evitare un simile nomignolo, che diventa per me solo un insulto». Abitava in una casa ampia, comprendente una farmacia e un laboratorio. Un giorno lo sentirono esclamare, davanti a dei bellissimi tulipani purpurei: «Come sono freschi! Come sono rossi! Se li vedessero, direbbero che li innaffio col sangue!».

  Quando, nel 1791, venne stabilita l’uniformità delle pene di morte, tornò alla ribalta il dottor Guillotin con la sua macchina razionale per decapitare i condannati che faceva «saltare la testa in un batter d’occhio, senza sofferenza». Al massimo si poteva ipotizzare «una sensazione di freddo sul collo».

  Le risate scatenate da simili dichiarazioni diminuirono solo quando l’Assemblea passò al successivo ordine del giorno. Il Terrore moltiplicava i suoi clienti ma Sanson si toglieva il cappello davanti ai condannati e usava ogni accorgimento per evitare qualsiasi sofferenza supplementare. Rimase veramente insensibile agli onori che gli erano tributati, alla cordialità che lo circondava, alle minuscole ghigliottine con appesa, capovolta, una testina coronata, oscillanti alle orecchie delle donne? È difficile dirlo.

  Il nipote, Henri-Clément, nato nel 1799 amava le arti, il lusso e il gioco d’azzardo, ma il rarefarsi delle esecuzioni capitali era destinato a intaccare seriamente il suo patrimonio. Per salvare la preziosa biblioteca, cui teneva moltissimo, fu costretto a vendere il suo arnese da lavoro, la ghigliottina. Alla prima esecuzione, il ministro della Giustizia fu costretto a riscattarla in gran fretta, per poi licenziare il prodigo funzionario. Abbandonato dalla moglie, Henri-Clement si ritirò in campagna, con i suoi libri, un pianoforte e i documenti di famiglia. Balzac fu spinto a frequentarlo da una curiosità morbosa. Spinto dal bisogno di denaro a stendere quest’opera commerciale, fece del boia un personaggio nuovo e dolente, intimamente contrario alla pena di morte. «Emarginato, rifiutato dalla società e comunque con un lacerante senso di colpa, Sanson sente tutto il peso del suo agire» scrive la curatrice Paola Dècina Lombardi. In queste memorie apocrife, stese col contributo di un mestierante, il vento della “Commedia umana” si mescola alle brezze del romanticismo più sfrenato.

  Povero e dimenticato, l’ultimo dei Sanson morì per ironia nel 1889, nel centenario del sommovimento che aveva trasformato il carnefice da punitore dei crimini comuni in uno strumento della storia.

 

 

  Daniela Schenardi, “La folle de la maison”: l’immaginazione in alcune prefazioni giovanili di Balzac, «Il Confronto letterario. Quaderni del Dipartimento di Lingue e letterature straniere moderne dell’Università di Pavia», Pavia, 42, anno XXI, nuova serie, 2004-II, pp. 415-433.

 

  Come il fondamentale Avant-propos del 1842 e le altrettanto note Introductions e Préfaces alle Scènes e ai romanzi della Comédie humaine, anche le prefazioni dei romanzi giovanili balzachiani «costituiscono una parte imporrante della riflessione teorica del romanziere sul proprio lavoro» (p 415). Scritte tra il 1822 e il 1829, esse si collocano agli esordi della carriera di Balzac e consentono di valutare in maniera precisa (ma tutt’altro che definitiva) alcuni nodi centrali del suo pensiero sul romanzo.

  In questo studio, Daniela Schenardi considera da vicino alcune delle prefazioni di romanzi di Lord R’Hoone: Clotilde de Lusignan, ou le Beau Juif e di Horace de Saint-Aubin: Le Centenaire, ou les Deux Béringheld e Le Vicaire des Ardennes, nelle quali si concentra in modo significativo la riflessione del futuro autore della Comédie sul ruolo dell’immaginazione nella descrizione del vero e sulle potenzialità incarnate dal romanzo nella rappresentazione della realtà. Se nel prologo di Clotilde de Lusignan, Balzac, contraddicendo in parte quanto egli aveva dichiarato in alcuni scritti filosofici giovanili a proposito dell’immaginazione, lancia un duro attacco contro le opere di pura immaginazione, nell’Avertissement del Centenaire, lo scrittore «avvalora l’assoluta imparzialità del suo operato facendo ricorso a un paragone con la figura dello storico» (p. 426) e ribadendo in tal modo – ironicamente – «la propria sfiducia nella possibilità del romanzo di raccontare la verità» (p. 431). È, infine, scrivendo la prefazione narrativa al Vicaire des Ardennes che Balzac, pensando all’immagine del cimitero come metafora del romanzo, «accetta il suo ruolo di artefice ma non rinuncia [...] a ribadire che romanzo e verità non sono compatibili soprattutto perché [...] il lettore di romanzo preferisce essere ingannato da qualcosa che è frutto dell’immaginazione piuttosto che ascoltare una verità che lo costringa a rinunciare al proprio illusorio piacere» (p. 433).

 

 

  Gaia Servadio, Balzac e l’intelletto, in Rossini, Palermo, Dario Flaccovio editore, 2004, pp. 149-198.

 

  In questa sezione, l’A. considera i diversi soggiorni parigini del compositore pesarese tra il 1823 e il 1836, riportando alcune notazioni sugli incontri tra Rossini e Balzac e sulle relazioni sentimentali che videro protagonisti lo scrittore francese e Olympe Pélissier. Vengono altresì citate, ‘en passant’, alcune sequenze testuali tratte dai cosiddetti romanzi ‘musicali’ della Comédie humaine (Gambara, Massimilla Doni), in cui l’eco dell’opera e il riflesso della figura rossiniane sembrano particolarmente evidenti e significativi. Vistoso e grossolano è l’errore tipografico presente a p. 191 dove, riferendosi ad uno dei capolavori più noti di Balzac (Eugénie Grandet), l’A. ne trasforma il titolo in Eugène Grandet (sic).

 

 

  Luciana Sica, Carlos Fuentes. Io, realista visionario, «la Repubblica», Roma, 13 giugno 2004, p. 29.

 

  Più di una volta ha detto che il suo principale modello letterario è stato Balzac. Si sente in debito nei confronti dell’autore francese? «Sì, ho un debito enorme nei suoi confronti, trovo il suo realismo visionario assolutamente sorprendente. “Moi je vais porter une société dans ma tête” (ho un’intera società nella mia mente): da un lato l’autore della Comédie humaine si presenta come uno scrittore realista, ma al tempo stesso è capace di offrire novelle straordinarie di genere fantastico come La pelle di zigrino o anche Louis Lambert».

 

 

  Francesco Spandri, Stendhal, Balzac: gaieté « seiziémiste » et identité nationale, in Collectif, “Une liberté orageuse” ... cit., pp. 291-302.

 

  L’A. propone interessanti riflessioni circa i limiti e le modalità di recupero, in Balzac e in Stendhal, del tema della ‘gaieté’ rabelaisiana quale elemento essenziale del concetto di identità nazionale.

 

 

  Donato Sperduto, Les farces nocturnes. Balzac et Patrick Modiano, «Lendemains», vol. XXIX, 114-115, 2004, pp. 226-236.

 

  In questo studio, D. Sperduto stabilisce analogie tra la descrizione delle imprese dovute ai Chevaliers de la Désoeuvrance ne La Rabouilleuse di Balzac e quelle proprie dei Chevaliers de l’ombre ne La Ronde de nuit di P. Modiano. L’A. si propone, in particolare, di «élucider la façon tantôt comique, tantôt dramatique dans laquelle les deux écrivains ont représenté des victimes de l’Histoire» (p. 226).

 

 

  Marco Stupazzoni, Il nemico della religione. Honoré De Balzac e l’Indice dei libri proibiti: il “Decretum” del 16 settembre 1841. Documenti inediti, Moncalieri, C.I.R.V.I., 2003 [ma marzo 2004] («Quaderni del C.R.I.E.R. Supplemento al n. 5»), pp. 182.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Introduzione;

  Honoré de Balzac e l’«Indice dei libri proibiti». Il «Decretum» del 16 settembre 1841. Documenti. Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il Decreto di condanna;

  Documenti relativi alla Congregazione Preparatoria;

  Atti della Sacra Congregazione dell’Indice;

  Relazioni dei Consultori (ffi 555-633);

  Appendice prima. Relazione manoscritta sul «Livre Mystique»;

  Appendice seconda. Decreto della S. C. dell’Indice: 20 giugno 1864.

 

 

  [Laure Surville], Testimonianza della sorella Laure, in Honoré de Balzac, Memorie di Sanson ... cit., p. 341.

 

 

  Carlo Testa, Collodi’s Pinocchio: Beyond Balzac, Wolfram, «Rivista di Studi Italiani», Toronto, Anno XXII, N. 2, dicembre 2004, pp. 85-110.

 

  In questo studio, Carlo Testa considera il Pinocchio di Collodi come un’opera che si inserisce a giusto titolo nel filone ottocentesco del romanzo di formazione, pur con tutte le peculiarità e i tratti distintivi che gli derivano dal particolare contesto storico-sociale italiano della seconda metà del XIX secolo. Pinocchio, dunque, si chiede l’autore, potrebbe considerarsi come «a “spaghetti” Bildungsroman?» (p. 88) se confrontato, ad esempio, con taluni capolavori narrativi della tradizione letteraria europea nei quali viene descritta, analizzata e giudicata con rigore e lucidità la nuova filosofia dell’arrivismo individuale sostenuta dalle leggi proprie della società capitalistica? A questo proposito, l’autore mette a confronto alcune sequenze testuali tratte da Illusions perdues di Balzac e dal romanzo collodiano (Lucien che “si inabissa” nella carrozza di Mme de Bargeton; Pinocchio che monta sul carro che lo condurrà nel Paese da balocchi) dove risulta evidente come la risoluta e calcolata determinazione del personaggio balzachiano si scontri con l’ingenuo edonismo del burattino di Collodi.

 

 

  Anna Tito, Quanti segreti in quelle lettere tra Eve e Balzac, «l’Unità», Roma, anno 81, n. 211, 1 agosto 2004, p. 23.

 

  Il tutto ha inizio in un paesaggio incantato, la Touraine al tempo della vendemmia, fra il settembre e l’ottobre del 1834: Michel-Auguste, per più decenni valet de chambre di Honoré de Balzac, e testimone adorante e stupefatto della sua straordinaria avventura esistenziale e intellettuale, ci narra la vicenda umana e letteraria dell’allora trentacinquenne romanziere già affermato, grazie fra gli altri alla tragedia in versi Cromwell e al saggio La fisiologia del matrimonio. Ma al centro di tutto sta la storia di un grande amore che sboccia e fiorisce insieme a uno dei capolavori della letteratura ottocentesca, il Père Goriot. L’autrice è Rosa Romano Toscani, psicoterapeuta e membro della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica, grazie a un lavoro di documentazione di primissima mano, vastissimo e puntuale, dà vita a un romanzo di straordinaria ricchezza inventiva, offrendoci fra gli altri una serie di lettere che sembrano uscite dalla penna stessa di Balzac, e che vengono a illustrarci il rapporto amoroso, da poco sbocciato, fra lo scrittore e la polacca Eve Rzewuska – moglie infelice dell’anziano conte Venceslas Hanska – che poi sposò nel 1850 due mesi appena prima di morire. Il loro amore, nei primi anni vissuto in brevi e clandestini incontri a Vienna e a Ginevra, crebbe e si rafforzò grazie a un appassionante scambio epistolare. Lei, «stella del nord – per dirla con Michel-Auguste – colta, religiosa, profonda conoscitrice di canto, musica, pittura, sognava l’amore, che le giunse dai libri, da lontano, da una terra pensata come luogo di cultura e di libertà, la Francia». Di Balzac la contessa sapeva tutto, e «ne condivideva la vita, i progetti, gli affanni, la creazione». Di pari passo, alimentata e sorretta dal confronto con la donna amata, si compì la genesi, tormentata e complessa, del Père Goriot, che fu, insieme a Eugénie Grandet, fra le opere più perfette di Balzac. Il romanzo doveva inserir-si in un nuovo ambizioso progetto che lo scrittore stava concependo, la Comédie humaine, grandioso affresco della società francese dal Primo Impero alla Restaurazione. Con Goriot Balzac intendeva narrare di «un padre che amava fuori misura le proprie figlie. Ciò comportava un fondo di amarezza a causa delle ferite ricevute e che lo portava a un certo scetticismo: pensava infatti che purtroppo solo con il potere si può ottenere l’amore, perché l’amore è dipendenza. E lui, ne ero certo, dipendeva da Madame Hanska». Si trovavano, Balzac ed Eve Hanska, lontani nello spazio, ma vicini nell’animo: «Monsieur aspettava le lettere di Eve spasmodicamente, con il timore costante che il flusso d’amore dalla lontana Ucraina si interrompesse per sempre». Ma – è sempre Michel-Auguste che parla – «la Contessa gli scriveva spesso, e qualche volta lui mi leggeva le frasi d’amore che si scambiavano. Sembrava un bambino, la voce gli tremava. Non avrei mai pensato che un uomo così importante fosse tanto assetato d’amore e che di fronte a questo sentimento mostrasse tutta la sua debolezza».

 

 

  Alessandra Vindrola, Commedia umana. L’affresco di Balzac racconta l’Occidente, «la Repubblica», Roma, 19 novembre 2004.

 

  La Comédie humaine di Balzac, ovvero: le Mille e una notte dell’Occidente. Un grande affresco che si compone di circa novanta romanzi e racconti per un totale di duemila personaggi: impossibile metterlo in scena in un teatro. [...]. Naturalmente Pitoiset non si è cimentato con i novanta romanzi e i duemila personaggi: ha individuato due racconti, per l’esattezza Il capolavoro ignoto e Il talismano, e di entrambi ha fatto una riduzione spietata: «I fatti umani vanno spiegati senza troppe parole, perciò ho usato solo frammenti dei testi, come piccoli iceberg di scrittura scenica, pur utilizzando esclusivamente frasi originali – ha raccontato il regista – Una volta o l’altra cederò al demone che è in me e farò uno spettacolo completamente muto». Ma non è il caso di questa rappresentazione della Comédie humaine [...].

 

 

  A.[lessandra] Vind.[rola], Le marionette per un teatrino, Ibid.

 

  In contemporanea all’allestimento della Comédie di Dominique Pitoiset, lo Stabile propone un altro racconto di Balzac, La Grande Bretèche, che prende il nome dalla tenuta di campagna in disarmo in cui una donna nasconde un prigioniero di cui, inevitabilmente, si innamora. A mettere in scena, da martedì prossimo alle 15.30 nella manica corta della Cavallerizza, questo racconto semisconosciuto di Balzac, è il Gran Teatrino La Fede delle Femmine diretto da Margot Galante Garrone, che lavora sul teatro di figura innestandovi performance multimediali. Anche La Grande Bretèche proposta fino al 23 dicembre è una messinscena per marionette in un piccolo teatrino creato apposta, dove intervengono però attori e dove svolge un ruolo fondamentale la proiezione di un video. Attenzione però: La Grande Bretèche non è uno spettacolo per bambini, ma un affresco «miniaturizzato» dei grandi temi nel pensiero di Balzac.

 

 

  Stephen Vizinczey, «Gli allegri racconti» e «L’ultima parola sui media», traduzioni di Chiara Basso Milanesi, in I Dieci Comandamenti di uno scrittore. Verità e menzogna in letteratura, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 72-85; 86-94.

 

  In questa raccolta di saggi e articoli pubblicati originariamente in luoghi e in tempi diversi, l’interesse di S. Vizinczey si rivolge essenzialmente sul modo attraverso cui vengono dipinti gli individui in tutta la gamma dei loro comportamenti e delle loro passioni. Molto frequenti sono i riferimenti del critico alla narrativa europea dell’Ottocento e, in particolare, a quella francesi e russa. Tra gli autori francesi maggiormente citati, figura, non a caso, Balzac a cui l’autore dedica i due studi che qui presentiamo.

  Il primo (maggio 1986) tratta dei Contes drolatiques di cui il critico tesse un simpatico elogio celebrandone la bellezza della narrazione e la sorprendente modernità. Les Contes drolatiques «è uno dei libri più incantevoli su cui si possa imbattere il lettore» (p. 83): esso resterà «un testo fondamentale per coloro che vogliono procedere da soli alla propria educazione. Non sarà mai datato e non potrà mai essere abolito. Lo spirito poetico di Balzac cattura uno slancio di passione, un personaggio, una relazione con il magico potere della precisione trattenendo l’attimo fuggente finché splenderà il sole» (p. 85).

  Nel secondo intervento (giugno 1971), l’autore riflette su Illusione perdues – definito come la «grande tragicommedia sulla cultura e i mass media» (p. 86) – e sul personaggio di Lucien de Rubempré del quale Vizinczey segue l’ascesa e la caduta nel mondo del giornalismo parigino. La straordinaria attualità del romanzo balzachiano risiede nel fatto che esso, fornendoci uno «studio a tutto campo sui mass media», si rivela più «attinente a quanto succede ai nostri giorni che al periodo in cui fu scritto» (p. 91). Nessun scrittore meglio di Balzac ha saputo «far emergere ogni emozione di cui il lettore sia capace», insegnando agli uomini a «riconoscere l’ambizione in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue forme, in modo da sapere come proteggere le proprie libertà» (p. 94).

 

 

  Giada Viviani, Il ruolo di Venezia nella Massimilla Doni. Othmar Schoeck, Honoré de Balzac e l’immaginario ottocentesco, «De Musica. Annuario in divenire a cura del Seminario permanente di Filosofia della Musica», Milano, VIII, 2004 (on-line).

 

  [...]. Quando nel corso del suo secondo viaggio in Italia Balzac si risolse, nel marzo 1837, a far visita a Venezia dalla non troppo distante Milano, il primo impatto con la città fu tra i più deludenti, causa la triste pioggia, si presume, o forse piuttosto perché ottenebrato dalle eccessive aspettative accese in un desiderio di lungo vagheggiamento e nutrito nella prefigurazione di immaginifiche visioni letterarie. Da parte sua infatti una sorta di conoscenza che vorremmo definire astratta – di origine ciò del tutto indipendente rispetto all’esperienza vissuta nel reale – si era sviluppata con dovizia di ripercussioni in anni anteriori a tali eventi biografici sulla scorta dei topoi rappresentativi, in specie connessi a tematiche peninsulari, allora imperanti sull’opinione condivisa ovunque (o quasi) nel Vecchio Continente. Questa dimestichezza di esclusiva pertinenza intellettuale si era già concretizzata nelle novelle Facino Cane e Gambara, dove la scelta attuata per l’ambientazione lagunare corrispondeva a un’inclinazione di spiccata preferenza, non concessa a nessun altro tra i luoghi prescelti oltre i confini francesi e grazie cui «Venise tient dans l’oeuvre balzacienne une place qu’elle est la seule ville étrangère à occuper», ma si conformava più propriamente allo stereotipo – assai diffuso – della cornice italiana quale sfondo necessario di avventure passionali, mentre il ruolo della città, descritta nell’adesione incondizionata al vigente codice espressivo (con esiti quindi privi di valenza individuale), non contribuiva affatto alla determinazione della vicenda, limitandosi al contrario a rivestire senza pretese la passiva funzione di scena del racconto. Di carattere assai dissimile appare invece Massimilla Doni, mirabile intreccio e compenetrazione di esperienza diretta e impulsi letterari in grado di conferire alla narrazione e al suo teatro quella vivezza espressiva, trascolorante tra dimensione oggettiva e sublimazione nel fantastico, che sola può riscattare l’immagine tratteggiata dalla letale rigidezza delle rappresentazioni artificiose (e compiendone quindi la metamorfosi da quadro statico a tableau vivant), nel ritrarre ciò il luogo eletto a interagire attivamente con gli avvenimenti del romanzo – a «interagire» proprio, in veste paritaria, non più semplice fondale privo di autonoma influenza – Balzac non si limita ad attingere gli stimoli essenziali all’ispirazione creativa dalle pur feconde, fecondissime impressioni annotate durante il gradito soggiorno veneziano, bensì mitiga tale tendenza, a tratti affiorante, di quasi supino realismo mediante una fitta trama di rimandi intertestuali (dove a un’azione di cruciale significato assurgono i richiami alle arti figurative) inserita in un contesto di repentine trasfigurazioni nell’imprevedibile magia del fiabesco – quale modello di fondamentale ascendente operò senza dubbio l’opera di E.T.A. Hoffmann, cui forse da ricondurre ancora la scelta stessa dell’ambientazione italiana. E di un ruolo di attiva compartecipazione al progressivo determinarsi della vicenda abbiamo non a caso parlato, giacché il peso di Venezia nello specifico di questa novella giunge all’apice della sua rilevanza, sia in termini di presenza quantitativa, sia quale tematica sistematicamente svolta su un piano paritetico rispetto alle altre (la problematica amorosa e le dispute estetico-musicali), cui peraltro si rivela nel profondo congiunta da vincoli inscindibili di intima affinità – tutte e tre le questioni consisterebbero pertanto nel conflitto mai più ricomposto tra un ardente volere e l’impotenza di agire, incarnato negli intricati meccanismi erotici della duplice coppia Emilio-Massimilla e Genovese-Tinti, nelle disquisizioni senza esito di Cataneo e Capraja, nell’autodistruttivo patriottismo dell’oppiomane Vendramin –, intervenendo sin nel cuore della narrazione in veste di personaggio dalla valenza effettiva, o meglio come protagonista tra gli altri protagonisti, in quanto non solo il destino di questi risulta imprescindibile da quello della loro patria (fino all’eccesso del sacrificio di sé per essa rappresentato appunto da Marco Vendramin), ma la loro caratterizzazione, il loro peculiare modo d’essere trova la propria unica origine nelle vicissitudini politiche della città, il paradosso dell’antica gloria contrapposta alla sudditanza di nascita recente – non si dimentichi che Balzac aveva assistito in prima persona agli effetti psicologico-sociali della dominazione asburgica -, in un’ottica secondo la quale la decadenza agirebbe da simbolo e causa prima dell’eccezionalità di connotazione in cui si esplicano le diverse sorti. [...].

  Nelle descrizioni di contestualizzazione ambientale in cui il romanzo di quando in quando indugia interesse nodale dell’arte balzachiana non si dimostra certo una fedele attinenza ai copiosi fatti storici della fu Serenissima Repubblica, in base a quella ricostruzione archeologica di vaga necrofilia che egli stesso biasimava nel contegno di George Byron, bensì le vivide suggestioni suscitate dall’esperienza di concreto vissuta fungono da materiale primevo per un ritratto focalizzato sulla resa di una specifica atmosfera, il mondo determinatosi in osmosi con l’antica aristocrazia veneziana, solo a tratti tinta da sfocati richiami – al Libro d’Oro, al Bucintoro, al Consiglio dei Dieci ... – di un’erudizione all’apparenza piuttosto approssimativa, ma ci non nuoce affatto agli intenti della raffigurazione perché fine ultimo di tale approccio liberamente rapportato all’oggetto della propria indagine con ogni evidenza un tratteggio avulso da pretese di preciso realismo, nella delineazione di un quadro dove posta in risalto sotto un occhio arguto si ricrei invece con suprema vivezza la fascinosa trama dei raffinati usi cittadini. Uno spazio di densa rilevanza viene dunque concesso alle scene – protese sul pittoresco – situate nell’animato interno del celeberrimo caffè Florian, in Piazza San Marco, del quale si rileva con acume la funzione, in assoluto priva di possibili paragoni, di imprescindibile fulcro politico ed economico, forse persino diplomatico, nel brulichio dei complessi intrichi in cui si affaccenda quell’esuberante collettività, e un rilievo altrettanto cospicuo risulta conferito alla Fenice nel corso dei due lunghi e basilari episodi incentrati sulle metaforizzate rappresentazioni delle opere rossiniane, poiché nelle parole di Balzac «le théâtre est la réunion économique de toute une société qui s’examine et s’amuse d’elle-même», così come non viene meno di notare la consolidata consuetudine della villeggiatura estiva nelle magnifiche residenze sulla Riviera del Brenta, pretesto esplicito per l’ambientazione campestre da cui trae avvio lo sviluppo della narrazione. Ma alle vicende della passione sopra ogni cosa, alla centralità del fenomeno amoroso nell’assetto dinamico delle norme conviviali dedicata la riflessione della novella al punto da originare un filone a sé stante nello svolgimento delle tre tematiche parallele, in funzione dei fragili processi sentimentali si sarebbero ciò – secondo l’ottica dell’autore – foggiati i costumi della voluttuosa élite veneziana, dove il valore accordato alla sfera sensuale altera nella valutazione i principi cardine della stessa moralità, una lettura quindi che pur non svilendosi mai a stereotipo rigido e privo di autonoma vitalità si svela per senza dubbio conforme all’immaginario comune attestato in Europa nei confronti della penisola e del suo gioiello lagunare. Venezia come sineddoche per l’Italia nella sua piena interezza; e il medesimo concetto troviamo esplicato nella tragica devozione alla patria in rovina incarnata, meglio, portata a coincidere con il destino di morte assegnato a Vendramin, emblema dei connazionali prostrati in analogo cordoglio, o ancora se ne incontrano i frutti nella figura di Massimilla, non mera trasposizione nella finzione letteraria del carisma effuso su Balzac da Clara Maffei e dalla Principessa di Belgiojoso, fervide patriote e donne di raro temperamento, ma compiuta personificazione del “tipo nazionale” nonché dell’Italia stessa, omaggio di calda amicizia a un paese e a un popolo – termine da leggersi nondimeno nell’esclusivo contatto con l’aristocrazia – che egli considerava grandi e ai quali era ormai legato da vincoli di sincero affetto. Nel consacrare pertanto il cuore del suo romanzo all’indomito coraggio e alla virtù ardita di una nazione per nulla rassegnata – mercé il passato prodigo di antiche memorie gloriose – all’infamia dell’asservimento sotto la dominazione straniera egli da un lato si rifiuta di credere alla decadenza della penisola quale processo già da lungi in atto e di tendenza di fatto incontrovertibile, mentre dall’altro sublima i personaggi in una nobiltà di caratterizzazione cui mai avrebbe potuto accostarsi tramite le uniche determinazioni psicologiche. [...].

 

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  La comédie humaine. Etudes philosophiques. Il capolavoro ignoto. Il talismano. Traduzione di Luca Fontana. Regia di Dominique Pitoiset. Interpreti: Mariano Pirrello, Roberto Abbati, Marcello Vazzoler, Gigi Dall’Aglio, Gianluca Gambino, Michele de Marchi, Paolo Boccelli, Cristina Spina, Teatro Stabile di Torino, 2004 (Torino, Arti Grafiche Roccia, 2004, pp.80; ill.).

 

 

  La Grande Bretèche, Gran Teatrino La Fede delle Femmine diretto da Margot Galante Garrone, Torino, Teatro Stabile, novembre-dicembre 2004.

 

 

  Le Memorie del boia. Sceneggiatura e regia di Lele Luzzatti. Interpretato da Amerigo Fontani, Calenzano, Teatro Manzoni, 2 novembre 2004.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, A propos de bottes: le rôle d’un détail dans «Illusions perdues», in Collectif, Illusions perdues. Actes du colloque de la Sorbonne des 1er et 2 décembre 2003.

 

 

  Margaret Collina legge testi di Balzac (et alii) in Lettura: “Medicina e parola”, Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Sala Stabat Mater, 10 dicembre 2004.

 

 

  Andrea Del Lungo, Aux seuils de l’œuvre capitale : poétique et idéologie des préfaces d’«Illusions perdues», in Collectif, Illusions perdues ... cit., pp. 91-103.

 

 

  Franco D’Intino, Letteratura ed etica nella letteratura europea moderna. II. Il Faust della Restaurazione: Leopardi e Balzac, Università degli studi di Perugia, Corso di laurea in Lettere – Letterature comparate, 2004.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Illusions perdues.

 

 

  Francesco Fiorentino, Enseignement et révélation: Stendhal et Balzac, in Collectif, Illusions perdues ... cit., pp. 137-148.

 

 

  Francesco Fiorentino, Amori impossibili. Amori falliti. Trame sentimentali nel romanzo ottocentesco, Università degli studi di Bari, Facoltà di Lettere e filosofia – Letteratura francese, Anno accademico 2003-2004.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Eugénie Grandet; La Duchesse de Langeais.

 

 

  Giuseppe Merlino, Proust: il “Contre Sainte-Beuve” e Balzac. Con Giuseppe Merlino in collaborazione con l’Associazione Amici di Proust, Napoli, La Feltrinelli Libri e musica, 23 settembre 2004.

 

 

 

 

Eventi.

 

 

  Papà Goriot. Sceneggiatura e regia di Tino Buazzelli (1970), Rai Edu 2, sabato 9 e domenica 10 ottobre 2004.

 

  Cfr. 1970.



Marco Stupazzoni