sabato 25 gennaio 2020



1948

 

 


Traduzioni.

 

 

  Onorato di Balzac, Il Domino bianco, «Gazzettino-Sera. Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CCVIII, 18-19 Novembre-1-2 Dicembre 1948.

 

  Si tratta della traduzione di: L’Amour masqué, opera di assai dubbia paternità balzachiana.

 

 

  Honoré de Balzac, Ferragus. Traduzione di M. Teresa Sposato, Torino, Francesco De Silva, (marzo) 1948 («Biblioteca europea», III), pp. 178.


  [Segnalato da Paolo Russo, Primo inventario della fortuna di Balzac in Italia (Introduzione a una bibliografia critica 1948-1957), «Belfagor. Rassegna di varia umanità», Firenze, Anno XIV, Fascicolo 5, 30 Settembre 1959, pp. 548-549].

 

  Struttura dell’opera:

 

  Pietro Paolo Trompeo, Presentazione, pp. 7-11; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Prefazione, pp. 15-22;

  Ferragus, pp. 23-175;

  Nota, pp. 177-178. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

 

  Esemplata sul modello dell’edizione Furne (1843), la traduzione che M. T. Sposato fornisce del primo dei romanzi che forma la trilogia dell’Histoire des Treize può ritenersi corretta.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Matera. Napoleone e Balzac in una conferenza dell’avv. De Ruggieri, «La Gazzetta del Mezzogiorno – La Gazzetta di Puglia – Corriere delle Puglie», Bari, Anno LXI, Numero 129, 3 Giugno 1948, p. 2.

 

  L’avv. Nicola De Ruggieri, nel circolo Unione, he tenuto un’applaudita conferenza sul tema «Napoleone e Balzac». La precoce e pensosa giovinezza del Balzac, che si infiamma nell’alone delle leggendarie vittorie napoleoniche, il tormento di un’anima che penetra nel mondo con la possente visione della sua fantasia, la passione di un genio nella oscura «mansarde de la rue Lesdiguières», il parallelo tra il grande condottiero ed il mirabile creatore di una pleiade di personaggi e di tipi sono stati narrati dall’avv. De Ruggieri con la consueta, forbita, brillante oratoria. Un vero godimento per il follo e distinto uditorio che ha calorosamente applaudito l’oratore.

 

 

  Paolo Arcari, Panorama di studi balzacchiani, «Pagine nuove di scienza arte letteratura nel mondo. Rivista mensile», Roma, Anno II, Fascicolo XI, novembre 1948, pp. 452-455; Fascicolo XII, Dicembre 1948, pp. 501-505; Anno III, Fascicolo I, Gennaio 1949, pp. 4-5; Fascicolo II, Febbraio 1949, pp. 106-108. Questo studio sarà pubblicato, come appendice, in: Balzac. Nuova edizione riveduta ed accresciuta, Brescia, Morcelliana, 1949, pp. 177-200.


  [Segnalato da Paolo Russo, Primo inventario … cit., p. 548].

 

  Non siamo più molto lontani dal centenario.

  L’otto agosto del 1850 Victor Hugo, compiuta la visita suprema e pia, usciva, ultimo e massimo dei visitatori francesi, dalla stanza dove Onorato Balzac, a cinquantun anni e tre mesi, stava, con lentezza penosa, morendo.

  La cultura francese si è ben preparata a celebrare una così grande ricorrenza: preparata da tempo e soprattutto in questi ultimi due decenni. È vero che la bisogna più arida e monotona l’ha lasciata compiere dall'America ... Ma non saremmo davvero noi italiani a meravigliarcene, beneficati come siamo da una sorta di «piano Marshall» non solo avanti lettera ma avanti guerra. È stato, come si ricorda, o, meglio, come non si ricorda, un «council» — il termine è un po’ chiesastico, ma è proprio quello che gli americani adoperano — il concilio di una Università di oltre Atlantico che ha messo a disposizione di Giuseppe Prezzolini i fondi per dare all’Italia una bibliografia alfabetica della letteratura italiana. Dobbiamo, quindi, trovare naturale che volendo sapere a che punto sia una delle tante questioni balzacchiane, in primis et ante omnia, occorra compulsare la esemplare fatica di William Hobart Royce con prefazione di E. Preston Dargan, edita dalle Arti Grafiche della Università di Chicago, in due volumi: l’uno A Balzac Bibliography di 646 pagine, l’altro, indice del precedente, di 190 pagine; il tutto compiuto nel 1929.

  La bibliografia esige mezzi, ordine, pazienza: i francesi invece hanno compiuto essi il lavoro che mette in esercizio tutti gli strumenti della erudizione, tutti i più dotti appetiti e le più sottili controversie. Più classificazione che statistica, anzi più statistica che dialettica, magari la acrobazia di ardue ricerche genealogiche. Ci imbattiamo per il primo, naturalmente, in un nome patrizio ed al Visconte De Spoelberch de Lovenjoul dobbiamo La storia delle opere balzacchiane. La storia, cioè, dei figli legittimi, dei legittimati, di quelli che sono stati trafugati, travestiti e che riescono più o meno ardui da patrocinare nella loro giustificata richiesta di paternità, di quelli che sono stati denunciati prima di esser venuti al mondo, mentre per altri capita di dover sospettare vere e proprie sostituzioni di infante. La Storia del Lovenjoul ha già avuto tre edizioni, tutte e tre ricercate ma non facilmente reperibili.

  Per l’accertamento critico del testo abbiamo i quaranta volumi stampati in Parigi dalla casa editrice L. Conard sotto la direzione oculatissima ed informatissima di Marcel Bouteron che ha così autenticati trentasette tomi di opere complete oltre a tre altri di opere estravaganti e diverse.

  Di tutti e tre questi benemeriti si può ripetere che essi hanno veramente conosciuto il piacere superiore che il Taine chiamava il piacere proprio per eccellenza degli spiriti che lavorano: il piacere di pensare al lavoro che compiranno gli altri. Infatti, attorno alle tre sopraindicate ed imponenti iniziative, lussureggia in larga disposizione cronologica, coetanea e seguace, sempre più folta, la più varia letteratura balzacchiana.

Che vorrei presentare nelle sue caratteristiche famiglie spirituali.

 

* * *

 

  La vita del romanziere ebbe spesso ed avrà sempre per moltissimi una attrattiva per lo meno pari a quella dei suoi romanzi.

  Andrea Billy nella sua Vita del Balzac (2 voll. Flammarion 1944) associa in una ricerca ampia, minuta, intelligente, starei per dire «inspaziata» il dato biografico ed il dato ispirativo. Ne viene un testo fitto, urgente, dove il lettore è preso dalle scadenze insieme dell’uomo e dell’autore: un’opera che ha la sua maggiore efficacia nel comunicare la ipertensione di una colata favolosa di personaggi giganteschi, di peripezie innumeri ed abnormi e di una vita indomita nel perseguimento delle mete più chimeriche insieme e più concrete. Dagli sterminati epistolari il Billy ha trascelto certe righe dove Onorato appare davvero ghermito da una immane cinghia di trasmissione; di impegni e di bisogni. Occorreva che giungessero gli ultimi giorni del mese e, con essi, le lamentele e le accuse degli editori, le geremiadi del proto, con essi il terrore di non avere che pochissime ed ultimissime ore, perché si mettesse al lavoro. Ma, allora, che furia! Che mole era capace di spedire! Ondate su ondate di cartelle verso le tipografie per ottenere un riflusso di «effetti» tacitati e di fatture quitanzate. «Nel corso di questo 1841 ho consegnato ai giornali 30.000 righe; nel corso del 1842 mi propongo di scriverne 40.000: a tre franchi la riga, i debiti sono pagati». La stampa periodica va bene, ma le son poi bazzecole! Ci vogliono non le righe, ma le pagine. Il Le Breton, che presenteremo tra breve, ha fatto ammontare il numero di pagine a duemila all’anno: per 19 anni vogliono dire 38.000 pagine. Ma il computo deve essere fatto per volumi! È più soddisfacente: nel 1835 esso permetteva confronti in cui i classici avevano la peggio e nessuno dei contemporanei ci aveva fatto caso: «Occorrevano 10 anni ad uno scrittore del Settecento per fare 10 volumi: alla fine di quest’anno io ne avrò fatti 14». Altro ci vuole! Bisogna che tutte le opere si possano comperare. Dove? Come comperarle adesso? Ci vuole una sola ragione editoriale e ben conosciuta: ci vuole un solo prezzo netto, chiaro, accessibile. Invece, oggi chi volesse le mie opere e avesse la fortuna di scovarle (non trovarle, ma proprio scovarle), scriveva in altra lettera ed in altro periodo di effervescenza, dovrebbe oggi, paga di qua, paga di là, buttare alla fine sul banco almeno 300 franchi, diconsi trecento. Ed ecco che con la nuova combinazione, in una bella stampa, linda ed elegante, può avere tutto per 80 franchi, diconsi ottanta. Sono 220 fr. risparmiati per i lettori. E per il Balzac un affare: un affare che, insomma, lo dispensava dall’almanaccarne altri (Billy, II, 70). Doveva, invece, produrre a getto continuo. Era con-dannato a vita: ai romanzi di ogni genere per altri e ai romanzi finanziari per sè. Sicché a più d’uno è saltato il ticchio di mettere gli occhi sui suoi brogliacci e sui suoi mastri, di fargli una ispezione da ragioniere, ma da ragioniere pieno di arguzia e di indulgenza. Nel 1930 R. Bouvier ci diede dallo Champion un Balzac uomo d’affari; nel 1938, in collaborazione, René Bouvier e E. Maynial rividero in una esposizione consuntiva di ben 523 pagine I conti drammatici di Balzac (Parigi, E. Sorbot). Fra le complessità e le contraddizioni degli intelletti sovrani si dà anche la inconscia e pur lucida commiserazione di sè; il Balzac ha, forse, veduto e compatito se stesso in Cesare Birotteau, il profumiere dalle invenzioni mirabolanti: «E si dice che non vi è poesia nel commercio! Newton non fece maggiori calcoli per il suo celebre binomio di quanti non ne facesse Birotteau per l’essenza comagena, poiché l’olio nei suoi discorsi ridiventava essenza ed egli andava da un’espressione all’altra senza comprenderne il valore; tutte queste combinazioni mulinavano nella sua testa ed egli scambiava questa attività nel vuoto con l’azione so-stanziale del talento» (Birotteau, cap. IV). Capisco che il Billy si sia arrestato su questa pagina, anzi gli ascrivo a merito grande l’avere richiamato su di essa l’attenzione della critica: c’è, a leggerla, da sgranare gli occhi, da ritornarci sopra due volte per paura di aver avuto le traveggole. Ma ha scritto proprio lui così: gliele dettava dentro, queste righe, l’intuizione profonda e fugace che quando modellava i suoi personaggi ed architettava le sue scene, la sua era attività sostanziale del talento, e che, invece, quando addizionava, moltiplicava, computava (tante raccolte di tanti volumi a 80 franchi la raccolta, con diritto d’autore di tanto per ciascun esemplare, significano un incasso di tot), la sua era proprio, come quella dell’infelice ed immortale Birotteau, una attività nel vuoto! Badate, però, che al suo Birotteau il Balzac riserva addirittura un posto in Paradiso, come ad un martire da decorare «con la palma eterna». (Birotteau, III, XVI).

  Candidato al fallimento recidivo e cronico o candidato ai milioni? Riattizzata di continuo questa curiosità, anche per essa vennero riesumate con interesse grande le vecchie testimonianze di quelli che avevano potuto osservarlo da vicino e con tutto il loro agio. Riesumazione felicissima da mantenere distinta da tutte le altre quella del Balzac in pantofole di Leone Gozlan: questi scorci stampati nel 1862, ripubblicati nel 1885 e nel 1926, sono stati, adesso, inseriti nella raccolta I romanzi della storia e dalla casa editrice «Gli orizzonti di Francia» resi accessibili a tutti gli studiosi; Balzac in pantofole è un’opera d’arte su un artista: un ritratto dovuto ad un pennello esperto di tutte le astuzie del colore.

  Le reazioni del bel mondo titolato e censito alla personalità talora sanguigna ed inquietante del Balzac, le resistenze, insomma, di gusto e di classe, gli arcani e gli umori della mondanità nei giorni della stagione romantica al suo apogeo secondo le Memorie inedite di un contemporaneo anonimo, che rispondeva al nome del vecchio magistrato Lambinet, presentate ed annotate da Carlo Léger, sotto il titolo Balzac messo a nudo (Parigi, Gaillandre, 1928) trovarono qualche assenso in pieno novecento. I rimproveri dei salotti e degli eleganti di allora, così come li formulavano aspramente in casa Doumerc i De Bonneval e la leggiadra Visconti, come li ripeteva nei colloqui e nei libri Giulio Sandeau: «Non sapete far parlare nè le dame nè le damigelle ... non ci pare nei romanzi balzacchiani di trovarci in casa nostra» eccoli ritornare sulle gravi colonne del Journal des Débats, proprio al principio del secolo (14 IX 1900) e firmati da Andrea Hallays: «Balzac è grossolano e questo lo limita». Sono stati ripresi dal Faguet e, con maggior impegno ed influenza da Marcel Proust. Il bello è che l’opera di Marcel Proust è stata essa pure messa in quarantena, con riserve severe, proprio per lo stesso capo di accusa di millantata famigliarità col gran mondo! Il conte di Luppé osservava che il giudizio del Proust è stato falsato da tre cause congiunte di errore: lo snobismo, la suscettibilità e l’osservazione incompiuta: «Il Proust ha sopra valutato le attrattive del mondo e sottovalutato il suo proprio valore». Non si potrebbe arrivare per il Balzac ad una conclusione affine? Si farà sempre valere che il corteggiamento della duchessa di Castries si risolse in clamorosa sconfitta. Va bene, dicono altri, ma ebbe, tuttavia, un principio, un avvio ed una duchessa più duchessa della Castries non si trova a sfogliare mezzo dizionario araldico: «Mai, esclama il Billy, aveva mirato così alto!». Quanto aristocrazia, era proprio aristocrazia!

  Non abbandoniamoci, però, alla voluttà di «blasonner», e di registrare tutti i suoi contatti con l’alta società.

  C’è un altro problema che preme di più: capire il Balzac!

 

* * *

 

  Occorre collocarlo dapprima nella storia del genere, cioè nello sviluppo del romanzo francese ed europeo, poiché questo è un grande avvio a penetrarci bene della sua reale significanza. Il Balzac dei capolavori occulta, necessariamente, a mille occhi gli esordi del Balzac narratore; i suoi primi racconti appaiono oggi senza discussione aegri somnia, orripilazione fantastica, teratologia letteraria. La conoscenza del Balzac ha fatto un passo decisivo quando gli studiosi presero il loro coraggio a due mani e si avventurarono intrepidi in un museo degli orrori, in una galleria di romanzi macabri e cicciosi, nel più spampanato secentismo dell’avventura senza freno e senza gusto. Fu necessario, naturalmente, leggere, oltre i suoi anche romanzi altrui: tutti quei romanzi che possono disputarsi il titolo di essergli stati modelli.

  La scuola storica francese sa condurre con disciplina e garbo, a termine fruttuoso, questi studi sulle grandi vigilie. Non solo furono studiati con questo metodo i romanzieri, ma anche i critici, gli oratori sacri, i tragici. Così come è stato tutto appurato e verificato sul Sainte-Beuve prima dei Lunedì, sul Lacordaire prima delle grandi prediche di Nôtre Dame; così come Luigi Rivaille ha illuminato in ogni particolare i cominciamenti del Corneille: così è stato condotto a termine anche il lavoro di scavo sulla preistoria del Balzac.

  Conosciamo il Balzac prima della stagione dei capolavori. Lo conosciamo, starei per dire, in tutti i generi: dall’articolo di Marcello Bouteron sulle prime tragedie del Balzac nella Revue des deux Mondes (1-12-1923) al volume di A. Prioult, Balzac prima della Commedia umana (Parigi, Courville, 1936).

  I due nomi più rappresentativi mi sembrano quelli di due scrittori che potrebbero essere, anche, considerati, con non soverchio arbitrio, il primo e l’ultimo per ora di quanti hanno lavorato in questa direzione.

  Con Andrea le Breton, che fu professore nella Università di Bordeaux, risaliamo quasi al principio del secolo: nel suo Balzac, l’uomo e l’opera (Parigi, Arm. Colin, 1905) egli aveva accertato, con dotta e sostenuta diligenza, tutte le varie affinità del Balzac con i più fecondi ed assidui produttori di romanzi alla fine della stagione rivoluzionaria e nei primi anni della Restaurazione. L’altro è un letterato molto noto nella Francia del dopo guerra, Maurice Bardèche. Egli si è preparato, come in una vigilia d’arme, alla sua impresa maggiore, con l’edizione critica o analisi della redazione «preoriginale» della Fisiologia del matrimonio (Parigi, Droz), mentre si allestiva ed appariva in quello stesso 1940 presso i Plon la mole imponente del Balzac romanziere. L’interesse con che fu accolta quest’opera di lunga lena fu così intenso che si desiderò presto di averne anche una edizione più maneggevole, alleggerita dell’ampio materiale erudito; infatti nel 1943 riapparve dagli stessi editori, condensata in un volume di minor formato, ma pur sempre folto di 391 pagine.

  Il merito del Bardèche risiede nella guardatura singolare e nuova onde egli abbraccia il noviziato del Balzac, e nella natura della differenza che egli intuisce e lascia (quasi, forse, un po’ troppo!) scoprire dal lettore fra l’annunzio e l’avveramento del romanziere. Che differenza è? Conviene cercarla, sulla scorta e sull’esempio del Bardèche, con un po’ di agio ... Al pari del Breton, egli riconosce che i primi tentativi del Balzac non furono affatto disinteressati. I primi libri si scrivono per lo più per impaziente desiderio di esperimentare le proprie forze: per saziare in qualche modo e senza indugio, una fame smodata di carta e di torchi, di scritto e di stampato. L’età rubesta ed immatura è adolescenza proprio per questo, che non dà tempo a se stessa, irruente verso il piacere. Ora, nel Balzac, dato il suo verde aprile, tutto questo non può interamente mancare ma si accompagna coll’offa del compenso onde, per la più, i suoi coetanei sono digiuni persino nel desiderio! Tutte e tre certe indefinibili «olle podride» gli furono pagate ed in misura crescente. Il primo, L’ereditiera di Birago, 800 franchi; il secondo Gian Luigi ovvero la Trovatella, 1300 franchi; il terzo Clotilde di Lusignano ovvero il bell’ebreo, 2000 franchi. Per poterci ricordare che 2000 franchi erano centoventicinque anni fà, una grossa somma bisogna sapere che il Balzac aspirava a trovare un Mecenate datore di lavoro che lo affittasse a 125 franchi al mese, cioè 1500 all’anno, che il Vautrin quando il Balzac era al proprio apogeo, fu comperato dall’«Epoca» per 3.500 franchi; che, infine, il marito di Armanda Luisa Maria di Chaulieu, nel suo appannaggio di «principe consorte» «non spende duemila franchi all’anno» (Le memorie di due giovani spose, II parte, lettera LIV).

  Ora, accettato, passato in tipografia, stampato, venduto, pagato, il Balzac conserva una irriverenza sostanziale verso il suo mestiere, una vena ridarella, un non so che di sbarazzino e di sbertucciante, un’aria infida cui, insomma, prima del Bardèche, non si era fatto caso abbastanza. Egli pare andare ammiccando col lettore, intendersela furbescamente con lui: «Ce n’est pas si malin que ça»: non è poi una grande alzata di testa. Che cosa ci vuole ad essere scemi della scemenza di moda? Avanti! Dato che prenderla si deve, prendiamo anche noi la epizoozia di stagione; «epizoozia» è un termine suo per indicare caritatevolmente le malattie dei confratelli (cfr. Bardèche 87), le afte degli scribacchini.

  Così il Balzac, solleticato dall’estro della farsa, prodiga a macca le sottolineature più maliziate sulla natura scivolosa delle situazioni che egli stesso ha inventate e sfruttate. — Vedrete come la va a finire: in un macello da tenersi la pancia, in un arruffio di agnizioni da non raccapezzarsi un bel niente! Insomma il Balzac va avanti a scrivere come se tutto quel diavolio non lo riguardasse; scodella le sue «ereditiere» e le sue «trovatelle» con un continuo «risum teneatis» a fior di labbra.

  L’ora della grazia, l’ora della conversione arriva.

  Mi spiego la tendenza di molti a limitare l’uso della parola «conversione» all’ordine dei sentimenti religiosi e morali; ma la parola ha, persino in tattica, valore di cambiamento di rotta. E, una volta largito a casi meno alti l’uso del vocabolo, si tratta di capire bene queste conversioni di ordine più modesto; ognuno ha la sua conversione, direi, conforme: è capace di una data conversione e non più. La conversione di Giovanni Verga fu l’addio a Torino, Milano, Firenze, Roma, alla mondanità, alla caccia alla volpe ed ai frack rossi, così tenaci nella letteratura meridionale, per ritornarsene definitivamente fra i conterranei di Aci Trezza nel contado di Catania: fu una conversione di intransigenza isolana. La conversione del Balzac, noi potremmo penetrarla e definirla con perspicuità mirabile con due termini di estetica italiana, di critica desanctisiana, se il risultato di alcuni decenni di estetica intensiva non fosse stato quello di impoverirci di una distinzione che le lingue straniere, una volta tanto, ci avrebbero invidiato: i termini di «immaginazione» e di «fantasia». Il Balzac diviene Balzac il giorno in cui si disamora delle combinazioni arbitrarie della immaginazione per trasformarsi in un Balzac zelantissimo di osservazione diligente, in un Balzac che ne proietta i risultati in situazioni e caratteri umani con esercizio di vera fantasia, cioè di memoria «rimbalzata e percossa». (Tutto ciò, semplicissimo per noi, è inibito dove, per la mancanza di speciale vocabolo, tanto L’ereditiera di Birago, come ad es. La cugina Betta, sono compresi nella comune denominazione di «Letteratura di immaginazione»! ...). Il primo brivido di questo intuito nuovo fu affettuoso e delizioso. Piace credergli che lo abbia provato in istrada seguendo, guardando, ascoltando una sera una coppia operaia di ritorno da uno spettacolo popolare: «Ascoltando quella gente, racconta in Facino Cane, io potevo sposarne la vita, mi sentivo i loro cenci sulle spalle, camminavo coi piedi nelle loro scarpe rotte: i loro desideri, i loro bisogni, tutto passava nella mia anima e la mia anima passava nella loro; il mio era il sogno di un uomo sveglio».

  Un sogno, ma imperioso. Manipolando le trovate e le ricette francesi o straniere, barbose o modernissime, la sua libertà di spirito, durante il lungo tirocinio, era rimasta intera; procedeva ma si vendicava della schiavitù del telonio con scarti di cavallo di razza o con sberleffi di «enfant terrible». Adesso, invece, ordine e silenzio nei ranghi; adesso, davanti ai mille particolari controllati ed esatti che la «fantasia» svegliava e richiamava alla vita nel segreto della sua memoria provvedutissima, il monello diventa uno scolaro modello.

  Press’a poco come Ludovico Ariosto quando si trova a che fare coi modelli classici. È, infatti, una delle più costruttive conclusioni della monumentale ricerca di Pio Rajna Le fonti del Furioso (anche se, al solito, non se ne è tratto gran rendimento) quella che il Ferrarese disinvolto, scanzonato, volubile, quando atteggia a suo piacimento le tradizioni cavalleresche, diventa timido, ossequioso, pignolo, appena si scontri con una reminiscenza classica. Quelle eran fole; questa è la grande poesia. E non vuole sciuparla, non vuole lasciarne perdere neppure una briccica entro le volute armoniose dell’ottava. Non lo si dovesse, mai, accusare, per caso di ignoranza! ... Così il Balzac. Fra crociati, castelli in rovina, sotterranei da streghe, avanti alla diavola! Ma qui! Qui è un pedante. «Balzac è un pedante» — riconosce il suo fido Leone Gozlan —. Ha il pedantismo dell’osservazione — ne conclude Le Breton —; «rimpiangeva di non aver potuto, nel Giglio nella valle, nominare una ad una tutte le erbe che si trovano nel prato artificiale di un parterre».

  Voleva, pertanto, essere letto dalla a alla zeta. Che cosa si pretende di capire da un suo libro solo? Avete letto Eugenia Grandet? Bene: raccoglietevi ed aspettate! Il 30 gennaio del 1834, l’inverno successivo, cioè al natale del capolavoro, scriveva a Zulma Carraud: «Voi siete stata ben intenerita dalla mia povera Eugenia Grandet che dipinge così bene la vita di provincia; ma un’opera che deve contenere tutte le figure e tutte le condizioni sociali, non potrà, credo, essere compresa che quando sarà terminata».

  La quale opera una volta compiuta, tutto il resto, storici e cronisti, archivi e musei, saranno semplicemente illustrazioni particolari e supplementari: in fondo in fondo, a dirla franca, leggermente superflui. Comunque, dopo l’essenziale!: «Con infinita pazienza e coraggio concreterò sulla Francia del decimonono secolo, quel libro di cui lamentiamo tutti che Roma, Atene, Tiro, Menfi, la Persia, l’India non ci abbiano lasciato sventuratamente l’equivalente sulla propria civiltà ... Fra duemila anni, quando si vorrà conoscere la società francese sotto l’Impero, durante la Restaurazione, o sotto questo infame governo di luglio, gli archeologi non avranno che da consultare le mie opere».

 

* * *

 

  È indubbio che il Balzac pone se stesso come documento. Ma proprio solo come documento, secondo la esplicita professione dei brani allegati?

  Ha, certo, anche inteso di lasciare un monito. Egli ha spesso voluto impartire ai lettori dei propri romanzi le prescrizioni categoriche e prestigiose di un taumaturgo. Ha voluto essere un medico autoritario e pontificante. Un Mesmer, per risalire al settecento; uno scientista della scienza cristiana, per spiegarlo con le più tarde sette nord americane. Ha voluto essere figlio di Esculapio e di Sofia, allattato da tutte le saviezze, compendio insieme di ragion pura e di ragion pratica. Tra il 1819 ed il 1820, cioè nella rigogliosa mattina dei suoi venti, ventun anni, si era stabilito una successione di materie, una precedenza vincolatrice, un impegno davvero molto gravoso: voleva essere metafisico prima di essere romanziere. Per fortuna sua e nostra, secondo una bella definizione che gli venne scritta nel 1834 ma che fu istinto precedente, «espresse il dramma e la poesia del suo mondo prima di metterne a giorno le formule fisiologiche», di precisarle e di rivelarle ai profani. Tuttavia, anche lasciando, per fortuna il passo all’artefice creatore, rimase impastato di soggezione e di attesa mirifica per i professori di occultismo e di magnetismo. Collocherei siffatto atteggiamento fra le «orientazioni esotiche» illustrate da F. Baldensperger (Parigi, Champion, 1927). Queste orientazioni straniere si rivelarono in tre modi: umilmente ma coloristicamente nell’iniziare il bel mondo francese al senso dei mobili e dei sopramobili di arte, del legno scolpito e delle ceramiche (il Billy gli riconosce quasi il merito (II, 131) di averne creata una scienza conferendole le sue vere patenti di nobiltà); genialmente, direi fraternamente, col palpito per il genio di Rossini, e per la grande musica italiana; pericolosamente, col mettersi sulle orme dei nuovi incantatori e col conclamarne le teorie.

  Tutti i nessi fra romanticismo ed occultismo sono stati studiati; ed A. Viatte in modo particolare ha presentato il gruppo degli «Swedemborgiani in Francia dal 1820 al 1830» nella parigina Rivista di letteratura comparata del 1931. Il Balzac avrebbe voluto che la Francia consacrasse alle scienze occulte molta parte del suo insegnamento superiore: le avrebbe volute insegnate tutte nientemeno che al Collegio di Francia. Per parte sua, egli le assumeva a base precipua di questo o quel romanzo. Paolo Flat ne traeva motivo per esaltare la «modernità», l’«ardire» del romanziere: «qualsiasi altro, meno audace, meno sicuro della propria solida base scientifica, si sarebbe accontentato di farla intervenire appena come breve incidente, come una ipotesi certo assai seducente, ma assai remota dalla dimostrazione. Lui, Balzac. era così profondamente imbevuto della sua credenza nei fatti magnetici, che non esitò a farne la trama stessa di Orsola Mirouet». Chi sa?, forse proprio anche al Flat che, alcuni anni innanzi, nei Primi e nei Secondi Saggi sul Balzac (Parigi, Plon) aveva concentrato tanto sforzo di attenzione sugli scopi, sulle dottrine, sul contenuto teorico e speculativo del nostro, era indirizzata la ironia di quel brano pungente del Le Breton: «Bisogna ammirare gli uomini gravi che consacrano interi articoli di rivista alle “idee politiche” del Balzac, come se queste nella loro incoerenza e nella loro incertezza meritassero di essere discusse. Indubbiamente, invece, se qualcuno un giorno si sobbarcherà alla fatica di darci una buona e compiuta biografia del Balzac, la storia delle sue ambizioni politiche non ne costituirà il capitolo meno saporoso». Non solo saporoso, aggiungo per conto mio, ma quasi «drôlatique» per chiamare con nome balzacchiano una avventura balzacchiana. Egli fu, sempre, di quei candidati che nell’urna vaniscono «come per acqua cupa cosa grave», vanno a fondo così totalmente ed iperbolicamente che, poi, bisogna far quasi un atto di fede per credere che siano scesi davvero in lizza, che li abbia sostenuti qualcuno in un’ombra di lotta elettorale.

  Per quel che è di un «corpus totius philosophiae utriusvis juris» assommato nelle narrazioni balzacchiane, il Flat avrebbe potuto essere avviato a qualche rinuncia, ispirarsi a moderazione e modestia da un riflesso del Renan da lui stesso, del resto, finemente ricordato: «In uno dei suoi primi libri il Renan osservava che esistevano pochi filosofi propriamente detti; gli spiriti dalle tendenze filosofiche, si facevano istoriografi, naturalisti, eruditi e, insomma, cercavano sempre una pratica applicazione del loro bisogno di generalizzazione». Nel che anche serpeggiava, più o meno consaputo, un dubbio sulla effettiva vocazione filosofica del periodo di incubazione positivista.

  La nuova generazione è molto più ponderata, cauta, riflessiva. Non cede all’umore un po’ negativo del Le Breton senza per questo abbandonarsi alle troppo generose tendenze interpretative del Flat. Testimoniano siffatto atteggiamento la monografìa del sacerdote Ph. Bertault: Balzac e la religione (Parigi, Boivin, 1942) e la approfondita elaboratissima tesi di Bernardo Guyon, Il pensiero politico e sociale del Balzac (Parigi, Armando Colin, 1947, pagg. XVII-829). Siamo, con questi due, davanti a quelle dissertazioni di laurea che in Francia non chiudono un breve quadriennio universitario, ma coronano la protratta giovinezza ed aprono il magistero accademico.

  Nel suo procedere austero e sottile il Guyon sente la necessità di una rigorosa intesa semantica: cioè, di intendersi bene sulla parola «pensiero». Pensiero nel senso di astrazione, di concetto depurato e sgombro? Ohibò! «Bisogna dare alla parola pensiero un senso molto lato, molto arrendevole, che comprenda (ospitalmente) gli impulsi istintivi e le passioni mal contenute». Non fa che uniformarsi alle richieste dello stesso Balzac formulate in un brano felicemente ritrovato nei Martiri ignorati. Questo: «Sapete che cosa io intendo per pensiero? Le passioni, i vizi, le occupazioni estreme, i dolori, i piaceri, sono torrenti di pensiero». È, insomma, il contrario di Spinoza: è il «fiere», è l’«irasci» preso per equivalenti dell’«intelligere».

  Per numerose disquisizioni i romanzi del Balzac fanno pensare, quasi, a quei «quaderni delle lamentele» che i rappresentanti delle antiche comunità rurali avevano gran cura di alimentare e di tenere in ordine sotto i regimi della vecchia Europa. C’è il ritornello che le aristocrazie possono tramontare, ma solo per dar luogo ad ineguaglianze nuove: «l’ineguaglianza è assolutamente naturale e, cercando distruggerla, si determina soltanto un periodo di anarchia nella quale si creano nuove disuguaglianze» (Guyon, 700). Si mescola ad un ricorrente rimpianto, come nota il Bardèche, ad un rimpianto di eterogenei «paternalismi», una sofferenza pressoché baudelairiana per l’atmosfera che circonda le nature superiori: «In democrazia esse sono esposte del pari ad essere odiate e disprezzate, all’odio della loro aristocrazia ed al disprezzo della loro inutilità», anzi, testualmente, nostra aristocrazia, nostra inutilità. Ma chi componesse siffatti quaderni vi troverebbe accanto alla nostalgia aristocratica, vere e proprie geremiadi borghesi e, magari, addirittura piccolo borghesi. C’è tutto uno squarcio eloquente sulla crisi dei domestici: «Qual’è la padrona di casa che, dopo il 1838, non ha deplorato i funesti risultati delle dottrine antisociali diffuse nelle classi inferiori dagli scrittori incendiari? La statistica è muta sul numero spaventoso di operai ventenni che sposano delle cuoche di quaranta e cinquant’anni arricchite dal furto. Si freme quando si pensa alle conseguenze di simili unioni, dal triplice punto di vista della criminalità, dell’imbastardimento della razza e dei tristi focolari. Quanto al danno puramente finanziario, causato da questi furti domestici, esso è enorme dal punto di vista politico. La vita rincara così del doppio, vietando il superfluo in molte famiglie. Il superfluo! È la metà del commercio degli stati, così come è l’eleganza della vita. I libri, i fiori sono per molti altrettanto necessari che il pane».

  E Seillière nel suo Balzac e la morale romantica (Parigi, Alcan, 1923) rimaneva scorato davanti al «vero enigma» del Balzac che potrebbe essere invocato per la conservazione più rigida come per lo sconquasso sociale, per le tesi del Bourget e per le dottrine del Marx. E, difatti, nella collezione «I grandi testi del materialismo storico» (1936) il Guyon ha trovato (1888) almeno una velleità dello Engels di riscontrare nel Balzac qualche tendenziale simpatia proletaria. Ma altre correnti, pur confondendosi, predominano. C’è un esasperato individualismo che gli fa concepire l’individuo e la società in istato di lotta perpetua; c’è l’affiorare della tradizione rousseauiana di requisitoria contro la società: «questa malattia umana, questa malattia morale che si chiama incivilimento»; «la depravazione che è insita nel pensiero»; c’è l’impossibilità di una rassegnazione leopardiana alla natura «spettatrice almeno», il bisogno che ella sia «almeno pietosa»: «la società è indifferente alla creatura che perisce, felice di quella che trionfa». C’è, anche, un «amante disgustato della sua bella e risoluto a tenerle il broncio», c’è un francese svezzato dalla sua Francia; «incomincio, scrive nel 1840, ad avere il mio caro paese in profonda esecrazione», c’è l’irrequietudine di una certa mania di persecuzione, ossesso dalla lunga e dotta scienza di coloro che macchinano la ruina dell’innocente (Le Breton, 221). A che erigere minacciosi in vista i patiboli? a che scritturare il boja? «per i milionari esso non lavorerà mai»! I delitti più gravi sono quelli «irreprensibili», che sono perpetrati e protetti dalle tenebre del codice! Dove precipita tutto questo egoismo sociale? Ad una «zoologia sociale». Peggio che alla stalla.

  Nella decomposizione, nello sfacimento generale, nota il Bardèche, «niente sfugge alla cloaca».

  Nel temperamento di un allegro compagnone godereccio si condensano, insomma, accessi di paturnie; l’olfatto suo è ferito, come ricorda il Bardèche dopo il 1830, e lo confessa nel 1831, «dall’alito cadaverico di una società che si spegne», sicché il viso gli si allunga, diresti, in una mutria di necroforo. Nel Colonnello Chabert rileva che «il prete, il medico, il magistrato sono sempre nerovestiti, portano sempre il lutto del non potere stimare gli uomini». Ma, quanto a lui, non è il sacerdote, non è il magistrato. Da tutte queste analisi, fruttuosamente condotte con tanta metodica diligenza, dalle sue reazioni spirituali alle caratteristiche della società contemporanea, risulta soprattutto che il Balzac non ne è per nulla il medico: né medico praticante né patologo di laboratorio.

  Dei malori civili e sociali Onorato Balzac fu, invece (ed è la gloria degli artisti) il paziente: un illustre e, forse, nella Francia a lui contemporanea, il paziente più grande.

 

* * *

 

  Altri balzacchiani ci sono, e quanti! e quali!, meno tecnici meno teorici meno specialisti; non balzacchiani di un aspetto o di un settore, ma che mirano all’assieme, al panorama, anzi, per dirla con un vocabolo apertamente ottocentesco, al cosmorama. È il poeta tedesco Rainer Maria Rilke che, per festeggiare l’arrivo di una collezione completa del Balzac, imbandiera la sua dimora del Muzot; è lo Gide che stabilisce l’imperativo minimo: «Occorre aver letto Balzac, tutto Balzac»; è Giacomo Rivière che lo definisce un demiurgo, esclamando sopraffatto: «Ecco uno che ha creato un mondo».

  Ma «tutto Balzac» per molte borse non è accessibile; è suppellettile di studiosi assisi in confortevole situazione, magari con l’età, magari con la fama; ma «tutto Balzac» non può accasarsi facilmente nelle librerie, se non millimetriche, almeno centimetriche dei moderni «clerici vagantes»; si desiderano pertanto sempre migliori, più ricche, meglio concepite antologie dove si possa trovare, lì per lì, il brano che vi si presenta alla memoria ansiosa. Marcello Pobè, che ebbi per qualche tempo giovane e valoroso collega di letterature comparate nella Università di Friburgo, nella collezione «Voci di Francia» (Friburgo, Egloff, 1945) ci ha dato una ottima scelta di testi ordinati e significativi. Oppure si cerca di riunire quanto meglio illustra una figura fra tutte, un personaggio che si vorrebbe avere dinnanzi massiccio e compatto, come ha fatto, per le edizioni della «Giovane Parca» Gianluigi Bovy per Vautrin.

  Dai cultori siamo alla temperatura del culto, esuberanza di gioia e di fervore; un cotal poco pretenzioso, con un pizzico di ermetismo, di atteggiamenti da iniziati, ci si presenta Alain (Emilio Chartier), ma il suo titolo non ne fa mistero: anzi dice ottimamente la delizia di prolungare, magari esibendola, la intrinsechezza, di far valere i diritti della frequentazione abituale, di poter assumere il tono del «frequentatore sicuro, di casa». (Con Balzac, Parigi, NRF., Gallimard, 1937).

  Ma, forse, ancor più gagliardamente espressivo è il titolo del volumetto (il suo esordio letterario?) del giovane figlio di un romanziere illustre, di Claudio Mauriac, figlio di Francesco, che con una ragguardevole introduzione paterna, proclama senza ambagi il suo proposito, il convincimento dominante: Amare Balzac (Parigi, «La tavola rotonda», 1947). Amare Balzac!, un motto di adunata? Un rimprovero agli anziani di non averlo amato abbastanza? Una risposta, a più che quarant’anni dopo, al Le Breton, la cui conclusione gli dovette sembrare eretica: «È, insomma quasi altrettanto difficile amare il Balzac che il non ammirarlo»?

  A questi amori, che sono ragionevoli, non chiederemo di essere troppo ragionati; scapiterebbero in forza diffusiva. Possiamo tuttavia additarne le ragioni più profonde, le meglio operanti. A coloro che rimpiangono di non trovare nel Balzac l’eleganza del Lamartine, la fine disinvoltura del Musset, l’altezza di pensiero e la ritrosia d’animo del Vigny, i critici appassionati e moderni come il Mauriac e l’Alain farebbero spallucce. Non cercano che la realtà, e, davanti alla fiaba del Balzac, sono assolutamente persuasi che essa è vera al cento per cento. Ma dove vorreste trovarla più vera di così? Dove avere un più carnoso e concreto piacere di contatto coi personaggi? Altro che storia vera; nulla è più vero di così. Tutta gente che ha un domicilio: ne sapete il circondario, la strada, il numero di casa, il piano; tutta gente perfettamente notificata alla polizia del quartiere ed all’agente delle tasse, soprattutto. Volete vedere la bolletta dell’esattore? Tanto varrebbe impugnare di falso in atto pubblico i registri dello stato civile! La critica francese ama che il mestiere del letterato si svolga «in concorrenza con lo stato civile»; stato civile di morti o di viventi.

  In un libro recente che ha fatto gridare «Viva Sainte Beuve!» così come Claudio Mauriac grida «Amare Balzac!», Massimo Leroy osserva che «gli eroi del Sainte-Beuve, invece di chiamarsi Rubemprè o Giuliano Sorel, si chiamano La Rochefoucauld, Proudhon, Chateaubriand: tolta questa differenzuola onomastica l’arte del Sainte-Beuve e del Balzac è la stessa arte di romanziere». L’Alain si entusiasma perché i personaggi del Balzac non sono abbandonati in istrada, perché hanno un tetto, un recapito. «Le sue creazioni costruiscono una volta sopra la sua testa». Al pari di Giulio Cesare che dettava parecchie lettere contemporaneamente, il Balzac mandava innanzi di pari passo romanzi diversi. Come mai? Solo per necessità finanziarie? Anche, risponde l’Alain, per «l’obbligo di equilibrare il proprio mondo».

  La grande forza del Balzac è che egli non si sarebbe mai lasciato irretire, come si lasciò irretire, invece, il Manzoni, dalla distinzione fra avvenuto ed inventato. Egli avverò con nuovo senso il precetto oraziano: «Si vis me flere» con quel che segue; piangere o ridere non fu l’affar suo; fu suo il credere. Egli credette con una fede esemplare alla propria narrazione ed impegnò gli altri a far altrettanto. Il suo influsso è un meraviglioso contagio di credenze tetragone. Le prove affluiscono da tutte le parti. Ascoltava per poco ed a grande fatica coloro che gli parlavano delle proprie vicende intime più care, di mamme, di sorelle, di donne amate; ma poi li interrompeva brusco da uomo che non può potrarre (sic), oltre un certo limite, queste fanciullaggini. Diceva un «bene! bene!» come lo dicono gli impazienti e che suona «male! male! veniamo al sodo. Che cosa faremo del barone Nucingen? Che cosa della duchessa di Langeais?». Billy ha raccontato l’accoglienza a Giulio Sandeau che tornava dalla morte e dal funerale della propria sorella: «Basta con queste chiacchiere!». Claudio Mauriac ci si entusiasma e precisa più del Billy (I, 230) che il Balzac gli intimò a bruciapelo: «Chi sposerà Eugenia Grandet?».

  Dove la commozione invade tutti è nel racconto dell’agonia; ce lo hanno fatto in modo diverso Mirbeau ed Arsenio Houssaye. Fu davvero l’estrema supplica di un consulto? Fu un singhiozzo già tra i rantoli della voce che presto si sarebbe spenta? Fu ricordo lucido di estrema chiaroveggenza? Se ne era dimenticato, nel male, ma adesso aveva riafferrato quel nome: «Adesso io so ... Quello che mi occorrerebbe sarebbe Bianchon! Lui, Bianchon, mi salverebbe!», il medico di Papà Goriot. Udremo sempre, come il Bardèche, questa invocazione straziante del morente, di un padre di duemila figlioli di parole e d’arte. Attendeva dal Bianchon solo il miracolo che gli altri poveri medici, medici in carne ed ossa, medici non generati dal sangue del suo cervello, non avrebbero saputo compiere mai.

  Ma la ragione sintetica, la ragione delle ragioni di siffatto divampare d’amore per il Balzac, la ragione per la quale nessun romanziere italiano potrà essere mai oggetto di un così risorgente amore, è la inconsaputa delizia che lettori francesi, magari di un secolo più tardi, provano ad incontrarsi con luoghi, con personaggi, con avvenimenti francesi. La società della quale il Balzac denunzia lo stato preagonico è pur sempre una società francese ed i giovani francesi preferiscono restare con una società ammalata, spedita ma consanguinea, all’avventurarsi con una società che crepi di salute ma straniera. Siamo nel 1948 e i critici moderni francesi potrebbero ripetere la professione di fede dei letterati del 1832:

  Je suis homme et français jusqu’au fond des entrailles.

  Si ama nel Balzac l’opera letteraria che ha subito attraversato da conquistatrice la Manica; che ha preso, cioè, la via della posterità, già nel suo primo rigoglio; si ama l’immagine che il Balzac sa dare di una società francese, in mezzo alle sue magagne, omogenea, compiaciuta di se stessa, convinta di essere «come si deve» per antonomasia: «la Francia, ha scritto il Balzac, sente come nessuna altra nazione il pensiero di unità che deve esistere nella vita aristocratica». I suoi neologismi sono sincroni, vanno al tempo, procedono unitari e se il danaro è la passione dominante conseguono una ammirevole unità spirituale e lessicale del mondo borghese.

  Il rinnovellarsi della fama del Balzac è un fenomeno che va oltre il Balzac ed oltre la letteratura: dimostra ancora una volta che il preminente interesse di una nazione per se stessa, la persistenza della sua adesione spirituale alla propria immagine, così come favorisce lo sboccio del genio, ne assicura e ne prolunga l’irradiazione gloriosa.

 

 

  Gaetano Baldacci, Aria di littorali a Firenze, «Corriere della Sera», Milano, Anno 73, N. 79, 4 aprile 1948, p. 3.

 

  Di che cosa si preoccupano questi signori intellettuali? Delle condizioni di disagio economico in cui versano essi stessi e i loro confratelli di tutta Italia: il fatto che un artista è mal retribuito, un articolista mal pagato: il fatto, infine, che il pubblico si ostina a non leggere libri in generale, i loro libri in particolare. Questa dell’esiguità del salario è una vecchia storia: Baudelaire ne parla con grazia nella sua (sic) Art romantique; e, del resto, non mi consta che il problema fosse diverso per Balzac, il quale era pure Balzac.

 

 

  L.[uigi] B.[elloni], Le magnetizzazioni compiute da Balzac a Milano, in AA.VV., Il mesmerismo, «Rivista Ciba», Basilea, anno II°, n. 15, dicembre 1948, p. 504.

 

  Nel 1840, Giovanni Rajberti (1805-1861), il noto autore de «Il gatto» (1845) che alla facilità della prosa e del verso sapeva unire una squisita vena umoristica, pubblicava «Il volgo e la medicina: discorso popolare del medico-poeta», discorso «provocato dai delirii volgari sull’arte di guarire» e che consisteva essenzialmente in un’apologia del salasso e in un attacco a fondo della dottrina omeopatica di Samuel Friedrich Hahnemann (1755-1843). Esso veniva seguito, l’anno successivo, dall’«Appendice all’opuscolo: Il volgo e la medicina», in cui l’autore ribadiva le sue violente critiche all’omeopatia e accennava incidentalmente al magnetismo animale, definendolo come «uno dei tanti delirii sistematizzati che segnalarono i traviamenti dell’umana ragione» e come «un’altra trappola per pigliare i gonzi, vecchia e già disusata, alla quale l’infaticabile ciarlataneria sta ora scuotendo la polvere della dimenticanza», dato che «Milano ha pure la fortuna di possedere qualche magnetizzatore e molti magnetizzati». Tra i primi, uno veramente eccezionale ebbe Milano nella persona del celebre romanziere francese Honoré de Balzac (1799-1850).

  Il fatto ci è raccontato dallo stesso Rajberti, che ne fu testimone oculare, nel gustoso articoletto «L’uomo grande ed il nano» che occupa le ultime tre pagine dell’«Appendice». Nell’estate del 1838, il Balzac, che era ospite d’una famiglia milanese, dopo aver vantato, durante una conversazione, il proprio talento di magnetizzatore, volle dame prova sopra un cameriere: «faceva occhiacci e modacci da spiritato: disegnava, misurava, trinciava gesti colle mani: sudava e trafelava per l’intensione dell’anima e del corpo in quel lavoro»; ma invano. Si propose allora di ritentare la prova sopra un soggetto più adatto, possibilmente fiacco e rachitico, e il Rajberti gli procurò un certo Gattino, nano e gobbo; ma anche questi rimase per ben due sedute insensibile alle manovre del Balzac. Al terzo tentativo, «dopo una mezz’ora di lavoro, Gattino cominciò a presentare una fisonomia più goffa del solito, a descrivere un piccolo cerchio colla bocca, ed a lasciar cadere le palpebre adagio adagio. Era un silenzio sepolcrale. In quell’istante io leggeva un libro. Balzac fece dei segni per chiamarmi, e poi impazientito batte un piede in terra. Accorsi, ma il nano era ritornato più desto che mai. Mi furono narrati i fenomeni avvenuti: lo interrogai – Hai tu dormito? – Rispose che veramente no, ma stava per addormentarsi, per essere così bene adagiato e senza pensieri. Queste poche parole lo rimisero in attenzione e dopo non ci fu più mezzo di fargli chiudere gli occhi. Passata un’ora, partimmo senz’altri inviti: e non udii più Balzac parlare di magnetismo».

 

 

  Ma.[rio] B.[onfantini], Onorina, in AA.VV., Dizionario letterario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Milano, Valentino Bompiani editore, 1948, Volume Quinto. Opere: N-P, pp. 214-215;

 

  Orsola Mirouët [Ursule Mirouët], p. 320.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1841. Il dottor Mirouët, vecchio volteriano, medico illustre, viene a passare gli ultimi anni di vita a Nemours, suo paese di origine, conducendo con sé la piccola Orsola, una sua lontana parente rimasta orfana. Si sa in paese che il dottore à guadagnato molto con la professione e i parenti borghesi, avidi ed egoisti, lo circuiscono per assicurarsene la successione. Tutti temono l’influenza della piccola orfana, legata com’è al cuore del vecchio. Intanto, mentre Orsola cresce, un avvenimento inaspettato rivoluziona profondamente il pensiero del vecchio materialista; alcuni esperimenti di magnetismo, fatti in sua presenza, sono per lui d’importanza decisiva; la teoria dei «fluidi imponderabili» manda in rovina tutte le sue credenze filosofiche basate sulle affermazioni della scuola di Locke e di Condillac. E il vecchio si riconcilia con la Chiesa, ciò che aumenta i sospetti e le ire dei parenti. Infine il vecchio dottore, in punto di morte, chiama a sé Orsola, che sa innamorata di un giovane nobile, imprigionato per debiti, ma generoso e capace di farla felice, e in gran segretezza le indica l’esistenza d’una lettera in cui egli à disposto l’eredità in modo da assicurarle l’avvenire. La fanciulla, addolorata, esita, e approfitta di questa indecisione uno dei parenti, il vecchio Mirouët-Levrault che spiava da una stanza vicina: la lettera-testamento viene così distrutta e scompaiono i titoli destinati alla fanciulla. Ma lo spirito dello zio le appare in sogno, e le rivela come à fatto il vecchio Levrault a sottrarre la lettera e i valori. Dalla quale indicazione scaturiscono prove sufficienti da permettere ai vecchi amici del dottore di tutelare per via legale gli interessi di Orsola, la quale potrà così sposare l’uomo amato. La linea del romanzo, in sé molto semplice, si arricchisce però di vari temi particolari tra i più cari all’arte narrativa del Balzac: c’è un’analisi dell’ambiente provinciale, tutto a intrighi e ostinate lotte di interessi, condotta con la proverbiale, bravura, non manca sulla fine il solito interesse per l’imbroglio di tipo poliziesco; e vi fa capolino, nel curioso episodio del sogno di Orsola come in tutta la storia della conversione del dottore, quella passione del Balzac per i misteri della nostra vita psichica di cui fanno testimonianza i non pochi racconti da lui poi riuniti nella sezione degli «Studi filosofici» (v. La Commedia Umana). Tutto ciò, in quest’opera che pure è tra le più notevoli e famose del grande romanziere, appare in realtà più giustapposto che fuso; senonché il motivo unificatore e il vero centro poetico del racconto stanno nel carattere amorosamente vagheggiato di Orsola, una delle più suggestive figure di donna dell’intera opera di Balzac.

 

  Pace domestica (La) [La paix du ménage], p. 350.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1830. In una festa da ballo in casa del conte di Gondreville, nel 1809, un brillante colonnello di cavalleria, Montcornet, e l’amico suo Marziale de La Roche, barone dell’Impero, sono incuriositi da una bellissima dama che, immersa in profonda melanconia, non sembra prender parte alla festa, e cercano di avvicinarla. Marziale d’altronde, che è stato per lungo tempo il fortunato amico di una giovane vedova di celebrata galanteria, uno degli astri della festa, la contessa di Vaudremont, sospetta il tradimento della sua dama, la quale sembra preferirgli un prestigioso ufficiale, il generale conte di Soulanges ed è a sua volta desiderata dal Montcornet. Tra i due amici nasce così una gara di galanteria nel corso della quale Marziale si affanna vanamente a corteggiare la bellissima sconosciuta mentre il Montcornet finisce per sostituirsi a lui presso la contessa di Vaudremont. Prima che la festa giunga al termine, si chiarisce il mistero della bella dama incognita, la quale non è se non la moglie del Soulanges che, desiderosa di riconquistare il marito insidiato dalla civetteria della contessa di Vaudremont, è venuta alla festa all’insaputa di tutti. Il tentativo riesce pienamente, e su questa consolante conclusione si chiude il racconto. Il quale appare condotto con una tecnica squisitamente teatrale, e rivela nell’ancor giovane romanziere una maestria incomparabile nel disegnare in breve spazio una quantità di personaggi che acquistano, nel suo stile acceso e colorito, uno straordinario rilievo. Si può dire che il Balzac, in questi serrati studi di costume, mostri con ben maggiore evidenza che nei più lunghi romanzi della stessa epoca (v. La donna di trent’anni) le qualità che dovevano spingerlo agli ambiziosi progetti della Commedia Umana.

 

  Piccole miserie della vita coniugale [Petites misères de la vie conjugale], p. 531.

 

  Opera narrativa di Honoré de Balzac, (1799-1850), poi accresciuta e ritoccata. La vita coniugale di un qualsiasi Adolfo a di una qualsiasi Carolina vi è disegnata in un tono che vuol essere freddamente «scientifico». I genitori li ànno uniti sulla base d’un contratto legalmente stipulato in cui Carolina, ricca, assicura ad Adolfo, povero, una fortuna, senza curarsi di promettergli il cuore. Le gioie della fase iniziale, quella dell’ebrezza dei sensi, sono di breve durata; poi la vita di società, i pettegolezzi dei salotti, l’invidia delle amiche si uniscono alle esperienze minute della vita quotidiana per «aprire gli occhi» ad Adolfo, che scopre nella sua Carolina un essere inintelligente e dall’animo intimamente grossolano, sotto le parvenze di una educazione raffinata. Sorgono le prime liti, a proposito dell’educazione di un figlio e si inaspriscono in una serie di ostinati malintesi. La moglie assume sempre figura di vittima, che finge di nulla pretendere, ma in realtà finisce per imporre in tutto la sua tirannica volontà. Affari del marito finiti male danno poi alla donna il pretesto per prendere le redini dell’amministrazione della famiglia; e allora ad Adolfo non rimane che cercare altrove una parentesi di serenità e forse d’amore; nei rapporti coniugali subentrano così per parte sua l’inganno e il tradimento, che saranno immediatamente e largamente ripagati dall’altra parte. L’opera, che fu in realtà il tentativo di una applicazione in tono serioso delle ciniche e burlesche teorie della Fisiologia del matrimonio, resta intimamente squilibrata, oscillante fra il racconto esemplare, filosofico, e il più felice quadro satirico di un certo ambiente sociale.

 

  Pierrette, p. 536.

 

  Titolo di uno dei più celebrati racconti di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1840. Nella piccola città di Provins i fratelli Rogron, figli di un ex-albergatore, rientrano quinquagenari dopo aver fatto denari nel commercio a Parigi. Spinti dall’ambizione, fratello e sorella cercano invano di mischiarsi alla aristocrazia locale; respinti, sono presi di mira da due intriganti, l’ex colonnello napoleonico barone Gouraud (siamo nel 1827) e il liberale avvocato Vinet. I due ex¬bottegai ànno raccolto in casa, per calcolo, Pierrette, una fanciulletta orfana, loro lontana parente, la cui madre è anzi stata spogliata dell’eredità del padre loro. L’ingenua e squisita grazia della giovanetta à commosso le signore della citta le sembra non lasciare indifferente neppure il colonnello Gouraud, che Silvia Rogron vorrebbe sposare; e tutto ciò non fa che peggiorare la situazione di Pierrette in casa Rogron. Cosicché tra perfidi intrighi, il malvolere di Silvia Rogron verso Pierrette si muta in un vero e proprio odio, ed essa sottopone la povera fanciulla a una calcolata serie di atroci maltrattamenti che ne minano la delicata salute. Invano Pierrette è difesa da un suo fedele compagno d’infanzia, Giacomo Brigaut: quando essa verrà sottratta all’orribile casa Rogron, le più amorose cure non potranno salvarla. La storia del martirio di Pierrette è dal Balzac abilissimamente intrecciata alla cronaca politico-mondana di Provins. Tra le molte figure di giovanette dall’innocente grazia e dal purissimo animo nelle quali il Balzac spesso si compiacque, Pierrette è forse la più piccante e certamente la più perfetta. La delicata precisione dello stile di Balzac, che appare qui meno gravato del solito di virtuosismi pittoreschi e di apocalittiche sentenze, concorre a fare del racconto uno dei suoi capolavori.

  Che il Balzac fosse poeta nel miglior senso della parola si sente nel vigore onde rappresenta caratteri, situazioni e ambienti, nella schiettezza dei motivi che prorompono dalla sua fantasia commossa. (B. Croce).

 

  Principe della bohème (Un) [Un prince de la Bohème], p. 797.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato per la prima volta nel 1840 e una seconda volta, con alcuni ritocchi, nel 1845. Il racconto si immagina scritto da un personaggio balzacchiano assai noto, Madame de la Baudraye (v. La Musa del Dipartimento), e da essa letto al romanziere Nathan. Consta di un fantasioso ritratto del giovane conte De la Palférine, un tipo di geniale e simpaticissimo scapestro, il più singolare rappresentante del mondo della «bohème» parigina. Il ritratto è poco più che una collezione di spiritosi aneddoti. Vi è però inserita una storia la quale assume, in brevi pagine, notevole sviluppo: la bellissima Claudina, ex ballerina dell’Opera, che à sposato un autore di teatro, Du Bruel, si innamora del La Palférine, e per obbedire ai bizzarri capricci di lui, che la pretende sempre più elegante, signorile e persin titolata, guida il marito con sorprendente fortuna sulla via degli onori. Steso in uno stile brioso e scintillante, il racconto è in sé poca cosa, e sembra aver rappresentato per il grande Balzac poco più che un divertimento. Esso presenta però un notevole interesse di curiosità, perché in varie pagine piene di malizioso spirito il Balzac si è divertito a fare, dichiaratamente, la parodia dello stile di Sainte-Beuve nei suoi celebri ritratti (Ritratti di donne e I Lunedì).

 

  Proscritti (I) [Les proscrits], p. 853.

 

  Racconto storico-fantastico di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1831. Nella casa del sergente Joseph Tirechair vivono come pensionanti, appartatissimi, due sconosciuti, uno vecchio e l’altro giovanissimo, che il sergente guarda con sospetto; ad aumentarlo si aggiunge ora la presenza d’una nuova estranea, la contessa Mahaut, che promette alla moglie del sergente cento scudi d’oro se riesce ad avere sicure indicazioni sul giovane sconosciuto. Ogni giorno il vecchio e il giovane raggiungono l’antica scuola delle «Quattro Nazioni» per ascoltare la parola dell’illustre Sigier, il più famoso dottore in teologia mistica dell’Università di Parigi. La voce di Sigier va rivelando a entrambi i misteri del mondo morale che il vecchio sa rivestire di poesia e il ragazzo di sentimento; due realtà umane, due diverse aspirazioni, poiché tanto l’uno che l’altro si sentono banditi, il vecchio dalla propria città terrena, e il giovane dalla città eterna, il Paradiso. E quando il giovane tenta il suicidio come l’unico mezzo concessogli per rispondere alla voce che lo chiama dall’al di là, la voce della madre che egli non à conosciuta, il vecchio gli parla dell’altra vita, del suo viaggio extraterreno, verso la perfezione e la luce, e ricorda infine la sua Teresa Donati che Dio, geloso, continua a tenergli lontana, dopo averli lasciati uniti sulla terra. Ma ecco che i proscritti ritrovano la loro patria: mentre dei soldati giungono per dare al vecchio (il quale non è nient’altri che Dante Alighieri) la notizia che può rientrare in Firenze dove i Bianchi ànno trionfato, nella stanza entra raggiante di gioia e di bellezza la contessa Mahaut che può finalmente stringere al seno il giovanetto, riconosciutole dalla legge come figlio. Discorsi di oratori mistici, aspirazioni morbose che il misticismo pericolosamente lievita, accostamenti di personalità e di idee quanto mai arbitrari nello spirito e nel tempo, appesantiscono non poco questo racconto, il quale d’altronde testimonia la ricchezza e varietà di motivi di quel breve ma intenso periodo di romanticismo giovanile che fu pure del Balzac, e valse a creare non poche premesse fantastiche a quello stesso realismo dell’arte sua più matura. 

 

  Volume Sesto. Opere: Q-SP.

 

  Requisizionario (Il) [Le requisitionnaire], p. 196.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1831. Una sera del mese di novembre del 1793, in un piccolo centro della bassa Normandia, la casa della contessa di Dey rimane inaspettatamente chiusa agli abituali visitatori, e la curiosità paesana si svaga in mille congetture. Da una segreta missiva recapitatale da un emissario, la contessa à saputo che suo figlio, in carcero per avere partecipato alla spedizione di Granville, avrebbe tentato l’evasione e sarebbe giunto in casa non più tardi del terzo giorno. L’attesa febbrile, la speranza di rivedere il figlio e il dubbio tormentoso che il tentativo fallisca, gettano la madre in uno stato di grave sovraeccitazione nervosa. La notte del terzo giorno picchia alla porta un giovane addetto alla requisizione che presenta un biglietto di alloggio rilasciato dal sindaco; infatti in quella notte era in marcia verso il paese un battaglione di requisizionari della Repubblica. La contessa è costernata, ma attende ancora. Poi nel suo animo il dubbio diviene certezza, e la visione orribile della fine del figlio l’uccide. Nell’ora precisa in cui moriva la contessa di Dey, suo figlio era fucilato. Il gusto di scandagliare certi segreti della psiche umana, e la confusa credenza nei fenomeni di telepatia e magnetismo, che si ritrovano in altre opere più note del Balzac, formano il nucleo centrale dell’opera. Soltanto che, mentre altrove (e nella stessa Ricerca dell’assoluto) il problema scientifico resta in certo modo estraneo all’interesse poetico, che si rivolge ad altri elementi del dramma, qui il tema centrale appare perfettamente fuso con la vicenda, e l'opera ne acquista un’efficacia singolare, tale da assegnarle un posto a parte, malgrado la sua brevità nella vasta produzione del Balzac.

 

  Ricerca dell’assoluto (La) [La recherche de l’Absolu], p. 215.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1834, che, insieme con La pelle di zigrino e Luigi Lambert, rappresenta il meglio dei suoi «Studi filosofici», cioè delle opere, costituenti una sezione della Commedia umana, nelle quali egli tentò di abbracciare i grandi problemi della vita, sospingendo la ragione umana fino alle soglie del mistero e della follia. Balthazar Claës, nobile fiammingo, affascinato dall’ipotesi dell’unità della materia, si dedica tutto agli studi chimici, che qui si potrebbero chiamare alchimistici. Nel suo fanatismo e nelle sue indagini, rovina se stesso e la famiglia; sua moglie muore di dolore, la figlia maggiore trova per lui un impiego e risolleva, con eroica tenacia, le sorti della casa; ma Balthazar rimane assorto fino all’ultimo nella sua idea implacabile e si racchiude fatalmente nel suo fallimento. Il pessimismo, che dovrà delinearsi sempre più nettamente nella matura opera di Balzac, si rivela in questi «studi filosofici», già alle basi del suo pensiero e del suo spirito. In fondo, i problemi di Balthazar Claës, di Louis Lambert e di Raphaël de Valentin (v. La pelle di zigrino), sono quelli dello stesso giovane Balzac, il quale riuscirà più tardi a vederne, nella vita, i vari aspetti concreti, ma non mai la conclusione consolatrice.

  Al veder i mucchi d’oro di cui Balzac dispone nei suoi romanzi, si sarebbe tentati di dire di lui come i veneziani di Marco Polo al suo ritorno dalla Citta: Messer Milione. (Sainte-Beuve).

 

  Séraphîta, p. 658.

 

  Opera narrativa di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicata nel 1835. È la più audace testimonianza di quella vena di misticismo onde il Balzac, pure sviluppando parallelamente in altre opere il suo possente realismo, tentò con insistenza il «romanzo filosofico». Il racconto si svolge durante un inverno, in un paesetto della Norvegia sperduto fra i ghiacci e le nevi. Sull’altissima e inaccessibile vetta del Falberg, che mai potere umano era valso violare, la dolce e fragile Minna, figlia del pastore del luogo, à per la prima volta la sensazione precisa che l’essere che à potuto condurla fin lassù e che le à parlato con una voce che gli uomini ignorano, è ormai il dominatore della sua anima e del suo cuore. Ma anche Wilfrid, il saggio straniero che un precoce inverno à trattenuto a Jardis, è preso dal fascino di questa strana persona. L’essere misterioso, onnisciente nella sua tenera giovinezza per Minna è Séraphîtus: un uomo arricchito di tutti i pregi della femminilità: per Wilfrid esso è invece Séraphîta: una deliziosa giovinetta, dotata d’una mente di virile acume. Questa ambiguità forma il rapimento e il tormento dei due innamorati. Ma tanto a Minna che a Wilfrid Séraphîta parla il linguaggio dell’amore che trascende la carne, e che à Dio come il suo vertice massimo. Séraphîta in realtà è spirito sotto forma umana: e chi l’accosta è preso nel cerchio d’una suggestione che innalza e purifica. E allorché con l’annuncio dell’estate nordica Séraphîta sente che è giunta per lei l’ora di ricongiungersi al mondo dello Spirito, indica ai due amici la strada della perfezione che essi, uniti, dovranno percorrere. Lo strano racconto, chiaramente ispirato dalla filosofia religiosa dello Swedenborg, la quale vi traspare in amplissime digressioni poetiche, soffre di uno squilibrio intimo: giacché il Balzac non à saputo scegliere tra il poema lirico-filosofico, alla Shelley, e il dramma umano che poteva scaturire dalla situazione romanzesca così impostata: il che non toglie che si ritrovino in quest’opera pagine di indubbia potenza artistica e di mirabile suggestione.

 

  Signora Firmiani (La) [Madame Firmiani], p. 728.

 

  Breve racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), scritto nel 1831, pubblicato nel 1832, e poi inserito nel ciclo della Commedia Umana, sezione prima, «Scene della vita privata». Tutta la prima parte è dedicata a un diffuso ritratto della protagonista, da cui emerge una squisita figura di donna che la stessa maldicenza adorna suo malgrado di qualità cattivanti. Resta tuttavia un mistero nella vita della bella Firmiani, la quale, di famiglia principesca (una Cadignan) ma di poca fortuna, à sposato un ricchissimo e anziano signore savoiardo, che non è più ricomparso da quando essa à riaperto il suo salotto, dopo la caduta di Napoleone. Nulla si sa del suo cuore: v’è chi afferma che il giovine Ottavio de Campa ne sia follemente innamorato, e si sia «rovinato per lei», ma a queste dicerie manca ogni prova. Se ne preoccupa però il vecchio signor De Bourbonne, gentiluomo di campagna, zio e unico parente di Ottavio; il buon vecchio viene a Parigi, osa affrontare la bella dama, e ottiene infine la confessione del nipote: il giovane ama in realtà la Firmiani, e à ragione di credersi ricambiato; è anche vero ch’egli si sia ridotto in miseria per causa di lei, perché, avendo confessato alla sua donna la losca origine della fortuna paterna, ne è stato indotto a compiere un doveroso atto di giustizia rinunciando a favore di chi aveva più diritto di lui a tale eredità. L’ottimo zio resta ammirato ma soprattutto stupefatto dalla rivelazione, e à d’altronde la consolazione di vedere che tutto si accomoda presto nel migliore dei modi: giacché la Firmiani, che era vedova da qualche anno, à ricevuto dall’Italia il testamento del marito, e può lietamente offrire la sua mano e la sua fortuna a Ottavio. Conclusione graziosamente romantica di un tenue intrigo sentimentale da «conte bleu», il quale però è stato poco più che un pretesto a un delizioso ritratto di donna, accarezzato dal Balzac con una minuziosa delicatezza e con una poetica leggerezza di tocco.

 

  Sollazzevoli istorie (Le) [Les Contes drôlatiques], pp. 833-834; 2 ill.

 

  Racconti licenziosi di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicati tra il 1832 e il 1837. Il Balzac in essi à voluto riprendere la maniera e il linguaggio dei vecchi «conteurs» francesi, dagli autori dei Fabliaux a Béroalde de Verville, il cui Mezzo di riuscire, pubblicato tra la fine del ’500 e il principio del ’600, sembra anzi essere stato il suo più chiaro modello. Ma il vero nume tutelare di questa raccolta è Rabelais, imitato nelle schiette malizie di uno stile apparentemente candido, coloratissimo e saporito, nella trionfante e spregiudicata sensualità, e persino nelle lunghe enumerazioni di vocaboli sinonimi delle quali egli tanto si compiacque. Il Balzac infatti si vanta «tourangeux» come il grande suo predecessore, e il suo libro porta come titolo completo: Les cent, contes drôlatiques, colligez és Abbaïes de. Tourayne, et mis en lumière par le sieur de Balzac, pour l’esbatement des Pantagruelistes et non aultres; senza dire che lo stesso Rabelais figura in uno dei racconti («Le prosne du joyeulx curé de Meudon»). I temi, d’amore, di facezie, di beffe sono quelli di tutti i novellieri tradizionali, che si soglion chiamare «boccaccevoli»: coppie adultere, mariti ingannati, peccati di monaci e prelati, ecc. I racconti appaiono distribuiti in tre decine («dixains»), preceduti ciascuno da un prologo scherzoso e burlesco. Il primo e l’ultimo racconto ànno per protagonista la bella Imperia, la celebre cortigiana, romana del Rinascimento, la quale è però anacronisticamente trasferita ai primi decenni del Quattrocento, e sono tra i più fantasiosi e pregevoli della raccolta. Altro racconto vivace e saporito è quello che riprende il vecchio tema degli amori del paggio e della castellana («Le péché veniel»): un altro («La mye de Roy») narra la storia della «belle Féronière». Altri ancora introducono graziosamente un elemento soprannaturale, come «L’héritier du Diable», o si abbandonano alla più sfacciata e allegra escatologia («Les bons propos des religieuses de Poissy»). L’autore cava allegramente da ogni racconto, «seguendo le massime dei grandi autori antichi», un precetto o «insegnamento», dove egli scherza spesso con la religione e la morale tradizionale, in quel tono di amabile scetticismo che sarà poi del France. In realtà, malgrado i riferimenti antichi e l’insistente arcaismo della lingua, quest’opera composita e tutta letteraria si colloca nel gusto ottocentesco: in quella corrente di arte narrativa libresca, maliziosa e graziosamente irriverente, piena di saporiti appelli alla tradizione «gauloise», che fu inaugurata dal gran maestro dei parnassiani, Théophile Gautier, e si concluse splendidamente con la Rosticceria della regina Pedoca dell’ex-parnassiano Anatole France. Se manca al Balzac la leggerezza di tocco indispensabile a simili opere, tuttavia la sua consueta potenza e la stessa maniera un po’ greve ed eccessivamente minuziosa finiscono con l’imprimere in questi racconti un segno del suo genio. Trad. di Giosuè Borsi e Ferd. Palazzi (Roma, 1920).

  I Contes drôlatiques non erano solo una ginnastica della lingua, ma anche una ginnastica del racconto che non à dato a Balzac tutti i risultati attesi. (Thibaudet).

 

  Splendori e miserie delle cortigiane [Splendeurs et misères des courtisanes], pp. 912-913.

 

  Vasta opera narrativa di Honoré de Balzac (1799- 1850), la quale consta in realtà di quattro romanzi pubblicati dal 1839 al 1847. L’opera si presenta come un seguito dei romanzo Le illusioni perdute (sic). Sulla fine di questo, Luciano di Rubempré veniva salvato dal suicidio da un curioso tipo di prete e diplomatico spagnolo, Carlos Herrera, il quale, con strani e terribili discorsi, promette al giovane ambizioso di fargli riacquistare la gloria e la potenza in quel bel mondo parigino dal quale egli è stato respinto dopo la sconfitta. Ma in realtà il falso prete non è altri che Giacomo Collin, un ex-forzato, celebre geniale bandito, noto anche sotto il leggendario nome di Vautrin, il quale intende servirsi della bellezza e del facile e brillante ingegno di Luciano per ordire i suoi intrighi nel mondo dell’alta società. Segretamente, sorretto e finanziato da lui, Luciano infatti ritorna in auge a Parigi. Senonché egli suscita intanto una grande passione nella bellissima cortigiana ebrea Ester, la quale, purificata dall’amore, vuole riabilitarsi ai suoi occhi e rendersi in tutto degna di lui. Vautrin, cioè don Carlos, vede il pericolo e cerca di dividere i due giovani, segregando Ester, sulla quale à pure dei disegni, in un misterioso appartamento donde essa esce soltanto di notte. Nel frattempo Luciano ama, riamato, la figlia della duchessa di Grandlieu che rappresenta la maggior pedina nel gioco di Carlos; ma il matrimonio sarà consentito dal padre solo quando Luciano potrà disporre di un milione. Il caso vuole che al barone Nucingen appaia nel bosco di Vincennes in una notte di agosto la giovane Ester; il vecchio ne è colpito e vuole a ogni costo rivederla e amarla. Vautrin-Carlos, già a corto di fondi, sfrutta loccasione per carpire più denari che può a questo genio della finanza, che la passione senile acceca e sconvolge fino al ridicolo. Fin qui la prima parte, che reca per titolo L’amore delle cortigiane [Comment aiment les filles]. La seconda parte sviluppa il raggiro di Carlos, e si intitola Quanto costa l’amore ai vecchi [À combien l’amour revient aux vieillards]. L’ex-galeotto circuisce Ester, per arrivare a persuaderla a divenire l’amante del barone, se vuole assicurare col suo sacrificio l’avvenire dell’uomo che ama. Intorno a questo episodio centrale s’infittiscono gli episodi della lotta, divenuta ora serrata, tra il servizio segreto della polizia dello Stato, che sospetta la vera personalità di Carlos Herrera, e questi: travestimenti, agguati, avvelenamenti, tutto l’armamentario del romanzo poliziesco è in moto. L’intrigo è ormai noto a Corentin, capo del servizio, ma l’astuto prete spagnolo gli sfugge ancora. Ester, a cui Nucingen à prodigalmente eretto un trono degno di lei, si ucciderà dopo la promessa notte d’amore. Su denuncia di Nucingen la polizia interviene e sorprende Carlos Herrera. Questi, che è a conoscenza della eredità di sette milioni toccata a Ester, riesce a scrivere, imitando alla perfezione la calligrafia della cortigiana, un testamento con cui questa lascia erede Luciano di Rubempré, ed è poi subito arrestato. Contemporaneamente viene arrestato Luciano sulla via di Fontainebleau dove si è recato per un ultimo convegno con Clotilde de Grandlieu, in viaggio per l’Italia, dove i suoi la mandano per allontanarla da lui. Scomparsa ormai l’infelice Ester, prosegue la storia di Luciano, nella terza parte, Le cattive strade [Où mènent les mauvais chemins]. Collin dalla sua cella riesce a predisporre un piano di difesa; interrogato, si mostra al giudice in tutta la sua vera grandezza, fatta d’astuzia e di generosità, ma non può evitare che Luciano venga interrogato e dica, allucinato dal miraggio della libertà e dalla ricchezza assicuratagli dal testamento di Ester, quanto è bastante per compromettere il suo amico e benefattore. Mentre Madame Sérizy, amica di Luciano, resa audace, si vale del suo ascendente presso il Procuratore Generale per strappare dalle mani del giudice i verbali dei compromettenti interrogatori e bruciarli, Luciano, affranto dal rimorso per il male fatto all’amico, scrive al procuratore una lettera di ritrattazione, e si impicca all’inferriata della cella. Eliminato dalla lotta anche il debole Luciano, la vicenda prosegue così, in modo da giustificare sempre meno il titolo generale dell’opera, nella quarta parte, intitolata L’ultima incarnazione di Vautrin [La dernière incarnation de Vautrin]: una avventura ormai puramente poliziesca, chiaramente ispirata dai recenti ricordi del famoso forzato Vidocq. Balzac infatti immagina che capo della polizia di quel tempo fosse un ex-galeotto noto sotto il nome di Bibi-Lupin, il quale nutre un odio mortale contro il suo antico rivale Vautrin, e cerca di disfarsene ora che l’à nelle sue mani. E una lotta serrata fra i due, finché Vautrin giunge a sapere che l’altro in realtà è implicato in parecchi loschi affari, e conduce un doppio gioco. Vautrin allora chiede di conferire col Procuratore Generale, e gli dichiara il vero esser suo: egli è pronto a restituire le compromettentissime lettere indirizzate a Luciano dalle signore del gran mondo che il Procuratore vuole salvare, chiede come contro-partita la sua libertà, e fa capire per giunta di avere preziose informazioni sull’infedeltà di Bibi-Lupin. È presente il commissario Corentin, il più vero e intelligente avversario di Vautrin: costui capisce che l’ex-forzato è ormai stanco della sua lotta contro la società e disposto a cambiar partito, e che egli sarà un uomo prezioso quando avrà preso il posto di Bibi-Lupin, che verrà destituito. Vautrin assume così la sua ultima incarnazione, diventando un solerte e incorruttibile capo di Polizia. Con questo colpo di scena si conclude quest’opera vastissima e singolare, nella quale Balzac à profuso senza freno il suo genio inventivo, il suo gusto dell’intrigo, la sua romantica visione di una società nel cui gioco forze misteriose e segrete entrano in una proporzione che i profani non sono nemmeno in grado di sospettare. Non mancano nei quattro libri pagine e capitoli degni del miglior Balzac: il motivo tanto caro ai romantici della cortigiana riabilitata dall’amore si invera nella figura di Ester, disegnata con tratti penetrantissimi e particolari squisiti; l’infelice passione senile di Nucingen trova accenti di commossa umanità. Ma su tutto si leva la figura di Vautrin, nel quale il mito del forzato generoso e fondamentalmente buono, quale verrà ripreso dallo stesso Hugo nei Miserabili, appare incarnato con quei suggestivi modi di realismo magico dei quali il Balzac fu insuperato maestro.

 

  Tutti i caratteri di Balzac ànno il dono dello stesso ardore di vita che animava anche lui: tutte le sue invenzioni ànno i colori profondi dei sogni, ogni spirito un’arma carica di volontà sino alla bocca: «e gli stessi sguatteri àn genio». (Wilde).

  La rappresentazione della virtù e della grazia non riesce a Balzac: il suo genio comincia dalla volgarità e dal vizio. (Lanson).

  Il materialismo di Balzac è un luogo comune di Sainte-Beuve ... la generazione del 1850 à fatto di Balzac il caposcuola della letteratura sensualista e «brutale», riprovato da Weiss, ammirato da Taine. I manuali di letteratura ànno tramandato questa parola d’ordine. È un punto di vista completamente superato. (Thibaudet).

 

 

  Francesco Carbonara, I Romantici realisti. Balzac, in Storia della letteratura francese (dalle origini al Simbolismo, 1885), Venezia, Ferdinando Ongania, Editore, 1948, pp. 137-138.

 

  Balzac (1799-1850) è nato a Tours. Dopo una vita di stenti e di miseria, di disastri finanziari, d’imprese commerciali fallite, con il romanzo Les Chouans (1829) comincia il suo successo. Divenne celebre e guadagnò molto con i suoi libri e pagò i debiti. Scrisse infinite opere, e morì nel 1850 dopo aver sposato la polacca M.me Hanska, che amava da parecchi lustri. Ha pubblicato circa un centinaio di romanzi, che formano La Comédie humaine, che si suddivide in Scènes de la vie privée; Scènes de la vie de province; Scènes de la vie parisienne; Scènes de la vie politique; Scènes de la vie militaire; Scènes de la vie de campagne; Études philosophiques. I suoi capolavori sono Eugénie Grandet (1833), Le Médecin de Campagne (1833), Le Père Goriot (1834), Le Lys dans la Vallée (1835), César Birotteau (1837), La Cousine Bette (1846), Le Cousin Pons (1847).

  Prima di scrivere i suoi romanzi, Balzac ha vissuto la sua vita multiforme ed ha potuto osservare la complessità della società umana. Ha vissuto intensamente ed ha scritto con passione. Ha ricordato e messo nei romanzi le sue osservazioni. Il romanzo di Balzac è realista, quantunque non manchi negli studi filosofici il fantastico come in certi personaggi, Vautrin e Rastignac, e negli intrighi, dove lavora la sua immaginazione. La maggior parte dell’opera di Balzac ha come movente il denaro, che vuol dire potenza, dominio. Esso si può conquistare con il lavoro e l’intelligenza, ma anche con l’astuzia e la violenza. Questa febbre, cupidità del denaro, ha mostrato in modo mirabile nei suoi capolavori. Nella lotta dei sentimenti vediamo vincere la brutalità e la vendetta dell’oro su la libertà, la devozione e la magnanimità. È pessimista.

  Ha uno stile, qualche volta, trascurato e scorretto, forse, a causa della prodigiosa creazione, ed alcuni romanzi mancano di precisione e semplicità.

 

 

  Don Marzio, La bottega del caffè, «Corriere d’informazione», Milano, Anno IV, N. 15, 17-18 gennaio 1948, p. 1 e p. 2.

 

  Non buttate via le lettere degli amici pittori e scrittori. [...]. Una lettera di Balzac, di venti righe, è stata pagata 18.000 franchi e cioè 900 franchi a riga. In questa lettera Balzac chiedeva al suo editore 60 centesimi a riga per il suo romanzo «Les paysans».

 

 

  Don Marzio, La bottega del caffè, «Corriere d’informazione», Milano, Anno IV, N. 57, 6-7 marzo 1948, p. 3.

 

  Vedremo Balzac in film? Un po’ alla volta, da Zola a Pasteur, tutti i grandi francesi hanno visto la loro vita tradotta per lo schermo. Lamartine sarà al centro di un film con il quale la Francia rievocherà la rivoluzione del 1848 e la fuga di Luigi Filippo. In quanto a Balzac sembra che i principali episodi della vita dell'autore della Commedia Umana saranno narrati per il cinema da René Clair, in occasione del primo centenario della morte del grande romanziere, avvenuta nel 1850.

 

 

  Gualtieri Di San Lazzaro, Parigi era viva. La capitale dell’arte nel ventesimo secolo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1948.

 

  Citiamo dalla edizione integrale del 1966.

 

  p. 51. Nulla a Celia era più caro del letto, di cui, parodiando un’osservazione famosa di Balzac, pensava: l’istruzione è una bella sciocchezza che ti costringe a sapere il nome del cavallo d’Alessandro e ti lascia ignorare quello dell’inventore della meraviglia che i dizionari prudentemente definiscono “mobile per giacervi a dormire”.

 

  p. 80. «No, Jean dice che tu sci pentito di aver sacrificato le tue aspirazioni letterarie alla gloria altrui. Tu stesso aspiravi, come Balzac, alla gloria [...]».

 

  pp. 215-216.

  «Vollard fece quel libro a mia [di Picasso] insaputa, utilizzando disegni di varie epoche, che nulla hanno a che fare con il romanzo di Balzac [Le chef-d’oeuvre inconnu]».

 

  p. 231. Picasso era un po’ sorpreso di ritrovare Silvio in compagnia di italiani; ch’egli fosse venuto dal sud e non dal nord, sembrava contrariarlo. Dei tre italiani, conosceva soltanto Tullio, che i Ramié gli avevano presentato, qualche tempo prima. Tullio d’Albisola era un uomo corpulento, un Balzac, purtroppo liscio e raro di pelo, e Picasso, ridendo come un bambino, si diverti a fare più volte il giro del pancione del poeta-ceramista.

 

 

  Enrico Liburdi, Ancora di Onorato Balzac a Milano, «La Martinella di Milano. Rassegna di vita lombarda», Milano, Vol. II, fascicolo V, maggio 1948, pp. 86-87.

 

  La partecipazione al XXVII Congresso dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano (testé tenutosi in Milano proprio nei dì celebrativi del centenario delle Cinque Giornate) mi ha offerto la gradita occasione di conoscere la simpatica Martinella, nel cui fascicolo del passato novembre ho letto anche l’interessante articolo sul secondo viaggio a Milano del celebre romanziere francese Onorato Balzac. L’egregio Autore (spigolando fra le annotazioni del diario francese) ci dà preziosi ragguagli intorno a questa nuova visita alla Capitale lombarda, non trascurando di riepilogare sommariamente le notizie che si riferiscono all’antecedente viaggio del 1837, senza, peraltro, far cenno ch’esso diede lo spunto ad un sonetto vernacolo poco noto del nostro Giovanni Rajberti al quale il dialetto meneghino deve lavori poetici di ben altra importanza.

  La poesia cui accenno (pubblicata per la prima volta nel 1926 da me in un settimanale monzese del tempo), nel manoscritto originale è contrassegnata con la data «marzo 1837», epoca, infatti, della prima venuta a Milano del Balzac, ingegno singolarissimo e carattere non meno singolare.

  La sua larga e meritata fama letteraria lo fece oggetto, fra noi, della più cordiale e viva ammirazione, sicché nobiltà e popolo gareggiarono nel vezzeggiarlo e nell’offrirgli generosa ospitalità. Se non che l’umor suo bislacco, spendereccio e talvolta maligno ne’ giudizi a riguardo della nostra vilipesa nazionalità, lo rese inviso a molti: leggerezza di modi e di giudizi la sua, più che vera e propria convinzione ed avversione, ma non per questo meno antipatica per chi avrebbe desiderato da lui amorevole ricambio di cortese ospitalità. Per giunta un dì il brav’uomo, fatto segno a tanta ossequiosa ammirazione, da un briccone che lo aveva avvicinato fu destramente alleggerito dellorologio. Grande la sorpresa, ma ancor maggiore la soddisfazione sua quando, qualche giorno dopo, se lo vide restituire dalla solerte polizia austriaca che s’era fatta in quattro per acciuffare il ladroncello e c’era riuscita: e se ne legge l’interessante cronaca nella Gazzetta Ufficiale di Milano.

  Vero è però che — qualche tempo dopo — l’affare prese un colore più romantico nella Gazette de France dove (cospettaccio!) il semplice borsaiuolo si trasformò in un drappello di quattro malandrini che, nottetempo, col pugnale alla gola, avevano tolto all’autore di Père Goriot niente meno che l’orologio! «Cala, cala, chè la dici grossa», diceva quello; ed è il caso di ripeterlo anche noi. Rajberti, che di certo avrà allora conosciuto personalmente il Balzac, volle fermare il ricordo dell’avventura nel sonetto che qui sotto ripubblico, ad illustrazione del quale non sarà fuor di luogo rimandare il cortese lettore, insoddisfatto di questi miei cenni, al cap. IV dell’ottimo libro del Barbiera II salotto della Contessa Maffei, vecchia ma sempre cara lettura.

  Ed ora, senz’altri preamboli, ecco il sonetto:

 

(Marzo 1837)

 

  Se noi va lu l’è roba de mandal

  Quel pover martir de Monsù Balzac

  Che l’è obligaa a vess strach e pu che stracch

  De tanti adulatori e seccaball.

  Letteratei che ghe fa intorno el ciall.

  Che ghe corren adree come can bracch;

  Disnà, zenn, dejuner, de avenn a sbacch;

  Tucc in furia a vedell, a saludall.

  Loccad de gazzettee, locc de sabett,

  Epigramma e freggiur de Poetess,

  Nanca i lader el lasen sta quiett (1).

  Ma almen i lader j’han mettuu in preson:

  E con quii alter se po no fa istess?

  Ben, mettij su la lista di mincion (2).

 

  (1) Un ladro rubò a Balzac l'orologio in istrada: fu inseguito ed arrestato (N. d. A.).

  (2) Veramente il sostantivo originale sarebbe un altro ma ... anche questo è bisillabo e rimane.

 

 

  Vittorio Lugli, Il teatro di Balzac, in Jules Renard ed altri amici, Messina, Casa editrice G. D’Anna, 1948 («Biblioteca di cultura contemporanea», XVI), pp. 81-89.

 

  Cfr. 1930.  [Segnalato da Paolo Russo, Primo inventario … cit., p. 548].

 

 

  André Maurois, Godimento della letteratura e conoscenza della letteratura di André Maurois in «Universitas», di Stoccarda, n. 5 del 1948, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Unione Tipografio-Editrice Torinese, Anno LVIII, N. 12, Dicembre 1948, pp. 387-388.

 

  p. 387. Ma altri [lettori] esauriscono invece questa fresca gioia della lettura, sia per effetto d’una memoria troppo tenace, sia per bisogno di oltrepassare queste immagini fantastiche. Queste persone ringiovaniscono allora il loro amore per i capolavori, quando vengono a conoscere scientificamente la storia della loro creazione. Per esempio, se hanno letto e riletto il bel romanzo di Balzac Béatrix e hanno goduto della sua meravigliosa descrizione di conflitti femminili, alla lunga finiscono per avvertire il vuoto di quelle esuberanti conversazioni. Alla fine apprenderà che Beatrice fu ispirata dalla figura di George Sand. E la storia, appena minimamente romanzata, del soggiorno di Franz Liszt a Nohant e del suo incontro con Madame d’Agoult, laddove Felicité des Touches è la stessa George Sand. Ora quando il lettore si trasforma in uno storico della letteratura e studia questi mirabili personaggi nelle loro relazioni reali, per mezzo della loro corrispondenza e di testimonianze contemporanee, egli vedrà allora nell’opera letteraria un romanzo affatto nuovo, che porrà in ombra l’opera dello scrittore. Un romanzo più bello? No! Ma affatto diverso, con sfumature eccitanti, un romanzo vissuto da personaggi più vivi e più commoventi. Così il capolavoro di Balzac riceve ben altro rilievo, senza essere soffocato o diminuito.

 

 

  Paolo Milano, Henry James o Il proscritto volontario, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1948 («Il pensiero critico», VII).

 

  p. 17. Lesse Adam Bede, e fece così la prima scoperta letteraria, di George Eliot, la scrittrice che ammirò senza riserve per almeno vent’anni. Poi, un amico maturo e artista lo iniziò ai francesi, Mérimée e Balzac; del primo tradusse in inglese La Vénus d’Ille, ma la versione gli rimase nel cassetto; e il secondo gli parve il modello da proporsi, finché — mesi dopo — non lesse tutto Nathaniel Hawthorne, così felicemente «americano», al quale fece subito posto, fra i suoi entusiasmi, accanto a Balzac.

 

  p. 45. Assetato di vita interiore, pure, di religione propriamente detta, James non si interessò mai, né come uomo né come scrittore: degenere, in questo, da una tradizione familiare che il fratello William ribadì invece, da filosofo e da scienziato, nel suo libro su Le varietà dell’esperienza religiosa. Di Henry James, a questo proposito, si potrebbe dire quel che lui stesso scrisse una volta di Balzac: «Di vita religiosa, nel senso concreto del termine, non si trova neanche una traccia nelle sue pagine innumerevoli».

 

  p. 51. Durante i suoi Lehrjahre europei, James esita a tagliare i ponti con l’America, anche come scrittore. Il tema cosmopolitico gli pare naturalmente suo, e resta il prediletto; ma periodicamente si ripropone il quesito se anche la società degli Stati Uniti non sia stoffa degna d’un romanziere. Sono lontani gli anni giovanili, quando sognava di regalare all’America una Comédie humaine da fare il paio con quella di Balzac; ma la tentazione è dura a morire.

 

  pp. 73-74. Nella prefazione retrospettiva [a Le spoglie di Poynton] l’autore accenna a due motivi essenziali che l’avrebbero ispirato, ma che suonano discordi: «Mettere in luce la più moderna delle nostre passioni correnti: la violenta cupidigia per ... seggiole e tavole, credenze e cassettoni, resti visibili di epoche più travagliate». Questo sarebbe il motivo, per così dire, balzacchiano (a suggerire il richiamo all’autore del Cabinet des Antiques è James medesimo). [...].

  Senonché, di fatto, le cose vanno diversamente: a dominare il romanzo non è né luna né l’altra impostazione, ma invece un terzo motivo, quello della sete di vita morale che infiamma la protagonista Fleda Vetch e, con forza minore, gli altri personaggi. Così che la passione antiquaria assume un significato opposto a quello che ha in Balzac (dov’è pura cupidigia), o nel D’Annunzio del Fuoco o de La città morta (dov’ò pura decorazione): qui essa non corrompe, anzi nobilita (Mona Brigstock, che ne è priva, è l’unico personaggio indegno).

 

  p. 124. Lo sforzo di Zola pare a James «il più bell’atto di coraggio e di fiducia che ricordi la storia della letteratura». Senonché, «la fortuna, ma anche la condanna, de “I Rougon-Macquart” è d’essere una galleria di soggetti in forma aggregata, un quadro di numeri, folle, confusioni, movimenti, industrie». «... L’immagine di questa impresa che dura tutta una vita ... è d’una qualità tanto più fine di quella di cui sono materiati i suoi personaggi». «... Anche Balzac ha i suoi cadres, il suo mondo schedato, le sue rubriche, parentele e genealogie; ma in Balzac, malgrado tutto, sentiamo che la vita poi gli prende la mano, e infine lo trascina con sé, giù in terra».

 

 

  Walter Minardi, Come s’ispirano gli artisti, «Il Corriere di Foggia. Settimanale indipendente d’informazioni», Foggia, Anno IV, N. 6, 9 febbraio 1948, p. 3.

 

  Anche il caffè ha i tuoi caldi fautori e primo tra essi il Michelet che ha lasciato un superbo e curioso panegirico dell’“Avènement du cafè”. Ma l’abuso del caffè è talmente pericoloso (oggi questo pericolo è scongiurato) che si è perfino detto che Balzac, il quale ne beveva ogni notte innumerevoli lazze, dovette ad esse la tua morte prematura. [...].

  In una lettera a Balzac, Stendhal racconta che componendo la “Certosa di Parma” “pour prendre le ton” leggeva ogni mattina due o tre pagine del codice civile al fine di essere sempre naturale nella scrittura.

 

 

  F.[erdinando] N.[eri], Papà Goriot [Père Goriot] (sic), in Dizionario letterario Bompiani ... cit. Volume Quinto. Opere: N-P, p. 380; 1 ill.

 

  Romanzo che viene considerato comunemente quale capolavoro di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1835. E certo è uno dei più tipici del grande scrittore che, intrecciando nelle sue file i maggiori personaggi che occuperanno in seguito la scena della Commedia umana, dove fu accolto nelle «Scene della vita privata», getta le basi di una vasta epopea borghese, potente nel rilievo plastico quanto sconsolata nelle conclusioni. Il protagonista, il vecchio Goriot commerciante a riposo, vive unicamente dell’amore fanatico per le sue due figliuole, Anastasia e Delfina, che egli à innalzato, con grave sacrificio, a un grado sociale molto superiore al suo, sposando l’una al conte Restaud, l’altra al barone Nucingen. L’amore paterno è per Goriot una passiono esclusiva, assorbente, e cieca, ch’egli estende fino a compiacersi delle colpe delle due figlie, di cui la prima è l’amante di Maxime de Trailles, l’altra di Eugène de Rastignac. Vane, egoiste, crudeli, esse lo taglieggiano fino all’ultimo, mentr’è ridotto, in sempre più dura povertà, a trascorrere i suoi tardi anni nella meschina pensione borghese della signora Vanquer (sic). E qui pure sono allogati il giovine Rastignac, che si accinge, come allora si diceva, a conquistare Parigi; Vautrin, ch’è il forzato Jacques Collin, in lotta assidua con la società; Vittorina Taillefer, gentile fanciulla, respinta dal padre, un gran signore, la cui fortuna aveva preso le mosse da un delitto impunito. Le ansie dolorose, la decadenza e la morte di papà Goriot (che s’illumina quasi di un raggio della tragedia di Re Lear) costituiscono la trama principale del romanzo, in cui il Balzac à fatto le prime prove della sua tumultuosa rappresentazione ciclica della vita contemporanea. Ma nell’esistenza dei protagonisti si inseriscono, a tutto rilievo, figure minori che, come l’usuraio Gobseck, formano un fondo vivo di folla scomposta in passioni e in atteggiamenti diversi, continuamente tesa in un dramma di interessi che non trova conclusione né pace.

  I suoi caratteri ànno una sorta di fervida esistenza colorata; essi ci dominano e sfidano lo scetticismo. (Wilde).

  Balzac è il pittore vigoroso e fedele di un momento e di una parte della società francese: egli à rappresentato la borghesia, che da buon legittimista aveva in odio, questa borghesia parigina e provinciale, lavoratrice, intrigante, servile, egoista, che amava il denaro e il potere ... il suo temperamento si è trovato mirabilmente adatto ai soggetti, da cui sembra che l’arte realista nella nostra letteratura non debba mai riuscire a evadere. (Lanson).

 

  Pelle di zigrino (La) [La Peau de chagrin], pp. 456-457; 1 ill.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1790-1850), pubblicato nel 1831, accolto poi nella Commedia umana - «Studi filosofici». Il giovine marchese Raphaël de Valentin, rimasto orfano e povero, medita una grande opera, una «Teoria della volontà», in cui si riflettono (come nella stessa azione del romanzo) le confuse credenze del Balzac al mesmerismo e all’occultismo. Ma, sfiduciato, sta per rinunciare alla vita, quando un antiquario, che à l’aspetto di un mago, gli regala una pelle di zigrino, che à la virtù di soddisfare ogni desiderio di chi la possiede. Questa, però, a ogni richiesta si restringe, e abbrevia così la vita, di cui è un simbolo. Raphaël diviene immensamente ricco, e muore dopo un anno di avventure tumultuose. Il Balzac à disposto la sua favola in modo da lumeggiare il contrasto fra la volontà umana e il destino; non tutto è governato da un potere occulto ed estraneo al nostro volere: quando, per esempio, Raphaël desidera l’amore di Pauline. la pelle non si raccorcia di un punto, perché quell’amore gli era già acquisito, raggiunto da lui. Ma al disotto degli eventi più impensati, e delle illusioni del giudizio umano, sta una forza misteriosa che tesse una trama più vasta e ne cela per noi il disegno finale. Insieme con Luigi Lambert e La ricerca dell’assoluto, il romanzo rappresenta il meglio di quegli «Studi filosofici» con cui Balzac parve cercar di evadere dal suo realismo per affrontare i più alti problemi della vita.

  Egli prende qua e là alcuni pezzi della realtà per farsene oggetto di fascinazione, ed entrare per mezzo di essi in un sogno dello sfrenalo e dell’immenso, attraverso il quale si muove, tra ammirato ed atterrito, quasi come in una visione apocalittica. (B. Croce). 

 

  Volume Sesto. Opere: Q-SP.

 

  Rovescio della storia contemporanea (Il) [L’envers de l’histoire contemporaine], p. 397.

 

  È l’ultimo romanzo compiuto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1846, e integralmente nel 1855: fa parte della Commedia umana - «Scene della vita politica». Opera fitta, a volte confusa e faticosa, ma irraggiata da grandi bellezze e da un alto spirito di comprensione umana e di carità. Come nella Storia dei Tredici, Balzac aveva raffigurato una congiura di uomini governati soltanto dalle loro passioni e risoluti a impadronirsi, con uno sforzo comune e convergente, dei beni e dei piaceri della terra, nel Rovescio o L’altro aspetto della storia contemporanea ci rappresenta una congregazione segreta dei «Fratelli della Consolazione» assorta in un solo scopo ideale di sacrificio e di carità: il giovine Godefroid penetra per caso in quel centro di azioni virtuose e n’è illuminato, istruito, guidato a una missione benefica. Semplice e, per più aspetti, vicina al clima romanzesco delle prime opere, è la trama: la signora de La Chanterie, coinvolta durante il periodo napoleonico in una trama politica, di cui era in tutto innocente, era rimasta per anni in prigione; la figlia, giustiziata; e il maggior responsabile di così atroce persecuzione era stato il procuratore generale Morlac. Questi ora, sotto la Restaurazione, è rovinato, vive nascosto e in miseria mentre sua figlia è gravemente inferma, né egli sa come salvarla: in segreto, i fratelli della Consolazione vengono in suo aiuto ed egli si trova di fronte alla signora de La Chanterie, ch’è l’anima di quell'opera benefica, s’inginocchia dinanzi a lei e ne riceve il perdono. Ancora una volta, come nel Curato del villaggio e nel Medico di campagna, la beneficenza sociale appare a Balzac espressione redentrice e risolutiva in una società in cui, col sopravvento degli uomini nuovi e l’incapace agitarsi delle menti più elevate, prendevano il sopravvento i valori e gli istinti inferiori. Ma, adesso, all’attività benefica si aggiunge il gesto più impegnativo e più intimo di un perdono. Balzac comprendo così che all’atto riparatore delle ingiustizie, sia esso l’impetuosità multiforme e fuori legge di un Vautrin o l’oculata filantropia del medico Benassis, deve unirsi un atteggiamento interiore che sia forma e modello di un mondo morale. Tuttavia nemmeno il perdono della signora de La Chanterie. porta una definitiva pace nel complesso, torbido mondo delle figure balzacchiane: per giungervi, la protagonista deve essere aiutata da un fato riparatore che crea intorno a lei una situazione, ed essa viene a seguire quasi una falsariga già tracciata. Chi segna il limite raggiunto da Balzac nel suo sforzo è piuttosto il giovane Godefroid, la cui luce è piuttosto una speranza e una promessa che una realtà, chiusa in lui, pacificatrice ma ancora incomunicabile. 

 

  Sciuani (Gli) [Les Chouans], p. 582.

 

  È il primo capolavoro di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1829, ed è il romanzo da cui s’inizia il ciclo della Commedia umana, dove esso è compreso nelle Scene della vita militare. L’azione si svolge nel 1799, mentre la Brettagna monarchica è insorta contro il governo rivoluzionario: i due personaggi principali sono il marchese di Montauran, intorno a cui si raccoglie il movimento degli Sciuani (fautori dell’antico regime), e la signorina di Verneuil una bella avventuriera a cui Fouché à affidato la missione di sedurre il marchese e consegnarlo alla polizia: ma il Montauran e la Verneuil, senza bene conoscersi, s’innamorano l’uno dell’altro (sic), ciò che dà luogo a una serie di episodi drammatici, i quali per la vigile presenza e il freddo intervento di un agente di Fouché, Corentin, si chiudono con la morte dei due amanti, sorpresi dai giacobini poche ore dopo ch’essi si erano sposati. Nelle linee generali l’autore si conforma ancora al tipo del romanzo storico di Walter Scott; ma i caratteri, l’evocazione di uno sfondo sociale che appartiene a un’età così vicina e così strettamente avvinta a quella in cui vive il Balzac, esprimono un nuovo proposito artistico, un’osservazione e una fantasia originalo che animerà il romanzo moderno e realista.

 

 

  Carlo Pellegrini, Relazioni tra la letteratura italiana e la letteratura francese, in AA.VV., Problemi ed orientamenti critici di lingua e letteratura italiana. Vol. 4: Letterature comparate, Milano, Marzorati, 1948, pp. 41-99.

 

  pp. 79-80. Grande fortuna arrise da noi ai narratori del verismo: Balzac, Flaubert, Zola, Maupassant, Daudet. Basta osservare l’enorme numero di traduzioni delle loro opere, anche se in genere di nessun valore artistico, e presentate spesso con rispetto per la loro fisionomia di scrittori. Balzac visitò ripetutamente l’Italia: Milano, Venezia, Genova, la Sardegna, Roma suscitando ovunque molta curiosità, sia perché era molto noto tra noi, sia per le Sue singolarità: certi echi dei suoi viaggi nella nostra stampa periodica del tempo sono interessanti per la sua biografia. Contrasse in Italia varie relazioni, specialmente frequentando il salotto della Contessa Maffei; avvicinò anche il Manzoni, del quale però non comprese la grandezza; avversi a lui furono il Mazzini ed il Tommaseo. Non molto illuminata fu pure la sua ammirazione per Dante, ma nella sua vasta opera sono spesso riflessi avvenimenti e personaggi italiani, sì che si è studiata l’Italia quale è riflessa nella Comédie humaine.

 

  p. 98. Sui narratori veristi in Italia c’è la tesi di P. Arrighi, Le vérisme dans la prose narrative italienne, Paris, 1937. Per Balzac, L’Italia nella Commedia umana è stata studiata da M. Pisani, Napoli, 1927, e la fortuna di Balzac da G. Gigli, Balzac in Italia, Milano, 1920; F. Neri, L’Italia di Balzac, «L’Ambrosiano», 3 maggio 1927. Influssi italiani su Balzac nei Contes Drolatiques erano già stati osservati da P. Toldo, Rabelais et H. de Balzac, « Revue des études rabelaisiennes », 1905; si veda poi il vol. di F. Baldensperger, Orientations étrangères chez H. de Balzac, Paris, 1927.

 

 

  Carola Prosperi, Vita sentimentale di un grande romantico. La somma bellezza, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno II, N. 115, 24 Maggio 1948, p. 3.

 

  Lei, la duchessa Eugenia Litta, nata Sforza Bolognini, portava con gaia disinvoltura quel diadema di somma bellezza che avrebbe potuto impressionare e spaventare qualunque altra. Vi era abituata fin dalla nascita, fin da bimba, quando il grande romanziere francese Honoré de Balzac, che era stato ospite in Milano di sua madre, donna Eugenia Vimercati rimaritata col principe Porcìa, pubblicando il romanzo Una (sic) Fille d’Eve aveva cominciato la dedica alla gran dama milanese: «Vous avez une Eugénie déjà belle, dont le spirituel sourir (sic) annonce quell’elle (sic) tiendra de vous les dons les plus précieux de la femme».

 

 

  Carola Prosperi, Un’incantatrice di cent’anni fa. A sipario calato, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno II, N. 178, 7 Agosto 1948, p. 3.

 

  Era una personcina eterea, vaporosa, che a tavola non toccava quasi cibo. Ma poi ho saputo che la notte si alzava e andava in cucina a fare certe scorpacciate di sottaceti e di carne fredda. Sua zia era spaventata dalla sua facilità di mentire, mi diceva che mentiva come respirava. Che volete che vi dica? Che era una specie di fiore esotico il quale trapiantato nel freddo terreno limosino diventò velenoso? No, la [Marie] Lafarge aveva in sè il veleno fin dalla nascita. Sapete che Balzac scrisse, ispirato da lei, Les petites misères de la vie conjugale? Balzac era un genio, ma era anche un visionario e siccome dagli effetti voleva risalire alle cause, pensava che la Lafarge avesse avvelenato il marito, perché la disonorava, facendole delle carezze in pubblico e chiamandola piccola oca.

 

 

  Bruno Revel, La Comune, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1948.

 

I. Il responso di Jacques Bonhomme.

 

  p. 17. Li chiamavano gli «orleanisti». Eran cioè quei duchi come Audiffret. Decares, Broglie ed altri nobili librali, che avevano capito la lezione contenuta, per la loro classe, nella rivoluzione francese e s’erano accostati alle correnti moderate della borghesia, ai professori e notari e industriali e grossi commercianti e banchieri: i quali tutti avevano poi trovato il regime del loro cuore e dei loro interessi nel regno di Luigi Filippo, e son dipinti definitivamente nella Commedia Umana di Onorato di Balzac.

 

VII. La fuga inopinata del Signor Thiers.

 

  p. 115. Questi grandi borghesi dell’epoca di Luigi Filippo han trovato il loro cantore nell’autore della «Commedia umana», Onorato di Balzac, e il loro illustratore in Onorato Daumier.

 

XXIII. Il dittatore sfumato.

 

  pp. 383-385. Ad ogni modo, è soltanto su una simile ribalta sganciata dalla «buona natura» che ci riesce d’intendere appieno gli eroi di Balzac, vale a dire i veri modelli della gioventù blanquista: i Vautrin, i Rastignac, i Mercadet, i Saint-Marsan e consorti: quando il romanticismo emotivo dei suoi corifei francesi, materiato di espansioni liriche, quasi accolta di preludi pervasi di vaghe melancolie, fu sostituito da un secondo romanticismo partito da Stendhal, e che appunto in Balzac doveva diventare il poema dell’energia umana, di una volontà di potenza avanti lettera.

  Mentre Vigny e Musset e Gauthier (sic) vengono allontanando gradatamente dalla vita consociata, opponendovi volta a volta un atteggiamento stoico o sfiduciato e scettico:

 

Que leur font vos discours, magnanimes tribuns?

vos discours sont très beaux, mais j’aime mieux les roses.

 

  Balzac invece s’immedesima febbrilmente con tutte le forze e le forme della vita cittadina, sia che si tratti della tecnica o della finanza o della moda o della scienza. Egli afferma di trovarsi in perfetta «contemporaneità» con la Parigi attuale, «dove tutto brucia, tutto sfavilla, tutto ribolle, tutto s’incendia, e poi evapora, riavvampa, crepita e si consuma; mai la vita, e in nessun altro luogo, fu più possente e incandescente ...».

  Certo, nella tipica proiezione balzacchiana, la grande città babelica par vivere di una existence inflammatoire. I suoi abitanti portan tutti una maschera: maschera di forza o di miseria, di gioia o di ipocrisia; e son tutti come estenuati, tutti marchiati del marchio indelebile di una avidità divorante. Che cercano? La risposta di Balzac è netta: oro e voluttà ...

  Ma nello slancio secondo cui i suoi eroi si affacciano alla conquista della capitole diventata mito, un suo critico sagace ci dice di scorgere la trasposizione letteraria della lotta patetica e violenta che è in corso tra le nuove forze dell’epoca. Secondo Curtius — che è appunto questo critico — gli eroi balzacchiani sarebbero in realtà dei romantici nuovi i quali, liberatisi finalmente dai turbamenti della vita sentimentale e dalla noia — la malattia mussettiana del secolo — avrebbero ritrovato per avventura «la via della responsabilità morale, dell’attività efficace e della fede che rompe tutta gli ostacoli».

  Né la cosa è poi così sicura: che cioè l’energia balzacchiana, almeno nei suoi emuli, fosse senz’altro positiva. Di fronte alla resistenza che incontrano, già gli eroi di Balzac sviluppano non so quale aggressività incongruente, in certo senso gratuita, e liberano insospettate forze latenti, le quali non potranno alla lunga non farsi disponibili per qualsiasi avventura violenta. E anche qui non si può evitare di ricordare come tale sproporzione allo scopo fosse profonda piaga romantica, proprio quella che lo stesso Sainte-Beuve aveva chiamato il renchérissement de la maladie de René: «L’inconveniente di un sistema in cui lo scopo è sproporzionato all’espressione, e di un’arte esagerata per cui la forma oltrepassa e schiaccia siffattamente il contenuto da rammentare chi volesse costruire un immane tempio a servire da catafalco al passerottino lascivo di Lesbia ...».

  Talché, anche in quegli eroi c’è dentro, proprio per lo scarto che passa tra il potenziale di energie così sprigionate e il loro uso possibile, una nota di evidente insoddisfazione, di nuovo romantica: la malattia del secolo. Giunto a questo punto, anche l’autore del mito di Parigi è portato ad avvertirci — e così ritorniamo in argomento — che cotali eroi balzacchiani noi sono affatto contenti della situazione che la società fa loro. Con questa differenza:

 

  «Se il romantico della prima maniera, posto di fronte a tale esperienza, se ne ritraeva e distraeva, quello nuovo invece ne decide la conquista, cosicchè, mentre il romanticismo ortodosso culmina in una teoria della noia, il sentimento moderno della vita sfocia in una «teoria del potere», o almeno dell’energia. Nella Parigi trasfigurata da Hugo e da Balzac compaiono assai presto le figure di Eljoras e di Z. Marcas — i primi rappresentanti del «rivoluzionario casto» — i quali non sanno concepire il potere se non rivestito di un carattere quasi «pontificale, spietato ...».

 

  Né quest’ultima citazione, e specialmente le parole sottolineate, sono estranee alla nostra storia: questi rivoluzionari, casti, che concepiscono il potere solo in funzione di non sai quale spietatezza gelida e rovente nel contempo, nel cui esercizio — mentre le finalità sociali e le riforme positive passano al secondo piano — sembra esaurirsi la dialettica stessa della rivoluzione. Né la razza se ne è pervi neppure oggi, se ripensiamo alle vicende russe e spagnole; come pure l’attrazione esercitata dagli estremisti rivoluzionari su certi speciosi ambienti intellettuali sta tutta in quei termini. Ad ogni modo, quanto ci sia di esatto in questa diagnosi tratta dalla letteratura, ciò che s’è detto fin qui a proposito dell’influenza esercitata sul corso della rivoluzione comunalista dagli epigoni romantici della bohème parigina lo comprava a misura. Già si è visto avesse reclutato i suoi fidi proprio nel Quartiere latino. Allo stesso modo, anche questa derivazione delle teorie dell’azione pura dai grandi modelli letterari del secolo si illumina alla luce di un’altra citazione, ancora di Onorato Balzac: «Il «destino dell’uomo forte è il dispotismo ...».

  Ma ahimè che anche questo conclamato passaggio all’azione restava, dati i procedenti, confinato nella sfera astratta. Esso era semplicemente lo sbocco dialettico di un lungo processo critico giunto ai limiti di se stesso, dove l’azione non era che il suo concetto, un termine teoretico postulato come sintesi di una serie di negazioni, come un loro mirabile rovesciamento positivo. Vale a dire: non era che una «teoria del potere».

 

 

  Mena Rocca, L’idealismo di Baudelaire, Padova, Casa Editrice Dott. A. Milani, 1948 («Problemi d’oggi. Collana di filosofia e storia della filosofia. Serie letteraria», Volume secondo).

 

  p. 16. Nelle sue poesie vi sono accenni a varie altre donne. [...]. Al di sopra di quel nero ammasso di case lebbrose [...], fluttua [...] la Serafita di Balzac, questa meravigliosa creazione.

 

  p. 35. Come Balzac che preferiva alla Venere di Milo una parigina elegante, egli amava la bellezza curata e raffinata; [...].

 

  p. 39. Baudelaire stesso approva Balzac, il quale andò una volta ad una di quelle sedute: «Balzac, pensava indubbiamente che non vi è più grande vergogna nè sofferenza più viva che l’abdicare alla propria volontà. L’ho visto una volta, in una riunione ove si parlava dei prodigiosi effetti dell’haschisch. Ascoltava e faceva delle domande con un’attenzione e una vivacità divertenti. Le persone che l’hanno conosciuto indovinano che doveva esserne interessato. Ma l’idea di pensare suo malgrado lo indisponeva vivamente; gli diedero del dawanesk, lo esaminò, l’odorò e lo restituì senza toccarlo. La lotta tra la curiosità quasi infantile e la ripugnanza per l’abdicazione, traspariva dal suo viso espressivo in modo evidente; l’amore della dignità vinse. Infatti è difficile rappresentarsi il teorico della volontà, il quale consenta a perdere ua (sic) particella di questa preziosa sostanza».

 

  pp. 47-48. Egli apparteneva a quella schiera di spiriti eletti che sembrano votati all’infelicità sin dalla culla: Hoffman (sic), Balzac, Vauvenargues lottarono tutta la loro vita contro il destino avverso e quando riuscirono a vincerlo e ad avere un po’ di pace, la morte fu pronta a ghermirli.

 

  p. 52. Questo modo così originale d’intendere la bellezza moderna, è paradossale perché considera come primitiva, grossolana e barbara la bellezza antica. Ma ciò non deve stupire quando si pensa che anche Balzac preferiva una parigina elegante alla Venere di Milo.

 

  p. 54. L’opera di Gautier gli fa affermare che la condizione generatrice delle opere d’arte è l’amore esclusivo del Bello: «Chateaubriand ha cantato la gloria dolorosa della malinconia e della noia. V. Hugo, grande, terribile, immenso come una creazione mitica, ciclopico per così dire, rappresenta le forze della natura e la loro lotta armoniosa. Balzac grande, terribile, complesso anche, rappresenta il mostro d’una civiltà e tutte le sue lotte, le sue ambizioni e i suoi furori. Gautier è l’amore esclusivo del Bello».

 

 

  G.[iovanni] Titta Rosa, Balzac impacciato in casa Manzoni. Rievocazione milanese di G. Titta Rosa, «Milano Sera», Milano, Anno V, 10-11 Gennaio 1948, p. 3.

 

  Cfr. 1943 e 1946.

 

 

  Renato Savelli, Incontro con l’amica “spirituale”. Cent’anni fa, in Roma, Onorato di Balzac mutava di colpo il corso della sua esistenza, «Il Paese», Roma, 29 marzo 1948, p. 3; 1 ritratto di Balzac.

 

  L’arrivo in Italia – Lo scandalo di “Marcello” – Il soggiorno romano – “Uno dei più grandi ricordi della mia vita” Evelina – Giuramento a Fontana di Trevi: “La città eterna ci unisce per sempre”.

 

  E’ proprio vero che le prime impressioni, i primi esempi, i primi grandi avvenimenti, lasciano nei ragazzi una impronta incancellabile, una volta divenuti adulti, cercheranno poi sempre di emulare. Così accadde a Onorato di Balzac. Egli nacque e crebbe nel puro clima napoleonico, e le imprese del grande capitano eccitarono la sua fantasia, plasmarono il suo carattere. Era ancora un ragazzo quando scrisse sotto un ritratto di Napoleone: “Ciò che egli non ha potuto realizzare con la spada, io lo realizzerò con la penna”.

  Secondo Balzac ogni individuo è un prodotto formato dal clima, dall’ambiente, dalle usanze, dal caso, “da tutto ciò che fatalmente lo tocca e deriva la propria natura da una data atmosfera”. E’ la così detta legge – inesorabile – del determinismo che il Taine ha magnificamente spiegata.

  L’immortale Onorato non esagerava affermando che egli portava “una società tutta intiera” nel suo cervello. Una società con tutti i suoi tipi e le sue manifestazioni, con le sue virtù e i suoi vizi. Nella sua opera – veramente titanica – troviamo le forme primitive della vita sociale: dall’ambizione al lussurioso, dal cinico all’affarista, dall’usuraio all’artista, al giornalista. Egli viveva intimamente al tal punto ogni personaggio che un giorno a un amico che lo sorprese al lavoro, Balzac gridò: “La disgraziata Eugenia si è uccisa?”. E solo quando l’amico lo riportò alla realtà, egli si accorse che Eugenia Grandet era figlia della sua accesa e tormentata fantasia.

 

Prima tappa a Milano.

 

  Nessun autore più discusso e più calunniato di lui all’inizio della sua carriera; nessuno. Giunto sulla via di mezzo, più accarezzato, più festeggiato, più adulato, più fortunato, Balzac era già celebre quando varcò il confine e giunse per la prima volta in Italia. Ciò avveniva nel 1836: il romanziere aveva 37 anni. Prima tappa: Milano (sic) dove egli visitò il Manzoni al quale disse che rassomigliava in modo impressionante a Chateaubriand. Il grande vecchio sorrise e ringraziò, compiaciuto. L’ospite illustre divenne l’uomo del giorno, disputato e desiderato in tutti i salotti: ognuno voleva averlo veduto o vederlo. L’ambiente letterario milanese lo sedusse, e più tardi nel dedicare una copia della «Figlia d’Eva» a un’amica di Milano egli scriveva: “Io sono italiano per la costanza e il ricordo”.

  Il grande scrittore visitò poscia Torino, Genova, Venezia, Firenze, la Sardegna e Roma. A Torino, il romanziere si trascinò dietro una donna bella, spregiudicata e bizzarra, Carolina Marbouty, invaghitasi perdutamente di lui. Per tagliar corto alle maldicenze e alla morbosa curiosità del prossimo, tanto più che la donna si era allontanata da casa all’insaputa del vecchio marito, Balzac – il quale era anche l’uomo delle soluzioni improvvise – la fece travestire da uomo e le diede subito un nome: “Marcello”. Marcello e Onorato: la coppia Balzac passava così da un pranzo all’altro, da un ricevimento a un ballo, a una gita nei dintorni, riverita, cercata, adulata. “Marcello – narra Dante Serra nel suo Balzac – sempre dietro al romanziere in redingotte grigia e con un’aria fatale e romantica che fa innamorare” tutte le donne. E tutte a chiedere a Balzac: “Sempre con voi il giovane amico?”. “Sempre con me, madama”. “Vi ama?”. “Mi ammira”. “Scrive anche lui?”. “Meglio di me”.

 

Una brutta sera.

 

  Ma una brutta sera – brutta davvero per la coppia clandestina – Silvio Pellico scoprì il trucco e Balzac confessò a denti stretti: “Sì, è vero! E’ una dama parigina che vuol conservare l’incognito ...”. Voltafaccia generale da parte delle signore torinesi ... ma in compenso il falso Marcello si vide subito corteggiato da uno stuolo di cavalieri, e Carolina, in abito da sera, divenne la reginetta torinese. Balzac ne inventò un’altra più grossa: egli diceva a tutti, a bassa voce: “Per la verità si tratta di George Sand”, e così si centuplicavano gli omaggi e gli inviti, anche le pudiche signore furono conquistate dal fascino di quel nome ...

  Nella primavera del 1848 Balzac è a Roma. Un viaggio a Roma era sempre stata la sua mèta: “E’ assolutamente necessario mettere da parte del danaro per andare nella Città Eterna, almeno una volta nella vita”. E più tardi egli confessava a madame Hanska: “Quel soggiorno fu uno dei più grandi e più bei ricordi della mia vita”. Lo scrittore si proponeva di fermarsi in Roma fino all’inverno, ma la partenza dell’Hanska dall’Urbe, gli fece poi cambiare programma. Balzac venne a Roma, perché sognava sempre di suggellare in essa l’amore per la Evelina. Ci era costei? Evelina Hanska, polacca, maritata ad un conte russo, e allora vedova da pochi anni, era l’amica spirituale o, come si dice, qualcosa di più per Balzac, il quale si faceva condurre come un bimbo da quell’anima eletta. Finì per sposarla, più tardi, ma Ella non accolse fra le sue braccia che un uomo fisicamente e spiritualmente finito. A quel matrimonio non fu estraneo il fascino di Roma. Infatti, Onorato ed Evelina, promessi sposi, amavano trascorrere all’aperto le invidiabili giornate della primavera romana, nel cuore della Roma antica e seicentesca. Un giorno, seduti intorno alla Fontana di Trevi, Onorato – al colmo della felicità – dichiarò all’amata: “E’ questa la vera gloria di scrittore. Evelina, finalmente Roma ci unisce per sempre!”.

 

La pace agognata.

 

  Quella unione, spiritualmente celebrata in Roma, costituì per Balzac l’unica parentesi di serenità, di dolcezza e di tranquillità, anche economica (la Evelina era molto ricca) nella sua difficile e tormentata esistenza. Lo scrittore immortale credeva di aver finalmente raggiunto l’agognata pace per poter ancora produrre in piena libertà, senza più l’assillo dei creditori che bussavano alla sua porta e le molte difficoltà finanziarie che egli, natura esuberante e insofferente di ogni giogo, spirito avventuroso, si era create, quasi senza volerlo e senza accorgersene, fortemente dominato dall’orgoglio e più che altro dall’ambizione di conquistare il posto più alto, più ambito e più invidiato nella letteratura francese.

  Il destino gli giuocò un tiro infame: gli diede, è vero, quel primato indiscusso cui egli aspirava e di cui era degno, ma al tempo stesso negò a Onorato di Balzac il riposante amore famigliare che gli spettava di diritto, come la gloria.

 

 

  F. Schmidt-Degener, Flaubert o il significato dell’Ottocento da un articolo di F. Schmidt-Degener in «Synthèses», di Bruxelles, n. 11 del 1948, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Anno LVIII, N. 9, Settembre 1948, pp. 267-269.

 

  p. 268. C’è chi ammira più vasti contorni nelle brume di Dostoiewsky, c’è chi stima superiore la potenza creatrice di un Balzac, c’è chi assicura che la psicologia di Stendhal maneggia una lancetta più accuminata.

 

 

  John Squire, Il Balzac di Stefan Zweig di John Squire in «The illustred London News», di Londra, 31 gennaio 1948, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Unione Tipografio-Editrice Torinese, Anno LVIII, N. 4, Aprile 1948, pp. 107-109.

 

  Capolavoro di Stefan Zweig avrebbe dovuto essere (e forse lo sarà, sebbene egli non abbia potuto compierlo nè darvi l’ultima mano) una vita di Balzac, la più fertile e straordinaria figura della letteratura francese nel secolo scorso. Fuggendo in Inghilterra prima dello scoppio della guerra e del terrore, Zweig portava con sè la massa di materiale che aveva raccolto e che costantemente aumentava. Il suo amico e editore Richard Friedenthal racconta: «Balzac si faceva gioco dell’autodisciplina di Stefan Zweig. Egli continuava ad aggiungere nuove schede alle montagne di materiale che aveva già accumulato, ed io stesso ebbi occasione di osservarlo nei suoi lavori e di porgergli qualche aiuto. Nuovi punti di vista si schiudevano continuamente e ciò ch’egli aveva già scritto era sottoposto a costante revisione. La sua magnifica collezione di manoscritti d’autori includeva uno dei più preziosi tra i volumi in cui Balzac aveva rilegato il proprio manoscritto con i successivi giri di bozze, e queste intricate, interminabili correzioni di bozze sembravano esercitare un misterioso effetto ipnotico su Zweig. La loro influenza si estendeva al manoscritto della biografia ch’egli stava scrivendo. Il nucleo del libro, che veniva di continuo ricopiato dalla sua infaticabile moglie e collaboratrice, non era che un punto di partenza per ulteriori aggiunte. I taccuini e le schede crescevano di numero, liste e tabelle venivano preparate, le varie edizioni di Balzac e le monografie in possesso di Zweig erano riempite di sottolineature, commenti marginali, citazioni e foglietti. Il piccolo, studio della sua casa di Bath divenne un museo balzacchiano, un deposito di archivi balzacchiani, un centro d’informazioni su Balzac». Poi la minaccia s’avvicinò, nell’estate del 1940, e Zweig riparò in Brasile, abbandonando tutto questo materiale. L’incubo della Gestapo, delle torture e delle camere a gas l’aveva sopraffatto, e probabilmente non gli permise di condividere la tranquilla certezza che Churchill aveva saputo ispirare alla maggior parte degli Inglesi, che gli eventuali invasori sarebbero stati in parte annegati per mare, e il resto sterminato sulle nostre coste. Può darsi ch’egli non abbia visto altra alternativa se non la fuga o il suicidio. Egli scelse allora la fuga, salvo commettere di lì a poco il suicidio, troppo presto per ricevere le copie dei suoi appunti che il Friedenthal gli mandò; e non saprà mai con quanta devozione il manoscritto del suo ultimo libro sia poi stato messo insieme da mani pietose. Non ne vedrà il successo

 

  Lo scrittore.

 

  Successo meritato, almeno parzialmente. Questa, però, è una vita di Balzac uomo, e non del più grande Balzac, che fu lo scrittore. Naturalmente, qua e là non mancano citazioni dai romanzi che ne spiegano la grandezza ed illustrano l’universalità dell’uomo. Per esempio questa dichiarazione d’importanza capitale: «Io compresi le maniere di questa gente, ne esposi il modo di vita, sentii sulle mie spalle il peso dei loro fardelli, camminai coi miei piedi nelle loro scarpe scalcagnate; i loro desideri e la loro miseria penetrarono nell’anima mia o la mia anima passò nella loro. Con loro mi appassionai contro i padroni che li sfruttavano e li costringevano a ritornare cento volte a sollecitare quei salari che erano loro dovuti. Abbandonai le mie abitudini, trasformai me stesso in qualchedun’altro (sic) per una specie d’intossicazione delle mie forze morali, e ripetendo questo gioco quante volte mi piacque. A chi devo questa capacità? È una specie di seconda vista? È una qualità che esasperata può confinare con la pazzia? Non ne ho mai esplorato le origini. La possedevo e me ne servivo: ecco tutto. Fatto è che ero capace di analizzare nei suoi elementi quella massa composta che chiamiamo la gente. Io li avevo analizzati, e sapevo distinguere le loro buone e le loro cattive qualità. Sapevo bene quale importanza avesse per me questo Faubourg, questo seminario di rivoluzioni, coi suoi eroi, i suoi inventori, i suoi uomini di saggezza pratica, i suoi birbanti e criminali, le sue virtù e i suoi vizi, tutti rinchiusi nei limiti della miseria, insidiati dalla povertà, inzuppati nel vino e rovinati dalla branda. Voi non potete immaginare quali innumerevoli avventure si si svolgono, non conosciute, in questa città, di pena, quali drammi rapidamente dimenticati! Quali terribili e pur bellissime cose vi si vedono! L’immaginazione non può nemmeno sognarsi di gareggiare con la terribile realtà che giace nascosta lì dietro ...».

  Qui, e in altre analoghe citazioni, parla il romanziere che, in tempo incredibilmente breve, produsse l’intera Comédie humaine, da La pelle di zigrino al Cugino Pons e alla Cugina Bette, i tre libri che restano, presumibilmente, i migliori della sua tremenda produzione[1]. Ma Zweig non si occupò tanto dell’autore (che fu insuperato, eccettuato Shakespeare, nell’arte di creare un mondo), quanto piuttosto dell’uomo dinamico, quasi frenetico, che desiderava mettersi in vista con un ardore non superato da quello di Napoleone, di Hitler e di Mussolini. L’energia e l’ambizione si allacciavano in lui: la loro combinazione in un uomo politico è di solito disastrosa per il mondo, ma in un artista può riuscire disastrosa semplicemente per lui stesso. Non mi sembra che il termine psicoanalitico «complesso» intervenga in questo libro: ma dovrebbe invece ricorrervi spesso. Poiché esso ci fa vedere tutta la vita di Balzac come una reazione contro circostanze che egli odiava e da cui desiderava sfuggire. Scrivere, per lui come viene descritto qui, era semplicemente un mezzo per far denaro (sebbene egli non fosse riuscito che verso la fine della sua vita a porre un tampone alla falla dei debiti); e il denaro gli era necessario per fare nel mondo la figura ch’egli desiderava fare. Egli tentò pure altri mezzi di far denaro, oltre la perpetua fatica letteraria: fare l’editore, il tipografo, fondare società, perfino sfruttare miniere d’argento in Sardegna. I suoi progetti erano per lo più eccellenti: da alcuni di essi accadde che più tardi altra gente cavò davvero molto denaro. Ma egli aveva sempre troppa carne al fuoco. Non era un uomo che pasticciasse tutti i mestieri senza saperne fare nessuno; era un uomo capace di realizzazioni in qualunque sfera si fosse applicato, ma non capiva, per contro, che non c’era il tempo per far tutto e che, per un uomo senza capitali, la sola cosa da fare è di guadagnarsi la vita dove questo riesce più facile.

 

  L’uomo.

 

  Aveva l’aria di credersi un uomo di nascita regia. Invece veniva da una famiglia contadina chiamata Balssa (suo zio era stato ghigliottinato per avere assassinato una ragazza di campagna incinta), e suo padre, che riuscì ad entrare nella borghesia come appaltatore militare, al seguito di Napoleone, trasformò il proprio nome in Balzac. Sua madre era estremamente avara e priva d’immaginazione e continuava a predicargli di volersi accontentare del loro rango, mentre egli, invece, proseguiva le ambizioni paterne trasformando ulteriormente il suo nome in «de Balzac». Egli era esattamente il contrario del Brutto Anitroccolo, che si credeva tale ed invece era un Cigno: lui era brutto davvero, ma si credeva un cigno. Così partì a testa bassa alla «conquista» delle donne: donne, ben inteso, sempre di classe superiore alla sua. Grasso, sdentato, sputacchiava parlando, e si mostrava in giro con la barba lunga di più giorni e le scarpe slacciate. Con tutto questo, c’era nei suoi occhi e nella sua parola qualcosa per cui le donne intelligenti amavano discorrere con lui, e c’era in lui una specie d’innocenza per cui le donne mature provavano un irresistibile bisogno da fargli da mamma.

  Nè egli cercava altro, in loro: ma doveva essere una madre d’alto rango. Toccò prima a Madame de Berny, che fu sua amante, sebbene di circa trent’anni più vecchia di lui, e poi decadde al ruolo di fedele confidente. Poi ci fu la grassa e florida Duchessa d’Abrantès, vedova di Junot: d’origine napoleonica, non era proprio una duchessa autentica, ma il titolo lo portava. Poi ci fu la Duchessa di Castries, per la quale Balzac non fu nulla più che un divertimento passeggero. Poi la contessa Visconti-Guidoboni: a spese di suo marito (perché generalmente c’erano anche i mariti) Balzac fece un viaggio in Italia ed ebbe l’impudenza di condurre con sè, travestita da ragazzo, la moglie di qualchedun’altro. E infine ci fu Madame de Hanska, che non lo volle vedere per molti anni, esitò a lungo contrappesando la sua fama e il suo fascino con il suo aspetto e i suoi precedenti, e infine lo sposò in una chiesa in Ucraina, pochi mesi prima ch’egli morisse.

  Questi sono i suoi affari d’amore e le sue speculazioni, tutti i suoi sogni sfrenati di successo, e anche tutta la sua ingenuità. Tutto ciò è ritratto magistralmente nel libro dello Zweig. E ci sono accenni, anche, a quella sua prodigiosa capacità di lavoro, alla sua devozione alla Musa, ch’egli magari scambiava modestamente con un volgare bisogno continuo di denaro. Eppure, quando nel libro di Zweig ci s’imbatte in qualche citazione dello scrittore, ci si accorge subito che altra cosa è il vero Balzac: e si prova la stessa impressione che si ha leggendo certe vite di Shelley tutte pullulanti di figure femminili.

  I due caratteri sono profondamente differenti. Shelley spese la sua vita cercando tra le donne un’affinità spirituale; Balzac, da giovane, confessò francamente a sua sorella che quello ch’egli cercava era una vedova con patrimonio e — avrebbe dovuto aggiungere — con un nobile blasone, sebbene questo particolare passasse in seconda linea di fronte alla presenza del denaro.

  La sua vita, ridotta ai sommi capi, riesce piuttosto odiosa. Eppure le donne più nobili e più squisite, donne alle quali egli si guardava bene di dirigere i propri approcci, andavano matte di lui ed ascoltavano le sue confidenze. «Che bambinone!» avrebbero tutte detto, se si fossero riunite in conclave a discorrere di lui.

 

 

  Pietro Paolo Trompeo, Presentazione, in H. de Balzac, Ferragus … cit., pp. 7-11.

 

  Il racconto di Balzac che qui si pubblica ottimamente tradotto in italiano è anteriore di un anno a uno dei suoi romanzi più noti Le père Goriot. Un critico recente, Maurice Bardèche, ha creduto di riconoscervi labbozzo e più che l’abbozzo, di quel libro famoso: il bandito dalla demònica forza di volontà che ha così gran parte nel Père Goriot e poi in altri romanzi della Comédie humaine, Vautrin, sarebbe già prefigurato in Ferragus. Ma il Bardèche risale molto più in là, e il primo progenitore così di Ferragus come di Vautrin lo ritrova nel protagonista di due mediocri romanzi giovanili di Balzac, veri romanzi gialli, che fan séguito l’uno all’altro, Le Vicaire des Ardennes e Annette et le Criminel (ribattezzato poi Argow le pirate). Senza troppo insistere su questa genealogia, sarà meglio limitarci a osservare che così Argow come Ferragus e Vautrin appartengono tutti e tre alla grande famiglia dei banditi romantici, famiglia tanto ramificata che per più di mezzo secolo ha rappresentanti in tutte le letterature europee. Per quel che spetta a Ferragus e a Vautrin (Argow possiamo lasciarlo in disparte), la trovata di Balzac fu di farne due banditi cittadini, che ordiscono i loro criminosi intrighi in mezzo alla varia società agitantesi nella Parigi della Restaurazione e della Monarchia di Luglio. E qui il Bardèche ha ragione: Ferragus, in quanto bandito parigino, non è che una prima prova, ancora un poco sfocata, di Vautrin.

  Dove il Bardèche sbaglia, a mio modo di vedere, è nel considerare Le père Goriot come il capolavoro alla cui creazione tende più o meno consapevolmente Balzac nelle sue opere precedenti, e segnatamente in Ferragus. Né Le père Goriot, libro stupendo in alcune parti, falso e cascante in altre, è una di quelle opere che riassumono tutto il genio d’un autore e che basta nominare per rievocarne in sintesi tutta la potenza (nessun romanzo di Balzac, del resto, basta da solo a definire il suo genio): né Ferragus, che ha anch’esso i suoi scompensi, può dirsi però una prova mal riuscita d’un capolavoro a così dire predestinato. Come poesia dell’inferno parigino, le due opere sono sullo stesso piano. Il mistero, che nel Goriot si addensa e concentra tutto nel chiuso ambiente della pensione Vauquer (e qualcosa ne è forse passata nel bellissimo Imbroglio di Moravia), in Ferragus si allarga, senza nulla perdere del suo fascino, in punti diversi della vecchia capitale e particolarmente in quell’intreccio di vie malfamate che scomparve quando vi fu aperta la grande trincea rettilinea della via del Louvre. I temi che poi saranno svolti o accennati nel corso del racconto, Balzac li preannunzia nella magnifica sinfonia urbanistica con cui il racconto incomincia e che è veramente una delle cose più belle uscite dalla sua penna. Ma a queste pagine iniziali non cedono in bellezza quelle sull’apparizione del misterioso mendico durante il temporale che stempera la lebbra d’un cortile della Parigi romantica, e più ancora le altre che ci presentano nel suo sordido antro urbano la vecchia megera, madre di Ida Gruget. Se si volesse, per questi due episodi, qualche riscontro moderno, e con scrittori nostri, additerei per il primo il bozzetto Carburo e Birchio nel Palio dei buffi di Palazzeschi e per il secondo La Fattucchiera di Trilussa:

 

Abbita in Borgo, in un bucetto scuro,

Pieno de ragni che te fa spavento ...

 

  Ma il confronto s’impone invece con un contemporaneo di Balzac, che di Balzac sentì fortemente l’incanto e ne riconobbe con precorritrice intelligenza critica l’incondita ed energica genialità: Baudelaire. Il Baudelaire dei Tableaux parisiens e dello Spleen de Paris presuppone in molte parti Balzac: senza certa prosa di questo, sovrabbondante e qualche volta lutulenta, non avremmo qualcuno di quei limpidissimi cristalli di rocca. Si potrebbe perfin tentare qualche preciso riavvicinamento. Si rilegga, per esempio, dopo il XXXV dei poemetti in prosa di Baudelaire, Les Fenêtres, la pagina della Peau de chagrin in cui il protagonista contempla dalla sua soffitta un paesaggio notturno di tetti che succedono a tetti e di là dai vetri delle finestre o sui balconi scopre i diversi esemplari della fauna umana. Ovvero le terzine con cui si chiude Le spleen de Paris e il frammento dell’epilogo che Baudelaire preparava per una seconda edizione delle Fleurs du Mal: le apostrofi a Parigi che in quelle come in questo si snodano come per una donna idolatrata in lunghe litanie evocative (Je t’aime, ô capitale infame! ... Je t’aime, ô ma très-belle, ô ma charmante ...), richiamano in modo sorprendente quella di Balzac all’inizio di Ferragus (Mais, ô Paris! qui n’a pas admiré ...).

  Se non quanto Baudelaire, artista vigilatissimo e che sulle ragioni dell’arte meditò a lungo, Balzac ebbe tuttavia coscienza della propria forza creativa e più d’una volta seppe indicare con richiami suscettibili di sviluppo critico i punti essenziali delle sue conquiste di poeta. Sarebbero da vedere a questo proposito certe epigrafi che appose a prime edizioni di suoi scritti, soppresse poi nelle successive. Alla novella Sarrazine (sic) (una delle sue cose più belle), pubblicata la prima volta nella «Revue de Paris» del novembre 1830, premise a guisa di motto questa domanda: Croyez-vous que l’Allemagne ait seule le privilège d’être absurde et fantastique? Mirabile infatti è in quella novella il tono di fiaba angosciosa con cui vi è dato l’avvio, pur non spostandosi dall’ambiente parigino, alla narrazione d’una passione romanzesca. Nell’epigrafe di Ferragus, abolita poi anch’essa, osservava che le fantastique de Paris non era stato ancora evocato da nessun narratore, mentre tanto ce n’era per chi sapesse vederlo. Il meglio di Ferragus, la vera poesia del racconto, è infatti proprio nel fantastique de Paris, quello che poi Baudelaire, in un mirabile saggio, chiamerà le fantastique réel de la vie, e cioè il fantastico della vita quotidiana, trascurato dai tanti che hanno occhi per vedere e non vedono.

 

Nota, pp. 177-178.

 

  Nell’ordinamento definitivo della Comédie humaine il racconto Ferragus viene a costituire insieme con altri due su per giù delle stesse dimensioni (La Duchesse de Langeais e La Fille aux yeux d’or) una sorta di trittico intitolato Histoire des Treize. Ma già nel 1834-1835, cioè sei o sette anni prima che Balzac adottasse per il suo ampio ciclo di romanzi il titolo dantesco di Comédie, il trittico era stato inserito col suo proprio titolo in una serie di racconti, Scènes de la vie parisienne, che della Comédie sarà poi uno dei settori. Se volessimo insistere nel confronto dantesco suggeritoci dal romanziere, potremmo dire che l’Histoire des Treize è un girone, o una bolgia, di quel cerchio dell’inferno balzacchiano che sono le Scènes de la vie parisienne. La verità è che le tre parti del trittico non hanno altro rapporto tra loro se non quello implicito del comune titolo: son tre episodi, ognuno per sé stante, nei quali manovra l’occulta e tenebrosa forza dei Tredici, la società segreta di cui Balzac parla nelle pagine premesse a Ferragus. Ognuno dei tre racconti può esser letto separatamente. Ognuno ha la sua propria unità d’azione e le sue proprie caratteristiche, indipendenti da quelle degli altri due. Tanto è vero che Ferragus apparve la prima volta isolatamente, e con la sua propria prefazione, nella «Revue de Paris» del marzo e aprile 1833.

  Rimandando alla nostra presentazione per quel che si riferisce all’intermittente valore poetico (o a quel che a noi sembra tale) dell’avventuroso racconto, aggiungiamo qui che il nome del protagonista può essere stato suggerito a Balzac, il quale usò di simili adattamenti onomastici, dal dimenticato romanzo, Ferragan chef de brigands, d’un suo dimenticato contemporaneo e connazionale, Félix Losquet: romanzo, afferma chi lo ha letto, che col racconto balzacchiano ha per altro scarsa somiglianza. È anche possibile che insieme con questa suggestione abbia agito quella del Ferraù ariostesco: Balzac aveva molto letto e ammirato l’Orlando Furioso, e non è da escludere che la cadenza del nome gli sia rimasta nell’orecchio: tanto più che nelle traduzioni francesi del Furioso il nome del principe moro suona per l’appunto «Ferragus».

 

 

  Karl Vossler, Civiltà e lingua di Francia. Storia del francese letterario dagli inizi fino ad oggi. Traduzione di L. Vertova, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1948 («Biblioteca di cultura moderna», N. 453),

 

Conclusione.

 

  p. 502, nota (1). Del resto lo stesso Lanson [L’art de la prose] crede alla possibilità e desiderabilità di un’arte della parola indipendente dal contenuto del discorso, press’a poco come era il miraggio di Flaubert. Anche per lui esiste la prosa d'arte in sè e per sè ed egli si affanna a scriverne la storia; e così facendo fa la singolare scoperta che vi sono grandi, geniali prosatori, i quali tuttavia non «creano» nessuna «prosa». Fra questi sciagurati egli annovera, p. es., Honoré de Balzac, come se il difetto di Balzac consistesse soltanto, diciamo così, nella penna arrugginita, nel lapis spuntato.

 

 

  Mario Vugliano, Balzac alla caccia degli “avarissimi”, «Corriere d’informazione», Milano, Anno IV, N. 246, 20-21 ottobre 1948, p. 3.

 

  A un martedì della signora Ancelot fu annunziato il signor Cesare Bombay ed entrò più paffuto che mai Henri (sic) Beyle. «Signora — disse — arrivo troppo presto. Ma sono un uomo molto occupato, mi alzo alle cinque del mattino e faccio un giro per le caserme per vedere se le mie forniture sono ben confezionate: perché lo sapete, sono fornitore dell’esercito per le calze e i berretti di cotone. Ah, come so far bene i berretti di cotone! E’ la mia partita e posso dire d’essermene occupato fin dalla prima infanzia; nulla mi ha distratto da questa onorevole e lucrosa occupazione. Ho certo inteso dire che vi sono artisti e scrittori che fanno consistere la loro gloriuzza in quadri e libri! Bah! Che cosa è questo in paragone di calzare e imberrettare tutto un esercito, come faccio io, così da prevenire i raffreddori con quattro fili di cotone e un flocco di due pollici almeno? ...».

  E giù strali ed epigrammi contro i letterati pontificanti nel salotto della signora Ancelot. In quel periodo, dopo il 1826, Stendhal — ce lo dice nel Brulard, suo romanzo autobiografico — era divenuto «uomo di spirito per disperazione»; un po’ amara e dispettosa, infatti, è la burla di Cesare Bombay, ma comunque, nient’altro che un divertimento istrionico.

  Anche Balzac, talora, usava presentarsi sotto finte spoglie, non però a scopo di mistificazione «drôlatique», ma per non mettere sull’avviso e coglier meglio la sua selvaggina, ch’era di tipi da romanzo In questa caccia si serviva pure di battitori, tra i quali un Denis Bouchard, già suo compagno di collegio a Vendôme. Che, ora, abitava a Saumur, e sempre l’informava dei più curiosi personaggi locali. Perché gli scrisse un giorno l’amico — non veniva a conoscere certo Niveleau, di un’avarizia che ispirava una specie di rispettoso terrore, e che per i suoi gesti di incredibile rapacità era leggendario, e proverbiale da Angers fino a Tours? Specialista in avarizia (quanto si parla di questo vizio nella Commedia umana!) Balzac, che allora stava scrivendo il Grandet, volò a Saumur da Bouchard. «Je viens voir ton bonhomme — gli disse. — Ma mi devi presentare a lui come il signor Morel, ricco agricoltore desideroso d’acquistar terreni». E lo scrittore recitò con tanta competenza la sua parte. che Niveleau disse a Bouchard; «Questo Morel è un uomo di affari straordinario. E sì che io me ne intendo. Un altro eguale non l’ho mai incontrato».

  Se non il bernoccolo, certo il pallino degli affari Balzac ce l’aveva: si pensi alle 60.000 querce di Polonia, alle imprese tipografiche e industriali; d’ogni commercio egli si documentava minutamente, al punto di scrivere persino una Physiologie de la facture e L’art de payer ses dettes et de satisfaire ses créanciers sans débourser un sou. Chi non è balzacchiano in questo anche oggigiorno? Il romanziere francese, oltreché un Creso, avrebbe voluto essere il Petronio arbiter elegantiarum del suo tempo; figurino conforme alla moda 1830, il suo dandy fuma l’houka sopra un divano turco, beve il tè nell'argenteria inglese, passeggia in tilbury, condotto da un groom servito dal suo tigre dodicenne. E questa, sia pur frivola, è storia del costume; lo scrittore voleva sapere e scrivere di tutto, insegnare a scopo d’arricchimento ogni cosa, anche l’arte di mettere la cravatta, che è «à l’homme du monde ce que l’art de donner à dîner est à l’homme d'État».

  Ci è, difatti. capitata sotto gli occhi questa singolare pubblicità editoriale balzacchiana: «L’art de mettre sa cravate de toutes les manières connues et usitées, enseigne et démontré en seize leçons précédé de l’histoire complète de la cravate, depuis son origine jusqu’à ce jour, de considérations sur l’usage des cols, de la cravate noire et de l’emploi des foulards par le Bon Emile de l’Empesé, ouvrage indispensable à tous nos fashionables, orné de 32 figures explicatives du texte, et du portrait de l’auteur. Troisième édition. Paris, à la Librairie Universelle, rue Vivien, n. 2 bis, au coin du passage Colbert et chez tous les marchands de cravates, de cols et de foulards les plus en vogue de la capitale».

  Dovessimo noi, oggi, lanciare un consimile «volantino» pubblicitario ben poco vi potremmo aggiungere, chè tutto il necessario già è detto da Balzac; il quale non esita punto a firmare col suo nome un’operetta di moda e persino la correda del proprio ritratto. Ciò perché la moda e l’eleganza sono vedute e studiate dal romanziere sociologo come manifestazioni rappresentative della sua epoca, delle quali si ha pure da tener conto per un quadro completo d’ambiente e di costumi.

  Per burla, abbiamo visto Henri Beyle parlare di calze e di berretti; se mai l'autore della Commedia umana avesse dovuto occuparsene, certamente l’avrebbe fatto con più acquisita cognizione, ne sarebbe venuta fuori un’altra «fisiologia» da aggiungersi a quelle del sigaro, del guanto e della cravatta. Ci fa sorridere, quest’ultima, oggi che quasi tutti andiamo scravattati all’Ugo Foscolo; e Willy Farnese (pseudonimo sotto il quale si cela un nostro valoroso collega che pure non è Balzac) se dovesse aggiungere un capitolo a Il vero signore, forse, scriverebbe «L’arte di non portar la cravatta in tutte le maniere ...».

  Ma la moda è mobile come la donna: e a moverla nel loro interesse dovrebbero i fabbricanti di cravatte cercare e far ristampare il vecchio libro dell’enciclopedico scrittore francese.

 



[1] Di questo giudizio critico lasciamo intera responsabilità allo scrittore, pensando a quegli altri capolavori che sono, per non dir altro, il Père Goriot e Eugénie Grandet. (N. d. A .).



Marco Stupazzoni