lunedì 7 dicembre 2020



1990

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Napoléon du peuple, suivi de “el Verdugo”. Notes au soin de Francine Martini, Vimercate (MI), La Spiga scuola («Améliore ton français»), 1990, pp. 80.


  Struttura dell’opera:

  Napoléon du peuple, pp. 2-49; da Le Médecin de campagne;

  El Verdugo, pp. 50-79.

 

 

  Honoré de Balzac, Trois nouvelles. Guida alla lettura a cura di Geneviève Poletti, Torino, Loescher Editore, 1990 («Letteratura francese», 2), pp. 120; Livre du professeur, pp. 62.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Présentation, p. 1;

  El Verdugo, pp. 2-11; Analyse du texte, pp. 12-25;

  Le Réquisitionnaire, pp. 27-41; Analyse du texte, pp. 42-63;

  Le Chef-d’œuvre inconnu, pp. 65-90; Analyse du texte, pp. 64-117;

  Notice biographique, pp. 118-120.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto/Le chef d’oeuvre inconnu. Traduzione di Janus, «Quaderni d’Arte della Valle d’Aosta. Cahiers d’Art de la Vallée d’Aoste», Aosta, Anno IV, N. 14, ottobre-novembre-dicembre 1990, pp. 4-11; ill.

 

  La traduzione, in alcuni punti abbastanza discutibile, si fonda su una versione del racconto anteriore a quella definitiva pubblicata ne Le Provincial à Paris nel 1847.

 

  Il racconto balzachiano è preceduto dalla seguente nota:

 

  [...]. Ora ci sembra il momento di ampliare questo dialogo e per questo motivo nelle pagine centrali dei Quaderni d’Arte della Valle d’Aosta appare un celebre racconto di Balzac, che tratta un argomento che ci sta molto a cuore: parla del mistero della creazione artistica, cioè proprio di quello che tutti gli artisti fanno quando dipingono un quadro o scrivono una poesia o un romanzo o compongono una musica e perfino quando costruiscono una casa. Le esposizioni che sono state raccontate in queste pagine, in tutti questi anni, quelle che sono piaciute e quelle che sono state accolte con diffidenza, quelle che sono state comprese ed amate e quelle che hanno incontrato l'inevitabile incomprensione, poiché non è sempre possibile comprendere ogni cosa, pongono tutte l’identico problema della, creazione che in alcuni casi è visibile, in altri quasi invisibile. Balzac, dandoci una grande lezione filosofica, ci invita ad entrare nell’enigma del la creazione che spesso sfugge all’artista stesso, poiché la creazione è posta sovente in un luogo inaccessibile, nel mondo geloso d’un dio sconosciuto. Questo racconto dunque, che ha suscitato profonde discussioni letterarie, è in fondo semplicissimo: ci insegna che la creazione è sofferenza, ma, nello stesso tempo, essa deve essere quotidianamente strappata alla vita. Il compito dell’artista è sempre quello, alla fine, di sacrificarsi, di scomparire dietro il sipario della creazione, che in parte gli appartiene ed in parte appartiene al mondo. Ci sembra che questo racconto commenti molto bene i quattordici numeri d’una rivista che è nata con semplici intenti descrittivi e documentari e che non vuole essere altra cosa se non una testimonianza del lungo cammino che l’arte ha intrapreso nella vita. Il “Capolavoro sconosciuto” è stato illustrato magnificamente da Chicco Margaroli.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Prefazione di Geno Pampaloni. Traduzione di Luca Merlini e Carlo Montella, Firenze, Passigli Editore, 1990 («Le lettere», 3), pp. 69.

 

  Cfr. 1983.

 

 

  Honoré de Balzac, Un demone. Traduzione di Enrico Badellino, Latina, L’Argonauta, 1990 («Collana di letteratura», 22), pp. 81.


  Struttura dell’opera:

 

  Un demone, pp. 7-71;

  Enrico Badellino, Nota di traduzione, pp. 73-78.

 

  Si tratta della traduzione di Le Succube, “conte drolatique” appartenente alla seconda decina.

  Trascriviamo il testo che forma la Nota di traduzione di E. Badellino:

 

  Ispirandosi alle Cent nouvelles nouvelles, Balzac aveva progettato di scrivere Cent Contes drolatiques suddivisi in gruppi di dieci “decine”. Dopo la pubblicazione della terza decina, il lavoro fu però progressivamente abbandonato, benché fra le carte dello scrittore siano stati rinvenuti numerosi frammenti di racconti, e persino qualche racconto incompiuto, destinati ai gruppi successivi. La prima decina comparve nell’aprile del 1832, la seconda nel luglio dell’anno successivo, la terza alla fine di novembre del 1837. Siamo proprio a ridosso del periodo che dagli (sic) Etudes de moeurs au XIXe siècle condurrà alla monumentale impresa della Comédie Humaine.

  Balzac era un profondo conoscitore degli antichi conteurs, ma la sua erudizione filologica non era altrettanto approfondita. Il francese antico da lui inventato per i Contes drolatiques conserva infatti un tono piuttosto artificiale: accanto a parole inventate ex novo, altre ve ne sono, e interi modi di espressione, attinti da almeno quattro secoli di lingua francese, dal XII al XVI secolo. Il risultato ha il sapore di un curioso pastiche, di una parodia mistificatoria, in cui il gusto di raccontare un certo tipo di storie prevale su preoccupazioni di carattere filologico: ma per il traduttore il problema è diverso. Un linguaggio simile lo pone inevitabilmente di fronte al problema se tentare o meno di restituire le stesse composite caratteristiche, reinventando in pratica il linguaggio degli antichi novellieri italiani. In caso affermativo, si correrebbe allora il rischio di un’operazione due volte impervia, la prima a causa delle difficoltà sul piano filologico, trattandosi di rispettare l’originale francese ricercando e adattandovi le opportune modalità espressive dell’italiano antico; ricerca che di per sé già dischiude una mole talmente impressionante di problemi linguistici da far dubitare del senso stesso dell’operazione.

  La seconda difficoltà, a questo punto, la incontrerebbe il lettore, costretto a un defatigante confronto con un testo che, al di là degli arcaismi, presenterebbe inevitabilmente un troppo scoperto carattere di artificialità.

  Una seconda possibilità per il traduttore sarebbe quella di adattare, alla buona, arcaismi linguistici un po’ maccheronici giusto per mantenere una certa qual fedeltà allo spirito dell’originale. Un tentativo, insomma, di ibridazione, rispetto alla prima ipotesi certamente più sensato e ad una maggiore portata. Si tratta infatti del criterio comunemente adottato nelle traduzioni, per la verità non numerose, di questi Contes. Ma è proprio il carattere ibrido di questo tipo di operazione a far sorgere, se non altro, la curiosità di ricercare un’alternativa.

  La terza via, che è anche una rischiosa scommessa, è quella di rimuovere in toto il problema degli arcaismi per concentrarsi invece su altri aspetti del testo, non meno importanti. Vale a dire tentare, con la traduzione, di porre in massimo risalto la storia in se stessa, e l’ironia da cui è percorsa. Appianare le difficoltà del linguaggio a favore di una comprensione facile e immediata, nella speranza che l’aver privato con ciò la traduzione di quel certo ibridismo di cui si diceva, non venga preso per un troppo grande tradimento dell’originale.

  In fondo, l’obiettivo originale di questo tipo di racconti era proprio quello di intrattenere il lettore con garbo e intelligenza attraverso storie piacevoli, ironiche, un po’ piccanti.

  Se non lo capirono i critici letterari del 1832, che accolsero assai freddamente il Premier dixain dei Contes drolatiques, seppe intenderlo bene un gran signore come il duca di Fitz-James, il quale indirizzò a Balzac una lettera molto spiritosa e intelligente. Dopo aver esordito con le parole che il duca di Ferrara rivolse all’Ariosto a proposito dell’Orlando Furioso (“Messer Ludovico, dove avete pigliato tante coglionerie!”) il duca così proseguiva: “Vi dirò altrettanto, o sporcaccionissimo fra gli uomini! bisogna essere sfrontati al pari di voi per aver osato lanciare una simile peste di libro. Tutti i fulmini delle Puritane e degli Accademici ricadano su di voi. Non mi unirò a loro perché mi avete divertito molto, e quando ho riso sono disarmato. L ’allegria è un dono così raro con i tempi che corrono!

  Voi avete spirito, come se non foste del nostro secolo; credo che voi siate un redivivo e che siate stato nutrito e coccolato dal Curato di Meudon. — Non può essere che lui ad avervi suggerito tutte queste cicalate, per dirla alla vostra maniera.

  Vi viene da ridere vedendo tutte le ipocrisie delle donne che avranno divorato il vostro libro e faranno finta di non conoscerlo.

  Il peccato veniale è un gioiello, e la lettura delle litanie è un quadro delizioso. Janua Coeli vale tutto un libro. Dieu? bon Gemme è affascinante, ma è un termine del nostro secolo più che del medioevo, non trovate? Dopo viene Il fratello d’armi, secondo il mio gusto. Dateci di quelli, più che le facezie del buon re Luigi XI. Esse sono anche troppo castigate, sebbene assai bizzarre e divertenti.

  Quando si ha spirito e immaginazione quanta ne avete voi, non bisogna avere tentennamenti. Ecco la sola critica che avrete da me.

  Buon Dio, è vero che avete dieci volumi di queste ‘Ribalderie ’ da darci, non vi lascerete spaventare da quanto vi si dice. Per me, vi incoraggio a continuare. Quando non si avrà più paura della peste si riderà, e i Buontemponi vi daranno partita vinta. [...]”.

  La presente traduzione è stata condotta sul testo dei Contes drolatiques stabilito da Roger Pierrot e pubblicato da Gallimard, “Bibliothèque de la Pléiade”, nel 1959.


 

  Honoré de Balzac, La duchessa di Langeais. Traduzione di Vera Salvago. A cura di Jean-Paul Sacy, Trento, L’Editore, 1990, pp. 176.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet, in Honoré de Balzac, Giovanni Verga, Maksim Gorkij, Tre donne. A cura di Rosalba Abate, Palermo, Palumbo, 1990 («La Tartaruga», 9), pp. 8-105; ill.

 

  Si tratta di una pubblicazione ad uso didattico che presenta una scelta antologica di brani tratti dal romanzo di Balzac. Ad ogni sequenza, è collegata un apparato di attività riguardanti la comprensione e l’analisi del testo proposto.

 

  Al volume, è allegato un sussidio didattico: Dopo la lettura, di complessive pp. 32.

 

  Trascriviamo integralmente la nota critica di approfondimento presente a p. 99.

 

  Un’educazione tutta al femminile.

 

  All’epilogo della storia il narratore-autore così afferma: «ella, fatta per essere sposa e madre magnifica non ha né marito, né figli, né famiglia».

  È una considerazione questa, come tante altre presenti nel testo del nostro autore, che così coglie l’opportunità di farci conoscere direttamente le sue idee, le sue posizioni ideologiche e morali.

  Non possiamo, però, pretendere che Balzac, reazionario e legittimista in campo politico, avesse delle idee progressiste e rivoluzionarie nei confronti della donna; sarebbe anacronistico ed utopistico il pensarlo, anche per i tempi in cui egli visse.

 C’è, invece, un aspetto in tale affermazione che ci affascina di più anche se non è palese, ed è il problema educativo che la sottende.

  L’Eugenia Grandet, come romanzo, non si pone come sua problematica principale il rapporto genitori-figli, né il problema educativo; però, di fatto, presentandoci l’evoluzione di questa giovinetta, ritratta al culmine dell’età adolescenziale, in donna provata da tristi ed amare esperienze, si comprende bene che i motivi precedentemente accennati percorrono silenziosamente il nostro testo. L’età adolescenziale è un momento molto particolare nella crescita di un giovane e specialmente nella donna, in quanto spesso si vive proprio in questa fase il problema identità-contrapposizione al modello familiare.

  Nel secolo scorso, come d’altra parte ancora ai nostri giorni, l’educazione delle bambine era soprattutto demandata alla madre. La madre intratteneva con la figlia un rapporto-legame esclusivo, tramite un'educazione basata sulla riproduzione dell’identico: il gesto, l’esempio, il fare insieme. Era un modello educativo che doveva inculcare nella bambina, sulla testimonianza quotidiana, il ruolo di moglie e di madre. Accanto a ciò notevole importanza aveva anche l’educazione religiosa, specie nei livelli sociali medio-alti borghesi, dal momento che molte fanciulle, nel secolo scorso, appunto, venivano, in alternativa al ruolo familiare, predestinate al chiostro, ed in ogni caso la religione era valido strumento per la sottomissione e l’ubbidienza.

  Ma tale modello per così dire allo specchio presentava urta discrasia perché, proprio nell’età adolescenziale, dopo che la bambina aveva ricevuto un’educazione tendente a reprimere in lei la propria identità sessuale, la madre doveva educare anche al sedurre: la cura del corpo, la scelta dell’abbigliamento, gli improvvisi rossori, gli sguardi lusinghieri, la scelta delle parole erano mezzi necessari per conquistare e trattenere la fedeltà del marito. La seduzione e la propria identità fisica, prima condannate, venivano successivamente trasmesse dalla madre alla figlia attraverso un processo di sublimazione, che trovava la sua giustificazione nella silenziosa accettazione del sistema familiare patriarcale, in cui l’uomo e la donna definivano la loro identità sociale.

  Ad avallare questo sistema patriarcale ed educativo vi era la Chiesa, come abbiamo già accennato, che offriva la sua protezione ai più deboli, la donna e le classi sociali subalterne, in cambio, però, di una passiva accettazione delle strutture economico/sociali che facevano da supporto all’ideologia del patriarcato, così come esso nei secoli si era andato definendo.

  Ritornando, dunque, alle nostre considerazioni iniziali, ci sembra che Balzac abbia fatto riferimento a questi modelli educativi nel definire non solo il suo personaggio principale, Eugenia, ma anche l’insulsa ed insignificante signorina d’Aubrion, vero gioiello e capolavoro di quell’educazione al sedurre, a cui abbiamo precedentemente accennato.

  Tutte le adolescenti, e così anche Eugenia, si pongono in termini psico-sociologici il problema della propria identità: chi sono? chi voglio essere? Si va, dunque, alla ricerca di una risposta che dia senso di continuità e di coerenza al passato, al presente ed al futuro. E tale risposta può trovarsi, mettendo proprio in discussione la propria identità, cercando, spesso in opposizione alla madre, altri modelli imitativi, che, ad esempio, le giovani d’oggi trovano a buon mercato nelle dive dei mass-media. Ma è proprio durante questa fase che si rinsalda e diventa più profondo il legame con la madre di cui si rifiutano sì i modelli comportamentali, ma ella riemerge, per così dire, «nell’area della sessualità e del progetto futuro».

  Il rapporto/legame tra Eugenia e sua madre va proprio letto in tal senso, e ci sembra che la vicenda stessa di Eugenia ci mostri come in una società, dove vi erano profonde trasformazioni sociali, il sistema patriarcale ed il relativo destino della donna, madre/moglie, invece non venisse minimamente intaccato. Il processo di modernizzazione inerente all’area femminile e familiare, coinvolgendo anche l’area individuale, doveva essere rimandato ancora oltre.

 

  Il contesto storico e l’itinerario biografico-letterario di Balzac sono ricostruiti nel capitolo: Balzac e il suo tempo alle pp. 101-105.

 

 

  Honoré de Balzac, La fanciulla dagli occhi d’oro. Prefazione di Hugo von Hofmannsthal. Traduzione di Vera Salvago, Trento, L’Editore, (aprile) 1990, pp. 79.


  Struttura dell’opera:

 

  Hugo von Hofmannsthal, «La fanciulla dagli occhi d’oro» [1905], pp. 5-6; cfr., con diversa traduzione, 1958.

  La fanciulla dagli occhi d’oro, pp. 7-79.

 

  Traduzione non esemplare sotto il profilo della fedeltà e della aderenza al modello francese.

 

 

  Honoré de Balzac, La fanciulla dagli occhi d’oro. Traduzione di Attilio Bertolucci. Con uno scritto di Hugo von Hofmannsthal, Milano, SE Studio Editoriale, 1990 («Piccola enciclopedia», 69), pp. 107.

 

  Per la traduzione, cfr. 1946; per lo scritto critico di H. von Hofmannsthal sul romanzo balzachiano, cfr. 1958.

 

 

  Honoré de Balzac, Massimilla Doni, tradotto e curato da Giandonato Crico, Palermo, Sellerio di Giorgianni, 1990 («Il divano», 18), pp. 184.

 

 

  Honoré de Balzac, Melmoth riconciliato. Traduzione e Introduzione di Giuliana Cutore, Chieti, Marino Solfanelli Editore, (settembre) 1990 («Il Voltaluna», 11), pp. 75.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Giuliana Cutore, Introduzione, pp. 5-9. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Melmoth riconciliato, pp. 11-74.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti Editore, 1990 («I grandi libri», 90), pp. LXIII-247; 1 ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, pp. V-LXIII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Papà Goriot, pp. 1-245.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Il Balzac di via Catone, «Cineforum», anno 30, n. 7-8, luglio-agosto 1990, pp. 9-12.

 

 

  Daniela de Agostini, Balzac e le leggi della costruzione dell’opera d’arte, in Il mito dell’angelo. Genesi dell’opera d'arte in Proust, Zola, Balzac, Urbino, Quattroventi, 1990, pp. 155-175.

 

  Cfr. 1988.

 

 

  Adriano Antolini, Autoritratto alla maniera di Balzac, «Corriere della sera-Arte», Milano, 20 maggio 1990, p. 8.

 

  In Autoritratto ed omaggio a Balzac Attilio Rossi si rappresenta nell’atteggiamento di indicare, nel proprio studio — coi pennelli in mano — un quadro appena terminato. La tela, sul pavimento, poggiata contro ad un cubo, getta un’inquietante ombra triangolare, ed è essa stessa, a quanto pare, un’opera inquietante.

  Sono forme astratte, anche se sembra di distinguere, nel loro groviglio, qualcosa di simile ad un occhio. Come nel Chef d’oeuvre inconnu, dove il grande scrittore francese immagina sotto forma di opera astratta ante litteram il capolavoro del folle Frenhofer — che a forza di voler catturare la sensazione di vita e movimento ispiratagli da una bellissima modella, «distrugge» a poco a poco il quadro con ossessive ridipinture, lasciando solo in un angolo, ancora intatto, un bellissimo piede dell’ormai cancellata musa ispiratrice. Sulla tela pendono due nude lampade, una accesa ed una spenta, ma la luce proviene da una finestra fuori campo, il che aumenta la suggestione di mistero della scena.

 

 

  Livia Beretta, Letteratura e letterarietà in Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: prof.ssa Francesca Merzi D’Eril, Milano, Università degli studi, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, 1990.

 

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, in Honoré de Balzac, Papà Goriot... cit., pp. V-LXIII.

 

  pp. LV-LVIII. Inizialmente, nel settembre 1834, Balzac pensa a una novella, da scrivere in fretta, per la «Revue de Paris». Ma, come è già avvenuto per Eugénie Grandet, dopo pochi giorni di lavoro è conquistato dalle risorse del soggetto, e il nucleo narrativo originario (la patetica storia di un vecchio borghese che sacrifica la propria esistenza all’amore per due figlie che lo sfruttano, e muore solo come un cane) viene scavato nelle sue implicazioni «filosofiche», mentre l’intreccio si amplia, coinvolgendo altri personaggi e altre storie. E il dramma personale di papà Goriot diventa il dramma di un’intera società. Dopo papà Grandet e Balthasar Claës, Goriot è un nuovo eroe della passione vissuta fino alle estreme conseguenze; vive in funzione delle figlie che lo derubano, e accecato dal mito della paternità. La sua «mania» disinteressata, incomprensibile e tragicamente ridicola in un mondo dominato dagli interessi, ne fa un «martire», un «santo».

  Attratto dal tema della paternità, che ha affrontato più volte nei romanzi giovanili, Balzac intuisce che il dramma di Goriot, una vicenda di ordinario cannibalismo, può assumere un potente valore emblematico se inserita nel vivo della società contemporanea, in quella Parigi «misteriosa» e infernale, spietata e dominata dal «movimento ascensionale» del denaro, presentata nel prologo della Fille aux yeux d’or. Un dramma «eterno» (Goriot è un’incarnazione borghese di Re Lear, anch’esso vittima dell’incomprensione e dell’egoismo delle due figlie, e Shakespeare è uno dei grandi modelli di Balzac) diventa così il tema dominante di una «scena della vita parigina». Il dramma ha una lunga preparazione. Una sordida pensione borghese. Un testimone: il giovane Eugène de Rastignac, studente di diritto, povero, provinciale, ambizioso, inesperto del mondo ma deciso ad affermarsi. Gli attori: l’ex pastaio Goriot, arricchitosi «onestamente» grazie alla Rivoluzione; un misterioso quarantenne, Vautrin, che del mondo ha capito bene le regole spietate e le sfrutta a proprio vantaggio (si tratta in realtà di un forzato evaso, Trompe-la-Mort); una giovane orfana, Victorine Taillefer, defraudata dei suoi beni dal fratello; le figlie di Goriot, Anastasie, contessa de Restaud, e Delphine, baronessa de Nucingen, che scendono ogni tanto dai quartieri alti di Parigi per attingere al sempre più esiguo patrimonio paterno; altre figure secondarie di pensionanti costretti a una più o meno miserabile sopravvivenza. È Rastignac, proiezione dello stesso Balzac, a guidare il lettore alla scoperta dei «misteri» della pensione Vauqueur (sic), a condurlo con sé nei tentativi di affermazione sociale di cui è protagonista. Alcuni maestri d’eccezione lo iniziano alla vera realtà dei rapporti sociali: la protettiva Madame de Beauséant («Più freddamente calcolerete, più avanti andrete. Colpite senza pietà, sarete temuto»), Delphine de Nucingen, di cui è amante e il cui spietato egoismo lo sconcerta, e soprattutto il «paterno» Vautrin («Non ci sono principî, ma solo avvenimenti; non ci sono leggi, ma solo circostanze»); è una «formazione» non solo teorica: nella situazione in cui si trova, gli insegna Vautrin, impadronirsi del patrimonio della malinconica Victorine Taillefer è la sua migliore opportunità; basta eliminare il fratello, facendolo uccidere. Rastignac esita: la sua incertezza di fronte al «male» fa parte della sua inesperienza. È il duplice scioglimento del dramma a venirgli in aiuto: scoperta la sua vera identità Vautrin viene arrestato; Goriot muore, abbandonato dalle figlie. Ora Rastignac non ha più esitazioni; dall’alto del cimitero del Père Lachaise, dove ha accompagnato il feretro di Goriot, lancia la sua sfida a Parigi: «A noi due adesso!», e va a cena dalla baronessa de Nucingen. Il dramma di Goriot si è compiuto. Nella giungla parigina la vita continua.

  A differenza di Eugénie Grandet, il romanzo non si conclude: l’arresto di Vautrin e la sfida di Rastignac avranno un seguito. Questa «apertura» della struttura narrativa è stata mantenuta anche nel corso della narrazione; in compagnia di Rastignac, il lettore è uscito spesso dall’universo della pensione Vauqueur, per attraversare Parigi, entrando negli ambienti, così diversi, dell’aristocrazia parigina, incontrando personaggi, linguaggi, comportamenti, mille storie possibili: un unico universo che è possibile percorrere in ogni direzione, e di cui la pensione Vauqueur, con il suo tristissimo papà Goriot, è soltanto un frammento. Il fatto è che Balzac, proprio lavorando a Le père Goriot, prende pienamente coscienza del carattere unitario della propria opera. Avverte di essere l’autore di un unico grande «mosaico», un sistema narrativo in cui ogni tassello, ogni personaggio, ogni «tema», entrano ormai spontaneamente in un rapporto di coerenza, coesistenza, contrasto. La tecnica del «ritorno dei personaggi», che comincia a vivere proprio in Le père Goriot (Rastignac è già apparso nel 1831, nella Peau de chagrin), la molteplicità dei punti di vista narrativi e dei linguaggi, la costruzione dell’architettura della Comédie humaine, saranno la conseguenza di questa consapevolezza.

  «Ah! sappiatelo: questo dramma non è una finzione, né un romanzo. All is true, è così vero che ciascuno può riconoscerne gli elementi intorno a sé, forse nel proprio cuore». Ma la sua verità è il risultato di un’interpretazione «drammatica» del reale. È questo il tendenzioso «realismo» balzachiano, che non rinuncia mai al punto di vista «filosofico» del narratore. Le père Goriot, pubblicato su «la Revue de Paris» tra il dicembre 1834 e il febbraio 1835, e in volume nel marzo 1835, nel 1842 entrerà a far parte delle Scènes de la vie parisienne, nella sezione delle Etudes de moeurs; nel 1845, Balzac gli assegnerà una nuova collocazione, tra le Scènes de la vie privée. L’edizione del 1842 porta la dedica «al grande e illustre Geoffroy de Saint-Hilaire», maestro dell’«unità di composizione», scienziato dell’unità dinamica dell’universo.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Affreschi e miniature: Balzac in Proust, in Proust oggi. Atti del Convegno di Parma (1985), a cura di Luciano de Maria, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1990 («Atti-Testimonianze-Convegni», 6), pp. 49-59.

 

  Chi cerchi di tracciare una mappa delle predilezioni balzacchiane di Proust si trova innanzitutto di fronte a un’affermazione cui Proust sembra restar fedele tutta la vita, perché trasmigra intatta da Jean Santeuil a Sodoma e Gomorra: l’affermazione secondo la quale Balzac bisogna leggerlo tutto, amarlo tutto. È lo scrittore C. – colui che narrerà la storia di quel Jean Santeuil che gli somiglia come un fratello – a spiegare nella Préface al giovane narratore che sta leggendo Le curé de village [...].

  In Sodoma e Gomorra è il barone di Charlus a pronunciare un’analoga professione di fede balzacchiana: al narratore, che gli chiede che cosa preferisca nella Comédie humaine. Charlus. balzacchiano fervente come Oscar Wilde e Montesquiou, risponde: «Tout l’un ou tout l’autre, les petites miniatures comme Le Curé de Tours et La Femme abandonnée ou les grandes fresques comme la série des Illusions perdues».

  Ma l’omaggio che Proust rende, per bocca dello scrittore C. e di Charlus. alla totalità dell’opera di Balzac è dettato più dal suo rispetto estetico per l’unità “vitale e non logica” della Comédie humaine che da un amore indifferenziato per tutti i romanzi, per tutte le novelle, per tutti i personaggi di Balzac. Se è vero, come ha notato nel suo studio incomparabile Bernard Guyon [Proust et Balzac, in Entretiens sur Marcel Proust, 1966], che dai tempi di Jean Santeuil sino agli anni della Recherche Proust va progressivamente “impregnandosi" sempre più di Balzac, non è men vero che si tratta di un impregnamento estremamente selettivo. Dall’orizzonte di Proust restano escluse, non perché non le conosca, ma perché non lo attraggono affatto, zone molto ampie dell'opera di Balzac: per esempio le Études philosophiques, con la sola eccezione della Recherche de l’absolu, oggetto di un lungo articolo di Sainte-Beuve. Non è un’esclusione che sorprenda eccessivamente, perché sarà soltanto il saggio di Curtius del ʼ23 (tradotto in Francia dieci anni dopo) a collocare nella sua giusta luce il Balzac “filosofico”: Émile Faguet parlava, nel 1887, dello spiritualismo di Balzac definendolo “lo spiritualismo più materiale che ci sia”, uno “spiritualismo da veterinario” e Brunetière, nel suo studio del 1906, pur rendendo omaggio alla filosofia sociale di Balzac, sospirava: «... j’aime mieux ne point parler de la Peau de chagrin, de Louis Lambert ou de Séraphîta». Al polo opposto delle Etudes philosophiques come fortuna critica troviamo Eugénie Grandet, che persino agli occhi del malevolo Sainte-Beuve è quasi un capolavoro [...] e che suscita l’ammirazione di Faguet per la giusta proporzione delle parti e quella di Brunetière per la sua “semplicità”? Ma se Proust nei confronti di Louis Lambert, del misticismo di Séraphîta, dell’ammirevole trilogia sull’arte che comprende Le chef-d’oeuvre inconnu, Gambara e Massimilla Doni, condivide il disinteresse di Faguet e di Brunetière, non vuole però a nessun costo condividere il loro classicismo filisteo, la propensione al “sano realismo”; perciò ad Eugénie Grandet, su cui non si sofferma mai, preferisce le zone malsane e tenebrose del mondo balzacchiano, quelle in cui fioriscono di pari passo, oscuramente solidali, passioni contro natura e società segrete; zone che Brunetière sospettava prossime al feuilleton e inquinate dai residui del peggior romanticismo, e delle quali Faguet distoglieva virtuosamente lo sguardo accennando a mezza voce a “eccezioni sinistre o vergognose”, a orrori indeterminati come gli innominabili mostri vischiosi di H.P. Lovecraft.

  Sulle tracce di Oscar Wilde — penso a The Decay of Lying: della raccolta di saggi che lo comprende escono in Francia, tra il 1905 e il 1906, ben due traduzioni — Proust privilegia, nell’opera di Balzac, Lucien de Rubempré: e, in particolare, il rapporto tra Lucien e Vautrin colto nel suo momento iniziale, alla fine di Illusions perdues. Là dove Faguet non vedeva che «histoires noires de forçats étranges», là dove Brunetière riconosceva nel falso canonico che seduce il giovane poeta uno stretto parente del conte di Montecristo, Proust vede quel che più lo interessa al mondo: un discendente degli abitanti di Sodoma che in mille gesti e discorsi involontariamente rivelatori tradisce il proprio segreto, e un giovane bello e senza scrupoli che, intuito questo segreto, lo sfrutta con un misto di disgusto e di cinismo, avviandosi così verso un destino già scritto, a sua insaputa, nella sua struttura fisica delicata e femminea, complementare alla forza erculea di colui che diventerà il suo signore e padrone. ‘analisi proustiana dell’incontro di Lucien con il falso canonico che. salvandolo dal suicidio, acquista su di lui un potere illimitato, e uno dei passi più interessanti del Contre Sainte-Beuve, perché è uno di quelli più densi di spunti che verranno ripresi nella Recherche come elementi narrativi. [...].

  L’interesse di Vautrin per un giovane di cui non sa nulla e di cui dunque soltanto l’aspetto fisico ha potuto interessarlo, lo ritroveremo a più riprese in Charlus: pensiamo a quando a Balbec fissa sul narratore che ancora non conosce sguardi così intensi da far pensare a un pazzo o a una spia: pensiamo all’incontro con Morel alla stazione di Doncières. Ma la scena in cui i gesti e le parole di Charlus ricalcano più fedelmente quelli di Vautrin è quella dei Guermantes in cui il barone percorre un pezzo di strada con il narratore, che ha incontrato nel salotto di Mme de Villeparisis. Se Carlos Herrera-Vautrin [...] prende due volte Lucien sotto il braccio, la prima volta in un gesto di tenerezza che Balzac definisce “materno”, la seconda volta per farlo salire in carrozza, il barone di Charlus cammina a lungo tenendo a braccetto il narratore: se ne staccherà solo all’apparire del pettegolo M. D’Argencourt, “mulierasta” – per usare un’espressione di Oscar Wilde — che vede l’inversione dappertutto. Quella che Proust definisce «la parentesi sull’uomo che aveva la passione di mangiare la carta» è una di quelle abnormi digressioni balzacchiane sulle quali si è esercitata per decenni la severità dei critici; si tratta di un lungo aneddoto che ha una base storica reale, però rielaborata liberamente da Balzac. È la storia di Ernest-Jean de Biren, giovane e bellissimo segretario del barone di Goërz, ministro delle finanze del re di Svezia nel 1715. Secondo il racconto di Vautrin, nulla riesce a correggere questo affascinante giovane di umili origini dal suo vizio, che è quello di divorare la carta: dopo essersi mangiato un trattato di pace, con le complicazioni diplomatiche che ognuno può immaginarsi, il bel segretario viene condannato a morte: si salva per miracolo, non rinuncia affatto alla sua pericolosa abitudine e ciò nonostante riesce avventurosamente a diventare principe di Curlandia e reggente alla morte di Caterina di Russia. Colpito dal carattere rivelatore che questo strano racconto assume in bocca a Vautrin, Proust ne fa raccontare uno un po’ analogo, nella scena dei Guermantes che abbiamo citata, da Charlus, che passeggia tenendo sotto braccio il narratore ed esponendogli le sue teorie “sull’alleanza a due nella vita”.

  Se l’aneddoto di Vautrin metteva in scena il mondo della diplomazia e dell’alta politica, quello di Charlus si apre chiamando in causa Guglielmo II, il Kaiser. L’imperatore di Germania, spiega il barone allo sprovveduto narratore, appartiene a una “massoneria” tutta particolare che è la sua follia, la sua chimera: se una parte del suo entourage riuscisse a distaccarlo da questa chimera, a guarirlo da questa follia, la Germania potrebbe andare incontro a una guerra. Charlus allude alle posizioni pacifiste del gruppo dei cosiddetti Cavalieri della Tavola Rotonda, intimi del Kaiser e future vittime (nel 1907) del caso Eulenburg. All’imperatore di Germania Charlus paragona uno dei propri cugini, affetto da una malattia immaginaria allo stomaco: convinto da un medico delle perfette condizioni del suo stomaco, guarito quindi dalla sua “chimera”, il poveretto è morto di nefrite, perché ha abbandonato una dieta salutare cui si atteneva da anni. La morale che il barone illustra con questo duplice esempio è che «il y a des maux dont il ne faut pas chercher à guérir parce qu'ils nous protègent seuls contre de plus graves».

  A differenza di Lucien — che intuisce in un lampo dove va a parare il suo sedicente canonico — il narratore della Recherche non sembra in grado di diagnosticare la “follia”, prestigiosa e inguaribile, che nella narrazione di Charlus ha preso il posto della bizzarra mania di Biren di divorare la carta: sarà Morel, quando conoscerà il barone, a capirne al volo le inclinazioni e ad approfittarne, come un Lucien de Rubempré più venale, più canagliesco, più ignorante, destinato non al suicidio ma — com’è giusto in un mondo in cui trionfano i Bloch e i Verdurin — al successo mondano.

  Se dietro la gestualità compunta e gli obliqui sguardi gesuitici di Charlus s’intravede l’ombra del falso canonico Carlos Herrera, dietro la storia della prigionia e della fuga di Albertine si profila nettamente — è Proust a segnalarcelo, con una citazione discreta ma esplicita — la storia di Paquita, la balzacchiana “fille aut yeux d‘or”. vittima come Albertine del proprio fascino felino e infantile, che agisce con pari forza sugli uomini e sulle donne. Questa presenza di Balzac nelle zone della Recherche dominate dalla figura imponente di Charlus e dal dramma di Albertine ci conferma le predilezioni proustiane che già si intravedevano nel Contre Sainte-Beuve: se il “Balzac de Monsieur de Guermantes” è al tempo stesso un minuzioso osservatore e un “delizioso” romanziere d’evasione, il Balzac de Monsieur Proust è quello che si addentra nelle zone più inquietanti, quello che intuisce le «mystérieuses lois de la chair et du sentiment», quei segreti che dietro la facciata delle apparenze trasformano Parigi in una città delle Mille e una notte mettendo in comunicazione, attraverso tenebrosi labirinti sotterranei, luoghi ed eventi apparentemente lontanissimi. Quando Charlus afferma di amare egualmente, in Balzac, affreschi e miniature, esprime il pensiero di Proust (l’immagine ricompare nella corrispondenza proustiana), ma dovrebbe aggiungere una precisazione: ama gli affreschi e le miniature in cui si nasconde, in cui si offre a chi sa decifrarlo, un segreto. I tre titoli che cita sono, a questo proposito, esemplari: Le Curé de Tours, La femme abandonnée e Illusions perdues. Del segreto di Vautrin in Illusions perdues abbiamo già parlato; Le Curé de Tours e La Femme abandonnée riguardano zone del tutto diverse dell’esperienza umana, come se Charlus volesse esibire un certo eclettismo estetico e psicologico per distrarre gli ascoltatori dal carattere troppo soggettivo e rivelatore delle sue predilezioni. Si tratta comunque di due testi in cui l’elemento del segreto è di estrema importanza. Nella Femme abandonnée quel che mette in moto la vicenda narrata è la curiosità di Gaston de Nueil per la vita misteriosa e appartata di Mme de Beauséant; nel Curé de Tours troviamo invece al centro del racconto il dramma di una decifrazione mancata. Circondato da piccoli segni di ostilità che turbano la sua pacifica routine, il candido curato Birotteau non riesce a comprendere che si tratta dei sintomi allarmanti di una odiosa cospirazione contro di lui. La perfidia di Mlle Gamard, la potenza enorme dell’abate Troubert che da sempre mira a impadronirsi del suo appartamento, dei suoi mobili, della sua biblioteca, restano per lui un mistero finché non vengono clamorosamente allo scoperto; da questa sua incapacità di interpretare i segni dell’inapparente deriva il fallimento della sua intera esistenza. Un altro testo che Charlus non cita ma che è lungamente ricordato nel Contre Sainte-Beuve, La vieille fille, è ugualmente incentrato su di un segreto, la cui mancata decifrazione ha risultati disastrosi: il segreto dell’impotenza di du Bousquier, l’apparentemente florido pretendente di Mlle Cormon. Non so se sia mai stato notato, tra l’altro, che nella Vieille fille i frequentatori del salotto di Mlle Cormon vengono definiti per ben tre volte i suoi “fedeli”, come gli adepti dei mercoledì di Mme Verdurin.

  La nozione di segreto mi sembra occupi dunque nella sensibilità del Proust lettore di Balzac il posto centrale; è il vero discrimine tra la sua lettura e quella dei critici del suo tempo, di un Faguet, di un Brunetière cui pure egli si avvicina in modo così evidente quando, nel Contre Sainte-Beuve depreca la volgarità balzacchiana. la sicurezza ciarlatanesca con cui l’autore della Comédie humaine esprime compiaciuto, ad ogni proposito, le proprie opinioni. Per trovare un'osservazione illuminante sul ruolo del segreto e della sua decifrazione nell’arte di Balzac, Proust doveva risalire — a monte di Faguet, di Brunetière, di Bourget – fino al saggio di Taine del 1858. Vi trovava un paragrafo fondamentale in cui Taine, cercando di definire il vero ideale di Balzac, la conoscenza, paragonava lo scrittore ai grandi medici della Comédie humaine [...].

  Questa pagina non è sfuggita all’attenzione di Proust; quando, in Sodoma e Gomorra, sul trenino, Charlus cita al narratore i suoi Balzac prediletti — gli stessi ricordati da Taine, più La Fausse Maîtresse [...]. L’intuizione profonda di Taine — cui Proust rende omaggio in queste righe attraverso le parole del Barone — è quella di mettere in luce in Balzac, accostandolo ai medici di genio dei suoi romanzi, il grande decifratore di sintomi, di realtà nascoste che trapelano in un particolare la cui interpretazione è dubbia, difficile, forse pericolosa, ma conduce alla verità. Qui ci troviamo veramente di fronte al Balzac di cui Proust assimila la lezione senza riserve; il Balzac di cui si dice, in Jean Santeuil, che si chinava su di un appartamento per decifrarlo come una carta geografica o come il grimoire polveroso della storia: il Balzac che nel Carnet del 1908 è indicato come il maestro di Barbey d’Aurevilly nell’interpretare certi tratti fisici, nel leggere in certe misteriose somiglianze le “tracce viventi” dei segreti del passato.

  Anche La Fausse Maîtresse, la novella che il barone aggiunge all’elenco di Taine, definendola “enigmatica”, è imperniata su di un segreto, il duplice segreto del conte polacco Taddeo Paz. Taddeo, esule privo di Beni di fortuna, vive a Parigi in una sorta di rapporto simbiotico con un altro giovane aristocratico polacco, Adamo Laginski, che gli ha salvato la vita in guerra. Adamo, ricchissimo, è di carattere debole; Taddeo veglia sui suoi interessi “comme une bonne ménagère”, nutre per lui un sentimento materno (come Vautrin per Lucien), ancora come Vautrin gode per procura dell’esistenza brillante e dei successi dell’amico. Adamo Laginski decide di sposarsi e la sua scelta cade su Clémentine de Rouvre; si tratta, sfortunatamente, di una fanciulla che Taddeo ama senza speranza, all’insaputa di tutti. Con il matrimonio comincia per Taddeo una vita di sacrifici eroici; pur essendo bello e robusto quanto Adamo è brutto e mingherlino, egli non cerca di mettersi in buona luce agli occhi di Clémentine e veglia quasi invisibile sulla felicità della giovane coppia. Per nascondere il proprio vero segreto, Taddeo è costretto a mettere al centro della propria esistenza un segreto falso: si finge perdutamente innamorato di una cavallerizza da circo, Malaga, e per conferire più verisimiglianza alla finzione la mantiene sontuosamente, senza però mai far valere i propri diritti su di lei. In una notte di carnevale giunge ad esibirsi in un ballo pubblico — sotto gli occhi di tutta Parigi e dell’indignata Clémentine — al seguito della muscolosa acrobata travestita da sauvagesse. Non è difficile discernere in questa strana novella gli elementi che verosimilmente colpiscono il barone di Charlus: la poesia di una amicizia virile che trionfa su tutti gli altri sentimenti [...], la situazione di Paz costretto a mentire costantemente, a dissimulare dietro a un romanzo stravagante i suoi veri sentimenti, infine l’immagine bizzarramente androgina di Malaga, sorta di “déesse de la gymnastique” dotata di una forza erculea. Credo che tra questi elementi diversi che s’intrecciano, l’elemento prevalente sia ancora una volta quello del segreto: accanto a La Fausse Maîtresse troviamo infatti tra i testi prediletti di Proust e di M. de Charlus un’altra novella nella quale non ci sono né amicizie virili né androgini conturbanti, ma nella quale i segreti sono più di uno e compaiono fin dal titolo: Les secrets de la princesse de Cadignan. È forse la novella di Balzac citata da Proust in più testi diversi: compare nell’articolo del maggio 1904 dedicato al salotto della contessa Potocka. nel post-scriptum alla prefazione della Bible d’Amiens, nel Contre Sainte-Beuve, in Sodoma e Gomorra. Inoltre i due protagonisti, lo scrittore d’Arthez e Diane de Maufrigneuse, principessa di Cadignan, figurano nel pastiche dedicato da Proust a Balzac. Il titolo di questa novella si presta a una duplice interpretazione. I segreti di Diane de Cadignan sono per prima cosa, evidentemente, quelli del suo passato: le molte avventure amorose che questa “regina di Parigi” a suo tempo non si è mai curata di nascondere e che, nel momento in cui. a trentacinque armi, s’innamora veramente dello scrittore d’Arthez, vorrebbe non gli giungessero all’orecchio. Ma Diane è depositaria di altri segreti, che affiorano nel corso della novella: il segreto di trasformarsi, con una posa o una frase ben scelta, in un angelo di candore; il segreto di suggerire con i toni grigi di un abito lungamente studiato un’immagine austera, quasi monastica della propria vita: il segreto di farsi credere dall’uomo che ama innocente e calunniata, mentre il suo passato è quello di un “Don Juan femelle”. L’interesse di Charlus, come quello di Proust, si distribuisce equamente tra i segreti dell’arte, della civetteria di Diane e quelli del suo passato. In Sodoma e Gomorra dal muto, ammirevole linguaggio della toilette grigia della principessa, che gli par di riconoscere nell’abito di Albertine. il barone scivola quasi inavvertitamente verso i segreti meno innocenti di Diane de Maufrigneuse, in un moto irresistibile d’identificazione [...].

  Già nel Contre Sainte-Beuve Proust aveva immaginato un identico moto d’identificazione, attribuendolo però provvisoriamente a un uomo politico dal passato poco chiaro o a “une femme de mauvaise vie”; qui l’identificazione acquista ben altro rilievo, grazie a una sorta di gioco di specchi che Proust instaura tra Illusioni perdute e I segreti della principessa di Cadignan. Il lettore si accorge infatti che Charlus non è affatto consapevole della propria somiglianza con l’erculeo forzato in abito talare, dal quale pare aver ereditato tutto un linguaggio di sguardi e di gesti misurati ma carichi di segreta violenza, di cieco desiderio, di mal dissimulata energia. Sotto la suggestione della novella di Balzac, egli contempla se stesso in uno specchio interiore, per lui solo visibile, che gli restituisce l’immagine angelica e seducente della bionda Diane de Cadignan; perduto nella sua fantasticheria, pare drappeggiarsi maestosamente in una toilette grigio perla del 1830. D’altronde, il suo entusiasmo di raffinato uomo di cultura per quei “segreti” balzacchiani che penetra con tanta finezza, avrà un solo risultato: quello di attirare ancora una volta l’attenzione di Brichot, di Cottard, di tutti i suoi compagni di viaggio sul suo segreto, che il barone è ormai il solo a ritenere tale. Reincarnandosi così nel segreto di Charlus, i segreti di Diane de Cadignan rivivono in forma caricaturale; le cose andranno diversamente con la vicenda di Albertine, che riprenderà la storia di segregazione e di morte della Fille aux yeux d’or sul registro tragico, dilatandola enormemente, moltiplicandone gli orizzonti, disseminandola di vertiginose aperture sull’ignoto che nessuno sarà mai in grado di colmare. Ma al di là delle figure di Charlus e di Albertine. i “segreti” di cui Balzac segnalava l’esistenza in qualche vita d’eccezione, in Proust dilagano, invadono il mondo, permeano l’esistenza di tutti. Se in Balzac pullulavano le spie di professione — Peyrade, Corentin e i loro accoliti — in Proust è l’eroe stesso che è costretto a farsi spia nel corso del suo appretissage: le più preziose conoscenze non potrebbero giungergli in altro modo. La topografia di Sodoma non coincide più con il mondo ristretto degli ergastolani o di qualche ambigua società segreta, si estende all’infinito, e i segnali luminosi delle abitanti di Gomorra, intermittenti e minacciosi come il mitico “raggio della morte”, attraversano pasticcerie e casinò, parchi periferici e stabilimenti di bagni, grandi magazzini e salotti. Chi non ha da nascondere un’inclinazione “contro natura o “il peccato che Dio non perdona, lo snobismo”, (è naturalmente lo snob Legrandin a definirlo in questi termini) si porta ugualmente dietro un segreto che crede che gli altri non vedano, e proietta incessantemente su di loro: la coscienza mascherata e inconfessata dei propri torti. L’autoinganno con cui ciascuno, nell’ebbrezza dell’ “obliquo discorso interiore”, racconta a se stesso l’accattivante romanzo della propria innocenza è la forma che l’onnipresenza del segreto assume nel mondo di Proust. In Balzac, l’azione deformante e dissimulata del segreto trasformava la deliziosa principessa di Cadignan in una scimmia sogghignante, in un “Tartuffe femelle”, e Vautrin in un’incarnazione grottesca e straziante della maternità: in Proust quest’azione s’ingigantisce, provocando un analogo, mostruoso sviluppo di quell’ossessione dell’indizio, della decifrazione, che già Balzac aveva esteso dai confini ristretti della fisiognomica di Lavater a quelli più fluttuanti e più vasti della storia dei costumi. All’ossessione decifratoria sfuggono, nell’opera di Balzac. i destini di Louis Lambert e di Séraphîta: si tratta di due creature sublimi che per vie diverse —, l’uno attraverso la sua follia metafisica, l’altra attraverso l’estasi mistica — riescono a sottrarsi alla logica dell’autoconservazione e quindi alla necessità di decifrare i segni del desiderio altrui per difendersi e rafforzarsi. Anche il narratore della Recherche persegue un’analoga liberazione dai meccanismi del desiderio egoistico ma, rispetto a Séraphîta e a Louis Lambert, in direzione opposta: non astraendosi dalle seduzioni del narcisismo, ma immergendovisi ossessivamente, fino in fondo. È quest’immersione a fare della sua scrittura un instancabile lavoro ermeneutico, un’opera continua di smascheramento; il suo itinerario non farà che procedere, come quello di Edipo secondo le parole di Paul Ricoeur, «vers la ruine de cette conscience présompteuse qui a présumé son innocence».

 

 

  Enzo Caramaschi, “Descrittivo” e “narrativo” nel romanzo francese dell’Ottocento, in Il terzo Zola. Emile Zola dopo i “Rougon Macquart”. Atti del Convegno internazionale (Napoli-Salerno-Ravello, 27-30 maggio 1987), a cura di Gian Carlo Menichelli, con la collaborazione di Valeria De Gregorio Cirillo, Napoli, Istituto Universitario, Studi e Ricerche di Letteratura e Linguistica Francese III, 1990, pp. 9-22.

 

  Cfr. anche 1988.

 

  [...]. Ricchezza dell’impresa romanzesca del primo «realismo» francese, quello che solo dal romanticismo poteva nascere: alla pressione esercitata ormai irresistibilmente dall’«ambiente» sull’azione romanzesca. la risposta di Balzac e quella di Stendhal ci appaiono quasi opposte. Per primo, Balzac si era sentito come invaso e sommerso da tutto quanto egli sentiva il bisogno di notare e di far notare nella cornice elastica del suo romanzo. Alla sfida delle «cose» che si accalcavano alla porta del racconto, minacciando di invaderlo o di paralizzarlo, aveva risposto in primo luogo con un pesante apparato di osservazioni, di rimandi, di ammiccamenti, di astuzie, destinato a captare o a deviare secondo i casi l’attenzione del lettore abituale di romanzi abituali.

  Per far accettare dal pubblico la proliferazione dei particolari, per obbligarlo a legger tutto anziché saltare a pié pari quanto non rispondesse all’immediato interesse romanzesco, bisognava anzitutto rendere plausibili tutti questi particolari, quindi situarli in rapporto a quelli dei personaggi che si prestassero in modo più o meno convincente a metterli in valore, e, prima ancora, a metterli in orbita. È verso il 1830 che Balzac affronta seriamente il problema, psicologico e tecnico, del «punto di vista» nel romanzo: spintovi dalla sua crescente ubiquità intellettuale, ma più immediatamente in funzione dell’utilizzazione di materiali sempre più vasti e varî.

  Pullulano nella Comédie Humaine i passi che rivelano la presa di coscienza da parte sua del latente conflitto tra le esigenze e le ambizioni della visione dell’autore e lo statuto ottico, per così dire, del personaggio: conflitto che si accusa nel momento in cui il romanziere prende un interesse diretto, personale in quanto esula dal compito propriamente narrativo, e pittorico nella fattispecie, a tutto quanto circonda le sue figure o spazio sociale e nello spazio fisico.

  Si prenda uno dei «quadri» più laboriosi della Comédie Humaine, quello che apre La Maison du Chat-qui-pelote (1829). Visione al rallentatore attribuita a un personaggio e situata con lunghe precauzioni in rapporto a lui – ma in cui troppe cose, ben presto, si allontanano dall’orizzonte mentale di esso, così da render necessario l’intervento di un «osservatore» che rileva in alternanza con lui oggetti e movimenti: osservatore il cui statuto oscilla, come tanto spesso accade con Balzac, tra quello di un commentatore intellettuale o visuale vagamente situabile, e quello del testimonio preciso dell’hic et nunc, che coincide allora col narratore o direttamente con l’autore.

  Ma ben presto questi inventari tenderanno a farsi più sottili e meglio situati: in collegamento diretto con lo scoprirsi Balzac una sensibilità di pittore di fronte alla natura, e quasi una vocazione di paesaggista realista. Testi che si collocano per la maggior parte tra il 1829 ed il 1834 ci mostrano un Balzac lungamente e amorosamente attento a ciò che il fascino, la potenza estetica di una «scena» naturale devono alle sorprese della prospettiva, ai privilegi dell’ora, ai capricci della luce, al gioco dei contrasti o delle convergenze improvvise, alla scelta fortunata o abile del punto di osservazione, alle improvvisazioni spettacolari della meteorologia. Gli aspetti mutevoli del paesaggio hanno affascinato, soprattutto nella sua giovinezza, un occhio di artista che sappiamo ricercatore e creatore ad un tempo di opposizioni e di contrasti. E un paesaggista in prosa sa d’istinto che lo spettacolo, cioè lo stato di grazia estetico offertoci dalla dea natura, è una cosa che dura in senso bergsoniano, cioè che cambia. Con i mezzi successivi della prosa, il Balzac degli Chouans, ad esempio, si sforza di rendere fedelmente l’evoluzione o gli stati successivi di una «scena» naturale lavorata, modificata dall’azione congiunta della luce, dell’ora e degli agenti atmosferici. Quello che dopo di lui faranno sistematicamente i fratelli Goncourt; in certo senso, quello che faranno ancora più tardi, con i grandi mezzi della pittura che implica il tempo nello spazio laddove la prosa non può che esplicare lo spazio attraverso il tempo, i plein-airistes della linea Monet Pissarro Sisley. Ma non a caso, probabilmente, Balzac fa le sue prime prove di paesaggista nel suo primo romanzo bretone, Les Chouans. La rottura con le routines dello sguardo, il dépaysement di fronte a un paesaggio come quello dell’Ovest, possono equivalere sul piano artistico a un’operazione di cateratta ... E lo svegliarsi letterariamente al paesaggio dapprima esotico ricalca o prefigura l’evoluzione della narrativa francese di quegli anni, che giunge al romanzo di costume contemporaneo attraverso il romanzo storico, che si interessa all’ambiente moderno e quotidiano dopo e in forza del lungo ed evasivo interesse portato al pittoresco «storico» ed esotico. Il prolungarsi e trasformarsi del romanticismo in realismo comporta un certo passaggio dall’evasione all’impegno, correlativamente ad un approfondimento del décor in milieu.

 

 

  Daniela Castelli, Il linguaggio meta fonologico nell’opera narrativa di Honoré de Balzac (l’anno 1832 e “La Recherche de l’absolu”). Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1990.

 

 

  Ottavio Cecchi, Qualcuno sa tutto di noi, «l’Unità. Giornale del Partito comunista italiano», Roma, Anno 67°, n. 257, 1 novembre 1990, p. 1.

 

  È stato scritto e ripetuto che noi uomini d’oggi viviamo in un pianeta dove tutti sanno tutto di tutti. Forse è vero, forse no. Per capire i segreti dell’uomo del suo tempo, Honoré de Balzac immaginò di andare a sedersi su una sedia sul Boulevard de Gand (era questo il nome del Boulevard des Italiens durante la restaurazione): «Decisi di constatare semplicemente gli effetti prodotti al di fuori dell’uomo dai suoi movimenti, di qualsiasi natura essi fossero. Decisi di annotarli, di classificarli; poi, conclusa l’analisi, di cercare le leggi del bello ideale in fatto di movimento, e di redigerne un codice per le persone interessate a dare una buona idea di se stesse, dei loro costumi, delle loro abitudini, dal momento che l’andatura è, a mio giudizio, il prodromo esatto del pensiero e della vita». Nacque così quella Teoria dell’andatura che permette all’osservatore di capire un uomo dal modo di muoversi, di camminare.

  Tutto starebbe a dimostrare la giustezza della riflessione che si è accettata e respinta all'inizio. Ma il fantastico e visionario Balzac, dalla sua sedia sul boulevard, ci dice che l’osservazione ha un limite, un ostacolo che più tardi avrebbero incontrato (come osserva Franco Rella nel saggio che accompagna l’edizione italiana della Teoria [cfr. 1986]) anche Flaubert e Kafka. L’ostacolo, o limite, si trova tra il visibile e l’invisibile. Dalla sua sedia sul boulevard, Balzac aveva già tentato di raggiungere l’invisibile osservando e descrivendo il visibile, l’andatura, il movimento. L’invisibile è come un abisso dove il folle precipita e lo scienziato e lo scrittore invece s'inoltrano per misurarlo.

  Giorni fa, in un vociante e affollato viale nei pressi dell’Università di Roma, costretti all’immobilità nella vana attesa di un tassì, abbiamo ripensato alla teoria di Balzac. Ci siamo accomodati sulla sua sedia e abbiamo tentato di osservare l’andatura di tutta quella gente affannata. Stare tra la follia e la scienza è un bell’azzardo. Di là dal limite c’è il nulla. Precipitare come il folle o misurare l’abisso come lo scienziato, come Balzac, come Flaubert, come Kafka? Miserere del nostro ardire. Sta di fatto che quello spettacolo, quel movimento e tutte quelle andature alla fine ci suggerirono un paesaggio al di là del visibile.

  Il paesaggio era fatto di pensieri suggeriti dall’andatura di tutta quella gente. Che cosa sapevamo della coppia anziana che tentava inutilmente di attraversare il viale? Che cosa sapevamo di quel tale che, fermo sulla scalinata di una clinica, appoggiato a un bastone, aveva tutta l'aria di un vecchio flâneur? Che cosa sapevamo di quella gente stipata nell’autobus di passaggio? Di tutte quelle andature, potevamo solo comporre un insieme eterogeneo. Il movimento rimandava l’osservatore a una comune indifferenza che, di tutti quegli individui, faceva una massa sollecita dei propri particolari. Non era possibile chiedere nient’altro a quegli abitanti di una città, che non era riuscita a fare di essi dei cittadini. E questo era il codice dell’andatura che l’osservatore aveva composto per proprio uso momentaneo. Ognuno appariva affidato a se stesso, alle proprie forze e possibilità. Nessuno si presentava con quei segni, assai poveri del resto, che la grazia di Luigi Filippo aveva conferito ad alcuni parigini che si muovono nella Teoria di Balzac: i segni di un fasullo pari di Francia. [...].

  Nessuno, su nessuna sedia, su nessun boulevard può osservare la sua andatura, misurare il limite tra visibile e invisibile, farsi una teoria come quella di Balzac. Non tutti sanno tutto di tutti. Qualcuno sa tutto di noi, ma noi non sappiamo niente di lui. Lo Stato e i mezzi di informazione ci dicono ciò che già sappiamo: che non si sa niente. Anzi, che si sa di non sapere. Così stanno le cose. A pensarci bene, pare questa la sola teoria dell’andatura possibile oggi in Italia.

 

 

  Ottavio Cecchi, Un racconto sulla strada dell’eterno ritorno, «l’Unità. Giornale del Partito comunista italiano», Roma, Anno 67°, n. 272, 18 novembre 1990, p. 15.

 

  Il nuovo libro di Elisabetta Rasy si intitola «L’altra amante». È una storia aperta che insegue la memoria i quattro personaggi suggeriti da una novella di Balzac.

 

  L’altra amante nasce dalla lettura di una novella di Balzac, La fausse maîtresse, come trascrizione, e quindi non come riscrittura, ma come appropriazione, come esercizio e, quel che più conta, come riparazione dovuta alla «falsa amante», costretta, nel racconto di Balzac, a occupare un posto vuoto, come se questa figura di donna marginale e irregolare – e questo, insieme alla riflessione sul ritornare delle storie, è il secondo momento chiave del racconto – non fosse che un buco nero, o un puro espediente narrativo». E qui siamo nel vivo del racconto. [...].

  È in questi spazi che si forma L’altra amante. Si forma per aggiunte necessarie, tendenti a una irraggiungibile compiutezza. Ma una storia compiuta è una storia che muore nella sua perfezione. È una storia che non sente più il desiderio di ripetersi. L’altra amante, come la novella di Balzac, desidera invece ripetersi, offrirsi a sua volta alla trascrizione e all’esercizio di sopravvivenza. Stella è viva e bella perché precaria e imperfetta. Essa colma, come donna, il posto vuoto della «falsa amante» balzachiana.



  Catia Cisolla, La conception de l’homme et de l’ange dans «Séraphîta» de Balzac. Tesi di laurea, Università degli studi di Padova, 1990.


 

  Raffaele de Cesare, La prima fortuna di Balzac in Italia (1830-1850). V. (1846-1850), «Aevum», Milano, Anno LXIV, fascicolo III, settembre-dicembre 1990, pp. 521-589.

 

 

  Michel Crouzet, Stendhal. Il signor Me stesso. Edizione italiana a cura di Mariella Di Maio, Roma, Editori Riuniti, 1990 («I Grandi»).

 

Stendhal in congedo. 1836-1839.

 

  pp. 914-918. Dupont anche questa volta indovina il lancio del libro: due anticipazioni contenenti la «prima battaglia», cioè la parte su Waterloo, uscirono su Le Constitutionnel del 17 marzo con un trafiletto elogiativo, e su Paris-Elégant, Journal de Modes del 20 marzo. Balzac che aveva incontrato Stendhal da Custine, in occasione della lettura del suo dramma L’Ecole des ménages l’8 marzo, e che aveva ricevuto da lui un biglietto firmato «Cotonet» (egli segnala questa mania degli pseudonimi a Mme Hanska), ha per l’appunto letto la pubblicazione del Constitutionnel che gli fa immediatamente commettere il «peccato d’invidia»; questo pezzo, scriverà a Stendhal, mi ha «rapito, addolorato, incantato, disperato»; era stato defraudato da lui del grande racconto di battaglia napoleonica che sognava da così tanto tempo. Le anticipazioni attribuivano l’estratto al barone Frédéric de Stendhal, il libro menzionava solo l’autore del Rouge. Quale fu dunque il successo de La Chartreuse? La sua tiratura era mediocre: lo stesso anno La Peau de chagrin viene ristampato in tremilatrecento esemplari, e Notre-Dame de Paris in tremilacinquecento. Il libro di Stendhal è esaurito in diciotto mesi: l’eco sulla stampa è più che onorevole. Occorre ripetere ciò che, per ignoranza, i moderni non comprendono più: il Romanticismo non è uno, esso è fatto, grazie a Dio, e contrariamente alla «nostra modernità», di correnti antagoniste; il miracolo, poco comprensibile ai tempi dei media onnipotenti, è che la stampa rende conto della diversità e dei dibattiti letterari. Quando nel 1834 Gustave Planche si chiede gravemente quale sarà «il re del romanzo», la disputa è tra Sand e Balzac, ben presto Eugène Sue li metterà d’accordo battendoli entrambi. Stendhal è altrove, ma la sua situazione è ben avviata: è accolto, compreso, articolato. Ritrovava ammiratori tra gli amici: Mme Gaulthier, Custine, Pastoret gli scrivono con calore ed emozione; Lingay stranamente rifiuta il dono del libro: Stendhal conserva per annotarlo l’esemplare con la dedica. Il poeta Béranger gli scrive più tardi una splendida lettera; perché negare Béranger o negargli il diritto ad un certo Romanticismo? Dal suo ritiro il poeta confessa di conoscere tutto Stendhal, che ha letto e riletto con estremo piacere La Chartreuse, si congratula con l’autore perché è rimasto, è diventato se stesso, perché è giunto ad una naturalezza dell’arte e dell’Io che lo allontana da tanti loro ex amici della Restaurazione divenuti accademici, ministri, pari di Francia, centristi pietrificati dal grottesco della storia. La Quotidienne, stupita che un console sotto un regine di «negozianti» possa pubblicare libri così sardonici, così «voltairiani» per l’ironia e la lucidità, si dichiarava prontissima, lei, l’anziana bizzosa legittimista, a soccombere a questo stile «esente da ampollosità, da manierismo, da affettazione e da pittoresco», nonostante il «filosofismo» impertinente dell’autore; su La Presse Delphine de Girardin fa l’elogio del libro in mezzo alle sue cronache sugli abiti e i cappelli; Forgues, Guizot, su Le Commerce e Le Courrier français, ripresero il loro apostolato stendhaliano mentre Frémy addirittura, su La Revue de Paris, consacrava al romanzo uno studio fondamentale che non è inferiore al più celebre articolo di Balzac. Egli si rendeva ben conto che si trattava di un libro superiore al suo tempo, venuto troppo presto o troppo tardi per essere apprezzato nel suo giusto valore, un libro che va letto «come un pezzo di musica», una trama offerta alla libera fantasticheria del lettore; prevenendo ogni critica, Frémy proponeva la lettura «cristallizzante» di Stendhal.

  Non era male per un libro di cui si e fin troppo proclamata l’assenza di successo; e poi immediatamente vi fu l’entusiasmo plateale di Balzac, che in realtà lasciava maggior spazio a critiche capitali di quanto non dicesse, e ad una sorta di incompatibilità letteraria. Il 29 marzo, per il tramite del suo portinaio, Stendhal invia il libro «al re dei romanzieri»; ma ha qualche difficoltà a raccapezzarsi tra i vari domicili di Balzac e gli scrive un biglietto al quale questi risponde immediatamente con una lettera piena di elogio e d’impazienza: Balzac era del resto in piena redazione di Béatrix, nel corso della quale pare proprio che egli abbia avuto in mente alcuni tratti di Stendhal. Il 3 aprile nuova lettera di Balzac: «Il mio elogio è assoluto, sincero ... Vi è progresso in tutto ciò che noi vi dobbiamo. Sapete quanto vi ho detto su Rouge et Noir». Così iniziato, il dibattito «tra gente superiore» si rivolgeva immediatamente al confronto delle maniere: in fondo Balzac non capiva Stendhal che attraverso se stesso; la sua lettera era un elogio è «un certificato di dissomiglianza»; per l’ubicazione dell’azione a Parma, per il movimento dell’azione, le «lungaggini», l’assenza di pittoresco o il burlesco di Rassi, Balzac enunciava alcune prime critiche: se egli avesse scritto il romanzo che Machiavelli avrebbe scritto ai nostri giorni se fosse stato vivo, l’avrebbe scritto diversamente. Il 14 aprile in una lettera a Mme Hanska rinnovava il suo roboante elogio: «Beyle ha pubblicato a mio avviso il più bel libro che sia uscito da cinquant’anni a questa parte ...».

  Ma l’11, con un bel sole e un fresco vento dell’est (Stendhal ha riportato le minute circostanze di questo episodio), il «re dei romanzieri» l’aveva incontrato sul boulevard e là, dottorale, forse chiassoso, aveva rinnovato le sue congratulazioni di grande rivale generoso, «niente di simile negli ultimi quarant’anni», «molto superiore al Rouge et Noir», ripreso le sue critiche (sopprimere Parma) e approfittato della circostanza per intavolare un corso di arte romanzesca che, secondo Forgues, Stendhal avrebbe ascoltato «con l’aria del catecumeno più docile e più rispettoso». Da parte sua vi credeva, si ergeva a maestro e a teorico, predicava la scienza, il lavoro di perfezionamento, l’ascesi delle correzioni. Stendhal aveva mai creduto ad un’arte del romanzo? Tutt’al più scrivendo Lucien Leuwen aveva tentato di ragionare sulla sua propria arte. E gli «stendhaliani» di allora lo apprezzavano per il rifiuto dello stile potente e sorprendente di Balzac, per la sobrietà tutta «classica» della sua lingua, del suo stile ellittico, ironico, riservato. Stendhal durante il colloquio sembrava come ipnotizzato; accettava le critiche, poiché le accettava sempre, si correggeva, poiché, incapace di giudicarsi da sé, aveva sempre fatto ricorso alla censura degli altri. Discuteva nel profondo di se stesso: in maggio, una lunga nota di una «Réponse à M. de Balzac» rivelerà un catecumeno recalcitrante. Ma era soprattutto incantato perché per la prima volta egli era capito, era riconosciuto, consegnato all’immortalità; Balzac gli conferiva questa gloria. Questa volta l’Io era identico, equivalente al suo atto, alla sua opera. Non poteva più dubitarne, aveva fatto un capolavoro; non si sarebbe stancato di udire Balzac, era pronto a migliorare il suo libro la cui paternità lo esaltava, meglio, lo definiva. Prima di ritornare in Italia, in una lettera firmata «Fabrice» rimpiange di non aver potuto rivedere quel confratello più giovane che cantava così alto la sua lode.

 

Un console felice? 1839-1841.

 

  pp. 959-964. Interviene allora l’articolo di Balzac: ma anch’esso conduce Stendhal a rifare La Chartreuse. Nuovo ritorno sul già scritto, nuovo passaggio sulle proprie tracce; e con quali danni! Si conoscono le aggiunte e i complementi; il lettore li legge nelle buone edizioni. Egli ignora i progetti di soppressione: non ha visto negli esemplari annotati le pagine cancellate a matita, i passaggi ch’egli legge con esultanza e che Stendhal ha pensato di sopprimere. Cosa diventava il romanzo «corretto» in questo modo? Cosa diveniva Stendhal posto sotto l’influsso di Balzac e distolto da se stesso?

  Quando legge questa scarica di elogi, questi complimenti ammassati e iperbolicamente ripetuti che gli rivolge Balzac, l’Io stendhaliano entra in crisi. Da un lato riconosce la generosità dell’altro: lui, il rivale, poiché ogni romanziere è il rivale antagonista di un altro romanziere, ha il gesto inaudito e effettivamente unico di comunicargli la sua gloria e la sua luce, di avere, dice Stendhal, un po’ di compassione «per un orfano abbandonato per strada». Senza lesinare gli elogi a getto continuo, Balzac, ben più celebre di lui, lo lanciava, lo consacrava, gli garantiva la sopravvivenza postuma; e, meglio ancora, l’articolo fiume della Revue parisienne era intelligente: un romanziere ne comprendeva un altro e ne parlava da esperto, tecnicamente. La strategia di Stendhal era ricompensata: aveva sfidato e ridicolizzato il pubblico per conquistarlo, aveva rifiutato di essere letto, congedato i lettori; Balzac gli confermava splendidamente che egli era lo scrittore dei privilegiati, degli uomini superiori, il cui «scrutinio segreto» gli era garantito. Si complimentava per il suo odio verso il successo volgare e il suo disprezzo dell’accattonaggio pubblicitario.

  Era proprio lui, la sua opera, il suo spirito, la sua persona ad essere oggetto di questa apoteosi letteraria. D’altra parte, con Stendhal bisogna diffidare dei complimenti: al limite, egli preferisce gli insulti o le critiche; «nulla mi annoia quanto il complimento», ha affermato identificandosi con un uomo che «per amare sua moglie aveva bisogno che questa lo prendesse a schiaffi». L’orgoglio ha questa follia di trovare fortuito, parziale, semplicistico il complimento: ogni qualità o ogni qualifica lo umilia; aspetta che si parli dei suoi altri meriti, che lo si ringrazi per l’infinità dei suoi talenti. Se l’Io gioca a nascondino, è perché ogni attributo d’essere gli è insufficiente. Allora Stendhal, leggendo che ha un «immenso talento», «del genio», che la sua «opera è straordinaria», che ha la «magia di un racconto orientale» – e ne tralascio altri, non meno intensi – ha un istante di vertigine; lo confessa a Balzac, si fa grande come lui, la lettura lo dilata in tutti i sensi, l’Io lusingato trionfa vittoriosamente, come Julien Sorel quando legge la dichiarazione di Mathilde; ha bisogno di spazio e di aria; esulta a tal punto che esplode nel riso; e come il suo eroe Stendhal ride tanto più forte in quanto pensa ai suoi «amici» che non l’hanno mai stimato: che faccia faranno, che muso farà quel tracotante d’Argout! Persino Domenico Fiore che, per esempio, ha bisogno dell’elogio di Balzac per trovare che Armance «ha delle cose graziose».

  Al riso immenso, tonante, all’espansione dell’Io segue la riflessione: occorre pensare per provare una tale felicità. Sin dal 16 ottobre Stendhal redige un primo abbozzo di risposta e d’omaggio; poiché di primo acchito è riconoscente a Balzac di quel gesto inaudito. Ma fa ancora due minute di lettera in quindici giorni e quella famosa risposta non sarà partita che il 30 ottobre ... se mai è partita; nell’aprile 1841 Stendhal ne parla nuovamente a Balzac in una lettera: niente gli è ancora pervenuto, e non la si è ritrovata tra le carte di Balzac. Che difficoltà in effetti a rispondere al romanziere: bisognava ringraziarlo; e di versione in versione la riconoscenza di Stendhal si affievolisce. Bisognava incassare le lodi: per quanto intense, queste sono ciò che sono. Il riso di Stendhal è ambiguo: lui sa; sa che occorre dirne molto di più per dirne abbastanza; il «mostro d’orgoglio» che sonnecchia nell’Io, che è l’Io, giudica inferiore a sé il complimento e, più cinicamente, il complimentatore.

  Allora occorre digerire questa gioia fastosa e complicata, diffidare del primo gesto e della prima minuta: l’esplosione di egotismo che vi si rivela è troppo vera, troppo nuda; Stendhal ha la sensazione di confidarsi troppo, di dirne troppo su se stesso; mai in effetti è stato altrettanto loquace sulla sua arte e la sua scrittura e i suoi modelli letterari e i suoi segreti di creazione e il suo ideale di bellezza correggiana e il suo ricorso al Codice civile e il suo ritmo di lavoro e di piacere; questa confessione letteraria è il pendant dei Privilèges: è stata almeno fatta a qualcuno? Stendhal questa volta dà l’impressione di cantarsi liricamente.

  D’altra parte, infine, Balzac era critico nei confronti de La Chartreuse: non soltanto egli interpretava il romanzo alla maniera balzachiana (la corte di Parma ne diveniva l’unico motivo, e Fabrice era molto mal compreso), non soltanto se la prendeva con la maniera stendhaliana (entrata successiva dei personaggi, decostruzione del romanzo, che assomiglia a delle Memorie, successione lineare delle avventure, assenza di descrizioni iniziali e inaugurali), ma inoltre — e con quale crudezza — biasimava lo stile (scorrettezze, mancanza di lavoro, frasi mal riuscite ...); i due romanzieri in realtà non si capivano affatto: la distinzione preliminare che faceva Balzac tra tre scuole letterarie, quella delle Immagini, nata da Rousseau, quella delle Idee, comprendente Stendhal come pure Béranger, Delavigne, Monnier, con Musset e Mérimée, e la terza, la propria, eclettica sintesi delle altre due, tendeva chiaramente a rinviare verso il passato, il XVIII secolo, verso Voltaire o Diderot l’opera di Stendhal. Era già la tendenza di un Frémy a proposito de La Chartreuse: lo stile di Stendhal vi costituiva l’oggetto un dibattito incerto. Indubbiamente la retorica di Stendhal, rifiutando Rousseau e Chateaubriand (e in queste risposte che egli sostiene di essersi battuto a duello per una frase di Atala) e Mme de Staël, si era assunta il rischio di una provvisoria solitudine; quando alla fine del secolo avverrà la crisi definitiva dell’oratoria, della forma, della frase, del verso, e lo sforzo verso l’individualizzazione della scrittura e la semplicità dello stile, è la naturalezza di Stendhal che costituirà il «classico» dei moderni e che generalizzerà la scrittura stendhaliana. Ma quei primi «stendhaliani» che abbiamo incontrato rendevano al loro maestro un servizio discutibile interpretandolo come «classico», considerandolo come l’alfiere di un’opposizione a George Sand, a Sue, a Soulié, a Hugo, allo stesso Balzac: e quest’ultimo in fondo faceva coro. Interpretazione deludente, che Stendhal si sarebbe portato dietro fino ai nostri giorni, e che lo designava, lui, il teorico del Romanticismo e della modernità, non come un altro romantico, ma come un non-romantico, un oppositore più o meno in ritardo; il gruppetto dei normaliens del 1848, Taine tra gli altri, o Zola per esempio, resteranno tributari di questa visione di uno Stendhal sostanzialmente erede di un passato classico.

  Insomma, Balzac ammirava il romanzo e non ammetteva il romanziere. Di qui l’imbarazzo di Stendhal: lo si copriva di fiori e di critiche che lo negavano come scrittore; rifiutandoli, suscitava l’impressione di esigere tutte le lodi possibili, ancora più lodi. Era soprattutto il suo stile che non poteva lasciare annientare: il senso stesso di quest’opera era in discussione. L’orfano raccolto dalla strada, dunque, recalcitra e si giustifica. Ma cede pure: su tutto, e persino sullo stile, poiché dopo tante giustificazioni della propria scrittura dichiara che «prenderà il coraggio a due mani» per correggersi e, riconoscendo di aver a volte dettato il suo romanzo, decide con contrizione: «Dirò come i bambini: non lo farò più». Strana docilità da parte di un Io così risentito; e non sono vane parole. Egli segue alla lettera le indicazioni di Balzac; certamente non può sopprimere Parma, come avrebbe auspicato il Maestro, ma può rifare l’inizio, incominciare in medias res, da Waterloo, operare un ritorno all’indietro presentando i personaggi, inserire descrizioni, ricomporre il romanzo in funzione del principio tutto balzachiano dell’unità di composizione. Corregge e ricorregge e corregge le correzioni: aveva sempre amato fino alla vertigine questa mobilità del testo, questa possibilità di arricchirlo, di rifarlo, di moltiplicarne i valori, di generarlo come nuovo. Ma il pezzo forte era il preludio: Balzac l’aveva condannato; ora, egli vi aveva messo tutto il proprio cuore, tutta la sua memoria, e Angela, l’immortale milanese; non poteva sopprimere o cambiare questo inizio; un poco alla volta scopriva l’inganno di volersi piegare al gusto di Balzac: nel febbraio 1841 si sottraeva all’influenza del romanziere e cessava di distruggere il suo romanzo; l’avrebbe certamente corretto, ma secondo se stesso. Nondimeno nell’aprile 1841 scriveva ancora una lettera al «caro grande romanziere» firmando «Fabrice del Dongo» e inviandogli il suo romanzo interfogliato perché Balzac vi mettesse le sue riflessioni.

  Non ci si meravigli che egli abbia tanto concesso ad un altro sul suo capolavoro. Che abbia a tal punto dimostrato diffidenza nei confronti di se stesso e incapacità a giudicarsi. Solo l’orgoglio supremo ha tanta modestia; solo un Io raro, unico, eccentrico può mancare di Me. E inoltre Balzac l’aveva preso per il suo punto debole, quello dei suoi inizi, al quale ritornava verso la fine della vita. Parlandogli di arte del romanzo e perfezione del genere, Balzac incoraggiava la sua antica fiducia nel metodo creativo e la sua antica credenza, un tempo così sterilizzante, in una perfezione-, il «capolavoro assoluto» è una tensione fondamentale del Romanticismo, e lo stesso improvvisatore vi crede. Balzac incoraggia questa tendenza a ricominciare e anche la tendenza a teorizzare. Egli si dice che un bel giorno farà una «poetica francese»; sulle minute di Lamiel inizia un «corso di letteratura», un’«arte di comporre i romanzi»; è anche il momento in cui è diventato un consulente letterario: consiglia, giudica, profetizza; lo si vede spesso pronunciare oracoli nelle sue lettere, e nei confronti di Custine, di Forgues, di Paul de Musset, di Hébert, di Mme Gaulthier, di un fourierista, Laverdant, che gli scrive per chiedergli di aiutarlo a documentarsi su lui stesso per uno studio sul suo metodo critico ed estetico; egli si atteggia ad oppositore. A profeta di una decadenza delle lettere e della cultura; poiché i «classici» come Nisard analizzano il Romanticismo attraverso la decadenza latina, Stendhal riprende volentieri il paragone; si, dice, siamo all’età d’argento della latinità, o meglio ancora nel basso impero: la democrazia moderna ha la stessa passione per il vago, le idee confuse e i luoghi comuni enfatici e le astrazioni. Essa distrugge lo stile e le sfumature distruggendo il gusto delle forme: Tocqueville nello stesso momento non dice nulla di diverso. La democrazia, distruggendo l’«otium» umanista e generalizzando il «negotium» delle persone indaffarate e laboriose, è compatibile con la cultura letteraria, l’immaginazione, il senso della favola e della bellezza? Dottoralmente Stendhal lo negava; la storia confermerà i suoi timori. Si sarebbero potuti salvare i due punti che più gli stavano a cuore, e che in fondo costituivano ora per lui l’anima della letteratura, l’essenziale di questo valore ingiustificabile c deperibile: il racconto e il comico?

  Se teorizzasse ora, l’autore de La Chartreuse sarebbe curiosamente accolto dagli ambienti d’avanguardia e dalle leghe morali. Per lui che credeva al racconto, il romanzo doveva innanzitutto far passare una notte in bianco, sospendere il fiato per l’emozione e far sorridere di piacere. Oggi non è più lo stesso. Stendhal non poteva dissociare la cultura dal comico: nel 1836 aveva scritto: «La commedia è impossibile nel 1836» per presentare un’edizione delle Lettres del presidente de Brosses preparata da Romain Colomb. La modernità, democratica, seria, umanitaria, condanna il riso; come diceva Tocqueville nel 1840, «persone che impiegano tutti i giorni della settimana a far fortuna e la domenica a pregare Dio non danno adito alla Musa comica». Lo spirito, il riso contenuto, quel riso sotto i baffi che Balzac aveva descritto come «il fuoco nella pietra» che illuminava e riscaldava tutto il suo romanzo, era dunque morto? Per Stendhal, come il coraggio è superiore alla vigliaccheria, così il comico è superiore al serio: non cambiava idea, rimaneva fedele a questa scelta fondamentale e anti-moderna. Sempre più credeva che la Bellezza fosse alle sue spalle, che essa si allontanasse con il progresso e a causa di esso.

 

 

  Giuliana Cutore, Introduzione, in Honoré de Balzac, Melmoth riconciliato ... cit., pp. 5-9.

 

  «Hanno detto di me che avevo ottenuto dal nemico delle anime un’esistenza prolungata ben oltre il tempo ordinario, con il potere di attraversare lo spazio immediatamente e senza difficoltà, e di visitare le regioni più lontane con la velocità del pensiero; che ho potuto sfidare la folgore senza la speranza di venirne colpito, e che sono riuscito a penetrare nelle segrete più buie a dispetto di porte e catenacci. Hanno aggiunto che questo potere mi era stato accordato perette potessi tentare i miserabili nell’ora terribile della disperazione, offrendo loro la speranza della liberazione e della sicurezza a condizione che mutassero la loro posizione con la mia ... Ma nessuno ha mai voluto scambiare la sua sorte con quella di Melmoth, l’uomo errante».

  Con queste parole Melmoth, terribile e spaventoso personaggio nato dalla fantasia del reverendo irlandese Charles Robert Maturin (1782-1824), si congeda dai suoi lettori alla fine di quel caposaldo del romanzo gotico che è Melmoth the Wanderer, nel quale il suo autore, riprendendo in parte un romanzo del 1799, il Saint Leon di William Goodwin, padre di Mary Shelley creatrice di Frankenstein, fa confluire tutta una serie di suggestioni “nere” e diaboliche, dettategli da The Monk, di Matthew G. Lewis, da La Religieuse di Denis Diderot e dalla leggenda di Asvero, l’Ebreo Errante che, secondo la tradizione, sarebbe stato condannato da Gesù Cristo a vagare eternamente per il mondo con nella borsa cinque monete che si rinnovano perpetuamente.

  Come Asvero, Melmoth è condannato dal patto stretto col diavolo a vivere in eterno, a meno che qualcuno non accetti di scambiare il proprio destino col suo. Nel lungo romanzo di Maturin, Melmoth compie ripetuti ed infruttuosi tentativi di salvarsi dalla dannazione e dalla sua orribile sorte per trasferire il patto su un’altra persona. Sarà Honoré de Balzac, nel 1835, a salvare l’uomo errante dalla sua maledizione.

  Balzac, pur se maestro incontrastato di realismo e di dura e spietata analisi della società borghese, si è spesso compiaciuto, nel corso della sua fecondissima attività letteraria, di cimentare il suo talento con le trame del romanzo d’avventura, del racconto macabro, ed in genere della narrativa nera e diabolica.

  Molti di questi suoi scritti, tutti notevoli da un punto di vista artistico, vennero poi dall’Autore stesso raccolti, in ossequio al piano redatto per quel vasto affresco narrativo che è la Comédie Humaine, sotto il titolo di Études Philosophiques. Degli (sic) Études Philosophiques fanno parte, oltre appunto a questo Melmoth reconcilié, romanzi celebri come La peau de Chagrin, Séraphita, El Verdugo, L’Enfant maudit e Adieu, romanzo quest’ultimo tra le cui fonti si può senz’altro annoverare il Melmoth di Maturin.

  Melmoth reconcilié, scritto nel 1835, è una brillante variazione sul tema trattato dal reverendo irlandese: ambientato nella Parigi dell’800, gelido nell’analisi dei personaggi ed in particolare in quella di Castanier, il protagonista, un ex militare ridottosi a fare il cassiere presso un’importante casa bancaria; stupisce per il rigido contrasto tra l’atmosfera scialba, borghese, uniforme e monotona in cui si muove Castanier, e l’ambigua figura di Melmoth, “incubo personificato”, come lo definisce Balzac. L’aspetto di Melmoth ha molto poco di diabolico: la sua demonicità è tutta interiorizzata, agisce sulla sua vittima come un’effimera speranza di felicità, facendone vibrare tutti i sentimenti più reconditi. Balzac sdegna qui l’uso dei colpi di scena soprannaturali; Melmoth manifesta il suo potere a Castanier durante uno spettacolo di varietà, e gli trasferisce i suoi poteri e la sua maledizione in un salotto buio, in casa dell’amante del cassiere.

  Con una prosa uniforme, quasi scientifica nell’ossessiva descrizione del graduale stringersi della morsa di Melmoth intorno al cassiere, l’autore di Père Goriot rende satanica, sinistra e inquietante l’atmosfera che avvolge il protagonista.

  Castanier comprende l’abominio della sua azione quando è ormai troppo tardi: ma a lui, figlio parigino della borghesia ottocentesca, riesce molto più agevole che a Melmoth liberarsi dalla dannazione. Il patto col diavolo si banalizza in Borsa “dove Dio stesso chiede in prestito e dà in garanzia i suoi redditi d’anime, perché il papa vi ha il suo conto corrente”.

  Castanier si salva con estrema facilità, e il suo successore vanifica completamente il patto fatale, continuando a mercanteggiarlo in Borsa, dove un notaio lo definisce “l’iscrizione sul Gran Libro dell’Inferno e i diritti connessi al suo godimento”. Il patto si deprezza vertiginosamente, quasi un ante litteram del Diavolo nella Bottiglia di Stevenson, e annega definitivamente nella persona di un’imbianchino (sic), che lo trasferirà all’ultima caricatura di Melmoth, contro i cui vizi nulla potrà l’immortalità diabolicamente conquistata.

  Nel Melmoth reconcilié, Balzac conduce all’estremo splendore la sua arte narrativa, sottile ed insinuante: diavoleria filosofica, spaccato di vita borghese, satira, caricatura, impietosa analisi della società e dei suoi vizi, il Melmoth di Balzac nasce su premesse realistiche e non le abbandona mai, pur facendo campeggiare in tutta la prima parte del racconto la titanica figura di Melmoth, grande e conseguente nel male, sommamente solo e disperato come Castanier e i suoi accoliti non saranno mai.

  Con logica inoppugnabile, il realismo si piega all’elemento fantastico, ma poi il “senso pratico” distrugge l’opera diabolica, svilendola a bene di consumo, a titolo buono per la Borsa.

  Finalmente libero, Melmoth muore in pace con Dio, e con lui, in fin dei conti, anche la sua potenza: diventando accessibile a tutti, il patto col demonio perde la sua “aura” sinistra, lasciando dietro di sé solo i lazzi insolenti dei praticanti di un notaio che si prendono gioco di un demonologo tedesco che, pur espertissimo in fatto di diavoli e patti satanici, non sa “che razza di diavoli malvagi siano i praticanti”.

 

 

  Elio de Domenico, Secolo XIX. Balzac (H. De), in Repertorio bibliografico degli studi francesi pubblicati in Italia nell'anno 1988, Napoli, Loffredo editore, 1990, pp. 106-108.

 

 

  Andrea Del Lungo, Modelli di incipit nel romanzo francese dell’800, «Micromégas. Rivista di studi e confronti italiani e francesi», Roma, Bulzoni Editore, 49, Anno XVII-3, settembre-dicembre 1990, pp. 19-35.

 

  [...]. La nostra analisi si focalizzerà particolarmente su Balzac, solitamente considerato il modello normativo del romanzo realista (e, forse, del romanzo moderno in generale); inoltre, la vastità della sua opera permette di stabilire una classificazione generale dei possibili incipit romanzeschi e al tempo stesso di individuare alcune forme di esordio codificate che costituiscono un modello (da imitare, da contestare o da rifiutare) per la narrativa moderna. L’opera di Balzac costituirà ai fini della nostra analisi un corpus unitario, in quanto non sembra esistere un’evoluzione in senso cronologico delle forme di inizio, né vi sono differenze sostanziali fra gli incipit dei romanzi, dei racconti e delle novelle. [...].

 

  Il existe à Douai dans la rue de Paris une maison dont la physionomie, les dispositions intérieures et les détails ont, plus que ceux d’aucun autre logis, gardé le caractère des vieilles constructions flamandes [...]. L’Art serait-il donc tenu d’être plus fort que ne l’est la Nature?

[Balzac, La Recherche de l’Absolu]

 

  In questo incipit «programmatico», il discorso del narratore si focalizza sull’organizzazione della narrazione stessa, il cui ordine viene motivato in modo quasi imperativo. Le sole anticipazioni su ciò che sarà narrato si trovano nell’enunciato costitutivo iniziale, nel quale viene fissato il punto di partenza spaziale della storia tramite la designazione precisa di un luogo, e viene presentata una casa dalla forte funzione rappresentativa, in quanto essa possiede, meglio di ogni altra, le caratteristiche di un’intera categoria di abitazioni; la descrizione della casa viene però differita, perché la «necessità di preparazioni didattiche» prende il sopravvento. Inizia così un lungo excursus di diverse pagine, in cui il narratore alterna alcune riflessioni sul legame intimo esistente fra la società nelle sue forme e l'architettura, alla breve rappresentazione di un modello di vita fondato sulla pacatezza e sul controllo delle passioni, che egli giudica molto positivamente.

  Ciò che però è importante sottolineare è che il paragrafo iniziale de La Recherche de l’Absolu esemplifica molto bene alcune caratteristiche dell’incipit realista, prima fra tutte la «giustificazione» dell’inizio e la legittimazione del racconto: il narratore si pone infatti in posizione «autoritaria» (e polemica nei confronti delle persone «ignoranti e voraci») e stabilisce la necessità di un’introduzione alla storia narrata, motivando in tal modo l’attacco discorsivo ed affermando al tempo stesso l'importanza del racconto che, come viene enunciato, rispetterà l’ordine naturale presentando prima di ogni altra cosa i «principi generatori». L’incipit sembra assumere in tal modo le caratteristiche e le funzioni proprie di una prefazione, luogo paratestuale in cui generalmente l’autore espone un programma ideologico-morale contenente spesso numerosi riferimenti al momento ed alle condizioni di produzione del testo [...]. È allora evidente che, in questo caso, il narratore è un perfetto portavoce dell’autore e che dunque l’incipit in questione costituisce un’affermazione e una difesa, da parte di Balzac, del proprio metodo di rappresentazione del mondo e di strutturazione del testo, che si fonda essenzialmente sulla «legge di causalità» e sulla descrizione dei principi generatori o, se si vuole, delle «cause prime». [...].

 

***

  Au commencement de l'automne de l’année 1826, l’abbé Birotteau, principal personnage de cette histoire, fut surpris par une averse […] qui se trouve derrière le chevet de Saint-Gatien, à Tours.

[Balzac, Le Curé de Tours]

 

  Il primo modello di esordio del romanzo realista, particolarmente diffuso in Balzac, è un incipit narrativo che potremmo definire «puntuale», in quanto fissa immediatamente i punti di partenza spazio-temporali della storia narrata, tramite la designazione di una data (anche se in questo caso essa non è perfettamente determinata) e di un luogo; a tali indicazioni si aggiunge inoltre la presentazione di un personaggio, di cui vengono definiti il nome e la professione e di cui viene anticipato il ruolo nella storia («principal personnage de cette histoire»). Un simile attacco colma tutte le attese del lettore ed ha per questo un effetto «rassicurante», rispondendo alle semplici e basilari domande che ognuno pone idealmente al testo romanzesco iniziandone la lettura: chi, dove e quando; inoltre, facendo riferimento ad una temporalità e ad una spazialità note al lettore, l’incipit produce un notevole effetto di realismo, a cui contribuisce anche l’indicazione del nome proprio del personaggio. Anche nei casi in cui tale indicazione manca, viene comunque definito lo status sociale del personaggio stesso, facendo riferimento ad un sapere (o ad un linguaggio) comune al narratore e ai suoi destinatari:

 

  En octobre 1827, à l’aube, un jeune homme âgé d’environ seize ans […] dans le bas Provins.

[Balzac, Pierrette]

 

  Talvolta, il brevissimo paragrafo iniziale prende la forma di un racconto compiuto:

 

  Au mois de septembre 1835 […] jeune polonais proscrit.

[Balzac, La Fausse Maîtresse]

 

  È interessante notare che in tutti questi casi il breve paragrafo iniziale è immediatamente seguito da una espansione descrittiva di ciò che nell’incipit viene solo denominato, rendendo in tal modo ancor più completa l’informazione. Non si tratta dunque di incipit narrativi «puri», in quanto l’azione che sembra iniziare viene immediatamente fermata

  Una struttura simile è presente in molti altri incipit di romanzi balzachiani, quali Les Chouans, La Cousine Bette, L’Envers de l’Histoire contemporaine, La vendetta, ecc. In tutti i casi, l’indicazione temporale è preminente, essendo sempre posta all’inizio del testo; questo riferimento ad una data precisa porta ad una immediata coincidenza fra il tempo romanzesco e il tempo storico, che è caratteristica del realismo ottocentesco, come rileva anche Erich Auerbach in Mimesis quando afferma che il testo realista integra la storia dei personaggi nel corso generale della storia contemporanea. [...].

 

***

 

  Au milieu de la nie Saint-Denis, […] reconstruire par analogie l’ancien Paris.

[Balzac, La Maison du Chat-qui-pelote]

 

  La lunga descrizione della «maison précieuse» evocata nella prima frase del romanzo [...] offre un esempio, sicuramente fra i più belli, del secondo grande modello di attacco romanzesco di Balzac, dopo quello puntuale: si tratta della categoria degli incipit descrittivi, anch’essa molto diffusa nel romanzo realista ottocentesco.

  La Maison du Chat-qui-pelote si apre con la rievocazione di una casa, tipicamente parigina, che sorgeva nella via Saint-Denis (anche in questo caso, l’indicazione spaziale è perfettamente determinata e rinvia ad un luogo conosciuto); segue la minuziosa descrizione della casa, ricca di dettagli e organizzata secondo una prospettiva «en approche»: lo sguardo del narratore, infatti, inquadra inizialmente la casa nella sua globalità (i muri, il tetto), per poi avvicinarsi ed esaminare le finestre dei tre piani dal basso verso l’alto e, successivamente, ritornare al piano terra ed entrare nel negozio, soffermandosi sul quadro rappresentante un gatto “umanizzato” che gioca alla pelota e sulla vecchia insegna.

  Questo incipit sintetizza molte caratteristiche della descrizione balzachiana: innanzi tutto, il narratore stabilisce la necessità della descrizione della casa, svelando l’archetipo da essa rappresentato (cioè quello delle «maisons précieuses» della borghesia parigina del ʼ500) e affermando esplicitamente l’importanza del legame analogico; l’attacco descrittivo viene in tal modo giustificato, in quanto l’oggetto descritto assume una grande funzione rappresentativa e, in questo caso, evocativa di un’intera epoca. È interessante notare che la strada e la casa rappresentano due costanti negli incipit descrittivi balzachiani (si pensi, per esempio, a romanzi quali Eugénie Grandet, Une double famille, La Grenadière, Le Curé de village, o alla riflessione sulle vie parigine contenuta nel paragrafo iniziale di Ferragus); questo fatto conferma l’importanza fondante, nel romanzo balzachiano, del «milieu», la cui descrizione è spesso anteposta all’inizio della storia narrata. La seconda caratteristica è l’abbondanza di dettagli e l’esaustività della descrizione, che mira a produrre un effetto di reale; il narratore, per esempio, analizzando le particolarità della casa, si sofferma sulle finestre, sugli infissi e sulle tende di ognuno dei tre piani dell’edificio. Infine, la principale caratteristica dell’attacco descrittivo è quella di differire il momento di inizio della storia narrata, ma al tempo stesso di prepararlo, suscitando l’attesa del racconto. Balzac è abilissimo in questa tecnica: nel caso dell’incipit de La Maison du chat-qui-pelote l’attacco narrativo è spostato di alcune pagine, poiché dopo la descrizione iniziale della casa il narratore focalizza la sua attenzione sul personaggio che vi si trova di fronte. Solo alla fine di questa ulteriore descrizione si produce l’avvenimento tanto desiderato [...].

  La descrizione iniziale, fornendo alcune importanti informazioni, acquista drammaticità e costituisce il punto di partenza della narrazione successiva. Essa ha dunque una doppia funzione: la prima è quella di «inquadrare» la narrazione, assicurando la concatenazione logica del racconto; la descrizione assume spesso un ruolo esplicativo (paragonabile a quello di alcuni incipit discorsivi) e si presenta come necessaria per la comprensione della storia. La seconda funzione è quella di produrre un «effetto di verità», che nasce soprattutto dalla descrizione del luogo in cui presumibilmente si svolgeranno gli avvenimenti narrati; non a caso, le descrizioni iniziali dei romanzi realisti sono generalmente topografiche. […].

 

***

 

  Vers la fin du mois d’octobre dernier, un jeune homme entra dans le Palais-Royal […] qui se leva soudain en montrant une figure moulée sur un type ignoble.

[Balzac, La Peau de chagrin]

 

  Questo incipit presenta molti punti in comune con il modello puntuale, ma anche alcune notevoli differenze: si tratta infatti di un attacco narrativo, che si apre però con una indicazione temporale ambigua, in quanto rapportata al momento della narrazione, e almeno inizialmente imprecisata per il lettore; inoltre, la designazione del momento in cui viene colta l’azione introduce immediatamente il lettore nel vivo degli avvenimenti raccontati. Dunque l’incipit, rispetto al modello puntuale, è più spostato verso una modalità di apertura in medias res, che comporta un ingresso più diretto nell’azione, tanto che all’inizio del secondo paragrafo un personaggio, il vecchio guardarobiere, prende la parola. L’altra grande variante riguarda la tensione informativa, che in questo incipit è molto minore rispetto ai precedenti: l’indicazione temporale è ambigua e, soprattutto, il personaggio è sconosciuto. Neppure nelle pagine successive viene svelata l’identità del protagonista, che il narratore continua a designare come l’«inconnu» o «le jeune homme», fino al momento in cui Raphaël, uscito dalla bottega dell’antiquario nella quale ha trovato la pelle di zigrino, viene riconosciuto dai suoi amici. Il lettore è posto di fronte a un enigma («chi è il giovane sconosciuto?»); l’incipit propone allora a primo termine di una sequenza di ciò che Barthes chiama il «codice ermeneutico» [...].

  [...] l’attacco narrativo citato è seguito da una riflessione del narratore sulle «leggi» delle case da gioco, dopo la quale riprende la narrazione e viene descritto il vecchio guardarobiere. Segue una lunga descrizione generale delle case da gioco, da cui si passa alla descrizione dei giocatori che occupano la sala dove il protagonista è entrato; finalmente, quando ormai è saturata l’attesa del lettore, il testo fornisce anche la descrizione del «jeune homme», nella quale si delinea la figura di un giovane libertino, diviso fra la corruzione e la purezza [...].

  Questa descrizione non svela dunque l’enigma iniziale, ma anzi contribuisce alla creazione di un personaggio doppio e misterioso, poiché vengono taciuti tutti i dati biografici e i fatti che avrebbero potuto spiegare la «déchéance» del giovane; in tal modo, l’enigma si complica, aumentando l’attesa ed il desiderio di lettura. Si dunque affermare che in questo incipit Balzac opti per una parziale incompletezza dell’informazione e per un ingresso più diretto nella storia narrata; tuttavia, anche in questo caso non si tratta di un attacco narrativo puro, poiché in realtà narrazione, descrizione ed excursus commentativo si alternano in modo misurato e equilibrato.

  È quanto avviene anche nel romanzo più famoso di Balzac, Le Père Goriot: il breve attacco descrittivo è infatti seguito da un excursus, nel quale il narratore, dopo aver definito la storia che segue come un «dramma», si lancia in una riflessione metaletteraria sul discredito in cui è caduta tale parola «dans ces temps de douloureuse littérature». L’ultima parte dellexcursus ha la funzione di affermare lassoluta verità della storia e di stabilire un patto di ricezione attraverso un gioco di esclusione ed inclusione dei destinatari: il narratore preclude inizialmente ad una parte di essi (i non parigini) la possibilità di comprendere la storia narrata, per poi lanciare un’accusa ad un narratario ben specificato e quasi descritto («Ainsi ferez- vous vous; qui tenez ce livre d’une main blanche,[...] en l’accusant de poésie»); tale accusa si trasforma alla fine in avvertimento, che reinclude di fatto tutti i narratari, a patto che si identifichino nella storia narrata («Ah! sachez-le [...] dans son coeur peut-être»). Uscendo dal campo della finzione, Balzac, attraverso questo gioco di inclusioni ed esclusioni condotto dal narratore, riesce a suscitare un desiderio di lettura (esclusione di una parte dei narratari), e lo mantiene poi promettendo un racconto colmo di segrete sventure e sofferenze (accusa al narratario) che costringe ad una lettura attenta e partecipata (avvertimento al narratario: il racconto non potrà divertirlo, ma tutto ciò che è raccontato è vero).

  La lunga descrizione seguente della «Maison Vauquer» e dei suoi pensionanti colma l’attesa del lettore per l’inizio del «drame» e, pur rappresentando un tesoro di informazioni iniziali, lascia comunque spazio al non-detto, in quanto il narratore sembra ignorare il passato dei vari personaggi presentati e non può che formulare delle ipotesi. Si può dunque affermare che in questo incipit Balzac riesca a raggiungere un perfetto equilibrio fra la volontà di fornire informazioni e la necessità di formulare una serie di enigmi, al fine di suscitare un desiderio di lettura; del resto, non è forse Le Père Goriot uno dei romanzi più famosi, e quindi più letti, di Balzac? [...].

 

***

  In conclusione, si potrebbe addirittura ipotizzare che i modelli fossero già precari in Balzac, il quale consigliò a Stendhal, «dans l’intérêt du livre», di cominciare La Chartreuse de Parme in medias res, cioè dall’episodio di Waterloo, eliminando i due capitoli precedenti; ora, è interessante notare che l’incipit originale (mantenuto nella versione definitiva) è certamente il più «balzachiano» fra quelli di Stendhal [...]. Questo episodio potrebbe dimostrare che lattacco puntuale non rappresentava, per Balzac, un modello assoluto e che anzi egli, nel nome dell’interesse, lo rifiutasse. Infatti in molti casi è proprio da un (sic) lacuna informativa iniziale o da un mistero che il racconto può cominciare: nell’incipit de La Maison du chat-qui-pelote, per esempio, la descrizione iniziale offre un quadro completo e dettagliato della parte esteriore della casa, ma non svela i misteri nascosti all’interno di essa. La funzione dell’incipt è allora quella di formulare un enigma, che il successivo racconto promette di risolvere. Tale procedimento è esplicito in Le Lys dans la vallée; nella lettera posta all’inizio del testo, il narratore, Félix, cede al desiderio della contessa di Manerville promettendole il racconto dei lati segreti ed oscuri del suo passato, la cui rievocazione provoca ripugnanza e dolore [...]. Anche Le Lys dans la vallée, dunque, come molti altri romanzi di Balzac, comporta un segreto di cui viene fin dall’inizio annunciata la rivelazione; il segreto è in questo caso veramente fondante, in quanto solo la decisione del narratore di rivelarlo alla donna amata può rendere possibile il racconto.

  La promessa della risoluzione del mistero che è alla base del racconto suscita evidentemente un desiderio di lettura; Balzac utilizza spesso tale procedimento di creazione di interesse, arrivando anche, nel caso de L’Histoire des Treize, ad annunciare fin dalla prefazione il carattere misterioso della storia, moltiplicando gli enigmi sull’identità dei tredici uomini, sulla natura della loro società segreta e del legame che li unisce. La prefazione anticipa il percorso narrativo del racconto, che è, in pratica, quello del romanzo «noir» del tempo di Balzac e del futuro romanzo poliziesco: percorso che parte da un mistero per arrivare alla sua risoluzione. Tuttavia, se il racconto vuol mantenere alto l’interesse, tale tragitto non deve essere lineare, e la risoluzione deve essere ritardata ed ostacolata; il racconto deve insomma promettere, fin dall’inizio, una verità che si trova, come dice Barthes, «au bout de l’attente». Ma anche dopo la risoluzione finale è possibile «rimotivare» la lettura: per esempio, nella «postface» originale di Ferragus, Balzac avverte: «Les trois épisodes de L’Histoire des Treize sont les seuls que l’auteur puisse publier. Quant aux autres drames de cette histoire, si féconde en drames, ils peuvent se conter entre onze heures et minuit: mais il est impossible de les écrire». L’Histoire des Treize, dunque, è tutt’altro che finita: essa comprende altre storie, altri drammi e, presumibilmente, un’altra serie di enigmi da risolvere. La possibilità di un racconto viene rilanciata e la lettura viene nuovamente motivata: ma si tratta di una lettura che non potrà mai essere soddisfatta, di una lettura impossibile.

 

 

  Umberto Eco, L’Olimpo rinasce ogni giorno, «la Repubblica», Roma, 12 maggio 1990, p. 5.

 

  C’era più senso del sacro nel racconto degli Argonauti alla ricerca del Vello d’Oro che non nella Commedia Umana di Balzac, storia di ardimentosi che corrono alla ricerca del Danaro, sterco del demonio? Ma ogni epoca ha il proprio senso del Sacro o del Demoniaco. Balzac ci ha consegnato il mito di nuove Divinità, e il Danaro come fine supremo non è meno terribile e accecante del fuoco di Prometeo. La sacralità del mito è nell’annuncio, che ci dà, di come sia difficile sfuggire al proprio Destino.

 

 

  Doriano Fasoli, Parigi, città dei contrasti, «la Repubblica», Roma, 5 maggio 1990, p. 16.

 

  Una bizzarra mescolanza di misterioso e di reale, d’ombra e di luce, di bello e d’orribile, di piacere e di pericolo, di paradiso e d’inferno è ciò che incontreremo lungo le pagine di questo splendido racconto di Balzac (dedicato al pittore Eugène Delacroix) che fa parte dell’Histoire des Treize. La vicenda di Henry de Marsay giovane Adone dagli occhi azzurri e traditori, audace come un leone e agile al pari d’una scimmia e della Fanciulla dagli occhi d’oro la quale arriverà a pronunciare, anzi a gridare, proprio nel punto culminante di un amplesso con lui, il nome di una donna fece dire a Hugo von Hofmannsthal (nello scritto che accompagna l’attuale edizione) che è la storia meravigliosa, impossibile da dimenticare, nella quale la voluttà germoglia dal mistero, l’Oriente dischiude gli occhi grevi nel cuore dell’insonne Parigi, l’avventura si intreccia alla realtà, il fiore dell’anima sboccia sul ciglio di vertigine e morte, e il presente viene illuminato con una fiaccola così vivida da stendersi davanti a noi come le grandi ere di sogni primordiali. La fanciulla dagli occhi d’oro tradotto con sensibilità e perizia dal poeta Attilio Bertolucci inizia con qualche osservazione sull’anima di Parigi, che Balzac chiama paese dei contrasti, dove ogni passione si risolve in oro e piacere, dove regna quel gran mostro che è la Speculazione. Il suo popolo, poi, appare sempre pronto a interessarsi di tutto, ma ecco che finisce per non interessarsi di niente. La ville de Paris è abitata inoltre da avvocati, medici, notai, banchieri, magistrati che a furia di misurarsi con la corruzione o ne hanno orrore e pena o, per stanchezza e per segreto compromesso, finiscono per sposarla ... E sono queste parole, ancora di Balzac, scritte nel suo preludio, aggiunge Bertolucci, pieno di maledizione e di tenerezza, di statistica e di sogno.

 

 

  Pietro Favari, L’ex forzato scopre l’onestà. È la «sindrome di Balzac», «Corriere della Sera», Milano, 23 gennaio 1990, p. 36.

 

  Su: Guappo’e cartone di Raffaele Viviani.

 

  La «sindrome Balzac» descritta da Marx ed Engels – l’opera assume oggettivamente un valore di documento «rivoluzionario» al di là delle convinzioni soggettive del suo autore – riguarda dunque anche Viviani. La sua capacità di descrivere dall’interno la realtà napoletana carica personaggi e situazioni di una valenza «naturalmente» eversiva.

 

 

  Francesco Fiorentino, I luoghi del romanzo: scene di provincia in Balzac, «L’Asino d'oro», Torino, Loescher Editore, Anno I, n. 2, Novembre 1990, pp. 29-42.

 

  Stendhal, Balzac, e i romanzieri della Monarchia di luglio, a cui comunemente si riconosce il merito di aver valorizzato per la prima volta nelle loro opere la vita di provincia in quanto tale, non sono certo stati i primi ad avere introdotto la provincia nella letteratura francese.

  L’opposizione città-provincia in una nazione come la Francia, con una storia politica e culturale talmente centralizzata, interessò precocemente la letteratura. [...].

  La critica balzachiana ha sempre riconosciuto l’importanza, in particolare di Pigault-Lebrun, per gli esordi letterari di Balzac. Non mi pare tuttavia che questo debito abbia una rilevanza speciale proprio per quanto concerne la provincia: la provincia balzachiana sin dall’inizio (penso soprattutto a Wann-Chlore) si rivelò non particolarmente comica. Il suggerimento di [Nicole] Mozet [La Ville de province dans l’oeuvre de Balzac, 1982] mi sembra invece prezioso quando esclude una influenza diretta da parte di Scott. La fortuna straordinaria che conobbero i romanzi dell’autore scozzese, contribuì a suscitare anche in Francia un nuovo interesse per storie con ambientazioni non cittadine: si tratta però di un interesse di tutt’altro genere, nettamente diverso da quello di Balzac. [...].

  Per lui, [...] non esistono le provincie ma la provincia. Tranne che in Les Chouans (un’opera, per l’appunto, scottiana), nei suoi romanzi non viene mai rappresentata la lotta tra centro e periferia, tra storia e resistenza alla storia. Nella sua provincia c’è pochissima presenza del pittoresco, del colore locale, co sono poche descrizioni precise. [...].

  A me pare che l’interesse per la provincia in Balzac sia il portato della rinnovata attenzione per la vita privata: una vita privata che non è più per il suo romanzo, la stessa dei romanzi inglesi di inizio secolo o del romanzo francese del periodo imperiale, né tanto meno quella bassa, e comica dei romanzi di Pigault-Lebrun. È passata, questa sì, attraverso Scott (la cui costante sottovalutazione da parte della critica francese, non vedo come si possa definire altrimenti che come pregiudizio nazionalistico). La vita privata è per lui la vera storia di Francia vissuta quotidianamente dagli esponenti di alcune classi sociali, di età, di cultura. [...].

  In questi due celebri testi [Le Curé de Tours e Eugénie Grandet], come in altri sempre delle Scene della vita di provincia, l’ingresso del romanzesco (che in entrambi i casi avviene attraverso una porta) è affidato a elementi impercettibili, che possono divenire eventi notevoli solo perché si stagliano su una routine consolidatissima. [...]. Ogni scarto è un trauma. Questa ‘miniaturizzazione’ del romanzesco presuppone un mutamento nella gerarchia tra storia e vita privata, tra grande e piccolo. [...].

  In Balzac ciò che distingue principalmente la provincia da Parigi è proprio questo predominio del sentimento della durata, che non può essere quantificato semplicemente in una conta di imperfetti verbali, perché investe ugualmente gli oggetti, come le monete di Eugénie o i mobili di Birotteau, le case, come quella di Grandet, antica senza essere un rudere, come invece avviene alle vecchie case di Parigi. [...]. 

  La provincia consente dunque 1.) un restringimento dello spazio; 2) il suo controllo assoluto da parte d’un occhio anonimo e perspicace; 3) avvenimenti poco o molto rilevanti che appassionano comunque un pubblico preciso il quale si rende garante presso il lettore del loro interesse; 4) un tessuto quotidiano ripetitivo che prescinde dal romanzesco, che ‘fa’ realtà. In altri termini, la provincia offre al romanzo balzachiano una scena, un riflettore, il romanzesco e uno sfondo. [...].

 

 

  Simonetta Fiori, Vedove sante vedove folli, «la Repubblica», Roma, 29 settembre 1990, p. 10.

 

  La solerzia vedovile può produrre talvolta gravi danni. Vale per tutte l’eccessiva premura di Eva Hanska, un’aristocratica polacca che accettò di sposare Honoré de Balzac dopo una relazione epistolare durata quasi vent’anni. Divenuta vedova, s’adoperò perché uscisse il diciottesimo volume della Commedia umana. Iniziativa lodevole immediatamente funestata dalla mossa successiva: madame Balzac commissionò infatti a Charles Rabou la conclusione di tre romanzi lasciati incompiuti dal marito. Un’integrazione di cui gli editori, fortunatamente, non hanno mai tenuto conto. Il danno poi può diventare disastro quando il superefficientisimo vedovile s’accompagna a un’insana carica distruttiva.

 

 

  Cesare Garboli, La vendetta di Balzac, «la Repubblica», Roma, 15 dicembre 1990, p. 16.

 

  L’altra amante di Elisabetta Rasy è un racconto a corrente derivata (l’energia è trasmessa da Balzac). In linguaggio più letterario, è la trascrizione concettuale della vischiosa partita di nobiltà e servitù che si gioca nella Fausse amante (sic) di Balzac: partita a tre, in apparenza, mentre il perno femminile gira su se stesso e si duplica, restando fisso di posizione. La partita a tre viene spiazzata da un personaggio (l’altra amante) che non appartiene alla storia. Si può capire come questo congegno si presti a essere rimontato a mente fredda. L’altra amante può sembrare un gioco di ieri, un po’ rétro, ma si porta addosso, senza coprirli, anche tutti i segni e tutte le cicatrici delle crisi vissute fino in fondo. Lo si può leggere come un prontuario, un abc del Novecento contro l’Ottocento, per la drastica riduzione della psicologia a una relazione di forze astratte o rimosse, con l’inconscio e l’emozione che scompaiono per far posto alla geometria dei personaggi come ombre cinesi o pezzi dai percorsi obbligati. Non è difficile identificare le suggestioni che hanno lasciato il segno: la tecnica dello sguardo, l’attenzione prestata solo al visibile (sistematicamente denunciato in funzione semiotica) ma senza gioia o forse con paura di raccontare, e l’impiego di piccoli accorgimenti iperrealistici e piccoli arbitrii narrativi che annullano di soppiatto il distacco del Narratore come fa Parise nel Sillabario (Un pomeriggio d’inverno particolarmente soleggiato), o l’uso costante, ma in eccesso, di verbi limitativi (dicono, si dice). [...]. C’è sempre un momento, nei libri, in cui si mollano gli ormeggi, si piglia il largo e ci si lascia andare. Non si può imparare a scrivere, o sapere scrivere. Bisogna buttarsi in mare. L’altra amante è un racconto pieno di regole, che aspetta, e teme, il momento d’infrangerle (è la vendetta di Balzac).

 

 

  Fredric Jameson, Realismo e desiderio. Balzac e il problema del soggetto, in L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico. Traduzione dall’inglese di Libero Sosio, Milano, Garzanti Editore, 1990 («Strumenti di studio»), pp. 187-229.

 

  [...]. L’analisi culturale ci permette di isolare un certo numero di esempi e meccanismi specifici, che operano mediazioni concrete fra le «sovrastrutture» dell’esperienza psicologica o vissuta e le «infrastrutture» dei rapporti giuridici e del processo di produzione. Queste possono essere designate come determinanti testuali e costituiscono punti di trasmissione quasi-materiale che producono e istituzionalizzano la nuova soggettività dell’individuo borghese nel tempo stesso in cui replicano e riproducono richieste puramente infrastrutturali. Fra tali determinanti testuali nel grande realismo si devono certamente annoverare categorie narrative come il punto di vista di James o lo style indirette libre di Flaubert, che sono così luoghi strategici per il soggetto borghese o Io monadico pienamente costituito o centrato.

 

I

 

  Questo è il contesto in cui può essere utilmente riesaminato un aspetto cruciale di un «realismo» precedente: quello che viene spesso designato come il «narratore onnisciente» in Balzac. L’onniscienza è però la cosa meno significativa in questo modo di intervenire dell’autore, e si può dire che essa sia un effetto della chiusura del récit classico, dove gli eventi sono già conclusi prima che ne cominci il racconto. Questa stessa chiusura prospetta qualcosa di simile a un miraggio ideologico nella forma delle nozioni di fortuna, destino e provvidenza o predestinazione che questi récits sembrano «illustrare», nozioni la cui recezione, nelle parole di Walter Benjamin, equivale a «riscaldare la nostra vita per una morte di cui abbiamo letto». Tali récits [...] sono fra i materiali su cui lavora il processo narrativo di Balzac, e con le cui forme ereditate esso talvolta coesiste a fatica. [...].

  Il carattere costitutivo dell’apparato narrativo di Balzac è però qualcosa di più fondamentale sia dell’onniscienza sia dell’intervento dell’autore, qualcosa che può essere designato come investimento libidico o appagamento di desiderio dell’autore, una forma di appagamento simbolico in cui la distinzione fra soggetto biografico, autore coinvolto, lettore e personaggi è virtualmente abolita. La descrizione è un momento privilegiato in cui tali investimenti possono essere scoperti e studiati, particolarmente quando l’oggetto della descrizione [...] è oggetto di una lotta e mette a fuoco ambizioni antagonistiche entro il racconto stesso [...].

  I meccanismi familiari e la retorica caratteristica della descrizione di Balzac sono qui ripresi per mezzo di una funzione meno caratteristica o, per usare un termine che sarà ulteriormente sviluppato in questo capitolo, vengono presentati attraverso un registro un po’ diverso da quello metonimico e connotativo della normale esposizione balzachiana. La casa di città dei Cormon, insieme alla sua erede nubile, è in effetti il premio su cui si impernia la lotta narrativa o agone de La vieille fille. Essa è perciò un perfetto esempio di oggetto di desiderio; ma non si comincia ancora a cogliere la sua specificità storica finché non si percepisce la differenza strutturale fra quest’oggetto e tutti quegli obiettivi, fini o scopi egualmente desiderabili attorno a cui si organizzano i récits classici o i racconti di ricerca del tipo studiato da Propp. Il contenuto di tali obiettivi — indifferentemente oro, principessa, corona o palazzo — suggerisce che il valore significante di tali oggetti è determinato dalla loro posizione narrativa: un elemento narrativo diventa desiderabile ogni volta che un personaggio lo desidera.

  In Balzac, [...] è diventato necessario, per una qualsiasi ragione storica, assicurarsi il consenso del lettore e convalidare o accreditare l’oggetto come desiderabile prima che il processo narrativo possa convenientemente funzionare. Qui perciò le priorità sono rovesciate, e questo apparato narrativo dipende dalla «desiderabilità» di un oggetto la cui funzione narrativa sarebbe stata un effetto secondario relativamente automatico e aproblematico di una struttura narrativa più tradizionale.

  Ma l’originalità storica dell’oggetto balzachiano dev’essere specificata non solo in relazione ai meccanismi della narrativa classica bensì anche a fronte delle nostre abitudini psicologiche e interpretative. Per noi desideri e aspirazioni sono diventati i tratti o proprietà psicologici delle monadi umane; in questa descrizione è in gioco però qualcosa di più della semplice «identificazione» con un desiderio plausibile che noi stessi non condividiamo [...]. Da un lato, non possiamo attribuire questo particolare desiderio (della casa Cormon) ad alcun soggetto individuale. Balzac biografico, autore coinvolto, questo o quel protagonista desiderante: nessuna di queste unità è (ancora) presente e il desiderio qui ci si presenta in uno stato singolarmente anonimo che avanza nei nostri confronti una pretesa stranamente assoluta.

  Tale evocazione — in cui il desiderio di un particolare oggetto è al tempo stesso allegorico di ogni desiderio e del Desiderio in quanto tale, in cui il pretesto o tema di tale desiderio non è ancora stato relativizzato e privatizzato dalle barriere dell’Io che rafforzano gelosamente l’esperienza personale e puramente soggettiva dei soggetti monadicizzati che esse così separano — [...] sollecita il lettore non solo a ricostruire quest’edificio e questi terreni in un occhio interiore, ma a reinventarlo come Idea e come desiderio del cuore. Il confronto tra la casa Cormon della Vieille fille le case provinciali depersonalizzate e ritestualizzate di Flaubert significa forse diventare sgradevolmente consapevoli della misura in cui la casa di Balzac stimola il risveglio di una brama di possesso, della fantasia mite e calda della proprietà fondiaria come figura tangibile di un utopistico appagamento di desiderio. Una pace lontana dal dinamismo competitivo di Parigi e delle lotte commerciali metropolitane, eppure ancora immaginabile in qualche zona isolata ancora esistente della concreta storia sociale: una conservazione quasi benjaminiana del passato e della sua esperienza essenziale all’interno del presente narrativo; una «casta» attenuazione del libidico sino al suo mormorio più lieve e meno doloroso; un’Utopia della casa nei cui cortili, anditi e viali sono tracciate in anticipo le routine immemorabili della vita quotidiana, dell’amministrazione della casa e dell’economia domestica, presentando l’eterno ciclo di pasti e passeggiate, commercio e merende, il gioco del whist, la preparazione del menu quotidiano e i rapporti con servitori fedeli e con visitatori abituali: quest’immagine affascinante è il «punto fermo» attorno a cui ruoteranno il disordine e l’urgenza di un tempo tipico del romanzo. [...].

  La peculiarità di un investimento libidico utopistico di questo genere può essere rilevata dal passaggio dalla manifestazione fondiaria di questo desiderio alla sua personificazione attanziale nella figura della stessa Mademoiselle Cormon, la zitella del titolo. Quel che c’è qui di significativo è il fatto che, come per la casa stessa, non è possibile una ricostruzione di questo personaggio in una chiave ironica appropriata. Mademoiselle Cormon è comica, grottesca e desiderabile al tempo stesso (o in successione): i suoi piedoni, la «bellezza» della sua «forza e abbondanza», la sua «floridezza», i suoi fianchi opimi, «che la facevano sembrare formata in un singolo stampo», il suo triplo mento, con le sue «pieghe» piuttosto che «grinze»: nessuno di questi caratteri discorda col desiderio utopistico che prende la sua persona come centro focale. Né si può guadagnare nulla rinviando il lettore sconcertato alle peculiarità documentate dei gusti sessuali personali di Balzac, qui narrativamente reiscritti nella passione dell’infelice giovane poeta Athanase Granson per questa donna corpulenta più anziana di lui («questa persona dal fisico imponente aveva attributi capaci di sedurre un giovane pieno di desideri e di brame, come Athanase»). Certo, La vieille fille è un romanzo comico, pesantemente e insistentemente punteggiato da allusioni sessuali e da risvolti del tipo della farsa grossolana, ripresa da Balzac nei Contes drolatiques; questo registro narrativo essenzialmente comico è, quindi, forse capace di spiegare una prospettiva in cui le vicissitudini del desiderio carnale sono osservate con simpatico distacco e maliziosa empatia.

  Ma insistere sulla dimensione utopistica di questo particolare desiderio significa, evidentemente, sottintendere che questa particolare narrazione comica è anche una struttura allegorica, in cui la «lettera» sessuale della farsa dev’essere interpretata come una figura del forte desiderio della casa Cormon c come appagamento personale, oltre che figura della risoluzione della contraddizione sociale e storica. Il sileno — una scatoletta con un aspetto esterno grottesco e comico contenente un balsamo miracoloso — è, ovviamente, l’emblema stesso dell’oggetto ermeneutico; ma questa immagine non chiarisce molto bene il rapporto fra la farsa e l’impulso utopistico.

  Paradossalmente, però, è questa stessa tensione o incoerenza fra livelli che svanirà da espressioni dell’impulso utopistico in un’età successiva di elevata reificazione. [...].

  Dobbiamo ora esaminare il funzionamento di un apparato narrativo di cui abbiamo lasciato intendere che, precedendo l’emergere della centralità del soggetto, non abbia ancora sviluppato le determinanti testuali di quest’ultimo, come il punto di vista o i protagonisti con cui il lettore simpatizza in un più moderno senso psicologico. È però evidente che La vieille fille non può essere considerata, per quanto sforziamo la nostra immaginazione, un testo postmoderno o «schizofrenico», in cui le categorie tradizionali di personaggio e di tempo narrativo siano completamente dissolte. Intendiamo cioè affermare che il «decentramento» della narrazione balzachiana, se non è qui un termine anacronistico, si trova in una rotazione di centri di personaggi che a turno priva ciascuno di loro di qualsiasi status privilegiato. Questa rotazione è evidentemente un modello su piccola scala dell’organizzazione decentrata della stessa Comédie humaine. Quel che ora ci interessa, però, è lo sguardo che questo movimento rotatorio ci consente di gettare sulla produzione semica dei personaggi o, in altri termini, di quello che chiameremo sistema di personaggi.

  Abbiamo già menzionato il meno importante degli aspiranti alla mano di Mademoiselle Cormon, il poeta Athanase, il quale, diversamente dalla sua controparte più famosa, Lucien de Rubempré, non trova alcun Vautrin che lo dissuada dal suicidio, con cui si sottrae a questa competizione. Insieme a questa patetica figura romantica, altre due figure più forti ma più grottesche emergono come principali candidati al premio che, come abbiamo visto, non è semplicemente matrimoniale (o finanziario) ma anche utopistico: un nobile anziano e squattrinato, che afferma di discendere dalla (estinta) casa di Valois e che conserva dignitosamente le tradizioni di eleganza dell’ancien régime; e un borghese tipo «Ercole Farnese», un tempo arricchitosi con le armate rivoluzionarie e poi vittima dell’animosità di Napoleone; capo dell’opposizione liberale alla restaurazione borbonica, conta sul matrimonio con Mademoiselle Cormon non solo per ristabilire le sue finanze, ma soprattutto per tornare a una posizione politica di potere (il suo desiderio è quello di essere nominato prefetto di Alençon).

  Non occorre che il lettore attenda la teoria della tipizzazione di Lukács per comprendere la caratterizzazione sociale e storica di questi personaggi, esplicitamente sottolineata con forza dallo stesso Balzac [...].

  Di fatto l’attenzione iniziale del lettore è meno assorbita dalle informazioni sullo status sociale dei personaggi, dato qui per scontato, o dalla lotta per la mano di Mademoiselle Cormon, che comincerà solo in seguito, di quanto non sia impegnata nella soluzione di diversi rompicapi ed enigmi. Il segreto di Du Bousquier non è in effetti un segreto per il lettore, essendoci stato svelato per tempo che egli è sessualmente impotente. L’effetto di questa rivelazione sulla nostra lettura è però quello di generare un sistematico movimento oscillatorio fra ciò che sappiamo (e che la povera Mademoiselle Cormon non può sapere se non sposandolo) e quel suo aspetto esteriore da cui gli altri personaggi sono ingannati: non solo la sua forza fisica e il suo portamento energico, ma anche la sua associazione con la nuova ricchezza industriale e con le tradizioni giacobine del sistema politico borghese. Il «segreto» sottolinea senza dubbio, in un modo rozzo ma efficace, l’opinione di Balzac su questi ideali e tradizioni; ma [...] questa «realtà» non mina mai il potere e l’oggettività di un’«apparenza» in cui Du Bousquier ha un’importanza sociale e politica molto reale, e in cui egli è di fatto consacrato dal suo trionfo finale sul rivale, il cavaliere di Valois.

  Quanto a quest’ultimo, i vari enigmi che avvolgono la sua figura (in particolare quelli sulla legittimità del suo titolo e sulle vere fonti delle sue entrate) tendono a spostarsi in direzione del codice sessuale. Così, una serie di allusioni grossolane (per esempio alle dimensioni del suo naso) cominciano a lasciar trasparire che il suo «segreto» sia al contrario quello di un’imprevedibile potenza sessuale e di una capacità squisitamente aristocratica di avventure galanti.

  L’osservazione che si deve fare su tutto questo movimento narrativo iniziale — il funzionamento di quello che Barthes chiama un po’ impropriamente «codice ermeneutico» di un gioco di apparenze e realtà e ricerca di segreti nascosti — è che esso, pur essendo una preparazione del racconto principale, non viene mai del tutto risolto: la rivelazione del segreto sessuale non comporta, in altri termini, una conclusione della commedia, come avverrebbe in Boccaccio o nei Contes drolatiques, ma è un mezzo per pervenire a una conclusione ancora più inattesa. La funzione della commedia sessuale è essenzialmente quella di dirigere l’attenzione del lettore verso il rapporto fra potenza sessuale e classe di appartenenza. Il nostro assunto che sia la potenza sessuale l’oggetto di questo particolare gioco a rimpiattino del racconto è in realtà il pretesto o sotterfugio dietro il quale i fatti, altrimenti banali ed empirici, dello status sociale e della preistoria politica sono trasformati nelle categorie fondamentali secondo cui la narrazione è interpretata. Il nostro «dispositivo» di lettura verso le interpretazioni sociali e storiche che possono essere derivate allegoricamente dal racconto è in tal modo qualcosa di simile a un prodotto secondario laterale della nostra attenzione iniziale alla commedia sessuale; ma questo prodotto secondario allegorico, una volta stabilito, riorienta il racconto attorno al suo nuovo centro interpretativo, tornando retroattivamente sulla farsa sessuale per assegnarle un posto d’ora in poi marginalizzato nella struttura della narrazione, dove essa finisce col sembrare un elemento di divertimento relativamente inessenziale o arbitrario.

  Così stabilita, la lettura allegorica diventa quella dominante, e la lotta per la mano di Mademoiselle Cormon diventa la figura inevitabile non solo della lotta per il potere in branda ma anche della conquista della legittimazione e dell’appropriazione di ogni cosa nello stato postrivoluzionario, che rimane il più autenticamente ed essenzialmente «francese» per tradizione e per eredità: gli antichi valori patrizi di un’aristocrazia mercantile provinciale con la lenta eternità dei suoi costumi, quali sono incarnati nelle case e nei giardini di Alençon. Ma se questo fosse tutto ciò che era in gioco, la conclusione del dramma — il trionfo di Du Bousquier sul suo rivale, favorito dalla sua napoleonica risolutezza e dalla compiaciuta fiducia dello Chevalier nelle sue capacità di prevalere — equivarrebbe a poco più di un’allusione puntuale a un evento empirico, ossia l’insuccesso della restaurazione, col rovesciamento dei Borboni, nel 1830, a opera delle forze borghesi liberali. Questo sarebbe certamente un riflesso della realtà storica nel senso di Lukács, anche se poco profetico (il romanzo, la cui azione si svolge nel 1816, fu scritto nel 1836). Il punto di vista generale di Lukács su Balzac è, ovviamente, che questo senso delle realtà storiche del romanziere piega i suoi desideri personali (che presumibilmente stanno dalla parte dello Chevalier) nella direzione della verosimiglianza sociale e storica (dopo tutto, è Du Bousquier ad avere la meglio).

  Il romanzo è però più complicato di quanto non risulti da ciò che si è detto, e se accoglie in se gli irrevocabili bruti fatti della storia empirica — la rivoluzione di luglio, che per Balzac è una caduta nella secolare corruzione dell’epoca borghese — lo fa per «controllarli» in modo più sicuro e per aprire uno spazio in cui essi non siano più così irreparabili, così definitivi. La vieille fille, in effetti, non è tanto una farsa matrimoniale, e neppure un commento sociale alla vita provinciale; essa è soprattutto un’opera didattica e una lezione politica obiettiva che cerca di trasformare gli eventi della storia empirica in un esperimento in cui si possano saggiare le strategie delle varie classi sociali. Questo particolare spostamento di registro, in cui gli eventi della narrazione rimangono gli stessi ma sono nondimeno in qualche modo svuotati della loro finalità, viene forse espresso al meglio nella concezione di Todorov di una poetica «modale» e di una varietà di realizzazioni modali del contenuto narrativo nella superficie di un testo narrativo. Se, come afferma Greimas, supponiamo che una narrazione possa avere un suo modello in una singola frase, potrebbe ben seguirne che, come nel caso delle frasi stesse, ogni struttura narrativa profonda possa essere attualizzata secondo un numero di modi diversi, di cui l’indicativo, che governa il realismo narrativo convenzionale, è solo il più familiare. Ma altre possibili modalizzazioni narrative — il congiuntivo, l’ottativo, l’imperativo e simili — suggeriscono un gioco eterogeneo di registri narrativi che, come vedremo nel prossimo capitolo, saranno ricompresi e riunificati sotto la massiccia omogeneizzazione del grande realismo successivo. In questa prospettiva, lo status didattico della Vieille fille può essere spiegato da una modalizzazione nei termini del condizionale (se questo ... allora questo), il cui contenuto dev’essere ora determinato. [...].

  Quanto al termine complesso o sintesi ideale, abbiamo omesso di menzionare finora l’episodio ritardante che determina la crisi del romanzo e spinge Du Bousquier alla sua suprema decisione. Questo episodio è l’arrivo, nella casa di Mademoiselle Cormon, di un ufficiale aristocratico in esilio, il Comte de Troisville, tornato dalla Russia per ristabilirsi nella regione; in un momento di passione, Mademoiselle Cormon immagina che egli possa essere la «soluzione» dei suoi problemi e un partito più adatto degli altri due contendenti. Purtroppo il conte è già sposato; questa «soluzione», che combinerebbe in modo soddisfacente un’indubbia «legittimità» aristocratica col comprovato valore militare del tipo napoleonico, è in tal modo esplicitamente indicata dalla narrazione come soluzione puramente «ideale», soluzione utopistica nel senso più stretto e praticamente irrealizzabile.

  Il «Comte de Troisville» rappresenta quindi in questa narrazione ciò che noi chiameremo figura-orizzonte. Egli individua un luogo che non è quello della storia empirica, ma un possibile luogo alternativo: una storia in cui sarebbe ancora possibile una restaurazione genuina, purché l’aristocrazia possa imparare questa particolare lezione, cioè che essa ha bisogno di un uomo forte, in grado di combinare valori aristocratici con l’energia di Napoleone (a un certo livello di appagamento di desiderio o di fantasia, Balzac pensa ovviamente a se stesso). Questo è quindi il senso ultimo in cui il finale comico e nondimeno doloroso — la sorte ultima di Mademoiselle Cormon, sposata e al tempo stesso ancora vecchia zitella! vera e propria caricatura di una risoluzione dialettica — non è in verità una soluzione definitiva ma solo un’orribile lezione.

  In questa luce si può rileggere anche Les paysans — che è qualcosa di simile a una trasposizione di questi materiali in un registro più fosco e più tragico — e si può mostrare che la ben nota interpretazione di Lukács è solo una conclusione prematura. L’eroe condannato nei Paysans, il conte Montcornet, è infatti, come Valois nella Vieille fille, solo ambiguamente aristocratico; il suo titolo è in realtà un titolo napoleonico, e la dubbia legittimità della sua autorità «feudale» sul castello è sottolineata dall’esistenza ai margini della narrazione di altre due grandi proprietà, Ronquerolle e Soulanges, ancora di proprietà di nobili autentici. Qui si vuol dire che là dove fallì Montcornet, a causa delle sue eccepibili origini, hanno qualche possibilità di successo queste figure-orizzonte vicine, rappresentanti di una nobiltà più autentica — purché ascoltino il monito del romanzo di Balzac! Il disastro dei Paysans (come quello della Vieille fille, riflesso di una certa storia empirica) è quindi svuotato della sua definitività, della sua irreversibilità, della sua inevitabilità storica, da un registro narrativo che ce lo offre come storia meramente condizionale e trasforma il modo indicativo del «fatto» storico in quello meno vincolante del racconto ammonitore e della lezione didattica. [...].

 

 

  Erich Kohler, Causalità alienata e contingenza, in Il romanzo e il caso. Da Stendhal a Camus. Traduzione di Giovanna Di Battista, Bologna, Società editrice Il Mulino, 1990 («Intersezioni», 77), pp. 47-73.

 

  [...]. L’idea di causalità domina il XIX secolo sotto l’impulso della prosperità economica della borghesia e acquista vigore grazie alla scienza positivista. Ma la grande letteratura, reagendo alla maniera di un sismografo, assumendo principalmente un ruolo di opposizione a partire dall’Illuminismo e mostrandosi recalcitrante anche quando sembra condiscendente, conosce unicamente i figliastri del caso. Persino uno nato di domenica come il perdigiorno di Eichendorff, a cui il caso risparmia tout court l’intervento del destino, evoca proprio quest’ultimo come la sua condizione utopicamente negata. Balzac, che cedette al fascino del dinamismo della società industriale, ne ha smascherato tuttavia quei tratti inumani che costituiscono per Gustave Flaubert l’esperienza archetipica della «bêtise humaine». La convinzione di Balzac che il caso sia «le plus grand romancier du monde», la volontà di Flaubert d’«être plus logique que le hasard de choses» e l’uso letterario che entrambi fecero del caso, non possono essere compresi che partendo da un contesto storico-sociale.

  L’immensa audacia di Balzac, che pretendeva di descrivere il destino dell’uomo nell’intero contesto della sua esistenza sociale, ideando una società fittizia che anticipasse l’essenza della società (in quanto «natura concentrata», come una volta ebbe ad esprimersi), esige l’introduzione del caso per due ragioni. Da un lato gli avviene di ridurre la causalità, vale a dire di liberare nel possibile realizzato quella necessità che poggia già su una determinazione dei personaggi in base al loro ambiente e ai tratti dominanti del loro carattere. Ma d’altro canto il caso stesso corregge la motivazione causale alternando ad essa momenti in cui possono essere prese delle decisioni autonome, rendendo così strumentale l’esperienza della fatalità. Il caso appresta alternative. Tuttavia, ciò che relativizza questo spazio di libertà è un arbitrio del caso ancorato alla necessità sociale.

  Balzac applicò la dottrina delle specie zoologiche alla società umana e ne sviluppò una tipologia dalle risorse poetiche. Alle «espèces zoologiques» corrispondono le «espèces sociales». Ma il mondo degli uomini conosce situazioni transitorie e casi che la natura extraumana non si permette, infatti l’ordine della vita umana è «natura più società»: «L’Etat Social a des hasard que ne se permet pas la Nature, car il est la Nature plus la Société». Sono la dinamica e la mobilità sociale a far scoprire al «segretario della società» e «storico dei costumi», quale si reputa Balzac, il caso come un principio della realtà esistente, la cui rivelazione decide anche della riuscita dell’opera letteraria: «Le hasard est le plus grand romancier du monde; pour être fécond, il n’y a qu’à l’étudier».

  Giunti dalla provincia povera di eventi, in cui vi sono esistenze senza caso, i giovani protagonisti di Balzac sono attratti da Parigi, la «capitale du hasard», desiderosi di «sacrificare al dio del caso», il solo che prometta di rimpiazzare ciò che il dominio del denaro nega agli indigenti [...].

  La sovranità con cui Balzac si serve del caso emerge dall’analogia che si sente obbligato a stabilire fra la sua società fittizia e quella reale; Balzac ha addirittura l’impressione che la fantasia più audace, in una tale circostanza, non sarebbe in grado di misurarsi con la vita [...].

  Ma il vero consiste nel fatto che il caso atteso dai personaggi di Balzac, decide con un capriccio inspiegabile del successo o dello scacco di una carriera. Lousteau, poeta e giornalista fallito, aspetta invano per anni l’occasione che si presenta subito a Lucien de Rubempré: «Le hasard fait pour vous en un jour un miracle que j’ai attendu pendant deux ans ...». Lo stesso Lucien è obbligato a riconoscere: «Il m’arrive dans une soirée plus d’événements que dans les dix-huit premières années de ma vie». Tuttavia il carattere debole di Lucien non è all’altezza di accogliere questa «bénédiction du hasard», che riversa su di lui il suo corno dell’abbondanza. Nelle Illusions perdues si può vedere, assieme a György Lukács, l’«epopea tragicomica della capitalizzazione dello spirito» e il suo tema principale nella «mercificazione della letteratura».

  Capace di far fronte al caso, anzi di sfruttarlo con crescente disinvoltura, Eugène de Rastignac è giunto da Angoulême, come Lucien de Rubempré, nella «capitale du hasard», deciso a far carriera. La costellazione iniziale della trilogia Père GoriotIllusions perduesSplendeur et misere (sic) des courtisanes si presenta retrospettivamente come se il caso l’avesse creata apposta per lui. Gli abitanti della pensione Vauquer, di cui egli fa parte, sono «des êtres rassemblés par le hasard», per un «caso», certo, che solo in seguito al sovvertimento dell’ordine sociale cittadino può determinare la vita di persone dall’origine sociale così diversa come quella del galeotto Vautrin, più tardi capo della polizia, del fabbricante Goriot, divenuto ricco e rinnegato dalle sue figlie sposatesi nell’alta società, del medico Bianchon, che più tardi diverrà famoso, della cortigiana invecchiata Michonneau e del povero studente nobile Eugène de Rastignac. Rastignac tira risolutamente le conseguenze di questa prima chance che il caso gli offre e della coscienza che si forma in lui rapidamente [...].

  A colui che gli si affida, poiché il salto dal lato ombroso a quello assolato della vita non può essere compiuto altrimenti, l’«hasard» riserva anche rovesci di fortuna. A proposito dell’abile avventuriero Rastignac, si legge: «Les hasards sur lesquels il avait compté pour sa fortune devenaient chimériques et les obstacles réels grandissaient».

  Ciò che deve ammettere il pragmatico del successo, e cioè che il caso si oppone all’ambizione in quanto resistenza di un mondo dominato dal denaro, appare, secondo la prospettiva del filosofo, come alternativa fra una fatalità imperscrutabile e i piani altrettanto impenetrabili di una potenza superiore. La tendenza al misticismo di Balzac si mostra nelle parole di Lambert:

  Si le hasard n’est pas, il faut admettre le Fatalisme, ou la coordination forcée des choses soumises à un plan général.

  Quando si legge: «le hasard n’a certes pas autant de part que nous le croyons», o considerazioni analoghe, non si potrà concludere, come ha fatto recentemente André Allemand, a favore di una «répudiation du hasard», ma piuttosto a favore di un crescente pessimismo in Balzac, il quale non concepisce più il caso come occasione che consenta l’affermazione di aspirazioni di vita individuali, ma come una sorta di gioco di una necessità cattiva che ignora, in una crudele indifferenza, il senso della vita individuale. All’ottimismo sorto dal fascino che la mobilità sociale esercita su Balzac e che gli permette di rendere omaggio sia alle forze dell’ordine della restaurazione che ai grandi ribelli in lotta contro queste forze, e di trarre dal successo di nature eccezionali la speranza in un futuro migliore, si oppone la constatazione, talvolta singolarmente delusa, che la determinazione sociale gravante sull’individuo nella società capitalistica delle classi non ha fatto che cambiare di segno rispetto a quella della società feudale. [...].

  Lo stesso caso che, quale organo esecutivo della provvidenza, stabilisce la collocazione sociale attraverso la nascita, condanna colui che colpisce a condurre una vita senza caso liberatore. Nella Commedia umana, i figliastri del caso sono quei membri della vecchia nobiltà incapaci di adattarsi alla legge della società capitalistico-industriale e il popolo, che un monarchico legittimista come Balzac riteneva «innocuo» o, come i contadini di Les paysans, cieco, ma che esaltò nella figura di Vautrin, dall’esistenza inquietante, quasi demoniaca, come contraddizione stessa di quella società.

  Balzac fa intervenire spesso casi in maniera grossolana, ma l’arbitrio apparente delle coincidenze è sempre percepito come risultato di condizioni sociali, nelle cui possibilità la necessità è all’opera. Riducendo la causalità economica, il caso, in quanto strumento della fatalità, colpisce gli uni in una crudele indifferenza, distruggendone le speranze individuali di felicità, e offre occasioni favorevoli agli altri che si adeguano senza scrupoli al meccanismo di quella causalità. Lucien de Rubempré — e assieme a lui l’amico David Séchard — diviene vittima, Eugène de Rastignac invece, beneficiario della fatalità dei rapporti di produzione, mediata dal caso.

  In Balzac, grandi uomini d’azione puntano ancora con successo sulla possibilità di dominare la fatalità; quasi sempre il caso è significativo, eccezionale. [...].

 

 

  Carlo Laurenzi, Il Balzac «mancato» dalla Garbo. Una duchessa verso il convento, «il Giornale», Milano, 13 dicembre 1990, p. 3.

 

  [...]. Adesso, nel valutare una nuova edizione italiana della Duchessa di Langeais, pubblicata dall’«Editore» con una traduzione non impeccabile di Vera Salvago, si rafforza in me il convincimento che l’interprete filmica mancata di questo tumultuoso romanzo soverchia nell’emozione [...] il pathos della «vendetta» balzacchiana: Antoinette de Langeais maschera quella signora de Castries che si burlò dell’amore di Balzac e Balzac vendicatore identificò se stesso in Armand de Montriveau, uomo «aperto e leale, di bassa statura, dal torace largo, muscoloso come un leone». Sia come sia, Antoinette de Langeais affascinò Greta Garbo quando, uscita di scena a trentasei anni [...], cercava senza impegno apparente ma con sofferta determinazione il modo di riscattarsi e durare. [...].

  Sebbene Antoinette de Langeais abbia solo ventiquattro anni all’inizio del romanzo, la mia impressione è che Greta avrebbe superato la prova, e aggiungerei: si sarebbe superata, in una vicenda folgorante e fatale. Corrono gli ama delia restaurazione borbonica; Antoinette de Langeais, la cui famiglia non si è mai piegata al dispotismo napoleonico, regna sul mondo dorato del faubourg Saint-Germain: è flessuosa, elegantissima, bionda, scaltra, immaritata, vanesia, fredda, ossequiosa verso la Chiesa, supremamente civetta. Armand de Montriveau, eroico esploratore e soldato che Parigi acclama, ha la freschezza di cuore di un adolescente: non ha mai amato e la duchessa sa come conquistarlo: lo vuole ai suoi piedi, il suo scopo – più fatuo forse che malvagio – è di lasciare Montriveau «in preda alla vergogna di se stesso».

  L’uomo-leone si arrende subito, Antoinette alterna gelo e blandizie, immaginate Greta a ribattere a Montriveau (che nel progetto del film sarebbe stato James Mason): «Come posso sapere se andremo al ballo tutte le sere, e del resto che ve ne importa? Mi ci condurrete». Ma la vera Greta sarebbe venuta fuori dopo la svolta della storia («capovolgimento cornelliano», lo chiama Jean-Paul Sacy), quando Montriveau oppone alla soperchieria di Antoinette un mutismo improvviso, l’indifferenza, l’assenza. Antoinette, allora, si accorge di amarlo: tollera tutto da lui, si mortifica, si compromette per lui, si introduce in casa sua per accorgersi che le molte lettere scritte da lei a Montriveau non sono state aperte, soltanto la Garbo avrebbe saputo dissimulare la disperazione nascondendola sotto una sorridente grazia mondana. Infine fa duchessa di Langeais fugge da Parigi per chiudersi in un convento spagnolo, dove Montriveau – che in realtà non ha mai smesso di amarla – la ritrova quando naturalmente è troppo tardi. Suor Teresa del Carmelo, già duchessa di Langeais, è appena spirata. [...].

  Greta Garbo è morta a ottantacinque anni, in questo ‘90, ma noi la ricordiamo radiosa e dolorosa per sempre. C’erano in lei la bellezza della sofferenza e la sofferenza della solitudine, Per concludere: la sua rinuncia all’arte (alla vita) dopo la delusione romana del 1949 non equivale a entrare in convento?

 

 

  Laura Lovati, Il linguaggio meta fonologico nell’opera narrativa di Honoré de Balzac nell'anno 1831. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1990.

 

 

  Giovanni Macchia, 15 anni e 450 lettere sono le cifre della burrascosa relazione tra lo scrittore e Madame Hanska. Balzac personaggio per amore, «Corriere della Sera», Milano, 25 novembre 1990, p. 5; 1 ill.

 

  «Povero Honoré, è così cambiato di aspetto che tutti stentano a riconoscerlo».

 

  Nella vita di Balzac, così colma di libri e di avvenimenti, c’è un episodio che potrebbe rientrare di diritto in una delle trentasei situazioni drammatiche registrate da Carlo Gozzi.

  In un venerdì di settembre del 1847 l’autore della Comédie Humaine, con la morte nel cuore, fu costretto a bruciare tutte le lettere, nessuna esclusa, che aveva ricevuto fino allora dalla sua adorata signora polacca, vedova dal 1841 del conte Hanski. Quel giorno, disse, fu il più doloroso della sua vita. Erano andati distrutti lentamente in quel fuoco quindici anni di un esaltante e burrascoso amore.

  Qualche volta abbiamo temuto, noi lettori instancabili e appassionati, di essere visitati, in un momento particolare della nostra giornata, da un grande personaggio di romanzo. Quel venerdì, in circostanze diverse, sembrò che riapparisse a Balzac un eroe della sua Comédie, travestito da donna. Vautrin, si sa, era riuscito a metter le mani su una corrispondenza amorosa che comprometteva l’onore di nobili dame.

  In casa Balzac la governante aveva rubato ventidue lettere della contessa polacca e minacciava di spedirle a Giorgio Mniszech, marito di sua figlia Anna, se non le fosse stata recapitata la somma di trentamila franchi. La vita certo imita il romanzo. Ma questa volta lo peggiorava. Diventava un romanzo d’appendice.

  I danni che derivarono da questa azione infame non riguardarono solo Balzac e la sua amante. Riguardarono anche i suoi infiniti lettori e i suoi biografi. Si deve a questo personaggio silente, sconosciuto, se la grande figura dell’«Étrangère» cui il romanziere aveva dedicato tanta parte della propria esistenza e che fu scopo e ragione di tanto amore ma anche di tante complicate faccende e forse di poche gioie e di molti dolori, resta per noi come tagliata in due. La parte in ombra è molto più spessa di quella che oggi riusciamo a vedere. Dobbiamo alla signora Louise-Philiberte Breugniot, chiamata madame de Brugnol, ex amante di Balzac, se il lungo dialogo che si stabilì tra i due innamorati, pieno dimprevisti e di speranze, sia rimasto un monologo, uno straordinario monologo ininterrotto di circa 450 lettere, recitato da colui che Baudelaire definì il più eroico, il più singolare, il più romantico, il più poetico dei suoi personaggi, forse proprio in ragione di questo folle amore che lo portò dritto alla tomba.

  E si deve ancora all’infame creatura», all’«arpia», se le lettere che, dopo quella data, madame Hanska, grafomane incorreggibile, inviò al suo futuro sposo andarono anch’esse distrutte. E possiamo oggi leggere di lei soltanto due lettere del 1832 e vergate da mano ignota. Il grande monologo di Balzac si chiuse per sempre il 14 marzo 1850, giorno in cui i due amanti si sposarono in una chiesa di Berdičev. Solo quando, dopo anni di distacco e di solitudine, essi cominciavano a vivere stabilmente insieme e non avevano più lettere da scrivere, s’iniziò il breve monologo epistolare della contessa, storica inoppugnabile, e forse la più fedele, degli ultimi mesi dolorosi della vita del suo grande marito.

  Sono lettere scritte a sua figlia in cui parla molto di Balzac ma anche di se stessa e di cose che possono sorprenderci. Honoré soffre di una spaventosa ipertrofia al cuore. E’ ridotto durante il viaggio di ritorno in uno stato pietoso, eppure essa si mostra contrariata, da viaggiatrice accanita, per non aver potuto visitare Berlino che non conosceva. Continua a chiamare suo marito Bilboquet (come veniva scherzosamente chiamato nell’allegra compagnia dei «saltimbanchi») anche quando informa la figlia che il poveruomo non riusciva né à vedere né a camminare.

  Colto da continui svenimenti, il suo aspetto era così cambiato, diceva, che tutti stentavano a riconoscerlo. E qui s’inserisce la scena terribile del loro arrivo a Parigi.

  E’ noto che, giunti finalmente davanti alla casa di rue Fortunée, il cameriere di Balzac si rifiutò ostinatamente di aprire la porta ai due sposi, e si dové ricorrere ad un fabbro perché la porta venisse sfondata. Furono questi colpi, questo fracasso a salutare il loro ingresso nella casa dell’amore. E tutti dissero che il cameriere era impazzito. Ma fu la sua davvero un’improvvisa follia?

  Quell’uomo era un robusto dragone alsaziano, chiamato Francesco Munch, che parlava tedesco e che prestava servizio da tre anni in casa Balzac, definito dal suo padrone uomo probo, solido, sia pure non molto intelligente. E fu effetto di pazzia il suo non voler riconoscere il padrone in quel malato quasi cieco, traballante, in quel rottame dai lineamenti profondamente alterati e che non sembrava più se stesso? E’ certo che quel mancato riconoscimento ha dato vita ad una scena degna di una tragedia greca o di qualche grande «chanson de geste», quando gli eroi sconfitti, laceri, coperti di sangue, si avvicinavano alla porta delle loro città, e, in quel quadro di sublime desolazione, non venivano riconosciuti dalle loro donne. Il robusto dragone alsaziano volle forse a tutti i costi impedire che la casa che doveva essere la casa felice degli sposi divenisse la casa della morte. E casa della morte divenne tre mesi dopo quando, alle undici e mezzo della sera del 18 agosto, Balzac spirò.

  L’orrore di questa scena non sembra aver colpito come presagio d’imminente sciagura madame Hanska.

  Rimasta vedova, divenuta parigina, nella sua bella e nuova casa, al cui arredamento con oggetti antichi e mobili e quadri acquistati nei suoi continui viaggi per l’Europa lo scrittore aveva dedicato tanto tempo e tanta cura, ella vive certo nel dolore ma è assai soddisfatta, da quel che ne scrive alla figlia, del proprio stato di salute che definisce «sorprendentemente buono». Si riposa nella calma più assoluta. Ma quel riposo quanto poteva durare, in lei così dinamica? Non può trasformarsi in intorpidimento e noia? Ed è ancora una volta la vita a riservarci delle sorprese.

  Un giorno ella accolse perciò con soddisfazione la lettera che nel marzo 1851, le inviò un giovane scrittore francese. Si qualificava allievo di Balzac e si scusava se, lontano da Parigi, non aveva potuto assistere ai suoi funerali. Chiedeva di essere ricevuto.

  La vedova disse di sì, e da quel primo incontro, sette mesi esatti dopo la scomparsa di Balzac, s’iniziò un’amicizia tra Eve e lo scrittore Jules de Fleury, noto sotto lo pseudonimo di Champfleury, amico di Baudelaire; un’amicizia che divenne una relazione d’amore e durò qualche anno. La corrispondenza che si scamiciarono i due amanti, appartenente al fondo Lovenjoul, viene oggi pubblicata per la prima volta, con esaurienti commenti, da Lorin A. Uffenbeck ed Elizabeth Fudakowska, presso gli editori Champion-Slatkine, Parigi-Ginevra.

  Balzac verso il 1843 aveva progettato di scrivere una lunga novella intitolata Programma di una giovane vedova, di cui non ci restano che scarsi frammenti. Forse pensava a madame Hanska. Ma non avrebbe mai immaginato che quella signora, vedova per la seconda volta, a pochi mesi dalla morte del secondo marito, avrebbe ripreso a scrivere lettere d’amore.

  Da grande romantico egli aveva salutato un giorno in lei un angelo in amore e un demonio per la fantasia, un essere che possedeva la fede di un fanciullo e l’esperienza di una signora matura, uomo per il cervello, donna per il cuore e poeta per i suoi sogni. Ma a Parigi questa sua immagine dai violenti contrasti stava già per perdere ogni luce e ogni grandezza. E, come in una tragedia di Shakespeare, scomparso il primo attore, all’azione principale si sostituiva, come avrebbe detto Hugo, un’azione «en petit», in dimensioni ridotte. Agli alti infiniti monologhi si sostituiva un modesto e un po’ triste dialogo d’amore. Al posto di Balzac si faceva avanti uno che gli rassomigliava, ma come piccolo scrittore, quasi una sua controfigura. E da una tragedia di Shakespeare si passa all’atmosfera parigina di una commedia di Dumas figlio.

  Leggendo questa corrispondenza non bruciata, sappiamo ora come ella scriveva le sue lettere d’amore, con quale intensità, con quale disperazione, con quale avida carnale sensualità. Ma, avendo perduta la luce che la illuminava, ella diventa l’affascinatrice che si serve della cultura e dell’alto suo rango per dominare. Isolata e come estranea a tutte le altre passioni, declassata, continua ad incarnare il dispotismo della donna da cui l’uomo è assorbito come ai suoi tempi fu assorbito Balzac. Ma agli immensi orizzonti di una volta, al tormento e all’estasi della lontananza qui si sostituisce il sensuale commercio amoroso di un giovane di trent’anni, desideroso di far carriera, abituato a una vita di «bohémien», e una nobile signora di cinquant’anni; una relazione condita di passione ma anche di equivoci e di tradimenti, perché Champfleury, onorato da quell’amore, non rinunciava alle sue «grisettes».

  Fu la «bohème» a salvarlo. E tanti anni dopo, rileggendo le lettere di quell’amore, tenere, affettuose, esaltate che gli risvegliavano sentimenti penosi, Champfleury si chiedeva se ella lo avesse veramente amato. Scambiando il suo dispotismo in amore materno, egli la vedeva come madame de Warens alle prese con un più maturo Rousseau. E confessava nulla aveva ancora capito di quella donna del Nord. Si comprometteva apertamente con lui che l’abbandonava per tradirla con altre donne. Forse, concludeva, ella amava nell’amore, la sofferenza.

 

 

  Giovanni Macchia, Il mondo rovesciato di Grandville, in Elogio della luce. Incontri fra le arti, Milano, Adelphi edizioni, 1990 («Saggi. Nuova serie», 1), pp. 137-146.

 

  La caricatura, la forma d’arte più aborrita dai governi autoritari, fiore nero che nasce di preferenza nel terreno grasso delle grandi democrazie, sta ricominciando pur faticosamente a ricrescere. Già colpita alle radici dalla furia devastatrice negli anni che abbiamo attraversato, essa offre sui quotidiani, sui rotocalchi e sugli schermi della televisione ottime occasioni perché gli italiani aguzzino il loro ingegno. E non soltanto si vanno organizzando mostre dedicate ad artisti contemporanei, ma si vanno a ripescare, in costosi volumi o nelle sale d’esposizione, artisti del passato, oggi splendidamente resuscitati.

  Al francese Grandville, per esempio, è stata dedicata un’ampia mostra, che da Roma ha fatto poi il giro di una buona parte d’Italia, e da Bari è salita fino a Venezia.

  Grandville, l’autore delle Scènes de la vie privée et publique des animaux, è arrivato a Venezia nei giorni di carnevale e nessun arrivo fu più tempestivo. Secondo Balzac nel carnevale si esprime l’unica superiorità che l’uomo ha sugli animali. Durante il carnevale viene raggiunta la certezza sui rapporti che legano l’umanità all’animalità. Scoppiano nell’uomo tali passioni animali che nessuno potrà avere più dubbi sulle loro affinità. In questa immensa baraonda le persone dalla più fine educazione si sottopongono ad un processo di trasformazione. Sfilano in immagini ripugnanti e grottesche, per affermare un loro tentativo antilluministico di carnevalizzazione del mondo.

  Non si può capire Grandville se non si tiene conto della torbida invasione di animalità che, dal materialismo del Settecento alla scienza dei grandi fisiologi del primo Ottocento, dopo la Rivoluzione e la caduta dell’astro napoleonico, invase il mondo del pensiero e della letteratura. Non si può capire Grandville se non si pensa a Balzac, che iniziava la sua commedia umana con una serie di «studi» dallo stesso titolo di quella di Grandville: Scènes de la vie privée. Degli uomini o degli animali?

  La grandezza di Balzac, la sua forza visionaria, stanno anzitutto nella volontà di abbassare di più gradi il livello generale dell’umano, di quell’uomo il cui capo eretto Ovidio pensava fosse stato creato per contemplare la bellezza degli astri. Perché l’uomo rinnovi la sua capacità di rappresentare il reale bisogna piegarne l’orgoglio, l’orgoglio di chi crede che il mondo diventi ogni giorno più spirituale, cioè più carico d’intelligenza.

  Anche l’artista o il romanziere deve affermare ciò che la scienza ha per proprio conto dimostrato: l’unità di composizione del creato. L’umanità ha il suo paragone nell’animalità. Non basta. L’animale vegeta come la pianta, e prende forme differenti secondo l’ambiente in cui è chiamato a svilupparsi. Le specie zoologiche nascono da queste differenze. Balzac non badava che anche gli scrittori del grand siècle, quando dimenticavano di esaltare l’uomo, avevano detto qualcosa di simile (La Rochefoucauld). Ma, spirito moderno, amava rifarsi agli scienziati. E Grandville si mette sulla stessa strada. Le differenze tra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un fannullone, un uomo di Stato, un commerciante, sono altrettanto considerevoli quanto quelle che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, lo squalo, la pecora. Con la sua mano Grandville avrebbe dato vita alla grande zoologia della razza umana, e con questo assunto avrebbe esercitato la sua forza satirica. [...].

  Come Balzac, il quale cercava di fondere l’insegnamento dei materialisti del Settecento con quello dei mistici e di risolvere attraverso la scienza i problemi metafisici, come Poe, forse come Baudelaire, penso che Grandville covasse in sé l’acuta nostalgia di non essere divenuto un filosofo o uno scienziato. [...].

 

 

  Marco Macciantelli, L’unità a posteriori e l’opera di Balzac, in L’assoluto del romanzo. Studio sulla poetica di Marcel Proust e l'estetica letteraria del primo romanticismo, Milano, Mursia editore, 1990 («Saggi di estetica e di poetica»), pp. 222-224.


  Nella Recherche, il tema della simmetria nel piano di composizione retorica del testo è inscindibilmente legato ai nomi di Wagner e di Balzac. A proposito di quest’ultimo, il narratore si mostra particolarmente interessato alla gioia che egli suppone dovette provare lo scrittore quando scopri l’unità della sua opera. In effetti, ne La Prisonnière, si assiste ad un sorprendente passaggio, nel discorso svolto dal narratore, da Wagner a Balzac; un passaggio, privo di soluzione di continuità, e che sembra come suggerito al narratore da una qualche immaginaria associazione tra i due grandi artisti dell’Ottocento, sulla base di una loro comune visione dell’arte, dell’opera d’arte, come compresa (in quanto totalità) da una rigida griglia compositiva.

  E dunque, l’io narrante della Recherche, mentre sta parlando di Wagner, a un certo punto, riferendosi indirettamente a Balzac, [...] lamenta [...] il carattere di «incompletezza» che caratterizzerebbe tutte le grandi opere dell’Ottocento — il secolo, egli aggiunge, in cui i maggior, scrittori hanno fallito i loro libri. Perché? Perché, sembra di capire, essi non sono stati in grado, pur inseguendone in alcuni casi la prospettiva, di imporre alle loro opere ai loro libri — L’unità compositiva necessaria. È quanto invece, stando sempre a ciò che il narratore sostiene in queste pagine, sarebbe riuscito a Balzac (e, insieme a lui, a Wagner) [...].

  Un’unità ulteriore, a posteriori, ma non artificiosa; in caso contrario incomberebbe il pericolo di realizzare qualcosa di assolutamente effimero, destinato a dissolversi in polvere [...].

 

 

  Giuseppe Meazza, Analyse socio-critique du “Père Goriot” de Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: prof. Luciano Verona, Milano, I.U.L.M., Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, Anno accademico 1989-1990.

 

 

  Arlette Michel, Balzac et le machiavélisme romantique: du “Prince” à “Tartuffe”, in Homo sapiens, homo humanus. Vol. II. Letteratura e società nella seconda metà del Quattrocento. Individuo e società nei secoli XV e XVI. A cura di Giovannangiola Tarugi, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1990 («Centro di studi umanistici “Angelo Poliziano” - Fondazione Secchi Tarugi»), pp. 357-364.

 

  Le machiavélisme balzacien a peu de rapport avec la doctrine authentique de Machiavel. Deux points de vue nous paraissent constituer l’originalité de ce machiavélisme. D’une part Balzac établit une psychologie du machiavélisme qu’il met en rapport avec sa théorie personnelle des passions. C’est dans le cadre de cette théorie des passions que le romancier constitue d’autre part sa théorie politique du pouvoir machiavélique et met en place une histoire du machiavélisme qui conduit aux formes étonnantes d’un machiavélisme bourgeois où se marque le triomphe de la médiocrité: nous sommes loin du machiavélisme aristocratique et de la doctrine du Prince; en revanche nous sommes fort près des maximes du Tartuffe de Molière.

  Si l’on cherche à établir la psychologie balzacienne dia machiavélisme, on est confronté à une première surprise : Balzac réduit le machiavélisme à une règle d’action — qui veut la fin veut les moyens, alors qu’en même temps il voit dans le machiavélisme un des indices les plus incontestables de la supériorité; le machiavélisme distingue, dans La Comédie humaine, le grand homme.

  Le personnage machiavélique possède aux yeux de Balzac les deux plus hautes marques de la supériorité: l’intelligence, l’énergie. L’intelligence? la «compréhension encyclopédique», la capacité de saisir en tonte chose le pour et le contre, une lucidité sans illusions, l’imagination qui, par sa «finesse» et sa «profondeur», est intuition, enfin un sens très concret des moyens et des conditions de l’action. Quant à l’énergie, elle ne favorise que secondairement chez Balzac la vertu morale, le courage, la persistance dans la volonté (le machiavélisme dissocie morale et action); l’énergie est d’abord la force vitale, à la fois physique, morale et spirituelle, qui fait l’homme supérieur et en particulier l’homme d’action. Or l’une des lois balzaciennes de l’énergie est celle-ci: son pouvoir est maximum quand l’énergie est non pas répandue et dispersée en agitation mais concentrée, contrôlée, mesurée avec économie. Le machiavélique met en œuvre une énergie concentrée et dominée: il est animé d’une passion qui calcule froidement ses coups et ses effets — une passion susceptible de «prudence» , de «dissimulation» et qui se rend capable de faire sans dire ».

  On comprend en quel sens le personnage machiavélique atteint aux yeux du romancier à la supériorité: il sait, il veut, il peut. Homme d’intelligence, de passion et d’action, il réunit les trois formes que peut revêtir l’énergie humaine telles qu’elles sont définies dans La Peau de chagrin: «Savoir, Vouloir, Pouvoir». Il les conjugue sans déperdition de force vitale car il en contrôle et maîtrise parfaitement l’usage; l’effet, pour lui, reproduit exactement le projet et le désir. Le machiavélisme est une passion maîtrisée.

  C’est ce que nous vérifierons maintenant dans l’histoire des formes du machiavélisme que Balzac dessine dans La Comédie humaine et où se mêlent personnages historiques et personnages fictifs, de Catherine de Médicis à Napoléon et Talleyrand, de Vautrin à Henri de Marsay en passant par les policiers et les bourgeois nantis. […].

  Balzac, dans La Comédie humaine crée une version romantique très originale du machiavélisme. Le machiavélisme est à ses yeux un modèle humain exemplaire : il allie savoir, vouloir, pouvoir; il assure son pouvoir sans destruction de son énergie. Cet investissement contrôlé, domine, de l’énergie, si difficile à réaliser, apparente l’action machiavélique à la création romanesque: dans les deux cas action et patience s’équilibrent, de même passion et intelligence. Dans l’ordre politique, le machiavélisme représente l’une des tentations balzaciennes : avec lui s’affirme chez notre auteur le désir d’un pouvoir fort légitimé et garanti par sa fidélité à un système de valeurs nobles.

  A travers l’histoire qu’en trace le romancier, le machiavélisme politique se dégrade. Il dégénère sous la Révolution en se chargeant de passions violentes, exaltées, et souvent basses. La bourgeoisie trouve en lui, par un dernier abâtardissement, son arme de prédilection; mais il n’est alors plus qu’un système d’hypocrisie destiné à masquer les fins véritables d’un pouvoir qui ne cherche que son intérêt propre.

  Fasciné par la grandeur du machiavélisme aristocratique, par le machiavélisme de haute volée des grands hommes de gouvernement, Balzac n’est pas sans une connivence ambigüe avec les formes moins nobles de machiavélisme! Il a un goût marqué pour toutes les formes de pouvoir occulte, il a le goût du jeu et aussi trouve un amer plaisir dans l’esprit de dérision, dans le cynisme: Vautrin et de Marsay ne sont pas sans séduction et Balzac les a bien voulus tels. Il faut pourtant marquer très fortement les limites de l’indulgence de Balzac à l’égard du machiavélisme: d’une part son ironie s’acharne sur tous ceux de ses personnages dont le machiavélisme ne révèle que la médiocrité; surtout, le machiavélisme est trop souvent le fait de personnages qui ont cessé de croire dans les valeurs, qui ont perdu espoir, il est signe de démission et de désespoir. A ce titre Balzac le récuse.

 

 

  Laura Novati, 1845. Honoré de Balzac, Illusioni perdute (Illusions perdues), in Il centoromanzi dell’Ottocento, Milano, Rizzoli Editore, 1990, pp. 181-187.


  [...] le Illusioni perdute descrivono le bolge dei circuiti editoriali di massa e i peccati dell’apparato professionale condannato a rifornirli e a mantenerli. Lo scrittore diventa aedo del quotidiano cioè giornalista: deve parlare di ciò di cui si parla, pubblica e fa pubblicità.

  Lo stampatore e il pubblicista sono dunque la forza-lavoro necessaria ad alimentare la fornace della comunicazione e quindi due devono essere i protagonisti e le vittime del disinganno: David Séchard e l’amico Lucien Chardon che abbandona il borghese cognome paterno per riprendere quello materno, il più nobile de Rubempré. [...].

  Aspetto materiale: nello spazio di poche ore, Lucien si trova giornalista con l’aiuto di Lousteau, ma deve schierarsi, come l’amico gli spiega: «i realisti sono romantici, i liberali sono classici. La divergenza delle opinioni letterarie si aggiunge alla divergenza delle opinioni politiche; ne segue una guerra senza quartiere, fiumi di inchiostro ... [...]». La controdomanda di Lucien è però di quelle che indicano un destino: «Chi sono i più forti?». E Lousteau replica: «Siate romantico. I romantici sono giovani e i classici sono dei parrucconi; i romantici vinceranno».

  La lezione si conclude con l’arruolamento, lo stendardo dietro cui muoversi è la “reputazione”, che è mobil donna e prostituta dal torpido profumo, quello che emana dalle belle delle Galeries de Bois [...].

  È il Primo Mobile di Balzac: il denaro forza inevitabile, trascinante, ossessiva. «La questione generale del denaro a tal punto lo appesantisce e lo schiaccia che egli si muove attraverso la commedia umana, dal principio alla fine, in una maniera che assomiglia molto a quella del cammello, la nave del deserto, quando sia tormentato da un carico. Per lui le “cose” sono soprattutto franchi e centesimi e io ho rinunciato a trovare una spiegazione della particolare, inscrutabile, insondabile avidità dell’interesse che egli mostra nei loro confronti. Essa ci porta a chiederci, sempre di nuovo, quale sia l’uso, in un caso delle proporzioni di Balzac, dell’immaginazione. Sappiamo bene tutti che questa divina facoltà può essere impiegata, fino a un certo punto, per escogitare modi di usare il denaro; oltre quel punto, però, il suo compito è certamente quello di farci dimenticare l’esistenza di una cosa tanto odiosa. Balzac di questa esistenza non si dimenticò mai; il suo universo continua a esprimersi fin nelle più remote propaggini e nei suoi aspetti più squisiti, in termini di mercato». [H. James].

  Carattere, sentimenti, qualità e difetti individuali rispondono allora a una dialettica continua fra chi usa e chi è usato o viceversa; Lucien perde ogni illusione sull’estraneità della cultura all’economia di scambio: i suoi articoli sono calzoni, guanti, cappelli e cene; se è debole, è indubbiamente anche ingenuo pensando di orientarsi tra chi obbedisce alla legge del consumo senza il controllo dell’investimento.

  E quindi accumula “errori” soggettivi e oggettivi, alternando gentilezza e bassezza d’animo. Resta fedele sino al a sua precoce morte a Coralie, “bellezza ebrea” e giovane attrice, ma facendole perdere il lusso pagato — anche a lui — dal ricco protettore; passa dai liberali ai realisti, ma rifiuta l’appoggio di Mme de Bargeton, disposta a riamarlo nella sua eleganza di bel giovane promettente. In una ridda confusa, egli subisce una disfatta rapida quanto l’ascesa e deve tornare a chiedere soccorso ad Angoulême.

  Non prima però di aver portato la rovina in casa di David Séchard, avendo falsificato la firma del cognato in una cambiale. Tremila franchi che, come spiega Balzac nella sua stupefacente bravura di Grande Revisore di conti e partite doppie o triple, si trasformano in pochi giorni, in mano ad avvocati e in tribunali, in diecimila. La cambiale scaduta e non onorata è l’arma dei fratelli Cointet che vogliono carpire a David l’invenzione cui sta lavorando, un nuovo sistema per fabbricare carta da stracci, e non stanno a badare ai mezzi, basta che servano allo scopo.

  Se Lucien paga la compravendita dei propri sogni, David paga per l’opposta debolezza, l’assoluta onestà e l’idealismo più risoluto. Eroi della carta, essi rappresentano la materia prima e seconda, le fibre vegetali e le fibre intellettuali destinate al “popolo in-folio”: ambedue non hanno diritto di tutela se non sono speculative nonché speculatrici.

  Il ritorno a casa di Lucien è inglorioso, David è messo in prigione per debiti: il finale positivo è però coerente alle aspettative dei personaggi: David e Ève si ritirano in campagna, nell’idillica trasformazione in proprietari terrieri mediante l’eredità del vecchio Séchard che restituisce in morte quel che ha sottratto in vita al figlio. Lucien decide di uccidersi, ma per via ci ripensa, convinto a riprendere la sua strada — senza illusioni — dal sedicente gesuita e avventuriero Carlos Herrera. Costui lo alleggerisce dal rimorso, spiegandogli la differenza tra un ladro di polli e un finanziere allegro: il primo sovverte l’ordine sociale e va condannato, il secondo provoca soltanto spostamento di capitali.

  Il nuovo capitolo dell’educazione di Lucien si svolgerà a Parigi e sarà trattato, spiega Balzac, in Scene di vita parigina; è la conferma del giudizio su Lucien dato da Petit-Claud, l’avvocato che sulle disgrazie dei Séchard e di Rubempré ha costruito la sua fortuna. «Non è un poeta quel ragazzo, è un romanzo a puntate».

  Puntate o libri epici nati nella solitudine e nell’esistenza notturna e vicaria di un camaleonte della penna, onnivoro e allucinatorio nei suoi percorsi; nel buio regno degli inferi di Balzac — vent’anni passati forsennatamente a scrivere — si ammassa un tesoro di lingotti d’oro: nella loro fusione si è realizzata la profezia hegeliana sul romanzo-epopea della società borghese, un’interezza esaustiva che fa dello scrittore l’idolo della tradizione critica storicista e marxista. Un aureo idolo greve: «se lo immaginiamo nel bosco sacro come un idolo svettante» dice. James «immaginiamolo anche ricoperto da uno spesso strato d’oro — placcato, brunito, splendente proprio alla maniera degli idoli. Ché una doratura sottile si addice, piuttosto, a quelli tra noi che siano dotati di minor accuratezza, sostanza, ricchezza».

 

  Honoré de Balzac (1799-1850) nacque a Tours, ove il padre era funzionario amministrativo della XXII Divisione; messo in collegio a Vendôme, si diede a matte e disperatissime letture che a quattordici anni, secondo la sorella, l’avevan «ridotto a un sonnambulo». Dopo il trasferimento del padre alla I Divisione a Parigi, la famiglia lo seguì. Balzate si era iscritto a legge, ma a vent’anni chiese ai suoi di aiutarlo a diventare scrittore. Ne uscì un singolare patto di mantenimento per due anni, il tempo fissato per la prova; non l’avrebbe superata con la poesia e la tragedia Cromwell se non avesse incontrato Auguste Le Poitevin, uno scrittore di romanzi a puntate; in collaborazione con costui e poi da solo inizio così la sua gigantesca impresa, la produzione romanzesca più colossale del secolo. Con i primi guadagni decise di impiantare una tipografia e diventare editore: l’impresa si trasformò in un disastro economico, seguilo dal fallimento del 1828. Era però nel suo carattere il gusto della sfida, il gioco della speculazione e del denaro che si riversa in tante delle sue opere, nella minuzia affascinata e affascinante con cui segue il moltiplicarsi o lo scomparire della ricchezza. Nel 1829 esce Le Dernier Chouan ou la Bretagne en 1800, nel 1831 La peau de chagrin: la scelta della scrittura e conferma vita di società, per i salotti in cui si presentava come elegante dandy, nonostante il fisico infelice, bersagliato dai caricaturisti dell’epoca. Romanzi e amori si susseguono, ma il più complicato romanzo è la relazione con la baronessa polacca Eve Hanska, che riesce a sposare sei mesi prima di morire.

  Nel 1841 esce una prima edizione completa dell’opera in sedici volumi e nasce il progetto-sistemazione della Comédie Humaine: il piano definitivo steso nel 1845 comprendeva centotrentacinque romanzi, ottantacinque finiti e cinquanta abbozzati; questi ultimi rimasero tali, ma Balzac ne scrisse altri sei che portano a novantuno la summa della sua produzione romanzesca. La Comédie si divide in: Scènes de la Vie Privée; Scènes de la Vie de Province; Scènes de la Vie Parisienne; Scènes de la Vie Politique; Scènes de la Vie Militaire; Scènes de la Vie de Campagne, che insieme formano la parte prima. La parte seconda raccoglie gli (sic) Etudes Philosophiques; la parte terza gli Études Analytiques. Vent’anni di lavoro forzato, del Genio del Realismo che, per primo, Baudelaire vede invece come prodigioso genio visionario: «un visionario appassionato; ogni suo personaggio ha in dono l’ardore che animava lui stesso. Ogni sua narrazione è ricca di tinte profondamente vivaci come quelle dei sogni [...] Chi può vantarsi d’essere così felicemente dotato e di poter usare un metodo in grado di permettergli, senza incertezza, di offrire alla pura trivialità un abito di luce e di porpora? ...».



  Jean-Louis Ormières, La contre-révolution et la littérature du 19e, in AA.VV., Robespierre & Co. Atti della ricerca sulla Letteratura Francese della Rivoluzione diretta da Ruggero Campagnoli. Quarto Seminario Internazionale. Centro Interfacoltà Sorelle Clarke dell’Università di Bologna. Bagni di Lucca, 7-8-9 novembre 1988, a cura di Nadia Minerva, Bologna, Edizioni Analisi, 3.1990.II, pp. 425-434.

 

  Si la révolution française ou certains de ses épisodes ou de ses personnages ont fourni matière à la littérature française, la contre-révolution et tout particulièrement son visage populaire a également inspiré l’œuvre de nombreux romanciers. Comment les insurrections de l’ouest sont-elles traitées dans la littérature du 19e siècle? Telle est la question à laquelle je voudrais répondre en étudiant 2 œuvres majeures, Les Chouans d’H. de Balzac et Quatre-vingt-treize de V. Hugo.

  Rappelons que Les Chouans, le premier roman de Balzac écrit sous son nom, se situe à l’époque de la dernière chouannerie, celle de 1799. Dans ce qui allait être son dernier roman, V. Hugo, nous décrit cette guerre des vendéens contre la République qu’il jugera, opinion partagée par J. Michelet, comme ayant été le fruit d’un profond malentendu. […].

  Imbu d’une supériorité toute parisienne et d’un mépris du citadin à l’égard des populations des campagnes, Balzac est encore plus sévère avec la Bretagne, ne lui reconnaissant même pas cette personnalité rebelle. Terre mythique, la Bretagne de Balzac demeure en marge de l’histoire et du progrès. Le breton y apparait plus sauvage, encore moins civilisé que l’indien […].

  Aussi tout effort pour conquérir ce pays à la vie sociale et à la prospérité lui paraît vain. La disposition du sol est en grande partie responsable de cette situation. Couvert de bocage, privé de routes, et pourvu d’une population ignorante, ce pays se voit exclu des bienfaits amenés par la comparaison, par l’échange des idées.

  Dans ce pays d’habitat disperse, le village n'existe pas, chaque famille y vit comme dans un désert, ne se réunissant avec ses voisins qu’a l’occasion de la messe dominicale, ne recevant de visites que celles du curé. […].

  A la différence de V. Hugo, il y a chez Balzac la volonté partisane de dépeindre ces bretons comme des sauvages, des fauves, des êtres intermédiaires entre les hommes et les bêtes. […].

  Balzac considère certes que les sauvages bretons se battent pour servir Dieu et le roi mais le dévouement dont les chouans témoignent à l’égard du marquis de Montauran n’est ici guère différent de celui de tout soldat à l'égard de son chef.

  Par contre, l'un et l’autre ont bien mis en avant l’idée que l’opposition Révolution/Contre-révolution renvoie et recoupe l’antagonisme ville/campagne. […].

  Balzac ne peut s’empêcher de remarquer l’enthousiasme patriotique des bretons des villes qu’il attribue à l’acquisition des biens nationaux. Il admet toutefois que les bienfaits de la révolution ont été mieux appréciés dans les villes où existe un certain amour national pour la guerre.

  Enfin, dernier élément constitutif de l’esprit contre-révolutionnaire et de l’engagement contre la république: la religion. Dans la préface de la première édition de son roman, Balzac regrette d’avoir singulièrement néglige de montrer la part que le clergé a eu dans ce qu’il appelle «ces entreprises désastreuses et inutiles». Pourtant le sentiment religieux et l’influence du prêtre dans les bocages sont évoqués à diverses reprises. Les chouans se signent, invoquent les saints proclament leur foi. Lorsque l’héroïne Mme de Verneuil, espionne au Service de la République, assiste à une messe de prêtre réfractaire, elle est frappée par l’ascendant exercé par le prêtre sur ses fidèles. Bénie par le recteur, la guerre que mènent les chouans est une guerre sainte où chaque bleu jeté à terre vaut une indulgence.

  Quant à V. Hugo, il ne manque pas de relever que ces paysans qui arborent «des coeurs de Jésus sur leur veste de cuir, des rubans blancs à leur chapeau rond, des devises chrétiennes sur leur brassard, des chapelets à leur ceinturon» sont certes mal disciplinés et mal armés mais frénétiques.

  En définitive, ce que nos deux auteurs ont le plus retenu des historiens de leur époque, c’est le rôle joué par le bocage dans ces insurrections qui apparaît bien comme le grand responsable, le grand fauteur des troubles. L’influence de la noblesse si souvent mise en avant dans nombre d’ouvrage d’histoire de la Révolution et de la contre-révolution, est très peu présente, que ce soit dans Les Chouans ou dans Quatre-vingt-treize.  […].

 

 

  Marcel Proust, Balzac, naturellement. Balzac naturalmente ..., con 4 disegni dell’autore. Edizione a cura di M. G. Carbone, Roma, Biblioteca del Vascello, 1990 («Frammenti», 3), pp. 52.

 

  Si tratta della riproduzione, con traduzione italiana a fronte, del primo brano della raccolta di scritti proustiani – pubblicata nel 1950 dalle edizioni Ides et Calendes e curata da Madame Gérard Mante-Proust e da Bernard de Fallois – con il titolo: Le Balzac de Monsieur de Guermantes.

 

  Balzac naturalmente, come gli altri romanzieri, e più di loro, ha avuto un pubblico di lettori che non cercavano nei suoi romanzi l’opera letteraria, ma semplicemente fantasia e spirito d’osservazione. Questi non si lasciavano scoraggiare dai difetti del suo stile, ma piuttosto dalle sue qualità e dalla sua ricercatezza.

  Nella piccola biblioteca al secondo piano, dove, la domenica, Monsieur de Guermantes corre a rifugiarsi al primo colpo di campanello degli ospiti di sua moglie, e dove, all’ora della merenda, gli portano il suo sciroppo e i suoi biscotti, egli possiede tutto Balzac, rilegato in pelle di vitello con tassello di cuoio verde e dorature, nell’edizione di Monsieur Béchet o Werdet, quegli editori a cui scrive per annunciare lo sforzo sovrumano che sta per fare, nell’inviare loro cinque cartelle invece di tre di un’opera destinata ad avere la massima risonanza, e dai quali reclama in cambio un aumento del compenso.

  Spesso, quando andavo a trovare Madame de Guermantes, se lei credeva di accorgersi che i suoi ospiti mi annoiavano, mi diceva: “Volete salire a trovare Henri? Dice di non esserci, ma voi, sarà felice di vedervi!” (rendendo così inutili, d’un sol colpo, le mille precauzioni che prendeva Monsieur de Guermantes affinché non si sapesse che era in casa e non lo si potesse considerare scortese perché non si faceva vedere) “Non dovete fare altro che farvi condurre alla biblioteca del secondo piano, lo troverete lì che legge Balzac”.

  “Ah! se lasciate che mio marito cominci con Balzac!” diceva spesso la Contessa, con l’aria intimorita e quasi felicitandosi, come se Balzac fosse insieme un contrattempo che impediva di uscire puntuali e che mandava a monte la passeggiata, ma anche una sorta di favore particolare che Monsieur de Guermantes non accordava a chicchessia, e di cui dovevo reputarmi assai felice di essere gratificato. Madame de Guermantes spiegava alle persone che non lo sapevano: “È che mio marito, sapete, quando comincia con Balzac, è come con lo stereoscopio: vi dirà da dove viene ogni fotografia, il paese che rappresenta; non so come possa ricordarsi tante cose, e per di più ben diverse da Balzac; non capisco come possa star dietro contemporaneamente a cose così diverse”.

  Una parente antipatica, la Baronessa Tapes assumeva sempre, a questo punto, una espressione glaciale; aveva l’aria di non ascoltare, di essere assente e al contempo di biasimare, perché riteneva che Pauline si rendesse ridicola e mancasse di tatto dicendo questo: dato che, in effetti, Monsieur de Guermantes “stava dietro contemporaneamente” a molte avventure ben più faticose e che avrebbero dovuto attirare l’attenzione di sua moglie più che non la lettura di Balzac o il maneggio dello stereoscopio. [...].

  Qualche volta il Marchese veniva a trovare suo fratello; in questi casi “attaccavano volentieri con” Balzac, poiché era una lettura dei loro tempi; avevano letto quei libri nella biblioteca del padre, proprio quella stessa che ora si trovava in casa del Conte che l’aveva avuta in eredità. Il loro gusto per Balzac aveva conservato, nella sua ingenuità primaria, le preferente delle letture di allora: prima che Balzac divenisse un grande scrittore e come tale sottomesso alle variazioni del gusto letterario. Quando qualcuno nominava Balzac, il Conte, se la persona era a lui “persona grata” citava alcuni titoli, e non erano quelli dei romanzi di Balzac che noi ammiriamo di più. Diceva: “Ah! Balzac! Balzac! Ce ne vorrebbe di tempo! Le bal de Sceaux per esempio! Avete letto Le bal de Sceaux? È delizioso!” È vero che diceva la stessa cosa di Le Lys dans la vallée: “Madame de Mortsauf! Non avete letto tutto ciò, voi altri; eh! Charles (interpellando suo fratello). Madame de Mortsauf, Le lys dans la vallée, che delizia!” Parlava anche di Le Contrat de Mariage che chiamava con il suo primo titolo “La Fleur de Pois” e anche di La maison du chat-qui-pelote. [...].

  Inoltre Blanche de Mortsauf e ecc. .., usavano, per rivolgersi a voi, dei caratteri di una chiarezza così persuasiva (il solo sforzo che bisognava fare per seguirli era di girare quelle pagine che il tempo aveva reso trasparenti e dorate, ma che conservavano la morbidezza di una mussola) che era impossibile credere che il narratore non fosse lo stesso e che ci fosse una parentela molto più stretta tra Eugénie Grandet e un romanzo di Balzac da un franco. Tuttavia se Monsieur de Guermantes trovava “deliziose”, cioè in realtà distensive e non vere. “che lo distraevano dalla vita”, le storie di René Longueville o di Félix de Vandenesse, per contrasto apprezzava spesso in Balzac l’esattezza dell’osservazione: “la vita degli avvocati, i loro studi sono proprio così; ho avuto a che fare con quella gente; sono veramente così: César Birotteau e Les Employés!"

  Una persona che non era del suo parere, e che ti cito perché fa parte di un altro tipo di lettore di Balzac, era la Marchesa de Villeparisis. Ella negava l’esattezza dei suoi ritratti: “Questo signore ci dice: ora farò parlare un avvocato. Mai nessun avvocato ha parlato così” Ma soprattutto, quello che lei non poteva ammettere, era che avesse avuto la pretesa di dipingere il gran mondo: “Prima di tutto non c’era mai stato, nessuno lo riceveva, cosa poteva saperne? Verso la fine, aveva conosciuto Madame de Castries, ma là non poteva vedere granché, lei era una da poco. Lo vidi una volta a casa sua quando ero appena sposata, era un uomo molto comune, che non ha detto che cose insignificanti e non volli che me lo presentassero. Non so bene come, verso la fine, aveva trovato modo di sposare una polacca di buona famiglia mezza imparentata con i nostri cugini Czartoryski. Tutta la famiglia ne fu desolata e vi assicuro che quando qualcuno gliene parla non ne sono fieri. Del resto la cosa è finita molto male. Lui morì quasi subito”.

  E, abbassando gli occhi sul suo lavoro a maglia, brontolava: “Ho anche sentito dire delle brutte cose su questa storia. Dite sul serio che avrebbe dovuto essere dell’Académie? (come si dice del Jockey). Prima di tutto non aveva un ‘bagaglio’ sufficiente. Sainte-Beuve lui si (sic), che era un uomo affascinante, fine, di gradevole compagnia; sapeva perfettamente stare al suo posto e lo si vedeva solo quando si voleva. Ben diverso da Balzac. E poi era andato a Champlätreux; lui almeno ne avrebbe potuto raccontare di cose sulla buona società. Ma se ne guardava bene, perché era un uomo di mondo. Del resto questo Balzac, era un malvagio. Non ci sono buoni sentimenti in quello che scrive, non ci sono mai persone buone. È sempre sgradevole da leggere, non vede altro che il lato peggiore delle cose.

  Sempre il male. Persino se descrive un povero curato, bisogna che sia disgraziato, che tutti ce l’abbiano con lui”. “Ma Zia”, — diceva il Conte davanti ad un uditorio entusiasta di assistere ad una tenzone così interessante e che si dava di gomito per indicarsi la Marchesa che ‘andava su di giri’ — “non potete negare che il curato di Tours al quale fate allusione sia ben dipinto. Questa vita di provincia, è più o meno così!” “Ma proprio per questo”, — diceva la Marchesa con quello che era uno dei suoi ragionamenti favoriti nonché metodo di giudizio universale che applicava a tutte le produzioni letterarie — “in che modo può interessarmi veder riprodotte delle cose che conosco bene quanto lui. Mi dicono: è ben questa la vita di provincia. Certamente: ma la conosco, ci ho vissuto; e allora che interesse può avere tutto ciò?” E così, fiera di questo ragionamento al quale teneva molto — tanto che un sorriso d’orgoglio le brillava negli occhi che volgeva verso le persone presenti – e per calmare le acque, aggiungeva: “Voi forse mi troverete ben sciocca, ma confesso che quando leggo un libro, ho la debolezza di desiderare che mi insegni qualcosa”. C’era di che raccontare per due mesi, perfino fra le cugine più lontane della Contessa, che quel giorno, dai Guermantes, quel che era avvenuto non poteva essere più interessante.

  Perché, per uno scrittore, quando legge un libro, l’esattezza dell’osservazione sociale, il partito preso del pessimismo o dell’ottimismo, sono dati di fatto che egli non discute, dei quali non si accorge neppure. Ma per i lettori intelligenti il fatto che tutto questo sia ‘falso’ o ‘triste’ è come un difetto personale dello scrittore, che essi sono stupiti e anche affascinati di ritrovare, anche se a volte in modo esagerato, in tutti i suoi libri; come se non avesse potuto emendarsene; e che finisce per conferirgli, ai loro occhi, il carattere antipatico di una persona senza criterio o che induce a pensieri suoi e che è preferibile non frequentare; tanto che ogni volta che il libraio presenta loro un Balzac o un Eloit, rispondono, respingendolo: “Oh! No, è sempre falso, o tetro; l’ultimo ancor più che tutti gli altri, non ne voglio più”.

  Quanto alla Contessa, quando il Conte diceva: “Ah! Balzac! Balzac! Ce ne vorrebbe di tempo, avete letto La Duchesse de Mers?”, ella diceva: “A me non piace Balzac, lo trovo esagerato”. [...].

  La persona della famiglia sulla quale Balzac ebbe più influenza fu il Marchese ...

 

 

  Elisabetta Rasy, Nota, in L’altra amante, Milano, Garzanti Editore, 1990, p. 99.


  Questo racconto è nato dalla lettura di una novella di Honoré de Balzac, La fausse maîtresse. Non è stato pensato, però, come una riscrittura in chiave contemporanea, ma piuttosto come una trascrizione, nel senso che questo termine ha in campo musicale: l’adattamento di una musica, nel corso del tempo, a uno strumento o a un complesso di strumenti diversi da quelli per cui fu scritta.

  Mi hanno spinto a questo lavoro di appropriazione due motivi in particolare. Il primo: il desiderio di trovare un equivalente, nell’ambito della scrittura, di quegli esercizi che ogni musicista fa quotidianamente sul suo strumento, come necessari esercizi di sopravvivenza, esercizi di respirazione, quasi, piuttosto che di ispirazione. L’altro, è più importante: un desiderio di riparazione. Nel racconto di Balzac il posto occupato dalla «fausse maîtresse» — la «falsa amante» che dà il titolo al racconto e rappresenta il cuore dell’intrigo — è un posto vuoto, come se questa figura di donna marginale e irregolare non fosse che un buco nero, o un puro espediente narrativo. A spingermi a riscrivere questa storia in un modo che ne tenesse diversamente conto è stata dunque anche una mia personale pietas di lettrice, e, in fondo, un senso di solidarietà.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Per amore di un dandy, «L’Europeo», Roma, Anno XLVI, N. 9, 3 marzo 1990, p. 112.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Qui gatta ci cova, «Il Messaggero di Roma», Roma, Anno 112, N. 272, 5 ottobre 1990, p. 16.

 

  [...]. Per ritrovare una protagonista a quattro zampe bisognava attendere Balzac, con le Pene d’amore di una gatta inglese, superbamente illustrate da Grandville. La languida e golosa Beauty era puntualmente abbigliata all’ultima moda di metà Ottocento. Un’ipocrita educazione l’aveva costretta a nascondere le sue emozioni sotto il candido pelo. Il romantico incontro con il vispo, galante Brisquet veniva purtroppo interrotto dalla morte per avvelenamento dello spregiudicato felino francese.

  Il mistero di una domesticità sempre pronta a schiudersi sulla ferocia, la sapiente recitazione di un affetto costantemente sul punto di svanire, la sostanziale inafferrabilità di una presenza quotidiana, erano i principali motivi del fascino esercitato dal gatto sui letterati del XIX secolo.

 

 

  Edoardo Scarfoglio, Il libro di Don Chisciotte, a cura di Carlo A. Madrignani, note di Antonio Resta, Napoli, Liguori Editore, 1990 («Otto-Novecento ritrovato», 5).

 

  Cfr. 1885.

 

 

  Enzo Siciliano, Trame del cuore. Torma Elisabetta Rasy con un racconto lungo. Lui, lei, l’altra. Triangolo forse quadrato, seguendo Balzac, «Corriere della sera-Cultura», Milano, 18 novembre 1990, p. 5.

 

  [...]. L’altra amante ha esumato la vicenda de La fausse maîtresse di Balzac, l’ha trascinata al mondo di oggi, in una città imprecisata che soffre come tutte le città di una congestione urbana non comune. Vita politica, vita finanziaria la travagliano. Al centro della vicenda, un terzetto: due uomini, legati fra loro da antica amicizia, da una devozione, in uno di loro, trasformatasi in apparente sudditanza. Poi, una donna: la sposa giovane di colui che, fra i due, è il più ricco ma il più fragile. Quindi, l’amore: una passione segreta, cancellata, che il suddito devoto nutre per la moglie dell’amico. Ancora, un’altra donna, la donna dello schermo, «l’altra amante», e che Elisabetta Rasy plasma in colei che rende a verità questo intreccio di passioni, o nel tramite di una sublimazione che investe tutti e quattro i personaggi.

  In Balzac, la donna dello schermo rappresentava la marginalità: un’acrobata, una misera ballerinetta nella quale si intravedeva una «fille de joie» alla Maupassant. Balzac aveva a cuore svelarci, alla conclusione del suo meraviglioso racconto, con uno di quei colpi magistrali di cui solo lui è capace, l’ombra densa, ambigua che può avvolgere il rapporto di due amici. Come filasse una lama di luce da una porta socchiusa: con un’occhiata riuscivamo a intravedere in una stanza le tracce di un rapporto tessuto di oblique complicità, di ebbrezze e patti chiusi nel silenzio. E’ il Balzac che ha disegnato Vautrin quello che appare gigante nella Fausse maîtresse. [...].

  Devo confessare di non essere convinto del crescente metafisico perfezionamento delle storie, dei romanzi. In Balzac leggo anzitutto il desiderio di mettere a nudo le trame negre dentro cui, magari senza saperlo, ci avvolgiamo e ci danniamo. In Elisabetta Rasy leggo la tentazione di ricondurre tutta quella negritudine alla bellezza dell’anima. Ma cosa è la bellezza dell’anima?

 

 

  Pierpaolo Sorentino, “Adieu” de Balzac, essai de traduction et commentaire linguistique. Tesi di laurea. Relatore: prof. Rino Cortiana, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1990.

 

 

  Sandra Sudiro, Sur la peinture dans “La Maison du chat qui pelote” de Balzac. Tesi di laurea, Feltre, I.U.L.M., Anno accademico 1989-1990.

 

 

  Lucia Tatini, Les romans de jeunesse de Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: prof.ssa Alessandra Pecchioli Temperani, Firenze, Università degli Studi, Facoltà di Magistero, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, 1990.

 

 

  Peter W. Waeting, Realismo letterario in Francia, in Realismo letterario in Italia, Francia e Germania, Ravenna, Mario Lapucci Edizioni del Girasole, 1990, pp. 71-94.

 

 

  Cinzia Zavagno, Autour du “Livre Mystique”: influences swedenborgiennes chez Balzac. Tesi di laurea, Feltre, I.U.L.M., Anno accademico 1989-1990.

 

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Le ore della sera. Walter Pagliaro propone: «Mercadet l’affarista» di H. de Balzac, Radiodue, 4 dicembre 1990.



Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento