mercoledì 12 dicembre 2018



1925

 


 

Traduzioni.

 

 

  Onorato di Balzac, “Les contes drolatiques” (Le sollazzevoli historie). Seconda decina. Traduzioni di Adolfo Albertazzi, Guido Biagi, A. F. Formíggini, Umberto Fracchia, Giuseppe Lipparini, Guido Mazzoni, Alfredo Panzini, Gildo Passini, Corrado Pavolini, Dino Provenzal, Silvio Spaventa Filippi. Illustrazioni di Benito Boccolari, G. B. Galizzi, Giovanni Guerrini, Gustavino, Giuseppe Mazzoni, Pietro Parigi, Giulio Rosso, G. C. Sensani, Guglielmo Wohlgemuth, Roma, A. F. Formíggini Editore, 1925 («Classici del ridere», 51), pp. 253; ill.

 

 

clip_image002

 

  Come indicato nella copertina e nel frontespizio del volume, le traduzioni dei racconti formanti questa Seconda Decina dei Contes Drolatiques (il cui testo di riferimento è quello dell’edizione originale pubblicata da Gosselin nel 1832) sono dovute ai seguenti autori: Guido Mazzoni (Prologo, pp. 11-18; Epilogo, pp. 257-260); Alfredo Panzini (I. I Tre avvocati in erba, pp. 19-39); Adolfo Albertazzi (II. Come il re Francesco di Francia ruppe un lungo digiuno, pp. 41-53); Dino Provenzal (III. I buoni discorsi delle monache di Poissy, pp. 55-75); A. F. Formíggini (IV. Come fu costruito il castello d’Azay, pp. 77-99); Giuseppe Lipparini (V. La finta cortigiana, pp. 101-119); Silvio Spaventa Filippi (VI. Il pericolo della semplicità, pp. 121-136); Umberto Fracchia (VII. La troppo cara notte d’amore, pp. 137-153); Gildo Passini (VIII. La predica del giocondo curato di Meudon, pp. 155-176); Corrado Pàvolini (IX. Il sùccubo, pp. 177-241); Guido Biagi (X. Disperanza d’amore, pp. 243-255).

  A p. 6, è presente una lettera dedicatoria del volume a Giosue Borsi, redatta da A. F. Formíggini, che trascriviamo integralmente:

 

  Giosue,

 

  Per solito liquido tutti i miei debiti «a giro di posta»; questa volta invece sono stato moroso per più anni, e ciò che ora ti offro non è che la seconda rata: manca ancora la terza ed ultima a saldo definitivo del nostro strano contratto editoriale. Manca cioè la terza ed ultima decina di questi Contes.

  La prima, che tu avevi iniziata, fu compiuta dal Palazzi; qui trovi dieci penne diverse, alcune veramente illustri di maestri tuoi e miei, tutte degnissime, tranne, naturalmente, la mia ...

  Ma nel cuore di tutti i dieci traduttori e in quello dei dieci artisti che hanno disegnato od incise le illustrazioni, c’è stata la unanime intenzione di onorare nel nome di Balzac, che fu caro a la tua gioconda e pagana giovinezza, la tua nobile, cara memoria di poeta, di soldato, di credente, di purissimo martire ed eroe.

  Il mettere insieme questo volume non è stato facile: concedimi benigna e paziente attesa per l’altro. Intanto, nella luce della tua gloria, conservami il cuore fedele di un tempo lontano come ti ho conservato fedele il mio, e, se i canoni lo consentono, accordami, caro Giosue, la tua benedizione.

 

Tuo aff.

A. F. Formíggini

  1 Ottobre 1924

 

 

  Onorato di Balzac, Illusioni perdute di Onorato di Balzac. I. I due Poeti. Un grand’uomo di provincia a Parigi. II. Un grand’uomo di provincia a Parigi. Eva e David, Milano, Fratelli Treves Editori, 1925 («Biblioteca Amena», N. 758-759), 2 volumi rispettivamente di pp. 315 e 293.

 

 Cfr. 1909; 1917; 1919.

 

 

  Balzac, L’Israelita. Romanzo, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Fratelli Treves), 1925 («Biblioteca Amena», N. 826), Quinto migliaio, pp. 326.

 

 Cfr. 1912; 1919; 1920.

 

 

  Onorato Balzac, Suor Teresa, Firenze, Editore Quattrini Casa Editrice Italiana (Tip. Fiorentina), 1925, pp. 127.

 

  Cfr. 1913; 1920.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 3, 4 Gennaio 1925, p. 2.

 

  Madame Hanska, la polacca che sposò Balzac pur sapendo che al grande poeta non restavano che pochi mesi di vita, è stata di recente difesa da coloro che dubitavano della bontà e del disinteresse della sua devozione, e fra essi da Marcel Bouteron, in un articolo polemico comparso sulla «Revue des deux mondes»[1]. Ora la Revue Hebdomadaire pubblica delle lettere di Madame Hanska dirette a suo fratello[2], le quali spiegano il mistero che, fino ad ora, ha circondato la vita della signora Balzac durante i pochi mesi della sua convivenza col grande uomo. La parte più curiosa di esso riguarda lo snobismo dell’autore della «Commedia umana». Balzac ignorava gli usi e le maniere dell'alta società chiusa alla forza irradiante del suo genio. E una lettera della moglie dice: «Il mio povero amore non ha compreso nulla e fortunatamente per lui non ha sentito il fondo di sarcasmo contenuto nelle cosidette cortesie di cui noi siamo stati colmati». Anche una impertinente risposta di una certa dama non è stata rilevata dal romanziere. La povera signora Hanska vorrebbe fare l’educazione mondana di Balzac, ma non osa. «Egli è, scriveva, come un vero fanciullo». Infatti faceva e diceva delle cose che mettevano spesso in grande imbarazzo la moglie. La quale — benché neghi — sentì forse un giorno diminuire l’amore per lui finché la morte restituì la pace ad entrambi.



  E’ mai esistito “Grandet” di Balzac?, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXXIX, N.° 27, 31 Gennaio 1925, p. 3. 

  L’editore Crès di Parigi pubblica un libro intitolato Le Wagon Fumeur nel quale gli autori Curnonsky e Blenstock hanno riunito una serie di gioconde petites histoires de tous et de personne.

  «C’è in questo libro — scrive Revue Bleue — un documento di primissimo ordine, per la storia letteraria: esso riguarda il capolavoro di Balzac Eugénie Grandt, e si riferirebbe al personaggio della vita. reale che fornì l’ispirazione al romanziere par creare la figura dell’avaro che domina tutto il romanzo.

Narrano dunque i signori Curnonsky e Blenstock che un vecchio abitante di Saumur, il signor Denis Bouchart, si compiaceva di raccontare di essere stato lui a dare al Balzac il modo di conoscere l’individuo che doveva essere il prototipo del père Grandet. Ecco come. Il signor Bouchart, amico di Balzac col quale era stato al collegio Vendôme, ebbe per anni corrispondenza con il romanziere, e in casa si dilettava a raccontare all’amico gli episodi più salienti della vita della sua Saumur, e descriveva a lui i tipi del paese; fra questi uno, il père Niveleau, ebbe il privilegio di un trattamento speciale perché favolosamente ricco e più favolosamente avaro, tanto che la fama della sua incredibile avidità andava da Angers a Tours. Però ad un certo punto parve al Bouchart che l’amico non s’interessasse troppo alla sua corrispondenza, e ciò lo aveva messo un po' di mal umore, quando una bella sera del 1832, Balzac arrivò a Saumur e si presentò in casa dell’amico con questa semplice frase: Vango a conoscere il tuo uomo.

  E lo vide infatti a pranzo dal signor Bouchart, ove il vecchio si era recato con la figlia, non potendo resistere alla gioia di economizzare il pasto per due, sebbene avesse lasciato a casa la moglie morente ...

  Balzac, che era «stato presentato come il signor Morel, mediatore di poderi in cerca di una proprietà da acquistare nei dintorni, sostenne per tutto il pranzo un dialogo serrato d’interessi che appassionava il vecchio avaro. Parevano entusiasti l’uno dell’altro, e Balzac seppe rappresentare così bene la sua parte che père Niveleau disse al Bouchart nel congedarsi: Questo signor Morel è l’uomo d’affari più meraviglioso che io abbia mai incontrato. E me ne intendo io!

  Quando rimasero soli il signor Balzac lasciò libero corso al suo entusiasmo:

  Egli sorpassa tutte le mie speranze — esclamava allegramente — io volevo ripartire domani, ma ho riflettuto bene, e abuso della tua ospitalità per tutta la settimana. La signora Niveleau può morire da un momento all’altro … e sono sicuro che succederà qualche cosa di straordinario.

  E non s’ingannava: la signora Niveleau morì tre giorni dopo esprimendo – presente il prete che le aveva somministrato i sacramenti, il marito, la figlia ed i parenti – la volontà formale di essere seppellita a Nantes, sua città natale, nella tomba dove riposavano i suoi genitori.

  Niveleau a stento aveva contenuto il suo furore; questo desiderio era una specie di vendetta postuma ... Il trasporto con la diligenza — diceva — gli sarebbe costato gli occhi della testa perché a quell’epoca nessuno avrebbe consentito a viaggiare con un morto, e bisognava noleggiare tutta la vettura ...

  Durante tutta la giornata l’avaro cercò il mezzo di conciliare l’economia con il rispetto della volontà della moglie, ormai conosciuta in città e troppo diffusa perché potesse passarci sopra senza squalificarsi per sempre. Scese la notte, ed egli rivendicò l'onore di vegliare solo la morta: invano la figlia lo supplicò di lasciarla vicino a lui: egli le impose di andare a riposare, ed ella obbedì piangendo.

  Non ti affliggere, figlia mia, — disse il Padre Niveleau con un orribile sorriso — ho profittato di un’occasione e tua madre è già in viaggio ...

  La giovinetta cadde svenuta.

  … Suo padre si era inteso con l’impiegato delle pompe funebri, e il cadavere della signora Niveleau, piegato in un baule, era stato spedito e viaggiava come bagaglio tra altri colli!

  Quando arrivò a Nantes, ove doveva svolgersi la cerimonia, il corpo, avendo la rigidità cadaverica, non potè essere riportato alla posizione orizzontale, e dovette essere chiuso in una bara triangolare. Ma Niveleau pagò soltanto il trasporto di un collo! …

  Quando Balzac venne a conoscenza di tutto questo si abbandonò ad una gioia delirante. E’ stupendo. — esclamava — è più grande del naturale!

  Spero — gli disse Bouchart – che questo episodio tremendo ispirerà il più bel capitolo del tuo romanzo!

  Mai — gridò Balzac lasciando cadere sulla spalla dell’amico un pugno formidabile — tu non capisci che cosa è l’arte. Se io scrivessi questo nessuno mi crederebbe; non avrei l’aria di raccontare una cosa vera …, e ciò demolirebbe il mio uomo.

  Balzac aveva ragiono: la verosimiglianza è la prima legge dell’arte, ma i limiti della verosimiglianza si spostano con le generazioni. Nessuno oggi a Saumur ricorda il père Niveleau, mentre il père Grandet vive immortale».

 

 

  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 37, 12 Febbraio 1925, p. 3.

 

  Ai visitatori della casa di Balzac — dice una corrispondenza parigina del Roma — si fa vedere anche la piccola porta nascosta da una tappezzeria, per la quale il povero grande uomo scappava quando un creditore scoperto il suo domicilio, si attaccava al campanello della casa e veniva a turbare il lavoro prodigioso di questo spirito così fecondo e infaticabile. A proposito della piccola porta nascosta si narra che una notte un ladro s’introdusse nello studio. Per una delle solite distrazioni — ed il Balzac era assai distratto, — capacissimo di mangiare per distrazione un pranzo per sei persone e capacissimo anche di scrivere distrattamente, in una notte, un capolavoro — la porta era stata lasciata aperta. Il ladro si dette a frugare nei cassetti della scrivania, allorché echeggiò alle sue spalle una larga risata omerica, e nell’ombra dell'alcova brillarono gli occhi lucenti e la bianca cappa del romanziere. Il ladro, sbigottito dall’apparizione, rimase a bocca aperta; poi fattosi coraggio, raccogliendo i grimaldelli si volse verso il Balzac domandandogli perché c’era tanto da ridere. — Rido — rispose il romanziere — della vostra pretesa di volere cioè trovare al buio nei miei cassetti quello che io non riesco trovare in pieno giorno.

 

 

  Marginalia. Lo spirito di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXX, N. 17, 26 Aprile 1925, p. 3.

 

  Lo spirito di Balzac è documentato da un collaboratore de Les Nouvelles Littéraires,[3] che riferisce alcuni aneddoti intorno al grande scrittore Si racconta che una volta alcuni interlocutori parlando della sua pretesa nobiltà e del suo stemma gentilizio, ebbero a dire che i Balzac d’Entraigues s’ostinavano a non riconoscerlo per parente. A costoro Balzac argutamente rispose: «Tanto peggio per loro!». — Un ammiratore, un giorno, gli faceva larghi elogi per una delle sue opere. «Ah! amico mio», disse il romanziere, «voi siete veramente fortunato di non esserne l’autore!» E siccome il valore delle sue parole non era stato capito, aggiunse: «voi potete dire tutto il bene che ne pensate, mentre io non oso farlo». — Tanto egli s'immedesimava nei personaggi delle sue opere, che qualche volta arrivava a dimenticare per essi il mondo esteriore. Nel 1833, alla vigilia della pubblicazione di «Eugénie Grandet», Jules Sandeau. incontrandosi con Balzac, gli dette notizie della sorella malata Quando ebbe finito, il romanziere, che aveva ascoltato il suo interlocutore con aria disattenta, esclamò: «Tutto ciò è desolante ...», e dopo un momento di silenzio: «E ora, mio caro amico, torniamo alla realtà, parliamo di Eugénie, Grandet». — Ai suoi amici era solito raccomandare la castità come cosa indispensabile a chi deve lavorare. A Dumas figlio, ancor giovane, disse un giorno, sotto le arcate del Palais-Royal: «Ho pesato quello che l’uomo dispensa in una notte d’amore. O giovanotto, ricordatevi bene che non c’è donna che possa valere la pubblicazione di due volumi all'anno». E a Gautier faceva, press’a poco, la stessa raccomandazione con altre parole: «Non vi consento di amoreggiare che per lettera, perché ciò contribuisce a formare lo stile». Anche sulla politica si potrebbe mettere insieme una collezione di curiosi aforismi. A uno dei suoi personaggi Balzac fa dire che un grand'uomo politico deve essere senza scrupoli, altrimenti, la società è mal guidata. «Un uomo politico onesto è come un pilota, che faccia all’amore mentre regge il timone». E aggiunge: «un primo ministro, che s’intasca cento milioni, ma rende la Francia grande e felice, non è preferibile a un ministro dalle mani nette, che trascina nella rovina il suo paese? Fra Richelieu, Mazarino, Potemkin, che si accaparrarono una fortuna favolosa, e il virtuoso Robert Lindet, che non seppe trar partito né dagli assegnati, né dai beni nazionali, o i virtuosi imbecilli che penderono Luigi XVI, nessuno esiterebbe nella scelta».



  Note e appunti. Come si vestiva, «Varietas. Rivista mensile illustrata», Milano, Anno XXII, N. 5, 1° Maggio 1925, p. 333. 

  «L’uomo — scrisse Onorato di Balzac in uno de’ suoi opuscoli sulla psicologia della Moda – si veste prima di agire, di parlare, di camminare, di mangiare...».


 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno 183, N. 165, 14 Giugno 1925, pag. III.

 

 Alcuni amici di Balzac parlavano una volta della sua pretesa nobiltà e del suo stemma gentilizio, e dicevano che i Balzac d’Entraigues s’ostinavano a non riconoscerlo per parente. E Balzac, intervenendo argutamente, disse: «Tanto peggio per loro». Un ammiratore un giorno gli facevo grandi elogi per una delle sue opere. «Ah amico mio — disse il romanziere — voi siete veramente fortunato di non essere l’autore!». E siccome il valore delle sue parole non era stato capito, aggiunse: «Voi potete dire tutto il bene che pensate, mentre io non posso farlo». Egli si immedesimava tanto dei suoi personaggi — dice un collaboratore delle «Nouvelles Littéraires» — che qualche volta arrivava a dimenticare il mondo esteriore. Nel 1833, alla vigilia della pubblicazione di «Eugénie Grandet», Jules Sandeau incontrandosi con Balzac gli dette notizie della sorella malata. Quando ebbe finito, il romanziere, che aveva ascoltato suo amico con aria disattenta, esclamò: «Tutto è desolante ...» poi, dopo un momento di silenzio: «E ora, mio caro amico, torniamo alla realtà: parliamo di Eugénie Grandet». Ai suoi amici era solito raccomandare la castità come cosa indispensabile per chi deve lavorare. A Dumas figlio, ancora giovine, disse un giorno: «O giovinotto, ricordatevi bene che non c’è donna che possa valere la pubblicazione di due volumi all’anno». E a Gauthier (sic) faceva press’a poco la stessa raccomandazione con altre parole: «Non vi consento di amoreggiare che per lettera, perché ciò contribuisce a formare lo stile».



  Onorato di Balzac, «Les Contes drolatiques» (Le sollazzevoli Historie). Seconda decina. Roma, Formiggini, 1925 («Classici del Ridere», N. 51), pp. 256. L. 12., «La Rivista di Bergamo», Bergamo, Anno IV, N. 42, Luglio 1925, pp. 2387-2388.

 

  Quando, speriamo tra non molto, uscirà per le stampe la terza ed ultima decina di questi grassi Contes fatti italici, si potrà dir senza iperbole che all’opera “han posto mano e cielo e terra”: il cielo con l’eroico santo Giosuè Borsi che la iniziò, la terra con ben trentatre fra scrittori ed illustratori! Il primo volume, come è noto, fu tradotto in parte dal Borsi, completato dal Palazzi, ed adornato di gentili figure da Gustavino. A questo secondo han collaborato undici autori e nove pittori: e dovrebbe bastar ciò a richiamar su di esso l’attenzione del pubblico, giacchè antalogie (sic) di tal fatto in Italia non se n’erano più vedute, salvo errore, dalla (sic) versificazioni del Bertoldo in poi. E che antologia! Le penne ed i pennelli chiamati a raccolta han lavorato con un ardore, una coscienza ed un brio indiavolati: e n’è venuto fuori un libro nuovo, un libro italiano che non serba neppur da lontano l’odore fastidioso della versione, ma è tutto fresco e originale; specialmente vario. Ecco le traduzioni maliziosissime, in li[n]gua d’oggi, del Panzini e del Formiggini: e, per contrasto, l’arcaica del Pavolini: ecco la rabelaisiana del Passini, la bandelliana del Lipparini, la rude e scabra del compianto Albertazzi, le argute e rotonde del Provenzal, dello Spaventa Filippi, del Fracchia; le impeccabilissime di quel maestro di bello stile che è il Mazzoni e di quello scrittore signorile e vetusto ch’era il povero Biagi. E con quanto spirito, dal canto loro, hanno dato la vita gli illustratori a quel mondo di ridanciane figure che popola le novelle del Balzac! Piena di buonumore e di sapore la tavola del Galizzi; pervase da un sottil senso decorativo quelle del Guerrini e del Rosso; popolaresco e forte, como sempre il Parigi; vibrato nel chiaroscuro e felice di taglio il legno del Boccolari; elegantissimo il Sensani; bello come un’antica stampa il tocco in penna del Wohlgemuth; spigliati ed efficaci il Gustavino e il Mazzoni.

  Ma une recensione di questo libro eccezionale non può essere che un elenco monotono dei suoi pregi: mentre il suo pregio più alto è proprio quello di non esser monotono.

 

 

  Recensioni. Romanzi e Novelle. Balzac di Onorato, “Les contes drolatiques (Le sollazzevoli Historie)” – Un vol. di pag. 256, Roma, Formiggini, L. 12, «Rivista di letture. Bollettino della Federazione Italiana delle Biblioteche Circolanti», Milano, Anno XXII, N. 7, 1 Luglio 1925, p. 203.

 

  Tradotte dai principali scrittori d’Italia moderni, appaiono questi volumi (il presente è il secondo) di novelle boccaccesche; anche lo stile dei tradut­tori si accomoda alla novella antica. E della novella boccaccesca questi racconti hanno l’intreccio, l’e­quivoco osceno, il parlare di grassa sensualità che si diletta di ridere di persone e di cose sacre. Del Balzac sono all’Indice tutte le «favole amatorie» e queste crediamo possano tenere il primo posto.

 

 

  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 161, 8 Luglio 1925, p. 3.

 

  Ma a cominciare da Balzac il limite ultimo della giovinezza si è spostato nel romanzo. Il grande scrittore trovò che un’eroina trentenne od anche quasi quarantenne, può formare un personaggio capace di covare nel suo cuore le più passionali fiamme ed abbandonarsi ad interessanti vicende. Un simile ringiovanimento operato senza cura Voronoff è forse la chiave di volta per spiegare l’enorme successo femminile delle opere di Balzac, che a tutta prima sembrano costruite con elementi poco assimilabili dalla donna. L’esempio di Balzac è stato poi seguito da altri e sempre con successo.

 

 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 194, 15 Agosto 1925, p. 2.

 

  Il Club [delle donne brutte] si prefigge diversi scopi: partendo dal presupposto — accettato comunemente — che la donna brutta ha molto più spirito ed intelligenza della bella, si dovrà arricchire lo spirito con altri elementi (eleganza, buon gusto, soavità di modi e di voce, incanto intellettuale, ecc.) così da poter competere vantaggiosamente con la vera bellezza fisica. Assicurano le fondatrici che la donna così preparata sarà doppiamente pericolosa: è sempre vero quello che già asseriva Balzac: «se una donna brutta si fa amare, essa si farà amare perdutamente».

 

 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 278, 23 Novembre 1925, p. 3.

 

  A proposito del centenario di Paul de Saint-Victor, Les Marges riferiscono alcuni passi del «Journal des Goncourt» che riguardano certe affinità del Saint-Victor col Flaubert. Alla data 11 marzo 1863, ecco il racconto d’un pranzo durante il quale Neftger dichiara la sua ammirazione per Balzac, ch’egli colloca al primo posto fra gli scrittori di tutti i tempi: «Il bello è semplice — replica Saint-Victor — e non v’ha nulla di più bello dei sentimenti d’Omero, eternamente giovane ...» — «Non per me esclama Edmondo de Goncourt. — Il vostro Omero non dipinge che sofferenze fisiche. Dipingere le sofferenze morali, è ben più difficile ... E lasciate che ve lo dica, il meno riuscito romanzo psicologico mi commuove più di tutto il vostro Omero. Sì, io leggo con maggior piacerò «Adolfo» dell'«Iliade».

 

 

  Un centro di vita intellettuale nel tempio della vecchia Parigi mondana, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 304, 23 Dicembre 1925, p. 3.

 

  Riuscirà la nuova trasformazione a ridar vita al Palais? A ridargli l’animazione che esso aveva quando — come dice Balzac in una descrizione celebre — «non trovavate là che dei librai, della poesia, della politica e della prosa, dei mercanti di mode e delle ragazze allegre»?



  Variazioni sullo stile, «Almanacco letterario 1925», Milano-Roma, Edizioni Mondadori, 1925, p. 205.

 

  Un giorno un celebre editore [Formíggini] offrì ad un noto critico [F. Palazzi] di condurre a termine la traduzione del primo tomo dei Contes drôlatiques di Balzac, incominciata alcuni anni avanti ed interrotta ai primi due racconti da un giovane poeta gloriosamente morto in guerra [G. Borsi]. […].

 

 

  Agosto, «Almanacco letterario 1925», Milano-Roma, Edizioni Mondadori, 1925, pp. 228-230.

 

  p. 229. 18. – Settantacinquesimo anniversario della morte di Onorato di Balzac, celebre romanziere (1850).

 

 

  A. G., Per le vie della storia. Il fascino di Napoleone, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 15, 17 Gennaio 1925, p. 3.

 

  Un coro solo di ammirazione si levava; e, morto lui, i corifei, grandissimi, si chiamavano Byron, Manzoni, Heine, Hugo. Béranger. Stendhal, Delavigne, de Vigny, Balzac.

 

 

  Franco Antonicelli, Il Teatro di Anton Cèkhov, «La Parola. Rassegna mensile di Conferenze e Prolusioni», Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Anno XVIII (2° della Nuova Serie), N. 4, Aprile 1925, pp. 106-115.

 

  p. 114. [Dal II atto delle Tre Sorelle].

 

Mascia

 

  Gogol l’ha detto: «Gran seccatura, vivere in questo mondo, signori miei! ...».

 

Tuzenbach.

 

  E io dirò: difficile, discutere con voi, signori miei! Che Dio vi benedica! ...

 

Cebutichin (leggendo il giornale).

 

  Balzac si ammoglia a Berdicef.

 

Irina (canterella piano).

 

Cebutichin.

 

  Questo bisogna che lo noti nel taccuino (scrive): Balzac si ammogliò a Berdicef (continua a leggere il giornale).



  Enrico Bevilacqua, Gerolamo Rovetta e la sua famiglia materna. Appunti e ricordi (con 11 illustrazioni fuori testo), Firenze, Felice Le Monnier Editore, 1925.

 

  pp. 131-132 e nota (1). Le più robuste, le più omogenee opere del Rovetta restan quelle, pur sempre, che non san che farsene, o quasi. Così Baraonda; così Lagrime del prossimo; il cui autore — con iperbole ben generosa in un Francese (1) — per l’appunto da un Francese doveva, in corta guisa, paragonarsi a un Balzac.

 

  Nota (1). Paul Hazard, loc. cit. [cfr. Gerolamo Rovetta d’après une récente publication, «Revue des Deux Mondes», 16 janvier 1911], pp. 418-19. Ecco le sue parole: «Balzac, traitant les mêmes sujets, a laissé des analyses plus profondes : il n’a pas écrit d’œuvre qu’un mouvement aussi brutal emporte d’un bout à l’autre, et qui donne mieux l’impression d’une puissance effrénée. Cette seule constatation suffit à en établir la valeur».



  Cesare Botti, Notizie bibliografiche. Letterature straniere in Italia. Onorato di Balzac. «Les Contes drolatiques» (Le sollazzevoli Historie). Seconda decina. Roma, Formíggini, 1925 («Classici del Ridere», N. 51), pp. 256. L. 12, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno VIII, N. 6, Giugno 1925, pp. 119-120.

 

  Quando, speriamo tra non molto, uscirà per le stampe la terza ed ultima decina di questi grassi Contes fatti italiani, si potrà dir senza iperbole che all’opera «han posto mano e cielo e terra»: il cielo, con l’eroico santo Giosuè Borsi che la iniziò, la terra con ben trentatre fra scrittori ed illustratori! Il primo volume, come è noto, fu tradotto in parte dal Borsi, completato dal Palazzi, ed adornato di gentili figure da Gustavino. A questo secondo han collaborato undici autori e nove pittori: e dovrebbe bastar ciò a richiamar su di esso l’attenzione del pubblico, giacché antologie di tal fatta in Italia non se n’erano più vedute, salvo errore, dalla versificazione del Bertoldo in poi. E che antologia! Le penne ed i pennelli chiamati a raccolta han lavorato con un ardore, una coscienza ed un brio indiavolati: e n’è venuto fuori un libro nuovo, un libro italiano, che non serba neppur da lontano l’odore fastidioso della versione, ma è tutto fresco ed originale; specialmente vario. Ecco le traduzioni maliziosissime, in lingua d’oggi, del Panzini e del Formíggini; e, per contrasto, l’arcaica del Pavolini; ecco la rabelaisiana del Passini, la bandelliana del Lipparini, la rude e scabra del compianto Albertazzi, le argute e rotonde del Provenzal, dello Spaventa Filippi, del Fracchia; le impeccabilissime di quel maestro di bello stile che è il Mazzoni e di quello scrittore signorile e venusto ch’era il povero Biagi. E con quanto spirito, dal canto loro, hanno dato vita gli illustratori a quel mondo di ridanciane figure che popolo le novelle del Balzac! Piena di buonumore e di sapore la tavola del Galizzi; pervase da un sottil senso decorativo quelle del Guerrini e del Rosso; popolaresco e forte, come sempre, il Parigi; vibrato nel chiaroscuro e felice di taglio il legno del Boccolari; elegantissimo il Sensani; bello come un’antica stampa il tocco in penna del Wohlgemuth; spigliati ed efficaci il Gustavino e il Mazzoni.

  Ma una recensione di questo libro eccezionale non può essere che un elenco monotono dei suoi pregi: mentre il suo pregio più alto è proprio quello di non esser monotono. Compratelo dunque, leggetelo, e divertitevi.

 

 

  P. C., Il tesoro letterario di un russo bizzarro conteso a Parigi da zaristi e Soviet, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 74, 27 Marzo 1925, pp. 3 e 6.

 

  Il vecchio Oneghin non usciva mai di casa da vari decenni, se non per andare a prendersi un giornale all’angolo della strada, e l’unica persona con la quale scambiasse qualche parola era il portinaio che gli faceva le magre spese quotidiane. Era un anacoreta in pieno secolo e in pieno centro di eleganze parigine, un personaggio degno di Balzac e di Anatole France.

 

 

  P. C., Corriere teatrale. Pirandello simpaticamente ricevuto dalla Società degli autori francese, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 164, 11 Luglio 1925, p. 3.

 

  Nel giardino, i cui alberi secolari furono generosi di ombra a Balzac, era stata eretta una tenda per i rinfreschi, ed al momento dei brindisi il commediografo Andrea Rivoire, già critico drammatico del Temps ed ora presidente della Società degli autori al posto del marchese Roberto De Flers — il quale assisteva al ricevimento — ha rivolto a Pirandello un saluto pieno di ammirazione e di simpatia, notando fra parentesi come nessun autore francese ha mai avuto in questi ultimi anni la fortuna toccata a Pirandello di occupare contemporaneamente parecchie scene parigine.



  I Cambusieri, Cambusa. Double face, «La Fiera letteraria. Giornale letterario di lettere scienze ed arti», Milano, Anno I, N. 3, 27 Dicembre 1925, p. 2.

 

  «Balzac non è come Flaubert. Differenza di temperamento. Flaubert è un equilibrato e un ragionatore; Balzac è un istintivo che obbedisce all’impulso. La psicologia di Flaubert non ha aritmie. È chiara e definita. La psicologia di Balzac è complessa, fatta di turbamenti, di esaltazioni, di abbandono, di frenesie. Balzac è certo l’artista di razza. Le cose più lievi possono annientarlo. Le cose più lievi possono dargli una baldanza sublime».

  Questo bel pezzo letterario è comparso sulla Gazzetta dello Sport del 17 dicembre, a firma Adolfo Cotronei. A vero dire, ci siamo permessi qualche lieve cambiamento nei nomi delle persone: al posto di Balzac era detto Aldo, e al posto di Flaubert era detto Nedo. E tutti e due erano i fratelli Nadi, schermidori. Le osservazioni di cui sopra andavano alla scherma, della quale i due fratelli sono eccezionali campioni e, dicono i competenti, sono azzeccatissime. Ma guardate un po’, con un semplice giro di chiave, come il pezzo è azzeccatissimo anche nei riguardi di Flaubert e di Balzac!

  C’è bisogno di tirare le conseguenze?

 

 

  Filippo Carli, Introduzione alla sociologia generale, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1925.

 

  p. 49. Certo l’artista è, come dice Sainte-Beuve, «le porte-étendard et le porte-voix, l’assembleur d’une quantité de sentiments et de pensées qui flottaient et circulaient autour de lui»; di nessuno più che di Balzac si può affermare ciò; ma quale genio è Balzac! Del pari Dante ha preso numerosi elementi dell’ambiente sociale; una cosa sola gli appartiene: il suo genio.

 

 

  Emilio Cecchi, Cuori e quadri. D’Annunzio giovane: “tuo per sempre”, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 273, 20 Dicembre 192, p. 3.

 

  A parte ogni altro pregio, mirabili lettere anche dal solo punto di vista del Balzac. Che agli scrittori inibiva ogni distrazione, fuorché di vergare epistole d'amore, persuaso che aiutassero a tener esercitata la mano e la fantasia, o a conquistarsi uno stile.

 

 

  Giacomo Debenedetti, Proust, «Il Baretti», Torino, Anno II, N. 6-7, Aprile 1925, pp. 25-26.

 

  p. 25. Per tentare di intenderci rapidamente, diciamo che Proust ammette di essere quintessenziato in una certa musica continua, in un riconoscibile tono, nel quale tutto il suo romanzo è sommerso. Un vero «tono Proust». Che si rivela attraverso qualsiasi frammento: non si esaurisce in alcuno. Ed esercita suggestioni così imperiose, che vien fatto di attribuirgli un'esistenza suo propria: staccata, astratta ed oggettiva. Basterebbe, in proposito, ricordare la strana necessità a cui soggiace chiunque rievochi un tratto della Recherche. Se volesse rammentare un episodio di Balzac o di Dostojewskji, costui si contenterebbe di fornircene un riassunto […].



  Donna Paola, La bellezza al centimetro, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”», Roma, Anno XV, N. 3, 1 Marzo 1925, pp. 188-200.

  p. 193. Balzac: — La bellezza è il genio delle cose. Essa è l’insegna che la Natura ha posto anche sulle sue creazioni più perfette. E’ il più vero dei simboli come è il più grande dei casi.


  Enrico Ferri, Difese penali. Studi di giurisprudenza penale. Arringhe civili. Terza edizione riveduta ed aumentata. Volume primo. Difese penali. I ribelli – Gli ammonitori, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1925.

  p. 467. Balzac, il grande osservatore dantesco della “Commedia umana”, fa dire a Vautrin, uno dei suoi immortali personaggi: bisogna distinguere i ladri: c’è il ladro ingenuo che porta via il portafogli dalla tasca della vittima, e finisce in prigione; c’è il ladro abile, intellettuale, che specula e arricchisce col denaro altrui, con la miseria altrui; la nostra società non lo chiama ladro, lo chiama magari … commendatore.


  Amedeo Gigliotti D’Andrea, Teodoro di Bainville (sic), Noi e il Mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”», Roma, Anno XV, N. 9, 1 Settembre 1925, pp. 593-597.

  p. 595. Nel 1858 fu fatto Cavaliere della Legione d’onore, ma bussò invano, al pari di Balzac, alle porte dell’Accademia.

  Per circa mezzo secolo. Bainville visse per le lettere e in mezzo ai letterati. Pranzava con Victor Hugo alla «Conciergerie»; per lunghi anni visse in istretta amicizia con Teofilo Gautier […]; conobbe molto da vicino Balzac; […] fu assiduo sul Boulevard Montparnasse, del “Cabaret de mère Cadet” che, grazie a Balzac, passò alla storia; […].


 Lorenzo Giusso, La Bohème di Balzac, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno 183, N. 198, 17 Luglio 1925, pag. III.

 

 Chi non ricorda gli arrivisti di Balzac? Nella stupenda galleria umana dipinta dall’autore della «Comédie Humaine», sono forse le figure più impressionanti questi giovani pallidi, questi sognatori inquieti, questi tenaci ambiziosi che convertono lungo i boulevard della grande Parigi, le loro chimere bramose in realtà scintillanti! Eugenio de Rastignac, o Cunalis (sic), Honoré Bianchon o Lucien de Rutempié (sic): è sempre la stessa razza meravigliosa di esseri elastici, di giovani ambiziosi e tenaci, di amatori d’avventure, che dopo avere sfiorato infinite volte la follia o il suicidio, trovano finalmente la scala di seta. Quell’Eugenio de Rastignac quante tristezze conosce nella sua brutta camera della pensione Vacherot (sic), frequentata da commercianti loschi e da zitelle brontolone, da artisti falliti e da nobili spiantati! E Canalis, non pensa forse al suicidio da cui lo trattiene soltanto la parola possente di Vautrin! (? sic) Dopo avere oscillato fra il suicidio e la fame, tra lo squallore e la disperazione, questi esseri febbrili giungono alla conquista della gloria e della fortuna.

 Oggi sappiamo che Balzac nello svolgere le loro possenti figure ha scolpito un poco anche il suo autoritratto.

 La vita di Balzac manca di quelle comode scalee di marmo, di quei riposanti viali fioriti che condussero in alto, (per restare nell’ultimo ruolo), Goethe e De Musset, Byron e Manzoni. La vita di Balzac è scabrosa e romita. Il grande successo del romanziere europeo, cominciato nella piena maturità, non deve far dimenticare gli esori dolorosi e bohémiens della sua prima gioventù. Tutti gli ostacoli tradizionali che vengono a sbarrare la strada al genio e tentarono di arrestarne la marcia vittoriosa, si presentarono di fronte a Balzac: la povertà e la solitudine, la sfiducia degli editori e l’indifferenza del pubblico. E’ vero che Balzac rovesciò tutti gli ostacoli, e vinse tutte le resistenze. Ma non gli furono purtroppo risparmiate né le amarezze né le ingiustizie con tutto il corteo di illusioni perdute che accompagnano i giovani autori in cerca di gloria e di editori per le camere mobiliate e per le trattorie di terz’ordine, per i foyers dei teatri e per le redazioni dei giornali.

 Lo troviamo nel 1819 in piena lotta con la sua famiglia, una famiglia burocratica e pantofolaia della Restaurazione. La vocazione letteraria è già scoppiata irresistibile, e notaio, come vorrebbe suo padre, il giovane non sarà mai. «La stampa è destinata a governare il mondo» dichiara con autorità ai suoi genitori atterriti da queste resistenze avveniristiche. Contrasti, litigi, urti melodrammatici si concludono colla partenza di Honoré che va a Parigi con una piccolissima pensione e col compito di fabbricarsi in due anni la gloria. E Honoré parte.

 Lo troviamo a Parigi, arrivista febbrile e feroce, col cervello scoppiante di fantasie e con le tasche sguarnite di denari, in una cameretta in via Beaumarchais. Si nutre francescanamente, si ubriaca di caffè e di fantasia. Il suo genio è costretto a gemere fra le strettoie di un magrissimo bilancio come ne fa fede questo conto, forse settimanale: carne 1,50, pane 1,20, caffè 0,80, gelati 1,50; totale L. 5. Ancora più umiliata è la sua vanità di dovere rinunziare ad una camicia di lusso o a un abito impeccabilmente tagliato. E la gloria? E la gloria non bussa alla sua porta; per trovare un editore deve associarsi nella sua fatica creativa a un candidato infelice alla celebrità, Portevin de l’Agreville (sic). Pratica già da quel tempo superbamente titanica: Balzac affastella romanzi storici, visibilmente influenzati da Walter Scott, lontani dal suo genio, ma conformi alla moda dei tempi. Romanzi fantasiosi, carichi di avventure e malinconicissimi, proiettati su sfondi bizzarri, in terre pittoresche: Napoli e la Sicilia, Venezia e l’isola di Cipro. Opere poco vitali, tutte ingombre dello scenario romantico: fughe e rapimenti, intrighi tenebrosi e congiure, colpi di spada e tornei spettacolosi, reggie e prigioni, scheletri e fantasmi, maschere impenetrabili e domini fatali. Quasi nessuno di questi romanzi ha sopravvissuto: chi parla più oggi di Clotilde de Lusignan o degli (sic) Erreurs philosophiques, chi parla più di Wann-Chlore, del Centenaire, del Vicaire des Ardennes?

 Il successo venne qualche volta a visitare Balzac: più spesso venne a visitarlo la penuria.

 Dopo l’insuccesso di uno di questi romanzi, il Wann-Chlore, quest’uomo vulcanico e insostenibile ebbe un momento di esitazione. L’arte pura non andava; andava forse meglio l’impuro commercio. Comprò una tipografia, intraprese una casa editrice, si gettò a speculazioni costose e di nessun successo. Figurarsi un uomo come Balzac, travolto perpetuamente da un incontenibile gorgo creativo, occupato a tenere in ordine dei registri, a concordare dei preventivi, a regolare delle partite! L’impresa editoriale andò a rotoli, ingoiando le economie di Balzac, quelle della sua famiglia e perfino i generosi prestiti della contessa di Berny, e compromettendo per sempre la serenità avvenire del romanziere. E Balzac dovette apprendere così, fra le lunghe persecuzioni dei suoi editori e gli spasmi delle implacabili scadenze, come il mestiere di stampare dei libri sia più complicato di quello di scriverli.

 In questi anni della sua triste-allegra bohème, Balzac ebbe una squisita consolatrice.

 Le squisite eroine che Balzac collocò sopra troni così alti di estasi e di passione, le pallide e perlacee contesse della Restaurazione, le divinità dei salotti parigini – M.me d’Espard o M.me de Mortsant (sic), M.me de Sérizy – hanno avuto il loro originale vivente nella contessa di Berny, che fu in quegli anni la sua amante. Rileggendo le pagine di Le Lis (sic) dans la Vallée, quegli ardori celesti e quei furibondi slanci di passione sono stati fotografati, diciamo così, dal vero. Il connubio inevitabile fra il genio nascente e la donna bella sul tramonto li strinse in un circolo di fascino. «M.me de Berny – scrive Balzac – è stata mia mare, è stata un Dio per me, è stata un amico, un consiglio, una famiglia. Per qualche anno della mia vita essa è venuta, come un Dio benefico, ad addormentare i miei dolori». Più tardi altre donne faranno piegare di desiderio la fronte altera di Balzac; altre donne lo irretiranno, come M.me d’Amantis (sic), o la signora Hanska. Ma M.me de Berny fu per lui ciò che la signora di Warens seppe essere per Rousseau: l’iniziatrice, la Dilecta, l’Unica. Nessun altro amore può avere la freschezza mattinale della prima passione.

 Con Les Cronans (sic) editi nel 1888 (sic!), la Bohème di Balzac è finita. E quella gloria sembra conquistata per sempre.


  Vittorio Guerriero, Il teatro dove si pugnala di più, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”», Roma, Anno XV, N. 8, 1 Agosto 1925, pp. 555-559.

  p. 559. Tutto un meraviglioso campionario di tipi in attesa o di un Balzac che riviva o di una matita che li fissi sui fogli di carta fabriano.

 

 

  Gulliver, Le Films del giorno. Note critiche. “La Duchessa di Langeais” (First National), «La Rivista Cinematografica», Torino, Anno VI, N. 3, 15 Febbraio 1925, p. 23.

 

  Cinema Ghersi.

 

  Il metodo di guardare acquisito da Onorato di Balzac con una esperienza e profonda genialità, riconosciutagli da Oscar Wilde, presenta pure in questo lavoro la sua caratteristica e la sua esplicazione. Lo spunto potremmo ricercarlo in uno di quei tanti aforismi che costellano la sua Commedia umana, ma nella sua vasta produzione non troveremmo una figura consimile che il genio di Balzac ha saputo affermare distanziandosi i più vari e opposti concetti.

  Analizzatore perspicace poi dell’anima femminile, pittore di costumi, di piccole e grandi miserie, egli nella duchessa di Langeais abbandona uno dei suoi temi preferiti: il danaro, per trascegliere solo la passione: passione ambiziosa prima, irrompente, travolgente, poi. La duchessa che manteneva il suo corpo e la sua anima casti ad una sfida del marito oppone la sua nuova vita frivola, fatta di seduzione e di coquetteries finchè ella stessa è vittima del suo giuoco e perdutamente s’innamora dell’uomo che l’aveva fino allora divertita. Ma il dramma non è solo qui. È in tutta la sfumatura psicologica che permette di penetrare fin nei precordi l’anima della donna, di estendersi nei meandri di questa strana sensibilità, nella progressione, nei passaggi, negli sbalzi psicologici che compie e che ne illuminano la caratteristica. Il succedersi degli avvenimenti sembra preordinato dalla volontà della donna o dal destino così da richiamare la leggenda greca delle Parche che tessono tessono la trama bizzarra finchè il filo si spezza e una nuova vita diversa opposta si inizia. E come nella prima parte il bisturi dello psicologo si è affondato così ora penetra nelle carni martoriate aumentando l’attrattiva e la suggestione. Analisi acuta che, secondo il costume di Balzac, è indirizzata ad affastellare una grande quantità di sensazioni pur contenendosi in una cerchia ristretta di movimento, analisi che fa convergere pennellate decise e sapienti, sfumature e scorci verso una intenzione dominante che è come il nucleo del dramma.

  A questa suprema espressione artistica concorrono oltre i personaggi principali le figure secondarie aventi tutte una loro mansione caratteristica sia a scopo di distribuire tonalità sentimentali, comiche e drammatiche, sia per illuminare i protagonisti. Il tutto concorre a formare quell’euritmia classica che distinguono le opere veramente d’arte.

  La cinematografia ha potuto seguire questi intendimenti nella rievocazione ambientale e storica, nella pittura dei personaggi e nello spirito dell’opera. Avremmo desiderato qualche tenuità maggiore in alcune scene, ciò che avrebbe dato un maggior risalto ad episodi capitali, ma nel suo complesso è ben degno del lavoro balzachiano. Perciò non possiamo che lodare ed apprezzare la nobile fatica che ci dà agio di ammirare una eccellente produzione.

 

 

  Ettore Janni, Una Mimì panziniana, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 205, 29 Agosto 1925, p. 3.

 

  Ma per Serafino ci vuole un capolavoro o quasi: se non la pietra statuaria di Balzac, un vigore anatomico che rilevi il tipo nella verità afosa di tutti i giorni. Alfredo Panzini lo ha messo invece, dietro la figuretta della sua Mimì, come uno di quegli scenarii che i fotografi dispongono alle spalle del cliente.

 

 

  Ettore Lo Gatto, V. S. Reymont nell’opera e nei critici, «L’Europa Orientale. Rivista mensile pubblicata a cura dell’Istituto per l’Europa Orientale», Roma, Anno V, N. I, 31 Gennaio 1925, pp. 63-74; cfr. anche: Studi di letterature slave. Volume primo, Roma, Anonima Editoriale Romana, 1925, pp. 52, 57, 60.

 

  p. 64. Il quadro della trasformazione a cui tutta la Polonia è soggetta ci mostra i focolari cittadini in un così rapido sviluppo, che ricorda quello analogo dell’America; nelle fiamme turbinanti di questi focolari si muovono gli uomini nuovi che si tagliano faticosamente e arditamente la strada e ricordano, come dice il Potocki, l’epoca susseguente alla rivoluzione francese, in cui Balzac potè trovare i suoi Rastignac, Vautrin, Grandet, ecc.: tutta una leva in massa di appetiti, di sacrifici, di ambizioni, di macchinazioni, di dure fatiche, di rapide camere, che era la conseguenza inevitabile della trasformazione della nazione agricola e rurale in industriale e cittadina, e della trasformazione della nobiltà e della casta in democrazia […].

  p. 69. La fonte comune al Reymont e a D’Annunzio potrebbe anche essere Maupassant, ma non so se qualche critico polacco vi abbia pensato; il Potocki si rifà a Balzac, altri anche a Zola, ma sarebbe assai pericoloso insistere in simili confronti, e il Potocki risale a Balzac piuttosto per spiegare come le singole parti dell’opera totale dello scrittore non sembrano appartenere da principio ad un unico organo da cui risultano poi invece inseparabili perché il nome di questo tutto è vita. In Reymont si può osservare qualche cosa di simile. Anche «La morte» può essere considerato da questo punto di vista come altri racconti dell'attività anteriore al capolavoro. Merita di esser segnalato qui un altro punto in cui il Potocki ritiene che Reymont si incontri con Balzac: la tendenza cioè ad ingigantire ogni persona ed ogni sua caratteristica, il dono cioè di trattare decorativamente, a grandi linee, non adatte per la piccola distanza e per le dimensioni minuscole, indispensabili nelle grandi visioni prospettiche. Ma sono osservazioni a posteriori, come del resto anche il critico ammette quando constata che il processo, cui egli accenna, è possibile dopo quindici anni di attività dello scrittore, sopratutto dopo la pubblicazione dei «Contadini».

  p. 71. Il Potocki osserva ancora, sempre a proposito dell'epicità reymontiana, che diversamente dai poeti epici che cantano un eroe la cui storia è chiusa tra la culla e la tomba, lo scrittore polacco, come già Balzac, ha scelto un eroe che cresce con lui: l'umanità contemporanea.

 

 

  Pippo Magri Lopez, Cronaca degli spettacoli. Da Siracusa, «La Rivista Cinematografica», Torino, Anno VI, N. 22, 30 Novembre 1925, p. 32.

 

  La commedia umana. – Con Alice Terry e Rodolfo Valentino. Questo lavoro è tratto dal notissimo romanzo omonimo (sic) del grande Balzac. Alice Terry e l’attore che interpreta la parte del padre avaro [Grandet], che oltre l’oro non conosce né affetti né passioni, si fanno apprezzare per la loro interpretazione. […].

 

 

  Arturo Martuscelli, Francesco D’Alessio, «La Basilicata nel mondo», Anno II, N. 7, Novembre-Dicembre 1925, pp. 345-349.

 

  p. 345. L’uomo onesto è il nemico comune, diceva quel grande creatore di tipi umani che si chiama Onorato de Balzac […].

 

 

  Paolo Monelli, La donna di cinquant’anni, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 22, 25 Gennaio 1925, p. 3.

 

  Balzac osò per primo introdurre nella letteratura gli amori della donna di trent’anni, tirando via resolutamente dal primo piano l’eterna ventenne. Poi vennero altri scrittori che prolungarono di dieci anni quel termine critico e narrarono della donna di quarant’anni e della sua crisi autunnale.

 

 

  Curio Mortari, L’amante slava, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 61, 12 Marzo 1925, p. 3.

 

  Si riparla di fascino slavo. La frase è ormai consacrata nelle appendici, ma il fenomeno della femminilità orientale emigrata fra noi, non è perciò meno evidente e significativo. Questa migrazione dall’Est è un frutto del dopoguerra. Per il crollo di due imperi, il russo e l’austro-ungarico, attraverso l’enorme frontiera fratturata che va da Riga a Braila, grandi slave e piccole slave, bionde abbaglianti e bruna corvine, ròsee o ambrato ci sono piovute copiosamente. Cacciate dai nuovi regimi o dalla miseria, attratte dai miraggi del cambio o della avventura occidentale, le capziose donne hanno portato ai vincitori, come già le greche ai romani, le arti, le maniere, le raffinatezze, gli amori e i colori d’altri climi: il bene e il male della loro femminilità densa, elastica e sfuggevole. Nomadismo atavico; aureole e misteri d'esilio, mistificazioni ed equivoci, drammi veri e tragedie posticce, elisiri e tòssici costituiscono la cangevole esportazione di queste strane viaggiatrici, alle quali dobbiamo comunque la nostra rapida sprovincializzazione e una gratitudine estetica. Mi perdonino le donne occidentali. Ogni epoca ha il suo stile romantico. Oggi è lo stile slavo che impera. L’amante fantasiosa, l’amante da romanzo non può essere che una artista di teatri imperiali, una danzatrice di balletti o una principessa-barista. Verrà forse, un giorno, il turno delle cinesi, delle indiane, delle malesi e, fors’anche, delle neo-zelandesi.

 

***

 

  Senonchè la moda della donna slava, che sembra caratteristica del secolo ventesimo, è nata in realtà nel decimonono, per merito di Balzac. Senza dubbio ai tempi di Onorato l'’semplare femminile dell’Est era assai raro ed aveva un sapore collezionistico. E poi date le manìe araldiche che per tutta la vita ossessionarono il meraviglioso fanciullone, l’amante slava non poteva essere che una duchessa, o giù di lì. Lo snob che aveva appiccicato al proprio cognome il disgraziato «de» che farebbe sorridere oggi un tenore d'operette; il romanziere che aveva scritto la «Duchessa di Langeais» non si sarebbe mai adattato a collocare un grande amore nella figlia d’un drappiere o nella vedova d’un generale di Re Chiappini. Ci voleva una titolata, che, per l’inevitabile mistero, apparisse anche avvolta nelle azzurre nebbie sarmatiche. Così forse nacque in quest’uomo (al quale il blasone del genio non sembrava bastare) questa illustre passione per la contessa Hanska o, se volete meglio, contessa Rzwuski (sic). Certo la Straniera aggiungeva al proprio titolo uno chic esotico e probabilmente una distinzione che le bacate connestabili del sobborgo di San Germano non vantavano più. Duplice fascino, quindi. E c’è da chiedersi se, da principio, Balzac. si sia innamorato più che d’una slava, delle nove palline della sua corona. L’amore fiammeggiò nel romanziere dal 1833 al 1850: diciassette anni. Fu ricambiato? I tardivi sponsali di Balzac con la Hanska, precedendo di pochi mesi la morte di lui, non proverebbero nulla. Il quesito, armato di documenti nuovi, risorgo oggi, dopo le polemiche le critiche e i pettegolezzi fioriti intorno alla tomba del romanziere, ma più ancora intorno ai dubbii origlieri della donna che il povero grande aveva perdutamente amata, facendone la luce e il miraggio di tutta la sua vita.

 

***

 

  La questione appare dibattuta, in questa ultimi tempi, fra due schiere di balzachiani: gli esaltatori e i critici della contessa Hanska. In nome dei primi aveva alzato la voce poco più d’un mese fa, nella Revue des deux Mondes, Marcello Bouteron del quale nessuno contesta l'autorità balzachiana. Il Bouteron deplorava che la signora Hanska avesse dato al grande di cui-portava il nome successori come Champfleury e Gigoux, uomini di terzo piano; ma sosteneva al tempo stesso che il fatto non infirmava il grande amore della polacca per Balzac. Nella schiera opposta si distinguevano invece le voci di Paolo Souday e di Enrico Bordeaux, i quali non si mostravano convertiti dalla calda apologia del Bouteron. La pubblicazione dell'epistolario che la Hanska ebbe col fratello Adamo Rzwuski dal 1833 al 1850, epistolario pubblicato recentemente nella Revue Hebdomadaire con firma della principessa Radziwill, parve a un tratto schiarire il ciclo della polemica e irradiare di nuova luce la figura della contessa slava. E a questa riabilitazione della signora Rzwuski-Balzac sembra mettere ora un fausto suggello lo studioso Ernesto Seillière, sulle Nouvelles Littéraires.[4] Senonchè, analizzando i passi più significativi di questo epistolario, non sembra che la contessa Hanska vi faccia (con tutto il rispetto poi signor Seillière dell’Istituto) una figura da apologia. Il grande cuore della signora Hanska appare sì, in questo epistolario, ma simile a quello della Célimene baudeleriana, coriaceo e affumicato come un vecchio giambone. Questa signora troppo signora mostra la più grande distinzione, le più affabili maniere e una coltura spettacolosa; discute di lettere e di filosofia, analizza e giudica con una intelligenza sorprendente e molte volte superiore; ma io non oserei giurare sulla passione dei suoi scritti e sulla sincerità delle sue proteste amorose. La signora Hanska avverte, è vero, la temperatura e la vampa balzachiana, ma cerca il paravento. Questa donna è una smagliante sintesi di freddezza e di buona educazione: ostenta pietre preziose, non accenti d’amore. Si possono gettare dei brillanti in un vulcano! Così si comprende come la contessa Hanska non intenda gettare le proprie grazie nel vulcano balzachiano o gettarle, se mai, il giorno in cui il vulcano sarà spento o quasi. Il Seillière, procedendo con encomiabile delicatezza, distingue in questo epistolario tre aspetti della personalità di madama Hanska: 1.o) la signora Hanska critica di Balzac letterato; 2.o) la signora Hanska, critica di Balzac uomo; 3.o) la signora Hanska furiosamente innamorata del letterato e dell’uomo. Il trapasso dai primi due punti al terzo è violentissimo direi quasi inverosimile. Sono veri i primi due aspetti o è vero il terzo? Propendo per la verità dei primi due. Non si passa dal polo all'equatore con un salto e allora non c'erano aeroplani. Ad ogni modo la signora Hanska, fosse pur decisa al transito tropicale, cioè al matrimonio con Balzac, voleva cuocere, ma a lento fuoco. Psicologia da egoista. Questa cara signora che criticando la «Duchessa di Langeais» considerava strane assurdità le incandescenti esuberanze del genio, poteva scrivendo al fratello annotare questa meschinità su Balzac uomo:

 

  «Ho fatto finalmente la conoscenza di Balzac. Tu mi hai predetto sempre, se ti ricordi, che egli avrebbe mangiato col coltello e si sarebbe forbito col tovagliolo. Ebbene, se egli non ha affatto commesso quest'ultimo crimine, si è reso invece colpevole del primo...».

 

  Passiamo sopra l’educata imbecillità di questo conte Adamo che vede Balzac fra un coltellino e un tovagliolo, ma non sulla cattiva ironia femminile. E’ vero che la signora Hanska si è più tardi giustificata. Si può chiudere un occhio sul galateo, quando l’uomo che non sa stare a tavola è il creatore della «Commedia Umana»! Ella ha ricondotto sempre questo suo discutibile atteggiamento a un curioso dualismo: visse cioè sempre «convulsa» per le volgarità formali di Balzac e «rapita» dal suo genio. Ma in questi casi una donna o si fa schiava d’un genio o lo conquista. Hanska non fu nè una deliziosa schiava nè un’imperiosa conquistatrice. Non lo amò e poiché, in fondo, lo detestava, tradusse la propria vanità di donna amata, in compassione:

 

  «Io non sono mai riuscita a influire abbastanza su di lui per impedirgli di parlar sempre della povera Maria Leczinka come di «mia zia». Intanto ella non è mai stata mia zia; inoltre nessuno di, noi, da quel che sembra, s’è mai vantato di questa parentela come fa «lui»: e, in terzo luogo, ciò urta i nervi dei vecchi aristocratici francesi .., e ciò mi procura noie di cui avrei potuto fare a meno. Naturalmente sono io sospettata di vantarmi della mia parentela con il ramo principale dei Borboni!».

 

  Grosse preoccupazioni! Ma con gli anni la celebrità di Balzac aumenta tanto che anche la contessa se ne accorge. Il romanziere è ormai un uomo europeo. Ciò lusinga la signora Hanska che finisce per esclamare che egli è «uno dei più grandi geni del mondo ...» e soggiunge con involontaria amenità: «nel momento attuale». La contessa definisce, le proporzioni dello scrittore colossali. E’ questo «colossale» che la decide a non far disperare più a lungo il romanziere, a non esasperarlo nella logorante aspettazione di un matrimonio promesso da anni. Logica aspettazione d’altronde: la signora è già vedova da tempo e può disporre liberamente di sè. Che cosa vuole ancora?

 

***

 

  Finalmente la degnazione scende dall’alto, condita di pietosa vanità. Potrebbe essere considerata alla stregua di tante farse umane, se ad essa non facesse eco l’anelito d'amore e d’agonia del romanziere giunto al precipizio del suo destino. Scrive la contessa:

 

  «No, no: io devo qualcosa all'uomo che ha tanto sofferto per me, del quale sono stata l’ispirazione e la gioia. Egli è ammalato, e i suoi giorni sono contati, io lo so, e so altre cose ancora: ma io non sono più una bambina e saprei accettare le conseguenze delle mie sciocchezze di gioventù; io gli darei tutta la felicità che merita e sarei felice nel farlo».

 

  Manca completamente alla donna la percezione della propria importanza, sia pure involontaria, nella vita e nell’opera del creatore. Ella si limita a definire sciocchezza di gioventù quell’amore che fu per Balzac il lievito della sua azione e della sua opera. Soltanto l’illuminazione della morte sembra risvegliare in lei un sentimento nuovo:

 

  «Come mi ha amata, mio Dio, come mi ha amata! Come ha avuto fiducia in me! Come ha creduto in me! Forse più che io non abbia creduto in lui, giacché io ebbi dei momenti di gelosia. Amico, marito, compagno, io ho tutto perduto perdendolo ...».

 

  Concludendo, la Slavia non ha plasmato in Evelina Hanska un capolavoro di passione, nè un temperamento originale. Essa non è neppure il tipo della donna fatale, caro agli amatori del genere fosco. Fortunatamente, in questo campo, il nostro secolo ha avuto delle risorse; ha dato qualche donna più commovente, più originale, qualche gesto più elegante per l’aneddotica delle passioni. La signorina Uminska, che per pietà uccise recentemente a Parigi l’amante condannato da una malattia senza speranza, insegni. Slava anche lei, ma con cuore più colmo.

 

 

  Mimì Mosso, I Tempi del Cuore. Vita e lettere di Edmondo de Amicis ed Emilio Treves, Milano, A. Mondadori, 1925.

 

  p. 341. Ecco l’ultimo biglietto di De Amicis, biglietto assai spiacevole nel contenuto e nella forma, che sarà pretesto alla spiegazione finale dell’editore e che fu scritto in occasione della rinnovazione del contratto per i «Ricordi di Parigi».

 

1 Novembre 84

 

  Caro Treves,

 

  Ho dunque ceduto i «Ricordi di Parigi» per sempre. Non fu l’ultima né la prima coglioneria che commisi. Meno male che mi frutterà forse una nuova raccolta delle opere di Balzac. […].

  Ciao. Il tuo aff.

De Amicis.



  E. P., Cronaca dei libri. L’elogio di Genova, «Corriere della Sera», Milano, Anno 50, N. 141, 14 Giugno 1925, p. 3.

 

  I facili turisti, i conquistatori grossolani d’impressioni, grida il Varaldo, gli uomini dagli album e dalle matite, sapevano che cosa trovare a Venezia, a Firenze, a Roma o a Napoli, conoscevano Verona e Pisa, Assisi o Sorrento, ma di Genova ignoravano le memorie e i paesaggi. Se ne sono ricordati il Byron e il Dickens, il Cooper e il Twain: Jules Janin se n’è occupato in una pagina, il Balzac in una novella, lo Schiller l’ha fatta teatro di una sua tragedia, il Calderon le ha elargito qualche frase, ma quanta trascuratezza da parte di tutti gli altri, senza contare l’apatia del Goethe e il malumore di Heine.

 

 

  Adolfo Padovan, Il libro che diverte, Milano, Edito per “Bottega di Poesia”, 1925.

 

 

Sua Maestà la Moda, pp. 86-90.

 

  p. 88. Eppure i creatori delle mode annuali sono tutti uomini, sicchè, in fin fine, è sempre l’uomo che sa spogliare e vestire appuntino una donna. Quel genio vulcanico che fu Onorato Balzac scrisse: «la toilette est tout à la fois une science, un art, une habitude, un sentiment».

 

Il mistero di un fascino, pp. 203-206.

 

  p. 206. Balzac, il creatore della Commedia umana, ci presenta l’Imperatore dopo aver passato in rivista la sua guardia: «Tutto freme, tutto si agita, tutto si scuote. Le mura delle vaste gallerie del Louvre sembrano gridare anch’esse: Viva l’Imperatore!».

 

Tra i colossi della penna, pp. 233-235.

 

  p. 233. Balzac inviava allo stampatore dei manoscritti molto brevi; quando riceveva le prime prove cominciava allora a svolgere su quelle il suo romanzo. «Cesare Birotteau» fu da lui scritto per intero facendo rifare 17 volte le bozze di stampa. […].

 

  pp. 234-235. Humbolt scriveva quasi sempre tenendo la carta sulle ginocchia. Un giorno, trovandosi a Parigi, dimostrò al dottor Blanche il desiderio di pranzare con un pazzo. «Niente di più facile – gli rispose l’alienista – se volete farmi l’onore di venir domani a casa mia». L’indomani l’illustre scienziato sedeva alla tavola del dottore, avendo dirimpetto due commensali sconosciuti. L’uno vestito di nero, con una cravatta bianca, calvo, mangiò, bevve e non disse sillaba. L’altro, invece, aveva i capelli scarduffati, il vestito trasandato, mangiò alla diavola, raccontando, tra un boccone e l’altro, storie e storielle di tutti i tempi. Alle frutta Humbolt si chinò all’orecchio dell’anfitrione e gli disse: «Il vostro pazzo mi diverte assai». «Come! – rispose il medico – il pazzo non è lui ma quell’altro». «Ma allora quello che parla chi è?» «Il romanziere Onorato Balzac!».



 Nicola Pascazio, Il movimento intellettuale in Francia, «Il Secolo XX. Rassegna mensile», Milano, Anno 24, N. 11, Novembre 1925, pp. 757-760.

 

 p. 757. La piccola solitaria casa di Balzac è a due piani, e trovasi a Passy, nella rue Raynonard (sic). È un ambiente incantevole, donde l’artefice della «Commedia Umana» rimirava la pianura di Grenelle. Un comitato diretto dal sig. Bonteron (sic) e da Surville de Balzac, ha lanciato un appello a tutti coloro che possono divenire dei sottoscrittori. La città di Parigi dà il suo appoggio e il suo concorso. Già sono piovute, come un nimbo d’oro, cinquanta mila franchi da una mano sola: c’è ancora in Francia la nobile inclinazione di regalar somme importanti per l’onore delle Patrie Lettere!

 

 

  Concetto Pettinato, Quadretti di Parigi. Conosci te stesso, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 80, 3 Aprile 1925, p. 3.

 

  Tutti parlano di una crisi del romanzo: ma se non avessimo preteso fare di questa crisi un fenomeno letterario, parleremmo piuttosto di una crisi dell’osservazione. Romanzi veri e propri non se ne scrivono più perché nessuno scrittore è più capace di rappresentato un tipo, non avendo più il tempo di scoprire quello che gli individui abbiano in sè di tipico. Il solo romanzo possibile ai nostri giorni è l’autobiografia. Pigliatene cento a caso, fra quelli usciti dopo il 1900, o osserverete che i loro protagonisti non importano se non per la maggiore o minore parte di sè stesso messavi dall’autore. Di qui la monotonia affliggente l'opera di quasi tutti i giovani romanzieri, i quali, fatto un romanzo, ripetono sempre quello. La favola scelta non è per costoro se non un pretesto a confessioni personali, anzi a indiscrezioni personali, giacché l’autore che si confessa attraverso i personaggi di una favela cedo soprattutto, come l’uomo mascherato, alla voluttà dell’impudicizia. A cercare il Manzoni sotto il ritratto di don Abbondio, di don Rodrigo, dell’Innominato o di Renzo e il Balzac nei panni di papà Goriot, di Cesare Birotteau o del curato di Tours perderemmo il nostro tempo: lo guadagniamo, viceversa, nello spiegare Erenburg, Jacob o Chesterton riferendoci puramente e semplicemente alle idee, ai gusti e ai casi dei loro personaggi favoriti.

  Trasformazione letteraria? Trasformazione sociale.

 

 

  Carola Prosperi, Elogio … del brutto tempo, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 153, 28 Giugno 1925, p. 3.

 

  Il sole accecante, la luce che fa spalancare tutte le finestre e fruga senza discrezione in ogni angolo, scolora i personaggi, divora le tinte delicate, distrugge ogni intimità. Senza le lunghe eterne monotone giornate di pioggia, come potremmo immaginare le complicate provinciali di Balzac e le ribelli romantiche di George Sand? Senza certi acquazzoni scroscianti, non sarebbero forse meno, efficaci quei racconti brevi e potenti dei personaggi di Maupassant raccolti intorno al fuoco, dopo una partita di caccia?

 

 

  Carola Prosperi, Grandi ombre in salotto, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 230, 27 Settembre 1925, p. 3.

 

  Una bas-bleu? Vero è che ella divora i romanzi di Balzac man mano che escono e che è in corrispondenza col grande scrittore. Vero, pure, che ama soprattutto i romanzi di George Sand stampati dalla «Revue des Deux Mondes».

 

 

  Mario Puccini, Libri e cultura. Benedetto Croce critico, «Rivista d’Italia e d’America», Roma, Anno III, N. XV, Marzo 1925, pp. 54-56.

 

  p. 55. Certe messe in punto. su scrittori rinomatissimi e di grande operosità, come la Sand citata, come Zola e Daudet, e, più che tutti, come Balzac ci possono magari sorprendere, ma non è possibile non riconoscerle assennate Ed a proposito di Balzac soprattutto. Se infatti la potenza costruttiva di questo scrittore è innegabile, non meno innegabile è la debolezza del creatore, soprattutto là dove le preoccupazioni. che diremmo architetturali, gli offendono la ispirazione E non solo architetturali. Se Balzac avesse voluto evitare le sue emozioni e non allargarle, come purtroppo fece, con intenti talora perfino enciclopedici, la sua arte avrebbe guadagnato in profondità e soprattutto perse molte delle sue scorie. Ma troppo era in Balzac la preoccupazione didascalica: la quale logicamente, e in un uomo come il Balzac di straordinaria operosità e di non lunga vita, doveva esprimersi a detrimento di altre preoccupazioni: più intrinseche od essenziali. Croce, secondo la sua teoria, non distingue la forma dal contenuto; ma bisogna pur dire che, anche là dove Balzac è grande creatore di caratteri e di scene potenti (si pensi a la (sic) Cousin Pons), gli fanno difetto la misura e la calma. (E la scrittura s’arruffa talmente che certe opere che potrebbero toccare, se più finite artisticamente e più caute, altezze sublimi, appaiono trascurate o spesso scadenti addirittura). Ma Croce non ha forse ragione quando dice che questo stile manchevole e questa assenza di misura sono dovute «alla disposizione psicologica del Balzac medesimo di imprimere un impulso capriccioso alle sue creazioni, sì che i caratteri dei suoi personaggi girano rapidamente e crescono vertiginosamente sopra se medesimi, diventando via via sempre più folli di se stessi e talora, nel vortice a cui pervengono, si convertono nell’opposto di ciò che erano, o rivelano in modo inaspettato altre loro qualità, contradittorie e discordanti con le prime, mentre le azioni, per il medesimo correre vertiginoso, o perdono ogni logica, e, sforzandosi di svolgere quei caratteri, assumono l’andamento che è solito nei romanzi d’appendice, ovvero anche esse, a un tratto, precipitano e languiscono; e lo stile, che è tutta una cosa con quelle azioni e quei caratteri, cade dalla robusta e semplice plasticità nella fiacchezza e sciatteria o trapassa al tono esplicativo e riflessivo».

  Non ha ragione; perché in Poe. per esempio, o in Baudelaire, e sia pure con altri procedimenti e ispirazione, i caratteri «girano anche più rapidamente e mutano» che non in Balzac; e, pure, grazie alla cautela di questi artisti, il risultato è ben grande, anche se la costruzione appare in costoro meno eccelsa e complicata Ma in effetto questo è certo: che di rado Balzac raggiunge quello che Croce chiama lo stile ritmico; ma più forse per ragioni di fretta e di disarmonia emotiva che per cattiva interpretazione della realtà: intesa sempre la realtà come il mondo poetico dello scrittore. E Croce ha ragione di non trovare in tutta l’opera di Balzac, pur così massiccia e vasta, un capolavoro genuino; e di anteporre audacemente ai novanta romanzi di lui l’opera di Manzoni (e Balzac non capì Manzoni): chè, sebbene il genio di Balzac abbia costruito centinaia di caratteri e descritto centinaia di ambienti, nessuno di questi caratteri e di questi ambienti si eleva, per purezza di linee ed «estetica serenità», ai pochi caratteri e ambienti plasmati, creati, fusi divinamente dal nostro Manzoni nel suo immortale romanzo.

 

 

  Luigi Rava, Le memorie autobiografiche di Mario Besso e la fondazione Besso (con ritratto), «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Serie VI, Volume CCXXXIX – Della Raccolta CCCXVII, Fascicolo 1268, 16 Gennaio 1925, pp. 202-210.

 

  p. 202.

  «Les romans les plus touchants sont des études autobiographiques, ou des récits d’événements enfouis dans l’océan du monde». Balzac. [Cfr. Maximes et Pensées; Le Cabinet des Antiques. Préface].

 

  p. 210. Je hais comme la mort les autobiographies et j’ai nulle envie de donner la mienne, aveva scritto il Proudhon, ma a torto: Onorato Balzac, che meglio conobbe l’anima umana, pensò ben diversamente, e ho riferito, come epigrafe, il suo giudizio. [p. 202].

 

 

  Luigi Rava, Le memorie autobiografiche di Mario Besso, in Marco Besso, Autobiografia con prefazione del Senatore Luigi Rava, Roma, Fondazione Marco Besso Editrice, 1925, pp. V-XVII.

 

  pp. V; XVI. Cfr. scheda precedente.

 

 

  Ubaldo Romanazzi, Circolo d’Arte “G. Giacosa”, «La Provincia», Taranto, Anno V, N. 18, 21 Maggio 1925, p. 2.

 

  [Su: Roberto Bracco, Il perfetto amore].

 

  E della bellezza addirittura mera­vigliosa del dialogo, della acutezza delle osservazioni psicologiche e nel seguire passo passo le sottili trasfor­mazioni dei sentimenti che tumultuano nel cuore dei personaggi, sopra tutto nel cuore di Elena, e che par di sentire qua e là la pressione dell’unghia leonina di Balzac, di tutto ciò si resero conto e compresero gl’interpreti del lavoro, sabato sera, i quali per essere semplici filodrammatici, dettero invece prova di spiccate virtù artistiche e d’intelligenza superiore ad ogni elogio.

 

 

  Sfinge [Eugenia Codronchi Argeli], Voglio una stella! Romanzo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1925.

 

  p. 102. La provincia d’oggi non servirebbe più ad un Balzac dato che ce ne fosse uno.



  Angelo Sodini, France e la «Città dei Libri», «Almanacco Letterario 1925», Milano-Roma, Edizioni Mondadori, 1925, pp. 298-304.

 

  p. 302. […] prese l’abitudine di trascorrere una parte dell’anno in Turenna, alla Béchellerie, non lungi da quella Grénadière (sic) che Béranger abitò, e che Balzac prese a sfondo di una delle sue novelle. […].

  A titolo di curiosità bibliografica, notiamo che raramente autore fu più illustrato di Anatole France. Solo il Balzac può in questo superarlo; ma il Balzac è stato soprattutto illustrato dopo la sua morte; France, invece, ancor vivo.  

 

 

  Adriano Tilgher, [Studio], in Clarice Tartufari, Il miracolo. Romanzo, preceduto da uno studio di Adriano Tilgher, Roma, Alberto Stock Editore, 1925, pp. 5-10.

 

  p. 7. Difetti che, come, del resto, le sue qualità, ella deve, oltre che alla disposizione nativa del temperamento, alla frequentazione assidua ed amorosa del suo autore prediletto, Balzac, studiato negli anni della giovinezza, quando l’animo è più pronto ad assorbire le influenze esterne.

 

 

  Tommaso Tittoni, Arrigo Beyle (Stendhal), «La Parola. Rassegna mensile di Conferenze e Prolusioni», Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Anno XVIII (2° della Nuova Serie), N. 1, Gennaio 1925, pp. 1-13.

 

  pp. 1-3. Ma Stendhal era forse uno storico, o un critico, o un letterato, o un psicologo di professione? Può anzi dirsi che di professione non ne ebbe alcuna. Fu prima soldato per combinazione e poi diplomatico per campare la vita; ad una cosa sola aspirò intensamente: ad essere drammaturgo, ma non vi riuscì. Egli scriveva a vanvera di ciò che gli veniva in mente; scriveva servendosi di ciò che gli capitava; scriveva sui polsini della camicia, sulla tabacchiera, sui ritagli di carta; scriveva senza ricerche di effetti ne retorica, che detestava, detestando con essa quello che, secondo lui, ne era il maggiore esponente: Chateaubriand scriveva (lo disse meravigliosamente Onorato Balzac) come gli uccelli cantano; — soleva dire egli stesso che scriveva con la stessa facilità con la quale fumava un sigaro. […].

  Balzac chiamò sublime la Chartreuse de Parme, e Goethe, Sainte-Beuve e Bourget hanno esaltato Le Rouge et le Noir. […].

  Questa però era la sola rassomiglianza che egli aveva col suo rivale fortunato nell’amicizia per Metilde Dembowsky, del quale, malgrado ciò, apprezzò il valore, classificandolo subito dopo Vincenzo Monti cui aveva assegnato il primato tra i poeti italiani viventi. Più completa invece era la rassomiglianza con Balzac il cui fisico dimostrava, come in Stendhal, che la natura era stata con essi avara dei suoi doni ma i cui occhi, secondo la frase espressiva di Théophile Gautier, avrebbero fatto abbassare quelli di un’aquila.

  pp. 7-8. II suo Waterloo fa degna figura vicino al Waterloo di Thackeray nella Vanity Fair, il più grande romanzo inglese del secolo scorso, e vicino alla battaglia di Borodino di Tolstoi, ne La Guerra e la Pace, il più grande romanzo russo dello stesso secolo. Tolstoi. dopo letta la Chartreuse de Parme, esclamò: «Chi prima di lui aveva descritto la guerra così e cioè quale essa è realmente?». E già anteriormente, l’anno stesso della pubblicazione della Chartreuse (1839), Balzac aveva scritto a R. Colomb: «Sono stato preso da un vero accesso di gelosia leggendo quella così stupenda e così vera descrizione della battaglia di Waterloo. Essa è quale io l’avrei sognata per le mie Scènes de la Vie militaire, che costituiscono la parte più difficile della mia opera». […].

  Non v’ha dubbio che da quel cosmopolitismo romantico deriva direttamente il pacifismo dei nostri tempi, che già Balzac nel Les secrets de la Princesse de Cadignan preconizzava così nella sua forma più utopistica: «Applicare il sistema federale svizzero all’intera Europa e sopprimere così la guerra nel mondo ricostituendolo su basi diverse dalla conquista».

  pp. 9-10. Nel marzo 1831 era trasferito a Civitavecchia. Vi giungeva il 17 aprile, assumeva subito il consolato, ed il 26 dello stesso mese otteneva senza difficoltà l’exequatur dal Governo pontificio. Balzac espresse la sua meraviglia perché un pensatore di prim’ordine fosse distillato ad un posto così modesto. Stendhal però se ne contentò. «Io mi occupo molto del mio mestiere, egli scriveva, che è buono, onesto, piacevole, paterno. Le funzioni paterne del console mi piacciono moltissimo». […].

  La vita di provincia è vita di piccola borghesia. Ora egli aveva già scritto: «Io disprezzo profondamente per istinto il piccolo borghese». Ed altra volta, a proposito della terra molle, lieta e dilettosa della Turenna: «Le piccinerie della provincia mi disgustano. Ogni tregua è rotta tra i provinciali e me». A lui, uomo eminentemente di conversazione letteraria ed artistica, mancava quel commercio intellettuale che gli era necessario come l’aria per respirare. Perciò scriveva: «Sono venuto da Trieste a Civitavecchia dove mi annoio perché non posso avere scambio d’idee». E poi soggiungeva: «A Civitavecchia ogni famiglia vive isolata in cava sua come Robinson nella sua isola. Così nella famiglia la più unita, coloro che la compongono dopo un anno di questa vita si accorgono che non hanno più nulla da dirsi». Perciò quando un giorno, tornando a casa, trova che dalla Francia gli è giunto il noto romanzo di Balzac, César Birotteau, esclama: «Quanto io ammiro l’autore per aver saputo così bene descrivere le meschinità e le miserie della vita provinciale».

 

 

  Luigi Tonelli, L’opera di Giovanni Verga, «Rivista d’Italia», Milano-Roma, Anno XXVIII, Fasc. VIII, 15 Agosto 1925, pp. 1089-1109.

 

   p. 1090. Si trattava d’evoluzione, prodotta per intime necessità dello spirito italiano? — Adolfo Albertazzi pensava che, dopo i Promessi Sposi, il nostro romanzo partecipò, in tutt’i modi e per tutti i gradi, all’evoluzione del romanzo straniero; e se anche non tutti gl’italiani furono umili seguaci, in tutti però l’arte creativa non corrispose alle intenzioni buone, alle divinazioni geniali. — Nè io voglio contraddirlo; giacché è innegabile che nel Dottor Antonio siano influenze inglesi; che il disegno generale delle Confessioni del Nievo riproduca quello dei Mémoires d’outre-tombe dello Chateaubriand, o della Comédie humaine del Balzac; che al Balzac ci sia ispirato il Rovani nei Cento Anni. È innegabile sopratutto che il passaggio dal romanzo storico a quello psicologico-realista, osservabile in Italia, corrisponda troppo esattamente al passaggio del romanzo francese, da Victor Hugo della prima maniera al Balzac e allo Stendhal ... .



  Nunzio Vaccalluzzo, Massimo d'Azeglio, Roma, A.R.E. Anonima Romana Editoriale, 1925.

 

  pp. 59-60. Il più discreto giudice del libro [Ettore Fieramosca] fu il Manzoni; il Tommaseo, che pei conti e marchesi aveva poca simpatia, credette di abbassarlo dicendo che l’Azeglio era sul fare del Balzac (17), con che voleva dire ch’era contaminato dal verismo; e certo, l’Azeglio non ebbe né gli scrupoli del Manzoni, né il gretto e scontroso puritanismo del Tommaseo, e una qualche tinta balzachiana è visibile nei suoi romanzi (18). […].

  Sebbene questo sia un giudizio tardivo dell’Azeglio, non è equo dire ch’egli è sul gusto del Balzac. Più nel vero fu il Mazzini quando disse che «le ultime scene del Fieramosca hanno merito reale, e sono ardenti di sentimento patriottico, ma l’Azeglio è quasi sempre freddamente corretto e gli manca fervore poetico».

 

  Note, pp. 338-339.

 

  (17). Cfr. Cantù, Reminiscenze, ecc., II, p. 138. La lettera del Tommaseo è ora pubblicata da E. Verga (Il primo esilio di N. T., 1834-9; 1904, p. 113): «Che il Balzac sia accarezzato costà me ne duole più che una nuova invasione di Barbari ... l’Azeglio non lo doveva presentare al Manzoni, ma l’Azeglio è un po’ su quel gusto. E a me disse spropositi degni di un nobile piemontese ...». […].

  (18). Sui rapporti dell’Azeglio e del Manzoni col Balzac vedi Gigli, Balzac in Italia, Treves, 1920, p. 136. È curioso che il Balzac confessasse ingenuamente che non aveva voluto leggere il Marco Visconti e l’Ettore Fieramosca perché d’imitazione manzoniana; e del romanzo del Manzoni si sa che non aveva soverchia ammirazione.



  Lorenzo Viani, Parigi, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1925.

 

  p. 183. Dopo due giorni ricevei l'avviso di portare i miei disegni alla Galleria di Georges Petit, quella dove fu esposto il ritratto di Dorian Gray. Era lusinghevole per me. Anche il nome del Gruppo mi piacque; oltre che la potente opera di Balzac, mi risuscitava nella mente il ricordo di una piccola Rivista che si stampava quando io ero ragazzo, a Milano e ne rivedevo la copertina […].

 

 

  Mario Vugliano, Enigmi storici. Fouché contro Napoleone?, «La Stampa», Torino, Anno 59, Num. 226, 23 Settembre 1925, p. 3.

 

  Egli è che s’usciva allora dalla Rivoluzione ed un arresto era, a quell'epoca, cosa comune; e la gente di «Beauvais. attaccata soprattutto alla sua tranquillità, preferiva non ficcare il naso negli affari che riguardavano la politica. La regione brulicava di antichi «chouans», perdonati, sì, dal Consolato per le passate rivolte, ma squattrinati, oziosi, tenuti in sospetto, che soffrivano nel vedere i loro castelli e possessi occupati dai … pescicani del nuovo regime, e rimpiangevano il bel tempo delle imboscate e delle avventure. Erano i «chouans» che avevano rapito il senatore Clemente de Ris? Per vendetta? Per ricatto? E se i rapitori non eran da cercarsi tra simil gente, chi mai potevano essere i sei misteriosi cavalieri? Nonché dare una risposta, nemmeno s’osava formulare le domande. Per paura della politica. Questa, certo, dominava il fattaccio di cronaca: subito l’intuirono i paesani del castello di Beauvais, come, più tardi, Balzac, il quale intorno al ratto del senatore Clemente de Ris, costruì un famoso suo romanzo: «Une ténébreuse affaire», cercando di sciogliere lo storico enigma. […].

  Fallite così le sue speranze, Fouché non ebbe che un pensiero: far sparire, in tutta fretta, le prove scritte del complotto: raccolse tutte le carte, ne fece un pacco e lo consegnò a Clemente de Ris perché lo distruggesse nel suo castello di Beauvais. Senonchè il nostro senatore, uomo accorto e non eccessivamente scrupoloso, giudicò utile conservare, arma terribile e lucrativa contro Fouché, le prove della cospirazione. Non si sa mal che cosa ci riserba l'avvenire. Il ministro della Polizia, che seppe od intuì il brutto tiro dell'amico, inscenò quindi la tragicommedia del furto, del sequestro e della liberazione, all’unico scopo di rientrare in possesso della preziosa e pericolosa corrispondenza. Tale la versione del ratto del senatore di Beauvais ammessa, sia pure senza prove decisive, da quasi tutti gli storici: accennata da Luciano Bonaparte nelle sue «Memorie», creduta da Balzac nel suo romanzo: «Une ténébreuse affaire», svolta da Carré de Busserolle, lo storico di Clemente de Ris, da costui, infine, lasciata col tempo, capire, sebbene evitasse, in morto assoluto, di parlare anche con i suoi figli, dell'antica avventura. Che sarebbe stata, in conclusione, quasi comica, se l'inquietudine di Fouché non le avesse poi data una tragica fine. Il sequestro del senatore Clemente de Ris, il mistero in cui rimaneva avvolto, avevano suscitato viva e generale commozione a Parigi.

 

 

  Franz Zsigmond, Maurizio Jókai, «L’Europa Orientale. Rivista mensile pubblicata a cura dell’Istituto per l’Europa Orientale», Roma, Anno V, N. V, 31 Maggio 1925, pp. 305-329.

 

  p. 317. I suoi più celebri grandi romanzi e i suoi innumerevoli racconti di minor mole stanno tutti a servizio di un grande pensiero fondamentale nazionale e formano un ciclo della generazione ungherese che esordì con l’anno 1825, così poderoso come quello che i personaggi principali di Balzac formano della società parigina della prima metà del secolo XIX. Eppure tutti e due gli scrittori fanno valere la loro personalità.

  Mentre l'analisi inesorabile di Balzac si muove con maggior piacere nella palude sociale per trarne fuori i documenti umani, Jokai raccoglie, per così dire, «documenti sovrumani» con una fede ed un idealismo invidiabili.

 

 

 

Adattamenti cinematografici.

 

 

  Una notte senza domani [Les Chouans], Regia di Gian Bistolfi. Interpreti: Nini Dinelli, Nerio Bernardi, Nella Serravezza, Roma, Cines Film, 1925.



[1] Cfr. Marcel Bouteron, Apologie pour Madame Hanska, «Revue des Deux Mondes», Vol. XXIX, 15 Décembre 1924, pp. 811-820.

[2] Cfr. Madame Hanska de Balzac, Lettres inédites au comte Rzewuski (avec une introduction de la princesse Radzwill) par Madame Hanska de Balzac, «La Revue Hebdomadaire», Paris, 33e Année, N° 51, 20 Décembre 1924, pp. 259-289.

[3] Cfr. L’Esprit de Balzac, «Les Nouvelles Littéraires Artistiques et Scientifiques», Quatrième Année, N. 131, 18 Avril 1925, p. 1.

[4] Cfr. Ernest Seillère, Autour de Balzac. Le cœur de Mme Hanska, «Les Nouvelles Littéraires Artistiques et Scientifiques», Paris, Quatrième Année, N° 12, 28 Février 1925, p. 1.


Marco Stupazzoni