2021
Adattamenti.
Honoré de Balzac, Un classico a fumetti. “Eugénie Grandet”
di
Honoré de Balzac. Illustrato
da Gabriele Pino, «La Stampa tuttolibri», Torino, n. 2224, 13 febbraio 2021, pp.
XII-XIII.
Traduzioni.
Honoré de Balzac, César
Birotteau. Traduzione
di Francesca Spinelli. A cura di Paola Dècina Lombardi, Milano, Mondadori, 2021
(«Oscar classici»), pp. XXV-364.
Honoré de Balzac, Il
colonnello Chabert. Cura e traduzione di Roberto Bonchio. Edizione
integrale, Roma, Newton Compton editori, (giugno) 2021 («Classici», 25), pp.
113.
Struttura dell’opera:
Roberto Bonchio, Introduzione, pp.
7-19;
Nota biobibliografica, pp.
20-31;
Il colonnello Chabert, pp.
33-111.
Cfr. 2012.
Honoré de Balzac, La fanciulla dagli occhi d’oro. Cura e
traduzione di Lucio Chiavarelli. Edizione integrale, Roma, Newton Compton
editori, (settembre) 2021 («Classici», 36), pp.
126.
Struttura dell’opera:
Lucio Chiavarelli, Introduzione, pp.
7-14;
Stefano Doglio, Nota biobibliografica, pp.
15-26;
La fanciulla dagli occhi d’oro, pp.
27-114;
Postfazione alla seconda edizione di “La fanciulla dagli occhi d’oro”
(1835), pp. 115-117;
Appendice. Prefazione alla “Storia dei Tredici” (1831), pp.
118-125.
Cfr. 2012 ad esclusione dei due documenti paratestuali che seguono il
romanzo balzachiano.
Honoré de Balzac, Massime e pensieri di Napoleone. A cura
di Carlo Carlino, Palermo, Sellerio editore, (aprile) 2021, («Il divano»), pp.
176.
Cfr. 2006.
Honoré de Balzac, Il medico di campagna. Traduzione e
adattamento di Manuel Nepoti, Milano, Ledizioni, (aprile) 2021 («La grande
narrativa»), pp. 319.
Honoré de Balzac, Pierrette. A cura di Pierluigi Pellini. Traduzione di Francesco
Monciatti, Palermo, Sellerio editore, (marzo) 2021 («Il divano», 329), pp.
389.
Struttura dell’opera:
Pierrette, pp. 7-309;
Note, pp. 311-347;
Pierluigi Pellini, Fantasmi del melodramma, pp.
349-383;
Nota bibliografica, pp. 385-387.
Honoré de Balzac, La ricerca dell’assoluto. Traduzione e
adattamento di Manuel Nepoti, Milano, Ledizioni, 2021 («La grande narrativa»),
pp. 304.
Honoré de Balzac, Séraphîta. Traduzione di Lydia Magliano.
Con un saggio di Franco Rella, Roma. Ellint, 2021 («Raggi»), pp.
221.
Honoré de Balzac, Un
debutto nella vita. Con la novella originale di Laure Balzac. Illustrazioni
tratte dall’edizione Michel Lévy del 1874. A cura di Mauricio Dupuis, Torino,
Robin Edizioni, 2021 («Biblioteca del Vascello»), pp. 267;
ill.
Struttura
dell’opera:
Nota al testo, p.
5;
Un debutto nella vita, pp.
7-210;
Postfazione, pp.
211-223;
Appendice. Il viaggio in
cuculo di Laure Balzac Surville, pp.
225-253;
Honoré de Balzac – Cronologia
delle opere, pp. 255-264.
Honoré de Balzac, Un dramma in riva al mare, in AA.VV.,
Vite di mare, in allegato a: «La Nuova
Venezia», Venezia, 28 marzo 2021; «Il Piccolo», Trieste, 4 aprile
2021.
Cfr. 2019, Einaudi.
Studî e riferimenti
critici.
AA.VV., Balzac politico a cura di Cristina Cassina, Pisa,
Edizioni ETS, 2021 («philosophica», 257), pp.
209.
Per un resoconto dei contributi presenti in questa raccolta di studî su
Balzac politico e segnalati nelle schede successive, cfr.
2019.
AA.VV., Histoire de lectures.
Avec Susi sous la direction de
Patrizia Oppici, Macerata, eum, 2021 («Experimenta. Collana di studi linguistici
e letterari comparati Dipartimento di Studi umanistici – Lingue, Mediazione,
Storia, Lettere, Filosofia», 3).
Per quel che concerne Balzac, segnaliamo, in particolare, la sezione
intitolata: Les écrivains lecteurs de Balzac che comprende i seguenti
contributi:
Claire Barel-Moisan, Le
Balzac de Pierre Michon, pp. 165-173;
Vincent Bierce, «Va te faire
voir, Rastignac!» Pamuk et Balzac : de la jubilation ambiguë à la recherche du
tout-autre, pp. 151-164;
Éric Bordas, Le Balzac de
Zweig, ou l’image dans le tapis de Susi, pp.
115-122;
Véronique Bui, Dai Sijie
lecteur de Balzac : «Balzac et la Petite Tailleuse chinoise», vingt ans
après, pp. 209-224;
Christèle Couleau, «Une sorte
de conversation à travers les siècles». Houellebecq lecteur de Balzac, pp.
175-207;
Valerio Massimo De Angelis, La commedia inumana: Hawthorne e (o
contro?) Balzac, pp. 55-79;
Andrea Del Lungo, Calvino lecteur de Balzac, pp.
137-150;
Daniela Fabiani, Paul Gadenne lettore di Balzac, pp.
123-135;
Chantal
Massol, Baudelaire lecteur de Balzac dans «La
Fanfarlo», pp. 35-53;
Tatiana
Petrovich Njegosh, Il Balzac di Henry James: «a realistic
romancer», pp. 81-94;
Irene Zanot, Sulle tracce di Balzac: il Leroux “poliziesco” e
il lascito della «Comédie», pp. 95-113.
AA.VV., Il romanzo «realista», in Michela Landi (a cura
di), Letteratura francese. Dall’Ottocento al XXI secolo, Firenze,
Le Monnier Università, 2021, pp. 89-107.
Su
Balzac, pp. 90-97.
AA.VV., Focus. Balzac e il diritto. Discussione intorno a G. Guizzi, Il
«caso Balzac». Storie di diritto e letteratura, Il Mulino 2020, «LawArt
Rivista di Diritto, Arte, Storia
Journal of Law, Art and History», Torino, 2, 2021, pp. 353-389.
Giacomo Pace Gravina, La maledizione del giurista, pp. 353-357;
Giovanni Chiodi, Balzac e i paradossi del diritto privato ottocentesco, pp. 357-373;
Francesco Gambino, Le verità del credito tra diritto e letteratura, pp. 373-389.
Sara Albano, Honoré de Balzac fu non solo il maestro del
romanzo realista nel panorama francese, ma anche un vero buongustaio,
‘Prodigius. Promotori di Gusto’, 13 febbraio 2021.
[on-line].
Flavien
Bertran de Balanda, Conservatisme et conjugalité dans “Les Mémoires de
deux jeunes mariées”, in AA.VV., Balzac politico ... cit., pp.
47-63.
Alfonso Berardinelli, Matrimoni, in Giornalismo culturale. Un’introduzione al millennio breve. A cura di Marianna Comitangelo et Giacomo Pontremoli, Milano, Il Saggiatore, 2021, pp. 470-472.
Alberto Beretta Anguissola, Il romanzo francese dell’Ottocento. Un racconto in otto percorsi, Roma, Carocci editore, 2021 (“Quality Paperbacks”, 625).
Mariolina
Bertini,
Il caso Balzac, ‘Doppiozero’, 27 marzo 2021.
[on-line].
Nel 1896, Léon Daudet pubblicò un romanzo intitolato Le voyage de
Shakespeare. Immaginava che un giovanissimo Shakespeare percorresse l’Olanda
e la Germania, sino a giungere in Danimarca, e che a ogni tappa gli accadesse di
essere testimone di vicende sconvolgenti. Qui una coppia di giovani amanti
approdava al suicidio; là un vecchio abbandonato dalle figlie vagava solo nella
tempesta … Alla fine del viaggio, il futuro poeta aveva assistito, dal vero, a
tutti i drammi che avrebbe poi trasfigurato sulla scena. La narrazione di
Daudet, brillantissima, suggeriva ai lettori un’ipotesi tanto fascinosa quanto
indimostrabile: all’origine di ogni capolavoro shakespeariano doveva esserci
stato un fatto reale. Questo romanzo, ammirato da Proust ma oggi dimenticato, mi
è tornato in mente riflettendo su un momento particolare nella storia della
critica balzachiana. Accadde infatti che, tra gli anni Cinquanta e gli anni
Settanta del Novecento, un gruppo nutrito dei più autorevoli studiosi di Balzac
si dedicasse allo studio della Commedia umana adottando la stessa ipotesi su cui
era fondato Le Voyage de Shakespeare: ogni personaggio doveva esser stato
ricalcato, più o meno fedelmente, sulla realtà storica, doveva aver avuto, senza
ombra di dubbio, un modello.
Nessuno si attenne a questa prospettiva con più rigoroso fanatismo di
Anne-Marie Meininger (1923-2014), insuperabile segugio delle Archives,
che braccò, spesso con successo, i modelli dei banchieri, degli ingegneri, dei
faccendieri che popolano la Commedia Umana. Era arrivata al gruppo dei
balzachiani per una via inconsueta. Moglie di un medico di provincia, nel 1959
si era presentata sull’opera di Balzac a una trasmissione televisiva tipo Lascia
o raddoppia e aveva riportato un tale successo da venir immediatamente cooptata
nella cerchia degli specialisti. Fu il grande Pierre-Georges Castex in persona a
incoraggiarla alla stesura di una thèse in tre volumi su Les
Employés, portata poi a termine nel 1967. Non tutti i balzachiani certo
erano convinti, come Madame Meininger, che “Balzac non avesse mai inventato
niente”; non tutti pensavano come lei che studiare la genesi di un’opera
significasse necessariamente ricondurla ai fatti reali che l’avevano ispirata.
Ma in quegli anni importanti, nei quali si gettavano le basi della meravigliosa
edizione della Commedia umana che sarebbe uscita nella Pléiade , sotto la
direzione di Castex, tra il 1976 e il 1981, la ricerca di fonti e modelli
assorbì le energie di molti dei migliori studiosi, suscitò scontri e polemiche,
ingombrò di ipotesi inverificabili saggi, prefazioni e ponderosi apparati di
note.
In realtà, al comune lettore del XXI secolo non importa poi molto sapere
se la carriera dell’immaginario banchiere Nucingen è ispirata a quella di James
de Rothschild o a quella di Léon-Beer Fould. Per Marcel Proust era certo un
ghiotto pettegolezzo che il modello della principessa di Cadignan, la più
sfrontata seduttrice della Commedia umana, fosse Cordélia de Castellane, la
bisnonna del suo amico Boni de Castellane; per noi la cosa non è più altrettanto
eccitante. Quando leggiamo un romanzo di Balzac, non sentiamo l’esigenza di
identificare, dietro ogni personaggio, la figura reale che può averlo ispirato;
vorremmo piuttosto riuscire a collocarlo, quel personaggio, nel contesto dei
costumi e delle istituzioni che hanno determinato le condizioni della sua vita;
vorremmo comprendere come lo spirito del suo tempo, così diverso da quello del
nostro, abbia dato forma al suo destino.
Proprio negli stessi anni in cui era in gran voga il “metodo Meininger”,
comunque, l’intenso lavoro dei balzachiani riuniti intorno a Castex sfociava in
preziosi volumi che ricostruivano lo sfondo storico della Commedia umana:
il mondo del giornalismo indagato da Roland Chollet, l’“archeologia di Parigi”
ricreata da Jeannine Guichardet, gli scienziati del “Museum” studiati da
Madeleine Ambrière, per citarne soltanto alcuni. Sempre più emergeva, da queste
ricerche convergenti, quella che era stata l’intuizione di Taine, che a Balzac
aveva dedicato uno studio pionieristico nel 1858: l’autore della Commedia
umana aveva vissuto nel cuore del pensiero del suo tempo, e ne aveva
rispecchiato ed espresso come nessun altro le
peculiarità.
“Parigi – scriveva Taine – eccita già
troppo noi, persone comuni. Quante idee dovevano affollarsi nella mente di
Balzac che, fatta molteplice dall’ispirazione e dalla scienza, in un gesto o in
un abito scorgeva un carattere e una vita intera, li collegava al loro secolo,
prevedeva il loro avvenire, li comprendeva da pittore, da medico, da filosofo ed
estendeva la rete infinita delle sue divinazioni involontarie attraverso tutte
le idee e tutti i fatti! (…) Potete immaginare quali piante dovessero nascere
dal terreno della sua vita, così artificiale e così impregnato di sostanze acri.
Era quel che ci voleva per far vegetare l’enorme foresta della Commedia
umana, per imporporarne i fiori di quel cupo splendore metallico, per
colmarne i frutti di quel succo penetrante e troppo
forte.”
È sullo sfondo di questa tradizione critica che Giuseppe Guizzi,
professore di Diritto commerciale all’Università di Napoli Federico II, con il
suo volume Il «caso Balzac». Storie di diritto e di letteratura (il
Mulino, 2020, 296 pp., 25 €) ha voluto recentemente invitare i lettori di oggi a
ripercorrere la Commedia umana. Esauriente nei riferimenti alla ricca
letteratura già esistente sull’argomento, la monografia di Guizzi non ha
l’ambizione di essere esaustiva né di apportare nuove scoperte su un tema che ha
già avuto in Francia specialisti eminenti come Michel Lichtlé. Nasce però da una
conoscenza profonda e da una passione autentica per il mondo di Balzac; di quel
mondo, letto attraverso la lente delle sue competenze di giurista, l’autore ci
offre un’immagine estremamente istruttiva e stimolante, coinvolgendoci nel suo
desiderio di esplorarne tutte le contraddizioni, i paradossi e i
segreti.
Da sempre, i lettori di Balzac hanno notato la centralità del denaro nel
mondo della Commedia umana. Nei romanzi più letti nei primi decenni del
XIX secolo, di denaro non si parlava mai: né René, l’eroe di Chateaubriand, né
la Corinne di Madame de Staël, né l’Adolphe di Benjamin Constant erano mai
costretti ad affrontare volgari preoccupazioni finanziarie. Le cose vanno
diversamente nell’universo balzachiano: sappiamo esattamente quanto spende dal
sarto e dal calzolaio un giovane che nel 1820 sbarca dalla provincia a Parigi;
ci viene detto con precisione a quanto ammonta il patrimonio che il bottaio
Grandet è riuscito ad accumulare acquistando beni ecclesiastici nel periodo
rivoluzionario e quanto vale la meravigliosa collezione di quadri che il
musicista Pons ha pazientemente raccolto setacciando i depositi di antiquari e
rigattieri. L’aspetto economico è forse il più conosciuto della Commedia
umana. Non a caso, nel film di Truffaut La calda amante (La peau
douce, 1964) il protagonista, direttore di una rivista letteraria, viene
invitato a tenere una conferenza in provincia proprio sul tema Balzac e il
denaro. Di questo aspetto economico, però, c’è un risvolto che non è stato
spesso messo in rilievo quanto merita. Quel fiume di denaro, di ricchezza che
attraversa la Commedia umana è costantemente arginato, deviato o
incanalato dalle leggi del tempo: leggi che regolano (o tentano di regolare) il
mercato finanziario e la Borsa; leggi che perseguono i debitori insolventi, che
cercano di colpire usurai e bancarottieri; leggi che dettano la forma corretta
dei contratti tra privati e dei lasciti testamentari. Qual è il giudizio che
Balzac formula su queste leggi? In quale contesto è maturato il suo
atteggiamento fortemente critico nei confronti del diritto del suo tempo? È a
queste domande che risponde il saggio di Giuseppe Guizzi, fornendoci tutte le
informazioni storiche necessarie per seguire il suo appassionante percorso
attraverso la Commedia umana.
Nota Guizzi che i biografi hanno sempre dedicato molta attenzione ai due
stages del giovane Balzac, il primo presso un avvocato e il secondo presso un
notaio. Negli studi di questi due professionisti il futuro romanziere si è
certamente trovato di fronte a drammi della vita privata per lui molto
istruttivi: storie di eredità contese, di cambiali falsificate, di battaglie
legali di ogni genere. Non meno importante però, sottolinea Guizzi, è stata la
frequentazione della Facoltà di legge, cui Balzac è stato iscritto dal novembre
del 1816 all’aprile del 1819. I regolamenti della Facoltà, risalenti al periodo
napoleonico, imponevano allora ai docenti di limitarsi a dettare agli studenti
il testo delle leggi, senza mai permettersi di formulare critiche o dubbi. Ma
non tutti i professori rispettavano quelle disposizioni e lo studente Balzac
ebbe modo di riflettere sulle lacune e le contraddizioni del diritto positivo.
Sicuramente, poi, non restò insensibile allo scandalo scoppiato in Facoltà al
momento della fine dei suoi studi: la sospensione del professor Bavoux. Bavoux
si era permesso di criticare a lezione gli articoli di legge che punivano
severamente il cittadino che osasse fare resistenza alle irruzioni e
perquisizioni della polizia. La sua sospensione provocò tra gli studenti
proteste, poi riprese dall’opposizione in parlamento. Assolto in un successivo
processo, Bavoux aveva dimostrato che la legge non era un idolo inattaccabile:
la sua lezione riaffiorerà in moltissimi punti della Commedia umana, dove
legalità ed equità raramente coincideranno e dove i trionfi del diritto non
saranno quasi mai, se considerati attentamente, trionfi della vera
giustizia.
Le leggi dovrebbero assicurare la protezione degli innocenti e il giusto
castigo di prevaricatori e profittatori, ma nella Francia descritta da Balzac la
realtà è ben lontana da questo ideale. La legislazione sui fallimenti, ad
esempio, colpisce crudelmente l’onesto profumiere César Birotteau, messo in
difficoltà dalla fuga del suo notaio, e viene invece aggirata dal banchiere
senza scrupoli Nucingen, che proprio su una serie di fallimenti fittizi fonda la
sua enorme ricchezza. Analogamente, le leggi sui testamenti, formulate per
assicurare la realizzazione della volontà del testatore, si prestano a raggiri e
macchinazioni che la vanificano, come dimostra il destino del musicista Pons,
impossibilitato a lasciare al fedele amico Schmucke la collezione d’arte cui ha
dedicato la sua vita intera. Da un romanzo all’altro, Guizzi moltiplica gli
esempi, aggirandosi nella Commedia umana con la sicurezza del
frequentatore di vecchia data e con tutte le conoscenze storiche necessarie alla
comprensione di un mondo oggi in gran parte scomparso. Di quel mondo non manca
però di segnalarci le analogie con quello nel quale viviamo: già i finanzieri
descritti da Balzac mettono in piedi truffe “piramidali”, pagando inizialmente
agli investitori ricchi interessi desunti dai loro stessi investimenti e poi
scomparendo nel nulla con il grosso del capitale investito. L’amaro commento del
giornalista Blondet alla stupefacente carriera del banchiere Nucingen non sembra
dunque aver perduto attualità: “Le leggi sono tele di ragno attraverso le quali
passano le mosche grosse, mentre vi restano impigliate quelle piccole”. È un
aforisma di Swift, che Blondet attribuisce a Montesquieu e che potrebbe fungere
da epigrafe al volume di Giuseppe Guizzi; per ricordarci che la grande
letteratura – nel campo del diritto come in quello della psicologia – arriva a
verità importanti seguendo la strada della finzione e si allontana dalla
rappresentazione letterale della realtà soltanto per meglio coglierne, come
affermava Proust, le grandi leggi.
Mariolina Bertini, La legge è una tela di ragno, «L’Indice
dei libri del mese», Torino, Anno XXXVIII, N. 5, Maggio 2021, p.
29.
Su: Giuseppe Guizzi, Il “caso Balzac”.
Stefano Brugnolo, Sull’uso dei testi letterari come documenti
storici: il caso Balzac, in AA.VV., Balzac politico ... cit., pp.
171-186.
Rossella Bufano, Dalla “Comédie humaine” al dramma giudiziario.
Balzac e il diritto, in AA.VV., Balzac politico ... cit., pp.
155-170.
Vittoria Caiazza, Sconosciuta Straniera. Il prediletto amore di
Honoré de Balzac, Reggio Calabria, Leonida Edizioni, 2021, pp.
243.
Struttura dell’opera:
I —Parigi, 18 agosto 1850;
II – Tours, 1799-Vendôme, 1813;
III – Pohrebyszcze, Impero russo, 1819;
IV – Parigi, 1814-1829;
V – Wierzchownia, Ucraina, 1830-1832;
VI – Parigi, 1832-1833;
VII - Neuchâtel,
Svizzera, 25 settembre – 1 ottobre 1833;
VIII – Parigi, 1833 – Vienna, 1835;
IX – Parigi, 1835-1843;
X – Parigi, 1842-1850.
Domitilla Campanile, Balzac al cinema, in AA.VV., Balzac
politico ... cit., pp. 133-139.
Cristina Cassina, Premessa, in
AA.VV., Balzac politico ... cit., pp.
7-11.
Cristina Cassina, Travagliato, arruffato e al tempo stesso
geniale. Un “Avant-propos ... à la” Balzac, in AA.VV., Balzac
politico ... cit., pp. 65-77.
Alessandro Chetta, Balzac, cambiali e contratti nella sua
«Comédie». Il libro di Giuseppe Guizzi (Federico II) sui tanti aspetti giuridici
presenti nei romanzi della Commedia umana, «Corriere del Mezzogiorno», 11
marzo 2021.
Avete presente gli enormi volti dipinti sui palazzi dall’artista Jorit? I
tipi della Commedia umana di Balzac sono così, macroscopici. E non
solo gli esseri umani, anche l’habitat in cui essi muovono sensi e crudeltà.
Vale anche per i negozi giuridici, «essenti» che il più sagace romanziere d’ogni
tempo ha usato per certificare i mille traffici commerciali dei suoi personaggi;
un contratto, una clausola, un’intimazione, non mancano mai, dettagliati, nei
romanzi. Non c’è civitas senza mercato. Cambiali da scontare, da girare, in
protesto, cessioni d’azienda, fallimenti, successioni testamentarie, tutto va
letto con lente macroscopica nella Comédie, e l’invito dell’autore sembra
uno solo: è questa la società che vi rispecchia, descritta nel grande e nel
piccolo, non potete non accorgervene. Come se n’è accorto Giuseppe Guizzi che
firma Il caso Balzac – Storie di diritto e letteratura (il Mulino).
Concediamo: è pane suo in quanto professore di diritto commerciale alla Federico
II di Napoli, materia incubo per generazioni di studenti fridericiani, e poi
evidentemente ferratissimo fante del fronte balzacchiano. Però le pieghe del
droit nella Commedia umana assumono gradazioni tali che solo un
occhio perspicace poteva trarne una lezione politica. E già. Perché Balzac,
edotto dal praticantato presso l’avvocato de Merville e più ancora da una vita
di debiti, aprì una breccia nello spirito del tempo. L’euforia del primo
laissez faire d’inizio Ottocento, favorito da nuove norme (il codice
civile napoleonico e il codice di commercio), si spegneva sovente nel disdoro
sociale dei tanti falliti, molti dei quali in galera, e qualcuno in tuffo nella
Senna. L’usuraio Gosbeck, il vignaiolo Grandet, i padri vessatori dei figli (il
caso dei Séchard in «Illusioni perdute») ma pure gli «avidi risparmiatori» che
fanno incetta di titoli rischiosi ma dai rendimenti elevati, sono altrettanti
moloch generati dall’ambiguità della legge. Balzac denuncia l’iniqua giustizia
con quella punta di depressione che accompagna i braccati. «Come può un usuraio
avere un potere che non ha neanche il Re? – s’incupisce Orsola Mirouet – e come
si possono imprigionare giovani per denaro?». Criticando il diritto per storto
la grande penna vorrebbe inconsciamente dimostrare l’ingiustizia dei suoi
debiti. Pochi autori sono stati tormentati dai creditori come lui,
ossessivamente, giorno e notte, in patria e all’estero. Gli fa compagnia Emilio
Salgari.
Ognuno degli otto capitoli del saggio si divide in due parti. Gli esempi
espunti dalle vicende «giuridiche» dei vari romanzi sono preceduti da ampi
affreschi storici e dottrinali sulle fattispecie esaminate: gli istituti del
credito, dell’insolvenza, le spinose questioni legate all’eredità
nell’evoluzione francese dell’era napoleonica e poi della Restaurazione.
Excursus spesso specialistici, talora ostici ai non addetti ai lavori, che però
in summa restituiscono una società simile a quella attuale. Da qui l’assoluta
modernità di Honoré, e dei suoi atti in commedia validi per sé e per i
posteri.
Chiara Cusi, Vie privée et publique des animaux. Uno sguardo critico alla società francese della Monarchia di luglio attraverso l’arte di Grandville e la penna di Balzac. Analisi dell’opera collettiva e proposta di traduzione di un racconto. Tesi di laurea, Bologna, Università degli studi, Corso di Studio
in Mediazione linguistica interculturale (Forlì), 2021.
Giancarlo De Cataldo, “Illusioni perdute” di Honoré de
Balzac, in AA.VV., Cento libri da leggere nella vita, a cura di Bruno
Ventavoli, «La Stampa tuttolibri», Torino, n. 2218, 2 gennaio 2021, p.
VIII.
Ecco l’archetipo di ogni romanzo di formazione, il viaggio iniziatico del
giovane provinciale che muove alla conquista della grande città ed entra in
rotta di collisione contro le barriere di censo e di classe, il labirinto dei
salotti, le astuzie delle gran dame e la tenerezza dissoluta delle cortigiane.
Ogni giovane che ha sognato di conquistare il mondo è stato per un pezzo della
propria vita il Lucien de Rubempré che davanti allo sfarzo della mondanità
parigina, strizzato nella ridicola angustia dei suoi paramenti da provinciale,
stringe i pugni e agogna quel denaro che potrà dargli potere, status, gloria e
onori. E ogni giovane è stato il Lucien che abbandona la poesia perché il
giornalismo è più facile, anche se per praticarlo come si deve bisogna imparare
l’arte della menzogna. Ed è stato il Lucien che scopre un po’ alla volta il
piacere del gioco d’azzardo, e per suo tramite va incontro a quella catastrofe
che tocca a chiunque almeno una volta nella vita: la settimana fatale, la chiama
Balzac.
È quando tutto ti crolla intorno e l’abisso ti chiama, e d’improvviso
qualcuno ti tende una mano e ti riporta alla luce. Ma, attenzione: non saprai
mai se è la mano di un angelo o quella del demonio. o di entrambi. Sino alla
prossima caduta: forse l’ultima, quella definitiva. Balzac, nostro immenso,
ineguagliato fratello nell’esplorazione della natura umana (e maestro di ogni
narratore).
Andrea
Del Lungo, «Cet enfer qui, peut-être, un jour, aura son Dante». Balzac e la
commedia della modernità, «Critica del testo», Anno XXIV, N. 3, 2021, p.
49-64.
Paola Deplano, Dante e Honoré de Balzac, ‘Poetarum Silva’,
Pubblicato il 14 aprile 2021. [on-line].
Balzac e la creazione di un Dante
apocrifo.
Siamo abituati a pensare Balzac come il grande maestro del romanzo
realista francese (cosa indubbiamente vera), ma c’è un altro Balzac – esoterico,
sognatore, mistico – che era rimasto affascinato da Swedenborg e sognava una
continuità ideale tra spirito e materia. Da un Balzac realista ci si
aspetterebbe che, qualora decidesse di scrivere un romanzo storico, lo scriva
solo dopo aver accuratamente indagato su date, luoghi, persone, leggi, città,
campagne, economia, usanze personali e sociali. Una specie di Manzoni, insomma,
che non lasciava niente al caso e si documentò minuziosamente prima e durante la
stesura de I promessi sposi. Certo, se con I proscritti Balzac
avesse voluto scrivere un romanzo storico o una reale biografia di Dante, è
innegabile che non sia stato molto accurato. La narrazione storica si fonda
essenzialmente sulla capacità di rispettare le coordinate spazio-temporali – e
questo in I proscritti non avviene quasi mai. Nell’incipit del romanzo, ad
esempio, Balzac comincia la sua opera con un riferimento storico talmente
arbitrario: «Nel 1308 esistevano poche case sul Terrain formato dalle alluvioni
e dalle sabbie della Senna, nella parte alta della Cité, dietro la chiesa di
Notre-Dame». Peccato che nel 1308 Dante fosse molto probabilmente a Lucca,
altrettanto probabilmente non avesse mai messo piede in Francia in vita sua e
che Sigieri di Brabante, altro personaggio-chiave della vicenda, fosse morto da
un pezzo, intorno al 1281. Questi piccoli accenni alla temporalità arbitraria
del romanzo ci servono a dimostrare che più che ricreare un reale spaccato della
società del tempo e della biografia dell’Alighieri, con I proscritti
Balzac intendesse piuttosto dar vita a un personaggio mitico e simbolico, solo
in parte sovrapponibile al Dante storico. Una sorta di Dante apocrifo che, al
pari dei vangeli apocrifi, non era vero ma doveva comunque mantenere le
caratteristiche di una verosimiglianza mistica e sacra, in modo da poterlo
caricare – in quanto creatura solo parzialmente esistente – di arcani
significati che andassero al di là delle sue reali vicende biografiche.
Soprattutto doveva essere l’apoteosi (e il prototipo) dell’esule per eccellenza,
sia dalla patria che dalla poesia – tema, questo, molto caro a Balzac nel
periodo della stesura del libro, successivo alla rivoluzione del 1830 (periodo
in cui molti intellettuali si trovarono a dover emigrare per le loro idee
politiche) e contemporaneo ad alcune vicende editoriali dell’autore che lo
fecero sentire come un paria ed un emarginato nel mondo delle
lettere.
Questo gioco di disvelamento mitico di Dante è il punto di forza del
romanzo, che punta sulla suspance e sull’attesa numinosa del
protagonista. La presentazione del personaggio non avviene una volta per tutte,
ma è un lento incedere, ammantato di mistero, alla scoperta dell’identità dei
due sconosciuti affittuari del gendarme Tirechair. Essi non si sa da dove
vengano, dove vanno, quali siano le loro vere intenzioni e, soprattutto, se si
tratta di due creature umane o diaboliche. Il loro strano modo di essere e di
comportarsi convince il gendarme di aver affittato la propria casa a uno
stregone e al suo famiglio. Preoccupato per un eventuale intervento della
giustizia, egli dipinge alla moglie un ritratto singolare del più anziano dei
due ospiti:
Il signore coricato sopra di noi è sicuramente più stregone che
cristiano. Parola di ufficiale, ho i brividi quando quel vecchio mi passa
vicino; di notte non dorme mai; se mi sveglio, la sua voce risuona come il
rintocco delle campane, e lo sento fare i suoi scongiuri nella lingua
dell’inferno; gli hai mai visto mangiare un’onesta crosta di pane, una focaccia
fatta dalle mani di un fornaio cattolico? La sua pelle bruna è tutta cotta e
abbronzata dal fuoco dell’inferno. Per il giorno del Signore! I suoi occhi
esercitano una strana malia, come quelli dei
serpenti.
Nella descrizione che l’uomo fa del suo locatario abbondano, in effetti,
gli elementi diabolici – o quantomeno stregoneschi: l’assenza di sonno, la voce
cavernosa, l’eloquio in lingua sconosciuta, l’anoressia, la pelle molto bruna,
lo sguardo fisso e penetrante. Con questa descrizione Balzac accresce abilmente
la suspance attorno alla figura del personaggio che ancora non è comparso
sulla scena. Tirechair ha appena finito di parlare che la moglie incrocia lo
sguardo singolare del più anziano dei loro ospiti e, vinta dalla suggestione,
avverte anche lei un che di sovrumano e
diabolico:
In quello stesso momento guardò meccanicamente la finestra della camera
in cui alloggiava il vecchio, e fremette di orrore incontrandovi all’improvviso
il volto cupo e malinconico, lo sguardo profondo che facevano trasalire
l’ufficiale, benché fosse abituato alla vista dei criminali. […] La moglie
dell’ufficiale pensò d’un tratto che non aveva mai visto i suoi due ospiti
comportarsi da creature umane. […] Si sovvenne di essere rimasta giornate intere
senza aver sentito il più leggero rumore nelle camere dei due stranieri.
Dov’erano, durante quelle lunghe ore?
Appena un paio di pagine dopo, l’ospite misterioso scende dal piano di
sopra, turbando i coniugi Tirechair e una donna che si trova in quel momento
nella loro casa. Il suo incedere e tutto il suo modo di essere non fanno che
confermare nel lettore i sospetti che l’ufficiale e la moglie hanno esternato
poco prima. Le pennellate che usa Balzac nel descrivere questa numinosa
apparizione sono magistralmente consone a creare una sorta di deificazione
mitologica del nuovo arrivato:
Lo straniero rimase qualche istante sulla soglia della porta per
esaminare le tre persone che erano nella sala, come a cercarvi il suo compagno.
Lo sguardo che vi gettò, per quanto fosse indifferente, turbò i cuori. Era
davvero impossibile a chiunque, e persino a una persona salda, non confessare
che quella natura aveva dotato di poteri esorbitanti quell’essere apparentemente
soprannaturale. Benché i suoi occhi fossero profondamente infossati sotto le
grandi arcate disegnate delle sopracciglia, erano come quelli di un nibbio
incastonati in palpebre così larghe e circondate di un cerchio nero così
vivamente segnato in alto sulla guancia che i loro globi parevano prominenti.
Quell’occhio magico aveva un non so che di dispotico e di penetrante che
afferrava l’anima con uno sguardo greve e colmo di pensieri, uno sguardo
brillante e lucido come quello dei serpenti o degli uccelli; ma che sconcertava,
che schiacciava con la rapida comunicazione di una immensa sventura o di qualche
potenza sovrumana. Tutto era in armonia con quello sguardo di piombo, fisso e
immobile, severo e calmo. Se in quel grande occhio d’aquila le agitazioni
terrene parevano in qualche modo spente, il volto magro e asciutto portava però
le tracce di passioni infelici e di grandi eventi realizzati. Il naso cadeva
diritto e sembrava trattenuto dalle narici. Le ossa del viso erano nettamente
accentuate da rughe lunghe e diritte che solcavano le guance scarne. Tutto ciò
che nel suo volto formava un incavo appariva cupo. Avreste detto il letto di un
torrente ove la violenza dello scorrere delle acque era attestata dalla
profondità dei solchi che tradivano lotte orribili, eterne. Simili alla traccia
dei remi di una barca sulle onde, larghe pieghe che partivano da ogni lato del
naso marcavano fortemente il suo viso e davano alla bocca, decisa e priva di
sinuosità, un carattere di amara tristezza. La fronte tranquilla si slanciava
con una sorta di baldanza al di sopra dell’uragano dipinto sul volto, e lo
coronava di una cupola di marmo. Lo straniero conservava l’atteggiamento
intrepido e serio che contraddistinguer gli uomini abituati alla sventura, che
la natura ha dotato di impassibilità nell’affrontare le folle furiose e nel
guardare in faccia i grandi pericoli. Sembrava muoversi in una sfera che gli era
propria, dalla quale planava al di sopra dell’umanità. Al pari del suo sguardo,
i suoi gesti emanavano una potenza irresistibile; le sue mani affilate erano
quelle di un guerriero; se si dovevano abbassare gli occhi quando i suoi
affondavano nei vostri, altrettanto si doveva tremare quando la sua parola o il
suo cenno si rivolgevano alla vostra anima. Camminava circondato di una
silenziosa maestà che lo faceva scambiare per un despota senza guardie, per
qualche Dio senza raggi. Il suo abito dava ancora maggior rilievo alle idee
ispirate dalla singolarità del suo portamento o della sua fisionomia. L’anima,
il corpo e l’abito si armonizzavano in modo da impressionare le immaginazioni
più fredde.
Questa descrizione suggestiva e accurata è degna del miglior Balzac. Il
suo fine è continuare a creare intorno all’uomo un alone di inarrivabile
misticismo, come si addice a «un Dio senza raggi». Tutto questo non fa che
accrescere, nei coniugi Tirechair, la convinzione che si tratti di un pericoloso
essere demoniaco. È la terza ospite della casa che riporta tale grandezza entro
parametri umani, disvelando la propria identità e dando al contempo degli indizi
sullo sconosciuto: «‘Sono la contessa Mahaut – disse alzandosi con una dignità
che lasciò sconcertato l’ufficiale. – Guardatevi da causare la minima noia ai
vostri ospiti. Onorate soprattutto il vecchio, l’ho visto dal Re vostro signore,
che lo ha accolto cortesemente, sareste malaccorto se gli causaste il minimo
inconveniente. Quanto alla mia permanenza da voi, non fatene parola se amate la
vita’».
Se l’impressione dei due popolani è adeguata al loro scarso livello
sociale e culturale, permeato di assurdità e di superstizione, ben diversa è
l’accoglienza che i due stranieri ricevono in ben altro consesso, l’Università
di Parigi, durante una lezione tenuta dal grande dotto Sigieri di
Brabante:
Il passo dei due sconosciuti che arrivarono in quel momento attirò
l’attenzione generale. Il dottor Sigieri, pronto a prendere la parola, vide il
maestoso vecchio in piedi, gli cercò un posto con lo sguardo e, non trovandolo,
tanto era grande la folla, discese, gli si avvicinò con aria rispettosa, e lo
fece sedere sul gradino della cattedra prestandogli il proprio sgabello.
L’assemblea accolse questo favore con un lungo mormorio di approvazione,
riconoscendo nel vecchio l’ero di una tesi mirabile sostenuta di recente alla
Sorbona. Lo sconosciuto lanciò sull’uditorio, sopra il quale spaziava, quello
sguardo profondo che raccontava tutto un poema di sventure, e coloro che ne
furono raggiunti provarono fremiti
indefinibili.
Tuttavia, anche in queste pagine, Balzac continua a giocare a rimpiattino
con i suoi lettori, fornendo sì degli indizi puramente umani sulla grandezza di
quello che sembra essere un altro studioso dei massimi sistemi, ma non ancora
rivelandone l’identità. Si dovrà aspettare il finale, un finale impossibile in
cui a Dante viene annunciata la possibilità di rientrare a Firenze, affinché
venga finalmente pronunciato il suo nome e sia noto a tutti qual è il grande
uomo che ha attraversato le pagine di I proscritti al solo scopo di incarnare il
tipo umano dell’esule per eccellenza.
Anna Di Bello, Il romanziere e il politico: “Le Médecin de
campagne”, in AA.VV., Balzac politico ... cit., pp.
15-30.
Piero Dorfles, Honoré de Balzac, “Il curato di Tours”
(1832), in Il lavoro del lettore. Perché leggere ti cambia la vita,
Milano, Bompiani Overlook, 2021, pp. 24-26.
Marise Ferro, Éveline Hanska l’“Étrangère”, in Le
Romantiche a cura di Francesca Sensini, Roma, Succedeoggi Libri, 2021, pp.
139-147.
Cfr. 1958.
Francesco
Fiorentino,
Père et fils, selon Balzac, in AA.VV., Le Père comme métaphore.
Représentations de l’instance paternelle dans la littérature française
moderne. Sous la direction de Iacopo Leoni et Teresa Lussone.
Introduction de Iacopo Leoni, Pisa, University Press,
2021, pp. 89-101.
p. 91. [...] ce qui m’intéresse surtout
ici, c’est le destin des fils dans La Comédie humaine, plus encore que le
rôle des pères : les défaillances de ces derniers, parce qu’elles
conditionnent la vie des jeunes hommes, sont le moteur de la narration. Ces
défaillances des pères se configurent comme une condition préalable du roman
d’apprentissage de la première moitié du XIXe
siècle. […]. En décrétant la fin de
l’autorité paternelle, l’Histoire a consenti au roman d’apprentissage de
s’évader des alcôves et de raconter comment les jeunes hommes peuvent aspirer à
un succès qui n’est plus celui du roman
libertin.
Erica Fontanesi, Il
patto con il diavolo: l'esempio di Cazotte e Balzac. Tesi di laurea magistrale in
Traduzione Specialistica e Interpretariato di Conferenza. Rel. Prof.ssa Marisa
Ferrarini; correl. Dott.ssa Daniela Spreafico, Milano, IULM,
2021.
Mario Gennari, Sarrasine di Balzac, S/Z di Barthes e il mito di Ermafrodito, «Studi sulla formazione. Open Journal of Education», Firenze, Anno XXIV, N. 2, 2021, pp. 113-125.
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souffrances de l’inventeur”. Spigolature in tema di tutela brevettuale tra storia,
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Pierpaolo M. Sanfilippo, Ruggero Vigo. Volume I. Proprietà intellettuale e
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Quotidiano», Roma, Anno 13, n° 300, 31 Ottobre 2021, p.
22.
Ludovica Pati, Gli uomini come animali: la “Comédie humaine” di Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Alessandra Marangoni, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari, Corso di studio in LLingue, Letterature e Mediazione Culturale, Anno Accademico 2020-2021.
Pierluigi Pellini, Il vero inverosimile. Per lo studio di un
topos della poetica realista, da Balzac a Pirandello, in Stefano Lazzarin,
Pierluigi Pellini, Il vero inverosimile e il fantastico verosimile.
Tradizione aristotelica e modernità nelle poetiche dell’Ottocento.
Introduzione di Simona Micali, Roma, Artemide, 2021 («Proteo»), pp.
23-79.
Pierluigi Pellini, Fantasmi del melodramma, in Honoré de
Balzac, Pierrette ... cit., pp.
349-383.
pp. 373-383. Oggi, in una temperie culturale incline a sfumare i confini
fra realtà e finzione, in un’epoca in cui tutto sembra diventare “narrazione”,
la doxa è mutata: l’idea che la lettura dei romanzi sia un’esperienza in
grado, del tutto legittimamente, di investire l’ethos, e di muovere il
pathos, è diventata luogo comune; e il libro di Brooks è considerato
(giustamente) un classico. Al punto che rischia di essere tacciato di retrogrado
snobismo formalista chi si ostina a ricordare un’evidenza: è vero che
l’immaginazione melodrammatica pervade molti episodi della Comédie
humaine, non meno che i più popolari romanzi d’appendice; ma li pervade in
modo radicalmente diverso. Perché la distinzione fra capolavoro e prodotto di
consumo, fra letteratura alta e bassa, non è pregiudizio di critici
superciliosi: anche quando assume l’apparente semplicità del racconto a tesi, il
grande romanzo realista costringe infatti il lettore a sperimentare la
complessità e le ambivalenze della società moderna; anche quando sembra mettere
in scena un elementare melodramma, come in Pierrette, Balzac è capace –
magari contro la sua stessa volontà, o perfino per sbaglio – di confondere le
piste, di disseminare indizi contraddittori, di decostruire gli stereotipi di
cui si serve, in definitiva di rendere fragili e incerte, nel momento stesso in
cui le esibisce, quelle opposizioni nette su cui si fonda la melodramatic
imagination.
Fragile, nel nostro romanzo, è innanzitutto l’eroina: e non solo agli
occhi di noi lettori postmoderni. Diciamolo francamente: il nostro sguardo è
troppo intriso di ironico relativismo, troppo abituato a osservare con un
sorriso sospettoso ogni pretesa di assolutismo sentimentale, per non provare una
qualche forma d’insofferenza nei confronti di Pierrette. Che davvero non ne
azzecca una: è disordinata e poco attenta alle sacre suppellettili della cugina;
si rivela un po’ tarda nell’imparare a leggere e a far di conto; non capisce
nulla degli intrighi che si svolgono intorno a lei in casa Rogron – soprattutto,
non sospetta la gelosia della cugina, sennò le confesserebbe subito che il suo
«innamorato» è Brigaut, non il colonnello Gouraud. Di fronte a una ragazzina
che «sapeva soltanto voler bene», un lettore un po’ impertinente del secolo XXI
potrebbe perfino essere tentato di sottoscrivere il giudizio sprezzante di
Sylvie: «È stupida come una gallina». Al cospetto degli «enormi danni» - parola
del narratore o indiretto libero dei Rogron ? impossibile dirlo – provocati in
casa dei cugini dall’educazione di Pierrette («L’inchiostro sui tavoli, sui
mobili, sui vestiti, poi i quaderni, le penne lasciati dappertutto, la sabbia
per asciugare sulle stoffe, i libri strappati, pieni di orecchie»), la reazione
può non sembrare sproporzionata: «Le parlavano già, e in che termini! della
necessità di guadagnarsi il pane, di non essere a carico di nessuno». O,
quantomeno, risulta altrettanto, se non più, eccessiva l’esacerbata sensibilità
della ragazza: «Nell’ascoltare queste orribili osservazioni, Pierrette sentiva
un dolore nel petto». Davvero così «orribili», ci potremmo prendere la licenza
di chiedere, queste banali «osservazioni»?
Ma per complicare, o perfino dissolvere, l’op-posizione melodrammatica –
questo è il punto – non è necessario ricorrere alle dubbie suggestioni di
un’ermeneutica anacronistica. E il testo stesso a instillare, già al lettore
ottocentesco, il germe del dubbio; a suggerire che la sensibilità di Pierrette,
«autentica, nobile, esagerata», sia soprattutto, se non solamente, esagerata; e
sia tale proprio in quanto nobile: inadatta al mondo borghese, all’unico mondo
che ci sia ormai dato in sorte abitare. E il testo stesso a escludere che della
sublime resistenza passiva della protagonista sia ragionevole dare una lettura
esclusiva- mente agiografica. A campione, una frase esemplare: «con una
testardaggine tutta bretone, Pierrette si ostinava a mantenere un silenzio
peraltro ben comprensibile» – la ragazza, contro ogni evidenza, nega di fronte a
Sylvie i suoi casti commerci notturni con Brigaut (da finestra a strada, con
scambio di lettere, come nelle fiabe o nelle fantasie del romance); è
questo silenzio che alimenta un qui pro quo tipicamente comico (Sylvie
pensa a una tresca con Gouraud), ma al tempo stesso affretta la catastrofe
tragica. Un silenzio testardo e ostinato, in definitiva stupido, o «ben
comprensibile»? Entrambe le interpretazioni sono
legittime.
Spesso Pierrette appare sciocca. In realtà, probabilmente, è solo
eccessiva: e così dev’essere, perché il melodramma è la poetica dell’eccesso. Ma
il fatto stesso che il romanzo non consenta un’adesione piena e incondizionata
all’universo sentimentale dell’eroina getta una manciata di sabbia nei rodati
meccanismi dell’immaginazione melodrammatica. Se poi all’amore senile e ridicolo
della protagonista negativa, alla passione violenta e gelosa di Sylvie per il
colonnello Gouraud, il narratore sembra riconoscere, sia pure a denti stretti e
per intermittenze, un’autenticità creaturale che non si lascia ridurre
interamente al grottesco, e anzi rinvia alla purezza adolescenziale («Le zitelle
hanno in amore le idee platoniche esagerate che professano le ragazze di
vent’anni, hanno conservato certe dottrine assolute come tutti coloro che non
hanno esperienza della vita, che non sanno come le cause sociali di forza
maggiore modifichino, ammacchino e facciano fallire queste belle e nobili
idee»), perfino fra le due protagoniste femminili, tanto diverse per
innumerevoli motivi, si può insinuare il sospetto di una sotterranea affinità.
Con buona pace dell’opposizione netta fra bene e
male.
Del resto, la logica del manicheismo finisce per implodere, dicevo,
perfino per sbaglio, contro la presumibile volontà dell’autore. Non è il caso di
stupirsi: nei più grandi capolavori letterari, non di rado agisce quell’«energia
dell’errore», teorizzata da Victor Sklovskij, che Mario Lavagetto ha, fin dal
titolo, messo al centro di un suo libro su Balzac, La macchina
dell’errore. C’è in Pierrette un personaggio incoerente, di cui
probabilmente Balzac avrebbe modificato alcuni tratti, se avesse avuto più tempo
da dedicare alle bozze del libro – inseguito dai debitori, e dall’ansia di fare
avanzare il cantiere della sua cattedrale di carta, lavorava notoriamente di gran fretta. La
nonna di Pierrette, la bretone Madame Lorrain, quando appare in scena per la
prima volta è la consorte mediocre e un po’ avara di un commerciante di legnami
inetto e vicino al fallimento. Suo figlio, il maggiore Lorrain, muore nel 1814,
nella battaglia di Montereau; e lascia la tenera vedova, con la figlia di
quattrodici mesi, Pierrette, in una situazione economica difficile, ma non
disperata. La giovane donna affida il piccolo patrimonio che le resta ai
suoceri, i quali accolgono in Bretagna nuora e nipotina – il testo, pur nella
sua scorciata brevità, è inequivocabile – non per nobiltà d’animo e affetto
familiare, ma per mero calcolo interessato. Gli ottomila franchi della giovane
Madame Lorrain sono necessari a tenere in piedi il periclitante commercio del
suocero. Poco importa se «l’aria umida del Marais le fu nociva»: «La famiglia
del marito, per trattenerla, la persuase che in nessun altro posto al mondo
avrebbe trovato un paese più sano et più gradevole». Di fatto, i vecchi Lorrain
condannano a morte la vedova del figlio; e nel commento del narratore traspare,
in una sintesi folgorante, tutto il disperato pessimismo antropologico del
migliore Balzac: «Fu coccolata, vezzeggiata, accudita così bene, che la sua
morte fece grande onore ai Lorrain».
È facile che il parallelismo sfugga a un lettore anche solo un poco
distratto, ma il destino della madre di Pierrette è da molti punti di vista
analogo – quasi una profetica, ancorché involontaria, mise en abyme – a
quello che anni dopo toccherà alla figlia. Con la differenza che i suoi
carnefici non sono gli irredimibili Rogron, ma il modesto e rispettabile nonno
Lorrain e la sua amorevole moglie. La stessa avida casalinga piccolo¬borghese –
non poi tanto diversa, a ben vedere, da Sylvie - si trasforma inopinatamente,
nel finale del romanzo, in angelo salvatore, in personaggio incondizionatamente
positivo. Quando compare al capezzale di Pierrette, proprio nel momento in cui
la cugina la sta massacrando di botte, la vecchia Madame Lorrain è trasfigurata,
«nel suo costume
bretone», in «augusta vegliarda». Incarna simbolicamente tutti i valori
dell’ancien régime, della controrivoluzione, della monarchia e
della religione, della famiglia e della giustizia. È una scena da ogni punto di
vista melodrammatica: la lotta, impari e violenta, fisica e morale, fra le due
cugine («Sylvie afferrò con le dita adunche la delicata, la bianca mano di
Pierrette») si fa scontro estremo fra mondi inconciliabili. Ma è anche una scena
comica e rocambolesca, quasi da scombinato vaudeville, e già questa
constatazione formale dovrebbe indurre il lettore al sospetto: la tempistica
appare a dir poco improbabile, la gelosia di Sylvie è grottesca, e in tutto
questo notturno trambusto suo fratello Jérôme-Denis non ci capisce
niente.
La nonna risponde con quasi soprannaturale puntualità alla disperata
richiesta d’aiuto della nipotina; ma se il suo intervento si rivelerà inutile,
non è solo perché la fragile costituzione della ragazza è ormai compromessa; né
perché la struttura di genere dell’episodio, o per meglio dire il suo modo
letterario, oscilla fra serietà tragica e commedia. Il testo suggerisce un’altra
spiegazione, affidata alle risonanze implicite del linguaggio usato da Balzac:
la vecchia Madame Lorrain è «una specie di fantasma», un «grande fantasma
rinsecchito», uno «spettro sublime». Un revenant: fantasma, spettro. Non
una donna reale (o quantomeno realistica), non la massaia egoista di quindici
anni prima, ma l’incarnazione simbolica di tutto ciò che la Bretagna
controrivoluzionaria incarnava agli occhi nostalgici di Balzac: «Questa matrona
del Marais somigliava a una donna di Plutarco». Lo statuto del personaggio si
trasforma radicalmente: alla brutalità dell’effetto di reale subentra
un’idealizzazione che – l’autore della Comédie humaine lo sapeva meglio
di chiunque – non è altro che proiezione
mitica.
Al richiamo del melodramma rispondono ormai soltanto i fantasmi. Nella
cruda realtà della Comédie humaine, non c’è più spazio per la nobiltà
immacolata degli individui eccezionali: in quell’intreccio di interessi e egoismi
che è la società moderna, nessuno può sottrarsi al degrado collettivo di
un’umanità dannata.
Pierluigi Pellini, La risata acida di Balzac, «Le parole e le cose», 8 Giugno 2021. [on-line].
Michele Perrino, Recensione a G. Guizzi, Il «caso Balzac».
Storie di diritto e letteratura, il Mulino, 2020, pp. 275, ‘Giustizia
insieme’, Roma, Febbraio 2021.
Se, nell’universo del diritto quale (almeno, essenzialmente) pratica
sociale, neppure la scienza giuridica, quale scienza – appunto – eminentemente
pratica è esclusivo appannaggio dei giuristi di professione, arricchendosi
dell’apporto conoscitivo di tutti i soggetti in essa coinvolti; se ciò è vero,
la più ampia e variegata “esperienza giuridica” è in realtà patrimonio, storia e
vita quotidiana di tutti.
Ecco dunque come appaia naturale che, anche in letteratura, il cosiddetto
romanzo realista non possa che incontrarsi con il diritto, quale componente
immancabile dell’esperienza umana che quel romanzo vuole artisticamente
presentare. Ed ecco anche come ben si spiega che Honoré de Balzac, da molti
considerato il padre del romanzo realista, anche se di un realismo da
“visionnaire passionné” (così come, è lo stesso libro qui recensito a
rammentarlo, ebbe a definirlo Baudelaire) poiché intriso di partecipazione
umana e presa di posizione morale, non potesse, nel redigere la monumentale
opera della Comédie Humaine, non incontrare ad ogni passo l’esperienza
giuridica, spesso ritratta nella dimensione delle amare vicissitudini dei
protagonisti della stessa Commedia, quale metafora della vita umana. E
ciò tanto più considerata la biografia di Balzac, che ricevette – malgrado
l’innata vocazione letteraria – una iniziale formazione giuridica presso la
Facoltà di diritto di Parigi dell’epoca e poi nel praticantato notarile e
soprattutto da avvocato.
In questo fortunato e tutto speciale incrocio fra diritto e letteratura,
ci guida con mano sapiente il recente lavoro di Giuseppe Guizzi dal titolo Il
«caso Balzac». Storie di diritto e letteratura. E lo fa parlando non solo ai
giuristi, ai quali pur offre una preziosa occasione “per guardare al diritto
attraverso la lente della letteratura” balzachiana, con un felice esempio di
Law and Literature. In effetti, dichiarato intento dell’Autore –
professore ordinario e ben noto studioso di diritto commerciale, al tempo stesso
impegnato intensamente e a vasto raggio nell’attività forense e in molto altro
dell’esperienza professionale giuridica più qualificata – è principalmente
quello di rivolgersi al “lettore meno avvertito sulle tematiche giuridiche”, per
aiutarlo ad inquadrare il contesto storico-giuridico nel quale si muovono i
personaggi della Comédie humaine e così cogliere i temi giuridici che
sovente sono parte integrante della trama delle relative storie; e, al tempo
stesso, a riconoscere, di quella esperienza giuridica e umana di cui la Commedia
è il ritratto, “quanto ci può essere di comune e di eternamente irrisolto in
ordine ai medesimi problemi quali si presentano ancora nel mondo moderno”: così
da avvedersi di come il realismo dei romanzi balzachiani, pur descrivendo una
realtà storicamente individuata, anche sotto il profilo delle vicende giuridiche
che ne travagliano i personaggi, attinga in effetti, anche sotto il profilo del
diritto e della sua umana esperienza, una “verità interiore” ben più duratura
della realtà storica descritta (è ancora il libro di cui si scrive a ricordarlo,
citando le parole usate da Hugo von Hofmannsthal, nell’introdurre l’edizione
tedesca della Comédie del 1908).
La sterminata produzione di Balzac si svolge al tempo della Monarchia di
luglio (1830-1848); ma le vicende narrate affrontano temi giuridici con radici
profonde nella evoluzione normativa francese ed europea di tanti decenni
addietro: dalle prime forme di statalizzazione del diritto e
proto-codificazione, con le due Ordonnance di Luigi XIV, quella de
commerce del 1673 (Code Savary) e l’ordinanza sulla navigazione marittima
del 1681, nel campo specifico del diritto degli affari, e con l’affermazione del
primato della legge sul diritto durante l’Ancien Régime, fino alla convulsa
produzione normativa a ridosso della Rivoluzione francese e poi alla stagione
napoleonica ed ai monumenti giuridici del Code civil del 1804 e del
Code de commerce del 1807, pur sempre in chiave di primazia del sovrano e
della legge sul diritto, con definitiva realizzazione dell’assolutismo
giuridico, ancorché raccogliendo in parte i frutti della Révolution, sul
piano dei principi illuministici di autonomia e razionalismo; per giungere alla
Restaurazione e infine, appunto, al Regno di Luigi Filippo, coevo all’opera
balzachiana; con un passaggio progressivo dalla difficile coesistenza di un
diritto consuetudinario (Droit coutumier) di matrice germanica, prima
radicato nella Francia settentrionale, con un diritto scritto promanante dal
sovrano (Droit écrit), in precedenza più diffuso a sud del Paese,
fino alla assoluta prevalenza del secondo sul
primo.
Di quella evoluzione Giuseppe Guizzi offre nel libro una rappresentazione
accurata quanto suadente, ripartita per macrosettori del diritto privato
patrimoniale – il diritto dei contratti, delle successioni, dell’intermediazione
finanziaria, dell’iniziativa economica e della concorrenza, dell’insolvenza e
del fallimento, del mercato bancario e mobiliare, con una fulminante incursione
nella crisi della giustizia e nei meccanismi (spesso squilibrati ed illusori) di
risoluzione negoziata delle controversie per via di transazione – e svolta in
costante contrappunto (di qui lo speciale fascino della ricostruzione, poiché
ancorata a volti e storie umane, ancorché letterarie) con le opere e i
personaggi fondamentali di Balzac.
Così, l’illusorietà degli astratti fondamenti illuministici della
disciplina del contratto nel Code civil, in chiave di autonomia e
capacità razionale del soggetto di autodeterminarsi, nel risolversi facilmente –
in assenza di meccanismi di riequilibrio dei rapporti effettivi di forza
contrattuale – nell’ingiustizia concreta del contratto, si rispecchia nelle
vicende de Il curato di Tours, parte debole delle macchinazioni negoziali
intessute da mademoiselle Gamard, così come nella sperequata vendita dei
gioielli della contessa de Restaud all’usuraio Gobseck, e ancora nell’acquisto a
prezzo vile della collezione d’arte del musicista Pons da parte del mercante
Magus in Le cousin Pons, profittando oltretutto della buona fede di
Schumcke, amico del cedente; nonché nelle inique negoziazioni cui soggiace il
tipografo David Séchard con il padre prima, poi con i propri concorrenti
fratelli Cointet nelle Illusioni perdute.
Le lotte per l’accaparramento di eredità innescate dalla imperfetta
disciplina successoria introdotta dal Code civil (nel compromesso
politico fra il riconoscimento, di radice romanistica, della libertà individuale
testamentaria e l’imposizione di limiti alla stessa libertà, onde scongiurare la
caccia ai vecchi successibili di cui rendersi beneficiari, tutelare la
conservazione dei patrimoni famigliari e assicurare l’adempimento del dovere di
provvedere ai bisogni dei prossimi congiunti) è esemplificata, in Ursule
Mirouët, nelle dolorose vicende del dottor Minoret e della protetta Ursule
rispetto alle brame degli eredi legittimi del primo, e ancora una volta in Le
cousin Pons, nelle traversie di Pons esposto alle mire ereditarie di madame
Camusot.
Le pratiche usurarie capaci di essere attuate, sfruttando le pieghe della
disciplina della concessione di credito e dei titoli cambiari dell’epoca –
anch’essa puntualmente ricostruita da G. Guizzi –, da parte di avidi
profittatori, trovano plastica rappresentazione nel personaggio già richiamato
dell’usuraio olandese Gobseck, o nel vortice in cui cade la contessa de
Vandenesse pur di consentire al suo amante di pagare le cambiali in Une
fille d’Ève.
I problemi suscitati dalla inadeguatezza della disciplina introdotta dal
Code de Commerce nel 1807 – malgrado il suo progetto innovatore - nel
cogliere il passaggio da un modello a capitalismo prettamente commerciale ad una
economia di produzione industriale, con lacune ardue da colmare, vengono
incarnati nell’avventura imprenditoriale del profumiere César Birotteau,
allorché questi si avventura in una nuova impresa produttiva in forma societaria
con il proprio commesso; e ancora Illusioni perdute ritraggono l’infausta
battaglia competitiva che vede David Séchard soccombere rispetto ai più
aggressivi e spregiudicati concorrenti
Cointet.
Gli effetti di una regolazione eccessivamente punitiva dell’insolvenza,
con la previsione fra l’altro dell’arresto interinale del fallito e di una
procedura a forte connotazione autoritativa, trovano espressione nelle vicende,
tratte da Eugénie Grandet, di Victor Grandet e dei tentativi del fratello
Félix (il Papà Grandet) di comporne l’insolvenza facendosi beffe dei creditori,
cui fa da contraltare il generoso intervento di Eugénie nel ripianare i debiti
del cugino Charles, figlio del fallito, onde fugare l’infamia pure su di lui
ricaduta, che ne avrebbe precluso l’ambita ascesa sociale; ed è ancora César
Birotteau a tornare qui, impersonando la figura del fallito ex commerciante di
profumi convertitosi all’industria, ora precipitato nell’insolvenza all’esito di
manovre azzardate e condotte ingannevoli attuate pur di giungere alla
ricchezza.
Così come è di nuovo il Papà Grandet del romanzo Eugénie Grandet a
formare il modello letterario dello speculatore senza scrupoli, in un periodo di
forti tensioni della finanza pubblica e di mutamenti legislativi, dove alla più
restrittiva regolamentazione introdotta da Napoleone del mercato mobiliare
ufficiale risponde presto la formazione di un mercato parallelo e sregolato
(la Coulisse), e dove diviene facile arricchirsi profittando della
campagna di vendita dei beni sottratti dallo Stato al clero e dell’altalenante
mercato dei titoli di debito pubblico; cui si aggiunge il ritratto del banchiere
alsaziano Frédéric de Nuncingen, che compare sia in Le Père Goriot che ne
La Maison Nucingen, autentico esempio di predatore finanziario senza
scrupoli, ascritto da Balzac alla categoria dei banchieri bollati come “lupi
cervieri”.
E tornano infine, nel tratteggiare la profonda crisi della giustizia
dell’epoca, pur a fronte delle riforme napoleoniche, le vicende di David Séchard
nelle Illusioni perdute, di César Birotteau, di Schmucke in Le cousin
Pons; insieme a quelle de Il colonello Chabert, reduce di guerra creduto
morto e poi in vario modo impedito a riprendere il suo posto nella famiglia e
nella società, nonché alle traversie del retto giudice istruttore Jean-Jules
Popinot ne L’interdiction, travolto da maneggi politico-giudiziari a
vantaggio della marchesa d’Espard che briga per far interdire il marito; senza
che alle disfunzioni della giustizia valgano a porre sempre rimedio le soluzioni
compositive negoziate – di modo che non sempre “un cattivo accomodamento vale
più di un buon processo”, secondo l’antico adagio che compare nelle Illusioni
perdute – dato che la transazione, che è pur sempre un contratto, patisce di
questo i possibili, sopra denunziati
squilibri.
Ne risulta un animato affresco, insieme, dell’opera balzachiana e del suo
scenario storico-giuridico, nel quale i problemi del diritto e della giustizia
condizionano ad ogni passo vicende ed esiti dei rapporti umani. Balza altresì
nitido, dalla chiara rappresentazione offerta nel libro di Giuseppe Guizzi, il
giudizio dello scrittore Balzac sull’esperienza giuridica oggetto delle sue
opere: un giudizio disincantato e pensoso, spesso negativo, al cospetto di un
mondo in cui si può avere “ragione in fatto e torto in diritto”, dell’avidità
dei protagonisti pronti a piegare le regole al proprio tornaconto,
dell’impotenza e a volte sordità del sistema giudiziario; dove si assiste ad un
aspro conflitto fra diritto e giustizia, in cui “non sempre l’assetto di
interessi imposto dalla legge è necessariamente quello più giusto”, o in altre
parole in cui il diritto non attinge la giustizia, vista – non senza echi
giusnaturalistici – come quella “conforme alla natura delle
cose”.
In questa sostanziale sfiducia balzachiana nella giustizia umana, oltre
che la caduta generale dei costumi nella società protagonista dei suoi romanzi,
innervata di cupidigia in una temperie culturale, quella della Monarchia di
luglio, che appare guidata dalla parola d’ordine dell’Enrichissez-vous,
il ceto dei giuristi è, come e più degli altri cittadini, chiamato sul banco
degli imputati: fra notai distratti o non equidistanti, o che perfino fuggono
con il denaro dei clienti; avvocati (con l’eccezione di Derville) impegnati nel
sabotaggio dei procedimenti, nella produzione di cavilli e nell’avvio di
contestazioni pretestuose; magistrati (anche qui con salvezza del buon giudice
Popinot, che proprio perciò si vede “sistematicamente posposto nelle
progressioni di carriera”) poco disponibili alle ragioni della giustizia e
piuttosto “arsi dal fuoco dell’ambizione”; professori universitari – ma qui
passando dall’opera balzachiana alla realtà dell’epoca, come ricostruita
dall’Autore nel libro qui recensito – supinamente (anche qui, è ancora G. Guizzi
a rammentarlo, con le dovute eccezioni, come quella di François Nicolas Bayoux,
processato per aver osato segnalare ai suoi studenti la necessità di riforma di
disposizioni del codice penale) ridotti al ruolo di pavidi dettatori ed esegeti
pedissequi della norma imposta dal sovrano.
Di tutto ciò Giuseppe Guizzi ci consegna una ricostruzione attenta quanto
misurata e fluida, ricca di richiami alla letteratura critica balzachiana, a
quella storico-giuridica così come alla dottrina giuridica civilistica e
commercialistica sia storica che contemporanea, senza che mai ne risulti
appesantito il testo, quasi diremmo senza avvedercene, per lo più in agili note
a piè di pagina, mentre fluisce la rappresentazione come se questa consistesse,
oltre che in un raffinato saggio di diritto e letteratura – quale in effetti è
–, per così dire anch’essa una prova di letteratura nei e fra i romanzi di cui
si discorre; con corredo di richiami – pure questi quasi in sordina e solo per
chi voglia coglierli – agli eclettici interessi dell’Autore, suscitati dalla
ricchezza delle opere balzachiane richiamate poste a confronto con la sua
sensibilità: come quando si interroga su quale trascrizione per pianoforte della
settima sinfona di Beethoven sia eseguita da Ursule Mirouët nel romanzo omonimo,
o approfondisce il senso per cui Balzac fa risuonare il movimento eroico della
finale della quinta sinfonia dello stesso Beethoven nella mente di César
Birotteau, allorché questi ottiene la riabilitazione dopo il suo fallimento,
poco prima di morire sopraffatto dalle emozioni; o nelle citazioni filosofiche
(Husserl, Gadamer, per dirne solo alcuni) e anche cinematografiche, dal
Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin al Gordon Gekko del film Wall
Street di Oliver Stone.
Altro non è da dire in una recensione, per non privare il lettore del
piacere della sua lettura. L’intento che Giuseppe Guizzi dichiara in principio
del volume – schermendosene, con la ritrosia e misura che gli conosciamo, come
fosse un eccesso di ambizione – di attrarre i lettori ad una più estesa
conoscenza dell’opera balzachiana, così anche da indurre gli editori ad una sua
più ampia pubblicazione in lingua italiana, è – credo – pienamente raggiunto: a
partire da chi scrive, che a Balzac si accostò anni addietro quasi per caso,
attraverso quella commovente gemma che è Il colonnello Chabert. Al
contempo, la lettura del volume è, per i giuristi che in varie vesti concorrono
al farsi dell’esperienza giuridica, occasione per riflettere su modi e ragioni
del proprio ruolo e contributo.
Franco Pezzini, Una
predestinazione più sociale che metafisica: Commedia umana & fiati gotici in
“Wann-Chlore”, «Post/teca. Materiali digitali a cura di Sergio Failla»,
ZeroBook, 6 Marzo 2021, pp. 687-691.
Su : Honoré de Balzac,
Wann-Chlore. Jane la pallida, trad. di Mariolina Bertini, introd. di
Alessandra Ginzburg, pp. 480, € 15, Clichy, Firenze
2020. Cfr. www.carmillaonline.com.
Pier Paolo Portinaro, Laboratorio Balzac, in AA.VV.,
Balzac politico ... cit., pp. 119-132.
Matilde Quarti, Balzac: la società francese allo specchio,
‘il Libraio.it’, 17 gennaio 2021. [on-line].
Emanuela Schiavone, Stendhal e Balzac tra autobiografismo e romanzo di formazione:
i giovani “di genio” simbolo della modernità.
Dal “Louis Lambert” alla “Vita di Henry Brulard”,
dalle “Illusioni perdute” al “Lucien Leuwen”. Elaborato finale in
Letteratura francese. Tutor: Prof. Emanuele Canzaniello, Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Studi umanistico, Corso di laurea magistrale di Filologia moderna, Anno accademico 2020-2021.
Massimo Scotti, Recensione di Honoré de Balzac “Wann-Chlore.
Jane la pallida”, «Diacritica», Roma, Anno VIII, fasc. 1 (37), 25 febbraio
2021, pp. 275-279.
Forse, per giudicare adeguatamente, oggettivamente un romanzo,
bisognerebbe prima della lettura ignorarne l’autore, l’anno di composizione,
perfino il titolo – chi lo diceva? Credo Franco Brioschi, troppo presto
scomparso.
Comunque aveva ragione: se non sapessimo che Wann-Chlore
appartiene al periodo giovanile di Honoré de Balzac, che non lo incluse nemmeno
nel ciclo della Comédie humaine, potremmo considerarlo una delle
sue opere più compiute, sicuramente una di quelle strutturate con più evidente
decisione, e una delle più ricche, perché è un intreccio di tre romanzi, come
spiega Alessandra Ginzburg nella sua esauriente, ottima
introduzione.
Dalla quasi commedia di costume della prima parte – che è anche un fine
romanzo psicologico, ritmato con gusto, alternato fra la storia d’amore
appassionata dei protagonisti e il furbesco duetto tra la cameriera e il suo
sergente – si passa all’accelerazione febbrile della seconda parte, a sua volta
divisa in due sezioni: il memoriale di Horace Landon, tormentato eroe, e le
lettere sempre più terribili del suo amico Annibal Salvati. La terza parte fa
precipitare il dramma. E con lui il lettore, in una corsa affannosa verso la
fine.
Questa frenesia nella lettura, che si fa sempre più rara di questi tempi,
come l’invito all’immedesimazione, alla partecipazione, all’abbandono al puro
piacere senza limiti della narrazione, fa rimpiangere un po’ tutto il tempo e
l’accanimento persi nel disdegno per il “romanzesco”, la diffidenza snobistica
per i “colpi di scena”, l’austero compiacimento nell’annoiarsi sconfinatamente
in nome del Romanzo Nuovo e delle sue lambiccate sperimentazioni, che hanno
colonizzato non solo la critica ma anche le abitudini di lettura per più di metà
del Novecento – o per il secolo intero?
E viene in mente quella delicata principessa delle novità alla moda,
Micol Finzi Contini, che a letto, malata, leggeva I ragazzi terribili di
Cocteau: “Très chic, niente da dire, ma vuoi mettere i libri di una volta?
Guerra e pace, o I tre moschettieri … quelli sì erano romanzi!”
(cito a memoria).
Proprio così: che romanzi, quelli! Ma, dopo averne fatto scorpacciate,
dal Settecento in poi, l’Europa, il mondo intero se ne dissero sazi. E
preferirono gli anoressici pranzi dello sperimentalismo, bandendo dalla dieta i
cibi romanzeschi ipercolesterolemici e più succulenti: quindi niente balli,
tesori, testamenti perduti e ritrovati, corteggiamenti al chiar di luna, duelli,
fughe, inseguimenti, tradimenti, assassini. Solo ore di riflessioni, giornate
emblematiche di tutta una vita, epifanie nella nebbia di esistenze umbratili,
coscienze inquiete ma sempre fluenti, personaggi incerti fra essere e non,
operai, impiegati, commesse, sartine, uomini e donne qualunque. Fra le due
guerre i narratori puri, robusti, di razza, se la videro particolarmente male.
Lettissimi, sì, ma in segreto, e vergognosamente. Un pubblico di gente comune,
poco esigente, per niente raffinata: quando vide ricomparire, decenni dopo, in
nuove edizioni superbe, e con grandi sfarzi critici, certi autori di allora, una
nobile, altera signora commentò: “Ma guarda, è tornato di moda? Erano libri che
una volta si davano alle cameriere”.
Eppure, anche alle spalle degli autori considerati criticamente più fini,
c’erano i romanzieri veri, ipertrofici, lutulenti, prodighi di sorprese di
trama, che non rinunciavano a un effettaccio neanche a morire. Non erano tanto
le grandi narrazioni del Sette e dell’Ottocento a venir stigmatizzate da
sperimentatori e modernisti, quanto semmai le secche del Naturalismo. E loro,
gli algidi campioni delle ricerche sulle nuove forme di romanzo, invidiavano in
segreto i potenti padroni di casa nelle lussuose dimore della narrativa dei
tempi che furono: Dumas e Dickens, Trollope e Thackeray, George Sand e Balzac,
appunto. «Io nasco in Balzac» diceva con orgoglio una delle più eleganti
plasmatrici della prosa francese, Colette. E perfino i teorici del “romanzo sul
niente”, come Flaubert, confessavano di avere fra i loro maestri belle signore
romantiche e prolifiche, come George Sand, generose di storie e di “fatti”
(proprio quelli di cui Virginia Woolf confessava amaramente di essere a
corto).
Leggere oggi un romanzo come Wann-Chlore fa riflettere sulla
specificità preziosa del “romanzesco” allo stato puro, sulle idee che sottende,
sulla sua funzione nella società in cui nacque come riflesso, diretto o
distorto. Bisognerebbe poterlo leggere in segreto, abbandonandosi colpevolmente
a un piacere proibito, come avranno fatto, all’epoca in cui fu scritto, tante
ragazze di buona famiglia alle quali certi libri erano vietati. Ma anche tanti
giovanotti curiosi di quel che passava nel cuore di quelle ragazze, le cui
psicologie erano ignote. Leggevano anche loro, forse avidamente, maldestramente,
e per entrambi i sessi quei romanzi erano probabilmente preziosi per
comprendersi, per capire che coltivare due amori, e non l’unico e solo, come
comandavano i dettami romantici e la quiete pubblica, non era soltanto possibile
ma faceva anche parte degli innumerevoli segreti e delle altrettante
contraddizioni che il cuore umano racchiude ostinatamente. Quelle pagine erano
fonti di educazione sentimentale in epoche in cui, come Balzac e i più
consapevoli romanzieri insegnano, la sopraffazione, il potere, il denaro, gli
scontri di classe erano padroni incontrastati e
feroci.
Nelle mani di un abile, consapevole narratore, il genere romanzo poteva
assumere una fisionomia enciclopedica: nozioni e intuizioni che oggi troviamo
frazionate in testi specifici o trattati di psicologia, scienze sociali,
economia e finanza, in un romanzo ben fatto potevano essere sintetizzate, e
illustrate con esempi lampanti, in pagine efficaci che spiegavano – come nel
caso di Wann-Chlore – le mestizie della vita di provincia e della piccola
nobiltà di campagna, o i tormenti di una fanciulla oppressa da una mater
terribilis, ingombrante, plenipotenziaria, invidiosa, bizzosa, asfissiante.
Ma anche la vita solitaria di un uomo deluso; il rapporto fraterno con il suo
intendente che, se devoto, diventa anche segretario galante; le manovre
sentimentali che somigliano in modo allarmante a strategie militari. E poi il
delirio del desiderio soffocato. La fissazione – idealizzante o narcisistica? –
dell’amour-passion, in cui anelito all’indipendenza, bisogno di
appagamento erotico e carnale, ansia di identificazione e bramosia di rivalsa si
intrecciano inestricabilmente. Eugénie ama davvero il suo uomo tenebroso? O
correrebbe anche fra le braccia del garzone del lattaio, pur di scappare dalla
sua prigione domestica? Diventerà una ragazza con la valigia o con la pistola?
Una Sandrelli sperduta in Io la conoscevo bene o un’emancipata Monica Vitti
fuggita a Londra da un’opprimente Sicilia?
Questioni simili venivano affrontate da quei romanzieri che si assumevano
ogni giorno, davanti ai loro scrittoi, i compiti dei medici dei corpi e delle
anime, dei geografi umani e sociali, dei parroci intenti a discernere fra colpe
e peccati, innocenze e perversioni.
Chi conosce Balzac scoprirà in Wann-Chlore motivi, stilemi,
situazioni e prefigurazioni di personaggi di là da venire: una Eugénie che poi
prenderà il nome di Grandet; l’incombere costante del destino; una musica
proveniente da un luogo chiuso, note misteriose a cui la pianista affida tutte
le sue ansie (come nella futura Duchessa di Langeais); un’innamorata che
arriva al punto di farsi assumere come domestica pur di stare accanto
all’oggetto della sua adorazione disperata. E, soprattutto, una critica feroce
della nobiltà, con cui Balzac non chiuderà mai del tutto i conti, nel lungo
duello di classe che è uno dei fondamenti della
Comédie.
L’importanza di questo romanzo è testimoniata dal fatto che gli è stato
dedicato un convegno, nel 2007, all’Università di Macerata, come ricorda
Alessandra Ginzburg. Raramente un incontro di studiosi viene organizzato per
analizzare una sola opera “minore” di un pur grande autore – se non è la Vita
nuova di Dante, per intenderci; questo fa pensare alle fluttuazioni di
valore che i testi incontrano nella loro vita culturale, talvolta inconsuete,
spesso imprevedibili, come imprevedibile è la perfetta misura nell’equilibrio
strutturale del romanzo, che sembra matematicamente costruito, a dispetto della
fama di autore fluviale e debordante che ancora qualcuno attribuisce a Balzac:
circa 150 pagine per la prima e la seconda parte, più o meno 100 la seconda,
accuratamente divisa in due metà di 50
ciascuna.
Infine, e ciò che più conta in un’edizione italiana, la traduzione,
firmata da Mariolina Bertini. Dimostra l’essenzialità di un elemento di cui
ormai raramente si considera il valore imprescindibile: l’esperienza; studiosa
raffinata di letteratura francese, Mariolina Bertini ha da sempre un debole per
gli scrittori dall’immenso fiato narrativo, autori di opere ciclopiche, come
Proust e, appunto, Balzac. Ha curato indimenticabili edizioni della
Recherche e di molte altre opere proustiane, per Einaudi (come le
Cronache mondane e letterarie), e della Comédie per i «Meridiani»
di Mondadori.
Il suo stile critico appartiene all’aristocratica tradizione di Giovanni
Macchia e di Francesco Orlando, intramontabile come la vera eleganza, e come la
vera eleganza fatto di perfetta purezza, estrema leggibilità, costellazioni di
idee e spirito brillante, molto francese ma anche britannico, in una parola,
europeo (senza nulla togliere, sia ben chiaro, alle consuetudini esegetiche
americane, che virano, però, ormai troppo verso un solipsismo culturale e
avanguardistico a volte difficile da seguire).
Si sente che Mariolina Bertini si diverte, traducendo, che ama il suo
testo e le atmosfere di cui è intriso. Il suo tono ha la leggerezza di un ballo
e la naturalezza di chi sa di cosa sta parlando, conosce i labirinti del
fraseggio dell’autore, lo tratta da fratello nato in un’altra famiglia
linguistica imparentata strettamente con la sua, e si comporta da sorella
accorta e coscienziosa, sa contenere i suoi guizzi quando potrebbero apparire
esagerati e mettere in luce i suoi pregi, come avranno cercato di fare le Brontë
con il loro amatissimo Branwell, ma per fortuna Honoré non era alcoolizzato,
soltanto caffeinomane.
Dopo Wann-Chlore ho letto After Dark di Haruki Murakami, e
ho fatto male. Mi venivano in mente le parole di un bravo cantautore come
Samuele Bersani: «Sei solo la copia/ di mille
riassunti».
Giulio Silvano, Libri. Honoré de Balzac, “Pierrette”,
Sellerio, 400 pp., 14 euro, «Il Foglio», Milano, 25 marzo 2021, p.
3.
Nessuno, nella storia della letteratura, descrive così bene gli interni
delle case come Balzac. In Pierrette (ben tradotto da F. Monciatti), la
casa raccontata in ogni sua venatura è quella dei Rogron, fratello e sorella,
che tornano nella cittadina natia dopo aver accumulato sufficienti denari per
costruirsi una magione che faccia invidia ai borghesi della zona. “Ogni mercante
aspira alla condizione del borghese”, ma la costruzione della loro piccola
reggia nella Champagne non basterà a renderli soddisfatti e tutte le loro
frustrazioni troveranno sfogo nell’adolescente Pierrette. Cresciuta in una casa
di riposo coi nonni, quando viene spedita dai cugini Rogron la piccola viene
trasformata in una serva. La ragazzina, che “non ha avuto altra educazione se
non quella della natura”, si trova catapultata in una nuova “atmosfera morale”,
dove le tipiche lotte balzacchiane di ambizione, arricchimento e riconoscimento
sociale vincono sul benessere e sulla sopravvivenza dei più fragili. Piange
Pierrette e non sa perché, soffre, ammalata di mali senza nome, come una
Cenerentola martire.
Pensare che questa storia nasceva come omaggio ad Anna, la figlioletta
dell’amata Evelina Hanska ... Invece Pierrette diventa uno degli episodi
più cupi e strazianti della Comédie Humaine, e nella dedica Balzac
quasi se ne scusa: “Come mai posso dedicarvi una storia piena di malinconia?”.
E’ come se il romanziere francese non riuscisse a frenarsi nel descrivere la
perfidia umana, ancora più del suo solito. Siamo negli anni Trenta
dell’Ottocento e Balzac sfiora il cinismo, è borderline nichilista, per via di
una situazione politica in cui non solo sembrano ormai irrecuperabili i valori
aggreganti dell’ancien régime, ma anche l'aristocrazia finisce per
cedere alle nuove regole sociali del denaro a scapito di qualsiasi ideale. La
borghesia ha vinto. Troppe persone, come i Rogron, vedono la propria
intelligenza “completamente assorbita dai meccanismi del loro commercio”. Oggi,
nell’epoca della cancel culture, scuote l’uso libero – ed efficace – di
una fisiognomica etnologica ispirata da Lavater per descrivere la meschinità
umana e vedere l’anima grottesca dei personaggi: zitelle avare, bottegai
arrivisti, avvocati vanitosi, acrimoniosi ex napoleonici, crudeli antiborbonici,
gesuiti severi. Personaggi di una provincia che è “ridicola quando vuole
scimmiottare Parigi”.
Evviva Sellerio che in questa bella carta ruvida riporta le opere di
Balzac curate con una meticolosità invidiabile da Pierluigi Pellini. Nella
postfazione Pellini ci aiuta a capire come mai, noi lettori postmoderni, non
riusciamo più a empatizzare con i buoni – come la povera Pierrette – intrisi
ormai di un relativismo che ci rovina ogni forma, anche così ben scritta, di
dramma umano.
Agnese Silvestri, L’utopie
réparatrice de la faute et les contradictions du récit romanesque: «Le Curé de
village» de Balzac, in AA.VV., L’utopie sociale dans la littérature française du
XIXe
siècle sous la direction de Brigitte
Diaz et Agnese Silvestri, «Francofonia», 81, Anno XLI, Autunno 2021, pp.
67-83.
Stenio Solinas, La
«commedia umana» all’epoca dei social, «il Giornale», Milano, Anno XLI,
Numero 234, 6 settembre 2021, p. 24.
Leo
Spitzer,
La formazione di parole in Balzac, in Rabelais. La formazione di
parole come strumento stilistico. Con un’appendice sui “Contes drolatiques” di
Balzac. A cura di Lucia Assenzi e Davide Colussi, Macerata, Quodlibet,
2021(«Saggi», 58), pp. 267-319.
Cristina Taglietti, La letteratura e Napoleone. La guerra di
Tolstoj, l’ ‘Ei fu’ di Manzoni, «Corriere della Sera. La Lettura», Milano, n.
490, 18 aprile 2021, p. 13.
Balzac, che teneva nello studio una
statuina di Bonaparte dove aveva scritto «Quel che lui non è riuscito a finire
con la spada, lo realizzerò io con la penna», in Una tenebrosa vicenda lo
immortala in una pausa della battaglia di Iena, con la divisa e gli stivali
lordi di fango e il «pallido e terribile viso da
Cesare».
Mario Tesini, “Albert Savarus”, un romanzo a suo modo
politico, in AA.VV., Balzac politico ... cit., pp.
79-88.
Paolo Tortonese, Balzac. Dopo che il pianto e il riso si sono
ritirati, «il Manifesto. Alias domenica», Roma, anno XI, N° 16, 18 Aprile
2021, p. 4.
Altro che uguaglianza e fraternità: alla Rivoluzione è seguita una
giungla democratica governata dal denaro e dal sopruso. Emblema delle vittime, “Pierrette” è la ingenua protagonista di un capitolo tra i meno conosciuti
della “Comédie” da Sellerio.
Romanzo preziosissimo, commovente e cinico, storico e satirico, turpe e
morale, Pierrette è una perla sperduta nell’oceano della Commedia
umana, uno di quei libri che non si finisce mai di interpretare, perché è
difficile ingabbiarlo in una formula, e ogni senso che gli attribuiamo ne fa
sorgere un altro e poi un altro ancora. Romanzo riuscito, senza dubbio, ma anche
imperfetto, come sempre nell’opera di un romanziere a cui si perdonano
volentieri tutte le imperfezioni, anche tutti i difetti, perché pesano così poco
sul piatto della bilancia, rispetto al contrappeso delle sue straordinarie
qualità.
Ha fatto bene Pierluigi Pellini a pubblicare Pierrette da Sellerio
(pp. 400, € 14,00) in una piccola serie in cui ha già inserito Honorine,
Albert Savarus, Il parroco di Tours e alcuni altri titoli non
famosissimi di Balzac. La piacevole traduzione di Francesco Monciatti rende
accessibile al pubblico italiano un romanzo da molti decenni assente dalle
librerie italiane. Non si dirà mai abbastanza quanto sia difficile tradurre
Balzac, e quanto si debba esser grati a coloro che vi si
dedicano.
La Storia, macchina
ineluttabile.
Pierrette è una vittima innocente, una ragazza buona, sbadata, ingenua,
allegra, che si ritrova in mezzo agli ingranaggi della macchina sociale e ne è
triturata, schiacciata, annientata. Quella di Pierrette è una storia minuscola
nella grande Storia, il racconto della vita di una ragazzina di campagna nel bel
mezzo della Restaurazione e all’inizio della monarchia di Luglio, ma Balzac a
mostra non solo la pochezza dell’individuo e l’immensità del
sistema, ci
mostra anche tutti gli ingranaggi intermedi che fanno in modo che tra l’uno e
l’altro ci sia continuità, e che nessun essere umano sfugga, nel mondo moderno,
al terribile imperativo di farsi un posto al sole. Per riuscirci, tutte le
bassezze sono possibili, nelle alte sfere del potere, in quelle intermedie degli
affari, dell’opportunismo, del compromesso, del cinismo, e fino alla sfera
bassissima di coloro che non ce la fanno, che non possono strappare neanche
un’oncia di quel potere ormai alla portata di tutti, nella società
democratica.
Percorso da un terribile interrogativo morale, il romanzo è quindi la
descrizione particolareggiata del meccanismo ingiusto ma ineluttabile
dell’interesse, del sopruso, della vigliaccheria, che abitano ormai a tutti i
piani dell’edificio sociale, da quando la Rivoluzione ha imposto l’uguaglianza.
Lungi dall’essere il mondo della fraternità, secondo Balzac quello che è seguito
al trionfo dei Diritti dell’uomo è il mondo dell’egoismo e del conflitto, la
giungla democratica in cui tutti i colpi sono permessi, in cui il denaro decide
di ogni comportamento e distrugge ogni affetto, tranne il più antico e più
umano, l’amor proprio.
La povera Pierrette è fatta a pezzi dalla grettezza di parenti bottegai
arricchiti, prima adulata ma poi abbandonata da famiglie nobili o notabili in
guerra tra di loro; si trova in mezzo a odii, interessi politici, economici,
guerre famigliari e concorrenze simboliche, di cui non sospetta neppure la
profondità. Il colpo finale le sarà inferto dal capovolgimento politico del
1830, ondata che da Parigi arriva fino alle sponde più remote della vita di
provincia. È difesa da due soli eroici personaggi; il suo innamorato, un operaio
poco più che adolescente, e la vecchia nonna contadina. In questi personaggi si
rifugia quel poco di nobiltà d’animo che ancora si può incontrare nel mondo
post-rivoluzionario.
Guerra tra buoni e cattivi, molto squilibrata, certo, ma comunque
effettiva e radicale, come in quel genere drammatico che i francesi chiamano
mélodrame (che non va confuso con il nostro melodramma lirico), in cui
agli inizi dell’Ottocento si affrontavano sulla scena un personaggio vittima
innocente e il suo perfido persecutore. Nel mélodrame il bene e il male
sono forze che agiscono nella realtà, incarnate da personaggi fissi in uno
scontro manicheo, come ha spiegato in The Melodramatìc Imagination,
celebre libro del 1974, il grande critico americano Peter Brooks. E in Balzac
questo conflitto morale
è perlopiù sotterraneo, celato dalla complessità sociale, dal moltiplicarsi dei
personaggi e delle vicende, dalla storicità dell’ambientazione, ma nondimeno
effettivo e decisivo.
In Pierrette sembra manifestarsi in superficie, invece di celarsi
nel profondo: per questo il romanzo è stato spesso giudicato uno dei più
melodrammatici dell’intera Commedia umana. Ma naturalmente ciò non vuol
dire che sia un mélodrame in senso stretto, né che la struttura
elementare di questo genere teatrale possa render conto di tutta la sua
complessità. Il punto di vista del bene non è solo indebolito, ma confrontato a
un profondo scetticismo antropologico e storico: i buoni a volte sembrano
insignificanti e incapaci, di fronte alla potenza dei cattivi, e la conclusione
del romanzo sfiora l’idea che in fondo l’infamia sia la sola realtà possibile, e
che sia quasi giusto che chi cerca di opporvisi sia spazzato via. La Storia è
ineluttabile, la Società deve continuare a funzionare, come una macchina che
espelle i detriti mutili al suo funzionamento. Per questo la teoria del capro
espiatorio di René Girard è stata utilizzata per spiegare Pierrette, da
Mariolina Bertini in un articolo di qualche anno fa. Il melodramma teatrale ha
di solito un lieto
fine, il romanzo di Balzac non può finir bene, perché al bene non si oppone
soltanto il male, ma anche la consapevolezza di come va il mondo, da sempre, e
più che mai da quando la modernità economica e politica lo ha
trasformato.
Ma come si fa a far stare insieme, in un solo romanzo, l’intelligenza
lucida della realtà e le due cose che, secondo Spinoza, la impediscono. cioè il
pianto e il riso? Il pianto melo- drammatico, l’intensità patetica, con cui
partecipiamo alle sofferenze di Pierrette, il riso con cui reagiamo alle
piccolezze dei suoi persecutori parvenu, e lo sguardo storico, sociologico,
oggettivo, con cui consideriamo gli andamenti della lotta di classe in Francia e
i loro intrecci con i regimi politici che si succedono. I critici marxisti
tendevano a pensare che questa terza componente si potesse isolare dalle prime
due; oggi la critica è più propensa a credere che questi diversi elementi siano
difficilmente separabili, ma tutti stentiamo a definire in modo nuovo i loro
rapporti.
Lacrime asciugate.
Pierluigi Pellini, nella bella postfazione al romanzo, fa vedere come il
comico ci sia altroché, ma anche come si spenga nell’assenza di un punto di
vista capace di reggerlo fino in fondo (come nel riso volteriano, che giudica
dall’alto i pregiudizi); e, simmetricamente, come le lacrime compassionevoli
finiscano per asciugarsi nell’accettazione della realtà così com’è. Ciò che è
stato spesso chiamato il serio, per distinguerlo contemporaneamente dal tragico
e dal comico, è forse questo residuo, quel che resta dopo che il riso e il
pianto si sono ritirati, ma che forse non esisterebbe se non ci fossero
stati.
Federico Trocini, Da Balzac a Sombart. “César Birotteau” e le
mutazioni antropologiche del borghese, in AA.VV., Balzac politico ...
cit., pp. 31-46.
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relire «La Maison Nucingen» de Balzac. Journée d’études internationales
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19 novembre 2021 :
Francesco Spandri, Le banquier et
ses multiples visages dans «La Comédie
humaine»;
Alexandre Péraud, «La Maison
Nucingen» ou le dérèglement dans tous les
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Éric Bordas, «La Maison Nucingen» ou
«Histoire de la grandeur et de la décadence d’Eugène de Rastignac»? Une poétique
de la contre-lisibilité;
Claire Pagnol, Histoire d’un pigeon:
description d’un monde social soumis à la
chrématistique;
Erik Leborgne, Ruissellement et
ramification: «La Maison Nucingen» comme réécriture balzacienne du «Neveu de
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Christophe Reffait, Un savoir sans
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Tra
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umana” di Honoré de Balzac, a cura di Piero Dorfles, Network TV2000 – InBlu
2000, 21 marzo 2021.
AA.VV., Presentazione del libro di Giuseppe Guizzi, Il “Caso
Balzac”. Storie di diritto e letteratura. Sono intervenuti: Claudio Colombo,
Andrea Zoppini, Massimo Onofri, Giuseppe Guizzi, 9 aprile 2021, Piattaforma Teams.
GdL Oglio/Casa Jannacci, Eugénie Grandet di Honoré de Balzac ...
Incontro in videoconferenza, 27 Aprile 2021.
Illusions perdues. Regia di Xavier Giannoli. Interpreti: Benjamin Voisin, Cécile de France, Vincent Lacoste, Xavier Dolan, Salomé Dewaels, Jeanne Balibar, Gérard Depardieu, André Marcon, Louis-Do de Lencquesaing, Jean-François Stévenin, Venezia, Mostra internazionale del Cinema, 5-6 settembre 2021.
Eric Bordas, Les Masques de Balzac dans ses lettres à Madame Hanska, in AA.VV., Les masques de l’écriture. Colloque international de la Società Universitaria per gli Studi di Lingua e Letteratura Francese, Università di Palermo, Complesso Monumentale dello Steri, 15 settembre 2021.
Marco Stupazzoni