1940
Estratti in lingua
francese.
Balzac, [Avant la gloire], in Luigi Foscolo Benedetto,
Scrittori di Francia. Sommario storico e antologia della letteratura
francese, Milano-Messina, Casa Editrice Giuseppe Principato, 1940, pp.
318-322. [con note; da La Peau de
chagrin].
[Portrait de Dante], Ibid., pp. 322-323. [da Les
Proscrits].
[La Façade d’une maison flamande], Ibid., pp.324-326. [da La
recherche de l’absolu].
[L’accoutrement d’un vieil artiste pauvre], Ibid., pp. 326-330.
[da Le Cousin Pons].
Ogni
estratto è preceduto da una breve presentazione
dell’opera:
Dalla
Peau de Chagrin (1831). Il Balzac ha molti romanzi più belli, ma nessuno
che sia più romantico, pochi che contengano confidenze tanto istruttive per la
storia della sua vita interiore. (All’eroe, il giovane Raphaël de Valentin, egli
fa esprimere il suo atteggiamento, romanticamente, dinamico, ma tragicamente
consapevole di fronte alla vita. È un giovane che possiede uno straordinario
talismano: una pelle di zigrino alla cui durata è legata quella della sua vita.
Essa assicura al suo possessore l’esaudimento d’ogni suo desiderio, ma ogni
desiderio la fa diminuire. Raphaël muore a ventisette anni). Nelle pagine che
pubblichiamo, Balzac che ha tra i suoi temi poetici più cari il giovane, al
momento in cui entra, ardente e puro, nella bolgia sociale, ci dice la
poesia dagli anni di preparazione, quando ogni sacrificio è bello e
lieve, perché illuminato dal grande sogno che scalda il cuore. Dall’agosto 1819
al gennaio 1820, il Balzac visse realmente la vita dell’apprenti poète,
in una mansarda. che dava sui tetti della città, al n° 9 della via Lesdiguières
a Parigi. Sono i suoi proprii ricordi che mette in bocca a
Raphaël.
Dai
Proscrits (1831). Come tutti i romantici, Balzac ama la Divina
Commedia e venera in Dante un maestro di vita. Gli fu guida all’intelligenza
del poema dantesco un italiano, il principe Michelangelo Caetani: nel dedicargli
Les parents pauvres Balzac, riconosce, che fu lui a svelargli «l’immenso
enimma» di quel libro. È assai probabilmente un ricordo della Commedia di
Dante e svela il proposito di creare un riscontro umano alla Commedia
Divina, il titolo di Comédie humaine da lui dato all’insieme della
sua opera. Il capitolo dei Proscrits da cui stralciamo queste linee si
fonda sulla tradizione, non molto attendibile secondo molti dantisti, ma non
definitivamente oppugnata, che Dante sia stato a Parigi, alla scuola del
Sigieri.
Dal
romanzo La recherche de l’absolu (1834). Diamo un esempio della minuzia
amorosa con cui il Balzac descrive l’ambiente materiale in cui vivono i suoi
personaggi, ambiente che è ad un tempo causa ed effetto della loro psiche
profonda. In questo romanzo — uno dei capolavori di Balzac — la descrizione
resta subordinata all’effetto artistico complessivo che il romanzo vuol
conseguire. Egli vuole farci sentire l’imponenza della pazzia di Balthazar
Claës, l’inventore allucinato dalle sue chimere e che per esse sacrifica la
vasta raffinata opulenza lentamente costituita dalla sua casata. Non sarebbe
nulla dire che ha sprecato in vane esperienze sette milioni. L’A riesce ad
esprimere tutta la tragicità di quella distruzione, particolareggiando i tesori
onde consta l’opulenza sacrificata, mostrandocene ogni dettaglio e rilevando in
ognuno di essi i segni della calma, della stabilità, della
squisitezza.
Dal
Cousin Pons (1817). La minuzia analitica di cui abbiamo dato un esempio
si ritrova nelle descrizioni della mobilia, dei vestili, nei ritratti fisici. Il
ritratto di Sylvain Pons è uno dei più celebri. Il metodo del Balzac vi appare
assai bene, coi suoi pregi e coi suoi difetti. L’effetto totale qui resta
inferiore allo sfarzo e alla copia dei dettagli. Si sente che la descrizione vi
diventa un gioco fine a sè stesso.
Balzac, Eugénie Grandet (*), in Diego Valeri, Précis
historique et anthologie de la littérature française, Milano, Arnoldo
Mondadori Editore, 1940, pp. 420-424.
L’estratto è preceduto da una nota del Valeri su Balzac (pp. 418-420) che
trascriveremo integralmente nella sezione: Studî e riferimenti
critici.
(*) In
Eugénie Grandet (1833), ch’è generalmente considerato il capolavoro di
Balzac, il realismo del narratore si fonda direttamente sul vero. Alla sorella
Laura che gli aveva fatto qualche obiezione circa il rapido moltiplicarsi delle
ricchezze del vecchio Grandet, egli rispondeva: «Bête, puisque l’histoire est
vraie, veux-tu que je fasse mieux que la vérité?». Questa verità del
racconto, anche se non può essere documentata, è ben sensibile, a chi legge.
Eugenia è una ragazza di provincia, che vede sfiorire la sua giovinezza, giorno
per giorno, nella squallida solitudine della sua casa senza sole, tra il vecchio
padre avaro che ammassa oro su oro, da feroce maniaco, e la madre che non ha
nemmeno coraggio di fiatare davanti al domestico tiranno. La fuggevole
apparizione d’un cugino, Carlo, dà alla povera Eugenia un’illusione d’amore, di
cui ella si riscalda e nutre per cinque anni: finché una lettera dell’amato,
dalle Indie lontane, le annunzia ch’egli ha sposato un’altra donna. Intanto i
suoi genitori son morti, ed essa è sola al mondo, con la sua grande ricchezza,
nella casa deserta. Finirà a sposar uno del paese; poi, rimasta vedova, si darà
alle opere di beneficenza. Storia in grigio d’un grigio destino di
donna.
Traduzioni.
Balzac, Eugénie Grandet, avec introduction et notes par
Elisa Denina, Milan, Charles Signorelli Editeur, 1940 («Scrittori francesi», N.
60), pp. 152.
Cfr. 1928;
1930.
Onorato di Balzac, Modesta
Mignon. Traduzione di Ada Sori, Firenze, Vallecchi Editore, (novembre) 1940
(«Biblioteca
Vallecchi», 72), pp. 412.
Struttura dell’opera:
Nota
sull’autore di Raffaello Franchi, pp. 5-10;
Modesta Mignon, pp.
11-412.
Nel
complesso abbastanza corretta, questa traduzione italiana di Modeste
Mignon si fonda sul testo dell’edizione Furne (1845); non è riportata la
dedica ‘A une polonaise’.
Balzac, Nouvelles: Un Episode sous la
Terreur. Le Réquisitionnaire. Le Passage de la Bérésina. El Verdugo. Le Colonel
Chabert. Avec introduction et notes d’Armand Landini, Milan, Charles
Signorelli Editeur, 1940 («Scrittori francesi», N.
77), pp. 119.
Cfr. 1931.
Studî e riferimenti
critici.
Notizie bibliografiche. Letteratura contemporanea. Lucio D’Ambra,
“Il passo nella mia strada”, Milano, Mondadori, 1939, pp. 305, «L’Italia
che scrive. Rassegna per il mondo che legge. Supplemento mensile a tutti i
periodici», Roma, Anno XXIII, N. 1, Gennaio 1940, p.
9.
Sta di fatto che D’Ambra è divenuto presto «lo scrittore»,
colui, cioè, che sa scrivere ugualmente bene un romanzo e cento romanzi».
Prototipo: Balzac. Ma di Balzac non ne nascono tutti i giorni.
F. A., Bollettino
bibliografico. Curiosités littéraires – «La Chartreuse de
Parme», «Rassegna di Studi Francesi. Periodico bimestrale»,
Bari, Anno XVIII, Numero 2, Marzo-Aprile 1940, pp.
57-60.
pp. 58-59. Pourtant, La Chartreuse continuait de se lire et de se
vendre un peu. Le bon Romain Colomb s’employait à défendre son cousin, et c’est
lui qui
provoqua ce magnifique article de Balzac où un homme de génie parie d’un autre
génie sur un ton inimitable: «La Chartreuse de Parme est dans notre
époque et jusqu’à présent, à nos yeux, le chef d’œuvre de la littérature d’idées
... M. Beyle a fait un livre où le sublime éclate de chapitre en chapitre ... M.
Bey le est un des hommes supérieurs de notre temps ...». Cette étude de 72 pages
parut dix-huit mois ou presque après La Chartreuse, dans la Revue
Parisienne du 25 septembre. Balzac n’y faisait de réserves que sur le style,
ce qui, oserai-je le dire, ne laisse pas que de surprendre chez
lui.
Stendhal se défendit sur ce point avec beaucoup de bonne grâce et
d’efficace: «Je vais vous sembler un monstre d’orgueil, écrivait-il à l’auteur
du Père Goriot. Quoi! dira votre sens intime, cet animal-là, non content
de ce que j’ai fait pour lui, veut encore être loué sur le style! Mais il ne
faut rien cacher à son médecin. Souvent je réfléchis un quart d’heure pour
placer un adjectif avant ou après son substantif ...» Ce plaidoyer sans
insistance n’empêchait pas Stendhal d’avouer qu’il avait éclaté de rire à chaque
page en lisant l’article de Balzac: c’est qu’il songeait à la tête que feraient
ses amis devant tant d’éloges venus de si haut
...
Que la postérité ait ratifié le jugement de Balzac, c’est ce qu’on sait
de reste. […].
L’article de Balzac y fut-il pour quelque chose ? Toujours est-il
qu’à la fin de 1840, l’édition d'Ambroise Dupont se trouvait presque épuisée,
bien qu’une contrefaçon belge, parue la même année que l’originale, fût venue
lui faire concurrence.
Rino
Alati, Varietà L’italianità di Napoleone attestata dai romantici
francesi, «Archivio Storico di Corsica», Roma-Milano, Anno XVI, N. 1,
Gennaio-Marzo 1940, pp. 74-81.
p. 76. Noi potremmo dunque distinguere gli scrittori romantici
della prima metà del XIX secolo in due generazioni: la generazione del 1789: M.
de Staël, Chateaubriand, ecc., ecc., e quella del 1820: Lamartine, de Vigny, V.
Hugo, Stendhal, de Musset. Balzac ecc. ecc. e vedere come attraverso questo
cinquantennio la rappresentazione del gran Corso si muta e si evolve,
spogliandosi via via delle scorie dell’umano. per improntare con la sua orma
divinizzata ogni manifestazione poetica, dalla lirica alla novella, dal romanzo
all’epopea, sempre presente come uno sfondo e uno stato d’animo anche quando
sembra assente e lontano. E potremmo osservare che mai questa figura così
romantica è guardata dal mondo poetico romantico con occhio freddo o con
tranquilla ponderatezza storica, è sempre la passione che muove la penna arguta
di M. de Staël e quella feroce di Chateaubriand e quella epico-teatrale di V.
Hugo; è l'amore della Francia che anima Béranger ed è il ricordo della sua
propria carriera militare, travaglio di servitù ed eccitazione di grandezza, che
evoca alla fantasia del de Vigny il bacio conturbatore di Napoleone, è la
passione, infine, che spingeva Balzac a chiamarsi il «Napoléon des lettres»
suscitando la caricatura del Raffet.
Ant., Galleria degli aneddoti. Legittima difesa, «Stampa
Sera», Torino, Anno 74, Num. 266, 8 Novembre 1940, p.
3.
Balzac guadagnava molto con i suoi scritti, non tonto però
quanto avrebbe desiderato e, in ogni caso, assai meno di quanto supponevano i
letterati in bolletta che lo assalivano per farsi
aiutare.
Un
giorno, Aureliano Scholl si recò a prenderlo per recarsi a colazione insieme a
Balzac, prima di uscire. levò da un ripostiglio tutto il suo danaro, esclusi due
luigi.
— Quelli
— spiegò all’amico — sono lì in permanenza. Mi servono per
...
Gli servivano per far fronte agli
stoccatori, dicendo! «Ecco qui tutto il mio avere, due luigi. Facciamo metà per
ciascuno?». Si trattava, insomma, di legittima
difesa.
Salvatore Barzilai, I grandi interpreti: attori italiani.
Giovanni Emmanuel. Mercadet l’affarista, in Palcoscenico e platea.
Memorie della scena in prosa. Con 12 tavole, Milano, Garzanti Editore, 1940,
pp. 247-249.
Fosse
l’attrazione di udire l’Emanuel in un lavoro nel quale ha lasciato i migliori
ricordi, fosse la riapertura del teatro dopo un riposo di dodici giorni, fosse
la giornata festiva o la misura oltremodo popolare dei prezzi, o tutte queste
cose unite assieme, fatto è che il teatro Nazionale era ieri sera affollato in
modo da costringere l’amministratore a tappezzare, verso le 9, il botteghino di
cartellini con la scritta: esauriti i palchi, esaurite le poltrone,
ecc.
Ed in
luogo della consueta frase pietosa «pubblico scarso, ma scelto», è sempre un
piacere per il cronista scrivere: pubblico numerosissimo, se anche proprio non
tutto sceltissimo.
Io conosco, per parte mia, qualche
brava persona che da molti
anni non andava a teatro, e a cui è sembrato un sacrilegio lasciarsi sfuggire
l’occasione di passare tre ore alla meglio per la vile moneta di trenta
centesimi.
Il testo
originale del Mercadet — la più riuscita, anzi, si può dire, la sola
riuscita delle commedie di Onorato Balzac — fu già a suo tempo aggiustato per le
scene dal Dennery. Era, se non m’inganno, originariamente in cinque atti, e il
Dennery lo ridusse a quattro. L’Emanuel, procedendo nel sistema di
condensazione, l’ha portato prima a tre atti ed ora a due soli, i quali sono
invero troppo pochi per lo svolgimento dell’azione, che n’esce storpiata,
illogica, informe. Sono sufficienti, invece, per ritrarre il carattere del
protagonista: lo speculatore, l’agiotatore, capace di fondare trenta società in
accomandita al mese, tutte con un capitale di 100 milioni campato in aria, per
la celebrazione internazionale delle messe e per il battesimo dei piccoli
arauncani, come per la istituzione del selciato internazionale conservatore
contro le barricate, per lo sfruttamento delle miniere d’oro, come per
l’estrazione del bitume e la fabbricazione del
burro.
E tutto
questo senza intaccare il Codice penale; avendo a scorta la massima che è
permesso tutto quanto non è tassativamente proibito, conservandosi buon padre,
buon marito, buon soldato della guardia nazionale, facendo i suoi affari non per
alimentazione del libertinaggio e del vizio, ma ... per il benessere della
famiglia!
È in
grazia di questa figura maestrevolmente delineata che si possono ancora oggi
tollerare tutte le ingenuità della commedia, da quei tipi di usurai che si
lasciano abbindolare e cavano migliaia di lire per poche chiacchiere, senza
esigere nemmeno un rigo di ricevuta, a quel Godeau, che arriva improvvisamente
dalle Indie a pagar tutti e salvare ogni cosa.
Emanuel
ha recitato meravigliosamente la parte di Mercadet. A cominciare dalla
truccatura felicissima, egli ha reso il tipo del vecchio furbo, pieno di risorse
e di finezze, con grande semplicità, verità ed efficacia, strappando al pubblico
vive manifestazioni di consentimento.
I suoi
compagni non ebbero modo di distinguersi nelle loro parti, abbastanza
insignificanti.
Qualche
macchietta però andava meglio curata.
In
complesso, il pubblico ha mostrato di divertirsi, ed uscendo dal teatro era
unanime la voce: per cinque lire i palchi, una lira e cinquanta le poltrone e
trenta centesimi il loggione, che cosa si vuole di
più? (28 gennaio 1890).
Luigi
Foscolo Benedetto, Balzac, in Scrittori di Francia … cit., pp.
125-128.
Honoré de Balzac nacque a Tours nel
1799; morì a Parigi nel 1850. Fu, come V. Hugo, un professionista delle lettere.
Come l’Hugo, fu dotato di una eccezionale capacità di lavoro e animato da una
smisurata ambizione. Entrò nella carriera letteraria colla chiara coscienza che
nella crisi di assestamento che la Francia attraversava i posti di comando
dovevano toccare agli uomini di pensiero. (Teneva sul suo tavolo una statuetta
di Napoleone con incise sullo zoccolo le parole: «J’achèverai par la plume ce
qu’il a commencé par l’épée»). Quella illusione iniziale restò un’illusione; ma
gl’impedì di essere un puro letterato; lo portò a fare nei suoi libri una larga
parte ai problemi sociali e politici, a convertire la semplice pittura dei
tempi in uno studio vero e proprio – com’ebbe a dire egli stesso — da «docteur
ès sciences sociales». Ebbe una vita esteriormente romanzesca: disordinata,
fastosa, complicata da imprese extra-letterarie infelici, ridda di debiti e di
favolosi proventi, piena di romantici amori. Ma ciò che fa della
sua vita un vero romanzo è la sua
prodigiosa attività di scrittore. Non aveva da natura una tempra lirica, una di
quelle personalità che preesistono all’opera e che l’opera ha solo il compito
di rivelare. Il lavoro stesso creò a poco a poco la sua personalità. Partì da
modelli, da programmi estrinseci. I suoi inizi di romanziere (1820-1828) furono
dominati dal romanzo nero inglese e in generale dal romanzo popolare a
fosche tinte, con personaggi fatali ed avventure inverosimili. Sprecò in quel
genere sciagurato dei tesori di verve fantastica. Ma si abituò, a quella
scuola, a fare più grande del vero, a costruire dei «tipi» di proporzioni
irreali e di portata simbolica. Era una lezione conciliabile con quella che gli
veniva dalla tradizione letteraria francese, orientata fondamentalmente verso
la tipificazione psicologica. La sua originalità artistica si costituì fondendo
insieme i due influssi. I tipi per cui diverrà famosa l’opera della sua
maturità sono esseri che appartengono alla vita reale per la natura della
passione che incarnano (l’avarizia in Grandet, l’amore paterno in Goriot, la
lussuria in Hulot, l’invidia nella cugina Bette, ecc.) ma che escono dalla
realtà per la potenza, per la totalità dominatrice con cui essa passione li
investe. L’arte di Balzac resterà soprattutto caratterizzata dalla tendenza a
portare i suoi personaggi su di un piano eroico, elevando al massimo della sua
forza e odorando, all’occorrenza, di misticità quella determinata passione di
cui son l’esponente. In taluni casi, come in quello di Vautrin, la torbida
origine dal romanzo nero resterà incancellabile. Dal romanzo nero il Balzac si
liberò passando alla scuola di Walter Scott, il grande romanziere scozzese che
aveva rievocato in quadri suggestivi tutta la storia della sua patria e che era
allora unanimemente adorato in Europa. Concepì il grandioso disegno di fare per
la Francia quello che lo Scott aveva fatto per il suo paese: di fissare cioè,
in un vasto ciclo di romanzi, tutti i volti della Francia, nello spazio come
nel tempo, nei momenti culminanti della sua storia come nelle caratteristiche
delle sue diverse provincie. Le Dernier Chouan ou La Bretagne en 1800
(1829) — la prima opera di Balzac firmata col suo vero nome ed il suo primo
successo — inaugurò la grande impresa. Il tipo di ricerca a cui obbliga una
vera e propria ricostruzione storica di tipo scottiano non era però ciò che si
confacesse di più alla sua fantasia irruente ed ai suoi metodi di lavoro. Finì
presto col restringere il suo piano alla Francia contemporanea per cui gli
bastavano l’osservazione e l’esperienza diretta. Ma restò fedele al concetto di
scena storica quale lo aveva fissato lo Scott: ricostruzione di un momento di
vita mercè una infinità di particolari ambientali concreti. Scènes de la Vie
privée è il primo titolo generale ch’egli adotta nel 1830 per una pria
raccolta dei suoi romanzi. Dal 1834 al 1838 pubblica col titolo generale di
Études de moeurs au
XIXe
siècle una raccolta più ampia (12
voll., 27 romanzi), ma conserva la qualifica di Scènes alle tre serie in
cui la raccolta si suddivide: Scènes de la vie privée, Scènes de la
vie de province, Scènes de la vie parisienne. Il suo programma si
viene via via prodigiosamente allargando. Entra a poco a poco nel quadro tutta
la società francese, — alla fine del primo Impero, sotto la Restaurazione e
sotto la Monarchia di Luglio — colle sue varie classi, colle suo diverse
professioni, colle forze, patenti o segrete, che la travagliano. La potenza del
denaro, del giornalismo, della pubblicità, il fascino fatale di Parigi sulla
provincia, la corsa alla ricchezza, ai titoli nobiliari, al potere, il trionfo
degli sfrontati e dei violenti, la moltitudine infinita delle umili vittime, la
tirannia rovinosa dei sentimenti divenuti manie ... nulla sfugge al creatore
del romanzo sociale: l’amore naturalmente non manca, ma non è più l’eterno ed
unico tema. Alla raccolta delle Études de moeurs egli dà per compagna,
dal 1835 al 1840, un’altra raccolta che intitola Études philosophiques
(20 voll.) ove include, in generale, tutti i romanzi la cui portata trascenda
la semplice pittura del secolo. Nel 1841 trova il titolo fortunato cui resta
legato il suo nome, La Comédie humaine, titolo che gli permette di unire
insieme le due serie prima distinte di Études e che gli dà l’illusione
di fondere tutti i suoi romanzi in un tutto solo. Fu sogno e sforzo dei suoi
ultimi anni — maturità sempre più feconda troncata da una morte prematura —
convertire quella illusione in realtà: fare cioè della Comédie humaine un
blocco unitario. Non si può dire che ci sia riuscito. Certo è, comunque, che
l’opera di Balzac va giudicata nel suo insieme. Nel suo insieme va pur
giudicato ognuno dei romanzi ond’è costituita. Offendono oggi il nostro gusto
la prolissità analitica, gli atteggiamenti da pensatore, le pretese allo stile.
Ma non senza ragione quei difetti non sono bastati, finora, a togliere Balzac
dal novero degli scrittori che restano vivi. Gli è che, qualunque sieno i suoi
mezzi, Balzac raggiunge i suoi fini: effetti totali di rappresentazione
psicologica, individuale o collettiva. Esempio tipico della sua tecnica è la
Recherche de l’absolu. È la storia, che può a primo aspetto parere
monotona, delle ricadute sempre più gravi di una data malattia morale. Ma non si
potrebbe altrimenti mostrare, così appieno, l’inguaribilità del male e la sua
sorda violenza. A parte il suo valore documentario la Comédie humaine
contiene delle creature viventi. Quando il Balzac si contenta
di proporzioni più brevi, della novella, potremmo dire, piuttostochè del
romanzo, arriva alla perfezione (Le curé de Tours, Le colonel
Chabert, Eugénie Grandet, Le père
Goriot).
V.
Beonio-Brocchieri, I demoni della foresta, «Corriere della Sera»,
Milano, Anno 65, N. 33, 7 febbraio 1940, p. 3.
C’è un romanzo di Balzac in cui si paragona Parigi a
una foresta tropicale, con le sue insidie, i suoi rettili, le sue belve. Si
potrebbe rovesciare l’argomento; e dire che una foresta tropicale è come una
immensa metropoli, nella quale tutti gli istinti, i segreti, le perversità
della vita fermentano a temperatura torrida.
A questo
io pensavo durante i giorni di mia permanenza in uno degli anfratti più
selvatici meno conosciuti di questo immenso Paese, dove domina sovrana la selva
primordiale.
Betra, Il salotto della contessa Maffei, «Stampa Sera»,
Torino, Anno 74, Num. 14, 16 Gennaio 1940, p.
3.
Quanti
uomini celebri si succedettero in questo salotto, che prima era in Via Monte di
Pietà e poi in via Bigli 21! […] Balzac piccolo, grasso, paffuto, coi suoi
famosi panciotti policromi, giù carico di gloria e di debiti. Poiché Balzac era
un tenero — come lo aveva defi1 alto
Maupassant — così si innamorò subito di Clara Maffei e le dedicò un
romanzo.
Betra, Milano non era “franciosa”. Il soggiorno di Balzac
cominciato male e finito peggio … Una moda scornata – Un’eredità liquidata a
Torino – Balzac e Manzoni – Certi giramondi…, «Stampa Sera», Torino, Anno
74, Num. 162, 6 Luglio 1940, p. 3.
Anche
nel tempo dell’infranciosamento che dilagò, soprattutto, nell’ottocento,
i milanesi non furono affatto dei succubi. Italiani in primo luogo e fieramente
indipendenti, ne offrirono un esempio quando accolsero Balzac per nulla accecati
dall’incenso della sua fama. «Grande scrittore — dicevano — ma pessimo uomo e
che ha del francesi tutti i vizi e i difetti più caratteristici». E come tale lo
trattarono.
Pubblicità
altosonante.
Era giunto a Milano preceduto da una
pubblicità altosonante; e proprio in quell’epoca tutta Parigi aveva parlato di
«una moda alla Balzac» pel suo gusto di portare certi panciotti sgargianti,
delle vesti da camera bianche come tuniche da frate, certi bastoni
dall’impugnatura mastodontica, esibendo un’eleganza che oltre i confini
s’ammirava e celebrava. Ma allorchè i milanesi lo conobbero restarono di stucco
e pensarono «che, forse, ci hanno preso per allocchi? O dov’è questo fascino
balzacchiano?». E lo giudicarono coi loro occhi e non si lasciarono
ingannare; ed una scrittrice milanese dell’epoca così realmente lo dipinse:
«aspetto da panettiere, modi da ciabattino, corpo da bottaio, camminata da
venditore ambulante, abiti da bettoliere ...». Se una moda alla Balzac si voleva
trapiantare a Milano, la presentazione era lusinghiera.
Ma se
l’estetica dello scrittore era quella che era, e tale da poter essere valutata
così disparatamente, il suo animo soprattutto indispose i milanesi, nonostante
la sua celebrità e i suoi romanzi. Balzac si gonfiava di una boria acre e
dispettosa; fioriva sulla sua bocca un’apologia incessante della sua terra e
del suo ingegno; non parlava che per millantare Parigi e i suoi compatrioti,
sprezzando qualsiasi altro paese del mondo. «Sarà il colosso del romanzo
moderno — i milanesi commentavano — ma poteva restare a casa sua ...».
A vero
dire, Balzac non era venuto a Milano per ragioni artistiche; e fu una menzogna
quanto si pubblicò alla sua partenza attribuendo lo scopo del suo viaggiò alla
volontà di «raccogliere materiali onde descrivere le campagne dei francesi nella
Penisola». Lo scrittore, seppure strapieno di debiti, si piccava d’essere un
finanziere, magnificava anzi il suo intuito industriale. Spesso parlava di
progetti grandiosi, come di quello per lo sfruttamento delle miniere sarde, mai
messo neppure in carta. Comunque, tutto ciò che riguardava il danaro lo rendeva
zelante e persino sospettoso. A Milano venne appunto per liquidare un’eredità
che non si fidava di lasciare incassare da altri e ch’era complicata per
differenti pretese. Se alla fine potè liquidarla fu per l’intervento e per il
merito di un avvocato di Torino.
Ospite della contessa
Maffei.
Balzac capitò a Milano nel febbraio
1837. La prima visita la riservò alla Scala dove passò di palco in palco, non
sempre adulato e corteggiato quanto s’attendeva. Buon senso innato della nobiltà
milanese, per nulla estasiata dei suoi modi altezzosi e queruli. Dapprima
alloggiò in un albergo, poi trovò ospitalità in casa del Principe Porcia, nel
palazzo di Corso Venezia, e dove si installò fragorosamente, divorando ogni
giorno un subisso di frutta e annegando il tutto con innumerevoli tazze di
caffè. Naturalmente il salotto della contessa Maffei lo accolse con i dovuti
onori; non tutti i frequentatori di quel cenacolo artistico rimasero però
incantati al cospetto di tanta celebrità e soltanto la contessa, e pochi altri,
gli perdonarono il suo fare da rodomonte, il suo continuo esaltare la Francia
ed il parlar male dell’Italia e della stessa Milano, il cinismo con cui
confessava i propri debiti e le scappatoie per eludere i creditori.
E nel
salotto della contessa Maffei cominciò quell’opera denigratoria sugli scrittori
italiani che doveva portare a termine a Venezia. La stessa contessa Maffei
apprese con dolore che Balzac, nel salotto della veneziana contessa Soranzo,
non aveva esitato ad esprimere acerbi giudizi sui Promessi Sposi,
definendoli «fiacchi d’ordito»! Alessandro Manzoni era, più che un amico, un
padre spirituale per Clara Maffei. Ma Balzac trinciò giudizi anche più
scottanti sui romanzi di Massimo d’Azeglio e di Tomaso Grossi, finché provocò
l’indignazione del conte Tullio Dandolo. E lo scrittore francese dovette alla
fine confessare di non aver mai letto nè i lavori del primo, nè le
opere del secondo ... A Milano scoppiò la bufera, in campo artistico
naturalmente. Balzac si trovò moltiplicate le antipatie, tutte legittimate del
resto dal suo comportamento. Vi fu una levata di scudi nella stampa: Angelo Fava
nel Vaglio scrisse roventi parole contro Balzac; La fama, il
giornale teatrale di Milano, raccogliendo la voce che Balzac fosse venuto nella
nostra città per scampare all’arresto in quel di Parigi, invitava la polizia a
sorvegliare certi scrittori giramondo che altro non erano se non malviventi ...
E un
certo Aureggio, avendo pubblicato un volumetto in difesa di Balzac, si trovò ai
ferri corti con Antonio Lissoni, ufficiale di cavalleria sotto le bandiere
napoleoniche, che replicò con un altro opuscolo dal titolo «Difesa dell’onore
delle armi italiane, oltraggiato dal signor Balzac», e nel quale l’autore
rivendicò il valore dei soldati e dei letterati d’Italia. Ma Balzac a tutto ciò
non diede molta importanza: continuò a visitare gli studi di pittori e
scultori, a scrivere (si dice che lavorasse anche di giorno al lume di due
candele accese) a praticare lo spiritismo (un’accusa, questa, elevata con
evidente compiacimento, che allora le scienze occulte eran considerate pura e
semplice stregoneria ...) valendosi quale medium di un lustrascarpe di
Porta Orientale ... E tra le visite volle includere anche quella ad Alessandro
Manzoni, dimentico di averlo tanto ferocemente bistrattato. Il Manzoni lo
accolse senza ombra di risentimento, lo inchiodò con la sua serafica bontà ed
apparve a Balzac, come lo ebbe a definire più tardi facendo ampia ammenda un
«altro Chateaubriand».
Ma gli
ultimi tempi della permanenza di Balzac a Milano passarono tra l’indifferenza
generale Neppure il salotto della contessa Maffei era più fiero di accogliere
quell’omaccione sbuffante e vociante, agghindato come il direttore di un circo
equestre. E Balzac se ne andò, insalutato ospite. Milano, neanche allora, era
«franciosa» ...
Vitaliano Brancati, Diario sui ricchi e sui poveri, «La
Stampa», Torino, Anno 74, Num. 20, 23 Gennaio 1940, p.
3.
Chi ama il denaro non sa più vedere altro attorno a sè.
La morte di papà Grandet è simbolica. L’avaro non vedeva più nulla, nemmeno le
immagini dei Santi e la faccia della figlia Eugenia. Solo quando gli
avvicinarono il crocefisso d’argento dorato, vide Gesù Cristo come una moneta
nella nebbia, e cercò di afferrarlo — «con un gesto orribile» — dice Balzac.
Alla figlia raccontando le sue ricchezze, ammonendola che avrebbe dovuta
«rendergliene conto laggiù», e mise nella parola conto tutto il peso che essa ha
nei registri di cassa.
Nino
Cappellani, Balzac, Zola, Verga, in Opere di Giovanni Verga,
Firenze, Felice Le Monnier, 1940 («Verga europeo», II), pp.
341-352.
Cfr.
1937.
Bruno Cicognani, L’Età
favolosa, Milano, Garzanti, 1940.
Capitolo Quarto.
Si
leggono alcune lettere del Nencioni e si parla della
«Contessa».
p.
77. Da una lettera (senza data) alla sorella
Giulia:
P.S. In
fondo alla tua, parlami d’Ursule Mirouet e di Balzac. Che uomo! ... Se Balzac
avesse conosciuto il conte ...
p. 78. Sorella
mia,
Ebbi la
tua. Le tue quattro parole su Balzac valgono assai più dei libri di certi
critici, come Ranalli, ecc. Brava, grazie.
Sabato
sera alle otto e mezzo sarò da voi: finisci Ursule per sabato, e me ne
parlerai.
Saluta
la mamma
ENRICO
Parte seconda.
Capitolo secondo.
Nel
quale si descrivono poeticamente Le
Cure e il villino
Borini.
p. 220.
C’erano i libri su cui ella aveva studiato e che portavan le dediche a lei del
Carducci, del fratello Enrico, del Padre Barsottini: piccole edizioni rare di
Tibullo, Catullo, Giustino, Petronio; edizioni dei classici nostri della
«biblioteca diamante» Barbera; libri religiosi, romanzi della Sand, di Balzac,
le opere di Hugo, traduzioni francesi e italiane di Shakespeare, di Dickens, di
Tackeray; Manzoni e Leopardi: tutti libri umanissimi. Luce di vita
ideale.
Parte terza. Capitolo
terzo.
Mia madre
[...].
pp. 427-428. […] la donna colta che a quei tempi conosceva [...]
Balzac e la Sand [...].
Piero D’Este, Immagini mentali
e fenomeni luminosi, in Tito Alippi, Piero D’Este, A. Cerioli,
Problemi di metapsichica, Milano, Fratelli Bocca – Editori, 1940, pp.
69-93.
pp. 70-72. Concorde con codeste
testimonianze di artisti e di sensitivi, viene a trovarsi, impensatamente, la
geniale intuizione di un grande: Onorato di Balzac. Una volta egli disse che il
pensiero e la luce sono due cose quasi eguali (Prefazione, vol. 21
dell’ediz. Corbaccio): un’altra affermò che il pensiero attiene alla luce come
la parola attiene al suono (Luigi Lambert: Frammenti di un Veggente).
Affermazioni apodittiche; ma quanto significative, quando si tenga conto della
profonda dottrina di Balzac in ogni ramo della scienza dei suoi tempi e
particolarmente in quello della cosidetta scienza
occulta.
Vivido come un lampo di verità nelle
tenebre della nostra ignoranza su questo tema, è il parallelo tra la natura del
pensiero e quella della parola, la prima costituita da luci come la seconda da
suoni. Pensiero e parola sono effettivamente espressioni entrambi
dell’intelligenza, e questa agisce sulle immagini mentali [...] organizzandole
in pensieri; così, come agisce sui suoni organizzandoli in
parole.
Già Platone aveva avvicinati i due
termini — pensiero e parola — dicendo che il pensiero è una parola dentro
all’anima, una parola dell’anima a sè stessa senza che sieno proferiti dei
suoni. Altri disse che i pensieri sono le immagini delle cose, come le parole
sono le immagini dei pensieri (Bouhours). Ma questi sono soltanto accostamenti
superficiali. Balzac, invece, penetra nell’intimo delle due manifestazioni
e paragonando l’oscura essenza del pensiero, attinente alla luce, a quella nota
ed evidente della parola, costituita da suoni organizzati, chiarisce
stupendamente il concetto che il pensiero altro non sia che una organizzazione
di immagini luminose.
Ma Balzac va in questo campo ancora più
oltre, e narrando che Luigi Lambert «domandava a sè stesso: se il principio
costituente dell’elettricità non entrasse come base nel fluido particolare dal
quale si slanciano le nostre idee e le nostre volizioni», egli anticipa di oltre
un secolo, con una meravigliosa sintesi intuitiva, quella elettrotecnica della
telepatia che io mi sono industriato di congegnare in un saggio
precedente.
Immagini mentali e apparizioni
fantomatiche, pp. 95-117.
p. 104. Artisti e poeti d’ogni tempo
esaltarono i poteri dello sguardo umano; ma Balzac andò, come sempre, più vicino
al vero dicendo mirabilinente (L’envers de l’histoire
contemporaine, ed. Lévy, pag. 218): «Lo sguardo era una fiamma, o,
meglio, un fiammeggiamento divino, un raggiare comunicativo di vita e di
intelligenza, era il pensiero visibile!».
Raffaello Franchi, Nota sull’autore, in Onorato di Balzac,
Modesta Mignon …cit., Firenze, Vallecchi, 1940, pp.
5-10.
Onorato Balzac nacque a Tours il 16 (sic) maggio 1799 e
morì a Parigi, per un attacco di cuore, nella notte sul 19 agosto del
1850.
La sua
vita ci appare straordinariamente breve se la consideriamo al paragone
dell’opera quantitativamente immensa e qualitativamente elaborata sino
all’estremo della possibilità, benché il suo riscrivere, non meno che il suo
scrivere, avesse il ritmo d’una corsa febbrile e lasciasse passare, dai fori del
vaglio, oltre all’oro autentico e pulito anche molta scoria terrosa. Quella
infatuata, ingenua ambizione per la quale appartengono all’età acerba i disegni
più grandiosi, fu la norma della sua esistenza lavorativa senza
soste.
I suoi
studi regolari furono di scolaro negligente, caratterizzato come pigro. Sino dal
tempo del collegio di Vendôme e poi dell’Istituto Lepitre gli premeva di
potersi dedicare completamente all’arte
letteraria.
E
dapprincipio scrisse e pubblicò parecchi romanzi che nemmeno figurano sotto il
suo vero nome appena corretto dalla presuntuosa particella d’una nobiltà
d’invenzione, ma sono reperibili agli pseudonimi di Horace de Saint-Aubin, di
Viellerglé, di Tom (sic) Rhoone.
Figliuolo di un avvocato del Consiglio, sotto il regno di Luigi XVI,
nell’816 lo troviamo giovane di studio da un
notaio.
Sognava
grandi guadagni, personaggio egli stesso della propria fantasia creativa. E un
giorno, radunati in saccoccia seicento franchi, raggiunse la Sardegna, dove
avrebbe voluto tentare lo sfruttamento delle miniere d’oro degli antichi
romani.
Nemmeno
a dirlo, il progetto si risolse in un fiasco. E allora si fece tipografo,
editore, sortendo dalla dannata esperienza con un debito spaventoso: centomila
franchi da pagare e, per pagarli, da guadagnare: un bel programma di
lavoro.
Ci si mise di lena, non c’è che dire, appena tornato da
un soggiorno in Brettagna, dove aveva accudito alla preparazione del romanzo
Les Chouans.
Balzac
era un uomo che si alzava a mezzanotte, prendeva del caffè e scriveva poi per
dodici ore di seguito.
Da
mezzanotte a mezzogiorno: nelle ore notturne durante le quali nascono i
quotidiani del mattino, e la vita è un grano crosciante dentro le bocche dei
molini.
Balzac mugnaio non riceveva quel grano dagli sparuti raccattabroccoli
della cronaca, sguinzagliata fra questure e spedali. Il suo cuore era
riverberato dalla realtà d’una grande epoca: gli ultimi re di Francia,
Napoleone, gli screziatissimi e popolosi panorami della provincia francese e i
misteri evocati dalle luci della città, diurne e notturne, dame, e le
popolane, il cui cuore batte all’unisono d’altre contrazioni, sortendo in
miriadi di volti i fiori incantevoli della grazia, della civetteria,
dell’orgoglio, dell’umiltà femminili.
Uno
strano e formidabile mugnaio. E anche un po’ vanesio, nell’arpeggiare sullo
strumento del mondo donnesco. Ma si trattava di una vanità cui sottostava vera
sapienza.
Vi sono
parecchi modi di risultare, attraverso molti libri, scrittori di un libro
solo.
C’è chi
pensa a sé, al proprio autoritratto nel pretesto dei più cari personaggi.
Costoro perseguono una perfezione che, in un certo senso, varrà soprattutto nel
testo migliore, tutto il resto divenendo, sempre in un certo senso e fino a un
certo punto, dono a lettori secondari.
E c’è
quello per il quale lo spazio non basta mai e a cui, il cammino che non cessa,
divora tutti gli orizzonti.
Balzac
appartiene a questa natura. Cento libri suoi gli diventano i cento tomi di un
libro solo.
Si
potrebbe dire che più che un frutto della natura, in sé contenente la facoltà di
una sintesi particolare, Balzac è
l’uomo-natura.
In
questo senso fu detto che egli faceva la concorrenza allo Stato Civile, creando
quasi a proprio malgrado, e non potendoli mai abbandonare, personaggi, intere
famiglie, boschi di frondosi alberi genealogici. In lui la sintesi diventa
questione di fare il punto, un problema di rilegatura. Ce ne fa accorti nel ’42
quando dà opera al disegno di coordinare
nell’organico assieme della Commedia umana i diciassette romanzi scritti
sino ad allora.
Inventore straordinario; eppure, parlando di invenzioni a suo riguardo ci
prende, quasi, lo scrupolo d’una inesattezza. Giacché l’invenzione, che si
supporrebbe dover essere una fatica in sé, a Balzac veniva incontro come una
visione, e fatica vittoriosissima gli diventava il distinguere, il sistemare, il
raccontarne le parti.
Tutti
ricordano con quanta lentezza, e attraverso quali apparenti farraggini
considerative, muova l’antefatto, la preliminare messa a fuoco delle sue storie;
e ricordano come tuttavia, quegli antefatti, finiscano per consistere d’una rete
di richiami, di necessarie allusioni a cose, che la rendono retrospettivamente
luminosa, e quasi spumante e lieve. Di ciò traggano esempio, i lettori, dallo
stesso presente racconto di Modesta
Mignon.
Balzac
correva dietro alla infinita molteplicità dei fatti Visionati; eppoi, spesso,
ritornava sui propri passi, rifaceva, riscriveva. Gliene dà testimonianza lo
stesso Sainte-Beuve che pure non potendogli essere critico troppo tenero, in
ordine alla sua particolare morale letteraria e alla sua concezione dello
scrittore, disse di lui che «posseduto dal bisogno d’una perfezione quasi
chimerica», talvolta avrebbe dovuto addirittura guardarsi dal pericolo di
guastare in successivi rimaneggiamenti la semplicità schietta di certe prime
redazioni. E prima aveva posto in significativo rilievo la sua «superiorità
naturale».
L’accensività pregnante del suo sistematico, e non mai
esausto rincorrere è la principale caratteristica balzacchiana, che ne fa la
pagina sempre commossa, talvolta la rende meravigliosa, come nel racconto della
Ragazza dagli occhi d’oro, nella Storia dei tredici, e nel
Giglio nella valle.
Sino al
capolavoro di Babbo Goriot e a quello, anche più forte, di Eugenia
Grandet, sul quale nemmeno il già citato Sainte-Beuve troverà grandi
rilievi da fare, se non per qualche taglio nel contenuto che avrebbe potuto
essere più accorto in quanto incideva con le ragioni dell’equilibrio e del
gusto: mondi compatti, regolati dalla norma di una economia intima, fatale: i
favilloni del suo maglio, i gioielli d’acqua più limpida, i premi relativamente
monolitici d’una fatica dal prestigio, e dalla considerazione della quale, essi
non possono, nondimeno, essere alienati.
Giustamente sentiva e diceva Victor Hugo nell’orazione funebre del 22
agosto 1850: «I suoi libri non ne formano che uno, vivo, luminoso, profondo, e
in cui vediamo andare, venire, camminare e agitarsi con un non so che di
spaurito e di terribile, e di commisto al sogno, tutta la nostra civiltà
contemporanea».
Anche
Modesta Mignon, che vi accingete a leggere, offre questo patetico
microcosmo. Nell’abbondante panorama dei personaggi i volti vi sono tutti resi
incisivi dallo spirito dialettico che li fissa in figure prototipi, sino a
quello del nano Butscha, i cui epigrammi (e basterebbe riferirsi al giudizio sul
pretendente poeta: «Canalis ha abbastanza ingegno per demolirsi da solo»)
potrebbero far seriamente riflettere contro l’accusa di cafoneria mossa al gran
romanziere.
Bene
spesso, in Modesta Mignon, c’è tutta la romantica grazia di un Teofilo
Gautier, e dalle sue numerose conversazioni e cronache lo spirito di un lettore
modernamente colto e avvertito potrebbe persino trarre illazioni sulla maniera e
sul gusto ultra moderno di un Aldous Huxley.
Forse
Augusto Rodin, nel celebre ritratto che gli fece, capì meglio d’ogni altro la
figura di Balzac: intuendo sotto il grasso monumentale i nervi tenaci della
forza, dello spirito e delta
poesia.
Mario
Gasparini, Tommaseo e la Francia, Firenze, «La Nuova Italia»
Editrice, 1940 («Collana critica»).
p. 162.
Entusiasmi [per la Sand] a cui faceva riscontro l’antipatia per il realismo
dell’arte di Balzac («scrivente manierato senza la potenza di que’ che si creano
una maniera; pittore minuzioso della parte materiale di certe cose, ignorante
del resto, sterile sì di fantasia sì d’affetto [cfr. Il primo
esilio]»).
p. 166.
Guido Mazzoni, nell’Ottocento [cfr. Storia letteraria d’Italia,
Milano, Vallardi], accenna a un influsso di Volupté, insieme con altri
romanzi della Sand e del Balzac, su Fede e
Bellezza.
Prof.
Giovanni Lombardi, La delinquenza nel romanzo sociale e naturalista.
Balzac, V. Hugo, Zola, in Arte e delinquenza, Napoli, Casa Editrice
Dott. Eugenio Jovene, 1939, pp. 223-239.
Balzac e la delinquenza come effetto delle passioni e
dell’ambiente, pp. 227-234.
Onorato
de Balzac, come firmò dopo il 1830, nato nel 1799, morto nel 1850, da famiglia
borghese, visse proprio nell’epoca tempestosa descritta: e la descrisse com’egli
si propose. Giacché il Balzac vuol essere l’osservatore e il pittore della vita
del suo tempo, vagheggiando di unire in una trama vasta i suoi romanzi per
abbracciare in un ciclo tutte le classi, tutte le condizioni, tutte le apparenze
della società moderna.
Richiamandosi alla dottrina di Geoffroy Saint-Hilaire e al modello
letterario del Buffon, vagheggiò di fare per la società qualcosa di simile a ciò
che il Buffon aveva fatto per la zoologia, e con un triplice contenuto «les
hommes, les femmes et les choses, c’est à dire les personnes, et la
représentation matérielle qu’ils donnent de leur pensée: enfin, l’homme et la
vie»: e giungere così alla ragione o legge dei fatti sociali. Anche la storia
doveva esser sociale, al di là dell’individualismo e prammatismo del
secolo precedente.
Cominciò
con l’imitazione di Walter Scott, nel romanzo Les Chouans, apparso nel
1829, in cui lo studio dei caratteri, dei moventi, dagli interessi personali
sono mescolati alla politica, e al momento storico scelto, nel cuore della
Rivoluzione.
E in
pochi anni, a traverso romanzi e studi sempre più felici e profondi di
psicologia e d’ambiente e saggi d’una fantasia vivace, egli s’innalza a veri
capolavori, quali Le médecin de campagne, Eugénie Grandet, Le
père Goriot.
L’avarizia del vecchio Grandet, l’amor paterno di Goriot sono passioni
violente, dominanti, e perciò quasi deliranti: e però mentre l’una ha una certa
pietosa e terribile grandezza, come quando sorprende in mano alla figlia
l’astuccio con l’oro lasciatole in deposito dal fidanzato
l’altra con la dedizione del padre alle figliuole colpevoli ottenebra la sua
dignità e la sua coscienza. E tutto ciò sullo sfondo minuto e realistico di
cose e costumi quale, ad esempio, in E. Grandet la stupenda pittura
della casa di provincia e dell’ambiente familiare in cui fiorisce l’affetto
gentile della giovane Eugenia.
Egli è
che Onorato di Balzac, come dice il Croce […] ha il gusto delle passioni spinte all’estremo, dei
contrasti recisi e intransigenti, delle colossali imprese, delle grandi astuzie
e degli infernali raggiri e dei successi
mirabolanti.
Ma dove
tutto ciò appare al Croce come ineguaglianza e disarmonia dell’arte
gagliardissima del Balzac, ed un vero vizio artistico, in quanto i caratteri non
giungono all’armonia della concordia discorde e le azioni non si snodano con
naturalezza e lo stile non è ritmico: a me pare che, dati i tempi descritti di
passioni spinte all’estremo, non è quistione di temperamento che non sappia
moderarsi, temperarsi, ma piuttosto è un dover intonarsi ai tempi, come fedele
pittore di essi.
È fra il
1842 e il 1846, che la Comédie humaine, in 16 volumi, assorbe le due
serie di Études de moeurs e di Études philosophiques insieme con
le nuove opere composte dal Balzac. La profezia di Balzac s’avvera: «Parigi,
inferno che un giorno avrà il suo Dante».
Alcuni
fra i personaggi del Père Goriot grandeggiano nella Comédie
humaine.
Balzac
ha anzitutto la visione della potenza dell’alta finanza, della plutocrazia,
nella società moderna: così come i suoi tempi chiaramente mostravano.
E da
questo angolo visuale egli descrive uomini e cose e crea i caratteri degli
autentici delinquenti di violenza e di cupidigia. Già nel Papa Goriot i
personaggi centrali sono Vautrin e Rastignac.
Nella
pensione a Via Nuova Santa Genoveffa, tra il quartiere latino e il sobborgo San
Marcello, nei due appartamentini del secondo piano, abitavano il vecchio Poiret
e un uomo di circa 40 anni, con una parrucca nera e le basette tinte, che si
diceva un ex negoziante e si chiamava Signor Vautrin. Nel terzo piano, due
camere erano fittate, l’una alla zitellona Michenneau (sic), l’altra ad un
vecchio fabbricante di pasta e amido, che si lasciava chiamare Papa Goriot. In
quel tempo una di quelle camere era fittata ad un giovane venuto a Parigi dai
dintorni d’Angoulême per frequentare un corso di legge, tale Eugenio di
Rastignac, cui la famiglia a furia di privazioni mandava 1200 franchi
all’anno.
E
Rastignac con la carnagione bianca, i capelli neri, gli occhi azzurri, col
portamento e i modi di nobile famiglia, venuto dalla provincia, si scaltrisce
nell’alta società Parigina, e ne diviene uno dei dominatori più eleganti e più
spregiudicati.
Vautrin
è il microbo sociale della delinquenza.
È un
galeotto evaso. È un delinquente istintivo, primitivo. Ha energie straordinarie,
colle quali domina sui bassifondi, e ne diviene l’amministratore
delegato.
Negli
ergastoli, Giacomo Collin o Vautrin era soprannominato Gabba la Morte. In lui si
riassumeva tutta la vita, dell’ergastolo colle sue forze e la sua astuzia. Aveva
molti delitti sulla coscienza: tre evasioni dall’ergastolo, due condanne in
Corte d’Assise.
Vi sono
celebri forzati, come Dannepot detto la Pouraille, Selerierre, Papa Rallaou
detto Fil di seta, Riganzon: ma su tutti domina
Vautrin.
Tra
quella gente perduta vi sono tutti i temperamenti umani: i discreti e gli
intriganti, gl’impulsivi, i dissimulatori, i cinici, i feroci, gli spudorati, i
disonesti, i lascivi, i vendicatori, i bigotti. E pure anche tra questi stracci
umani brilla a volte un sentimento di bontà, tra tanta furberia, astuzia e
malignità.
Il
rimorso vi può essere nella solitudine: ma questa è propria del solo uomo di
genio, che la riempie dei suoi pensieri. Nell’ergastolo è soppressa la
riflessione: gli ergastolani, giganti di destrezza e di abilità nella vita
sociale, con lo sguardo e la mano pronti, eroi di malvagità nelle loro gesta
criminali, esercitano anche l’astuzia, l’ipocrisia, la protesta, e tutti i mezzi
diventano buoni.
Vautrin, il cinico, il forte, il
motteggiatore, il principe dei diplomatici ergastolani, abile nelle
metamorfosi, potente fascinatore del male, è sfornito d’ogni senso morale e
sociale. Egli non ha che la morale brutale del primitivo: pervenire col
delitto, con qualsiasi mezzo di corruzione, al danaro, ch’è la fonte del potere
e del piacere.
A
nulla vale il martirio sublime della virtù, a nulla l’ideale della libertà, la
purezza della vita.
Si
perviene o con la forza del genio o con quello della corruzione. La corruzione è
forte, è l’anima della mediocrità trionfante. Invece se pure ci s’inchina
dinanzi al potere del genio, lo si odia, lo si calunnia. Lo si adora in
ginocchio quando non si è potuto seppellirlo nel
fango.
Anche la
vergogna di rendere l’amore un mezzo di fortuna è un mezzo che può raggiungere
il fine della ricchezza: e perché Vittorina, la figlia del banchiere Taillefer,
diventi l’unica erede, bisogna far uccidere in duello il fratello, destinato dal
vecchio Taillefer all’eredità.
Ogni
mezzo è buono per non vivere e morire come un povero pensionato alla
Poiret!
Ecco il
piano diabolico che Vautrin presenta a Rastignac: quel Vautrin, pezzo d’uomo con
le spalle larghe, i muscoli pronunziati, le mani grosse e quadre, con la faccia
dura solcata da precoci rughe, a soli 40 anni, con la voce di basso, con lo
sguardo scrutatore e risoluto, con le basette tinte ... quel Vautrin, che
s’intendeva di tutto, di affari, di leggi, di prigioni, che snodava gli
imbrogli, prestava denari ed imponeva soggezione, che penetrava negli animi per
scorgerne i sentimenti, e che, misterioso, appariva così risoluto da non
indietreggiare neppure di fronte al delitto: quel Vautrin conscio degli
interessi di quelli che lo circondavano, ma inscrutabile nell’intimo e nella
profondità del suo animo, nonostante la sua cortesia
apparente.
I suoi
frizzi alle leggi, allo stato sociale svelavano a volte il mistero che
l’avvolgeva, il suo odio sociale.
Il suo
motto era: «Il danaro è la virtù …». Ecco il Mefistofele. Rastignac è il
fanciullone, come lo chiamava Vautrin: l’uomo di provincia che ha la cupidigia
di pervenire, il nuovo Faust. Quando Vautrin cercò di dominarlo, di conquistarlo
al mondo del delitto, gli disse: Vorreste sapere chi sono? Vautrin; che faccio?
Quel che mi pare; il mio carattere? Sono buono con chi mi fa del bene e con chi
mi va a genio, ma, corpo d’una pipa, sono cattivo come un diavolo con chi mi
tormenta e con chi mi è antipatico. Io mi do tanto pensiero per ammazzare un
uomo quanto per sputare in terra. Quando sia proprio necessario cerco
d’ammazzarlo con ogni riguardo.
Ecco la vecchia psiche, violenta,
spregiudicata, impulsiva con forti muscoli e niuna formazione psichica etica: ecco
l’uomo primitivo, che pure, preso pel suo verso e beneficato, può, come il
selvaggio, diventare buono e servizievole.
Con la
sua fame da lupo, e i suoi denti affilati, come farà per riempire la pentola?
Egli dice a Rastignac: «Prima di tutto dobbiamo mangiare il codice, cosa poco
divertente e di nessuna utilità; ma bisogna farlo ad ogni costo». Bisogna
sprezzare gli uomini e stare attento ai buchi, da dove si può passare per lo
staccio del codice.
Così
egli sperava togliere da Rastignac ogni straccetto imbrattato di
virtù.
Ma con
Rastignac, Vautrin è la palla di cannone che tenta di sfondare: con ogni studio
ed audacia, non riesce nella tentazione di Rastignac. La volontà forte è la sola
difesa contro il delitto e la tentazione di esso: ed essa è la compagna
inseparabile degli uomini di cultura e
d’intelletto.
Pure
quel Vautrin, che a 46 anni ha orrore della solitudine, di cui quella morale è
la più spaventevole, e che vuole un complice nel suo destino, diventa come la
peste che penetra vittoriosa nell’anima e nel corpo di Luciano: e ne fa una
creatura tutta sua, formata e plasmata a suo
uso.
Ecco la
suggestione che crea il succube, e diffonde come un’epidemia il delitto. È la
stessa suggestione che in guerra crea i così detti eroi: nelle grandi città le
compagnie associate del delitto, dalla camorra ai gangsters. Ed è
tale suggestione che spiega la potenza e la forza del costume sociale
atavico e quella dell’ambiente sociale, come ho mostrato nei
miei libri.
Luciano di Rubempré è l’uomo
suggestionabile.
Non è Rastignac che si sostiene, si
sorveglia, si difende e con il quale lo stesso Vautrin, nel suo istinto
criminoso, tratta da pari a pari, da uomini che si comprendono guardandosi
negli occhi, con parola franca, chiara, leale. Con Luciano tratta da superiore
a inferiore; si nasconde come un protettore, un confessore: si chiude nella
veste nel nome e nell’ombra del gesuita Herrera. Nelle Illusioni
perdute, Luciano, di 21 anno, orfano di padre, con la madre ultima
discendente della casa De Rubempré, ed una sorella Eva in miseseria (sic), dopo
traversie varie con alti e bassi, si decide in un momento di sconforto per il
suicidio. «Sì, ho deciso, addio dunque per sempre, mia cara Eva», scrive alla
sorella. Ma dirigendosi verso il fiume Charente, incontra Vautrin, che in una
sua metamorfosi è divenuto un ecclesiastico, un canonico onorario della cattedrale
di Toledo! E salva Luciano «il diamante inconscio del suo valore» come gli disse
con grazia ed un sorriso ironico: ma lo salva dal suicidio per perderlo, dopo
averlo impregnato della sua morale.
Il
successo è la ragione suprema di ogni e qualsiasi azione. Il fatto in sè è
nulla: è tutto nell’idea che gli altri ne hanno. Con un aspetto esteriore
avvenente che nasconda il rovescio della vita e con la discrezione, la divisa
degli ambiziosi, si fa carriera, si diventa ricchi, occorre proprio uno scopo
brillante e nascondere i mezzi per conseguirlo, la via da percorrere. I grandi
commettono altrettanti delitti che i miserabili, ma li commettono nell’ombra,
mentre fanno sfoggio della loro virtù e rimangono grandi. Invece i miserabili
compiono i loro atti di virtù nell’ombra ed espongono le loro miserie al
pubblico: e quindi sono disprezzati.
Bisogna
aspettare, imboscandosi, una preda o un caso: tutti obbediscono a qualche cosa,
ad un vizio, a un bisogno. Non vi sono più leggi, non vi sono che
costumi.
Così,
diceva Vautrin, a Luciano stupito, in meno di tre anni sarete marchese di
Rubempré, sposerete una delle più nobili fanciulle e un giorno siederete tra i
pari.
Così mi
apparterrete come la creatura al Creatore, come il corpo all’anima: e sulla via
del potere, avrete una vita di piaceri e di onori, e il danaro non vi mancherà
mai. Io costruirò il brillante edifizio della vostra fortuna. Mi piace il potere
per il potere.
E sul
volto abbronzato del finto prete, si disegnava un’orribile espressione: sotto
l’abate Carlos Herrera, dalla bella e incipriata capigliatura, dal nastro
turchino ornato di bianco con la croce d’oro, dalle calze di seta nera sulle
gambe di atleta, era Vautrin, l’erculeo evaso, con lo sguardo terribile, con il
suo incarnato bronzeo, con la finta e studiata mansuetudine del
religioso.
Luciano
ne fu dominato e vinto: e fu abbagliato da l’oro che il prete estrasse dalla
tasca del calesse e che egli spedì alla sorella Eva: il prete che aveva scelto
la sottana per travestimento e fingeva l’uomo onesto, continuando la vita del
forzato, evaso dal bagno di Rocefer.
Luciano era il meraviglioso strumento
di dominio, il succube, salvato dal suicidio per darlo al diavolo, alla
corruzione, al delitto per raggiungere un destino di felicità e di potenza nel
mondo, a traverso i piaceri, i successi, la vanità soddisfatta. Così fu
asservito nell’anima e nel
corpo a quel Giacomo Collin, che aveva cambiato il suo volto con l’aiuto di
reagenti chimici, che aveva cancellato con ferite alle spalle le lettere fatali
impressevi, e che, banchiere dell’ergastolo, possedeva i depositi affidati alla
sua forzata onestà, ai quali aveva aggiunto il danaro del Vescovo e il gruzzolo
di una devota di Barcellona, cui aveva data l’assoluzione, promettendole la
restituzione della somma pervenutale da un omicidio commesso da lei e da cui
derivava la sua fortuna.
Ecco la
fonte della ricchezza! Ecco le donazioni in fin di vita, di fronte al terrore
della punizione divina! Intanto Luciano ed Ester divorano tutto il peculio
affidato alla probità del banchiere dell’ergastolo; il barone di Nucingen ebbe
dilapidata la sua fortuna e fu turlupinato come amante riamato di Ester; Ester
si suicidò in condizioni misteriose; e il prete spagnuolo trovato in casa di una
cortigiana, e Luciano di Rubempré, fidanzato della Grandelien (sic)
e amante di Ester, furono arrestati e imputati entrambi di un assassinio che
doveva loro fruttare sette milioni!
Luciano
nelle carceri, vinto, si suicida e scrive all’abate Carlo Herrera: «Addio
dunque, addio, superba statua del male e della corruzione
...».
Egli è
che in ogni condizione sociale il Balzac scopre i germi distruttori delle
passioni, e di quella della cupidigia: da quella degli uomini politici a quella
dei banchieri e degli usurai d’ogni risma: da Gobseck a Rigou (Les paysan
(sic)) avvinto dal danaro, per la sua funzione enorme in quel mondo, come da una
piovra. E nessuna classe è salvata, da quella dei giornalisti e degli artisti, a
quella dei medici, magistrati, avvocati, impiegati, piccoli borghesi, contadini:
e insieme alle varie classi, anche le varie regioni della Francia, e quelle di
provincia con il fascino della vita parigina, rientrano nei quadri meravigliosi
del Balzac, con l’intenso interesse per l’indagine dei motivi e dei sentimenti
umani, come per i retroscena della politica e per gl’intrighi della polizia.
Così le figure fittizie di Rastignac e di De Marsay concordano con i ritratti
storici del Talleyrand e del Fouché.
E però i grandi personaggi del Balzac
hanno le loro radici in un fenomeno sociale e ne rivelano una crisi. Se Luciano
de Rubempré è un debole carattere, senza volontà, che la facile vita corrompe e
dà in preda a Vautrin, alle cortigiane e al suicidio; Cesare Birotteau è il
commerciante abile, ma vanitoso, che, pur essendo di fondo onesto, è travolto in un fallimento a sfondo
epico; Filippo Brideau, in Un ménage de garçon, è l’ufficiale pensionato
che nell’ozio, per la povertà dei suoi mezzi, diviene un esempio terribile di
egoismo e di malvagità; la cousine Bette è la zitellona, grigia e
dimessa, che riversa il suo fiele sui parenti più fortunati; il cousin
Pons, mite, collezionista e parassita, scatena intorno a sè cupidigie
profonde e delittuose; il curato di Tours, modesto e mite, è annientato
da un rivale implacabile che lo distrugge.
Nella
bella Imperia che apre e conclude la serie dei Contes drôlatiques,
è il tipo della cortigiana gloriosa e leonina, fiorente tra i liberi costumi e
la passione estetica e sensuale del
Cinquecento.
E nella
vasta figurazione della società moderna, come descrisse nelle ultime pagine di
Une ténébreuse affaire il campo militare alla vigilia di Iena, e nel
Médecin de campagne dedicò un capitolo alla leggenda popolare dell’epopea
Napoleonica; così nel libro Sur Catherine de Médicis, tra il 1828 e il
1842, espose la sua dottrina della monarchia, additandone il tipo ideale nella
regina italiana. Legittimista, egli si compiace del potere d’azione e d’autorità
e della frase: «Ce n’est pas une femme, c’est la royauté qui vient de
mourir».
Così,
ove s’annunzi o si discopra il volto pallido e cesareo di Napoleone, negli
episodi dei suoi romanzi, si sente il sacro sgomento di Balzac dinanzi
all’impassibile energia di chi ha nel pugno il destino di milioni di uomini e
del mondo.
E così
anche nelle tumultuose sue pagine politiche egli appare l’uomo dei suoi tempi,
ma quell’uomo di genio che coi piedi sulla terra ha nella testa di poeta e di
scrittore un mondo intero da ritrarre nelle sue passioni e nei suoi
delitti.
Manlio Lo Vecchio Musti, Il teatro italiano del Novecento,
«Romana. Rivista degli Istituti di cultura italiana all’estero», Roma, Anno IV,
N. 1, Gennaio 1940, pp. 26-37.
pp. 26-28.
Le condizioni del teatro italiano agli inizi del secolo
XX.
Tutto il
teatro del secolo XX è stato erroneamente detto «naturalista»; il «naturalismo»
infatti, non è che un aspetto del «realismo» ottocentesco. Avvertita la
necessità di distinguere il naturalismo dal realismo, alcuni han creduto di
uscirne gabellando tutto il realismo della prima metà dell’ottocento come
«prenaturalismo»; e non si sono avveduti d’essere incorsi in una inesattezza
ancor più grave: quella cioè d’aver completamente capovolto l’importanza e il
valore del particolare ai danni del generale.
La prima
solida e compiuta espressione del realismo ottocentesco è costituita dall’opera
massiccia di Balzac. Invano si è tentato di contestare a Balzac questo merito,
sia per dividerlo con altri, sia per attribuirlo a Stendhal. Prima di Balzac il
romanzo è epistolare, storico o avventuroso; dopo Balzac è realista. Con Balzac
entra infatti nella letteratura la società borghese, nata dal sangue della
rivoluzione e dal turbine delle campagne napoleoniche. Quando, a sua volta,
all’assalto di questa società — o meglio, di una parte di essa, quella
privilegiata — muoverà la plebe operaia, il realismo borghese balzachiano si
evolverà nel naturalismo proletario zoliano; al Père Goriot e a
Eugénie Grandet succederanno L’Assommoir e Germinal.
Strozzato dai debiti, Balzac aveva a più riprese battuto con insuccesso
la via delle scene alla ricerca di una fonte di più solleciti e lauti guadagni.
Il fallimento artistico di questo tentativo ha fatto sì che ai
critici più attenti ne sfuggisse la grande importanza
storica e l’innegabile influsso sul teatro
posteriore.
In tutta
la drammatica moderna ha infatti eccezionale rilievo la speculazione
finanziaria; e Balzac è stato il primo ad introdurre nell’arte questa frenetica
sollecitudine della società borghese. La sua commedia più nota reca un titolo
sintomatico: Le faiseur. Scritta nel 1838, non fu rappresentata che nel
‘51, dopo la morte dell’autore, in una riduzione di D’Ennery intitolata
Mercadet. […].
Sull'opera del Becque i pareri sono discordi: chi ha parlato di semplice
realismo e chi di autentico naturalismo. Con Les corbeaux e con La
Parisienne Becque è senza dubbio nella tradizione di Balzac, ma è lampante,
nello studio dei minuti particolari e nella fedele riproduzione dei fatti della
vita quotidiana e del linguaggio usuale, l’influsso delle teorie zoliane sul
documento e sull’ambiente. Tuttavia lo stile di Becque, asciutto e incisivo, si
distingue nettamente sia dalle esuberanti forme di Balzac, sia dalla
farraginosa maniera di Zola.
Benedetto Migliore, Lucio d’Ambra, «L’Italia che scrive.
Rassegna per il mondo che legge. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma,
Anno XXIII, N. 2, Febbraio 1940, pp. 25-27.
p. 25. Poco importa che, nutrito di cultura francese, d’Ambra
avesse davanti al suo spirito, sempre presente, l’immagine di taluno di quei
grandi costruttori di cicli letterari, a esempio di Balzac e della sua
Commedia umana: l’ambizione era nobile pur sempre e il cimento, se
mai, ancora più arduo.
Lauro
Montano, Come crearono i loro capolavori. “Onorina” di Balzac tra
il salotto della contessa Maffei e il soggiorno a Genova, «Stampa Sera»,
Torino, Anno 74, Num. 112, 9 Maggio 1940, p.
3.
Non si può dire che Onorato di Balzac
abbia sempre trattato gli italiani — specialmente i letterati — con quella
cortesia ed educazione che, se non altro, avrebbero meritato per le gentilezze,
la cordialità, la generosità usate sempre verso di lui, particolarmente nel suo
soggiorno in Italia. Perché — sembra la sorte di tutti i grandi scrittori ed
artisti —
anche Balzac venne più. volte e
soggiornò
non poco in Italia, ricevendo onori e gentilezze, ricavandone ispirazione per
parecchi suoi lavori che sotto il nostro bel cielo hanno visto la luce.
Il 19
febbraio 1837 infatti Balzac giungeva a Milano — preceduto da una lettera di
Fanny Sanseverino Porcia alla contessa Clara Maffei che glielo presentava, e
pochi giorni dopo faceva il suo ingresso trionfale nel famoso salotto
dell’illustre gentildonna. Intanto sulla «Gazzetta privilegiata di Milano»
Defendente Sacchi ne dava l’annuncio al pubblico, presentando Balzac come «lo
scrittore francese che in pochi anni fece il maggior numero di opere che
descrivono in ogni maniera la vita dell’uomo e della società, quello che è anche
il più popolare fra noi, perché i suoi scritti corrono nelle mani di tutti; in
originale e tradotti ...». E concludeva il cortesissimo e forse esagerato
annuncio, così: «siamo certi che il genio del Balzac avrà dal nostro cielo le
sue più belle ispirazioni».
Ciò fu
vero, anche se il cielo di febbraio a Milano non poteva essere molto azzurro e
nitido, ingombro di nebbie persistenti. La venuta di Balzac a Milano venne
attribuita alle persecuzioni accanite dei suoi creditori parigini e tutti
volevano vedere Balzac ... e il suo bastone da passeggio che si diceva costasse
tesori. Nel salotto della Contessa Clara Maffei, lo scrittore francese
costituiva un numero di potente attrazione: per quanto, anche sedendo in mezzo
alle più eleganti signore del salotto, che lo complimentavano, in cambio dei
madrigali che ad esse rivolgeva, si addormentasse in piena conversazione. A
tutto questo un brutto giorno aggiunse di peggio: uscì con acerbi giudizi contro
i «Promessi sposi» del Manzoni, idolo del salotto, e contro i romanzi di Tommaso
Grossi e di Massimo d’Azeglio ... confessando di non averli letti. Durante la
sua permanenza a Milano, Balzac scrisse parecchie opere.
Ispirazione
genovese.
Ma anche a Genova il romanziere francese
pensò e scrisse qualche lavoro. Certo «Onorina» è ispirazione e creazione
genovese. Fu nel 1837, poco dopo una sua permanenza a Milano, che Balzac si recò
a Genova: e nel 1838 vi rinnovò il soggiorno. Il soggetto di «Onorina» era
reale, locale. Il console generale di Francia a Genova, Conte d’Hostal, apriva
in quell’anno le sue sale ad una brillante società di compatrioti di passaggio
ed a certe notabilità genovesi colle quali manteneva cordiali relazioni.
L’Hostal aveva sposato in Genova una ricchissima ereditiera, figlia di un
banchiere, Onorina Pedrotti: e fu appunto in una riunione al palazzo del
Consolato, nel mese di maggio, che Balzac raccolse dalla bocca stessa del Conte
di Hostal il racconto drammatico di una vita sentimentale, di cui lo
scioglimento doveva avvenire in Genova.
Insieme
a Balzac erano convitati dal Console, un celebre pittore, una scrittrice
emancipata; Lena de Lora, Camillo Maupin e due nobili genovesi, i marchesi
Pareto e Di Negro. Davanti a questo uditorio, l’Hostal, trascinato da
un’osservazione di Maupin raccontò, durante l’assenza della moglie, il suo
romanzo vissuto qualche anno prima a Parigi. Questo documento psicologico
costituisce il vero soggetto di «Onorina». L’amore disperato per una squisita
creatura distrugge a poco a poco la vita di un gentiluomo che l’aveva sposata e
domina irresistibilmente il giovane d’Hostal, che al gentiluomo doveva, come ad
un padre, ogni gratitudine. Il contrasto di passioni, la figura soprattutto
della protagonista, una di quelle creature d’eccezione che non vivono se non
per l’amore e non conoscendo nè accettando altra legge, per l’amore giungono
all’eroismo, offerse a Balzac l’occasione di sfuggire la sua arte. Per una
coincidenza singolare, il nome della donna, Onorina, si trova essere quello
della genovese che il d’Hostal, venuto in Italia, e perduta ogni speranza,
finisce per sposare.
Balzac
scrisse il lavoro evidentemente sotto l’impressione della narrazione del Console
d’Hostal, il quale, nel racconto, appare come un uomo che, raccolto qualche anno
prima per carità dal marito di Onorina e avviato alla carriera diplomatica,
narra poi nel suo palazzo di Genova, le vicende sentimentali della sua vita.
Un’ode del
Foscolo.
Ora, per la precisione, bisogna dire che
se il «fatto» che è a base di «Onorina» è reale e vero, i nomi però non
corrispondono a quelli veri: e ciò per una evidente ragione di delicatezza. La
Onorina Pedrotti che figura sposa al Console d’Hostal non si chiama affatto con
tal nome: a tanta distanza di tempo, è lecito oggi sollevare il velo dal Balzac
steso sui nomi dei protagonisti. Da alcuni severi e profondi studi compiuti da
appassionati di storia genovese, si è potuto accertare che Onorina era la
signora Luigia De Ferrari, figlia di un ricco banchiere di Varese Ligure, non
nobile, ma sposata giovanissima ad un Pallavicini già attempato e perciò rimasta
assai presto vedova. Fu così che ella potè sposare il console francese Perrier
(il d’Hostal del racconto).
A chi
nulla suggerisce il nome di questa «Onorina» e cioè di Luigia De Ferrari
Pallavicini, ricorderemo soltanto che Ugo Foscolo — il combattente sotto le mura
di Genova — scrisse una ode che rimase famosa, in cui descrive la disgraziata
caduta da cavallo della bella Luigia «fra le belle, regina e diva». Onorina è la
stessa Luigia Pallavicini cantata dal Foscolo. Ed il Perrier la sposava
ugualmente benché per la caduta fosse rimasta alquanto sfigurata, con un occhio
divelto quasi del tutto, e il cranio fosse notevolmente offeso.
Il
Perrier e la sposa abitavano nel palazzo detto «Scoglietto» sopra Santa
Limbania.
Gli
altri personaggi che, nel racconto del Balzac, figurano attorno al Conte
d’Hostal che narra la vicenda sentimentale, sono il critico Claude Vignon e il
pittore Leon de Lora i quali accompagnavano in un viaggio attraverso l’Italia la
scrittrice signorina De Touches, nota sotto lo pseudonimo di Camilla Maupin: il
pittore era il Delacroix, intimo amico di Georges (sic) Sand. Dei due genovesi
presenti, il nome è autentico: il marchese Di Negro, il celebre mecenate della
Villetta omonima: e così quello del marchese Pareto, pur noto nella storia dei
movimenti politici del Risorgimento.
«Onorina» nata a Genova, dopo il racconto del «vero» console francese,
Perrier, è stata poi elaborata a Parigi nella modestissima casetta abitata dal
Balzac: egli vi pose la data del 1836 come epoca dell’azione ma la pubblicazione
è avvenuta soltanto nel 1842.
Una non lieta avventura era toccata a
Balzac venendo in quell’occasione a Genova: serpeggiava il colera e le persone
che giungevano di lontano e potevano ritenersi sospette, venivano rinchiuse nel
lazzaretto, alla Foce,
per la quarantena di osservazione. Balzac, essendo francese e infierendo allora
a Marsiglia l’epidemia colerica, fu necessariamente rinchiuso al lazzaretto: in
una sua lettera parla del ricordo incancellabile che la quarantena nel triste
luogo lasciò nell’animo suo. Ma qual era stato il vero scopo del viaggio di
Balzac a Genova e in Italia? Forse la ricerca di ispirazioni letterarie? Nulla
affatto. Spinto dal miraggio d’una rapida fortuna che sempre lo illudeva, Balzac
era venuto fra noi per un affare commerciale: utilizzare il materiale
abbandonato da secoli nelle miniere argentifere della Sardegna e riprendere di
queste l’attività ... Non ne riportò invece altro che il soggetto d’un racconto
che piacque e restò.
Ferdinando Neri, I cent’anni di Zola e di Daudet, «La
Stampa», Torino, Anno 74, Num. 80, 2 Aprile 1940, p.
3.
Lo Zola si proponeva di consolidare, di disciplinare il
romanzo francese, il quale, a cominciare dal Balzac, si era messo per le vie
del realismo, sì che divenisse la rappresentazione oggettiva, piuttosto
biologica che psicologica, della società contemporanea secondo le direttive del
materialismo e del determinismo allora prevalenti nella scienza e nella
filosofia.
Giulio Pacuvio, Storia del
teatro drammatico di Silvio D’Amico ridotta da Giulio Pacuvio,
«Radiocorriere. Settimanale dell’Ente italiano audizioni radiofoniche», Torino,
Anno XVI, N. 20, 12-18 Maggio 1940, p. 4.
Lezione
XL – Il teatro della società borghese in Francia: Eugenio Scribe e
Labiche.
Ma altri nomi, di ben altra mole e
grandezza, entrano in questo scorcio della storia del teatro borghese in
Francia. Nomi di scrittori che con il teatro hanno avuto soltanto incidentali
contatti, ma di cui anche l’opera narrativa, costruttrice dell’epoca d’oro del
romanzo in Francia, non fu senza riflessi sulle tendenze
drammatiche.
E primo Honoré de Balzac, il formidabile
artefice dei quadri della Comédie humaine, lo scrittore fecondo e
talvolta prolisso, non privo di scorie romanzesche, ma prodigioso creatore dl
persone vive, descrittore di ambienti e di mondi, analizzatore di aspre verità,
ebbe influenza sui drammaturghi venuti dopo di lui. Ma egli stesso tentò il
teatro, con Vautin (sic) con Le risorse di Quinola e con Pamela
Girard (sic) che non ebbero molta fortuna: e poi con un dramma intimo di
salda costruzione. La matrigna, e infine con Mercadet l’affarista
in cui vive uno dei caratteri meglio rilevati del nuovo teatro
francese.
Pànfilo, Un romanzo amoroso, «Corriere della Sera», Milano,
Anno 65, N. 310, 29 dicembre 1940, p. 3.
[Su:
Marise Ferro, Trent’anni, Milano, Garzanti,
1940].
Per Trent’anni, il romanzo nel quale Marisa
Ferro dice come a tale età la donna vuole e gusta l’amore, non c’è bisogno di
rifarsi alla Femme de trente ans di Balzac, in cui una donna è meditata
prima e dopo codesto punto focale. Ma se ne potrebbe riprendere l’osservazione
essenziale, che codesto è il punto in cui, la donna, l’amore non lo subisce ma
lo elegge. Essere scelta o scegliere: è tutto il problema dell’amore per la
donna e qui è, mi pare, anche il nucleo del romanzo della
Ferro.
Guido
Porzio, Rivolgimenti sociali e loro riflessi letterarii, «Nuova
Rivista Storica», Genova-Roma-Napoli-Città di Castello, Società Anonima Dante
Alighieri, Anno XXIV, Fasc. I-II, Gennaio-Aprile 1940-XVIII, pp.
46-55.
II. Economia e realismo.
pp. 52-54. Ad ogni modo, tenuto conto delle notevoli differenze
d’intensità e di ampiezza operante, nei secc. XIII-XIV e XVIII-XIX il
rincorrersi delle manifestazioni fu sostanzialmente identico. Nell’uno e
nell’altro caso dominio di industriali e di mercanti, e perciò accrescimento di
quotidiano vigore all'abito dell’osservazione perché la spada di Damocle del
fallimento cade inesorata sul capo dell’uomo non avvezzo a schermirsi da bravo
nel giuoco infido delle probabilità: nell’uno e nell’altro caso l’irrompere
della scienza colle diversità già messe in rilievo e coll’identico effetto
dell’abitudine all’osservazione sollevata a rigore di metodo e convertita, per
così dire, in una seconda natura: nell’uno e nell’altro caso le portentose
energie risfavillate nei regni dei poetici fantasmi, e nel sec. XIV Giovanni
Boccaccio, il Balzac della borghesia del medioevo, e nel sec. XIX Onorato de
Balzac nuovo Boccaccio con polso di titano, poeta del ceto medio balzato
sovrano fuori dalle tempeste rivoluzionarie e destinato a reggere per molti
anni le sorti del genere umano. […].
A dir
vero, nei primi decenni del sec. XIX, nella Francia commossa dai casi di
Esmeralda e di Quasimodo e sognanti gli incantesimi victorhughiani suscitati da
una magica parola che pareva contenere tutti i sussurri e i fragori, tutte le
carezze e gli spasimi della natura, il verismo metodico e cauto sembrava in
precedenza condannato alle mortificazioni dell’insuccesso. Non fu
così.
Nei
volumi poderosi e inseguentesi della Commedia umana la borghesia
riconobbe sè medesima. Balzava infatti sopra la scena della storia Sua Maestà il
Denaro, il Denaro che fu del Balzac, per esprimerci colle parole di un grande
critico «dominatore e carnefice come lo era della sociale convivenza, il Denaro
che curvò lui come gli altri sopra il suo lavoro febbrile, lo incatenò ad esso,
lo ispirò, lo perseguitò nelle ore di ozio, nelle sue meditazioni, ne' suoi
sogni» : Sua Maestà il Denaro «che rovinò i suoi occhi, dominò la sua mano,
gl’infuse il soffio della poesia e animò l'opera del grande scrittore
riverberando sui cento volumi della Commedia i fulvi riflessi de’ suoi
splendori».
Mentre
il gran pubblico applaudiva con frenesia le scene dello Ernani o seguiva in alto
con occhi stupefatti i dorati fantasmi del Lamartine, del De Musset e degli
altri taumaturghi del romanticismo, Onorato Balzac spiava, anch’egli, ai limiti
dell'orizzonte i segni dell’ora sua. Quell’ora doveva suonare immancabile
perché il mondo e l’arte della Commedia era una parte grandiosa della verità e
della realtà contemporanea. I primi segni crepuscolari della gloria nascente
fecero sobbalzare il cuore dell’artista di gioia sovrumana. In Sardegna anche i
briganti lo fecero segno di non dubbiosa
venerazione.
«Credo
che essi — scriveva alla famiglia — m’avrebbero dato volentieri in prestito
denaro piuttosto che domandarne».
A Vienna
quando Balzac entrò in una sala da concerto, tutti si alzarono per salutare
l’autore della Commedia umana, mentre uno studente baciava la mano di
colui che aveva scritto Seraphita (sic). Poi la gloria ruppe fuori
rutilante come il sole dai valichi d’Oriente in una superba giornata estiva. E
il Balzac si fece messaggero scherzoso alla sorella degli splendori imminenti.
«Sorella, ho a darti buone nuove: le riviste pagano meglio i miei scritti. Eh!
eh! Werdet mi dà notizia che il Medico di campagna fu spacciato tutto in
otto giorni. Ah! ah! Ho quanto basta per far fronte alle grosse scadenze di
novembre e dicembre, tuo grande cruccio. Oh! oh!» In seguito il trionfo
sfolgorò in tutta la sua magnificenza non peranco tramontata, così che — a non
far parola di molti gloriosi, nè dei fratelli Goncourt, nè di Gustavo Flaubert,
nè di Emilio Zola, nè di Luigi Capuana, nè di Giovanni Verga — una scintilla
dell’anima di Balzac illumina ancora la produzione dei più simpatici romanzieri
e novellisti dei giorni nostri: per esempio, della Guglielminetti, di
Pittigrilli, di Mario Mariani, ecc.
A tale legge comune affermata da
Aristotele, alla legge economica che abbraccia individui e popoli, verso la fine
del sec. XVIII e nei primi decenni del XIX, non valse a sottrarsi neppure il
mondo dell’arte. Nè vengano a ripeterci il rancido ritornello: che le
condizioni economiche non potevan darci la Commedia umana, che per questo
occorreva, quale grande demiurgo, il genio di Balzac. O profondissima
verità! certo tutti comprendono che, a produrre il capolavoro dell’arte, occorre
proprio quel dono divino intravisto da Balzac nei riposti penetrali dell’anima
sua, allorchè udiva, dopo la recita di una commedia, le parole commosse degli
spettatori moventi i loro passi affrettati verso il letto del riposo:
«Ascoltando quella gente io mi sentivo addosso i loro cenci e camminavo coi
piedi nelle loro scarpe bucate: i loro desideri, i loro bisogni passavano
nell’anima mia e l’anima mia nella loro. Era il sogno di un uomo desto. Insieme
con loro io mi arrabbiavo contro i caporioni dell’officina che facevano
sovr’essi da tiranni. Abbandonare le mie abitudini, diventare una persona
diversa da me stessa in virtù dell’ebbrezza delle facoltà morali, rappresentare
tale parte a volontà, ecco la mia
distrazione».
Per fare dell’arte immortale ci vuole il
genio: d’accordo: ma le condizioni economiche eccitatrici della scienza, le
condizioni fisiologiche, le condizioni economiche plasmatrici egualmente
efficaci delle anime immaginose, pensose e analitiche, hanno e ebbero sempre la
virtù di suggerire e quasi di prescrivere, volta a volta, al genio nuovo
indirizzi determinati: nel caso nostro gl’indirizzi romantico e realistico. E
questo vi par poco?
Marco
Ramperti, Osservatorio, «L’Illustrazione Italiana», Milano, Anno
LXVII, N. 31, 4 Agosto 1940, p. 164.
O forse
anche Balzac non faceva fiorire i tigli d’aprile; e forse Stück, dipingendo una
Capri omerica, non vi ha visto crescere dei fichidindia, importati laggiù solo
da un secolo e mezzo? La poesia è una cosa, e la botanica un’altra.
[…].
La
precisione colturale di Baudelaire, d’altra parte, era infallibile in tutto: né
certo sarebbe capitato a lui, come ai suoi contemporanei Balzac e Janin, di
tastare il polso a dei rettili, o di far nascere l’Imperatore Carlomagno con due
secoli di ritardo!
Giuseppe Toffanin, La femme de trente ans, «L’Italia che
scrive. Rassegna per il mondo che legge. Supplemento mensile a tutti i
periodici», Roma, Anno XXIII, N. 11-12, Novembre-Dicembre 1940, p.
273.
Ricordate
Balzac (qui non si può invocar altra autorità che d’un romanziere) la cui
Giulia, la femme de trente ans, si butta tra le braccia di Arturo.
«Connaître le bonheur et mourir-dit-elle. – Eh bien,
oui».
Che
novità! si dirà. Questo, alla fin dei conti, è sempre avvenuto. La storia degli
improvvisi sopravventi della poesia, dell’arte, comincia con il primo uomo.
[…].
Bisogna
considerare ad ogni modo che la femme de trente ans, quella di cui parla Balzac,
ai tempi nostri ne ha quaranta.
Diego Valeri, Balzac, in
Précis historique ... cit., pp.
418-420.
Honoré de Balzac naquit à Tours en
1799. Ayant terminé ses études de droit, il exerça la profession d’avocat, puis
celle de notaire, mais il abandonna bien vite les codes et les répertoires pour
s’adonner à la littérature. De 1821 à 1825 il publia, sous différents
pseudonymes, des romans malheureux qui n’eurent aucun succès; il se hasarda
alors dans une entreprise typographique, qui ne réussit pas non plus, et le
laissa endetté pour toute sa vie. Soit pour se libérer de ses créanciers, soit
pour satisfaire ses goûts fastueux et son inguérissable prodigalité, il se remit
au travail littéraire, qui était, d'ailleurs, sa vocation naturelle. Il s’y
engagea avec une telle ardeur, qu’il y usa sa robuste santé: la mort l’enleva en
pleine maturité, en 1850. Pendant les vingt dernières années de sa vie,
c’est-à-dire à partir de 1829, il publiait environ deux mille pages par an. Il
laissa quatre-vingt-seize romans, partagés en séries différentes, et groupés
sous le titre, fixé en 1842, de La Comédie
humaine.
Assoiffé de vie, pléthorique, impétueux, ce romantique dirigea toutefois
son œuvre avec un certain esprit méthodique et, ce qui compte bien plus, il ne
chercha d’autre inspiration que la réalité qui l’entourait: nous dirons qu’il
tenta de satisfaire son amour de la vie tout entière par l’expérience et
l’observation de la vie tout entière. Son réalisme ardent est surtout fait de
souvenirs: les choses vues, entendues, vécues, restaient en lui dans leur état
incandescent et acquéraient un magique pouvoir de vie en passant par son
imagination. D’autre part, les choses inventées rentraient aussitôt dans le
cercle de sa réalité, et devenaient aussi vraies que les choses réelles.
Effectivement, il n’y a pas, dans Balzac, de différence ni de distinction entre
l’observation et l’invention. Par conséquent on peut dire que le problème de
l’écriture, du style, n’existait pas pour lui: son art était sa nature même. Et
dans ce sens la définition que Michelet a donnée de lui est toujours juste: «une
force de la nature». «Oui,— commente intelligemment Brunetière — si l’on entend
par ce mot une puissance obscure et indéterminée, une fécondité sans mesure ni
régie; une sourde activité qui s’accroît des obstacles qu’on lui oppose, et qui
tourne ceux qu’elle ne renverse pas; une inconscience dont les effets
ressemblent, en les surpassant, à ceux du plus profond calcul, inégale
d’ailleurs, capricieuse, tumultuaire, et capable en sa confusion
d’engendrer des monstres aussi bien que des chefs-d’œuvre: tels sont
précisément l’imagination et le génie de Balzac. Une telle force n’a pas besoin
d’art. Tout ce qu’elle contient en soi aspire nécessairement à être, et
sera si les circonstances le permettent». Quant à l’esprit méthodique et
organisateur, il suffira de rappeler que la
Comédie
humaine est divisée en plusieurs parties: Scènes de la vie
privée (Le père Goriot, 1834; etc.), Scènes de la vie de
province (Eugénie Grandet, 1833; Le lys dans la vallée, 1835;
etc.), Scènes de la vie parisienne (Histoire de la grandeur et de la
décadence de César Birotteau, 1837; La cousine Bette, 1846; Le
cousin Pons, 1847; etc.), Scènes de la vie politique (Une
ténébreuse affaire, 1841; etc.), Scènes de la vie militaire (Les
Chouans, 1829, qui marquèrent sa première grande victoire), Scènes de la
vie de campagne (Le médecin de campagne, 1833; Les paysans,
1844, etc.), Études philosophiques (La peau de chagrin, 1831,
etc.). Il tentait donc d’épuiser dans son œuvre son sujet, qui n’est autre que
la vie «non choisie», la vie commune, toujours la même et toujours variée. Un
monde, ou, plus exactement, une époque :la fin du premier Empire, la
Restauration, le Gouvernement de juillet. Deux mille personnages, dont plusieurs
passent et repassent d’un roman à l’autre, et qui appartiennent à tous les
milieux, et qui ne sont pas exclusivement occupés à aimer et à regarder en
eux-mêmes, mais aussi, et tout spécialement, à gagner leur pain, à conquérir la
richesse, le pouvoir, par leur intelligence, leurs ruses, et au besoin par leur
violence; deux mille personnages dont chacun est situé au milieu de minutieuses
circonstances qui lui sont propres, dans un décor déterminé, concret, exact.
«Mon ouvrage a sa géographie — disait Balzac dans l’avant-propos de la
Comédie humaine — comme il a sa généalogie et ses familles, ses lieux et
ses choses, ses personnes et ses faits». La Comédie humaine présente, en
effet, d’innombrables manières de sentir, de parler, de se mouvoir, de
s’habiller, de rassasier les appétits naturels et d’assouvir les passions: ces
modes sont particuliers à leur époque, mais, d’autre part, ils sont
universellement humains. Ainsi, cette œuvre est le plus grand répertoire de
documents sur la nature humaine que la littérature ait jamais dressé: comparable
seulement, comme l’observe Taine, au théâtre de Shakespeare et aux mémoires du
duc de Saint-Simon. En face d’une œuvre pareille, les réserves des critiques
délicats, qui auraient voulu que le sens de la mesure dans la création fût
respecté, ne valent rien. Lorsque Sainte-Beuve déclare: «J’aime cette
efflorescence par laquelle il donne à tout le sentiment de la vie et fait
frissonner la page elle-même», il s’interdit les si, les mais, les
distinguo; et ce qu’il dit après de «ce style tout asiatique», si éloigné
de l’oratio pudica qu’il préfère, n’a plus de raison
d’être.
On prétend que le roman réaliste a été
créé par Balzac. C’est possible, mais cela a bien peu d’importance si on
considère l’ampleur et la substance vitale de l’œuvre; œuvre qui dépasse les
classifications littéraires et sort presque des limites de la littérature, de
même que quelques moments wagnériens semblent sortir des limites de la
musique. Le roman réaliste, est plutôt la création de Stendhal et de
Mérimée, c’est-à-dire des deux romanciers qui procédèrent avec l’ordre, le sens
des limites et le choix rigoureux exigés par l’œuvre
littéraire.
En dehors de La Comédie humaine,
Balzac écrivit plusieurs comédies, et une série de récits de style rabelaisien,
les Contes drôlatiques (1832-37). Parmi ses lettres, celles À
l’étrangère (c’est-à-dire à Madame Hanska, polonaise, qui pendant dix-sept
ans échangea des lettres avec lui, et l’épousa cinq mois avant sa mort) sont les
plus dignes d’être notées.
Adattamenti
teatrali.
Gilberto Beccari, Giovanna la Pallida. Dramma da Honoré de
Balzac, 1940.
P.
Suardon [Nicola Daspuro], La Giacobina. Dramma lirico in tre atti
tratto dagli “Sciuani” di O. de Balzac, Milano, Sonzogno, 1940, pp.
59.