martedì 2 giugno 2020



1954

 

 

 


Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, in AA.VV., Festa d’amore. Le più belle lettere d’amore di tutti i tempi e di tutti i paesi. A cura di Carlo Betocchi. Con 32 tavole fuori testo, Firenze, Vallecchi, 1954, pp. 436-440.

 

  È fornita la traduzione (parziale) di un corpus di sette lettere inviate da Balzac a M.me Hanska il 2 marzo 1844, il 15 febbraio 1845, il 21 dicembre 1845, il 28, il 29, il 30 e il 31 luglio 1846. La raccolta è preceduta da una breve nota introduttiva che qui trascriviamo integralmente:

 

  Il 14 marzo 1850 Balzac sposava nella chiesa di Santa Barbara di Berditchef, in Ucraina, la Contessa Èva nata Rzevuska di nobile famiglia tradizionalmente di sangue reale, vedova del conte Hanska (sic), che lo scrittore aveva conosciuto nel 1833 ed alla quale è dedicata una gran parte del suo epistolario.

  L’agio, la ricchezza, la gloria goduta nel mondo restarono per il Balzac un sogno dietro il quale straziò tutti i suoi giorni di immensa febbre creatrice; così anche l’amore per la contessa Hanska non fu che un lungo intenso desiderio al quale sacrificò molto, e nel quale era compresa anche la sua enorme sete di una posizione sociale stabile, riconosciuta, privilegiata nel mondo. Fu per Balzac un amore concreto, eppure nessun altro amore lascia come questo tanta tristezza, tanta coscienza della fatuità delle umane speranze, quando anche siano le più oneste e giustificate. Un amore che si concretò in un lungo, faticoso metter su casa, e che fosse una casa splendida: in fondo non cera che la morte abbandonata dello scrittore, quasi appena tornato a Parigi, il 20 (sic) Agosto 1850.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il cugino Pons. Traduzione di Ugo Dèttore Milano Rizzoli Editore, (maggio) 1954 («Biblioteca Universale Rizzoli» 720- 722), pp. 295.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 570.

 

  La struttura del testo di questa traduzione presenta una suddivisione in 31 capitoli secondo il modello dell’edizione pre-originale del romanzo. Dal punto di vista formale, il testo di riferimento della presente versione italiana di Le Cousin Pons (nel complesso corretta) è quello dell’edizione definitiva Furne del 1848.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo. Traduzione di Margherita Galante Garrone, Torino, SAS Editrice, 1954 («La Duecentocinquanta SAS», n. 30), pp. 191.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 570.

 

  Il testo è suddiviso in sei capitoli (più la Conclusione) secondo il modello dell’edizione originale Béchet del 1833-34.

  Siamo di fronte ad una traduzione fortemente mutilata, e non priva di errori formali, del romanzo di Balzac.

 

 

  O. Balzac, Eugenia Grandet di O. Balzac, Milano, Giachini editore, (marzo) 1954 («I romanzi della Fenice. Il meglio della letteratura d’ogni Paese», 18), pp. 188.

 

  La trascrizione della traduzione dell’epilogo del romanzo è sufficiente per far comprendere la scarsa qualità di questa nuova versione italiana di Eugénie Grandet:

 

 pp. 1198-1199. [cfr. Balzac, Eugénie Grandet, a cura di Nicole Mozet, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléaide’, 1976, t. III).

 

  «Il n’y a que toi qui m’aimes», disait-elle à Nanon.

  La main de cette femme panse les plaies secrètes de toutes les familles. Eugénie marche au ciel accompagnée d’un cortège de bienfaits. La grandeur de son âme amoindrit les petitesses de son éducation et les coutumes de sa vie première. Telle est l’histoire de cette femme, qui n’est pas du monde au milieu du monde; qui, faite pour être magnifiquement épouse et mère, n’a ni mari, ni enfants, ni famille. Depuis quelques jours, il est question d’un nouveau mariage pour elle. Les gens de Saumur s’occupent d’elle et de monsieur le marquis de Froidfond dont la famille commence à cerner la riche veuve comme jadis avaient fait les Cruchot. Nanon et Cornoiller sont, dit-on, dans les intérêts du marquis, mais rien n’est plus faux. Ni la grande Nanon, ni Cornoiller n’ont assez d’esprit pour comprendre les corruptions du monde. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 188. – Soltanto tu mi vuoi bene – soleva dire a Nanotta.

  La mano di quella donna versava il suo balsamo sulle piaghe segrete di tutte le famiglie. Ed ella si avviava verso il cielo, accompagnata da un corteo d’opere buone. La grandezza della sua anima faceva dimenticare la grettezza della sua educazione e le meschine abitudini della sua vita primitiva.

  Tale è la storia d’Eugenia Grandet, che passò sulla terra senz’essere creatura di questo mondo, e che, nata per essere sposa e madre esemplare, non ebbe marito né figli, né famiglia.

 

 

  Honoré de Balzac, Un losco affare, Torino, Editrice SAS, 1954 («La Duecentocinquanta SAS», n. 41), pp. 189.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 570.

 

  Traduzione assai poco aderente e fedele al modello francese, come dimostrato dall’estratto che trascriviamo desunto dall’incipit del romanzo:

 

  p. 501 [cfr. Balzac, Une ténébreuse affaire, a cura di Suzanne-J. Bérard, in La Comédie humaine … cit., 1977, t. VIII].

 

Les chagrins de la police.

 

  L’automne de l’année 1803 fut un des plus beaux de la première période de ce siècle que nous nommons l’Empire. En octobre, quelques pluies avaient rafraîchi les prés, les arbres étaient encore verts et feuillés au milieu du mois de novembre. Aussi le peuple commençait-il à établir entre le ciel et Bonaparte, alors déclaré consul à vie, une entente à laquelle cet homme a dû l’un de ses presties; et, chose étrange! Le jour où, en 1812, le soleil lui manqua, ses prospérités cessèrent. Le quinze novembre de cette année, vers quatre heures du soir, le soleil jetait comme une poussière rouge sur les cimes centenaires de quatre rangées d’ormes d’une longue avenue seigneuriale; il faisait briller le sable et les touffes d’herbes d’un de ces immenses ronds-points qui se trouvent dans les campagnes où la terre fut jadis assez peu coûteuse pour être sacrifiée à l’ornement. L’air était si pur […]. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 7.

Le preoccupazioni della polizia.

 

  L’autunno dell’anno 1803 fu uno dei più belli del primo periodo di quel secolo che ha preso il nome di impero. In ottobre qualche pioggia aveva rinfrescato i prati, e a metà novembre gli alberi erano ancora verdi e fronzuti. Perciò il popolo cominciava a stabilire fra il cielo e Bonaparte, proprio allora nominato console a vita, un’intesa che aumentava ancora il suo prestigio; e, strano a dirsi, il giorno in cui, nel 1812, il sole gli venne meno, cessò la sua fortuna. Il 15 novembre di quell’anno, il sole gettava come un pulviscolo rosso sulle cime centenarie di quattro file d’olmi, in un lungo viale signorile. L’aria era così limpida [...].




Edizioni radiofoniche.



 Onorato De Balzac, Racconti e novelle: «Facino Cane» di Onorato De Balzac. Al microfono: Marcello Giorda, Trieste, gennaio 1954.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Nota, in Honoré de Balzac, Il cugino Pons ... cit., pp. 5-9.

 

  Honoré de Balzac, il padre del romanzo realistico, nacque a Tours il 20 maggio 1799. Fu dapprima avvocato, poi aiuto di notaio e finalmente socio di un editore; ma in nessuna di queste attività, che pure dovevano fornirgli spunti e ritratti per la sua opera letteraria, si ritrovò, in nessuna raggiunse il minimo successo: e quanto alle imprese editoriali, non gli procurarono che disinganni e debiti, per pagare i quali – oltre che per dare sfogo a un’irresistibile vocazione, a un’irrefrenabile piena creativa – cominciò, a partire dal 1829, a scrivere.

  Né riuscì la letteratura a dargli calma e riposo: temperamento a cui la natura stessa negava ogni specie di tranquillità, e ossessionato, inoltre, dal bisogno di denaro richiesto dalle sue molte altre imprese sbagliate o disgraziate nonché da un irreprimibile gusto per lo spreco, egli continuò a scrivere, in un’ansia senza pause e senza precedenti, quindici ore al giorno, «terminando le sue opere come in un’ebbrezza della fantasia alimentata da innumerevoli caffè. Lo stampatore veniva a ritirare le pagine manoscritte l’una dopo l’altra, ed egli correggeva le bozze, apportandovi interminabili aggiunte col medesimo ardore, esasperando i tipografi. Era fiero della sua eccezionale potenza di creazione e di lavoro: si considerava il “Napoleone della letteratura”», e finì per ammazzarsi letteralmente di fatica. Aveva, infatti, da poco sposato la contessa Hanska, sua vecchia amica, quando il 18 agosto 1850, a Parigi, cadde fulminato da un attacco apoplettico.

  Cinquantun anni di vita: ventuno di ininterrotta febbre letteraria, durante i quali pubblicò duemila pagine all’anno, novantasei romanzi che, suddivisi in differenti serie, chiamò complessivamente Commedia umana. [...].

  Il cugino Pons (nell’originale Le cousin Pons) è il secondo dei due romanzi riuniti dal Balzac sotto il titolo I parenti poveri e di cui La cugina Betta – già apparso in questa medesima collana (B.U.R. nn. 646-650) – costituisce il primo. Come si è appunto ricordato nella nota introduttiva alla Cugina Betta – alla quale si rinvia per ogni altra notizia intorno a codesti due romanzi e al particolare clima nel quale nacquero entrambi – I parenti poveri sono a loro volta una piccola parte delle Scene della vita parigina, le quali, infine, rappresentano solo una delle sei raccolte in cui si suddivide la Commedia umana. E ogni opera, tuttavia, del gigantesco mosaico, ha una propria compiuta unità.

  Al pari del primo romanzo, Il cugino Pons – una delle opere più vive e avvincenti del Balzac – fu scritto nell’estate del 1846, quattro anni prima della morte dello scrittore, in un periodo di ancora più acceso fervore creativo, che ne avrebbe però fiaccato la tempra già duramente provata da un’operosità immane e senza respiro.

  Ancor più che nella Cugina Betta è qui rappresentato quel trionfo del male in cui il Balzac credeva fermamente e che costituisce uno dei motivi dominanti della sua produzione: vittoria straziante, raggiunta qui attraverso la più fredda e crudele premeditazione su due esseri di commovente candore, Pons e Schmucke, i due musicisti amici sui quali s’impernia l’azione del romanzo. E tuttavia lo spettacolo non amareggia l’autore, né lo assidera in quelle forme di apparente obbiettività con cui gli autori cercano talvolta di difendersi dall’angoscia di ciò che essi stessi vanno raffigurando. Perché nel Cugino Pons appare evidente, come forse in nessun altro romanzo del Balzac, un atteggiamento caratteristico del romanziere: per quanto moralista e critico del costume, il Balzac è infatti soprattutto un innamorato della vita in se stessa; egli osserva le vicende umane col distaccato interesse di un entomologo poeta, ne segue i modi e le leggi con la medesima rassegnata accettazione con cui il Darwin vedeva affermarsi in tutti gli aspetti della natura la legge del più forte.

  E come lui, il Balzac crede in questa legge del più forte e, in fondo, ama le sue vittorie: egli era un temperamento troppo esuberante e sanguigno per trarre sgomento dalle affermazioni della vita comunque ottenute.

  Ma il trionfo del male non ha, dinanzi ai suoi occhi, il significato metafisico e disperante di un prevalere delle forze maligne, indice di una sostanziale perversità dell’universo; esso pare esprimere, piuttosto, il fatale imporsi di quelle energie più rozze e primitive che sostengono l’esistenza. E così, con una interpretazione piuttosto schematica della morale cristiana, il Balzac vede il bene soprattutto nella rinuncia, nella capacità di ritrarsi dalla vita militante per cercare rifugio nella sfera dei propri silenzi, dei propri affetti, delle proprie contemplazioni: per lui il bene è inattivo o addirittura passivo, è fatalmente fuori dell’esistenza, e ha unicamente in se stesso ogni giustificazione e ogni premio. Il suo trionfo può avvenire solo nell’eterno: sarebbe assurdo pretendere di trovarlo nel tempo, perché il tempo è esattamente il campo in cui la vita conduce le sue battaglie, lottando furiosamente per sottrarsi all’eterno.

  Nel Cugino Pons questa etica balzacchiana è impostata nel modo più diretto e felice: e ne consegue la particolare unità del libro e un suo crescendo di intensità che culmina, nel concludersi della vicenda, con alcune delle migliori pagine dell’intera Commedia umana.

  Questo romanzo fu originalmente pubblicato a puntate, in appendice al giornale «Constitutionnel» di Parigi, dal 18 marzo al 10 maggio 1847. Esso fu presentato ai lettori dalla seguente Avvertenza dell’Autore, nella cui scanzonata ironia è più di una traccia delle amarezze che accompagnarono tutta la vita il Balzac e resero più dura ed eroica la sua sterminata fatica:

  «Nel suo piano originale, la Storia dei parenti poveri avrebbe dovuto aver inizio con l’opera intitolata I due musicisti, senonché, alcuni motivi, che sarebbe superfluo spiegare e che riguardano unicamente la tecnica letteraria, inducono invece l’autore a pubblicar quest’opera per ultima.

  «Non sembrava, infatti, che La cugina Betta dovesse assumere quegli sviluppi – eccessivi, forse, e dovuti alla particolare natura del soggetto – che hanno trasformato una semplice novella in quasi un libro. Walter Scott, con la sua fine bonomia, ha per primo confessato che, nell’iniziare un'opera, s’indirizzava, sì, verso lo svolgimento di un determinato piano; ma che poi, in fase di esecuzione, un qualche personaggio o un qualsiasi incidente lo costringeva assai sovente ad abbandonarlo. Vi sono soggetti che diventano cattivi soggetti, come ve ne sono di miseri che hanno la forza di elevarsi: nella vita dei romanzi non avviene diversamente dalla vita reale.

  «Queste osservazioni paion tanto rassomigliare all’annuncio di un impresario, il quale esca ad avvertire il pubblico come la compagnia – non desiderando rinviare lo spettacolo – faccia appello a tutta l'indulgenza delle poltrone, per una raucedine provocata dallo sciampagna d’un banchetto di artisti, che l’autore si vede obbligato a confessare che esse sono state scritte unicamente per giustificare presso gli abbonati del “Constitutionnel” il cambiamento del titolo: da I due musicisti in Il cugino Pons.

  «L’abbonato non è un lettore qualunque; egli non ha quella libertà per la quale la stampa si è battuta: è questo, d’altra parte, ciò che, appunto, lo rende tale. L’abbonato, il quale subisce i nostri libri, ha dodici ragioni a venti soldi l’una, entro la periferia (e ne ha quindici nel dipartimento e venti all’estero), di esigere, per l’intera durata di un trimestre, cinquanta franchi di spirito, cento di interesse drammatico e sette franchi di stile, nell’“appendice”.

  «E gli scrittori, da parte loro, hanno imitato gli abbonati. Tutti coloro che pubblicano opere “in appendice” hanno abdicato a qualunque libertà di forma: essi debbono assoggettarsi a tali sforzi da assomigliare, ahimè!, in questi ultimi tempi, a quel celebri tenori, del quali condividono la transitorietà degli emolumenti e della gloria.

  «Ora, nell’interesse di codesto avvenire trimestrale, ci è parso necessario rendere quanto più possibile evidente l’antagonismo fra le due parti della Storia dei parenti poveri, intitolandone la seconda Il cugino Pons. È stato questo, più di ogni altro, il vero motivo determinante; anche se, com’è probabile, esso sembrerà inaccettabile, agli “spiriti forti”».

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Betta”, Traduzione di Ugo Dettore. Milano, Rizzoli, 1953, 16°, pp. 468, L. 300, «Letture per tutti. Bollettino bibliografico mensile a cura del Centro del Libro Popolare», Roma, Anno VII, N. 2, Febbraio 1954.

 

  «La cugina Betta» è il primo dei due romanzi (lo altro è «Il cugino Pons») che Balzac riunì sotto il titolo di «I parenti poveri» ed inserì in quelle «Scene della vita parigina» che sono, come è noto, una delle sei raccolte che compongono la trama grandiosa della sua «Commedia Umana».

  E’ la storia di una «parente povera» che per vendicarsi delle umiliazioni subite lavora in maniera diabolica per far crollare i cugini nobili e ricchi, spingendo il barone Hulot, capo della famiglia, (siamo a Parigi, al tempo della monarchia di Luigi Filippo) a disonorarsi per la bella e corrotta moglie di un suo dipendente.

  Scritta nel 1846, solo quattro anni prima della morte del grande scrittore (1799-1850) «La cousine Bette» rivela in pieno, nonostante l’inverosimiglianza romanzesca di alcuni episodi, la geniale capacità d’osservazione della società del suo tempo e l’insuperabile potenza narrativa del «padre del romanzo moderno».

 

 

  George Sand. Incontro con Chopin, «Stampa Sera», Torino, Anno VIII, N. 85, 10-11 Aprile 1954, p. 8.

 

  Nel febbraio 1938 Sand riceve, a Nohant, la visita di Balzac: «Ho trovato la compagna George Sand — scrive Balzac alla signora Hanska — nella sua veste da camera, mentre, dopo il pranzo, si fumava un sigaro accanto al suo caminetto ... Eccola in una profonda solitudine. Ella condanna nello stesso tempo il matrimonio e l’amore perché tanto nell’uno quanto nell’altro non ha trovato che delusioni ... Balzac resterà tre giorni dalla Sand che, parlando di Liszt e di Maria d’Agoult, gli darà il soggetto per i «Galeotti dell’amore».

 

 

  Irrimediabilmente donna, «Corriere d’informazione», Milano, Anno X, N. 280, 25-26 novembre 1954, p. 5.

 

  Balzac fu uno dei pochi uomini ad essere giusto con le donne. Egli scrisse: «L’Amore ha la sua arte d’amare, che noi chiamiamo civetteria, parola affascinante che non esiste che in Francia, dove questa scienza è nata».

 

 

  Albert Béguin, Balzac e la fine di Satana, in AA.VV., Satana. Traduzione di Carlo Cumano e Giovanni Barra, Milano, Società editrice “Vita e Pensiero”, 1954, pp. 359-368.

 

  Ci sarebbe da meravigliarsi se Balzac non avesse mai evocato la figura di Satana. Tutto lo portava ad affrontare il tema: le sue letture di opere occultistiche; la sua permeabilità alle mode letterarie, che gli fece riprendere, ma per approfondirli, tutti i temi della sua epoca; e soprattutto la natura delle sue inquietudini più intime. Non invano e non senza una necessità interiore Balzac, più ancora che una psicologia e una sociologia, costruì con tutta la sua opera una vera mitologia dell’uomo. Il personaggio di Balzac non è chiuso su se stesso, e nemmeno è ridotto alle sue coordinate sociali; da ogni parte è aperto a influenze, a richiami, a forze soprannaturali o che tendono a diventar tali per effetto d’una singolare retorica dell’immaginazione. Queste forze, quando hanno un nome, lo hanno con la maiuscola, che fa di loro delle persone attive, combattenti di una lotta scatenata attorno a ogni anima, a ogni destino. Si chiamano Denaro, Potere, Passione; esse formano delle coppie di avversari: Materia e Spirito, Energia e Consumo, Inferno e Paradiso. Attorno all’essere vivente esse sono la promessa della Felicità o la minaccia della Sventura; sono l’immensa congiura del destino, e per causa loro la nostra breve esistenza si apre sugli spazi senza limiti delle origini misteriose, delle trasmissioni ataviche, dei prolungamenti verso l’avvenire e verso le generazioni future.

  Tuttavia, nell’universo di Balzac Dio non è invocato esplicitamente nè di solito Satana si manifesta, e la polarità che lo domina non sembra essere quella del Bene e del Male. Si indovina che sono in conflitto degli slanci e dei torpori, che all’ascensione verso lo spirito si oppone tenacemente l’attrazione verso il basso. Ma queste tendenze contrarie non ricevono qualificazione morale, e sembra che il combattimento spirituale sia condotto nella materialità piena della carne; il desiderio che, sotto mille forme, fa lievitare il pesante impasto terrestre e cerca le soddisfazioni temporali, è lo stesso desiderio che fa sorgere in noi la brama delle gioie immateriali della conoscenza. Quell’assetato di assoluto che fu Balzac era giunto, non senza subire l’influenza degli occultisti, e pensare che ogni vita, del corpo come dello spirito era nata da un’unica Energia, ma era alimentata da antagonismi fecondi, da conflitti generatori di movimento. Non basta: le massime di Louis Lambert affermano la continuità e la connaturalità dello slancio vitale e dello sforzo spirituale; gli episodi amorosi dell’opera di Balzac vengono tutti a supporre che l’esaltazione dei sensi si trasfiguri da sè, senza l’intervento di alcun altro elemento, e porti gli uomini di carne alla soglia della purezza angelica. Louis Lambert giunge ad alterare il senso del passo: Et Verbum caro factum est, e ad annunciare che un futuro, nuovo vangelo dirà: E la carne si farà Verbo e diventerà la Parola di Dio. E non si legge in Séraphita che la terra è il vivaio del cielo? E Madame de Mortsang (sic) in Le Lys dans la vallée non dichiara forse che noi dobbiamo passare attraverso un crogiuolo rosso (il rosso è la passione terrestre, carnale) prima di arrivare, santi e perfetti, alle sfere superne?

  Eppure, questo angelismo balzachiano che ha trovato la sua espressione più compiuta nel personaggio di Serafita — angelo nato dai perfetti amori di due creature di carne — ha cozzato contro limiti che fu forza riconoscere. L’epilogo di Séraphita è la constatazione di un’inevitabile sconfitta; la trasformazione dell’uomo terrestre in un essere di luce è impossibile o tutt’al più riservata a rari eletti. L’umanità si trova risospinta alle catene del tempo, confinata nei limiti dell’imperfezione. Con la coscienza della sofferenza, che Balzac ha il coraggio di non rifiutare quando nel corso dell’opera la sua esperienza ve lo riconduce, egli riscopre il tragico. E questo tragico prende naturalmente il carattere di un’angoscia legata ai concetti abituali dello scrittore; il pensiero che non cesserà di assillarlo è quello dell’inevitabile logoramento dell’energia, della vita che divora se stessa, il pensiero espresso in Peau de Chagrin. La legge comune vuole che l’uomo, sottomesso alla legge del tempo divoratore, esaurisca le sue forze man mano che le usa nel tentativo di vincere il tempo. E questa norma vale tanto per lo spirituale avido di verità — come Baldassarre Claës de La recherche de l’Absolu, come il pittore Frenhofer in Chef-d’oeuvre inconnu — quanto per l’ambizioso in cerca di potenza e di denaro: Rubempré, Rastignac, Grandet, Nucingen.

  Per quale crepa potrà Satana infiltrarsi in questo universo di Balzac, in cui il dualismo del bene e del male è stato messo da parte così accuratamente, che il grande malfattore, purché abbia fantasia, appare la più mirabile delle creature al pari degli spiriti superiori?

  In un mondo uscito dalle tradizioni cristiane, come il mondo romantico, il diavolo ha preso mille volti diversi, adattando il suo personaggio alle preferenze e alle idiosincrasie di ciascuno. I poeti di allora, che sognarono tutti più o meno un universo riconciliato, un’armonia cosmica ristabilita, e quindi una «fine di Satana», la immaginarono ciascuno a modo suo e secondo le leggi abituali della propria visione delle cose. Verso il 1830 il diavolo di tipo corrente, personaggio letterario e teatrale, di cui ci si era preso il gusto di rabbrividire nel XVIII secolo, ha cessato di divertire i curiosi. Il diavolo bonaccione, capace tutt’al più di gabbare gli ingenui, quel diavolo che La Sage e Cazotte avevano messo in circolazione, rientra nel ripostiglio della roba smessa. Byron ha lasciato la sua impronta e Hoffmann dà vita ai suoi diavoli fantastici; e si credette al Mefistofele di Goethe, senza vedere ciò che anch’esso aveva di letterario e di artificioso. Lucifero riconquista il suo vecchio prestigio e si crede di più alla perfidia dei suoi disegni. I bei declamatori del tempo si danno volentieri l’aria di piccoli Satana, credendo forse di compiere così le ardite gesta dei grandi ribelli. Ammirano l’ostinata negazione dell’angelo esiliato; oppure, commossi dalle sofferenze del suo esilio, si fanno nei suoi riguardi filantropi, ne difendono la causa, sognano per lui l’ora del perdono divino, garanzia di un’Età aurea restituita agli uomini dopo secoli di tenebre. Epoca ambigua, che oscilla fra l’ipocrisia e la sincerità, che porta la maschera e crede di avere il viso scoperto, il romanticismo ama la sventura, esalta le vittime illustri della fatalità, confonde un po’ Lord Byron con Satana; ma nello stesso tempo vuole persuadersi che il male e la sventura saranno debellati. Satana, in questa letteratura insincera e pur pervasa da un’angoscia vera, diventa una figura simbolica, in cui si legge lo splendore del Male, ma che un giorno deve essere reintegrata in una luce meno fosca.

  Vigny nutre a lungo il progetto di un Satan pardonné, che sarà scritto molto più tardi da Victor Hugo. L’angelo decaduto de La fin de Satan assomiglia al poeta che l’inventò, porta il marchio fatale del genio: solitudine, orgoglio ferito, appello disperato verso un cielo muto. La lotta tra Dio e Satana — lotta che continua attraverso i secoli, finché dura la storia umana di cui è il vero segreto — riveste le forme abituali all’immaginazione di Hugo. Tutto il mito di questa epopea profetica è infatti costruito sul simbolismo dell’ombra e della luce. Lucifero è disceso nel regno della notte, cioè nel non-essere, dal momento che l’essere è luce. Il male non è che negazione, non ha che un’esistenza negativa. Ma Satana non è la notte totale, la fonte del male, perché, nato nei cieli, ne conserva anche dopo la caduta una certa natura luminosa. Il male assoluto è la sua figlia notturna Lilith, che vive accanto a lui nell’abisso una vita senza vita. Ed ecco come sarà possibile il perdono e la riabilitazione di Satana: l’altra sua figlia, Isis o la Libertà, formata nel momento della caduta con una penna della sua ala colpita dallo sguardo divino, non avrà che da discendere nell’abisso tenebroso. Essendo Luce, dissiperà l’ombra, e al suo arrivo Lilith non morrà, ma si rivelerà per quello che è, per un puro nulla. Allora Satana, ritrovando in sua figlia la Libertà, vedrà compiersi il suo voto di ogni giorno: il perdono di Dio.

  Il mito hughiano soddisfaceva il suo autore e gli appariva come una valida risposta al problema del Male, perché questo problema gli si proponeva nella coerenza particolare del suo mondo di immagini. Il mito di Balzac della fine di Satana non s’accorda meno con la fisica e la metafisica della Commedia umana. Nel breve racconto intitolato Melmoth reconcilié, scritto nel 1835, Balzac non ha quasi conservato nulla del personaggio ch’egli derivò dal romanzo di Maturin. Non si è limitato a trasportare l’avventura in un ambiente parigino, che è quello dei suoi romanzi; ha immaginato la distruzione del male secondo il concetto che si faceva dell’energia vitale e del suo inevitabile esaurimento.

  Tutto avviene nella Parigi della Restaurazione e nel mondo degli speculatori di Borsa. Gli uffici della banca Nucingen, il teatro del Gymnase, l’appartamento di una cortigiana servono di cornice agli ultimi anni della vita di Satana. La stranezza degli avvenimenti è tanto più impressionante in quanto essi si svolgono nella vita di ogni giorno, fra un aristocratico inglese, un ufficiale della Grande Armata diventato cassiere di banca e soggiogato dalla vita dissoluta, una donnina insolente, malefica e generosa, alcuni sensali più o meno loschi. In questa società moderna, che ha rinnegato la morale dell’onore, tutto è sottomesso al malefico potere del Denaro, e il diavolo non dovrà faticare per trovarvi il suo agente pervertitore.

  In cerca di anime da comperare, Satana ha fatto cadere la scelta sull’inglese Melmoth. Gli ha conferito poteri soprannaturali che fanno di questa figura rigida, vestita di nero, dal viso impassibile e dagli occhi penetranti come pugnali, il vero detentore patentato del male sulla terra. I suoi poteri non sono indeterminati, ma scelti secondo l’ottica balzachiana. John Melmoth posside (sic) la facoltà dell’azione infallibile, il dono anche più temibile della conoscenza integrale. Senza forse confessarselo, Balzac, con questa scelta tra i benefici del patto satanico, tradisce certe ansietà che la sua opera lascia spesso apparire. Anche l’usuraio Gobseck, grazie all’oro che è una delle materializzazioni del Male, gode di una specie di possesso che esercita sugli altri, e di una chiaroveggenza diabolica, grazie alla quale legge nelle anime e ne carpisce i segreti. Chi non vede che questa conoscenza è affine alla «seconda vista» che Balzac attribuisce al romanziere, e che temeva sempre lo portasse alla pazzia?

  L’alchimista de La ricerca dell’Assoluto, gli artisti di Gambara, di Massimilla Doni, de Il Capolavoro sconosciuto, sono tutti vittime della medesima passione di conoscere, che li mette ai confini della scienza universale, ma che finisce per rivelarsi come una maledizione distruttrice della vita, che rovina la persona e provoca la tragedia.

  Melmoth non può ignorare questa crudele ambivalenza del suo potere, e Satana ha previsto che egli non ne avrebbe sopportato a lungo il peso opprimente. Perciò gli ha concesso per soprammercato il permesso di rivendere il suo privilegio a chiunque l’acquistasse a prezzo della sua eterna salvezza. L’uomo sedotto è dunque a sua volta diventato simile al Seduttore. Se si stanca della parte di diavolo, troverà facilmente un successore, poiché, leggendo nelle anime, ne scoprirà sempre una pronta a soccombere.

  Fin qui, insomma, eccetto lo scenario dell’epoca, tutto è tradizionale nel racconto, e Balzac, pur insistendo in modo significativo sul dono della conoscenza demoniaca, si ispira alle storie dei patti con Satana, che sono numerose e convenzionali nella letteratura popolare in cui i romantici andarono a cercarle. Le particolarità tipicamente balzachiane del racconto non si incontrano che dopo: nella descrizione dei poteri satanici e della loro grave deficienza; nei mezzi ai quali ricorrerà la grazia per salvare il primo successore di Melmoth; infine e soprattutto nello scioglimento, che si basa sulla bizzarra idea del logorio del male per opera del tempo, della sua progressiva svalutazione.

  Melmoth, dunque, sorprende il cassiere Castanier nel momento in cui commette un falso per portarsi via la bella Aquilina, e lo costringe ad accettare il patto. Le pagine in cui Balzac descrive l’esperienza interiore del cassiere, improvvisamente dotato di sovrumana lucidità, sono scritte in quello stile esaltato e tuttavia preciso che tradisce sempre nella Commedia umana l’ebbrezza della scoperta e il rapimento della mente. Quando Balzac si lascia trascinare così, si può essere sicuri che si tratta di qualche argomento vicino alle sue intime preferenze o ai suoi segreti timori. Lo stato di scienza assoluta in cui si trova d’un tratto Castanier, il cui pensiero abbraccia il mondo «da un’altezza prodigiosa», è qui come l’evocazione ipostasiata dei pericolosi privilegi concessi agli uomini di genio, ai grandi artisti: a Balzac stesso. Da Satana Castanier ha ricevuto i mezzi di soddisfare tutti i suoi desideri, ma il dono vero, quello che conta, è l’onniscienza che lo colloca in qualche modo al di là del tempo e dello spazio: Eritis sicut dei ...

  Forse Balzac non ha immaginato questi momenti di estasi maledetta senza ricordarsi del Faust, che Nerval aveva tradotto in francese alcuni anni prima. Ma c’è in questo episodio una nota personale che non può ingannare e che si fa ancora più percettibile poi, quando Castanier dovrà presto assaporare l’amarezza dell’inganno. Dotato di questa potenza illimitata che Balzac sognò sempre di possedere, e che Luigi Lambert pensava di potere metodicamente ottenere, il poveretto si avvede ben presto di aver fatto un affare da sempliciotto. Possiede il godimento e il sapere, ma ha rinunciato in cambio all’amore e alla preghiera. «Fu uno stato orribile ... Sentì dentro di sè qualcosa di immenso che la terra non soddisfaceva più». La peggiore sofferenza è quella di avere ormai un’intelligenza acuta di ogni cosa e un desiderio che nulla soddisferà più. Conoscendo tutto ciò che è dato conoscere, «corre ansando dietro all’ignoto»; e ricorrendo all’immagine in lui sempre significativa dell’angelo, Balzac scrive: «Passava la giornata a stendere le ali, a volere attraversare le sfere luminose di cui aveva un’intuizione netta e disperata».

  Un’intuizione netta e disperata del mistero universale: tale è, una volta colto, il frutto dell’Albero della scienza! Castanier scopre ora che si è isolato dagli altri esseri umani, e che ha dato un «deplorevole addio alla sua condizione di uomo» senza cessare tuttavia di essere una creatura temporale. E sprofonda «in quella orribile melanconia della suprema potenza alla quale Satana e Dio non rimediano che con un’attività il cui segreto appartiene soltanto a loro». La sua disgrazia è di essere onnipotente senza che alcun oggetto gli appaia degno che egli eserciti su di lui la sua onnipotenza, e senza che un discernimento divino o demoniaco gliene insegni l’uso possibile. Nel mondo balzacchiano, infatti, non c’è soddisfazione se non nell’atto. Castanier non potrebbe ottenere la forza creatrice di Dio e neppure l’odio, che procura a Satana le gioie della distruzione; queste gioie non esistono che per un essere che le sa eterne, mentre Castanier «si sente diavolo, ma diavolo “in fieri”», diavolo ancora incompleto. Creatura di mezzo — non angelo e non bestia, ma uomo — indifferente a tutto ciò che potrebbe possedere, egli è più che mai tormentato dal desiderio di qualche cosa al di là del suo possesso.

  Tutta questa analisi ha il suo pieno valore soltanto se riferita ai grandi temi del pensiero di Balzac: l’idea fissa della conoscenza ambivalente; il mito della creatività e dell’azione, il gusto appassionato dell’infinito, lancinante come potè esserlo quello di Baudelaire e che accompagna in sordina il ricordo straziante di una deficienza inesorabile, inerente per sempre alla condizione umana.

  Ma, con un procedimento tipicamente balzachiano, si inserirà qui la speranza della salvezza. L’insoddisfazione di quel personaggio faustiano che è Castanier riaprirà nel suo inferno la fessura attraverso alla quale si infiltrerà la grazia. Tutto ciò che è terrestre gli sembrerà piccino e risibile, e poiché il desiderio dell’immensità fuggente si è radicato in lui, egli non può più pensare che a ciò che gli sfugge. Per avere rinunciato all’eternità dei beati, non può più staccarne il pensiero. «Non poteva più pensare che al Cielo», dice Balzac, un po’ come se il desiderio maledetto della potenza, deludendolo, avesse scavato in lui un vuoto che solo la presenza di Dio poteva colmare.

  In preda a questi tormenti, Castanier corre da Melmoth, e lì viene a sapere che il suo predecessore in dannazione ha fatto il giorno prima una morte edificante; può poi assistere ai funerali nella chiesa di San Sulpizio. La musica allora interviene, come spesso accade in Balzac, soprattutto la musica liturgica. Castanier, che nell’ora della sua colpa aveva già colto, un attimo, l’armonia degli angeli nel cielo, ma vi aveva opposto la sua sordità di creatura caparbia, è sconvolto dagli accenni del Dies irae. Rozzo, ingenuo, è tuttavia ancor più accessibile a questo canto e capace di accogliere per mezzo di esso i messaggi della grazia. L’istinto è a ciò più portato dell’intelligenza e Castanier, illuminato da una vera rivelazione, riprendendo coscienza della sua piccolezza di creatura mortale, accoglie la verità. Balzac commenta in modo molto singolare questa brusca conversione. Il cassiere, dice, si era immerso nell’infinito del male e ne aveva conservato la sete dell’infinito del bene. La sua potenza infernale gli aveva rivelato la potenza divina.

  Il commento è sbrigativo, ma si possono immaginare, nella meditazione inespressa di Balzac, dei prolungamenti che vanno lontano, superando le profonde intuizioni di Bloy, le esperienze paradossali degli eroi di Dostojevski, e la sostanza delle opere di Bernanos. Quel che Castanier intravede soltanto, è reso con un’espressione scultorea da Barbey d’Aurevilly: l’Inferno è il Cielo alla rovescia.

  Non è ancora la fine di Satana. L’uomo, che era stato l’agente del diavolo è liberato, ma deve ancora scaricare su di un altro il fardello maledetto. La conclusione di Melmoth riconciliato è precipitata, visibilmente abborracciata, ma avviene con un colpo di scena che non è senza motivo. Castanier vende i suoi poteri a un banchiere rovinato, che non li conserva che un attimo e li cede con perdita, come un valore in ribasso. Successivamente il dono del Maligno passa da una mano all’altra, per un prezzo sempre più basso, per finire nella stessa sera a un imbianchino che non ne conosce la natura, poi a uno scrivano innamorato. E costui, ultimo detentore, ne usa la forza che ancora è rimasta in un’orgia per cui muore, senza aver potuto scegliere un nuovo acquirente.

  Così il male si è svalutato come una moneta, logorato dall’uso come un vecchio scudo, svanito come per una perdita progressiva di energia. C’è qualcosa di comico in questo epilogo, che finisce per rendere risibile la onnipotenza di Satana, svuotata, indebolita, consumata. Quella che era stata conoscenza sovrana si riduce al rango di mediocre strumento di voluttà fisica. L’onniscienza non è più altro che un modo di godere, gli ultimi ad usarne non ne conoscono più l’origine.

  Senza dubbio una versione così originale della fine di Satana, che muore per autoconsunzione, sollevava dei problemi. A volerla rendere troppo coerente, si andrebbe incontro a delle difficoltà di logica. Balzac non era tipo da trovarsi imbarazzato per così poco. La creazione del mito lo appassionava, metteva in moto il suo cervello inventivo, gli dava la sensazione di penetrare nell’interno del mistero che lo angosciava. Ma anche quest’energia che sosteneva il suo entusiasmo era sottomessa alla legge del consumo. Lo slancio, la vertigine della prima ispirazione, così sensibili sotto l’ironia del racconto di Melmoth, verso la fine si esauriscono. Balzac se la cava con disinvoltura terminando il racconto con qualche gioco di parole di gusto discutibile e con l’intervento grottesco di un dotto tedesco, demonologo di prima forza, che viene canzonato da scrivani burloni.

  Si può trovare che questo epilogo è di cattivo gusto, o, se si conoscono meglio le ansietà che torturavano il pensiero di Balzac, si può credere che questo scoppio finale di risa copra un grido di paura. Balzac è l’uomo che disse queste parole rivelatrici: La morte è certa; dimentichiamola. Il problema del male e il problema dei limiti della conoscenza non erano, per lui, l’oggetto di una interrogazione meno tormentosa che la certezza della morte. A fissarvi troppo la mente, egli temeva di oltrepassare, come Luigi Lambert, la frontiera che separa la visione ragionevole dall’allucinazione demente. E allora ne ride, ma è un riso inquieto e molto inquietante.

  Satana non riappare di persona nell’opera posteriore di Balzac. Vi delega però degli emissari, la maggior parte dei quali porta, più o meno distinta, la sua effigie. Il più ragguardevole di tutti, creato quasi a immagine dell’Angelo nero, è Vautrin. Non ci si trova più qui nell’ambito del racconto fantastico, ma in quella realtà sociale di cui si dice che Balzac fu l’osservatore, attento a riprodurla fedelmente. Vautrin, al centro di questo mondo delle Illusions perdues e di Splendeurs et Misères des Courtisanes, non è che un bandito e un poliziotto, che usa mezzi poco onesti ina umani per concedersi le gioie del potere occulto. Fa regnare il terrore, perché tiene le fila di mille intrighi reali e se ne serve per esercitare il ricatto, per attuare le sue minacce ed eliminare i suoi nemici. Terrorizza e insieme seduce, dominando gli uni con la paura, gli altri con l’inspiegabile fascino al quale li sottomette. Non senza ragione è immischiato negli affari di Gobseck, l’usuraio il cui oro è strumento di potere e di conoscenza, come lo è per Satana e per i cercatori della pietra filosofale. E Vautrin cambia nome, cambia viso e apparenza, ricominciando a sedurre sotto una «incarnazione» nuova coloro che diffidavano di quella precedente. È l’impostore che inganna tutti, che si chiama Trompe-la-Mort, ma senza tuttavia che si sappia se gabba i suoi protetti per guidarli verso la felicità, o verso ciò che egli crede felicità ed è voluttà di potenza portata ai suoi limiti estremi. Davanti ad ogni altra forma di vita, ad ogni altro desiderio, ad ogni passione diversa dalla sua, egli ha il riso spaventoso di Mefistofele che spia gli amori di Faust e Margherita.

  Di questo demiurgo, che per tanti elementi è una delle figurazioni mitiche di Balzac stesso in seno alla sua opera, si parla in termini che ben si addirebbero a Satana. La sua passione per Luciano di Rubempré è un desiderio di possesso, l’irresistibile desiderio di entrare in un’anima, di determinarne il destino, e di farne un altro se stesso. È molto più di un caso di volgare omosessualità. Come faceva osservare Thibaudet, la Commedia umana potrebbe chiamarsi l’Imitazione di Dio Padre, e il mito della paternità vi occupa il centro assoluto, dalla paternità dolorosa di Goriot a quella mostruosa di Vautrin, con nel fondo sempre Balzac, padre dei suoi personaggi, esaltato dalla sua fecondità paterna, e che presta a tutti loro come prima rassomiglianza col genitore, una fecondità carnale, immaginativa o spirituale.

  Ma, nell’opera intera, l’imitazione non sarebbe di Satana più che di Dio Padre? Certo, Balzac non volle così, e se dà la sua simpatia ai grandi ribelli del suo universo romanzesco, non giunge ad accordarla all’Angelo della Ribellione. Non sarebbe agevole immaginarlo nell’atto di scrivere le Litanies de Satan baudelairiane. Ce lo immaginiamo invece bene, lo vediamo anzi mentre si interroga sulla sua opera e ne intravede il carattere maledetto. Rifare il mondo di Dio, creare un’umanità rivale della sua, far vivere i personaggi, figli dell’immaginazione, non è forse imitare il Creatore nell’opera sua, ma imitarlo non nel senso dell’imitazione mistica e devota, bensì pericolosamente, come fa soltanto Satana, la «scimmia di Dio»? Se lo spavento perseguitò Balzac nelle notti che passava a «strappare delle parole al silenzio», non era forse lo spavento di chi ha messo il fuoco sotto la caldaia dello stregone inesperto e ha mescolato nella storta gli ingredienti da cui sortirà l’homunculus faustiano? Vien fatto di pensare all’angoscia di Achim d’Arnim, che passava le giornate «nella solitudine della poesia», e s’appassionava alla storia del golem, la creatura che si ribella all’uomo che ebbe la temerarietà di darle la vita.

  Qui non ce più la fine di Satana, ma solo la sconfitta di Vautrin-Balzac; l’esaurimento dell’energia rimane la legge irrevocabile e qui v’è il romanziere che esaurisce le sue forze e morrà per aver gettato nell’opera tutta la sua sostanza viva. Rovinato per avere avuto l’ambizione della conoscenza assoluta.

 

 

  Carlo Bernari, Balzac inventore dei preti operai, «Milano-sera», Milano, Anno X, 12 maggio 1954, p. 3.


  Sulla questione dei preti operai non mi pare si sia reso stato omaggio reso il dovuto omaggio al vero inventore di tale istituzione, che – guarda caso – non è un politico né un prete-politico, ma semplicemente un romanziere; e di quelli, per giunta, che si pettinano il codino la mattina dopo una notte rivoluzionaria trascorsa in compagnia con gli scarmigliati personaggi partoriti dalla propria fantasia. Parlo di Balzac; che, infatti, nel Rovescio della storia contemporanea immagina una fratria dove alcune vittime dell’Impero nel felice regno di Luigi Filippo, sono votate ad una missione comune: la beneficenza. LIniziato (tale è il titolo del 2.o epis. del romanzo, e cito da una pregevole trad. della Ortiz, curata per una scelta della Commedia Umana in tre voll., presso l’ed. Casini) dopo tre mesi di convivenza in quella specie di convento è preso anche lui dal desiderio di partecipare alle opere di beneficenza cui si erano dedicati i suoi compagni: «Un giorno dunque, dopo aver scrutato il suo cuore ... e consultato le sue forze, Goffredo salì dal buon vecchio Alano:

  «Ebbene!, questo momento ha deciso della mia vita e sento in me il fervore! — tonò Goffredo. — Anch’io voglio passare la vita facendo il bene ...

  E’ il segreto di restare in Dio — replicò il buon uomo. Avete studiata la nostra divisa: Transire benefaciendo? Transire vuol dire andar di là da questo mondo lasciando lunga striscia di opere di bene ... Dunque, figlio mio ... ci lasceremo ... Sì, anch’io sono distaccato dal convento per prendere posto al centro di un vulcano. Devo diventare capofficina in una grande fabbrica i cui operai sono tutti infetti di dottrine comuniste, che sognano la distruzione sociale, l’uccisione dei padroni senza sapere che sarebbe la morte dell’industria, del commercio, delle fabbriche ...

  Ci resterò, chi sa?, forse un anno ... penetrare in cento o centoventi famiglie di povera gente traviata senza dubbio dalla miseria, prima che dai cattivi libri ... Se m’incontrate altrove fate come se non mi conosceste ... Quale che sia la sua credenza, o le sue opinioni, un infelice è prima di tutto un infelice; e noi (attenzione!) non dobbiamo fargli rivolgere la faccia verso la nostra santa madre chiesa, non dopo averlo salvato dalla disperazione e dalla fame.

  In che anno fu scritto il romanzo? L’Autore, forse per un mostrarsi al lettore influenzato dalle vicende del 1848, in una si affretta ad avvertire: «Gli avvenimenti attuali ci obbligano a far osservare che quest’opera fu cominciata nel 1840 e che la parte che si pubblica oggi, (cioè la 2.a, dalla quale ho citato il brano del frate operaio) scritta in Russia, presso Berditcheff, l’anno scorso (1841) è stata riletta da noi solo ieri 30 luglio (1848) ...». E, a rincarare, soggiunge: «Le circostanze non entrano per nulla in quella frase profetica ...» quella cioè riportata più avanti.

  Fra «l’anno scorso 1841» — che indica il Balzac intento a scrivere la sua avvertenza l’anno successivo al ‘41, cioè nel ‘42 – e la frase «solo ieri 30 luglio 1848 – che farebbe supporre il Balzac intento a rileggersi la sua opera l’indomani del 30 luglio, ossia il 31 luglio 1848 (si badi, dunque dopo il massacro di giugno) ci corre la bellezza di sei anni! Ma lasciamo alla Ortiz, a Trompeo, a Cajumi, a Macchia, a Bo, agli specialisti di letteratura francese. di sbrogliarci la matassa di queste date, e teniamoci all’arco di tempo più lungo, fra il ‘40 e il ‘48, a quegli otto anni, cioè che l’A. fece trascorrere tra la composizione e la pubblicazione delle due parti del romanzo, per collocarvi dentro un elenco di eventi di quelli che possono contribuire a formare il clima di un’epoca. [...].

  «La rivoluzione di febbraio — scriverà Saint Beuve (sic) con malcelata soddisfazione — fu un colpo non indifferente per Balzac. L’intero edificio della civiltà raffinata, come egli sempre la sognò, sembrava precipitare; da un momento all’altro, e al pari della Francia stava per mancargli l’Europa, la sua Europa». E il Tocqueville, in Una rivoluzione fallita, dopo aver rappresentata in Parigi la crescente concentrazione industriale e quindi operaia, osserva: «La rivoluzione di febbraio sembrava esser fatta esclusivamente al di fuori della borghesia e contro di essa». All’indomani «solo il popolo portava armi e stava a guardia dei luoghi pubblici ... Era una cosa straordinaria e terribile vedere nelle sole mani di quelli che non possedevano nulla tutta quell’immensa città piena di tante ricchezze». [...].

  E’ mai possibile che Balzac tutto questo non sentisse e non vedesse? Lui, che come racconta Baudelaire, osservando in una mostra un paesaggio, che rappresentava una capanna sperduta fra le nevi, non seppe dire altro: che faranno là dentro? Avranno avuto un buon raccolto? Certamente avranno delle scadenze da pagare! E’ ben ammissibile quindi che, nell’invenzione dei frati-operai Balzac osasse una sintesi fra la sua paura di codino e la sua audacia di scrittore rivoluzionario, Due anni dopo, esattamente il 19 (sic) agosto del ‘50 (L’Iniziato reca la data agosto 1848) Balzac moriva. Saint Beuve poteva tirare un sospiro di sollievo perché finalmente «codesta letteratura ha ormai chiuso bottega e fatto il suo tempo ... E’ venuta l’ora per lei di darsi pace e riposo ... codesta letteratura così attiva, divorante e incendiaria ...»; mentre Victor Hugo nell'elogio funebre pronunciato al Père-Lachaise diceva che Balzac superava Beaumarchais, per raggiungere Rabelais! ... Ma al ritorno dai funerali Surville fece osservare a M.me Balzac: «Hugo ha avuto una frase infelice». «Non l’ho udita», gemè M.me Balzac fra le lagrime. «Ha detto così: A sua insaputa, lo voglia o no, l’autore di quest’opera immensa è della razza forte degli scrittori rivoluzionari». «Se ha detto questo è una calunnia!», fece vivamente Mme Balzac. «In ogni caso è un errore, o forse ... una sciocchezza!», concluse Surville.

  E’ inutile chiedersi se avessero ragione Saint Beuve, M.me Balzac e Surville, oppure Hugo. Ancora una volta la storia ha dato ragione sia in pure in un ristretto margine di cronaca, a Balzac e a Hugo, e torto agli esteti e ai benpensanti.

 

 

  Carmine Bevilacqua, Splendori e miserie di celebri scrittori francesi. Sovraccarichi di debiti Balzac e Chateaubriand spendevano da milionari, «La Giustizia. Quotidiano politico di informazioni», Roma, Anno V, 10 Gennaio 1954, p. 3.

 

  Speculazioni finanziarie e commerciali che fallirono – Il vero guadagno dell’esperienza – Lamartine non riuscì mai a curare i proprii interessi.

 

  Per quanto relativamente vecchiotta, la storia dei debiti di Chateaubriand, di Balzac, di Lamartine e di Dumas padre presenta certi aspetti che oggi ancora è interessante rilevare. [...].

  I debiti di Balzac avevano invece un’origine molto più complicata e molto diversa dei debiti di Chateaubriand, ch’era in sostanza un uomo che non badava ai propri interessi.

  Come Lamartine, Balzac aveva avuto il torto di applicare la potenza della sua fantasia di scrittore in speculazioni essenzialmente commerciali e finanziarie. I parenti del giovine romanziere, che cercavano di allontanarlo dalla carriera delle lettere, vollero istradarlo verso l’arte tipografica (sic). Da ragazzo obbediente, egli si sottomise alla volontà dei suoi. Però, due anni dopo, dovette rinunziare all’affare, dopo aver contratto debiti per oltre centomila franchi.

  Ogni tanto, lampi di genio lo illuminavano. «Vi proverò – diceva – che sono il più grande finanziere della nostra epoca». Poi gli occorreva fare malinconicamente i suoi conti. «Ecco un uomo che ha bisogno di 8.000 franchi all’anno per vivere e di 6.000 per pagare gli interessi dei debiti, in tutto 9.000 franchi».

  Non è facile seguire Balzac nel groviglio dei suoi affari attraverso le sue fantasiose combinazioni: nuovi prestiti per pagare vecchi debiti; traffici con usurai di ogni specie che gli rubano il 9, il 10, il 12 anche il 20 per cento del suo denaro e il 50 per cento del suo tempo. Nel 1847, i suoi debiti ammontavano a 162.000 franchi. Ma Balzac continua va a fare imperturbabilmente i suoi conti: «Lavorerò giorno e notte, per sei mesi, poi, dieci ore al giorno, per 2 anni ...».

  - Uscieri e protesti abbondano in casa mia – diceva – Potrei, su questo argomento riempire tutto un grosso in-foglio ...

  E intanto si lanciava in una nuova straordinaria combinazione che, secondo lui, doveva aggiustare ogni cosa ...

  Fallite tutte le sue grandi speculazioni finanziarie, l’unico vero segreto dell’alchimista rimaneva sempre uno solo: mutare in oro l’inchiostro della sua penna.

  Aveva anche un altro segreto: un giorno trovò per caso un vecchio mobile che s’affrettò ad acquistare per 1.200 franchi. Poco dopo si scoperse che quel canterano proveniva dal mobilio di Enrico IV e di Maria de Medici, e venne stimato 60.000 franchi Da quel momento, Balzac s’interessò vivamente al commercio di antichità e si mise a comprare vecchi mobili, vecchi bronzi, vecchie tele, ad Amsterdam, a Marsiglia, a Roma, in Germania e ovunque egli correva per raggiungere la signora Hanska. Non faceva certo, cattivi affari ma investendo il suo denaro liquido in così numerosi acquisti, necessariamente non pagava più i creditori; e gli interessi dei suoi debiti aumentavano a vista d’occhio. Aveva però, almeno di che dar qualcosa in garanzia ...

  Oggi si parla tanto di bluff, di quel bluff di pretta origine americana ... Ebbene, Balzac già lo presagiva, poiché si basava sul principio di parere per essere.

  Il lusso è necessario, diceva egli. Quando un uomo lavora come me, quando il suo tempo vale da venti a cinquanta franchi all’ora, avere a propria disposizione una carrozza è un’economia; l’illuminazione a profusione, il riscaldamento e tutte le comodità gli sono indispensabili ... E, visto che a Parigi quanti fanno commercio di libri cercano solo di spogliare quelli che li scrivono, se io vivessi in una soffitta, non guadagnerei un soldo.

  L’applicazione pratica di tali principi prendeva corpo sotto forma d’un’abitazione con quattro domestici, con cavalli e vetture, con cinquemila franchi di argenteria (che faceva la spola tra il Monte di Pietà e casa sua), con mille cinquecento franchi di tappeti (che per lui rappresentava una economia di 5 franchi al mese, e di 600 franchi in dieci anni di spese di lucidatura di palchetti) e con 80.000 franchi di mobili.

  Si divertiva a recitare la parte del gran signore.

  I suoi banchetti erano reputati luculliani. Dio solo sa i sacrifici che gli costavano quei ricevimenti.

  Tutto il mio avvenire è in quel banchetto! – esclamava spesso — E bisogna ch’io trovi tremila franchi per disimpegnare l’argenteria. O trovare tale somma o perire!

  Eppure, un giorno i debiti di Balzac diventarono la favola del Parigini, i giornali si contesero il piacere di calunniarlo nel modo più odioso e giunsero fino pretendere che egli fosse in prigione per debiti. Ma Balzac si vendicò.

  Basta leggere la sua Monografia sulla stampa parigina e notare i tipi di giornalisti che vivono nei suoi romanzi.

  Nella lotta contro l’idra dei suoi debiti, il cui incubo rinasce ogni giorno, Balzac ricorse alle più complicate operazioni commerciali, industriali e agricole.

  Nel 1833 egli inventò un nuovo procedimento per la fabbricazione della carta, sistema che valeva – secondo lui – parecchi milioni. Ma, ahimè, non realizzò nulla.

  Nonostante tutte questo vicissitudini, il coraggio non lo abbandonò mai. Le sue speculazioni gli portavano via quasi tutto il tempo, egli scriveva alla diavola, sotto la spinta della necessità urgente di fornire manoscritti.

  E questa fretta si vedeva nelle bozze di stampa ch’egli doveva correggere e ricorreggere per cinque, sei, persino dieci volte. Le prime bozze gli venivano fornite gratuitamente, ma doveva naturalmente pagare le altre: il che faceva dire a Balzac:

  – Le bozze sono la mia rovina. Se dovessi correggere un milione di linee della Commedia umana a ragione di due franchi la linea, mi occorrerebbero due milioni di franchi.

  Comunque sia, Balzac non perdeva mai la sua serenità di spirito. Senza mai umiliarsi di fronte a nessuno, senza mai supplicare nè creditori nè amici, egli aveva il diritto di dire che viveva del suo lavoro.

  – Nonostante tutte le calunnie e le ingiurie ho potuto, imperturbabile, edificare la mia opera.

 

***

 

  Lamertine (sic) era, in certo qual modo, la sua consolazione ...

  La situazione di Lamertine – constatava Balzac – è peggiore della mia! [...].

  Come Balzac dovette anche egli lavorare spesso sotto colpi di sprone della necessità di produrre a qualunque costo. Ma, mentre l’opera di Balzac rimane sempre viva nella sua realtà, quella di Lamartine, scritta nelle stesse condizioni è dimenticata ai nostri giorni. [...].

 

 

  Ruggero Bonghi, Dal “Diario”, in Colloqui col Manzoni di N. Tommaseo, G. Borri, R. Borghi seguiti da Memorie manzoniane di Cristoforo Fabris, con introduzione e note di Giovanni Titta Rosa, 42 tavole fuori testo, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1954, pp. 335-336.

 

  Cfr. 1852.

 

 

  Bruno Cassinelli, Introduzione, in Enrico Ferri, I delinquenti nell’arte. Commento e note di Bruno Cassinelli, Milano, dall’Oglio editore, 1954, pp. 7-52.

 

  pp. 27-29. Balzac fu il primo a fare del romanzo, secondo la sua formula, la storia naturale dell’uomo civilizzato; Zola – meno filosofo e più microscopista – arrivò alla storia naturale e sociale di una famiglia del Secondo Impero, innestando il suo naturalismo sulla teoria scientifica del determinismo. [...].

  Tra Onorato Balzac ed Emilio Zola sta Gustavo Flaubert [...].

  Balzac stampa nelle «fronti sfuggenti», nel «volto di faine» e nelle «mascelle tozze», il conio dell’anima criminale. Per Balzac il volto umano era una volontà pietrificata; dato questo amore per la fisionomia, simpatizzava con la dottrina topografica delle facoltà cerebrali (Gall e Lavater). Affermava di ravvisare in ciascuno la fisionomia di un animale. Precorrendo la scuola italiana positiva, questo grande patologo della vita sociale si domanda: «Il delitto e la follia hanno somiglianza fra di loro?».

  Nella Fanciulla dagli occhi d’oro Balzac ha descritto l’omosessuale omicida; l’avaro sadico in Eugenia Grandet; l’ambizioso imbecille in Cesare Birotteau; il monomaniaco geniale nel Capolavoro sconosciuto. Con Papà Goriot trasportò in altro campo il shakespeariano tormento di Lear; nel Giglio nella valle rappresentò il dramma dell’amor platonico che si trasforma in una specie di ermafroditismo morale. Desplein, lo studente in medicina; Rastignac, l’ambizioso brutale e subdolo; Louis Lambert, il filosofo; Bridau, il pittore; Rubempré, il giornalista: tutti borghesi più tragici dei personaggi della tragedia, perché – ammalati nei nervi e nei pensieri – si concentrano in una sola idea, assorbendo in una sola passione tutti i succhi destinati agli altri sentimenti (Zweig).

  Nel pensiero di Vautrin ribolle l’alcool di tutte le vendemmie sanguinarie: «Non vi sono principî, ma fatti; la corruzione è una forza; l’onestà è possibile se i bisogni e i nervi la permettono». La sua formula mentale è quella del criminale: «per me uccidere è una bella partita». L’insensibilità fisica di questo Vautrin – descritto «tozzo, quadrato, con le falangi fitte di pelo rosso» – è tale che può cambiarsi i connotati del viso con reagenti chimici.

  Ben duemila personaggi – con genealogia precisa e più precisa biografia – si agitano nell’opera di Balzac. «Colombo e Ariosto di una selva di carne umana»: per la sua opera il romanzo divenne il più grande magazzino di documenti umani, da Shakespeare in poi; e con lui – meteorologo delle correnti sociali e alchimista delle passioni – comincia l’idea del romanzo quale enciclopedia del mondo interiore.

 

 

  Emilio Cecchi, La peccatrice a vuoto, «Corriere della Sera», Milano, Anno 79, 26 agosto 1954, p. 3.

 

  Nella consuetudine quotidiana. Antonio, ch’è il giovane locale della banca, s’innamora di lei. Clara è più colta d’Antonio, e più scaltrita. In fondo non ama il giovinetto. Si potrebbe giurare che non l’amerà mai. Lo stima: ma senza voler rendersi conto che, a maggior ragione, dovrebbe disilluderlo. La forza naturale del grande amore di Antonio segue altra tattica. E senza neanche saper come, Clara si trova ad essere stata posseduta: onde il matrimonio è inevitabile, anche se Balzac aveva avvertito qu’il ne faut jamais commencer un mariage par un viol.

 

 

  Emilio Cecchi, Alle origini dell’estetica marxista, «Corriere della Sera», Milano, Anno 79, N. 232, 29 settembre 1954, p. 3.

 

 Riguardo al suo fanatismo per Walter Scott e per Balzac: esso non stupirà che qualche lettore distratto. Perché è vero che lo Scott fu un banale forcaiuolo, che tutto il suo sogno politico è una assurda restaurazione feudale, e che la sua interpetrazione della Rivoluzione Francese fa ridere i polli. Ma. sia pure in una forma materiale e quasi artigianesca, lo Scott aveva anche lui ricevuto il suo dono: in una versatilità descrittiva, in una virtù coloristica, in un senso delle lontananze storiche, che nell’insieme venivano a costituire uno strumento di verità e di vivificazione del passato: cui non restarono a loro volta indifferenti il Michelet, il Thierry e lo stesso Manzoni. E certamente fu sopratutto questo elemento di verità, che fece presa sul Marx.

  Il quale non poteva non ritrovare in Balzac, ed anzi più scaltrita, la capacità descrittiva ed evocativa dello Scott: oltre ad un senso, assolutamente nuovo di quanto avessero importanza nella vita moderna il fattore denaro e il meccanismo e la tecnica degli affari. Per tutte queste ragioni, Marx figura quasi di non vedere il sostanziale reazionismo balzacchiano.

 

 

  Raffaele de Cesare, Lettura di «Eugénie Grandet», «Aevum», Milano, Anno XXVIII, n. 3, maggio-giugno 1954, pp. 239-281.

 

  Trascriviamo integralmente le pagine conclusive dello studio:

 

  pp. 279-281. Opera giovanile, valga ripeterlo, Eugénie Grandet non può dare più di quanto, per sua natura, è in grado di offrirci; e l’apposizione, così frequentemente usata per quest’opera, di capolavoro non solo appare di quelle che meno le si confanno, ma minaccia di suggerire una inesatta comprensione dello sviluppo artistico balzacchiano (che qui non ha raggiunto ancora la sua pienezza), un giudizio «per tradizione» o null’altro valido se non a confondere i termini dell’evoluzione del processo creativo del Balzac.

  Non riassumibile, con tutto ciò — quanto a valori poetici alle poche pagine indicate dal due critici citati [Gide e Croce], il nostro romanzo non può essere considerato, tuttavia, come l’opera non riuscita di cui solo un manipolo di frasi racchiuda un ben tenue valore poetico. Se anche, infatti, nessun tema risulta costantemente percorso da una vena poetica; se una giovanile incapacità di muoversi fra più temi e, particolarmente, fra un dramma di interessi ed un dramma sentimentale ha fatto sì che l’opera risulti inferiore ai propositi dello scrittore, una presenza poetica è pur sempre da scoprirsi nella rappresentazione dell’avarizia: vizio o malattia che sia. In ciò il nostro romanzo trova una sua giustificazione positiva e precisa e si riscatta in tutta una successione di momenti.

  Avviandosi a dominare tale motivo, il Balzac supera infatti nelle pagine di Eugénie Grandet il costume letterario a cui pur tanto s’era piegato della «fisiologia» dell’avaro e si inizia alla scoperta umana di esso. Si stacca dai moduli di una facile comicità perché del tipo coglie ora il dramma e, partecipandovi, scopre sia accenti di vita sommossi e cangevoli, sia la mitica abissalità del male. Non sempre, è vero; piuttosto raramente, anzi. Ma il passo compiuto in Eugénie Grandet è comunque dei più decisivi nello sviluppo letterario del Balzac: momento fondamentale che, mentre supera le posizioni dei Dangers de l’inconduite e di Maître Cornélius, preannuncia, attraverso successive mediazioni, la più efficace raffigurazione di un M. Hochon (La Rabouilleuse) o di un Rigou (Les Paysans).

  Meno vivo e, sopratutto, molto più frammentario, il motivo d’amore contribuisce tuttavia anch’esso — in parte — alle ragioni che tuttora provocano, giustificandola, la lettura di Eugénie Grandet. Se il disperdersi dell’amore innocente in un facile melodramma attenua ed illanguidisce il suo significato o se altre cause già ricordate lo mortificano in un fatto di prosa, taluni momenti da noi rilevati di una casta schermaglia d’amore, di una intensa, per quanto pura, presenza passionale acquistano un loro valore di verità psicologica e di delicata poesia. Poca cosa, è vero, in tanto sfarzo sentimentale, ma testimonianza comunque innegabile di fine vena lirica.

  E con il tema amoroso, anche la raffigurazione dello sfondo provinciale, sebbene incapace ad aprirsi ad un paesaggio interiore, presenta talora, nel ritratto di un presidente de Bonfons e in alcuni aspetti di quel mondo che in lui o in altri si riflettono, un ulteriore elemento di rilievo che si stacca vivacemente dalle quinte del romanzo.

  In quanto percorso dai momenti migliori di questi temi e immerso altresì nella suggestiva rappresentazione di un desolato fluire del tempo, il nostro romanzo trova dunque ragioni sufficienti per convalidare parte del fervore che l’ha accompagnato fin dal suo apparire e per disporsi come una tappa importante nel quadro dell’attività balzacchiana a cui cronologicamente appartiene. Ciò che invece non solo non permette, ma rende, anzi, francamente inaccettabile, è ogni valutazione che vada al di là di questi termini, sia quanto a profondità o continuità dei suoi risultati poetici, sia quanto ad una sua diversa, e tutta speciale, preminenza nel quadro dell’intera «Comédie Humaine». Giacché proprio nelle ragioni ora indicate a confortare il valore di Eugénie Grandet questa viene anche a scoprire un suo limite d’arte il quale non può essere dilatato se non ingenerando insostenibili sopravalutazioni e sconvolgendo di conseguenza ogni rapporto di misura che lega la nostra opera a tulle le altre del Balzac. Ma di tutto ciò abbiamo già lungamente detto nelle pagine precedenti e tutte le riserve che ci è sembrato necessario formulare nel corso della nostra lettura questo appunto tendevano a dimostrare e a confortare.

  Valga dunque concludere. E qui, riaffermando ancora una volta l’opportunità di una mediazione fra i due opposti atteggiamenti critici inizialmente accennati, basti arrestarci per ora su di una proposta che, per quanto ancor vaga, è la sola — ci pare — a ristabilire nei suoi termini essenziali il significato poetico della nostra opera: che cioè, se è impossibile accogliere la collocazione di Eugénie Grandet fra i capolavori dalla «Comédie Humaine» (o riconoscervi, addirittura, l’unico capolavoro) è pur sempre accettabile identificare in essa una fra le più interessanti testimonianze dell’arte del Balzac alla soglia dei primi grandi romanzi della maturità (1).

 

  (1) Su tale conclusione non è forse inutile richiamare, ora, una nostra precedente ricerca storica (Balzac ed “Eugénie Grandet”. Ricerche sulla genesi dell'opera in «Studi Urbinati», anno XXVII, I (1953), pagg. 1-60), la quale, dopo averci consentito di situare Eugénie Grandet nello sviluppo esterno della tematica balzacchiana, può ora fornirci una controprova naturalmente essai opinabile — del nostro tentativo di lettura. La così varia provenienza dei motivi destinati a sfociare nel nostro romanzo, la costruzione a mosaico che l’esame delle fonti ci ha rivelato, non sono senza rapporti, ci sembra, con il frammentarismo che Eugénie Grandet ci scopre in sede estetica e, sopratutto con le disparità poetiche ravvisabili nella tessitura del romanzo. Una costante ispirazione non ha insomma cementato sufficientemente i materiali usati e la imperfetta fusione permette di scorgere i luoghi dove il minor slancio della fantasia dello scrittore ha consentito l’affiorare, pressoché immutato, dell’antica espressione. Ripercorrendo più particolarmente le tappe del processo genetico, poi, il fatto che di tutti i temi di Eugénie Grandet solo quello dell’avaro abbia una storia più evidente, più continuata e, sopratutto, rinnovata e perfezionata di volta in volta nella scrittura, può essere collegato con il maggior risalto artistico assunto appunto da tale motivo. A contatto con un tema «sentito» (come ci è dimostrato dal suo graduale farsi nella narrativa balzacchiana dal 1830 — almeno — al 1833), l’espressione del Balzac ha avuto, pur con intermittenza, miglior gioco e più forza creatrice. Al tema d’amore, per tanta parte rifatto su precedenti esempi letterari, sciupato da un uso che, utilizzandolo, non lo arricchiva, la trasfigurazione è riuscita più difficile e meno felice. Ed è stata possibile solo quando — abbandonati certi caratteri romantici della fanciulla amante o certi fissi canoni di costume — il Balzac ha lasciato da parte ogni ripetizione della fonte scritta e si è forse rivolto verso le esperienze di una recente rivissuta autobiografia.

 

 

  Costanzo Costantini, Fra debiti e tristi amori tutta la vita del grande Balzac, «Il Messaggero di Roma. Il giornale del mattino», Roma, Anno 76, N. 257, 17 settembre 1954, p. 3; «Giornale di Trieste», Trieste, Anno VIII, N. 2451, 21 settembre 1954, p. 3.

 

  Appare veramente strano come uno dei più acuti e profondi conoscitori del cuore umano si riveli, nelle relazioni umorose personali, così ingenuo. Può bastare la vanità a spiegarci la contraddizione?

 

  La sera del 10 luglio del 1829 Victor Hugo, bramoso di cimentarsi con i grandi nomi della letteratura nazionale, aveva invitato a casa sua, in via Notre-Dame-des-Champs, amici, conoscenti e rivali per leggere loro il dramma Un duel sous Richelieu (Marion Delorme) che aveva gettato giù in ventiquattro giorni e dai quale si aspettava uno strepitoso successo.

  Non mancava quasi nessuno degli astri di prima grandezza: Saint-Beuve (sic), Dumas, de Vigny, de Musset, Mérimée, Vlllemain, ecc.: tutto il mondo teatrale e giornalistico di Parigi era presente. Appartato in un angolo, i capelli neri gettati stilla fronte ampia, serio e sostenuto, un giovane appena trentenne fremeva d’entusiasmo sotto l’incalzare delle vicende del dramma: era Onorato di Balzac.

  Appena due mesi prima il nome di quel giovane, a cui delle collaborazioni ignorate non avevano procurato nè onore nè danaro, era familiare ai creditori e nei caffè malfamati frequentati dai bohémiens delle lettere e da qualche editore fallito. L’apparizione nel marzo dello stesso anno de Le Dernier Chouan aveva operato il miracolo, e la sua presenza in quel celebre consesso ne era la dimostrazione più evidente.

  D’allora, quel giovane indebitato fino ai capelli aveva concepito delle ambizioni illimitate. Conquistare Parigi, far fremere d’entusiasmo e di commozione folle di lettori, esser celebre ed essere amato era diventata la sua unica e suprema aspirazione.

  Dissolti I mille franchi che l’editore gli aveva pagato per Le Dernier Chouan, la mancanza di danaro e i creditori erano tornati a tormentarlo. Il poeta Saint-Valry, amico di giovinezza di Victor Hugo, gli doveva 450 franchi; ma era più facile vincere al lotto che ottenere di riaverli.

  Ospite di fortuna ora di questo ora di quello, si dibatte «contro tutti i venti e le alte maree dell’equinozio, annegato nei debiti». Nei giorni della lettura del dramma in casa Hugo, egli è ospite della signora di Berny.

  Bella, intelligente, sensibile, sposata ad un uomo difficile, insofferente e scontroso, la signora di Berny è divenuta l’amante del giovane e ambizioso scrittore, il quale, dal canto suo, se ne è appassionato perdutamente. «La sua vita è tutta la mia. No, nessuno può avere un’idea di quest’affezione profonda che sostiene tutti i miei sforzi e guarisce tutte le mie piaghe». Nella signora di Mortsauf del Giglio della (sic) valle egli adombra delicatamente la dolce, buona, tenera creatura, oggetto del suo amore e della sua adorazione.

  Se non che, delicata e di salute cagionevole, la signora. di Berny è costretta ad allontanarsi dal romanziere per curarsi. Egli ne è profondamente addolorato. Sul finire dei 1835 si reca a trovarla, ma ormai tutto è inutile. Il male la mina irrimediabilmente. Il primo giorno dell’anno Balzac così scrive alla madre: «Ah, povera mamma mia, sono affranto dal dolore. La signora di Berny muore. Impossibile dubitarne. Io e Dio soltanto sappiamo qual è la mia disperazione». Dopo pochi giorni la signora muore. «La persona che ho perduto era per me più che una madre, più che un’amica, più che tutto quanto una creatura può essere per un’altra. Solo la divinità può spiegarlo».

  Tuttavia, una dedizione così profonda e illimitata non aveva impedito a Balzac di coltivare altre relazioni e altri amori.

  Nel 1831 aveva ricevuto una lettera firmata: «Una donna che non vuol farsi conoscere». L’anonima scrivente ha letto la Fisiologia del matrimonio ed ha degli appunti da fare all’autore. Vanitoso e sensibilissimo alla lusinga, Balzac intreccia con lei una corrispondenza epistolare, finchè, stanco di scrivere ad una donna che non conosce, minaccia di non scriverle più se ella non gli si svelerà. Allora ella lo invita a casa.

  Si tratta nientemeno della contessa di Castries, una donna elegante, seducente, frivola e vanitosa, che se la spassa con il giovane principe di Metternich.

  E’ soltanto per vanità che ella ha scritto al romanziere, è per vanità che lo riceve a casa sua e ne fa mostra come d’una bestia rara. Tuttavia Balzac se ne invaghisce, fa lo svenevole e l’innamorato, e poiché ella gli ha rimproverato la sua ineleganza e la sua vita modesta, si azzima ricoprendosi d’un abito azzurro con bottoni d'oro e d’uno sgargiante panciotto bianco e palleggiando una mazza dai pomo tempestato di turchesi, compare all’Opera nel palchetto infernale in mezzo ai dandies, affitta carrozze e cavalli, prende a servizio due camerieri, va ad abitare in un lussuoso appartamento che riempie di oggetti d’arte.

  Appare veramente strano come uno dei più acuti e profondi conoscitori del cuore umano e in particolare del cuore femminile, si riveli nelle relazioni amorosa personali così ingenuo e fanciullesco. E’ la vanità, si può rispondere. Ma basta la vanità a spiegarci la contraddizione?

  Quanti sacrifici gli costa questa donna! Ha abbandonato la soffitta del bohémien per vivere in un salotto mondano, lavora come «una macchina a vapore» per pagare i creditori, arriva perfino a cambiar partito per lei accostandosi al legittimismo intransigente del faubourg. In compenso lei, che di nulla si appaga, si ride di lui e gli resiste ad arte per vederselo attorno ardere di bramosia. Devono passare cinque anni perché si accorga di quale pasta è fatta la signora di Castries.

  Si direbbe che l’esperienza dovesse ammaestrarlo; ma neppure per sogno. Il 28 febbraio 1832 è la volta di un’altra misteriosa donna che si firma «La straniera». La lettera, piena di lodi per lo scrittore, non porta indirizzo. Come risponderle? Egli escogita un mezzo molto ingegnoso: in testa ad una novella della nuova edizione delle Scene della privata fa riprodurre il suggello della lettera ricevuta con queste parole. Dis (sic) ignotis, e la data: 28 febbraio 1832. Senonchè egli ha fatto i conti senza la signora de Berny, la quale, vista quella pagina, glie ne fa tali rimproveri, da indurlo ad ordinare all’editore di togliere quella dedica misteriosa.

  Le lettere continuano ad arrivargli ed in una di esse la signora gli suggerisce il mezzo per farle sapere di averle ricevute.

  Gli suggerisce di dargliene avviso con due righe da inserire fra gli annunzi della Quotidienne e da firmare: A. l’E. - H. de B. Dettò fatto: Balzac fa pubblicare sul foglio indicato: «Il signore di Balzac ha ricevuto l’invio che gli fu fatto; oggi soltanto ha potuto darne avviso per mezzo di questo giornale, e si duole di non sapere dove potrebbe dirigere la risposta. A. l’E. - H. de B.». Finalmente ella gli indica il mezzo di farle pervenire una lettera, e, dopo diciotto mesi di corrispondenza epistolare, gli scrive che, se vuole vederla, può recarsi a Neuchâtel.

  Si tratta della russa Evelina Rzewuska, sposata al conte di Hanska (sic), ricchissimo, di venticinque anni più vecchio di lei, terribilmente geloso della moglie. Balzac se ne innamora di un amore così intenso e profondo che durerà per tutta la vita. Metà dell’epistolario è dedicato a lei per migliaia e migliaia di pagine. Non si arresta dinnanzi a nessun sacrificio e a nessuna rinunzia, anche se lei è fredda, indifferente con lui. «Ho mandato tutto a spasso: la Commedia umana, e i Contadini, e la Presse, e il pubblico, e Chlendowski, i miei affari, e un volumetto che farò per istrada, e il mio contratto col Siècle, e tutto». «Io vi amo come si ama tatto ciò che ci oltrepassa, vi amo come si ama Dio». Vuole sposarla ad ogni costo, e se ella si rifiuta, si ucciderà: ha già preso due volte l’hascisc: tornerà a prenderne fino a morirne. Tuttavia ella resiste e fa passare cinque ansi dalla morte del marito. Il romanziere è stanco, infermo, condannato senza rimedio: sua estrema e suprema speranza è sposare Evelina. Mossa forse a pietà, forse per non privarlo dell’ultima gioia che la vita può offrirgli, ella acconsente. Ma è una felicità ingannevole ed effimera. Cinque mesi dopo Balzac muore. La donna che egli ha adorato non lo ha mai amato e lo lascia solo negli istanti supremi. Victor Hugo, che preoccupato per le voci che corrono sulla salute del grande confratello, si è recato a trovarlo, si sente dire dalla cameriera: «E’ perduto. La signora e rientrata nelle sue stanze» Al capezzale dell’agonizzante c’era soltanto un infermiere, un servo e una vecchia: sua madre.

 

 

  Costanzo Costantini, Debiti e donne non diedero tregua a Balzac, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno ottavo, Numero 232, 29 Settembre 1954, p. 3.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Ernst Robert Curtius, Balzac oggi, «Inventario», Anno VI, n. 3-6, Maggio- Dicembre 1954, pp. 75-90.

 

  Nel 1950 ricorse il primo centenario della morte di Balzac ed i miei pensieri riandarono indietro d’una generazione. Nell’estate del 1918, dopo essere tornato ferito dalla guerra feci una conferenza su Balzac. Cinque anni dopo comparve il mio libro su Balzac, che a quel tempo in Germania fu definito un’«interpretazione». Io intendevo rivelare l’opera di Balzac in tutta la sua profondità e la sua grandezza. Ero convinto che fino ad allora Balzac fosse stato trattato ingiustamente dagli storici della letteratura e non fosse stato apprezzato nel suo giusto valore. Balzac fu già abbastanza sfortunato da riuscire sgradito non solo a Sainte-Beuve ma anche alla cosiddetta critique universitarie, vale a dire ai professori che scrivono la storia della letteratura. Se si deve credere a loro, Balzac sciupò i suoi romanzi con un pretenzioso didatticismo, la sua psicologia lasciava molto a desiderare, mancava di finezza, non aveva senso di moderazione né gusto, era di natura assolutamente privo di sentimento: era un genio robusto e volgare. La cosa peggiore, essi dicevano, consisteva nel fatto di non possedere stile, e questo risultava da tutta una serie di errori e di crudezze; ma dopo aver detto questo contro di lui, essi erano pronti a essere generosi ed a riconoscerne i meriti.

  Giudicavo offensiva l’ingiustizia e la cecità di questi giudizi. Ero influenzato dall’impareggiabile grandezza di Balzac: mi sembrava che le sue opere rappresentassero un mondo del quale si doveva sondare l’intima struttura. Mi pareva che ci fosse un problema da risolvere, e pensavo di averne trovato la soluzione in un’esperienza visionaria della quale, a ritroso, si poteva seguire la traccia fino all’infanzia di Balzac. Egli ebbe una rivelazione che lo trasportò in paradiso e il senso d’un rapporto che tutto pervade nell’universo vibrò in lui. Sentì in se stesso un potere sconosciuto e tuttavia indistinto. Balzac, come si sa, scrisse due romanzi filosofici — Louis Lambert e La Peau de Chagrin — i cui protagonisti preparano in una mansarda di Parigi una tesi sulla Volontà: una Théorie de la Volonté. I critici di solito la considerano fra le astruse chimere che deformano l’opera di Balzac, mentre invece essa deve aver avuto un significato personalissimo e fondamentale per Balzac, perché sia Louis Lambert che Raphaël de Valentin rivelano tratti autobiografici. Ciò che essi chiamano Volontà non è di certo la capacità di volere, ma un fluidum che tutto compenetra, che può venir condensato ma che può anche svanire. È l’energia vitale. Balzac non scrisse mai la propria teoria della volontà, ma le formule che concepì sono in realtà soltanto la struttura della sua visione dell’uomo e dell’universo che doveva trovare espressione creativa. Oggi non parleremmo della «Volontà» ma della libido nel senso di Jung. Dalla Comédie Humaine di Balzac ricaviamo un’immagine d’energia psichica, infatti nel complesso di quest’opera vediamo una grandiosa rappresentazione delle variazioni e dei simboli della libido. Il talismano che Raphaël de Valentin si procura da uno strano antiquario, quella pelle di zigrino carica del magico potere di tradurre in realtà i sogni più folli del suo possessore a spese della sua stessa energia vitale, questo talismano era un simbolo poetico della libido, un simbolo fiabesco. E proprio come Jung è portato dalla sua teoria della libido ad un’analisi alchimica, nello stesso modo un romanzo su un alchimista ha il suo posto nella Comédie Humaine: La Recherche de l’Absolu. Questa teoria dell’energia mi sembrò che contenesse la parola magica necessaria a capire il reale e vero Balzac. E la sua opera mi si rivelava come un’unità sorprendente, della quale fino ad allora avevo avuto la vaga sensazione, ma che non avevo mai capito. Fu una scoperta che mi eccitò e rallegrò. Oggi, come allora sono convinto della sua verità, e posso dire che ha trovato riconoscimento generale. Ma poi le mie ricerche mi condussero in altri campi, e rimasi un lettore ammirato di Balzac, ma non uno specialista di Balzac. Se oggi cerco di dire qualcosa su Balzac, mi trovo in una strana posizione, riaffrontare Balzac significa quasi un affrontare me stesso.

  I miei primi contatti con la letteratura francese erano stati sperimentali e contraddittori. [...].

  E poi, un anno dopo [a vent’anni], feci la scoperta di Balzac e tutto cambiò. Fui preso dall’entusiasmo, mi sentii toccato da qualche magico potere. Innumerevoli lettori di ogni specie hanno provato la stessa sensazione: il mondo di Balzac attira tutti nel suo magico cerchio.

  Quando parlo di magia e d’incanto intendo qualcosa di definito. All’inizio della carriera di Balzac un critico osservò che la parola «fascino» ricorre con curiosa frequenza nelle sue opere, e questa è la parola adatta a descrivere l’effetto che Balzac ottiene sui lettori. «Fascino» in origine indicava il potere che avevano alcuni uomini di soggiogare gli animali con il loro semplice sguardo ¬ è una specie di magnetismo che emana da una persona: un fenomeno inesplicabile ma del tutto reale. E come dobbiamo interpretare questo potere? Lo stesso Balzac era magneticamente attratto da tutto ciò che poteva offrire la vita. Era colmo d’una insaziabile brama di bellezza, di godimento, di potere, di sapere, di ricchezza, di fama, d’amore, di passione. Je veux vivre avec excès, dice uno dei suoi tipici personaggi. A tutti loro trasmise la sua smodata sete di vita. Baudelaire dice che «tutti hanno l’ardente vitalità che ardeva nello stesso scrittore». Balzac visse la propria vita e la sua al ritmo della più febbrile intensità, e comunica al lettore sensibile la stessa sua febbre. Quando guardiamo il mondo con gli occhi di Balzac, la nostra coscienza di vita ne è acuita, la nostra esistenza ne è intensificata. Questo spiega il fascino che emana da lui.

  L’incommensurabile brama di Balzac include il mondo della mente quanto quello dei sensi e dello spirito. Egli tende a cogliere i frutti dell’albero della vita quanto quelli dell’albero della conoscenza. Vuole il tutto, l’assoluto, La Recherche de l’Absolu. Se cerco qualcosa che possa stargli a pari penso soltanto alle aspirazioni di Faust, ma mi guardo bene dal suggerire che Balzac sia stato influenzato da Goethe. Cerco soltanto di chiarire un elemento fondamentale della formazione mentale di Balzac cercando qualcosa che possa reggerne il confronto. [...].

  È in questo mondo faustiano che Balzac dev’essere visto, un gran genio moderno al quale la tradizione classica dell’Europa non dice nulla. Questo elemento faustiano in Balzac è proprio un altro aspetto di ciò che ho chiamato energia, volontà, libido. È la forza motrice della creazione di Balzac, la forza trasmittente della sua immaginazione, ed egli la proietta su tutta la realtà. Il desiderio diviene per lui un principio creativo. La letteratura francese dell’Ottocento dipinge la vita soprattutto a colori foschi. Dal René di Chateaubriand ha sempre preferito rappresentare l’individuo tormentato, il naufragio degli ideali, la delusione del cuore, l’uomo in contrasto con la società. [...].

  Balzac è l’unico grande francese del secolo scorso che guarda la vita positivamente, questo mondo moderno in tutta la sua enorme ricchezza, con la sua prosa e la sua poesia, con la sua realtà e la sua intellettualità. Balzac amò il suo secolo. La gigantesca struttura della Comédie Humaine doveva esser coronata da un dialogo filosofico e politico sulle meraviglie dell’Ottocento, che doveva essere preceduto da una monografia sulla virtù. Non si può immaginare quale sarebbe stato il contenuto di questi libri, perché non fu concesso a Balzac di portare a compimento la sua opera possente. Il destino gli accordò soltanto un breve spazio di cinquantun anni, e quando ricordiamo che il suo primo libro veramente maturo, Le dernier Chouan, comparve quando aveva trent’anni, ci rendiamo conto che ebbe appena un ventennio per tradurre in atto la sua vita di lavoro.

  Balzac si svolse lentamente e maturò tardi. Perse dieci anni in esperimenti di natura tecnico-letteraria che furono una serie di fallimenti. Ma quando infine trovò se stesso fiorì in opere d’una potenza e d’una ricchezza insuperate. E nell’incandescente furore di quest’attività creativa gli si chiarì di essa l’intimo significato. Nell’estate del 1833 gli balenò improvvisa alla mente l’idea di scrivere romanzi in un grande sistema, un cosmo. Questo pensiero gli venne mentr’era in preda ad uno stato d’ispirazione ed era molto esaltato. Ne fu talmente sconvolto che corse per mezza Parigi in cerca della sorella per dirle che stava per diventare un genio. Che cos’era avvenuto a Balzac? Gli era presa una specie di rilassamento della mente, aveva avuta un’ispirazione che era al tempo stesso un’integrazione. In altri termini, un’idea, che era stata presente nella mente per un certo tempo come una vaga intuizione, si era all’improvviso rivelata alla coscienza. Balzac ora vedeva che tutte le opere che già aveva composte si compenetravano l’una con l’altra come un’unità organica, erano parte di un più vasto intero. E questo intero rivelava ora una chiara e fondamentale struttura. Era un processo della mente che trovava riscontro nel mondo fisico allo stesso modo in cui si formano i cristalli ad un tratto e tutti insieme, una fulminea transizione. Balzac espresse la scoperta di quel giorno con una frase: Il ne suffit pas d’être homme; il faut être un système. Essere un sistema significa vedere la propria attività creativa come una struttura chiaramente articolata. In altre parole, non basta creare opere, si deve giungere al punto di vedere l’organico nesso fra queste, si deve giungere a conoscere se stesso attraverso la propria opera. La creazione estetica ha un aspetto istintivo e un aspetto intellettuale, che si rivelano inconsciamente, come in una pianta. L’uomo che crea sente il bisogno di esprimere qualcosa. [...].

  L’esperienza di Balzac nell’estate del 1833 fu, ho detto, una specie di esaltazione. Si vide un genio. Che cosa significa tutto ciò? Un’esperienza d’integrazione come la sua libera, per la mente conscia, un potere ed una forza fino ad allora intatti che elevano la facoltà creativa ad un alto grado di potenza. È ora capace di ordinare, di fare programmi, di dominare. Lo stesso anno 1833 Balzac scrisse: «Intendo dominare il mondo intellettuale d’Europa. Altri due anni di pazienza e di lavoro e camminerò sopra le teste di tutti quelli che cercarono di legarmi le mani e d’impedirmi il volo». E nel 1844: «Ci sono quattro uomini (nell’Ottocento) che, si può dire, abbiano vissuto appieno la loro vita: Napoleone, Cuvier, O’Connell; ed io sarò il quarto. Il primo visse la vita dell’Europa, innestò eserciti interi su di sé. Il secondo abbracciò il globo. Il terzo personificò una nazione in sé. Io darò vita ad una società intera nel mio cervello». Balzac non si paragonava alle figure della letteratura contemporanea, perché non ammetteva nessuna misura comune fra loro e se stesso. I nomi che cita sembrano lontanissimi fra loro: l’Imperatore, la cui leggenda è assurta a mitica grandezza; il grande scienziato che fondò l’anatomia comparata e la paleontologia; e infine il liberatore dell’Irlanda. Per Balzac il legame fra loro si trova nello sfogo della loro energia, nel loro carattere totalitario. Tutti comandano qualcosa di completo: interi eserciti, un’intera nazione, il globo intero. Sono individui che portano la totalità in sé. Ed è proprio questo che Balzac ha tutto il diritto di pretendere. Ci viene a mente il Nietzsche degli ultimi anni, ma la fiducia di Balzac nelle proprie forze è priva d’arroganza.

  Allo scopo di dare alla sua opera questa totalità Balzac usava l’espediente di far comparire i propri personaggi più e più volte in romanzi diversi. Cominciò a farlo nel 1834. Divise i romanzi in gruppi differenti e, infine, nel 1847 scelse come titolo per tutto l’insieme La comédie humaine, spiegando le proprie intenzioni in una prefazione. Nel 1845 Balzac elaborò un nuovo e definitivo piano stando al quale la Comédie Humaine doveva includere 137 opere, 87 delle quali erano già compiute e oltre 50 abbozzate o pronte nella trama. Nei pochi anni che gli rimasero Balzac scrisse ancora una mezza dozzina di romanzi. Una volta che ebbe viste le sue opere come un sistema di romanzi, Balzac adattò i suoi primi scritti a questo piano. I critici lo hanno rimproverato per questo, sostenendo che questa sistemazione è intenzionale e artificiosa, basata su un’illusione di unità. Marcel Proust, uno dei maggiori ammiratori moderni di Balzac, respinse queste accuse affermando che l’unità dell’opera balzachiana è più convincente appunto perché venne dopo in mente a Balzac. È un’unità vitale e non logica proprio perché egli ne fu dapprima inconsapevole, essendo le parti individuali attratte da sé nell’intero. Anche nel loro stato incompleto i romanzi di Balzac offrono un complesso quadro umano, e nella storia della letteratura europea non c’è nulla di paragonabile.

  La qualità unica di Balzac appare chiaramente quando lo si confronta con gli imitatori.

  Il più noto di questi è Zola, che voleva essere il Balzac del Secondo Impero. Il suo ciclo di romanzi, Les Rougon-Macquart, intendeva presentare la storia naturale e sociale d’una famiglia. Come Balzac, Zola si prefisse di fare il quadro di un’epoca e come in Balzac ricorrono gli stessi personaggi. Ma Zola credeva di avere un vantaggio su Balzac — il legame con la scienza moderna — vale a dire la fisiologia e la genetica del 1870. Fu un’impresa di grande ingenuità, e del pretenzioso palazzo di Zola restano oggi soltanto le rovine.

  Anche nel Novecento ci sono stati molti tentativi di creare una commedia umana del nostro tempo sotto forma d’una serie di romanzi che si svolga in molti volumi. Questi tentativi sono stati corredati di tutte le novità psicologiche e sociologiche del giorno, ma sono privi d’una cosa: dell’intangibile essenza della vita. Sono come cimiteri abitati da ombre delle quali si ricordano appena i nomi, abbandonati al loro destino. Saranno dimenticati da lungo tempo quando le opere di Balzac saranno ancora vive.

  Tutti gli imitatori di Balzac hanno copiato i suoi tratti esterni, ma non hanno afferrato gl’intimi impulsi della sua opera. Lo credono un seguace del realismo e le nostre insulse storie letterarie continuano ancora a diffondere questa opinione o almeno in parte. [...]. I nostri desideri e la loro attrazione sono per Flaubert in stato di conflitto, che si conclude in una rottura insanabile fra loro. In Balzac è vero l’opposto: egli ha un’infinita fantasia-desiderio che riesce a penetrare a fondo nella realtà e quindi ad assimilarla. [...]. Balzac d’altra parte ha un interesse appassionato alla vita, e ci comunica la sua passione, proprio come Flaubert la sua nausea. Flaubert volge le spalle alla realtà. Noi apprendiamo pochissimo della Francia contemporanea dai libri di questo realista, e ciò che apprendiamo è sfavorevole. Com’ è diverso Balzac! Una volta egli espresse lo scopo della sua arte nelle parole exprimer mon siècle, e quanto vivido ci si mostra il suo secolo!

  Sappiamo che grossa parte abbia avuto il denaro nella vita di Balzac. Anche al colmo del successo dovè spesso sfuggire ai creditori. Guadagnava molto, ma spendeva di più. Era un collezionista d’arte e amava il lusso. Ben conosceva la parte che il denaro ha nella vita per personale esperienza, e fu il primo scrittore che ne parlò. Nei romanzi di Balzac conosciamo la rendita dei personaggi. L’avaro è un’antica figura della commedia, ma Grandet è il primo del quale possiamo vedere la ricchezza prendere veramente forma sotto i nostri occhi e del quale possiamo calcolare i guadagni. In Balzac le operazioni finanziarie su piccola o su più vasta scala occupano un posto che prima di lui sembrava riservato alle grandi passioni. Le dramatis personae della Comédie Humaine comportano il sordido usuraio quanto il grande banchiere che influenza la politica internazionale. Ai tempi di Balzac industria e trasporti erano ancora ai primordi; non si era ancora vicini alle macchine, né ai procedimenti tecnici. Balzac stesso era stato tipografo, e potè descrivere il lavoro della stampa e della produzione della carta per propria esperienza. In un altro romanzo seguiamo l’ascesa d’ un fabbricante di profumi. Siamo testimoni del suo fallimento e della riconquista della ricchezza alla Borsa di Parigi. Costui muore come un martire dell’onestà negli affari, le palme del cielo son certamente sue, pensiamo. «Questa è la morte di un uomo dabbene» dice il prete al suo letto di morte. E così la carriera d’un uomo d’affari parigino diventa un dramma moderno che può gareggiare con i drammi dei martiri del Seicento.

  Ma in Balzac però possiamo anche considerare la legge, i metodi della polizia, la psicologia del criminale, l’elezione d’un deputato. Ministri e tribuni del popolo ci rivelano segreti di Stato. La prostituzione è analizzata quanto le attività delle autorità. Entriamo nei salotti degli aristocratici, ma anche nelle mansarde degli studenti, nello studio dell’artista, nell’ufficio del direttore.

  Balzac ci presenta un rapporto sociologico di Parigi. Veniamo a conoscere tutti gli aspetti della vita pubblica e al tempo stesso i segreti di Parigi. Uno dei romanzi di Balzac ha il significativo titolo L’Envers de la Histoire Contemporaine; v’incontriamo un piccolo gruppo di persone provate dal più tremendo destino e che hanno cominciato a fare della filantropia pratica. Il loro libro di preghiere è l’Imitazione di Cristo. È proprio di Balzac darci anche accurati particolari sui loro depositi in banca. I segreti, sotto qualunque forma, esercitarono una speciale attrattiva su Balzac. La Comédie Humaine è piena di gente che porta in giro segreti: artisti che non conoscono la propria origine ma la cui vita è regolata da mani invisibili. C’è poi il forzato Vautrin che ricompare di volta in volta con nomi diversi, sotto diverse spoglie, in diversi ambienti, a far la parte della Provvidenza nella vita dei giovani. Balzac ci svela società segrete nella Parigi moderna, ma anche tragedie segrete, come la storia della fanciulla dagli occhi d’oro, della quale Hofmannsthal dice: «Questa è un magnifico e indimenticabile racconto in cui la passione nasce da un segreto, in cui l’Oriente apre gli occhi assopiti nel centro dell’insonne Parigi, in cui la fantasia tiene per mano la realtà, in cui il più bel fiore dell’anima sboccia sul limitare del vizio e della morte, e in cui il presente è illuminato da una luce di tale splendore che ci sta davanti come i grandi momenti dei sogni primevi ...

  Questa è la storia di Henry de Marsay e della fanciulla dagli occhi d’oro; un racconto che comincia con una descrizione di Parigi, un immenso quadro di parole, una struttura gigantesca, una montagna erta di contro ad una pallida luce e su una oscurità d’inchiostro e che termina con un poema orientale in cui il soddisfacimento dei desideri più profondi si confonde con l’odore del sangue, e dove qualcosa che trascende i sensi sorge nell’Infinito. È un racconto il cui principio potrebbe essere di Dante, la cui conclusione potrebbe derivare dalle Mille e una notte, ma che nella sua integrità non poteva aver altra ragione che nella mano che la scrisse». «Non posso credere», conclude Hofmannsthal «che le esigenze dell’immaginazione di ognuno non trovino soddisfazione nelle opere di questro (sic) scrittore».

  Balzac non può essere costretto in nessuno dei movimenti e delle rivoluzioni letterarie dell’Ottocento. Egli non compilò mai un programma, non cercò mai di fondare una scuola. La legge fondamentale della sua opera e della sua personalità è lo sviluppo di se stesso: l’attuazione della visione entro di sé. Nulla gli fu più estraneo della frattura con il passato proclamata dai romantici, poiché le radici del suo mondo intellettuale s’affondavano nella tradizione secolare del pensiero francese. Rabelais è per lui uno dei più grandi geni, Racine è la perfezione assoluta, le favole di La Fontaine son sacri tesori d’umanità. Ma con lo stesso entusiasmo egli onora un Montesquieu, un Diderot, un Buffon. Si vede come un erede, non come un ribelle. Sente grande ammirazione per i secoli classici della civiltà francese, ma anche per la Francia delle cattedrali gotiche.

  La Comédie Humaine non è un ritratto del presente come lo è il ciclo di romanzi di Zola, l’opera di Balzac possiede anche una dimensione storica. Balzac nacque sulla soglia dell’Ottocento, nel mezzo di quel potente dramma che la Francia rappresentò agli occhi del mondo dal 1789 al 1815, e alcune delle sue opere più cattivanti contengono scene della Rivoluzione e dell’epoca napoleonica. Ma nella Comédie Humaine ci sono anche romanzi che si svolgono nel Seicento o nel Cinquecento e anche nel Quattrocento. Un racconto, Les Proscrits, va ancor più indietro e ci porta intorno ai primi anni del Trecento. Esso presenta Dante in esilio a Parigi e descrive un (sic) lezione del celebre scolastico, Sigieri di Brabante, alla Sorbona. Sappiamo che questo ritroso pensatore, condannato dai contemporanei come eretico, riceve un omaggio nel Paradiso dantesco che ancora mette in imbarazzo i commentatori. Che cosa spinse Balzac a trattare questo tema? E perché lo include fra le Etudes Philosophiques, che torreggiano sulle Etudes des Moeurs proprio come la filosofia torreggia sul mondo dei fatti? Una parte della Comédie Humaine non è mai stata popolare benché abbia sempre particolarmente attratto certe menti e Balzac stesso le attribuisce il più gran valore. È la parte che include i romanzi nei quali Balzac descrive lo stato magico e mistico della mente che appartiene alla rivelazione religiosa, citando come esempi Jakob Böhme, Swedenborg, St. Martin. Sigieri di Brabante è da lui arbitrariamente incluso tra questi mistici del Cristianesimo. Ecco credo il significato di questo racconto, o almeno uno dei significati.

  Ma il racconto significa anche di più. In Balzac tutte le cose hanno legami comuni e non è per caso che nel 1831, all’inizio della carriera, Balzac si appelli a Dante, creatore della sintesi umana medioevale e maestro della filosofia cristiana, perché in questi aspetti di Dante vede i simboli della sua stessa vocazione di romanziere. Il poeta che riunisce sia il passato che il presente, e lo spirito fiero che come pensatore proclama l’eterna forza vitale del Cristianesimo, son simboli e interpreti per Balzac, sono collaboratori. La Rivoluzione del 1830 scosse profondamente Balzac e visioni apocalittiche lo oppressero. In questo periodo scrisse la meravigliosa leggenda Jésus-Christ en Flandre, che culmina in una visione della Chiesa rinnovellata e che si chiude con le parole: «Credere significa vivere! Ho visto la morte d’una monarchia, ora dobbiamo difendere la Chiesa». La cornice storica di questo racconto ci riporta nel Quattrocento, il secolo dell’Imitazione di Cristo. Qui, come nel racconto di Dante, Balzac cerca di ristabilire il contatto con il Medioevo cattolico.

  L’interpretazione di Balzac del Cattolicesimo contiene elementi gnostici ed eterodossi che fino ad un certo punto provengono da fonti ambigue. Balzac era portato ad un Cristianesimo esoterico che non era riconosciuto dalla Chiesa e per il quale cita dubbie autorità. Ma, anche quando si fa fuorviare da Swedenborg e da St. Martin e tende a fantasie ed estasi esagerate, è sempre visibile un genuino desiderio mistico. Le forze psichiche del Cristianesimo lo avevano influenzato, ma egli credeva che una filantropia pratica fosse il rimedio ai mali del suo tempo e personificò fortemente questa opinione in romanzi come Le Curé de Village e Le Médecin de Campagne. I suoi apostolici preti sono precursori del Cattolicesimo sociale dell’Ottocento e del Novecento, mentre tutta l’attività creativa di Balzac è al servizio della riforma politica, sociale e religiosa della Francia.

  La grande rivoluzione divise la Francia in due campi spirituali che dopo 150 anni sono sempre in lotta. La storia di questo secolo e mezzo è una Kulturkampf, una guerra religiosa il cui esito è ancor oggi incerto. Per la Francia progressista e razionalistica, che al tempo di Napoleone III era all’opposizione e che giunse al potere con la Terza Repubblica, la difesa che Balzac fece dei Cattolici e dei Monarchici fu una specie d’incomprensibile oscurantismo. Il primo critico che capì la grandezza di Balzac — Taine — parlò della politica di Balzac come se parlasse d’un romanzo. Flaubert osservò con costernazione che Balzac era cattolico e legittimista e il suo laconico giudizio finale suona così: «Un immense bonhomme, mais de second ordre». [...].

  Se ci domandiamo da che parte stia Balzac nella Kulturkampf dell’Ottocento francese, non ci sono dubbi sulla risposta: appartiene all’antirivoluzione. Era logico che Paul Bourget, il rappresentante del romanzo cattolico e conservatore, dicesse nel 1900 che la teoria sociale contenuta nella Comédie Humaine era per lui la parte più importante, il coronamento dell’opera di Balzac. (La Francia a quel tempo era scossa dalla febbre del caso Dreyfus). Quando nel 1899, Tours, la città natale di Balzac, intese di celebrare il centenario della nascita del suo famoso figlio, fu proposto di raccogliere un fondo di 1000 franchi. La proposta fu respinta dal Consiglio Comunale con una schiacciante maggioranza perché, esso sostenne, l’opera di Balzac era «notoriamente clericale e reazionaria». Ma Balzac descrisse anche eroici ribelli. Descrisse la corruzione delle classi dirigenti, ed è per questo che marxisti come Engels l’hanno considerato un socialista. Uno studioso francese, che ha dedicato vent’anni all’esame delle idee politiche e sociali di Balzac, pubblicò nel 1947 il risultato delle sue ricerche in una voluminosa opera di 800 pagine (ed aveva seguito l’evoluzione balzachiana soltanto fino al 1834!). La conclusione a cui giunge costui è che in Balzac si può trovare di tutto: rivolta e realismo, tendenze liberali e reazionarie, anarchia e fascismo. Al fascismo di Balzac, Bernard Guyon, l’autore, ha appena osato accennare. Guyon ricorre a circonlocuzioni imbarazzate e dice: «Il nous semble que la pensée qui l’anime se rapproche ... de certaines idéologies modernes dont l’extraordinaire force d’expansion et puissance de succès s’est surabondamment manifesté à nos yeux au cours des dernières années». Guyon afferma che un tragico conflitto interiore, che si dice abbia tormentato il cuore di Balzac, è alla base di tutto. Questa ipotesi è, per me, in contrasto con quanto sappiamo su Balzac. Egli fu un grande assertore che visse nella felicità del creare e si paragonò a Napoleone ben conscio della propria titanica potenza creatrice. Potere, Fama, Dominio, Autorità, Legittimità: queste erano per lui le espressioni della grandezza umana e ad esse espresse la propria ammirazione. Le sue convinzioni politiche non si devono misurare con il metro della fedeltà al dogma di partito. Balzac fu pieno di entusiasmo per tutte le forme di grandezza perché era grande egli stesso.

  Grandezza: non si trova altra parola per definire la posizione di Balzac. [...].

  Balzac nella «febbre della creazione», come disse Rilke «spumeggiante d’attività creativa; nella fecondità della propria sovrabbondanza fondatore di generazioni, dispensatore di destini». Il potere creatore di Balzac può essere paragonato a quello dei grandissimi. È loro pari come artista? È evidente che non si può misurare Balzac con l’ideale artistico di Flaubert e della sua scuola, che fu l’art pour l’art. Per Flaubert il valore di un’opera dipende dalla qualità dello stile, dell’impeccabile purezza del discorso, dal ritmo delle frasi e dalla musica della prosa. Suo ideale fu creare tesori imperituri dalla materia della realtà e lo chiamò faire du réel écrit. Possiamo chiamare la lingua di Flaubert prosa d’arte allo stesso modo in cui parliamo della prosa d’arte dei Greci e dei Romani. Era una necessità interiore quella che faceva scrivere Flaubert a questo modo e questo fatto ha la sua base psicologica. Ma al tempo stesso fu un tormento del quale ogni pagina della corrispondenza flaubertiana porta testimonianza. Uno scrittore come Balzac nel quale tutto un mondo di personaggi si fa strada nella vita, non può scrivere così. [...].

  In tutto il campo della critica letteraria non conosco problema tanto interessante quanto quello del modo con il quale i giudizi cambiano e fluttuano. È un compito molto difficile il valutare uno scrittore, e quando lo si fa si devono considerare i propri sentimenti ed inoltre i segni dei tempi. Considerando Balzac da questo punto di vista, vedo che negli ultimi tre decenni il suo prestigio è sempre aumentato, poiché il tempo ne ha portato alla luce nuovi aspetti. Teniamo presente che dall’avvento di Proust l’intera fisionomia del romanzo francese è mutata, poiché la comparsa di un nuovo artista di genio getta nuova luce anche sull’arte del passato. Questo è ovvio in un senso, ma la critica letteraria ha prestato poca attenzione a questo fatto. Thibaudet, però, fece un ritratto di Balzac fin dal 1936 nel quale Balzac è visto attraverso Proust. Questo critico scoprì in Monsieur de Charlus un Vautrin migliorato, e chiamò Proust «le plus balzacien des écrivains français après Balzac», proprio come Saint-Simon è «le plus balzacien des écrivains avant Balzac». Quella di Proust è l’intelligenza più comprensiva e più ricercata che si sia mai rivelata nel romanzo francese. Si trattava di un’intelligenza che al tempo stesso era intuizione nel significato bergsoniano della parola. È pertanto doppiamente significativo che l’arte di Proust abbia un’affinità con quella di Balzac, ma non con quella di Stendhal o di Flaubert. Paul Morand osservò che soltanto attraverso Proust è stato scoperto oggi uno dei grandi romanzi di Balzac: Les (sic) illusions perdues. E chi mai leggesse il meraviglioso racconto di Morand, Parfaite de Saligny, sentirà pure che questo francese moderno si mantiene sulla stessa linea con i grandi racconti tragici di Balzac, penso a El Verdugo o a La fille aux yeux d’or. In Proust e in Morand, però, ritornano alcuni tratti di Balzac, che il democratico Ottocento e il socialista Novecento hanno considerati infelici: il suo amore per il lusso e il cosiddetto snobismo. [...].

  Si deve notare che sono sempre stati i poeti che hanno capito meglio Balzac: Baudelaire, Browning, Hofmannsthal, e tra i contemporanei, Gottfried Benn. Ciò dimostra la profondità e la grandezza dell’influenza di Balzac, e ciò rende la critica un problema se la critica vorrà aprire gli occhi su questo fatto. Questi poeti si riferiscono a Balzac come ad un’anima affine, e da ciò ci rendiamo conto che Balzac contiene un’inesauribile sostanza poetica. Possiamo inoltre, renderci conto di qualcos’altro. Questi poeti sono diversissimi l’uno dall’altro, ma tutti hanno un alto grado di ricercatezza. Possiamo dire, perciò, che Balzac riceve l’omaggio dell’élite europea, benché lo stesso Balzac parli anche alle vaste masse dei lettori. Stendhal scrisse per pochi fortunati. Per apprezzare Flaubert si deve essere iniziati a tutte le sottigliezze della forma artistica. Balzac non scrive né per gl’intellettuali né per gli esteti, eppure essi lo ammirano. Egli cerca e trova i suoi lettori in tutte le classi e in tutte le nazioni. È forse l’unico scrittore dell’Ottocento che getti un ponte sull’abisso fra l’élite e il popolo. Anche questo pure è un segno di grandezza. Come francese Balzac aveva in se stesso tutte dell’umanità; per questo potè diventare patrimonio di tutta l’umanità.

  Fino alla fine dell’Ottocento, e dopo, la grandezza di Balzac fu discussa, ma oggi, un secolo dopo la sua morte, essa si manifesta con forza sempre crescente e crescerà da un secolo all’altro.

 

 

  Titta Del Valle, Sigieri di Brabante e Balzac, in AA.VV., Centenario del Liceo Dante di Firenze, Firenze, Vallecchi, 1954, pp. 115-130.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., pp. 567-568.

 

  pp. 116 e sgg. Per tutto il quindicennio gravido di tempeste subacquee che corse dalla Restaurazione alla rivoluzione di luglio, i professori universitari si servivano per lo più di un metodo d’insegnamento che a noi può sembrare strano ed era invece perfettamente intonato al clima incerto dei tempi. Dall’alto di una cattedra, a quei giovani turbolenti che avevano fatto i primi passi durante l’êra napoleonica, si ammannivano sciroppi inzuccherati fino alla nausea da un’enfasi oratoria die sembrava fine a se stessa. Ma intorno a codesti metodi d’insegnamento è meglio stare a sentire che cosa ci dice Balzac.

  «Appena giunto mi sono recato ad ascoltare un vecchio accademico il quale andava dicendo a cinquecento giovanotti che Corneille è un genio vigoroso e fiero mentre Racine è tenero ed elegiaco; che Molière è inimitabile, Voltaire straordinariamente spiritoso, Bossuet e Pascal disperatamente forti. Un professore di filosofia diventa illustre spiegando in che modo Platone è Platone. Un altro fa la storia delle parole senza pensare alle idee. Questo qui vi spiega Eschilo e quest’altro vi dimostra alquanto vittoriosamente che i comuni erano i comuni e non altra cosa. Tali modi di vedere luminosi e nuovi, parafrasati per qualche ora, costituiscono l’alto insegnamento che dovrebbe farci fare passi da giganti nell’ambito delle umane conoscenze»[1].

  Eppure, proprio da una Sorbona addomesticata e lisciata sotto il regno di Carlo X doveva uscire per opera di Villemain nell’anno 1830 una specie di pacifica rivoluzione che sembra precedere di qualche mese le barricate di luglio. [...].

  Durante il primo periodo della Restaurazione era sembrato al giovane Balzac che le ondate della tempesta romantica si fossero arrestate davanti alle mura della Sorbona; che i due mondi della cultura ufficiale e della letteratura militante fossero impenetrabili l’uno all’altro. [...].

  Balzac nella sua novella preferisce trasformare Dante in un uomo di età avanzata; la folla da lui descritta è accorsa per ascoltare Sigieri, ma immaginosamente arricchite ed ampliate troviamo nei Proscritti quasi le stesse parole della lezione di Villemain.

  «La sala era piena non soltanto di scolari ma anche di uomini fra i più ragguardevoli del clero della corte e dell’ordine giudiziario». L’assemblea aveva riconosciuto nello Straniero venuto per assistere alla lezione di Sigieri «l’eroe di un’ammirevole tesi già sostenuta in Sorbona». Quest’eroe — Dante Alighieri nominato un po’ teatralmente soltanto alla fine della novella — è raffigurato con quel viso cotto e abbronzato che già aveva fatto meravigliare le femminette di Verona e che ora insospettisce il sergente della città di Parigi, Tirechair[2].

  Nelle lezioni di Villemain ci sorprendono per la loro originalità alcuni giudizi divenuti assai comuni più tardi sul rapporto fra la grande individualità di Dante e la coscienza popolare del Medio Evo; vi si trova anche il tema del poeta-vate che medita sui misteri dell’oltretomba senza distogliere l’animo né lo sguardo dalla sua diletta Firenze; tema che sarà ampiamente sviluppato nella 3a parte della novella balzachiana. Quanto al motivo di Dante poeta della natura, esso ispira al Villemain una delle sue pagine più belle ed è da Balzac inserito e diluito notevolmente in un esaltato colloquio dello Straniero con il giovane proscritto brabantino Goffredo. Si tratta di uno squarcio lirico dove si fondono romanticamente «l’ora che volge il disio» «le lucciole giù per la vallea» e «il bel fiume d’Arno». Qui è anche il caso di vedere una diretta meditazione di Balzac su alcuni fra i passi più celebri della Commedia.

  Sebbene Villemain taccia quasi di proposito sui rapporti di Dante con quell’immenso lavorio di pensiero che ebbe il suo culmine a Parigi nella seconda metà del secolo XIII, né lui né Balzac commettono l’errore, comune prima di Ozanam agli scrittori romantici, di considerare il genio di Dante come qualcosa di splendidamente barbarico e primitivo. Ambedue intravedono giustamente i legami di Dante con la tradizione, ma Balzac e non Villemain (c’era molto più in Balzac che non in Villemain la stoffa del grande erudito) rintraccia questi legami nella cultura filosofica del Medio Evo. Con tutto ciò per Villemain, Balzac e gli altri scrittori del tempo, Dante rimane quasi un simbolo ed un mito di cui nessuno in Francia prima di Ozanam aveva cercato di penetrare l’essenza. Scrive Henri Brulard in data 1835:

  «Artaud che ha passato venti anni in Italia ed ha pubblicato recentemente una traduzione di Dante, non mette meno di due controsensi e di una assurdità per pagina. Di tutti i francesi di mia conoscenza due soli, Fauriel e Delécluze, intendono Dante».

  In realtà l’Artaud nel 1830 aveva pubblicato la seconda edizione del Paradiso tradotto in prosa francese col testo italiano a fronte. Lasciando per il momento a Stendhal tutta la responsabilità del giudizio su questa traduzione, ci piace osservare che forse essa ebbe il merito di far meditare Balzac sulle due terzine del canto X del Paradiso da cui balza fuori la figura indimenticabile di Sigieri. Se poi è vero che Lamartine e molti altri scrittori dell’età romantica dovettero quasi esclusivamente alla traduzione di Artaud la loro conoscenza della Commedia non è improbabile che anche Balzac attingesse a questa medesima fonte, modesta quanto si vuole, ma preziosa per il testo italiano che permetteva di raffrontare. [...].

  Balzac cade a capofitto nell’errore cronologico quando inventando da poeta immagina che Dante incontri Sigieri nel 1308; eppure coglie magicamente in una verità insospettata, perché proprio in quegli anni, non Sigieri di Brabante, il quale era morto da un pezzo, ma la parte migliore di lui, cioè il suo insegnamento, gli sopravviveva a Parigi, almeno nella memoria e nell’opera di Pietro Dubois suo scolaro. Ma l’anacronismo del grande romanziere diventerà ai nostri occhi peccato assai veniale quando ci saremo accorti che pochi anni dopo Balzac il primo studioso insigne dell’opera di Dante in rapporto alla filosofia medievale, l’Ozanam, non manifesta alcun dubbio sulle lezioni di Sigieri che Dante avrebbe ascoltato a Parigi. [...].

  La verità è che nessuno in Francia prima di Balzac si era sognato di considerare Sigieri come una gloria dell’Università parigina; il povero Sigieri sembrava destinato a rimanere oscuro dopo la morte come era stato tragicamente perseguitato durante la vita. [...].

  [...] se gli eruditi avessero avuto l’idea di guardare più attentamente in quelli che Balzac chiama «i fasti universitari» non avrebbero intonato: — Sigieri, chi era costui? [...].

  Balzac non ha aspettato che Victor Le Clerc si mettesse a leggere con maggiore attenzione dei suoi predecessori i grossi volumi del Du Boulay, avendo intuito che Dante non poteva aver creato così pensosa ed alta figura ispirandosi a mediocre dottore; ha quindi consultato la Storia dell’Università di Parigi e cercando un po’ meglio di Pelli Artaud e Guiguené non s’è lasciato sfuggire l’occasione di mettere a servizio dei suoi fini poetici le sue eccezionali qualità di erudito. Ha poi fuso deliberamente i due Sigieri in uno solo — si noti che non dice mai Sigieri di Brabante ma soltanto il dottor Sigieri attribuendo invece le origini brabuntine ad un altro personaggio della novella — e per meglio metterne in rilievo le caratteristiche di oratore — filosofo, gli ha regalato il fisico di Mirabeau e le idee di Honoré de Balzac

  Certo, in qualunque modo Balzac fosse giunto a riscoprire Sigieri, mentre il tentativo di raffigurare Dante in uno dei racconti filosofici sorrideva alla sua fantasia, altrettanto doveva soddisfarlo nell’amore per la sua diletta Parigi, l’avere scovato in Sorbona un filosofo medievale da potersi contrapporre per altezza di mente al Poeta. Dice poi un giornalista contemporaneo che ne I Proscritti Balzac aveva voluto rappresentare il patriottismo in esilio e cioè «un quadro di circostanza se pensiamo alla Polonia». I contemporanei che sono miopi per forza quando si tratta di dare un giudizio d’insieme su uomini e tempi che non si sono ancora espressi compiutamente, di fronte a particolari strettamente legati alle contingenze del momento presente hanno spesso la vista buona. Ammettiamo dunque che I Proscritti racchiudano qualche allusione ai profughi polacchi, specialmente nella figura della contessa Mahaut madre di Goffredo; per quello però che riguarda la parte centrale della novella dove dominano Sigieri e la sua lezione, Balzac aveva altre mire. Per scoprirle basterà spingere lo sguardo nel periodo creativo che stava attraversando il nostro scrittore. Sonò in preparazione i romanzi e racconti filosofici fra i quali a lavori di più ampio respiro si alternano brevi scorci di figure e di ambienti rapidamente ma vigorosamente tracciati. A quelli che saranno più tardi gli Studi filosofici della Comédie humaine Balzac storico del costume dava la massima importanza convinto com’era che attitudini e cultura filosofica fossero indispensabili ad uno scrittore dotato di talento superiore alla media. Senza una personale e sistematica Visione del mondo egli pensava che non si potesse rappresentare la vita concentrandone le forze su grandi figure poetiche, in potente rilievo fatte staccare sopra uno sfondo dove confusamente si agita quel complesso d’idee di convinzioni d’impulsi in perpetuo movimento che viene fissato drammaticamente dalla creazione poetica e dalla storia. Applicando a Dante la concezione balzachiana, chi più di lui poteva essere considerato il poeta e lo storico insieme della società medievale? Una solida impalcatura filosofica e teologica sostiene l’immensa moltitudine dei suoi personaggi che nei tre regni d’oltretomba esprimono in un dialettismo umano e poetico che via via s’acqueta e continuamente risorge, tutto ciò che vive dentro di lui e intorno a lui: attività credenze aspirazioni, quotidiane lotte con l’Angelo e coi demoni e finalmente, quotidiana conquista di sé. Ma per quello che noi sappiamo Balzac nel biennio che segue il suo primo grande successo (1829-1831) non aveva ancora pensato di contrapporre alla Commedia divina quella commedia che in un attimo di millanteria avrebbe accettato di chiamare diabolica; ma che poi cessato ogni velleitario satanismo da poète maudit anticipato, chiamò semplicemente commedia umana. In questo tempo Balzac si affannava a disciplinare la sua incoerente e assai notevole cultura filosofica, ma d’altra parte la necessità insita nel suo genio di creare personaggi ed ambienti, premeva sulla sua fantasia, lo incalzava. L’artista che era in lui lo avvicinava ma nello stesso tempo lo allontanava dal filosofo che credeva di essere: quanto più sensibilmente concrete si facevano le sue figure, tanto più egli doveva dare l’addio alle facoltà filosofiche d’astrazione. Così, mentre pensava che la sua cultura e la sua meditazione dovessero condurlo ad un sistema filosofico che avrebbe rivelato niente meno che il grande segreto, l’assoluto, il principio unico regolatore della vita universa, egli si volgeva intanto a considerare alcuni principi vitali che nella storia gli si manifestavano espressi e concentrati in grandi figure, possenti incarnazioni ad un tempo del bene e del male; di quel male anzi che può diventare anche un bene perché esso è energia, fluido vitale, ricchezza d’istinti, generosità. Sono soprattutto questi individui in cui vengono accumulate enormi sorgenti di ricchezza vitale che attirano il romanziere e lo storico della società, perché spingendo lo sguardo dentro di loro si giunge a scoprire anche la vita dei milioni d’individui che essi sanno nello stesso tempo dominare ed esprimere. Balzac vede e contempla queste figure in quell’atmosfera di appassionata solitudine che è data soltanto dalla grandezza materiale e morale, giacché la natura di questi esseri straordinari si manifesta anche nelle caratteristiche della loro persona fisica. Ad Argow le pirate, che è come un primo abbozzo del forzato evaso Vautrin, egli non si perita di attribuire le proprie fattezze: testa grossa, larghissime spalle, mani possenti. Enfin la nature l’avait taillé en grand[3]. Di Sigieri fa addirittura un sosia di quel Mirabeau che in un altro dei suoi racconti filosofici gli apparisce come un’incarnazione del principio del male[4]. Certo Balzac vedeva in grande e mirava in alto perché soprattutto guardava in se stesso. Egli, per esprimerci imitando quel suo bizzarro procedere a mezza strada fra l’antonomasia e l’iperbole, avrebbe voluto essere il Napoleone della letteratura del secolo, il Mirabeau dell’eloquenza moderna, ma il Dante dell’êra romantica, quello no, non ancora.

  A Dante egli guarda con reverenza; nel raffigurarlo si direbbe che gli trema la mano; lo stacca trepidamente da sé e lo contempla a distanza come se da una riva invisibile lo fissasse mentre emerge dalla palude nella barca di Delacroix. Il suo è un Dante che pare fioco per lungo silenzio e reso attonito, quasi, dallo stupore stesso di Delacroix e di Balzac; un Dante leggermente sfocato, nello stesso tempo sospiroso e fiero, enfatico e scolorito; romantico, insomma, ma d’un romanticismo ancora in fasce, non ancora degenere.

  Balzac, inconsciamente o no, mirava a Dante quando s’era persuaso che la filosofia è indispensabile alla coerenza della creazione poetica; non s’avvedeva che un poeta, cioè un creatore di vita, può raramente essere anche un filosofo, cioè un ordinatore sistematico di leggi e problemi che interessano tutta la vita. Per lui effettivamente la filosofia non potè essere che una scienza sussidiaria come la chimica (César Birotteau) o la storia delle invenzioni tipografiche (Illusione perdues) o in generale l’erudizione. Ma Balzac mirava più. lontano e più largo: egli voleva abbracciare e comprendere la storia della società in un solo sguardo, una volta trovato il principio essenziale che coordina gli esseri e le cose, perché secondo lui la società umana non è regolata da leggi diverse da quelle che regolano la natura. Ora, nei romanzi balzachiani chi come Louis Lambert ha tentato di ravvisare nella volontà un principio unico, un fluido energetico da identificarsi con quello elettrico, chi come Claes (sic) ha dedicato la vita intera alla ricerca di un assoluto che non si sa bene che cosa sia — il segreto della fabbricazione dell’oro cercato nelle storte e negli ordigni dell’alchimista? sì, ma anche il precorrimento di una specie di formula einsteiniana che dovrebbe rivelare matematicamente l’unità assoluta del cosmo — non giunge allo scopo finale perché o come Lambert si smarrisce nella follia, o come Claes muore folgorato nell’attimo della scoperta, senza aver comunicato a nessuno la formula spaventosa. Degli immensi sforzi svaniti non restano che alcuni appunti slegati ed inutili di Lambert e un pugno di miserabili diamanti nel laboratorio di Claes. Il grande segreto è sfuggito dalle mani dei personaggi perché era già sfuggito dalle intenzioni e dalle possibilità dell’autore. Eppure quella di Balzac non fu una sconfitta ma una vittoria meravigliosa. Questa volta davvero egli doveva apparire a se stesso non più il Napoleone ma il Cristoforo Colombo della letteratura moderna. Partito alla ricerca di un principio unificatore di tutte le forze della natura, egli ha trovato invece un principio organizzatore del mondo da lui creato. Nei suoi romanzi egli farà ritrovare ai lettori gli stessi personaggi, ma ritratti in diversi atteggiamenti nei diversi periodi della loro vita, esposti a contatti umani ed a necessità differenti; a differenti azioni e reazioni nel vivo dramma della loro storia individuale e sociale. Mirabile invenzione che rende straordinariamente compatto lo svariatissimo mondo balzachiano e che nella Comédie humaine raddoppierà in modo prodigioso l’intensità e il movimento delle creature poetiche. Così è stato l’artista e non il filosofo a rapire alla natura un segreto vitale. Ma questo era forse il solo segreto che Balzac andava cercando; trovato il quale e messe da parte le sue presunzioni di filosofo e di scienziato, egli potrà abbandonarsi completamente alla gioia dolorosa di vivere, cioè di creare.

  Quando però scrive I Proscritti Balzac è ancora nel pieno fervore delle sue fissazioni ideologiche; basti dire che egli sta meditando quel Louis Lambert al quale affida il compito di rivelare i principi fondamentali del suo credo filosofico. Un pensiero comune a tutti i romanzi e racconti che furono poi compresi in Etudes philosophiques è il seguente; la ragione agisce come un dissolvente nei fenomeni sociali ed il genio corre alla propria rovina: Lambert alla demenza, Dante, che conclude la novella col grido: Morte ai Guelfi, all’acciecamento prodotto dalle lotte di parte[5]. Così in Balzac come nel suo grande contemporaneo Leopardi l’influenza di Rousseau conduce a servirsi paradossalmente dei lumi della ragione per distruggere o combattere l’eccellenza della ragione. È d’altra parte cosa sicura che la prolissa enunciazione d’idee filosofiche uccide oppure attenua la vitalità del personaggio poetico. I Proscritti e Louis Lambert sono fra le meno vive e più esangui creazioni balzachiane perché qui il dramma più che vissuto è narrato o dedotto da lunghi ragionamenti.

  Questa volta è di scena Sigieri, ossia, secondo Balzac, un dottore in teologia mistica medievale; il che imponeva certi limiti alle astruse fantasticherie dell’autore. Ci resta per altro assai oscuro il metodo seguito da Balzac-Sigieri per spiritualizzare la materia e rendere materiale lo spirito. Il principio unico sostenuto nel campo della biologia da Geoffroy Saint-Hilaire, trionfa in questa lezione per opera di una specie di monismo mistico che Balzac riesce a conciliare, non si sa come, con la dottrina di Swedenborg della doppia natura e col sistema strutturale della Commedia. «Le individualità infinite che differenziano gli uomini non possono spiegarsi che con questa doppia esistenza ... Apparentemente confuse quaggiù le creature, sono divise invece secondo la perfezione del loro essere inferiore in sfere distinte ... Forse Dante nella sua Divina Commedia ha avuto qualche leggera intuizione di queste sfere che cominciano dal mondo dei dolori e mediante un movimento armillare si elevano fino a Dio»[6].

  Con l’affermazione di gradi infiniti di spiritualità nelle creature e delle loro differenti sfere, comincia Sigieri la sua lezione, poi, fermandosi all’uomo, nella coordinazione delle differenti sfere umane, egli rivela matematicamente un grande pensiero di Dio. Infine «après avoir spiritualisé la matière et materialisé l’esprit», ammette negli esseri la possibilità di passare mediante la fede, da una sfera inferiore ad una superiore. I falsi dogmi dei due principî e quello del panteismo cadevano sotto la sua parola che proclamava l’unità divina.

  Sigieri applica scientificamente a tutti gli esseri della creazione – al verme alla pietra ed all’Angelo – la legge vitale dell’unità nella varietà, ma del poema dantesco Balzac ha afferrato da poeta e non da filosofo le infinite gradazioni che per lo gran mar dell’essere (l’océan céleste) salgono a Dio e le altre, infinite anch’esse, che da Lui si allontanano in senso inverso. Così non s’è lasciato sfuggire un’altra fra le più belle immagini del Paradiso

 

«comme un vaisseau dont le sillage

disparaît sous le niveau paisible de l’océan»[7],

 

non ha dimenticato la scala mistica di Giacobbe né l’immensa riviera che figura l’Essenza di Dio né l’eterna fontana. Ma quando Sigieri divenuto ad un tratto fisiologo per istinto rende conto delle rassomiglianze animali iscritte sulle figure umane, quando applica con abili digressioni le sue dottrine al sistema feudale, allora Balzac dimentica Dante e perde di vista Sigieri per ritrovare soltanto se stesso, ora il seguace di Gall e di Lavater, ora il pittore terribilmente realista della società del suo tempo, che per altro, nonostante le sue arditezze materialistiche, rimane cattolico e legittimista.

  Nell’ultima parte della lezione Sigieri conclude sviluppando un passo di S. Paolo «In Deo vivimus movemur et sumus»; ma ancora qui Balzac si vuole richiamare a Swedenborg quando ad un ipotetico interlocutore che gli opponesse il problema del male, il dottor Sigieri tuona dalla sua cattedra: — Dio è più clemente di voi, Egli ha aperto il suo tempio a tutte le creature; — parole che in bocca a Sigieri devono restare sibilline per forza[8] — ... Ma per entrare nel Santuario, spogliatevi di ogni impurità, altrimenti sareste consumati perché Dio ... Dio è la luce.

  In un trionfo di sole e di applausi Sigieri termina la sua lezione; ma poiché è piaciuto a Balzac immaginare che nella grandiosità della visione cosmica Dante sia stato non solo preceduto ma addirittura ispirato da Sigieri, assistiamo così allo spettacolo di un Dante che vivamente commosso dalla bellezza della lezione vorrebbe manifestare in qualche modo la sua gratitudine al Maestro. — Un vostro rigo, sarebbe darmi l’immortalità umana, risponde il filosofo al Poeta, servendosi di una frase del più tipico stampo balzachiano. Ed eccoci trasportati in una sala della Sorbona, ma nel XIX secolo. Sembra infatti di sentire Cousin che si raccomandi a un grande scrittore del suo tempo (per es. a Balzac) perché lo ricordi in una delle sue opere. Nel qual caso sarebbe stato servito a dovere, giacché nel passo che abbiamo riferito di sopra «un professore di filosofia diventa illustre spiegando in che modo Platone è Platone», è chiara l'allusione alla scuola di Royer-Collard.

  Un effetto singolare della lezione di Sigieri è il tentato suicidio di Goffredo, il giovane conte di Gand che discende in linea retta da una terzina del Purgatorio. Non solo dalle parole del maestro Sigieri ma anche da una voce paradisiaca che spesso nella solitudine della sua camera gli aveva riempito il cuore di estatico rapimento — tale voce, si vedrà realisticamente più tardi, è quella di sua madre, come lui profuga e nascosta in casa del sergente Tirechair — egli era stato persuaso ad affrettare con gioia il ritorno alla patria celeste. Non la disperazione ma la speranza, anzi, la certezza di essere un angelo esiliato dal cielo gli aveva sorretto la mano nell’eseguire un gesto terribile. Dalla morte lo salva Dante ; e mentre il Poeta immaginosamente spiega all’Angelo illuso che non è lecito per nessun motivo infrangere le leggi divine, l’Esule lascia capire che a lui stesso, per tutt’altre ragioni, la vita era grave d’intollerabile tedio; che gli si erano presentate talvolta nell’anima travagliata, come tentazioni subito represse dalle sue prodigiose forze vitali, una stanchezza dei titanici sforzi, un’affannosa brama di addentrarsi in quei misteri dell’oltretomba finora soltanto intraveduti dall’altissima fantasia. Così bisogna concludere che i poeti nel loro misterioso e solenne linguaggio s’intendono a meraviglia tra loro. Se nel Sigieri balzachiano del personaggio dantesco non è rimasto che il nome, il genio di Balzac gli ha fatto istintivamente trovare altre vie per avvicinarsi al nostro Poeta. Ora, che cosa ha fatto Balzac? Ha tolto a Sigieri la sua drammatica impazienza di morte ed ha preferito rappresentarla dialetticamente in due figure contrastanti al massimo fra di loro ma due poeti — Goffredo il poeta che sente, Dante il poeta che traduce — e due profughi. Ha quindi svuotato il Sigieri dantesco di ogni suo particolare carattere umano e poetico; di un perseguitato ne ha fatto un forte, di un professore semplice e modesto, un retore magniloquente che ama la verità quanto l’effetto oratorio e gli applausi; ma nello stesso tempo avendo colto da poeta il lato profondamente patetico e vorrei dire augusto, della persona di Sigieri, non ha dubitato di trasferirlo nella mente e nel cuore di Dante, giacché nel binomio Dante-Goffredo è facile intuire quale personaggio poetico domini la terza parte della novella. [...].

  Riprendiamo per un momento i versi 133-138 del X canto del Paradiso. Non sembra qui rinnovata in un progressivo allargarsi di cerchi di movimento e di luce la scena finale del canto di Giustiniano? Ambedue ammantati di taciturno splendore i due beati Romeo e Sigieri nella voce di chi parla per loro ascoltano un trepido richiamo ai loro più cari e dolorosi sentimenti terreni. Le parole biece corrispondono stranamente agl’invidiosi veri; il silenzio, dirci quasi casto, di Romeo di Villanova a quello altrettanto pio del filosofo brabantino; il cuor ch’egli ebbe ai pensieri gravi che condussero Sigieri a desiderare con impazienza la morte. Analogamente Giustiniano e S. Tommaso sollevano un velo su taluni di quei segreti che appartennero esclusivamente al cuore di Dante e che per una specie di pudore virile il Poeta attribuisce ai suoi personaggi. Tutti hanno sentito nei versi che parlano di Romeo l’accento personale, l’allusione alle sventure dell’esilio, all’ingiustizia sopportata con cuore fermo e dolente; ma Balzac per il primo ha scoperto che il segreto di Sigieri fu soprattutto segreto di Dante. Oggi molta luce è stata aggiunta a quella dentro la quale Dante aveva nascosto e avviluppato, anche troppo bene, Sigieri; la figura del brabantino non è più enigmatica e misteriosa. Dopo le indagini di Renan Mandonnet, Etienne Gilson e Bruno Nardi, uno studioso recente, il Renaudet, ha potuto delineare non soltanto l’influenza che la dottrina di Sigieri avrebbe esercitato sul pensiero di Dante, ma perfino lo svolgersi di quelle lotte interiori per cui a Dante e a Sigieri sembrò troppo lenta la morte. Fu veramente quel dissidio tra ragione e fede che ai tempi aurei della Voce il nostro Boine chiamò «la ferita non chiusa»? Anche se dobbiamo confessare la nostra impotenza a risolvere tali problemi, davanti a Sigieri, a questo nobile filosofo che il Poeta ci raffigura sotto l’aspetto, quasi, di un Socrate cristiano, a questo pensatore solitario innamorato della verità e della morte, sentiamo anche noi vibrare in appassionato consenso l’anima immortalmente triste del grande perseguitato Dante Alighieri.

 

 

  Jacques Druon, Eterna realtà di Balzac (Unica traduzione autorizzata), «Realtà. Rivista bimestrale di letteratura», Napoli, Anno IV, Marzo-Aprile 1954, pp. 4-6.

 

  Albert Thibaudet notava come uno dei caratteri dei grandi romanzieri inglesi una certa allegra accettazione della diversità umana, una gioia profonda per ciò che vi sieno nel mondo tanti temperamenti particolari, e il dono di aggiungere ancora a questa moltitudine naturale con un’abbondanza di personaggi seminati a profusione, evocati con amore in una durata vivente che li costruisce e li giustifica. E opponeva a siffatta simpatia vitale l’asprezza dei romanzieri naturalisti francesi che raccontano sconfitte umane con una gioia segreta e dura, facendo della durata vivente qualcosa che avrebbe dovuto non essere, come se gli uomini fossero «di troppo» giusta il titolo (già) d’un’ opera di Turgheniev. In quei romanzieri d’oltre-Manica, diceva egli, non troverete mai «un uomo di troppo». Ebbene, noi abbiamo in Balzac, a onore del romanzo francese, un creatore la cui asprezza non intacca mai l’allegrezza. L’asprezza è il frutto dell’esperienza, ma l’allegrezza è il dono dell’istinto. L’autore de La Comédie Humaine può, anche lui, raccontare sconfitte, mostrare il rovescio delle carte, vendicare le nostre illusioni, ma non per questo egli non serba, davanti alla diversità degli esseri come dei luoghi, lo sguardo affascinato d’un fanciullo. Egli non lascia d’osservare la vita, non ha mai abbastanza personaggi per modularne tutte le virtualità. Ne introduce sempre di nuovi, giunge fino a raddoppiare quelli che ha creati, e tutti, appena proiettati nella finzione, continuano senza di lui la loro carriera. Li lascia, li ritrova, da un’opera all’altra essi han vissuto fra loro, ed è senza dubbio perciò che continuano a vivere in noi come esseri evidenti quanto quelli che conosciamo, più veri perfino per tutta la generalità che concentrano. Lo spazio sociale de La Comédie humaine è più pieno di quello d'una grande città moderna, ma chi se ne lagnerebbe? chi troverebbe che vi è in Balzac un uomo di troppo?

  Ecco perché sarebbe non aver letto bene il più grande romanziere francese — egli lo è senz’alcun dubbio — tenersi alla semi-verità d’un Balzac pessimista. Certo, non è un tenero, l’autore della Rabouilleuse o della Cousine. Bette, e non si oserebbe forse consigliarne troppo la lettura alle nature delicate. Egli è duro come può essere uno sguardo ben posato sul mondo, ma non è più duro della vita medesima, in cui accade anche che l’onestà vinca e che gli avventurieri sieno coperti d’ignominia. Il vigore morale di d’Arthez contrasta con la debolezza di Rubempré; l’integrità del giudice Popinot riscatta le turpitudini di un Roguin, e l’Envers de l’Histoire contemporaine, antitesi dell’Histoire des Treize, testimonia che le virtù possono congiurarci quanto gli arrivismi. Cosa notevole: gli uomini dabbene, che non ispirano spesso i romanzieri, non sono in Balzac meno presenti dei cinici, degli usurai, delle belve, e le sue pure giovinette non sono le sue figure meno vive. Invero, tutta la specie umana è in Balzac. La sua opera è il processo verbale d’un mondo in cui la potenza dell’intrigo, che stritola i deboli, non può nulla sulla virtù ben temprata o sui cuori veramente puri. Fallisce chi si abbandona, ma si afferma chi si governa; e sopravvive chi si dà: accade forse altrimenti nella vita?

  Il realismo balzacchiano è la scuola del coraggio, ma di un coraggio che accetta la realtà. Come diceva Alain, «de Marsay non biasima punto l’esistenza, e Balzac nemmeno». Nessun risentimento lo drizza contro le regole d’un gioco che non fu raddolcito neppure a lui, nessun orgoglio filosofico in lui contrasta le leggi d’un universo dove la sua vita fu il più balzacchiano dei romanzi; e la sua crudeltà stessa, quando è crudele, non è quella di un negatore o di un cattivo maestro. Si dubita che Vautrin perdesse chi non consentiva già a perdersi, e Vautrin è visibilmente lo spirito del male, fortemente proiettato, ma senza connivenza segreta. Non v’ha dubbio: uno spirito diritto non rischia affatto di disimparare le lezioni d’un pensatore abbastanza lucido sul mondo per non confonderlo né con il cosmo dei sognatori, né col caos degli scettici, abbastanza istruito della società per sapere che la virtù vi è possibile se la lotta vi è aspra, e che anzi è la realtà della lotta a fare l’autenticità della virtù. In ciò l’autore delle Illusions perdues raggiunge la grande tradizione, severa, ma sana, dei moralisti francesi. Egli ci dice: questo è il mondo. A noi prendere le nostre responsabilità, per perderci o per vincere.

  Non vi è più a giustificarsi, oggi, di amare Balzac. É divenuto classico senza cessar di essere popolare, ed è il romanziere francese più letto nel mondo. Ma non da molto son cadute le riserve delle quali era de bon ton circondare l’ammirazione. Balzac è volgare, si diceva; è eccessivo; scrive male.

  Balzac volgare? Forse, se si giudica dai moventi ch’egli presta ai suoi ambiziosi preferiti, per certe lettere anche a Laure Surville, parrà che la sua idea della riuscita manchi di elevazione. Ma se si considerano i bisogni di quella potente natura, e in pari tempo i duri anni di tirocinio in cui s’è formata la sua opera, si comprenderà che una certa volgarità non poteva essere assente da quella grande educazione sentimentale ch’è La Comédie humaine tutta intera; anzi, che proprio tale volgarità permise al romanziere una presa solida sulla realtà della vita ed affrancò le sue pitture dalla convenzione romanzesca dove sempre i veri problemi sono elusi. Si stupirebbe piuttosto, sapendo ciò, che Rastignac non sia stata l’ultima parola della morale di Balzac se non si dubitasse che Rastignac è una vendetta, si direbbe quasi «una purgazione», e se non si sospettasse la profonda ingenuità d’un cuore rimasto giovane sino alla fine, ad onta delle lezioni della vita. La lunga avventura con la Straniera prova abbastanza la potenza del sogno presso questo falso cinico. Le lettere a Mme Hanska sono vere quando le lettere scritte nel medesimo tempo a Laure Surville, e il loro getto appassionato testimonia che il loro autore seppe salvarsi dalla vera volgarità, che è d’invecchiare. Balzac è l’uomo i cui sogni han resistito all’esperienza, come l’idealismo di Don Chisciotte resiste alla realtà comune. Egli è anzi più grande di Don Chisciotte poi che trionfa in sé stesso di Sancio Pancia.

  Balzac è eccessivo? Balzac scrive male? Quale ingiustizia! Balzac scrive nella lingua del suo tempo, ch’egli utilizza e rende espressiva al massimo, la drammaturgia d’una umanità in cui ciascuno, conforme la propria natura, seguendo il monologo eterno delle passioni o delle consuetudini. Quale creatore, ancor oggi, non v’imparerebbe l’essenza del suo mestiere, che è di far parlare creature? Ma, a queste creature, Balzac fa di più che dar la parola; egli dà loro l’intonazione, il gesto, l’andatura, il fisico, lo sguardo perfino, e noi viviamo tosto per procura. Noi abbiamo, per Madame de Mortsauf, gli occhi di Félix de Vandenesse, noi cacciamo il grido di Goriot che chiama vanamente le sue figlie, e questa Parigi stessa in cui viviamo, la comprendiamo meglio percorrendola con Balzac più di un secolo dopo.

  Forse, e sarebbe il solo limite di Balzac, manca alla Comédie humaine, per forza incompleta, un’apertura sulle più alte vocazioni dell’arte o della vita spirituale. Le delicatezza (sic) del Lys dans la vallé (sic), i vapori di Séraphita, le elevazioni mistiche assai dubbie di Louis Lambert non ne fanno le veci. La sensibilità di Balzac, così magnificamente attrezzata per captare il possente tellurismo delle passioni o delle forze, perde di finezza nell’avvicinarsi alle regioni misteriose in cui si rappresenta il dramma delle anime. Gli è che non è in potere d’un uomo, per quanto grande, abbracciare la totalità del mondo umano. Come Shakespeare, Balzac non ha detto tutto, o non ha avuto il tempo di dire tutto. Ma ciò ch’egli ha abbracciato, l’ha stretto fortemente, e ciò che ha detto è immenso. Se la qualità precipua del genio romanzesco è, la potenza di gettare nella vita personaggi più veri che in natura, Balzac è il genio stesso del romanzo. È il creatore per eccellenza, e si potrebbe applicare a tutte le sue generazioni di lettori ciò che Chesterton ha detto dei primi lettori di Dickens, ch’essi sembrano tenere la vita reale per un intermezzo fra due puntate di Pickwick. Ma non si rileggerebbe forse indefinitamente Pickwick, laddove i balzacchisti rileggono ogni due anni il Père Goriot.

  E chi seppe, non soltanto far vivere, ma pensare così chiaramente la fauna umana? Pittore di costumi, Balzac non s’è lusingato invano di esserne anche il filosofo: l’epoca della Monarchia di Luglio si comprende meglio nei suoi quadri della Restaurazione. Egli è stato forse il solo, con Chateaubriand, a sentire in profondità la fine di un’eredità, la figura d’un mondo nuovo. Ha compreso il suo secolo meglio di chiunque: il potere del danaro, l’ascesa della stampa, la liberazione delle energie, lo scoppio delle vecchie gerarchie sotto la pressione delle forze uscite dalla Rivoluzione, egli ha veduto tutto ciò altrettanto bene d’un economista come Saint-Simon, e ha saputo farlo vedere. Ma Balzac è andato ancor più in là. Sorpassando la cronaca della sua epoca per raggiungere l’uomo di sempre, ha unito le intuizioni del moralista alle considerazioni del sociologo. Qual romanziere ha colto più di lui le molle degli atti, il gioco dei caratteri, la potenza delle cause nel pittoresco degli effetti? È la natura umana quella che fa i suoi conti nella prodigiosa Comédie humaine dove non una figura è di convenzione, e che riunisce più grandi parti che alcuna altra scena letteraria abbia raggruppato mai.

  Sì, l’opera di Balzac è senza comune misura, come la sua vita, che essa opera ha consumata, come la sua ambizione, che essa opera ha giustificata. Volle essere il Napoleone delle Lettere, e lo fu, più forse di quanto egli non desiderasse, votato a inseguire a colpi di vittoria una chimera fatale, portando anche lui fino alla lontana Russia le sue conquiste, fulminato anche lui in piena forza dopo una serie di campagne altrettanto folgoranti, altrettanto ingannevoli. Ma più felice di Napoleone a Sant’Elena, meditabondo sugli imperi crollati e piangente forse sulle ombre dei suoi soldati, Balzac, sul suo letto di morte, sapeva che lasciava dietro di sé, non già rovina, ma un monumento al riparo del tempo, e non ombre, ma più di duemila, creature certe di non morire.



  Elena de Felicis, Honoré de Balzac et La Grenadière. Tesi di laurea. Relatore: prof. Vittorio Scardovi, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1954.

 

 

  Marise Ferro, Buone e cattive dei grandi uomini. Sposò Balzac solo perché moriva, «Tempo», Milano, Anno XVI, Numero 7, 18 Febbraio 1954, pp. 20 e 46; 2 ill.

 

  Tra le molte accuse mosse a Eveline Hanska, la più crudele e forse la più ingiusta fu quella di aver tradito il grande scrittore, che l’aveva appassionatamente amata, mentre era in agonia.

 

  La contessa Eveline Rzewuski, era una polacca di nobile origine, la sua famiglia essendo imparentata con la regina di Francia Maria Leczinska, figlia del conte Adam Rzewuski, ministro di Polonia. A diciotto anni, senza amore, aveva sposato il conte Hanska, ricchissimo russo, proprietario della magnifica tenuta di Wierzchownia, in Ucraina, la quale contava più di tremila anime, come allora s’usava definire il lavoro dei contadini russi. Il marito aveva trent’anni più di lei e le aveva fatto fare cinque figli, di cui uno solo, una femmina, Anne, era sopravvissuta. Chiusa nella sua grande proprietà, circondata dal lusso, Eveline Hanska si annoiava. Abitava un castello stupendo ch’era circondato da steppe e da sterminati campi di grano; d’inverno ella era chiusa in un deserto di neve, d’estate in un deserto di spighe. Dava feste, riceveva i vicini — i quali abitavano a diverse centinaia di verste di distanza — ricambiava le visite, ma si annoiava.

  La sua unica distrazione era la lettura. Come tutti i russi di nobile origine la sua lingua consueta era il francese; leggeva, quindi, gli scrittori francesi allora in voga: Victor Hugo, George Sand, Honoré de Balzac. Balzac era il suo autore preferito, nella sua descrizione dell’anima femminile ella trovava parte di se stessa; Le lys dans la vallée l’aveva fatta piangere sulla sorte dell’eroina, madame de Mortsauf, morta d’amore. Balzac era il primo scrittore che si occupava della donna per difenderla, per riconoscerle un’importanza sociale, per ammirarne la giovinezza oltre i limiti prestabiliti dalla moda dei tempi; la sua Femme de trente ans, era una donna affascinante. amata, proprio nell’età in cui gli scrittori romantici avevano l’abitudine di scrivere: «era ancora bella nonostante avesse ventotto anni ...». Eveline Hanska, un giorno di noia più grande degli altri, decise di scrivere la sua ammirazione al grande romanziere francese; prese penna e carta e vergò una bella lettera che firmò l’Etrangère. Nella lettera giurava a Balzac che era un’incognita e che voleva rimanere per sempre tale.

  Balzac le rispose e presto fra di loro si creò una corrispondenza animata. Balzac era fiero di avere un’ammiratrice tanto lontana e tanto acuta; Eveline Hanska era curiosa di sapere come viveva, che cosa faceva, che cosa pensava il grande romanziere francese. Di lettera in lettera, trascinata dal piacere di confidarsi e di avere un ascoltatore di genio, Eveline uscì dall’anonimato, si descrisse, disse chi era, raccontò la storia del suo matrimonio, descrisse il suo castello, la sua ricchezza, la sua noia, la sua nobiltà. Balzac, il quale aveva una fantasia di fuoco e amava le donne aristocratiche oltre misura, si accese di amore per l’Etrangère e volle conoscerla. Eveline acconsentì, ma da Parigi alla Russia allora la distanza da superare in carrozza di posta era grande e Balzac era povero, tormentato dai debiti, dal lavoro che doveva consegnare a data fissa per poter pagare i creditori (a quei tempi i debitori inadempienti e denunciati andavano in prigione). Iniziata la corrispondenza nel febbraio del 1832 egli ed Eveline Hanska dovettero aspettare il settembre del 1833 per conoscersi.

  Si incontrarono a Neuchâtel, in Svizzera, dove i conti Hanska erano in villeggiatura. Il convegno fu dato da Eveline su un promontorio pittoresco, oggi distrutto. che dominava la città. Ella riconobbe subito il grande romanziere, che indossava il famoso vestito bleu barbeau a bottoni d’oro, e siccome era impulsiva, gli corse incontro, dimenticò il suo rango, la sua posizione di donna sposata e lo abbracciò. Abbracciò il romanziere, non lo uomo, poiché ancora non l’amava; ma amava il creatore della duchessa di Langeais, di Eugénie Grandet, di Coralie, di madame de Mortsauf, di Esther Gobseck, di Honorine; amava il suo ingegno, la sua potenza creatrice, gli infiniti personaggi che la sua fantasia aveva fatto vivi e veri come se fossero vissuti.

  Eveline Hanska era una bella donna di trentadue anni, alta, un po’ grassa, dal portamento regale, elegantissima, bianca di pelle e bruna di capelli, con gli occhi neri e dolci dei miopi, la bocca piccola e ben fatta. L’imperio, la maniera della grande dama erano in lei appena temperati dalla bellezza, che è dono di tutti.

  Quella prima passeggiata fu seguita da altre, che non rimasero platoniche. Eveline Hanska. polacca, grande signora, abituata a comandare, ad appagare tutti i suoi capricci, non aveva pruderies; per cinque giorni fu la amante appassionata dello scrittore e quando partì lo lasciò ubriaco d’amore, dopo avergli promesso che lo avrebbe sposato non appena fosse rimasta vedova (il conte Hanska (sic) aveva più di sessant’anni). Tornati, Eveline a Wierzchownia, Balzac a Parigi la corrispondenza riprese. E’ una corrispondenza accesa e nello stesso tempo irta di cifre poiché Balzac aveva la manìa dei conti. Faceva conti su tutto e non riusciva mai a essere in pari coi suoi creditori: la sua potenza fantastica aveva questo sottofondo di realtà pratica, ma che non lo guariva affatto dei suoi sogni di grandezza e della sua prodigalità. E’ una corrispondenza che occupa cinque volumi (Lettres a l’Etrangére (sic)), di cui possiamo leggere soltanto ciò che pensò e sentì Balzac perché le lettere di Eveline sono state tutte distrutte. E’ una corrispondenza che durò diciassette anni. Diciassette anni! Nella storia dei rapporti amorosi fra un uomo e una donna è questo l’unico caso in cui un sentimento dura tanto e alimentato solamente dalla distanza. E’ vero che chi amava era Balzac, uomo prodigioso, di forte volontà, di forte fantasia; egli voleva a tutti i costi Eveline Hanska come moglie, la voleva a onta di tutto. L’aristocratica polacca era, oltre all’amore, la sua rivendicazione sociale (egli, nonostante la particella appiccicata al cognome, era di umile origine) la sua sfida alla povertà che lo assillava dall’adolescenza e ch’egli combatteva con un lavoro sovrumano.

  Che cosa era Balzac per la nobile Eveline? In un primo tempo una curiosità intellettuale, poi una vanità appagata (essere amata dal grande romanziere, da colui che portava «una società nella sua testa»). quindi l’amore, ma che durò poco, seppellito dalla distanza, dal tempo. Dal primo convegno dei due amanti al secondo passarono nove anni! Le lettere erano il solo legame di queste due persone umane che avevano intrapreso di uccidere il tempo, il grande nemico degli amanti. Oggi possiamo dire che quando Eveline Hanska sposò Balzac, cioè nel 1850, non lo amava più, che lo sopportava e lo sposò soltanto per pietà, perché lo sapeva gravemente ammalato, morente. Eveline Hanska, come tutte le sue simili, pure essendo stata attratta dal genio di Balzac, aveva paura proprio del genio. Un uomo geniale, del resto, è un divoratore, è sopratutto uno sconosciuto, legato a ciò che una donna più teme e meno capisce; la pura speculazione intellettuale, l’astrazione. Eveline Hanska, essere terreno, positivo, frivolo, senza vista sul futuro, pratico e realistico, non poteva capire il grande avvenire di Balzac.

  Ella, passati i primi entusiasmi, incominciò a trovarlo brutto, goffo, vide che stava male a tavola, che sudava, che non aveva gusto e che faceva il fracasso dei parvenus. Donna fino alla radice dei capelli, ebbe paura, lei aristocratica, di sfigurare vicino a Balzac. Una sua zia, del resto, le scriveva: «Il tuo dovere quale figlia del conte Rzewuski, ultimo ambasciatore della libera Polonia, nipote della regina di Francia Maria Leczinska, è quello di rifiutare qualsiasi unione con lo scribacchino francese». Ed Eveline Hanska, pure essendo rimasta vedova nel 1841, non si decideva a sposare Balzac. Egli la aspettava pieno d’ansia e d’amore, ma ella trovava mille difficoltà alla realizzazione del loro matrimonio: pendenze d’eredità lotte con la famiglia, il matrimonio della figlia Anne (la quale voleva molto bene a Balzac); miserabili scuse, insomma.

  La ragione è che il tempo e la distanza avevano ucciso in lei l’amore e che, altezzosa, ricca, molto snob, non sapevi decidersi a mantenere la promessa fatta nel 1833 e a sposare un uomo disordinato, pieno di debiti, borghese, vanitoso, con una famiglia dissestata e mediocre. Quell’uomo aveva già scritto La Comédie Humaine, aveva riempito di caratteri vivi, di passioni, di storia, di filosofia, quasi cinquanta volumi, aveva rivoluzionato la narrativa del suo tempo, quell’uomo era un veggente e un precursore, che moriva per lo sforzo del lavoro compiuto (Balzac scrisse La Comédie Humaine, cinquanta volumi, più di tremila personaggi, dai trenta ai quarantanove anni) ma come poteva essere apprezzato dalla castellana di Wicrzchownia, dalla vedova del ricchissimo conte Hanska? Eveline Hanska non poteva capire Balzac, pure lo sposò. Lo sposò nel marzo del 1850, cinque mesi prima ch’egli morisse a soli cinquant’un anno.

  Il matrimonio venne celebrato in Russia, dove Balzac. già ammalato. aveva raggiunto la sua Etrangère. Il viaggio di nozze avvenne attraverso l’Europa per raggiungere Parigi, dove da anni Balzac aveva con cure infinite preparato un magnifico palazzotto alla sua Eveline. In quella casa vi erano rinchiusi tesori, ma Balzac non riuscì a goderli. Un attacco di mal di cuore lo fece cadere e farsi male a una gamba. La lividura divenne cancrena ed egli in pochi giorni morì (agosto 1850). Sulla sua morte e sul comportamento di Eveline Hanska pesa un mistero. Victor Hugo per primo nelle sue pagine stupende delle Choses vues racconta che, andato a fare visita al grande scrittore morente, venne introdotto nella camera dove egli agonizzava e non ne vide la moglie al capezzale. Il mistero di questa assenza trapelò subito e ci furono i denigratori di Eveline Hanska i quali non esitarono a dire cose orrende: ch’ella, cioè, mentre il marito moriva, era nella sua camera con lo amante, un pittore (che fu davvero il suo amante, ma pare molto tempo dopo la morte di Balzac) il pittore Giraud (sic). L’accusa è feroce e non è avvalorata da nessuna testimonianza. Rimane il fatto che Eveline Hanska, vedova di Balzac, ancora bella donna, fu l’amante per molti anni del pittore. Quale è la verità? Alcuni sostengono ch’ella, al momento della morte del marito, avesse appena conosciuto Giraud che desiderava farle un ritratto; altri che posava proprio mentre il marito moriva per un ritratto e che l’occasione essendo propizia non si sia rifiutata a un amore nascente. Ipotesi, insidiose o maligne. Eveline Hanska non era al capezzale del marito quando vi andò Victor Hugo, questo è vero, ma dopo? Forse dopo pochi minuti ella piangeva nella camera dove il grande scrittore rantolava.

  Certo non era distrutta dal dolore. Ella, ripetiamo, aveva sposato Balzac per pietà e perché lo sapeva condannato. Abituata all’imperio, all’amore di se stessa, non simulò certamente un dolore che non provava. Non fu fedele neppure alla memoria del grande romanziere, ma ne curò gli interessi e l’opera, ne mantenne la madre finché questa visse, si comportò con tutti dignitosamente e signorilmente. I suoi denigratori — e sono molti — hanno buon gioco nello studiare i diciassette anni d’amore tutti ferventi, tutti coerenti da una parte sola, e accusano Eveline Hanska di avere esasperato e disperato Balzac, di averlo fatto correre, ammalato, da una parte all’altra d’Europa, di non averlo capito, di non avere rispettato il suo genio. Purtroppo le accuse sono giuste; infondata rimane la peggiore, quella d’essere rimasta chiusa nelle sue stanze, e non sola, mentre il marito moriva. Frivola, capricciosa, sdegnosa Eveline Hanska lo era, ma non era volgare, non era cinica. Da grande signora sapeva sempre, in qualsiasi circostanza, salvare la forma.

 

 

  Lionello Fiumi, Itinerari e genti. Nella Tours di Balzac: itinerari e genti, «La Nuova Sardegna», Sassari, Anno 64, N. 69, 21 Marzo 1954, p. 3.

 

  A Tours, la città di Balzac, cuore della Turenna, bisogna che lasciate da parte la città moderna, senza carattere come mille altre, e vi addentriate per le vie e viuzze della città vecchia. [...].

  Nessuno meglio del Balzac, nato a Tours, poteva evocarne il fascino malinconico, e, a camminar su questi sassi, nello scenario quasi intatto del romanzo, sentiamo tutta la poesia di certi suoi brani famosi: «Così, quest’abitazione è sempre avvolta in un profondo silenzio, interrotto soltanto dal suono delle campane, dal canto delle funzioni che varca i muri della chiesa o dal grido dei corvi annidati in cima ai campanili. Questo luogo è un deserto di pietre, una solitudine piena di fisonomia».

  Balzac! Il nome del grande «tourangeau» ci fa pensare. Torrente creatore che ben sembra incarnare quanto di forte, d’impetuoso v’è in questa terra di Turenna, a tutta prima così molle. [...].

 

 

  Giancarlo Franceschetti, Letteratura. L’irreale realismo di Balzac, «Letture. Rassegna critica di edizioni», Milano, Anno IX, N. 4, Aprile 1954, pp. 168-173.

 

  La grande figura di Onorato Balzac non ha quasi più segreti dopo i numerosi c molteplici studi che hanno avuto per oggetto la sua poderosa personalità; dal profilo del Gautier, suo contemporaneo, che ne mette in rilievo, amichevolmente, le stesse pose e manie eccentriche, alla fredda disamina di Benedetto Croce, che scevera come è suo costume quel che è di pertinenza dell’arte da ciò che si riduce a contraffazione scientifica; dall’acuta sintesi del Baudelaire, che meglio di molti altri comprese l’illuste (sic) romanziere quando lo definì un «visionnaire passionné», alla chiara monografia di G. Casati e condotta in funzione della tesi che, nel mondo balzacchiano, il male trionfa e il bene è sacrificato; dalla critica impressionistica di un Sainte-Beuve alla minuziosa informazione biografica di un Billy; dall’indagine erudita di uno Spoelberch de Lovenjoul all’indagine psicologica di un Bourget, interessante non foss’altro perché è di un collega.

  Ciò che forse non è stato sufficientemente (o quanto meno espressamente) approfondito e sembra meriti uno studio particolare, è la formazione dottrinale dell’uomo Balzac, di quel divoratore di carta stampata che egli fu prima di diventare, vita natural durante, quel divoratore di carta da manoscritti che tutti sanno. Pochi sanno che l’autore della «Comédie humaine» si vantava, da ragazzo, di riuscire a dar fondo a intere bibliotechine domestiche abbracciando in una sola occhiata, d’ogni libro che leggeva, cinque righe per volta!

  Presentando, traducendo e annotando la biografia di Balzac scritta da Gautier, Antonio Crimi ha dato al volumetto da lui curato il carattere e l’importanza di una guida all’intelligenza dell’A., di cui la stessa casa editrice ha pubblicato a tutt’oggi quattro opere, verosimilmente destinate ad essere seguite da molte altre. L’egregio Annotatore, in previsione appunto della pubblicazione di queste ed altre opere balzacchiane, ha messo a disposizione dei lettori la sua vasta e, quel che più conta, organica preparazione in materia fornendoci (come non bastasse la prefazione che per istituzione non può mancare in qualsiasi capolavoro tradotto) una cronologia della vita e delle opere dell’A., sintetica ma completa; il piano definitivo delle opere nell’inquadramento progettato dall’A., in cui si distinguono chiaramente le opere pubblicate da quelle che rimasero allo stato di progetto: delle opere pubblicate non solo è dato l’anno di pubblicazione, ma anche l’epoca, certa o probabile, nella quale si svolgono i fatti narrati; una bibliografia ragionata (tutti siam capaci di abborracciare una bibliografia ... scopiazzata, ma solo chi ha studiato seriamente, come il Crimi, il suo autore può presentare una bibliografia ragionata!); un repertorio dei personaggi balzacchiani (non precisamente duemila, ma sono i principali e tanto basta) e un indice dei nomi. Abbiamo indugiato un pochino nel descrivere quest’opera di divulgazione del Crimi, per concludere che, come modello di metodo se non come contributo scientifico, non la vedremmo fuori di posto neppure tra le mani di uno studente universitario che intenda studiare seriamente il grande romanziere francese.

  Detto questo, torniamo a Balzac. La sua «Comédie humaine» è dichiaratamente concepita come un’esposizione analitica e scientifica delle varietà umane, analoghe alle varietà zoologiche, e i cardini del pensiero dell’A. sarebbero la religione e la monarchia. Si legga la Prefazione alla «Comédie humaine»: un lettore poco provveduto potrebbe anche credergli sulla parola. Riservandoci di fare, più oltre, le debite considerazioni dal punto di vista estetico, osserviamo ora, dal lato morale, che Balzac ha buon gioco nel dar la polvere negli occhi ai bempensanti col riempirsi la bocca dei principi e dei concetti più nobili e santi — il che costa assai meno che applicarli, sia pure nell’arte soltanto. Questo, intendiamoci, sia detto senza animosità nè partiti presi. Ma certo, non mancando a Balzac nè la cultura, (seppur disordinate e mal digerite furon le sue straordinarie letture) nè l’arte di farsi la réclame, anche una cosiffatta contaminazione di arte, e scienza può trovare un comodo passaporto presso i lettori che, quantitativamente anziché qualitativamente, hanno peso preponderante.

  Quanto a una possibilissima accusa di immoralità, l’A. la prevede e mette le mani avanti con una certa vivacità ritorcendola press’a poco nei seguenti termini: «Io ritraggo la realtà come essa è, quindi che colpa ne ho io se essa è immorale?».

  Ma qui s’impone un’osservazione. Per chi, come Balzac, si assume lo spaventoso impegno di offrirci una pittura talmente universale della vita reale (pittura fittizia, teniamolo ben presente, perché narratore e cronista non son la stessa cosa), grave è la responsabilità riguardo alla validità o no della sua enumerazione. E’ essa completa? In caso affermativo, possiamo in un certo senso accettare siffatta realtà (fittizia, ripetiamolo) come vera e valida: e, diciamo meglio, questa prima condizione è necessaria ma non sufficiente e, mancando essa, denunceremo il sofisma di enumerazione incompleta come vizio d’origine di qualcosa come quasi cento romanzi!

  Ora che cosa si può rispondere, su questo punto, in merito al mondo di Balzac? Nella sua popolazione di duemila anime abbiamo tutti gli ambienti, tutte le classi sociali, tutti i temperamenti equamente distribuiti e senza quegli squilibri tanto facili a trovarsi in chi inventa fatti e persone, come qualsiasi altro narratore o commediografo, al quale però sarebbe poco pertinente rinfacciare l’enumerazione incompleta perché gli altri non pretendono di fare una «commedia umana»?

  Si risponde: su questo punto il mondo di Balzac soddisfa. Si discutano pure le partizioni, soggettive, della «Commedia umana» ma nessuno può ragionevolmente contestare la compiutezza del quadro. Comunque non basta ancora. Raccogliendo il termine di «commedia» proposto esplicitamente dall’Autore, diremo: non basta che quel palcoscenico sia ben popolato: bisogna anche vedere su chi o che cosa vengon proiettate le luci e quali luci!

  Tale questione è di grande interesse non meramente strutturale e contenutistico, ma, come è facile capire, anche estetico: ora sta di fatto che nel mondo balzacchiano i molteplici individui e i molteplici aspetti della vita umana non si trovano investiti da una luce uniforme e imparziale, come avviene là dove la personalità di un creatore potente ma freddo — uno Shakespeare per esempio, caso forse più unico che raro — non si sostituisce nè si sovrappone mai a quella delle sue creature. Qui, nel mondo balzacchiano, il creatore, avido di sensazioni, appassionato, alieno da ogni equilibrio, (anche mentale, giacché nella sua vita privata si riscontrano gli estremi di una megalomania bella e buona) assai sovente esercita pressioni scopertissime, a scapito della coerenza artistica, sul corso degli avvenimenti o sulla psicologia dei propri personaggi, quando non incarna addirittura in partenza, in qualcuno di essi, questo o quel lato della sua poliedrica personalità, magari un futuribile che nella vita fittizia del romanzo, come succede nella vita fittizia del sogno, si sviluppa come nella vita reale non gli è mai stato dato di svilupparsi: e noi li riconosciamo tutti sotto il denominator comune di un temperamento vulcanico insofferente di mediocrità.

  Giacché una dimostrazione analitica e puntualizzante, romanzo per romanzo, di questi temi, che tra parentesi sarebbe a noi molto facile, riuscirebbe in questa sede troppo lunga, noiosa e anche vista esteriormente, un tantino pedestre, tentiamo una sistemazione sintetica, a grandi linee, delle idee-madri.

  Anzitutto, hanno un peso incontestabile nella genesi dei romanzi balzacchiani le curiose e inquiete esplorazioni intellettuali dell’A. in campo metafisico e persino teosofico e metapsichico. Basti dire che esistono ben due incarnazioni distinte del Balzac-intellettuale solo riguardo agli studi sulla Volontà: Raphaël de Valentin della Peau de chagrin e Louis Lambert del romanzo omonimo (che trovano posto entrambi entro la cornice delle «Etudes philosophiques»). Eppure gli stessi presupposti speculativi passano in seconda linea, nell’economia dell’opera balzacchiana, rispetto alla carica affettiva conferita ai romanzi dalle passioni dell’uomo Balzac, prima tra tutte quella della gloria e della ricchezza, contropartita competente alla relativa assenza di lussuria in un temperamento esuberante. Chè egli era fermamente convinto che nulla meglio della castità favorisse l’uomo di genio.

  Ma poiché egli non vive il cristianesimo e l’equilibrio gli è ignoto, questa passione, come dicevamo, è in lui rimpiazzata in esuberanza da quella di «mammona»: Parigi stessa, luogo di ogni raffinatezza e d’ogni corruzione della civiltà, è per lui, se si può rubare all’Alfieri una parola di suo esclusivo conio, l’odiosamata città. E corrotta, ma è una gran tentatrice, la metropoli francese!

  Ed ecco gli uomini senza scrupoli: gli abili arrivisti. Il mondo della «Comédie humaine» è di questi. La civiltà non ha progredito in nulla nell’affinare la lotta per l’esistenza, giacché essa è altrettanto selvaggia come nella jungla, la cui legge è fatta sua dal più raffinato parigino del secolo decimonono, se egli vuol «arrivare». I sentimenti nobili non hanno quotazione sul mercato: il vaso di terracotta, nell’attrito con gli altri vasi che son tutti di ferro, è frantumato.

  Questo il pessimismo costante nel presunto realismo di Balzac, il che prova che egli non è sereno, che c’è qualcosa che pesa nel suo animo e che si diffonde nella sua retina metaforica, come l’immagine di un lume emanante una luce sinistra che nell’occhio umano normale può disegnarsi nelle sue obiettive dimensioni, mentre tanto nell’occhio d’un miope quanto in una lastra fotografica sensibilissima si riscontra la strana identità di quest’effetto: l’immagine risulta rifratta con un alone che ne quadruplica il diametro.

  Tale l’immagine dell’avaro-tipo, disumanato e snaturato dalla sete di guadagni: se ne trovano nella vita, di tipi simili, ma Balzac l’ha ingigantito nell’affarista di provincia Félix Grandet, freddo carnefice di una moglie passiva e sofferente e di una figlia talmente paralizzata in ogni sua iniziativa, da mancarle quasi lo stesso coraggio per commettere sotterfugi.

  Tale l’immagine della donna che attua in se stessa la libertà integrale fino a spegnere in sé ogni affetto umano per il marito letteralmente pazzo d’amore per lei: così agisce Onorina, la moglie caduta che, con sentimento non sai se ispirato da una concezione luterana del peccato o dettato da un orgoglio femminile alla Luisa Maironi, o da entrambi, rifiuta con pertinacia ogni riavvicinamento all’infelice marito che si strugge e aggira la posizione con calcoli degni di Amleto. Ciò che è avvenuto in lei è un fatto per lei irrevocabile — ella dice — e quand’anche Dio e il marito le perdonassero, è lei che non può perdonare a se stessa.

  E tale è, insomma, generalizzando, ogni figura eroica, solitamente eroica nel male, resa paurosamente potente o dal danaro (come la cortigiana Marneffe corrotta e ricattatrice, ma rispettata perché salva le apparenze, o l’ex-profumiere Crevel, o l’usuraio Gobseck che, come soltanto altri dieci in una metropoli di milioni d’abitanti, può vantarsi di far la pioggia e il bel tempo persino nelle coscienze), o da un freddo calcolo (la cugina Betta, che pur di diventar «marescialla» e bruciare la distanza che la separa dai «parenti ricchi», mette zizzania a cuor leggero in due famiglie, alla cui tragedia ella assiste impassibile). Ma vi sono anche le figure tremendamente potenti perché la legge che vincola gli onesti è per loro lettera morta: si legga il cinico «ammaestramento paterno» (lo diciamo ironicamente) del sedicente Vautrin quando induce il bollente Rastignac a tralasciare il duello e lo istruisce su tutto ciò che deve sapere un giovane che vuol farsi un nome a Parigi. E’ una logica spietata, diabolica, che penetra nel vivo del giovanotto onesto ma inesperto, e in certo modo lo assaggia, cosicché se la sua onestà è granitica non vacilla, ma se è una vernice o una sovrastruttura posticcia, a queste parole crolla. E a tal proposito sarebbe interessante notare il caso di coscienza di Rastignac, combattuto fra. la tenerezza verso la madre e le ottime sorelle che, a prezzo di sacrifici immensi, gli hanno racimolato i denari per dargli «entratura» presso la società parigina, e l’ingranaggio dell’arrivismo che sta per afferrarlo e fargli rinnegare ogni più nobile sentimento e affetto.

  Quello che, invece, è un corrotto abulico e passivo, è il barone Hector Hulot d’Ervy. Ha una moglie che è una figura esemplare di donna tradita e rassegnata (a proposito: non riusciamo a perdonare all’incoerenza balzacchiana quel mostro che ha prodotto, mostrandoci la povera Adelina ridicolmente goffa quando, spinto fino al sublime il suo spirito d’abnegazione in un estremo frangente, ella tenta di prostituirsi e, con la sua inesperienza, si fa compatire) ma, sempre pentito a parole per le sue cadute, sempre ricade, fino all’ignominia. Che dico? Peggio: fino a ricadere nella lussuria dopo la morte della moglie-martire. Perché questo? Perché «qui a bu boira».

  Più oltre non possiamo spingerci nella nostra sommaria analisi: ma dal rapido esame di quattro importantissimi romanzi è emerso che il Cristianesimo non è operante nel mondo balzacchiano, perché il suo influsso più appariscente nel mondo e quindi anche in questo mondo doveva essere l’ingentilimento dei costumi. Si obietterà: ma il mondo è così come lo ha descritto Balzac, o almeno così era nella Parigi della Restaurazione.

  Ribattiamo: anche dato e non concesso che il mondo sia o sia stato così, abbiamo il diritto di mostrarci così esigenti con un autore che non solo ha dichiarato esplicitamente che «il Cristianesimo ... essendo ... un sistema completo di repressione delle tendenze perverse dell’uomo, è il più grande elemento di Ordine sociale», ma, dopo aver pubblicato più di ottanta romanzi che era padronissimo di lasciare isolati come quasi tutti i romanzieri hanno fatto, ha invece creduto, nel tardo 1842, di dar loro una cornice concependo la Prefazione di quello che egli ha chiamato la Commedia Umana. Si direbbe di lui, con termine modernissimo: si è sbilanciato.

  Come i concetti di religione e monarchia, anche quello di cattolicesimo operante è rimasto un flatus vocis in quel mondo che doveva esser completo e quanto alla popolazione, e quanto alle luci in esso proiettate. Grande romanziere — lo riconosce il Croce stesso, che è tutto dire, e che da certo orecchio non ci sentiva — ma fallito in quanto esponente del realismo. Il che ci induce a concludere rammentando una immagine colorita che si attribuisce a un notissimo concertista vivente: le opere singole (lui naturalmente si riferiva alla musica), sia per la loro varia natura, sia per la varietà dei momenti psicologici in cui ci disponiamo a gustarle, son paragonabili ai diversi cibi e pasti, ivi compresi gli alcoolici, i caffè e le superflue ghiottonerie. Non è una volgare boutade da salotto e non è affatto fuori posto qui: la si riferisca alla letteratura, ed essa assumerà una serietà impensata e addirittura tragica. Balzac, per rimanere nell’immagine, è paragonabile a un cuoco il quale, ammannendoci un pasto quanto mai completo e succulento, ha sbagliato le dosi di certi ingredienti quel tanto che basta perché ciò che doveva riuscire nutrimento salutare, meriti un nome ben diverso e assai brutto: veleno.

 

 

  Lorenzo Giusso, L’Amore romantico, George Sand ... Trasmissione radiofonica, 6 maggio 1954 (visita di Balzac a George Sand al castello di Nohant).

 

 

  Giorgio Granata, I romanzi politici, «La Nazione», Firenze, 6 novembre 1954, p. 3.

 

 

  Enrica Grasso, Gli amori di Balzac, «Milano-sera», Milano, Anno X, 30 settembre 1954, p. 3.


  Poco più che ventenne, ribelle all’idea paterna che voleva fare di lui un notaio, Balzac era appena tornata in famiglia a Villeparisis, dalla soffitta parigina, dov’era vissuto un anno in solitudine e clausura, deciso a far dei capolavori e non riuscendo, invece, che a mettere insieme un’orribile tragedia, quando sua madre gli aveva annunciato la visita della signora di Berny e delle sue figliole Che seccatura! Quali discorsi può fare un giovane vissuto a Parigi, con delle ragazze di provincia (oche certamente!) e con una signora che ha tre anni più di sua madre?

  Ma ecco che ella entra in salotto, tutta vestita di bianco, come le figlie, di cui sembra la sorella maggiore. Ha un viso ancora puro, grazioso, animato, e, con voce commossa, annuncia la notizia, appresa allora da suo marito, che Napoleone è morto, circa un mese prima a Sant’Elena.

  E allora il giovane Balzac le si avvicina, l’interroga, la guarda, l’ascolta ... Con che gentile pietà ella racconta! E come quella pietà si accorda alla vibrante ammirazione che egli nutre, fin da bambino, per Napoleone, quand’ella, alla sua domanda: — Anche voi l’amavate? — ella risponde: – Qual è, signore, il vero francese che non lo amava?

  Da lei si sprigionava la seduzione d’un bel tramonto, e Balzac, che aveva letto Rousseau, correva incontro a quella specie di madame de Warens, col più ingenuo slancio della sua ardente giovinezza. Dopo averla amata con ardore, l’amò con tenerezza: non dimenticò mai che ella lo aveva aiutalo e sorretto negli anni della sua malaugurata impresa tipografica, dalla quale era uscito con più settantamila franchi di debiti; che gli aveva dato l’amore come un viatico per entrare nella sua vita di scrittore e, anche quando amò altre donne, ebbe per lei un affetto costante e ne pianse la morte con un dolore così profondo da fare della memoria di lei una religione dentro il suo cuore.

  Tuttavia, nel marzo del 1830, Balzac era l’amante della duchessa d’Abrantès. Aveva allora trentun anni, aveva già pubblicato con successo L’ultimo dei Chouans, la Fisiologia del matrimonio e preparava Peau de chagrin. Incominciava a frequentare i salotti alla moda, e sebbene portasse ancora degli affreux bas bleus, com’ebbe a far notare Chateaubriand alla Récamier che ne vantava l’ingegno, si proponeva di diventare elegante, e di raggiungere, con la fama, anche la ricchezza.

  Così non fu sorpreso, un giorno del settembre 1831, di ricevere un biglietto che veniva da quella vecchia nobiltà degnamente chiusa nel sobborgo di San Germano. Era della marchesa di Castries, dalla quale ebbe poi un invito formale. Ella lo ricevette allungata sopra un divano, avvolta in un accappatoio bruno, nel romantico negligé della donna sofferente, come era allora di moda, ed egli notò subito, che aveva un piccolo viso da bambola circondato da una cornice di capelli biondo accesi, poi, a poco a poco, tutte le raffinatezze di un ambiente che rivelava nobili abitudini, frutto di una ricchezza da lungo tempo acquistata.

  Quale differenza fra la gentilezza, sincera emanazione di una grazia naturale, di Laura di Berny, e la raffinata civetteria di questa marchesa parigina! Come sempre, egli parlò di sé e dell’opera sua un bel pezzo senza fermarsi e, poiché ella pareva ascoltarlo con interesse, uscì dal salotto inebriato, intuendo che, per amarla. avrebbe dovuto lottare, ma desideroso di cimentarsi in quella lotta deliziosa. Invero fu la crudele battaglia del gatto col topo. Per compiacerla, egli scrisse sopra un foglio legittimista un articolo favore della duchessa di Berry, dimenticando che questo atto poteva essergli rimproverato da molti suoi lettori.

  E’ ben vero che la buona Laura, allorché egli le aveva confidato di aver ricevuto la lettera di una gran dama, lo aveva messo sull’avviso.

  – Se tu ami veramente la gloria, guardati dalla gloriola femminile! Esse vogliono tutte attaccarsi a un uomo celebre!

  Ma non parlava in lei la gelosia dell’amante più che la saggezza dell’amica?

  Anche un’altra donna, della cui sincerità d’intenzioni non poteva dubitare, l’aveva dolcemente rimproverato.

  – Ho letto tante sciocchezze intorno ai vostri ricevimenti, alle vostre toilettes, ai vostri amori! E’ dunque vero che avete carrozze e cavalli inglesi? E un cocchiere con livrea principesca? Come pagherete tutto ciò? E che vi siete fatto il cavalier servente della duchessa di Berry? Voi, uno dei più begl’ingegni del nostro tempo, fatto per guidare il popolo (voi me lo diceste, ricordate?) ridotto alla parte di cortigiano di una classe sprovveduta d’ingegno, e noncurante dei bisogni morali delle classi povere ... – Così gli diceva la modesta Zulma, compagna di collegio di sua sorella e da lui apprezzata per la dirittura del carattere. Equilibrata, sì, onesta e saggia, ma non mai dimentica di quel fratello di una sua cara amica, dagli occhi vivacissimi, il quale, un giorno, che ella esprimeva il suo rammarico di essere un po’ zoppicante, le aveva prontamente osservato:

  – Che importa? Il vostro cervello non zoppica mai. Sarete una magnifica sposa e una madre esemplare!

  E, divenuta sposa e madre esemplare, ella gli parlava con l’accento della perfetta sincerità.

  — Mi dato da pensare. Sapete se vi ammiro, se ci tengo al vostro ingegno; sono ansiosa, come vostra sorella, di quanto farete domani. Ed ecco che, invece di risparmiare le forze per il lavoro, le disperdete in una folla di occupazioni mondane che vi straniano dalla nostra natura.

  Le buone parole fraterne, dette lì, nel piccolo giardino della casetta annessa alla polveriera di Angoulême di cui il marito di Zulma, il capitano Carrand (sic), era comandante, cadevano fresche e ristoratrici sul cuore. Egli riposava lo spirito fra quella brava gente che lo ammirava senza secondi fini, con l’ingenuo entusiasmo delle anime semplici! Ma non era un po’ troppo uniforme e ristretta la vita di Zulma, perché ella potesse veder giusto?

  Non capisco — diceva lei – come si possa desiderare la ricchezza con tutto ciò che rappresenta di vanità, d’imbarazzi, di febbre malsana e di ingiustizia.

  Ed egli:

  — Voi rinnegate tutto ciò che è importante nella società.

  Sì, Balzac l’aveva detto e scritto. I sentimenti veri sono eccezioni, in questo mondo di sfruttatori e di conquistatori, e vengono barati nel gioco degli interessi. Le virtù sono calunniate o derise: l’importante è la ricchezza. Il fatto si è che, in questa gran commedia della vita, a lui non bastava di essere lo spettatore; per descriverla con le sue passioni torturanti, voleva anche viverla e ardere al fuoco di quelle passioni.

  — Perché io possa venire a riposarmi in questo piccolo giardino di paradiso, con la donna squisita che voi siete — le diceva — bisogna bene ch’io mi sia esaurito altrove ... Veniva infatti fuggendo la capricciosa marchesa di Castries.

  Poco prima di farle l’ultima visita, gli era giunta la lettera poetica e ammirativa di Evelina Hanska, la straniera nobile, ricca, potente nelle sue terre di Polonia. All’età matura dello scrittore arrivato, la contessa Hanska offre l’amore, un grande nome e una grande fortuna. Ed egli, davanti a quel miraggio più romanzesco dei suoi romanzi, si chiude in una vita dedicata unicamente al lavoro e al pensiero della sua Eva lontana. Quando ne legge le lettere pensa che, al primo incontro, ella gli cadrà fra le braccia. Ma la bella contessa rimane calma. Forse non le sfuggono, come non erano sfuggite alla fine signora di Berny, certe manchevolezze di forma, però ne ammira così incondizionatamente l’ingegno che, se lontana da lui può freddamente giudicare i suoi errori, essere urtata dalle sue vanterie, quando s'incontrano, ai quattro punti d’Europa. In Svizzera o a Vienna, lo spirito critico di lei cade davanti alla facondia e alla luce di quegli occhi ove brilla la fiamma dell’intelletto. Rimasta vedova, ella avrebbe forse evitato di sposarlo, ma egli era malato, perduto, ed ella sentiva che, per unirsi a lei, aveva lavorato fino a morirne. Nelle ultime sere che precedettero il loro matrimonio, epilogo triste e radioso di una attesa di passione e di calcolo durata diciott’anni, ella dovette avere la sensazione precisa che la vita di un uomo non comune le era stata offerta attraverso un’opera immensa e non caduca. E una pietosa acquiescenza le impedì di sottrarsi al desiderio di lui. Ma questo egli intese e, nei pochi mesi che vissero insieme, dopo le nozze celebrate in un convento dell’Ucraina, Balzac non soffriva solo all’idea di andarsene senz’avere compiuta la grande opera vagheggiata, ma per aver distrutta la calma esistenza della sua Eva, tolta al vasto dominio patrizio per darle in cambio la vedovanza in una misera abitazione di Parigi. Che bisogno c’era della presenza materiale di lei, poiché da tanti anni la sua immagine gli era sempre rimasta accanto? In quegli ultimi giorni —, «Tu sei stata la mia vita» — lo diceva — «E, se c’è tanto ardore nella mia opera, è perché mai io non voltavo una pagina senza guardare la tua immagine e dirti: — Eva, ti amo!». E l’orgogliosa contessa Hanska ne provava tale compiacenza da compensarla del suo sacrificio.

  Sulla tomba di Balzac, Victor Hugo disse, fra l’altro, «essere impossibile che coloro i quali furono uomini di genio durante la vita non siano anime dopo morti».

 

 

  Giuseppe Grieco, Piccola galleria. Balzac, il visionario appassionato, «Grazia», Milano, Anno XXVI, N. 715, 31 Ottobre 1954, pp. 24-25; 1 ill.

 

  Desiderò per tutta la vita di guadagnare un milione di franchi e di avere due figli. Invece scrisse settanta volumi e morì completamente solo.

 

  In una mattina di primavera del 1836, poco dopo l’alba, un uomo infagottato in una giubba da caccia color verde scuro attraversa quasi di corsa le strade ancora semideserte di Parigi. Dall’aspetto lo si potrebbe facilmente scambiare per un operaio o per un sensale di provincia. Comunque il suo abbigliamento sembra fatto apposta per attirare gli sguardi. I pantaloni, a quadretti neri e grigi, sono affondati in un paio di scarpe massicce; il cappello, dalla calotta blu scolorita dal sudore, è tutto gualcito e spelacchiato; intorno al collo taurino è legato, con un gran nodo, un fazzoletto rosso.

  Qualche passante si ferma sbalordito a guardare lo sconosciuto che continua indifferente il suo cammino. Eccolo inoltrarsi in un luogo deserto e selvaggio, una strana Tebaide posta proprio al centro della città, di fronte alle Tuileries e a due passi dal Louvre. La via s’intitola Rue Doyenné e corre parallela alla Senna. Nell’angiporto, in due camerette ammobiliate, abita Théophile Gautier, un giovane scrittore diventato celebre grazie alla pubblicazione di un ardito romanzo, Mademoiselle de Maupin.

  L’uomo dalla giubba verde bussa alla porta dello scrittore e appena questi gli apre va diritto a buttarsi su un divano. Il suo corpo, tarchiato e potente, trasuda stanchezza da tutti i pori: il volto, dalle guance picchiettate di colori violenti, porta impressi i segni di un lavoro bestiale e di veglie troppo prolungate. Al giovane amico che gli si fa accanto premuroso l’uomo fa cenno che ha fame. Gautier gli porta sardine e burro. Con le sue dita bianche e grasse l’uomo sminuzza alcune sardine e le impasta con un po’ di burro: è il suo cibo preferito. Mentre comincia il pasto, i suoi occhi si accendono di ma gioia infantile. «Théo», esclama, «non è vero che sei uno spilorcio!».

  Il pasto non arriva al termine. A un tratto l’uomo allontana da sé il cibo e, dopo aver raccomandato all’amico di svegliarlo fra un’ora, si abbandona sul divano e cade di colpo in un sonno profondo. Il giovane va a prendere una coperta e gliela tende addosso. Egli ha già preso la sua decisione: non lo sveglierà. Il sonno di quell’uomo è più prezioso di qualsiasi cosa al mondo.

  Il piano riesce a meraviglia. Passa tutta la mattina, il pomeriggio, e l’uomo dorme ancora. Già cadono le prime ombre della sera quando egli si sveglia e, stropicciandosi gli occhi, si guarda intorno. Sul principio non si rende conto che l’intera giornata è trascorsa. Poi la verità si fa strada nel suo cervello e allora scoppia. Saltellando per la casa grida di essere stato vilmente tradito, che ormai è un uomo rovinato, che non potrà mai riguadagnare il tempo perduto. Afferra il giovane per il petto e gli urla in faccia: «Disgraziato, cosa mi hai fatto? Per la tua incoscienza ho perso almeno diecimila franchi, il frutto del romanzo di cui avrei potuto avere l’idea. Ma che dico? Diecimila franchi rappresentano solo la prima edizione. E le ristampe? E che dire poi degli appuntamenti che avevo oggi? Degli affari che avrei dovuto combinare? Delle cambiali che mi sono scadute? Centomila franchi mi è costato questo sonno. Un milione, anzi!».

  Una settimana dopo Théophile Gautier è pregato di recarsi da Honoré de Balzac in Rue des Batailles. Nel biglietto sono segnate le parole d’ordine da pronunziare per superare il triplice sbarramento creato dal celebre romanziere, soprattutto allo scopo di difendersi dall’assalto dei numerosi e petulanti creditori. All’ora stabilita il giovane Gautier bussa alla porta della casa e al portiere che viene ad aprire dice la frase magica: «La stagione delle prugne è arrivata». L’uomo si fa da parte e lascia via libera al visitatore; nello stesso tempo, però, dà un forte strappo alla corda della campana posta vicino all’ingresso.

  Chiamato dalla campana, appare in cima alla scala un domestico. Gautier gli va incontro sillabando a voce ben chiara: «Porto trine del Belgio». Il domestico si inchina e scompare. È ora la volta del cameriere personale, terzo e più arcigno sbarramento. «La signora Bertrand sta bene», lo rassicura il giovane sfoderando il suo migliore sorriso. Il cameriere fa cenno di aver capito, e senza chiedere altre prove introduce l’ospite nel salotto. Qui gli viene incontro Balzac in persona. Indossa la sua caratteristica veste da camera formata da una specie di saio francescano di flanella bianca stretto alla vita da un cordone dorato. Dal modo come accoglie l’amico si capisce subito che ha dimenticato completamente la scenata di pochi giorni prima.

  Il salotto è in realtà un ampio salone diviso in due parti; una perfettamente quadrata e l’altra a forma semicircolare. L’arredamento è sfarzoso, di un lusso da abbagliare chiunque. Intorno alla parte semicircolare corre un autentico divano turco, ampio e comodissimo, vero letto da nababbo. Al centro della parte quadrata, invece, luccica un camino di marmo bianco e oro. Stoffe preziose ricoprono i mobili; dal soffitto d’un candore abbagliante pende una lumiera d’argento dorato; un calamaio d’oro e malachite fa spicco sull’unico tavolo; fasci di rose e di altri fiori, collocati in eleganti vasi, riempiono l’aria di un profumo leggermente inebriante.

  Gautier è sbalordito. Balzac osserva compiaciuto le sue reazioni e non nasconde una gioia fanciullesca nel leggere l’ammirazione negli occhi dell’amico. Poi, quando gli pare che non ci sia nient’altro da vedere, apre tutt’a un tratto una porticina segreta e sospinge il giovane in un oscuro corridoio che gira intorno all’emiciclo. Il corridoio ha due angoli scarsamente illuminati: nel primo si scorge un tettuccio di ferro coperto da uno squallido materasso; nel secondo c’è sistemato un tavolo con l’occorrente per scrivere. La vera dimora di Balzac è questa. Qui egli scrive, con un ritmo forsennato, i suoi romanzi.

  Il suo metodo di lavoro è assolutamente, originale. Va a letto alle sei di sera e si alza a mezzanotte, indossa la sua tonaca fratesca, quindi si mette al tavolino. Con una scrittura nervosa e contorta, che fa rassomigliare la pagina a una sorta di papiro costellato di strani geroglifici, butta giù sulla carta, tutto ciò che bolle nel suo cervello. Per respingere gli assalti del sonno beve in continuazione tazze di caffè fortissimo (si calcola che in venticinque anni di lavoro notturno ne abbia bevuto circa cinquantamila). Alle prime luci del giorno smette di comporre e si dedica a rivedere quanto ha scritto durante la notte e a correggere le bozze che gli vengono portate dalla tipografia. Le sue opere, fino alla morte, porteranno sempre il segno di questa genesi tormentatissima. Di alcuni romanzi si conservano fino a dieci bozze.

  Honoré de Balzac adesso ha 37 anni ed è celebre in tutta Europa, ma ha dovuto faticare molto per trovare la sua strada. Fino all'età di 30 anni è stato un’oscuro (sic) scrittore di romanzacci popolari che gli hanno permesso a malapena di sbarcare il lunario. Questa fatica da amanuense gli è stata però necessaria per «sciogliersi la mano». Il primo libro firmato, quello che gli ha dato la notorietà, è Le dernier Chouan, apparso nel 1829.

  Il primo disegno organico della Commedia umana apparirà nel 1842. Tre anni dopo, il 24 novembre 1845, Charles Baudelaire traccerà di lui il seguente ritratto in un articolo pubblicato anonimo da un giornaletto che s’intitola Le Corsaire-Satan: “Era ben lui, lui, la più forte testa commerciale e letteraria del diciannovesimo secolo: lui, il cervello poetico tappezzato di cifre come il gabinetto di un finanziere; era ben lui, l’uomo dai fallimenti mitologici, dalle intraprese iperboliche e fantasmagoriche delle quali dimentica sempre di rischiarare il cammino, il grande cacciatore di sogni, senza requie alla ricerca dell’assoluto; lui, il più curioso, più interessante e il più vanitoso dei personaggi della Commedia umana; lui, quest’originale tanto insopportabile nella vita quanto delizioso nei suoi scritti, questo grande fanciullo gonfio di genio e di vanità che ha tante qualità e tante stranezze che si esita a sopprimere le une per paura di perdere le altre e di guastare così questa incorreggibile e fatale mostruosità!”.

  È un ritratto, questo di Baudelaire, che in sostanza dipinge al vivo l’uomo Balzac. Ce lo conferma in pieno tutta la sua romanzesca esistenza in cui realtà e fantasia risultano così legate che si fa una grande fatica – e non sempre si riesce nello scopo – a separare l’una dall’altra. I duemila personaggi dell’incompiuta Commedia umana, prima ancora che dalla vita, egli li trasse dalla sua fantasia di visionario.

  Egli era convinto di vivere a lungo e faceva progetti a grande scadenza: terminare la Commedia umana, scrivere una cinquantina di drammi, raggiungere una grande ricchezza (almeno un milione di franchi), sposarsi e avere due figli. «Non di più», diceva, «due bambini sono l’ideale: stanno benissimo nel sedile anteriore di un calesse». A un amico che gli fece osservare come per avere tutte quelle cose gli occorresse arrivare a ottant’anni, rispose: «Ottant’anni? Be’, è il fiore dell'età!». Intanto, poiché con i romanzi la ricchezza non arrivava, cercava di agguantarla per altre vie. Nel 1837 acquistò, sulla strada di Versailles, un terreno e una bicocca – i famosi Jardies – e immaginò di guadagnare quattrini a palate trasformando il terreno in serra e piantandovi centomila alberi di ananasso.

  Il desiderio di sistemarsi economicamente una volta per sempre non dovette essere estraneo nemmeno alla sua passione per la contessa polacca Eveline Hanska, specie dopo la morte del ricchissimo marito di lei. Comunque è assai difficile dire una parola sicura in proposito. Balzac fu singolarmente restio a far conoscere le sue relazioni sentimentali, tanto che per molto tempo anche i suoi amici più intimi ignorarono la vera ragione dei suoi frequenti viaggi all'estero. È però certo che la relazione ebbe inizio da uno scherzo che Eveline e le sue amiche vollero giocare allo scrittore nel 1832. La bella contessa inviò allora a Balzac una lettera piena di lodi firmandosi «Etrangère».

  Ma con Balzac non si poteva scherzare. Il gioco, infatti, non tardò a diventare serio. Tra alti e bassi e con frequenti infedeltà da parte dello scrittore, il 14 marzo 1850, nella chiesa di Santa Barbara, a Berdicev, in Ucraina, Eveline Rzewuska, vedova del conte Hanska (sic), si unisce in matrimonio con Honoré de Balzac. E, finalmente, l’arrivo in porto dopo una lunga navigazione tempestosa? Nemmeno per sogno. Le disumane fatiche cui si è sottoposto per tanti anni, i troppi caffè, la vita disordinata e gli strapazzi dell’ultimo viaggio cui si è costretto per concludere l’agognato matrimonio hanno ormai distrutto la forte fibra del grande romanziere. Forse Eveline conosce la verità e per questo ha accettato il matrimonio. Se anche lo ha amato prima, ora essa non ama più Balzac, se mai ha pietà di lui.

  Ed ecco i due sposi a Parigi, nella nuova, lussuosissima casa di Rue Fortunée (oggi Rue Balzac). I debiti sono stati tutti pagati, la critica si dimostra unanime nel riconoscere il genio dello scrittore, è primavera avanzata. Balzac si illude ancora. Ma per poco. Era destino che in Rue Fortunée egli non scrivesse una riga. Il male lo schianta confinandolo a letto e riservandogli una lunga, dolorosa agonia. Le sue ultime parole appaiono in calce a una lettera che la moglie invia a Théophile Gautier. Eccole: “Non posso più né leggere né scrivere”. Infatti, tra l’altro è diventato quasi cieco. Ed Eveline praticamente lo abbandona in mano ai servitori. Si dice che durante l’agonia chiamasse disperatamente il nome di Bianchon, il medico al quale nella Commedia umana egli aveva affidato il compito di salvare molte vite.

  Il 17 agosto Victor Hugo bussa alla porta della casa di Rue Fortunée e viene introdotto da una domestica la quale gli dice: «Muore ... La signora si è ritirata. I medici da ieri l’hanno abbandonato». Hugo entra nella camera e trova accanto al letto la vecchia madre che è venuta a vegliare il figlio. Cerca di farsi riconoscere dall’agonizzante, gli stringe una mano: niente. Allora se ne va in silenzio.

  Così ebbe termine la vita mortale di colui il quale si era assunto l’enorme compito di far concorrenza allo «Stato Civile». Morì proprio come il più grande personaggio della Commedia umana. Delle donne da lui amate la bella e buona signora De Berny è morta da parecchi anni e per le altre egli è stato soltanto un capriccio passeggero. Si racconta che negli ultimi giorni le sue urla di dolore riempivano la casa troppo grande e troppo vuota. Fu davvero una «grande» morte.

  Honoré Balzac (il «de» nobiliare lo aggiunse lui a trent’anni e senza fondate ragioni) era nato a Tours il 20 maggio 1799 da Bernard François Balzac di anni 53 e da Anne Charlotte Laure Sallambier di anni 21. Il padre, in base a complicati calcoli cabalistici, aveva stabilito che il suo primo figlio non poteva nascere sciocco. Tuttavia in famiglia non compresero il suo genio. Quando furono costretti a toglierlo dal collegio dove lo avevano messo perché rischiava di ammalarsi seriamente, rimasero sbalorditi nel constatare che sembrava letteralmente rimbecillito. Si trattava invece di una semplice «congestione di idee». Infatti si riprese ben presto, ma anche allora la madre, che pure era donna di notevole ingegno, si rifiutò di prestar fede alla sua intelligenza. Se al ragazzo capitava di fare qualche osservazione acuta, ella immancabilmente gli diceva: «Senza dubbio, Honoré, tu non comprendi quello che stai dicendo». Honoré ascoltava e tutt’a un tratto scoppiava a ridere: un riso schietto che a distanza si riverbera su tutta la Commedia umana.

 

La Commedia umana.

 

  Honoré de Balzac fu lo scrittore più fecondo del suo secolo. Nel 1842, mettendo in ordine le sue opere, diede ad esse il titolo, che poi è rimasto, di La comédie humaine, quasi a volerla contrapporre alla Divina commedia di Dante. Nel 1845 egli tracciò un quadro generale delle opere scritte e di quelle da scrivere per completare il vastissimo affresco della Commedia. La sua ambizione era di comporre, per la Francia dell’Ottocento l’opera che purtroppo non ci hanno lasciato né Roma né Atene, non Menfi o la Persia o l’India, cioè la storia della società e dei suoi costumi. Egli si proponeva di descrivere tutta la vita della società mediante l’impiego di tre o quattromila personaggi i quali, messi insieme, avrebbero dovuto dare vita a una storia completa del cuore umano. La morte, purtroppo, gli impedì di condurre a termine la sua titanica impresa. La commedia umana, così come è giunta a noi, contiene solo duemila personaggi.

  Tra le sue opere più famose, citiamo: Le père Goriot, Eugénie Grandet, Ursule Mirouët, La Maison Nucingen, La cousine Bette, Le cousin Pons, Gobseck, Le lis (sic) dans la vallée. I libri di Balzac sono tradotti in tutte le lingue del mondo.

  In edizione Mondadori: La cugina Betta (B.M.M., lire 400), Il giglio della (sic) valle (B.M.M., lire 300), Il colonnello Bridau (B.M.M., lire 300). Inoltre la bella biografia di Stefan Zweig: Balzac (Quaderni della «Medusa», lire 800).

 

 

  Guglielmo Lo Curzio, Balzac e noi, «La Sicilia. Quotidiano liberale», Catania, Anno X, N. 18, 21 gennaio 1954, p. 3.

 

  Si è, tempo fa, celebrata in Francia «l’année Balzac», in occasione del centenario della morte del più grande narratore dell’Europa moderna; e articoli volumi, mostre, celebrazioni han rimesso all’ordine del giorno il valore straordinario della «Comédie humaine» e del suo autore. Al lume dei gusti e degli interessi d’oggi, potrebbe apparir sorpassata l’opera di questo vero gigante, se essa non recasse, perennemente «attuale» rispetto a ogni epoca, una sostanza umana, che la fa, per così dire, coeva d’ogni età, al di sopra del mutevole fluttuare della vita e del vario riflesso dei costumi e delle espressioni etiche e sociali. Il giuoco delle mode e il capriccio delle novità non potranno, così, scemar vita e significato a quelle costruzioni epicamente umane, granitiche e ferme nel perpetuo «transeunte» della favola universale. Cadrebbe, pertanto, in un grossolano errore di valutazione chi oggi vedesse un «superato» in Balzac; come chi volesse dar per scaduta di interesse ideale e umano, oltre che poetico, la Commedia dantesca, o pretendesse di relegare in un determinato periodo storico il poema goethiano o la tragedia di Shakespeare. L’opera di creazione sopravvive a ogni contingenza storica e sociale, per il segno «immanente» della sua bellezza trasfiguratrice. Così, di Balzac. Molti personaggi della «Commedia umana» porteranno, ormai, abiti diversi dai nostri, colletti e cravatte e stivalini 1830, tubino e redingote 1840 ma dentro, dentro quei panni disusati, è l'eterna creatura coi moti del suo antico sangue, con le impronte del peccato originale, coi suoi riscatti e le sue cadute in un calvario senza fine, che i grandi poeti sollevano e trasfigurano in visioni senza tempo.

  Nessuna di quelle creature balzachiane. infatti, resterà fuori dal raggio di una vita che, trascendendo il costume e il valore di un ciclo storico, respiri, con sue risonanze eterne, in quelle zone dove la fantasia dei creatori rinnova il male ed il bene, rampollanti in mille aspetti, da millenarie radici.

  Per ciò stesso, una creatura di Balzac potrà benissimo esser più vicina a noi e più addentro nel nostro tempo di un personaggio, poniamo, di Pirandello o di Shaw o di Steinbeck. Riapriamo le pagine della «Commedia umana» e vi ritroveremo gli elementi costanti dei vizi, e delle virtù degli uomini, ricreati da quella grande fantasia. Chè il grande poeta, scendendo sino in fondo alle anime, vi coglie il lampo del loro antico male e la luce del loro antico bene la rara pepita della purezza e la comune scoria dell’impurità; si chiami Dante o Goethe, Shakespeare o Racine, Balzac o Dickens, Verga o Maupassant, esso trascende il fluido effimero elemento della nostra esistenza, e fissa le tappe del nostro destino di viandanti in una forma di bellezza in cui tutti, da epoca a epoca. si ritrovano con un proprio cuore e un proprio volto.

  E’ Balzac uno di quei creatori di mondi che chiamerei «trascendenti».

  Chi potrebbe, infatti, dire che Ferragus e Vautrin, papa Goriot e Cesare Birotteau, Nucingen e Luigi Lambert Bianchon e Rastignac e Rubempré, e tutte quelle figure femminili, quelle donne e quelle femmine, romantiche e ciniche, ingenue ed astute, pervertite e incorrotte, sian chiusi nel giro d’anni del Primo Impero e di Luigi Filippo, e non sconfinino, invece, in un mondo senza spazio e senza tempo, di là da certe caratteristiche ambientali?

  Si disse, con giustezza, che Balzac è il creatore d’un mondo moderno, e che nessun giovane autore potrebbe non passare attraverso lui, se gli avvenga di averlo conosciuto una volta. Quel mondo della sua «Commedia», prodigiosamente balzato da un genio in ebollizione, non sarà cosa che si possa lasciar dietro le spalle e che non debba risorgere di frequente nello spirito di chi vi sia stato dentro, lettore rapito, anche un sol giorno. Tutto quel brulichìo di mille e un personaggi nel sole e nella nebbia e nella pioggia di Parigi e della provincia e della campagna, tutti quei volti, quelle grinte, quei ceffi, nelle soffitte e nei saloni, nei caffè e nei solai, negli alberghi e nei mezzanini, nei tuguri e nei palazzi della città e dei sobborghi — passioni manìe ansie amori dolori nobiltà bassezze generosità egoismi — non passano senza lasciare una traccia, attraverso quel fiume di miserie e di grandezze che scorre per tutte le pagine dell’opera immane. E quelle molte eterne dell’andare e del cadere umano, del salire e del precipitare, quelle forze venefiche o malefiche che travagliano l’umanità — il danaro l'amore l'ambizione la vanità la superbia l’odio l’indifferenza — le sentiamo talvolta in noi, uomini di questi anni del Novecento, come scoperte da lui, Balzac, come da lui, Balzac, messe a nudo, negli in innumerevoli meandri del suo mondo, impastato delle nostre illusioni e dei nostri errori, della nostra durezza e della nostra pietà, e con tanto più lievito di pianto che sale di sorriso.

  Straordinaria immensa commedia umana, davvero, quella di Balzac, mossa dal fisiologo e dallo psichiatra, dallo psicologo e dall’economista, dal poeta e dal medico, proprio in una nuova «geografia sociale», in una storia naturale degli spiriti. Commedia, in cui la società francese chiamata in causa in tutti i suoi ceti e alti mestieri professioni, in un periodo determinato della sua storia, assume — come dicevo prima — il valore di una società «umana» nell’indefinito del tempo, con le ferme fatalità della vita e le leggi costanti dell’anima.

  Si è rilevato dai critici che la «scrittura» lascia molto a desiderare in Balzac; che, da tal punto di vista, c’è da rivedergli le bucce, più che a tanti altri narratori. E’ vero: specie quando si pensi ad altri scrittori di quel Paese che diede i natali a un Flaubert, ai Goncourt, a un Anatole France. Ma quanta vita in quella «impurità» di lingua, in certe trasandatezze e irregolarità del periodo! Quanta potenza creativa in quel lasciar correre! Fiume tumultuoso, insofferente di dighe e di ponti e di palafitte, quell’opera non ha spesso il tempo di mostrarci le chiarezze cristalline del fondo, i tersi splendori del suo letto. Il moto stesso della vita presiede a quell’opera, e la governa e sconvolge, nelle sue mescolanze di bello e di brutto, di torbido e di sereno. di fango e d’oro, così come la vita stessa glieli turbinava intorno, in un vento senza pace.

  Sorgeva, così, da quel mondo tentacolare — quasi mostruoso polipo che stritoli e succhi segretamente quanti vi si agitano dentro — sorgeva, così, la grande commedia dei tempi moderni, degna di stare accanto a quella di un Molière.

  E anche noi, o sopratutto noi, uomini di questi travagliosi decenni, possiamo riaccostarci a Balzac; rivederci, ritrovarci in lui, nel suo doloroso mondo umano, nella sua tragica commedia senza limiti.

 

 

  Thomas Mann, Ricordi e meditazioni, «Corriere della Sera», Milano, Anno 79, N. 29, 29 gennaio 1954, p. 3.

 

  Strindberg.

 

  I suoi quadri che ritraggono la società di Stoccolma in Bandiere nere, suscitarono scandali senza fine. Vien fatto di pensare a Balzac, tanto da lui ammirato, a quelle pagine de La fille aux yeux d’or, nelle quali si legge una descrizione della popolazione parigina veramente infernale e per tanti versi così affine a quella dello scrittore svedese.

 

 

  Thomas Mann, Il segreto del romanzo, «Corriere della Sera», Milano, Anno 79, N. 97, 23 aprile 1954, p. 3.

 

  Nel campo dell’arte narrativa, io sono quanto mai esitante ad ammettere una differenza di natura, o anche solo di grado, fra epos e romanzo, fra Divina Commedia e Comédie Humaine: e trovo giusto che Balzac abbia imposto all’edificio dei suoi romanzi un nome che riunisce le due sfere e ne afferma l’identica nobiltà.

 

 

  Cl.[aude] Margueron, Recensioni. Leon Emery, «Balzac en sa création». Lyon, Audin, 1952. p. 190, «Rivista di letterature moderne», Firenze, Anno V – Nuova Serie, N. 3, Luglio-Settembre 1954, pp. 226-228.

 

  Il più rigido principio di Leon Emery è stato sempre quello di difendere la libertà dello spirito, i diritti della riflessione critica e del pensiero creatore, contro ogni forma di sottomissione alle propagande e alle parole d’ordine partigiane. [...].

  Dall’abbondante produzione di Emery che va dalla storia c dalla sociologia al saggio politico, dalla critica letteraria e musicale alla storia delle idee e alla novella filosofica, ci piace staccare Balzac en sa création: libro particolarmente suscettibile d’interessare i lettori di questa rivista.

  Il titolo delimita esattamente il contenuto dello studio critico. («J’ai voulu surtout — dice nel suo Avertissement —, en m’y abandonnant, retrouver l’ample mouvement naturel de la création balzacienne ... Balzac est très grand, mais il est en contact par toute son humanité avec nos faiblesses, nos craintes et nos rêves. Sans être à proprement parler un maître de sagesse, il est de ceux qui en ces temps inquiets peuvent nous aider à comprendre, nous soutenir et nous apaiser»). Non ci lasciamo ingannare: non si tratta d’una critica «engagée», ma d’una critica che, bandite le definizioni astratte per aderire al concreto, non trascura nessuno dei fili che uniscono l’opera alla nostra sensibilità e alle nostre preoccupazioni, e la rendono perfettamente attuale. Il metodo? Proprio quello che ispira il giusto apprezzamento della vera grandezza. «Humble préface aux oeuvres des maîtres», «hommage à l’esprit», la critica d’Emery, come quella d’un Bardèche, introduce alla lettura, spiega, rischiara con raccostamenti ingegnosi, tenendosi modestamente dietro l’opera e l’autore.

  Dopo essersi sbarazzato d’ogni preoccupazione d’ordine storico e della mera cronologia in una introduzione che accompagna Balzac tanto nella sua vita privata quanto nella sua attività letteraria, Emery può in seguito c con tutta la libertà, ricostituire, in quindici capitoli dai titoli suggestivi, la biografia psicologica del romanziere e la sua influenza postuma: la sua «fortuna».

  Caratterizza prima sul piano letterario e scientifico, «L’air du siècle» e attribuisce la dovuta parte al «romantisme de la grandeur» che si contrappone al romanticismo della «désespérance morbide, (de) l’esprit chimérique, (du) besoin de solitude et d’évasion, (de) la vaine confidence lyrique». Tratteggia poi, conforme al minuzioso lavoro di Maurice Bardèche, quel che furono «Les années d’apprentissage» di Balzac. Col «Printemps romantique», primavera dei suoi amori, coincide, circa l’anno 1830, una prima fioritura di Scene, Studi analitici, Racconti filosofici, Novelle, che uniscono «aux prestiges de l’histoire, au pittoresque halluciné des évocations contemporaines, la violence des drames rapides et ramassés, la poesie déchirante, mélancolique ou sereine des passions profondes». Nello stesso tempo appare «L’esprit titanique» in La peau de chagrin, Louis Lambert, La recherche de l’absolu, «La conception d’un art impérial» e «Visite à l’enfer parisien» ci fanno penetrare in un mondo nuovo scoperto negli anni 1833-34: la vita sociale e cittadina, Parigi colla sua geografia umana, la borghesia affaristica, l’uomo moderno nella società moderna, trasmettendoci insieme l’intuizione che Balzac concepì allora dell’unità di tutte le sue opere della loro necessaria distribuzione in un vasto ciclo epico. Ciò costituisce una delle tre o quattro grandi epopee prodotte in Francia nel XIX° secolo (e l’espressione «grandi epopee» è da accertarsi qui scevra di ogni concetto formalistico del genere).

  Ma la materia di cui è fatto Balzac è così ricca e complessa da offrire nello stesso tempo l’aspetto sognatore d’un poeta visionario, – tipo «Contemplation de l’étoile» — in Séraphita, Le lys dans la vallée. Non essendo il sereno equilibrio una delle caratteristiche di Balzac, «D’un monde à l’autre», «Beatrice ou Béatrix?», «Procès d’une société» ci introducono in una nuova serie di capolavori fioriti tra il 1835 e il 1840. Alcuni di questi romanzi sono improntati a un concetto sociologico (César Birotteau, Les (sic) illusions perdues), altri a preoccupazioni etiche e religiose (Le curé de village), altri ancora a problemi d’amore e di matrimonio. Quest’ultimo aspetto è trattato con tonalità comiche, rabelesiane o ciniche (La vieille fille, Béatrix). Qui Emery inserisce una osservazione di estrema importanza: «C’est alors qu’il convient de mettre à son rang ... l’influence de Molière, peu importante à l’époque d’Eugénie Grandet malgré des apparences dont on abuse, mais qui s’accroît par la suite jusqu’à devenir peut-être la plus féconde de toutes celles que Balzac a subies».

  A partire dal 1840, se nelle «Pensées d’automne» del grande scrittore riappare il suo gusto per la caricatura cocente, per l’intrigo politico, per il «badinage» (Le deputé d’Arcis, Les petits bourgeois, Les comédiens sans le savoir), un nuovo fremito di passione amorosa delinea anche quelle delicate figure di giovani donne: Pierrette, Ursule Mirouët, Modeste Mignon, che sono una specie di concessione alla grazia della giovinezza da parte dell’artista giunto sulla soglia del suo tramonto. Parallelamente a ciò, lo spirito di Balzac è occupato da una «Mise en ordre», dal riordinamento cioè di tutte le Scene sotto il titolo definitivo di Comédie humaine. Questa classificazione, il cui principio è esposto nell’Avant-propos generale della nuova edizione del 1842, si ispira più a Geoffrey (sic) Saint-Hilaire che a Cuvier, La nuova organizzazione è accompagnata da un ordinamento delle diverse concezioni dell’amore, al quale Balzac dà una soluzione antiromanticistica (Les mémoires de deux jeunes mariés (sic)), della società, della monarchia, della Chiesa, della storia. Ma ecco avvicinarsi il rapido declino: «La nuit vient». Da questo momento il Nostro sempre riesce a condur in porto le sue iniziative. Compiuti o no, i suoi romanzi si sprofondano nel più nero pessimismo (La rabouilleuse, Les paysans, La cousine Bette, Le cousin Pons). E nel 1847 comincia l'agonia che si prolungherà tre anni. «La carrière posthume» non presenta un catalogo di influenze, ma stabilisce essenziali capisaldi: in essa si espone l’importanza del debito contratto verso Balzac da Baudelaire, Hugo, Dostoievski, Barbey d’Aurevilly e Zola (il quale colma una lacuna dell’universo balzachiano occupandosi della vita operaia e industriale, ma semplificando e schematizzando troppo quel che era pura sorgente nella creazione del «Tourangeau»), per non parlare di tutti gli autori di romanzi-fiume: Romain Rolland, Georges Duhamel, Roger Martin du Gard, Jules Romains, che ha presentato chiaramente la sua candidatura alla successione di Balzac.

  Lungo tutto il suo libro, dunque, lo sforzo di Emery tende a mostrarci l’evoluzione in profondità del pensiero di Balzac (spirito accessibilissimo alle idee del suo tempo e ai contatti umani) e il suo senso veramente divinatorio nel campo sociale; esso tende anche e principalmente a svincolare Balzac dal realismo nel quale troppo spesso l’hanno voluto confinare Taine, Brunetière, Lanson e i loro epigoni. Bourget e Maurras avevano già intravisto in lui il pensatore, il moralista, il politico. Emery mette in evidenza «le poète, le visionnaire, le rêveur, le mage, le chercheur d’absolu». « Gardons-nous soggiunge, «d’accueillir en notre esprit les lieux communs d’après lesquels Balzac serait simplement le spectateur d’une époque, spectateur et peintre dont nous devrions surtout louer la fidélité au modèle ... Observer, c’est appeler à l’existence, c’est proprement créer». E più in là: «Du point de vue de la clarté des idées, la définition de La comédie humaine dans l’Avant-propos [della nuova edizione del 1842] est un progrès, mais elle simplifie et rétrécit l’oeuvre, elle nous contraint à défendre Balzac contre lui-même». Non volendo troppo semplificare Balzac, Emery, colla sua probità, non nasconde il fastidio che prova nel tentare di scrivere il capitolo sintetico finale «Tel qu’en lui-même ...». Così l’insegnamento che noi riterremo soprattutto dalla lettura di questo saggio critico è quello di poter distinguere con occhi nuovi «le pouvoir de signification symbolique des oeuvres maîtresses» di Balzac.

 

 

  Alfredo Niceforo, La sociologia di Honoré de Balzac. Frammenti di uno studio sul realismo e sul pessimismo della “Commedia Umana”, «Atti della Accademia Nazionale di Scienze Morali e Politiche», Volume LXV, Napoli, Stabilimento Tipografico Guglielmo Genovese, 1954, pp. 54-88.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario … cit., pp. 569-570.

 

  La visione che l’autore della Commedia umana aveva della ... commedia (o della tragedia) della vita è una visione profondamente pessimista, nonostante il temperamento fondamentalmente ottimista di Balzac, quale appare non solo dai lineamenti del volto e dalla esterna tempra corporea di lui, ma pur da alcune produzioni — fuori dalla Commedia umana — dell’arte balzacchiana. Vedremo più in là un tentativo di spiegazione che sarà più largamente dato in altre pagine della presente opera nella quale pur si tenta rispondere al quesito: «una visione pessimista della Società è forse una necessaria conseguenza del realismo (con le sue varietà, del naturalismo e del verismo) proprio all’arte narrativa c descrittiva di cui Balzac fu primo artefice? (1). Pessimismo e realismo, si noti, sono da considerarsi senza dubbio tra loro intimamente connessi qualora si ritenga — e vi sono ragioni buone, non poche, per ciò credere — che la contemplazione degli uomini e della vita, non tanto in superficie quanto in profondità, sia fatta più per procurare disillusioni e dolore che non gioia e, molto meno, felicità.

 

1. – Pessimismo psicologico e pessimismo sociologico.

 

  A tale proposito si cominci col distinguere un pessimismo psicologico da un pessimismo sociologico. [...].

  Il primo — pessimismo psicologico — non crede alla innata o non innata bontà dell’animo umano e in fondo ad esso vede, or più or meno efficace, il veleno del male (il peccato originale delle grandi leggende?) mentre il secondo — alleato del primo e forse da esso derivante — vede nei fatti essenziali e fondamentali della vita sociale e nei motivi che spingono i gruppi umani all’azione, ancora una volta il veleno dell’egoismo più tenace e del male indistruttibile. L’una e l’altra categoria di malvagità sono più o meno abilmente nascoste sotto il velame delle più false e ingannevoli iridescenze. Anzi, nei riguardi del pessimismo sociologico abbiamo largamente fatto illustrazione di due sottocategorie di esso: scientifico, da un lato (ad esempio, la sintetica veduta sociologica di Ludovico Gumplowicz) e, per così dire, moralistico, dall’altro (con numerosi esempi tratti da antiche e meno antiche concezioni, a cominciare da quelle di Seneca venendo via via sino alla «morale» che nei riguardi della vita sociale può trarsi dai proverbi e dalle favole).

  In altri termini, chiamiamo pessimismo psicologico una concezione pessimista della psicologia umana: i bassi istinti, il più delle volte mascherati, guidano — nonostante qualche apparenza in contrario — gli uomini nella loro condotta, mentre chiamiamo pessimismo sociologico una concezione pessimista della vita sociale: eternità dei conflitti, trionfo dei malvagi, inattuazione dei principi generali (pur continuamente dichiarati) di giustizia ... [...].

Si veda, ora, quale genere di prove potremmo dare del duplice pessimismo — psicologico e sociologico — dell’opera balzacchiana.

 

2. — Infelici fisonomie dei buoni nella Commedia (4).

 

  Vorremmo come prima prova del pessimismo balzacchiano chiamare a testimonianza il fatto che, mentre fisonomie ove è quasi sempre luce di qualche bellezza — maschili o femminili che siano — e di qualche pregiato dono di Madre Natura, vengono date a personaggi i cui sentimenti e azioni sono tutt’altro che raccomandabili, i pochi infelici che si muovono sulla scena di tanto teatro, mossi unicamente dalla innata bontà del loro animo, hanno sul volto tutt’altro che i segni della bellezza e si affacciano persino con tratti ed espressioni significanti una ingenuità spinta quasi alla più deplorevole inferiorità mentale. La bontà, la squisita dolcezza dei sentimenti, l’onestà, la pudicizia, lo scrupolo, non solo vengono quotidianamente battuti dalle asprezze della vita e naufragano sugli avversi scogli, ma sono puranco battuti e avversati da una Natura che par sia loro matrigna. Ecco qualche ritratto in proposito.

  La gentilissima Fosseuse, spirito angelico, ha un viso piatto che nulla Ila da vedere con le sfolgoranti bellezze delle mondane (Le médicin (sic) de campagne, p. 149). Il buon giudice, creatura sovranamente buona, detto il giudice dei poveri o il Saint Vincent de Paul del suo quartiere, ha uno smorto viso che par quello di un vitello, un volto che per alcune sue linee sembra esprimere stupidità; miserevole aspetto presentano le sue storte gambe (L’interdiction, p. 211) mentre la povera Nanon, nel romanzo: Eugénie Grandet, un’umile serva che fa da schiava, è semplicemente un orrore. Il vecchio Phéllion, modello di onestà, è raffigurato in forma alquanto ridicola, in ispecie a motivo delle sue frasi ampollose e gravi (Les petits bourgeois, passim). E quel Michu, oscuro eroe che si sacrifica per una idea sino all’estremo supplizio, non ha forse faccia terribile, iniettata di sangue, dalle linee mongoliche, incorniciata da capelli rossastri? Occhio di tigre, oltre di ciò, ed espressione sinistra, sguardo fisso, immobile, rigido, da destar spavento (Une ténébreuse affaire, p. 3). L’angelo custode di quel pazzo di Claës, e cioè la dolcissima e rassegnatissima Pepita, moglie di quel monomane, e che dà tutta se stessa in sacrificio per il marito, non era davvero una bellezza con la sua fronte giallastra, con il suo volto marcato dai segni dei vaiolo e per di più storpia e rachitica (La recherche de l’absolu, p. 15). L’onesto cousin Pons — un vero galantuomo — non ha forse un volto scipito e burlesco (falot et drôlatique) pressoché simile a quei visi che i Cinesi foggiano per le loro grottesche maschere? Per di più, quella larga faccia è tutta bucherellata come una schiumarola, e così disordinata nelle sue linee «da smentire tutte le leggi dell’anatomia. «Là, infatti, dove l’architettura facciale avrebbe voluto presentare delle ossa, si stendeva la carne con appiattamenti gelatinosi, e là dove di solito dovrebbero presentarsi delle insenature, si affacciavano flaccide rigonfiature». Faccia schiacciata — come se tutto ciò che precede non bastasse! — a forma di rotonda cucurbitacea. E dopo siffatto deprezzamento aggettivale che abbassa l’uomo al vegetale inestetico e insipido, ecco l’altra notazione segnaletica indicante che gli occhi grigi sono sovrastati da due tagli rossi che tengono luogo di sopracciglia; nel mezzo di quel viso, poi, quasi blocco erratico, un naso donchisciottesco, uno di quei nasi, tuttavia, «che esprime, come lo stesso Cervantes aveva senza dubbio notato, nativa disposizione per dedicarsi in intero a grandi cose col triste risultato di esserne poi vittima». Ecco ancora un’anima candida ma, al solito, dietro un volto che non è certo quello dell’Apollo: il buon abate Loraux ha viso arcigno (rechigné), brullo, e di una bruttezza tale da far smorzare ogni fiducia in colui che avesse voluto, a prima vista, affidarsi a quell’uomo (César Birotteau, p. 318).

  Vero è che in quei visi, così disarmonici, degli onesti, spesso vi è qualche segno celeste: in quello del cugino Pons, una soffusa malinconia che incute rispetto; quello dell’abate Loraux è illuminato come ila celestiale splendore ... ma non è men vero che tutte le bellezze e ogni seduzione di colori e forme, si trovano nel viso di ben altra gente della Commedia. Nè è men vero che un audace aforismo balzacchiano proclama che «un essere brutto, stupido, povero e onesto, rappresenta i quattro punti cardinali della sventura» (Le cabinet des antiques, p. 45). L’onestà, notate bene, è dunque una sventura, come la deformità fisica! Sotto le rose, invece, della bellezza e della seduzione, stanno — per tanti personaggi della Commedia — l’inganno, la cupidigia il malaffare, la disonesta.

  Quanto sopra non coincide sempre con le «leggi» della fisognomonia e cioè di quella fisognomonia che Balzac ben conosceva, ma corrisponde esattamente allo scoraggiato pessimismo psicologico di chi, nel creare umane creature, vede l’afflizione compagna dell’onestà e i doni della Natura largiti ai malvagi. Il pessimista prende la mano al fisognomonista.

 

3. — Disonestà trionfatrice nella vita.

 

  Prove di altro genere? Eccone una in cui pessimismo psicologico e pessimismo sociologico sono tra loro frammisti, come ombre e riflessi di luce nella semioscurità di una caverna: il grimaldello — e fors’anco il pugnale — valgono assai più dell’onesto sentire e dell’onesto vivere. In altri termini, la a carriera», nella vita si fa meglio e più rapidamente per mezzo di carte false che giocando a viso aperto ... Di tali «carriere» è scintillante quella Commedia che Balzac creava a immagini della vita reale. La necessaria dose di falso e di male, per vincere, varia da individuo a individuo e da fortunato a fortunato, ed ora si compone soltanto di qualche granello di «sapienza», ora interviene in modo massiccio; ma, scarsa o abbondante che sia quella dose di falso e di male, essa è sempre presente. Pochi granelli, a esempio, e al proposito eccovi Monsieur Minard che giunge ad essere grande e ricco commerciante di droghe coloniali, sindaco dell’undicesimo quartiere di Parigi, giudice al tribunale di commercio, persona onoratissima e rispettabilissima, pur essendo partito modestamente, nella sua carriera, col vendere e spacciare cioccolata falsificata e foglie di tè già bollite e strabollite (Les petits bourgeois I, p. 42-43). Dose massiccia invece, e quindi punto d’arrivo trionfale, sia pur attraverso improvvise precipitazioni, troviamo nel seguire le avventure di Philippe Bridau, ladro, assassino, che finisce l’onorevole carriera sua come colonnello del più bel reggimento della guardia reale oltre che conte di Brambourg, accolto per ogni dove si aprissero nobili e ricchi salotti (Un ménage de garçon, p. 314). Chi poi volesse passare dal profano al sacro si imbatterebbe in quell’abate Troubert, losco personaggio sotto umili sembianze, abilissimo nel carpir testamenti, che si trova a coronare la sua abile carriera nullameno che con il grado di vescovo mentre l’ingannato abate Birotteau — anima di santo — vede svanire la propria vita nella miseria e nel dolore (Le curé de Tours, passim). E qual carriera più invidiabile e più fortunata di quella percorsa da chi prende le mosse scassinando il cassetto del principale (quello che è mio è mio, e quello che è tuo è mio) e arriva poi, dopo qualche anno, a collocarsi tra i più grandi finanzieri della capitale e del regno di Francia? Alludiamo al gran ladro Du Tillet, assai ben visto e rispettato ovunque il guardo si giri (César Birotteau, passim). Anche la carriera di Magus, venditore e rivenditore di quadri pseudoantichi, da lui fatti fabbricare anche a poveri diavolacci e pagati pochi soldi, può figurare tra queste lodevoli carriere; il trafficante finisce milionario, in mezzo a quadri di autentico valore e non falsificati. Siffatto galantuomo appare in parecchi romanzi della Commedia, come ne La vendetta, ne Le contrat de mariage, in Pierre Grassou, ne La Rabouilleuse. Ma tra le carriere più belle ed esemplari, per quanto ai nostri dì carriere del genere si siano date e si diano più mirabili ancora per fortuna e grandezza, e la carriera del rivendugliolo — in origine — Rémonencq. Nato nel fango, si fa strada a poco a poco nel guazzabuglio dei rigattieri e a un tratto, scoperto il valore della preziosa raccolta di oggetti d’arte del povero onesto Pons che tanta ricchezza ignorava o trascurava provoca intelligentemente il furto di tali oggetti da parte della domestica e portiera madame Cibot, e infine — colpo da maestro propina il veleno al marito di questa per poter sposarne la vedova ... e il suo tesoro d’arte. Per conseguenza, dall’umile sgabuzzino ascende sino al superbo e ricco negozio del boulevard de la Madeleine. A quanti altri onori (ne fanno fede le Storie e le cronache di ogni tempo) avrebbe potuto egli assurgere ... se avversa fortuna non lo avesse ucciso con un veleno che egli stesso aveva destinato alla sposa? (Le cousin Pons, passim).

  Ancora, e sempre, le belle carriere. Viene in mente la malinconica riflessione di Boezio, nel suo carcere, quando pensava, conversando con la Filosofia, «rarissime volte accadere che le dignità e le potenze si diano agli uomini buoni e dabbene», aggiungendo che dignità e potestà, del resto, non sono di per sè stesse cose buone e virtuose inquantochè se così fosse non cadrebbero nelle mani degli uomini pessimi «perché mai sogliono le cose opposte le une alle altre unirsi in una ed accompagnarsi» (II, 6). Belle carriere, dunque. Il banchiere Taillefer, ricco di dovizie e da tutti riverito, non ha forse cominciato la sua carriera — ne L’auberge rouge — con un furto, furto macchiato di sangue? E il signor Des Lupeaulx non arriva forse a tutto, grazie alle sue arti subdole? «Egoista e vanesio, duttile e altero, libertino e ghiotto, avido e discreto, ma discreto come una tomba dalla quale nulla esce che possa smentire la benevola iscrizione destinata ai passanti; coraggioso quando si tratta di chiedere, ma capace di compromettersi quando si tratti di scavalcare ruscelli di qualsiasi larghezza; incredulo, ma sempre presente ad ogni grande messa affollata di scelto pubblico» ... è la fotografia del perfetto galantuomo! (Les employés, p. 153 e seguenti). Significativa, a proposito di questo messere, la distinzione dei birbanti in due categorie, fatta da Balzac: da un lato i carnassiers, bestie feroci, e dall’altra i rettili; mentre i primi sono rappresentati dai più bassi e volgari delinquenti che agiscono infrangendo leggi umane e divine, i secondi sanno agire — non meno brigantescamente — eludendo l’umana legge. I moralisti (continua Balzac) di solito si occupano dei primi e sembra sfuggano loro le abili soperchierie che i secondi esercitano nella vita sociale; «l’abilità che trionfa a dispetto e all’insaputa delle armi del Codice, resta fuori dall’angolo visuale dei Codici stessi, i quali non hanno nè un cannocchiale nè una lente di ingrandimento per scorgere quelle malefiche soperchierie» (Les employés, p. 153).

  Continuando, non potremmo dire che l’altissima posizione sociale conquistata da Rastignac — venuto su dall’umilissimo punto di partenza costituito dalla povera e quasi torbi dovuta alle ottime e rette qualità morali di lui. È vero che sa egli resistere, quando ancora si trova in povertà ma già divorato dalle più grandi ambizioni, alle mefistofeliche suggestioni dell’ex forzato Vautrin, ma a poco a poco la coscienza di lui va, per così dire, rendendosi sempre più opaca: a tale oscuramento si deve forse il trionfo nella carriera? Di già, da giovane non arrossiva nel farsi soccorrere finanziariamente dalla ricca amante (ne Le père Goriot) e superava il turbamento che al riguardo poteva suggerirgli tale condotta; «c’est un drôle qui comence (sic) à percer» (è un mariuolo che comincia a farsi strada!) dice di lui de Marsay. Naturalmente, diventa uomo di governo, riceve patenti di nobiltà, gode di trecentomila franchi di rendita e diventa pari in Francia. La sua figura, si noti, appare in ventun romanzi balzacchiani, continuamente ascendendo dalle miserie e dalle tentazioni della pensione Vauquer sino alla ricchezza e alla potenza; quel vittorioso proclama talvolta che altra cosa non vi è da fare, in questo basso mondo, se non salire più in alto di tutti gli altri con tutti i possibili mezzi, pur conservando l’esterno aspetto della virtù.

 

4. — Una statistica ... dell’onestà.

 

  Tutti malvagi, allora, i personaggi della Commedia? E ciò ... perché, essendo malvagia l’Umanità e dovendo far figurare umani personaggi sulla scena, non si poteva che ricorrere a malvage figure? Balzac si è accorto della possibile accusa, e pur proclamando che «la corruzione sociale prende colore da tutti gli ambienti in cui essa si sviluppa » e che per cento volte egli ha dovuto creare spregevoli personaggi che altri hanno una sola volta dipinto nelle loro narrazioni, si difende facendo notare quante figures irreprochables si trovano nella sua multiforme creazione, figure di primo piano, da Pierrette e da Ursule Mirouet, da Eugénie Grandet a Madame Jules, a Ève Chardon ecc., in tutto — secondo l’elenco che figura. nell’Avant-propos balzacchiano — una quindicina, cui sono da aggiungere onestissime figure di secondo piano — un’altra quindicina — per le quali, anzi, l’Autore ha dovuto risolvere «il difficile problema letterario che consiste nel rendere interessante un personaggio virtuoso». Già, ma quanti di quei personaggi virtuosi non sono che dei monomani, assolutamente fuori dal campo della normalità o della quasi normalità, oppure pagano il fio della loro onestà e dirittura con una serie di disgrazie che su di essi si abbatte!

  Invero, ben poca fortuna, o nulla, hanno della Commedia umana gli onesti, i buoni, gli ingenui. Non si può dire, davvero, che il buon giudice Popinot — anima candidissima — sia uno dei preferiti figli della Fortuna; lo scrupolo César Birotteau è in ultima analisi, una disgraziata vittima, mentre l’onestà, la riservatezza, la rettitudine del signor Rabourdin lo conducono al disastro, preparato e voluto dai filibustieri che trionfano, come è narrato nel su citato romanzo Les employés. E David Séchard, delle Illusions perdues? Paziente e geniale lavoratore non è forse battuto, nel suo quotidiano lavoro, da avversari astuti e senza scrupoli?

  Gran parte di quanto sopra potrebbe forse riassumersi nell’amarissima sentenza che Balzac pone in bocca a uno dei suoi personaggi — personaggio cinico, è vero, ma in quel cinismo l’Autore della Commedia umana non vede che la riproduzione della vita sociale — sentenza che suona così: «Grandi e piccoli, nella vita! I grandi commettono a un di presso tante infamie quante i delinquenti veri e propri, ma nell’ombra; fanno mostra di virtù e restano grandi. I piccoli, invece, sono e rimangono virtuosi nell’ombra ... ma vengono disprezzati». (Illusions perdues, II, p. 311).

 

5. — Un’osservazione di Balzac sul trionfo dei mediocri.

 

  Con le sopra detti arti, dunque, si arriva buoni primi al traguardo della vittoria, nella vita? In verità, gli strumenti e i metodi per giungere a siffatto agognato punto sono di varie categorie; ne abbiamo fatto speciale catalogo, illustrando, altrove col domandarci se si tratti di ottime e buone qualità, o delle pessime, o ancora e semplicemente del caso, o infine del concorso in varie dosi di tutte le su indicate categorie ... senza dimenticare — tra le qualità personali — quelle che potrebbero essere definite con l’indicazione: mediocrità, sia intellettuale che morale. Diceva a tal proposito Anatole France, in una sua presentazione a una edizione del romanzo di Le Sage, che la ragione della ricca fortuna cui — da oscuri natali — perviene Gil Blas sta «nella mediocrità intellettuale e morale di costui». I mediocri, cioè, hanno maggiori probabilità di «arrivare» in confronto a coloro che altrove chiamammo «non conformisti». Opinione che, a quanto pare, qua e là risulta dalle vite di cui Balzac fa narrazione. Nel mondo dei letterati, scrive Balzac (e di ciò ne sapeva qualcosa) «ciascuno è nemico di chiunque cerchi innalzarsi; non si ha simpatia che per i propri inferiori per modo che si trovano decuplicate le probabilità di successo degli uomini mediocri: costoro, infatti, non destano invidia o sospetto e fanno il cammino loro a modo di talpe e per quanto deficienti di mente pervengono a ben collocarsi quando ancora uomini di talento si battono tra loro alle porte dell’edificio in cui tentano entrare cercando impedirsene — a vicenda — l’ingresso» (Une fille d’Eve, p. 302). Il nostro parla dei letterati, ma ben si vede avere avuto egli poca dimestichezza con la massa degli «scienziati», in specie di terzo e quarto ordine, presso i quali la psicologia or descritta si troverebbe apparire in quel medesimo rilievo or indicato.

  «Il successo, insiste in altro luogo Balzac, è ottenuto di solito tra gli uomini mediocri; del resto, l’applicazione, lo studio e il sapere danno di per se stessi, tante interne consolazioni che sarebbe inutile cosa domandar loro ancor più» (La peau de chagrin, p. 101). Anche il pittore Pierre Grassou, buona pasta d’uomo, in fin dei conti, ma spirito e talento di assoluta mediocrità (di una mediocrità che ben si rive­lava nei quadri da lui pensati e dipinti) finisce con l’ottenere univer­sale successo e un bel posto d’onore all’Accademia di Belle arti ... oltre che l’invidiata rosetta fiammante della Legion d’onore, coinè si legge nel romanzo dello stesso nome (Pierre Grassou, passim). Si potrebbe essere più pessimisti di così?

 

6. — Gli aforismi pessimisti della «Commedia umana».

 

  Una intera, o quasi intera, visione pessimista della vita sociale, visione in profondità che metta in luce l’ascoso meccanismo di essa, così come può desumersi dalla Commedia umana, risulterebbe forse da un’ordinata raccolta di aforismi e concetti sparsi a profusione nelle pagine della Commedia stessa; chi avesse desiderio e modo di ciò fare porterebbe nuovo fascio di prove al pessimismo sociologico e psicologico balzacchiano. Chi scrive ha già fatto cenno di tali aforismi (p. 170 e seguenti dell’oliera: L’«Io» profondo, ecc.), e cioè: che cosa è mai questa pesante vita che trasciniamo sulla terra? Una vita che trasciniamo su «una terra disseminata di abissi, calpestata da pazzi e misurata da curiosi della scienza» (Théorie de la démarche, p. 11, ed. 1902). Che cosa vede chi sa ben guardare la folla degli uomini che si muovono nell’agitarsi della vita sociale? «Sono tra essi quelli che ciecamente inseguono la speranza insin sulle sabbie mobili e nemiche in cui essa li trascina, quelli che faticosamente si innalzano verso i più alti picchi per isolarsi, o quelli ancora che si ostinano a persistere nella lotta pur sanguinando da ogni ferita e vedendo cadere intorno, a una a una, ogni illusione» (Honorine, p. 20). Che cosa è mai la proclamazione di diritti e la ricerca di libertà da parte di questo o quel gruppo sociale? «Ogni associazione di uomini si forma proclamando come scopo il raggiungimento di una superiore ed universale idealità, ma ogni componente di quelle associazioni, rientrando in casa propria dopo aver preso parte a una rumorosa riunione in cui furono espressi i più nobili sentimenti nelle più sfavillanti forme, escogita il modo di servirsi di quei collettivi sentimenti altruistici come di un trampolino da cui spiccherà il salto per raggiungere i suoi egoistici ed ambiziosi scopi» (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 176). Se non facciamo errore, ve ne è abbastanza, in queste ultime linee, per fornire materia a tutta una teoria rispettabilissima sulla così detta «volontà» dei gruppi sociali e sul doppio aspetto di tale «volontà», vale a dire: ecco che cosa dico, ma ben diversa cosa è ciò che penso!

  Sintetiche e complesse visioni della vita sociale, come sopra, potrebbero esporsi anche in altrettanti credo più o meno pessimisti che spesso si trovano enunciati da tale o tale personaggio della Commedia. Nei quali casi, le parole pronunciate, nei credo in questione, rappresentano il modo del personaggio che parla e di cui Balzac si fa imparziale porta parola; ma pur è da supporre — molto verosimilmente — che esse suonino, a ben ascoltare, e a ben vedere in fondo, come l’amara e sarcastica espressione di ciò che lo stesso Balzac, narratore e creatore di avvenimenti e. di uomini, agita nel proprio animo.

  Ecco, intanto, qualcuno di questi credo.

 

7.— I vari «credo» pessimisti della «Commedia umana».

 

  I vari credo riflettenti la vita sociale e il modo di condursi in essa da parte degli uomini, appaiono nella Commedia, di solito, sotto i più neri veli del pessimismo tanto psicologico quanto sociologico. È vero che in Le lys dans la vallée si apre, al calore di una viva passione, un lucidissimo credo ottimista, consegnato negli amorosi e quasi materni avvertimenti scritti che la contessa di Mortsauf affida al giovane Félix quando costui deve avventurarsi, incauto e inesperto, nell’inferno della vita parigina, ma è pur vero che in realtà quegli avvertimenti non conducono al trionfo dell’individuo nella lotta e nelle asprezze sociali laddove pare, invece, che proprio formule e dettami in senso contrario giungano a far conquistare la palma. È inoltre vero che quegli avvertimenti cominciavano proprio col ricordare che «nel mondo molti soccombono e vanno a fondo a cagione delle loro buone qualità morali non saggiamente adoperate mentre altri trionfano a motivo delle loro malvage qualità, abilmente messe in opera»; aggiungendosi (come se ciò non bastasse) che la Società può essere concepita come «una sala da giuoco in cui intorno al tappeto verde si affollano i giocatori anche falsando il gioco che può aver fine, tanto con la conquista di un milione quanto con una condanna all’ergastolo».

  Senza dire che quel tappeto verde non è abbastanza grande per accogliere tutti i giocatori ed è necessaria una certa dose di genialità per farsi innanzi ed aggiustare il colpo. Dunque, anche nel credo della buona contessa, tale è la vita; ma quel credo si ostina a dichiarare — dopo aver presentato la sopra detta pittura — che, nonostante tutto, «siano regola perenne il dovere e l’assistenza verso tutti e in ispecie verso chi è da meno di voi ... L’onestà, l’onore, la lealtà, l’affabilità, contano tra gli strumenti più sicuri e pronti per raggiungere la fortuna». Proprio così, con la notazione, tuttavia, che dagli onesti la fortuna sarà raggiunta, attraverso le oneste vie, un po’ tardi. Che importa? «Fortuna altrimenti raggiunta e costruita sulla sabbia e cadrà in polvere, mentre la fortuna dei buoni sarà di solida fattura». L’ottimismo si fa, infine, più acuto con la sentenza — sempre nel credo e nelle avvertenze della buona contessa — proclamante che «ogni sorta di astuzia, ogni sorta di inganno, finisce con l’essere scoperta, mentre lealtà mena a buon porto» (p. 136 e segg.).

  Si sarebbe tentati di notare che le ultime affermazioni di cui sopra paiono un poco come disgressioni e giudizi sui colori nella bocca di un cieco nato; ma occorre subito dire che la buona contessa è presentata da Balzac come una antica discepola di quel Saint-Martin che fu filosofo mistico illuminista che insegnava tra l’altro a sopportare ogni sorta di sofferenze ed a purificare per mezzo del dolore e della carità, l’animo umano al fine di portarlo come angelo al cielo (Le lys dans la vallée, p. 49). E occorre aggiungere che nella contessa di Mortsauf, tanto amorosa e caritatevole, Balzac raffigura una donna che a lui fu carissima e da cui fu assai amato: poteva egli rappresentarla con colori diversi dall’azzurro? Un azzurro, tuttavia, che non ignora l’esistenza — come vedemmo — delle tinte scure, quali la vittoria dei perversi, il giuoco con le carte false, e via dicendo.

  Il credo pessimista, intanto, nella Commedia umana più volte si affaccia sotto brillante ed eloquente forma. Notabilissime a tal riguardo sono le lunghe e impressionanti dichiarazioni esposte dall’odioso ma tanto realista ex forzato Vautrin, dapprima a Rastignac e poi a Lucien de Rubempré, e le altre freddamente enunciate dallo scaltrissimo finanziere Gobseck. Tanto è noto il primo credo — in un discorso di lunghe pagine a Rastignac — con le sue affermazioni che hanno aspetto di paradossi anche quando sono decalco della triste realtà, che non sarebbe il caso di tornare su quel celeberrimo discorso (Le père Goriot, p. 113 e segg.). Vi si trovano frasi, modi di vedere, affermazioni, di questo genere: «Abbiamo istintivo bisogno di tutto divorare, e denti aguzzi; come provvedere per sodisfare tale nostra brama?» ... Vogliamo arrivare e conquistare; arrivare e conquistare a qualsiasi prezzo ... «e perciò fare, occorre sfondare la massa di uomini che ci circonda come si sfonda una muraglia a colpi di cannone, oppure occorre penetrare tra essi ascosamente con la perfidia del veleno» ... Più lunge: «State sicuro, amico mio; l’onestà a nulla serve ... Del resto, che cosa credete mai che sia l’uomo onesto? È che tace, che lavora oscuramente e senza ricompensa ... una ciabatta!» ... E più in là ancora, incalzando, dopo aver detto che la vita reale, quale è, si trova ad essere, ripugnante e nauseabonda, si aggiunge: «come la cucina; bisogna pur sporcarsi le mani se si vuol cucinare». Che farci? «Il mondo è sempre andato così come vi ho detto; l’uomo è imperfetto e giammai il moralista, checché dica e faccia, potrà mutarlo». E via di seguito sullo stesso tema.

  Medesimo «vangelo», a un di presso, o freddo e orrendo specchio della vita, quando l’ex forzato cerca insegnare a Lucien che cosa in realtà sia quella vita in cui il giovane Lucien deve entrare. «Mai si può immaginare quanto sia forte, sull’uomo, il potere del vizio! E donde viene tale forza? È immedesimata essa nella natura stessa dell’uomo o proviene dalla debolezza di costui? Si tratta forse di fenomeni che si collocano al limite stesso della pazzia?». Come si vede, male condotta, con relative possibili interpretazioni, da non disprezzarsi dalle più moderne vedute scientifiche: natura congenita, implacabile pressione ambientale sull’umana debolezza e sulla non resistenza dell’individuo, anormalità psichiche. Chi vuol condursi nella vita — continua il credo in questione — in modo da riuscire vittorioso, a qualunque costo, nelle quotidiane battaglie, tenga presente questa legge (il personaggio adopera tale parola): «Sappiate vedere negli uomini che vi circondano soltanto degli strumenti, ma non fatevi accorgere di questo vostro modo di considerarli; inchinatevi dinanzi a colui che può esservi utile et ne le quittez pas qu’il n’ait payé très cher votre servilité». D’altra parte — si tratta sempre di una «legge» da seguire — per nulla curatevi dell’uomo che cade accanto a voi; consideratelo come se mai fosse esistito. Non basta; occorre non dimenticare, vivendo tra gli uomini, che essi «riuniti in massa, sono ancora più ipocriti di ciò che siano quando il loro interesse li obbliga a recitare commedie individualmente». Invero, chi ben vuol condursi nella vita ha da comportarsi come il giuocatore al tavolo da giuoco; «giuocando, cerca costui di nascondere il proprio piano. Non cerca forse di far credere ciò che non è? Vous mentez pour gagner cinq louis!». È forse necessario seguire i precetti della virtù «allorchè i nostri antagonisti ignorano del tutto tali precetti?» ecc. ecc.... (Illusions perdues, II, p, 303 e seguenti).

  Il credo di Gobseck è meno noto dei precedenti, ma è di impareggiabile valore anch’esso per lo studio e la comprensione dell’umana psicologia e della vita sociale. Ironico, freddo, tagliente, nella penombra della sua fredda stanza, nuda come una cella, il vecchio e avaro Gobseck espone al giovane vicino suo che, alquanto intimidito, gli chiede qualche consiglio, una teoria generale della vita sociale e dell’umana condotta che potrebbe davvero trovare larga materia di sviluppo sotto la penna di un moderno psicologo dell’Io profondo e di un moderno sociologo che particolarmente tratti delle lotte sociali. Per nostro conto, ripetiamo, è da domandarsi se il credo di Gobseck non sia, in ultima analisi, non tanto il credo stesso, psicologico e sociologico, di Balzac, quanto l’amaro accertamento che Balzac stesso faceva nel guardare, contemplare e descrivere, le vicende degli uomini e delle Società. Accertamento — intendiamoci bene — che non esprime davvero ciò che Balzac sente e desidera, sibbene l’osservazione pura e semplice della realtà quale è, non quale dovrebbe essere secondo i più nobili e geometrici disegni di uno spirito eletto, lontano dal fango della vita e di esso ignaro. Esiste davvero, insinua quell’arido personaggio (Gobseck, p. 28), una legge morale dal momento che «i principi morali dell’uomo cambiano da latitudine a latitudine sicché ciò che l’Europa ammira l’Asia condanna, ciò che è vizio a Parigi è necessità di là dalle Azzorre»? Non vedete che nulla quaggiù è stabile, fisso, immutevole, «ma sol esistono convenzioni che si modificano secondo l’ambiente? Chi conosce a fondo i vari ambienti sociali ben si avvede che le convenzioni e la morale stessa non sono che parole senza valore». Ma allora, in forza di che si muove l’uomo nel folto della vita sociale? Semplicissima risposta: «il solo vero sentimento che la Natura ha in noi riposto è l’istinto di conservazione, istinto che diventa nelle nostre Società moderne interesse personale; per soddisfare il quale una sola cosa provvede completamente e cioè il denaro». E così di seguito.

 

8 — Balzac sociologo ... e sociologo pessimista.

 

  Più o meno moderne vedute sociologiche basano la fondamentale concezione e interpretazione della struttura e della vita sociale sui seguenti punti: la popolazione si aggruppa naturalmente in cerchi sociali gli uni diversi dagli altri; nascono non meno naturalmente concorrenze e opposizioni tra siffatti cerchi sociali; cause di ordine biologico-individuale, da un lato, e categorie varie di ordine mesologico, dall’altro, influiscono con maggiore o minor forza, secondo i luoghi, i tempi e gli individui, sulla formazione e sull’attività dei sopra detti cerchi sociali; anche nell’interno degli indicati gruppi e cioè tra gli elementi o molecole di ciascuno di essi gruppi si scatenano concorrenze di ogni genere aventi per scopo il predominio di tale o tale altro di siffatti individui o elementi sugli altri e il passaggio di essi a gruppi superiori, o ascesa sociale, interna ed esterna, con relativi fenomeni di degradazione per tale o tale altro di tali elementi che cadono in basso, fenomeno di « rotazione sociale » prodotto sia dalle individuali qualità personali di ciascun soggetto, sia da necessita ambientali. Ora, la Commedia umana balzacchiana presenta per l’appunto la, diremo così, drammatizzazione di alcuni dei su detti fondamentali principii assunti come una vera e propria visione – da parte di Balzac — dell’intimo meccanismo che governa le formazioni e le attività delle umane Società. Se ne veda qui qualche documentazione che, sebbene frammentaria, non sarà per ciò — se non ci sbagliamo meno efficace.

  Innanzi tutto, esistono nella Società — scrive Balzac altrettanti cerchi sociali (e per conseguenza altrettanti differenti gruppi di uomini) quante sono le varietà animali in zoologia. «Se Buffon – continua Balzac – ha scritto una magnifica opera cercando di rappresentare l’insieme della zoologia, non vi sarebbe forse da scrivere opera del medesimo genere per l’umana Società?» (Avant-propos).

  Orbene, la Commedia umana, per l’appunto, darà descrizione – nel pensiero di Balzac – dei diversi cerchi sociali, cercando trattare il Regno intero di quaggiù proprio come l’altra Commedia, la Divina, aveva descritto tutti i cerchi della vita eterna d’oltre tomba. Il creatore della nuova Commedia scrive puranco, ricorrendo al suo immaginoso stile, che gli abitanti dei diversi cerchi o ambienti sociali — soldati, operai, amministratori, scienziati, uomini di Stato, oziosi, ecc. — presentano tra loro differenze più considerevoli di quelle che distinguono il lupo, il leone, il corvo, il pescecane (Avant-propos). Figura retorica che, senza dubbio, fu ispirata all’immaginifico scrittore dalla persistente, idea di riavvicinare la propria opera, ricavata dall’esame della vita sociale, a quella compiuta da Buffon e da Saint-Hilaire nello studio del mondo zoologico. Idea, probabilmente, sorta quando parecchi scritti balzacchiani, rappresentanti l’umana Società, erano già stati pubblicati poiché il celebre Avant-propos, in cui tale idea è espressa, porta la data del 1842, epoca in cui i due terzi almeno della Commedia umana avevano già reso celebre il loro autore.

  In secondo luogo: quali sono le cause che hanno agito e agiscono per creare le sopra dette differenze tra le varie «espèces sociales»? Balzac non è un semplice narratore che descriva; è un narratore che osserva e che vuole spiegare. Rerum cognoscere causas, e a ciò fare più volte egli si prova. Senonchè, talvolta si dichiara in favore della dottrina ambientale, tal’altra per quella che vede il motivo della differenziazione degli uomini e dei cerchi sociali nelle congenite qualità individuali. Nei riguardi della prima interpretazione, ecco il Nostro affermare che i luoghi, i suoni, le cose tutte che colpiscono i sensi, preparano l’umana conoscenza (l’entendement) e formano il carattere (L’enfant maudit, p. 37). Basta condurre pochi passi per le vie — osserva ancora il Nostro — per rendersi conto della segreta influenza esercitata dai luoghi sulle disposizioni dell’animo (Id., p. 5). E ancora una volta si fa mostra di riavvicinamento con le vedute dei naturalisti: l’eterno onore di Geoffroy Saint-Hilaire sta nell’aver proclamato —- parla sempre Balzac — che l’animale è un qualche la cui forma esterna prende origine nell’ambiente ove esso è stato chiamato a svilupparsi ... Sotto tale rapporto la Società rassomiglia alla Natura poiché essa crea gli uomini secondo gli ambienti (Avant-propos).

  Quanti personaggi, tuttavia, nella Commedia umana par contradicano il sopra detto principio, personaggi la cui intelligenza e la cui anima combattono trasformando e dominando tutto ciò che li circonda, riuscendo a creare le loro posizioni sociali in questo o quel cerchio o essendo costretti dalle proprie deficienze mentali e altre a cadere nel basso! E quante volte lo stesso Balzac proclama la straordinaria possanza delle qualità congenite dell’uomo, capaci di aver ragione dell’ambiente! Si compiace, persino, nel seguire Gall e Lavater nelle loro ipotesi e nel ricollegare i gesti e le azioni degli uomini alla conformazione materiale e congenita degli uomini stessi: «il destino delle umane creature si legge nel loro volto stesso» (Une ténébreuse affaire, p. 3). E proprio nel cercare rapporti di tal genere tra la vita della materia e quella dello spirito, Balzac conclude col mettere più di una volta i caratteri psichici degli uomini a carico della loro conformazione fisica e con il mostrare come quei caratteri psichici contrastino spesso con l’ambiente e possano dominarlo. «Perché mai il cuore umano dovrebbe mutare, sol perché l’individuo cambia vestito?» (Autre étude de femme, p. 157). Si ascolti ciò che egli dice quando parla del tetro e tanto avverso ambiente costituito dalla miseria: «Miseria, fuoco ardente dal quale i grandi cuori escono puri e incorruttibili, quasi diamanti che possono essere sottoposti a ogni sorta di colpi senza spezzarsi» (La messe de l’athée, p. 181). E allora?

  Si direbbe, dunque, che il grande «sociologo» realista e naturalista abbia visto ben da vicino le due categorie di forze (ambiente, individuo) che agiscono sull’umana condotta, sulla formazione e sulla differenziazione dei gruppi sociali, ma le ha considerate, per così dire, partitamente e separatamente, quasi dimenticando una di esse quando si abbandonava a considerare soltanto l’altra o, piuttosto, ha mostrato volta a volta individui e gesti per i quali prevaleva una delle due categorie di concause, mentre l’altra si faceva più forte in altri.

  Ed ecco, inoltre, alcune osservazioni di ordine «sociologico» che in questi ultimi tempi soltanto sono state approfondite e vivificate con metodo scientifico, ma sulle cui linee generali Balzac già insiste prendendone coloratissimo motivo per rendere drammatiche le sue narrazioni. Da un lato, ecco mostrarsi l’eterno fatto delle lotte che si preparano e si scatenano tra i vari gruppi e cerchi sociali, cioè a dire concorrenza tra gruppo e gruppo e vero furore da cui ogni gruppo è pervaso per soddisfare le proprie egoistiche istanze o per sopraffare i concorrenti. I naturalisti ben parlarono delle lotte e delle concorrenze — e delle sopraffazioni — che, nel grande teatro della Natura, si manifestano tra le varie categorie di esseri viventi (sempre a dimostrazione dell’«ordine» che regna nell’Universo! potremmo noi incidentalmente osservare), ragione per cui il romanziere realista e naturalista non poteva davvero astenersi dal descrivere quelle che si manifestano tra gruppi e cerchi sociali viventi in Società. E ciò, anzi, dando maggior forza e vigore, nelle sue descrizioni, alle tinte che la vita sociale stessa gli offriva.

  D’altro canto, ecco mostrarsi nella Commedia umana l’eterno fenomeno, più o meno visibile, di cui è teatro ogni umana Società, fenomeno che va oggi sotto l’indicazione di: circolazione delle molecole sociali (alcune delle quali ascendono, mentre altre precipitano).

«Gli uomini come gli animali, si gettano gli uni contro gli altri, ma tra quelli, in forza della loro maggiore intelligenza, la lotta è assai più complicata (Avant-propos); in tali combattimenti colui che vi tradisce meno di ogni altro è quegli che vi tira addosso una pistolettata all’improvviso e in pieno petto ... Grazie a tali lotte un semplice droghiere può diventare pari di Francia, mentre un conte o marchese può cadere sull’ultimo gradino della scala sociale (Avant-propos) «simile a una pietra lanciata in un baratro e che di caduta in caduta s’inabissa sino a perdersi nel fango». Una vera ... circolazione delle aristocrazie!

  Ma, infine, quali sono, precisamente, e sempre nella Commedia balzacchiana, le qualità o le caratteristiche della personalità più adatte per innalzare gli uni, in tale rotazione, e per abbassare gli altri o per mantenerli nel basso loco in cui già si trovano, sempre ammesso che siano proprio le qualità personali che determinano e decidono i risultati delle sopra dette differenze? L’interpretazione cui più spesso si volge l’autore della Commedia è piuttosto pessimista, come già si è visto quando, poco indietro, si è dello della disonestà trionfatrice nella vita sociale, degli aforismi pessimisti e dei credo non meno pessimisti della Commedia umana. Quante volte Balzac afferma che le anime delicate, prive di quello spirito di intrigo che conduce al successo, mai trionfano nella vita se non per caso, o vuol far credere ai suoi lettori che gente onesta è quasi sempre ingannata nel grande mercato della vita, o proclama che l’ambizioso trionfante è un fratello— illuminato — del malfattore, o fa comprendere, che gente realmente per bene non gode di alcuna considerazione, e che i grandi trafficanti di denaro, e anche gli uomini di Stato, non sono davvero modelli di virtù! L’alta finanza «c’est la Chambre haute des scélérats de bon ton» (Les Marana p. 55). Nella Commedia stessa uomini di governo, fortunatissimi nella loro carriera, quali Rastignac e altri, non sono davvero da prendersi a esemplari per una guida del vero gentiluomo. «A la honte des hommes — dice un personaggio della Commedia — quanti j’ai voulu donner une poignée de main à la vertu je l’ai trouvée grelottant dans un grenier ...».

 

9. — La Storia, per Balzac.

 

  Le sopra dette vedute, tendameli tali per Balzac – e fors’anco per una concezione scientifica della struttura e della vita delle umane Società – si rischiarano di ancor maggiore luce quando si veda in qual modo Balzac consideri e «spieghi» i fatti e i personaggi della Storia. Giorgio Byron aveva già scritto nel suo Lara, facendo aggirare pensoso il suo eroe tra vecchi monumenti e vecchie reliquie, e mostrandolo ritornare col pensiero alle tradizioni più antiche e a polverose pagine di Storia, che da quel materiale «toglie la Storia le sue bugiarde lodi e i suoi biasimi e la menzogna eterna» (Canto I). Par che Balzac non fosse di opinione diversa. «Il est certain que les historiens sont des menteurs» che si prestano a presentare i fatti così come al loro pubblico possono gradire (Catherine de Médecis (sic), prime righe de l’Introduction); ciò che si dice, di solito, sui grandi personaggi della Storia – grandi per virtù o per scelleratezze – ciò che si dice delle grandi figure del Pantheon letterario-filosofico, non è in gran parte che una incrostazione di continue menzogne; Balzac ne dà erudita rassegna nella stessa Introduzione or citata. A ben guardare la Storia, si trova che essa si permette di adoperare due diverse morali, a seconda che si tratti di giudicare i potenti o gli anonimi; il romanziere può darsi il lusso di mostrare puliti i malvagi e i perversi, ma la Storia non dovrebbe avere siffatte libertà (Avant-propos). Ma allora — continua sempre Balzac — tra le grandi figure della Storia, e che sembrano guidare — almeno guardando in superficie — i fatti della storia stessa, accanto ai Martiri sono forse, in maggiore quantità, i perversi? Dalle digressioni storiche che qua e là si trovano nella Commedia pare che l’Autore propenda per siffatta interpretazione. Insistendo, poi, sulla Storia vera e sulla Storia falsa o, meglio, su quella che non si vede e quella che si vede, Balzac fa a lungo parlare uno dei suoi personaggi (Illusions perdues, II, p. 306 e segg.), e per quanto il personaggio in questione sia il diabolico, malefico e cinico ex forzato Vautrin che, sotto le spoglie dell’abate Carlo Herrera parla a Lucien, e per quanto, quindi, vi sia da aspettarsi da lui ogni sorta di perversi paradossi, è certo che in quel dire traspare l’amaro pensiero di Balzac: «Vi sono due Storie, dice il mefistofelico personaggio, la Storia ufficiale, menzognera, che viene insegnata, una Storia ad usum Delphini, ma sotto di essa vi è la Storia segreta che narra le vere cause degli avvenimenti, e questa è una storia vergognosa» (une histoire honteuse) ... Sùbito dopo: «Tutti i grandi uomini della Storia sono mostri» ... Vi siete mai reso conto dei sistemi per mezzo dei quali i Medici, da semplici mercanti pervennero al granducato di Toscana? Proprio come Richelieu divenne ministro.

 

10. — Balzac «sociologo» descrive realisticamente i varî strati della Società.

 

  Abbiamo detto: la «sociologia» di Balzac e abbiamo al proposito indicato come, intendendo noi la sociologia quale lo studio dei fatti costanti, o «leggi», che governano — anche invisibili ed anzi, spesso, invisibili o mascherati — la struttura e la vita delle Società, proprio nella Commedia umana si trovino pittorescamente illustrate quelle leggi». Aggiungiamo ora che, se nel quadro della sociologia si intende pur collocare — il che, tuttavia, è da discutere — la descrizione, obiettiva, da compiersi secondo metodo scientifico, delle istituzioni sociali, dei fatti sociali più o meno ordinatamente catalogati e soprattutto dei gruppi, o cerchi, o categorie, o strati sociali (e degli ambienti speciali a ciascuno di tali gruppi ecc.) proprio nella Commedia umana troviamo obiettive descrizioni, sia pur compiute con animo d’artista più che con mente di studioso metodico, dei vari gruppi, o cerchi, o categorie, o strati sociali, e dei loro ambienti. Ragione per cui, anche a tale proposito potremmo parlare della «sociologia» di Balzac. Del resto, l’esame descrittivo, e anche interpretativo, in questione, può ritenersi come preparatorio alla costruzione di una sociologia intesa nel nostro senso, ora indicato.

  Ecco, rapidamente, qualche cenno su tale speciale caratteristica dell’opera balzacchiana [...]. Invero, descrivere minutamente gli ambienti e i personaggi che sono speciali a ciascun gruppo sociale – e con minuzia corredata da relative interpretazioni – costituisce appunto una delle tante prove del «realismo» narrativo e di esso realismo mostra il metodo. Il che, prima di Balzac mai era stato fatto.

  Tremila personaggi di tutta un’epoca – dichiara Balzac nel suo Avant-propos scritto nel 1842 quando già non pochi romanzi della Commedia erano stati pubblicati – figurano e figureranno nella mia Commedia umana ... Formerà essa la Storia generale della Società! E in quelle pagine stesse dell’Avant-propos Balzac si compiace nel fare rassegna di tutti gli ambienti e di tutti gli strati sociali di cui ha dato o darà notizia mostrando figure, azioni, scenari; e già là appare l’impressione pessimistica che si ricava dalle visioni di quelle pitture poiché, come Balzac ricorda, le Scene della vita privata rappresentano le colpe della giovinezza, quelle della vita di provincia stanno a dire delle passioni, dei calcoli, degli interessi e dell’ambizione dell’adulto mentre le scene della vita parigina riflettono i vizi, le seduzioni, particolari alle grandi metropoli nelle quali fioriscono al tempo stesso l’estremo bene e l’estremo male, l’aria anche delle scene della vita militare, ancora incomplete, o di quelle della vita di campagna e di quelle ancora della vita politica, il tutto formando «l’assise pleine de figures, pleine de comédies et de tragédies». Per avere idea — espressa in numeri, come in una specie di statistica — della varietà di categorie professionali e sociali, abitanti i più diversi mondi della Società, che popolano la Commedia balzacchiana, ci si potrà fermare su quei personaggi che figurano più volte nella Commedia stessa, così come ha fatto Ethel Preston nel suo curioso libro: Recherches sur la technique de Balzac (Paris, 1927). Vi si trovano tredici appartenenti al clero, diciannove uomini politici, quattro diplomatici, ventisei funzionari, quarantadue militari dell’esercito di terra, cinque ufficiali di marina, quattordici magistrati, ventidue avvocati o notai, dodici tra banchieri e agenti di cambio, dieci usurai, otto medici, venticinque tra scrittori, uomini di lettere e giornalisti, quattordici tra pittori, scultori o architetti, sei tra musicisti e cantatrici, diciannove tra attrici. danzatrici e cortigiane, sei uomini di polizia, cinque ergastolani, quarantanove commercianti, ed altri di ogni sorta: mercanti di panni, speziali, albergatori, stampatori, librai, profumieri, ricamatrici, chincaglieri, rilegatori, sarti, tappezzieri, pescatori, imbianchini, mugnai, ecc., e persino quattordici domestici o domestiche, senza dire di una grande quantità di personaggi (circa duecento tra uomini e donne) che non hanno professione pur agendo in primo piano o quasi e che ricompaiono più volte. E senza dire, ripetiamo, dei personaggi che appaiono una sola volta e che, contati ingrosserebbero le cifre della statistica in questione. Accenneremo, di passaggio, al fatto che l’opera di cui le presenti pagine costituiscono un frammento, dedica proprio un capitolo a «Balzac in numeri», nel quale si mostra, con corredo di cifre, in qual modo alcune caratteristiche dello stile, dei personaggi e delle scene della Commedia umana, siano state tradotte in veri e propri quadri statistici (lunghezza del periodo nelle opere giovanili e nelle opere della maturità di Balzac; colore degli occhi e dei capelli dei personaggi della Commedia umana, e suo significato secondo Balzac; uso abbondantissimo delle citazioni di nomi di uomini illustri e preferenze per i nomi di Walter Scott, di Rossini e anche di Lavater, di Gall, di Buffon ... numero e designazione degli animali a cui solitamente Balzac confronta il volto e i movimenti dei suoi personaggi, ecc. ecc...

 

11. — Qualche insufficienza?

 

  Centinaia di personaggi, dunque, figuranti nei più vari ambienti e strati sociali. Senonchè, è da dirsi ciré in siffatto mosaico — grandioso — della vita sociale nelle sue varie stratificazioni manca o quasi (o non è sviluppato a dovere) lo scenario, con i suoi personaggi, del basso popolo e che quello della delinquenza e della mala vita femminile e forse presentato con tinte che non sono proprio da ritenersi come assolutamente «veriste» e come, infatti, l’analisi scientifica che venne dopo Balzac potè mettere in evidenza. Anche su questo punto l’opera di cui le presenti pagine costituiscono semplice frammento dà illustrazione; qui diremo soltanto qualche parola nei riguardi delle tre accennate mancanze o insufficienze.

  a) Senza dubbio, rappresentanti di piccoli mestieri, artigiani e povera gente sono presenti nella Commedia e Balzac si spinge persino più volte a mettere sulle labbra di alcuni suoi personaggi le espressioni verbali che sono proprie del parlare del basso popolo [...], ma non può negarsi che manchi una ben definita visione della popolazione operaia e del basso popolo, e con essa l’ambiente tutto in cui tale popolazione si muove. L’Assommoir e il Germinal di Emilio Zola, crudeli incisioni rappresentanti il mondo e i costumi degli operai delle grandi città (l’Assommoir) o dei minatori (Germinal) verranno più tardi. Potrebbesi forse aggiungere che anche mancano, nel grande mondo balzacchiano, gli orizzonti e le figure dei campi ... e ancor qui occorrerà aspettare che Emilio Zola adoperi le più fosche tinte del suo spietato spirito verista per dipingere la Terre; e ciò per quanto la lunga storia balzacchiana che porta il titolo Les paysans, narri appunto del frazionamento cui va incontro la grande proprietà terriera, assalita e depredata dalle ingordigie dei piccoli e minuscoli contadini. L’opera in questione dette motivo a taluno, (G. Lukacs) di indicare Balzac quale un autentico marxista, precursore dei «tempi nuovi», ma non si comprende bene la legittimità di tale asserzione dal momento che, da un lato, le numerose pagine in cui — lungo tutta la Commedia – Balzac si sbizzarrisce a correre, anche per traverso, nell’immenso e contradittorio campo delle sue idee politiche, ognora attestano la presenza tenace di idee che oggi chiameremmo «reazionarie», nel pensiero balzacchiano, mentre d’altro canto, in quella lotta tra la grande proprietà, nobile e austera, e l’ingordigia dei piccoli che corrono come sciacalli a spezzettarla e a divorarla, Balzac prende evidentemente partito in favore dei grandi e non dei piccoli, tra i quali ultimi frammischia terribili e miserabili usurai.

  b) E il mondo del delitto e dei delinquenti? Ben si prestava a descrizione realista e verista — anche soccorsa dai suggerimenti del naturalismo — lo scenario della delinquenza su cui profilare i vari tipi di delinquenti. Figure di delinquenti veri e propri, abitanti o aventi abitato le prigioni, non mancano, e primissima figura, in altissimo rilievo, quella dell’ex forzato Vautrin, di suo vero nome Collin, e poi ecco le figure di Bibi-Lupin, di Crochard, di Sélier detto l’Auvergnat, e anche di Bourignard detto Ferragus, per non far cenno di qualche altro che appare nelle descrizioni e nelle scene riferentisi alle prigioni. Ma è subito da dirsi che figure di tal genere sembrano uscir piuttosto dalle fantasmagorie di una accesa fantasia, intenta a drammatizzare e a sorprendere il lettore e non a ritrarre le dure linee della realtà. In ciò, Balzac rimane il Balzac dei vent’anni che si lanciava a scrivere le più ardite, immaginose, fantastiche e sorprendenti storie da romanzo d’appendice, con relativi fantasmi, caverne, spettri, veleni e sorprese di ogni genere (su tale caratteristica dell’opera giovanile balzacchiana, parte della quale fu pubblicata la prima volta con un pseudonimo ma più tardi con il nome stesso di Balzac) è trattazione in una parte dell’opera di cui le presenti pagine non sono che un frammento. Nella Commedia, il gran malfattore Vautrin, sopratutto, figurante come il più aspro personaggio del mondo del delitto, difficilmente potrebbe essere inquadrato – checché ne dica qualche studioso, più o meno frettoloso, dei delinquenti di Balzac — in ogni sua linea nelle figure che l’antropologia e la psicologia criminale seppero mettere in evidenza.

  Tuttavia, qualche preciso riflesso dell’analisi obiettiva e scientifica pur si trova, sia in queste vite e in questi ambienti criminali della Commedia stessa ove par sia delineata schematicamente una interpretazione che può dirsi veramente scientifica della condotta, criminale o no. Si fa comprendere, cioè, come già indicammo, che la condotta in questione è il prodotto, da un lato, della pressione ambientale e, dall’altro, del carattere personale; congenito e, quindi, dell’ereditarietà biologica e biopatologica. Talora prevale l’una di queste cause, talora l’altra, secondo le condizioni individuali e ambientali. Gli è che — come si legge in una pagina de La peau de chagrin (p. 81) — quando si arriverà a comporre una storia naturale dei cuori umani in modo da classificarli in generi, sottogeneri, famiglie, si troverà che ne esistono come se fossero crostacei, o fossili, o minerali, e quindi completamente insensibili, mentre altri ve ne sono delicati e teneri, come fossero dei fiori, che si spezzano al minimo contatto. Di qui l’importanza da accordarsi alla tempra congenita dell’individuo nelle sue reazioni — criminali o no — alla pressione ambientale.

  D’altro canto, un eminente psicologo quale il nostro Scipio Sighele, creatore — o quasi — dell’esame scientifico della psicologia a due (o psicologia della coppia, delinquente o non delinquente) crede potere asserire che Balzac ben seppe vedere la formazione e il modo di agire della coppia criminale – Vautrin da un lato e Lucien de Rubempré dall’altro — mostrando l’azione suggestionatrice del forte, potente, intransigente Vautrin incube, e la debolezza accogliente, passiva, facile a lasciarsi suggestionare di Lucien, il succube. «Io sono l’autore, dice Vautrin al suo succube, tu sarai il dramma».

  c) Maggiore accostamento al vero, con descrizioni minute, obiettive e — quando è necessario, in omaggio alla verità — prosaiche, nella Commedia quando si tratta di mettere sotto gli occhi del lettore il mondo delle prigioni e l’apparato giudiziario, dall’istruttoria alla Corte d’Assise. [...]. Qui ricorderemo soltanto come, per il mondo delle prigioni, Balzac faccia la storia della Conciergerie — la celebre prigione dalle puntute torri, sul fianco della Senna — e di quella prigione descriva l’architettura oltre che le cancellate, le scale sotterranee, le abitazioni dei guardiani, il cortile dove passeggiano i carcerati e riporta pur di essi il fiero parlare in gergo. In quanto al mondo giudiziario, si danno minute e minutissime descrizioni, mostrando non solo figure varie di magistrati, piccoli e grandi, integerrimi e meno integerrimi, e figure varie di avvocati e di notai, ma pur facondo assistere il lettore a interrogatorî – da parte del giudice istruttore – e a inchieste, e descrivendo i vari modi e le varie astuzie dell’interrogante. Le vicende giudiziarie, del resto (ma in materia civile e commerciale) che travagliarono la vita del Nostro avevano ben dato a lui occasione continua di osservare, di lamentarsi ... e di vendicarsi con le sue descrizioni e narrazioni. Persino il dibattito in Corte d’Assise è, si può dire, fotografato o, meglio (ci si permetta l’espressione anacronistica) cinematografato. Nel romanzo Une ténébreuse affaire, di cui fu detto costituire un vero e proprio romanzo giudiziario poiché sono in azione, in quelle scene, uomini di polizia, astuti e indagatori, oltre che magistrati che interrogano, la descrizione del dibattito in Corte di Assise occupa largo spazio non trascurando alcun particolare, anche aridissimo, a cominciare dall’ambiente e cioè dai locali stessi – e relativi mobili logori e quasi funebri ... tout était triste et vulgaire. [...]. In quello scritto è anche larga trattazione di ciò che riguarda la minuta descrizione dei personaggi e delle azioni investigative del mondo poliziesco, con le celebri figure balzacchiane degli agenti Corentin, Contenson, La Peyrade ... descrizioni in cui, accanto a impressionanti tratti di verità, si trovano noti poche venature di fantasticheria ma tali, in ogni modo, che giustificherebbero pienamente chi volesse presentare anche Balzac come un precursore del romanzo giudiziario (rosso o giallo che dir si voglia) moderno.

  d) Osservavamo poco sopra che nel grande scenario, animato da mille e mille personaggi, della Commedia umana manca anche la rappresentazione della mala vita femminile, in ispecie della bassa mala vita femminile e del suo ambiente. [...]. Qualche studioso balzacchiano ha notato come in nessuna creazione narrativa dell’epoca, o dei tempi precedenti, le cortigiane di alto bordo prendessero tanta parte come nell’opera del Nostro. Sta bene. Ma quali i caratteri «realisti» o «veristi» delle figure e degli ambienti balzacchiani in proposito? Potrebbero quelle figure, o alcune di esse, venir considerate come un’anticipazione dei moderni o meno moderni studi antropologico-criminali e ambientali sulla prostituzione, quali comparirono a cominciare dalle pagine del Lombroso e del Ferrero per venir poi, ai nostri dì, alle pretese e sorprendenti interpretazioni psicanalitiche? [...]. Sotto quale luce, dunque, appaiono le cortigiane della Commedia? Per parecchie di esse si direbbe davvero trattarsi di una visione precorritrice del tipo della, diremo così, peccatrice nata di cui dirà più tardi la citata antropo-psicologia criminale. Peccatrice nata, sopratutto, per i suoi caratteri psichici di insaziabilità, di egoismo e di durezza. Florine, ad esempio, è donna perduta (fille dangereuse, dépravée, extremement corrompue ... come è detto in Une fille d’Eve). Altrove Balzac dice anche avere essa la malice froide de la courtisane accomplie (nelle Illusions perdues). Donna perduta, questa Florine che, tuttavia, sa brillare per le sue qualità di attrice. Medesimamente, ecco Aquiline — ma si tratta di una professionale — essere indicata come «senza cuore» e come, per di più, «anima del vizio», mentre la sua collega di professione, Euphrasie, è un «vizio senza anima» (La peau de chagrin, p. 74). Ciò nonostante, in altra narrazione (Melmoth réconcilié, di data posteriore alla Peau de chagrin) la bella e crudele Aquiline è presentata, all’inizio stesso della sua triste carriera, non davvero come donna perversa per natura congenita, ma come vittima delle circostanze che la indussero al male. Contradizione? Sta di fatto, in ogni modo, che nelle stesse pagine Balzac fa notare che tra le giovani di quella categoria ve ne sono che cadono «pour obéir aux lois de leur constitution». Ma quante volte la Commedia porta sulla scena donne perdute dall’animo amante, affettuoso, pronte ad ogni sacrificio e, anzi, sacrificanti si esse stesse per il loro amato! Tra le quali donne primeggia Esther, dal soprannome la torpille, cortigiana vilissima dapprima, ma poi martire silenziosa, devota e lacrimosa. In quell’affetto verso l’essere amato e in quella completa dedizione, sino alla tomba, «una prova di quell’amore materno – scrive Balzac – «que ces sortes de femmes mêlent à leur passion» (Illusions perdues, I, p. 349). [...].

 

11. – Interpretazione del pessimismo balzacchiano.

 

  Balzac è un realista e naturalista; vede e vuol vedere la vita quale è. Di qui il suo pessimismo. Ma bisognerebbe pur chiedersi come mai abbia potuto egli giungere a tanto dal momento che il suo temperamento non era davvero da pessimista, ma piuttosto da esuberante e vivace ottimista. Non sarebbe inutile divagazione il discorrere alquanto su quest’ultimo punto. Temperamento fondamentalmente ottimista, abbiamo detto; ma perché?

  In altre pagine del presente lavoro alcune di esse sono consacrate ad esaminare il volto dell’autore della Commedia umana e alle induzioni — circa il carattere di lui — che si possono trarre da quel volto e sono anche consacrate alle descrizioni che i contemporanei ebbero a fare del modo di comportarsi del grande narratore. Dal volto, infatti, e dall’insieme della persona corporea, e cioè dal tipo costituzionale, si hanno indicazioni sull’«umore» della persona stessa, dal volto — per citare i casi più in rilievo — alla depressione e al pessimismo, o all’esuberanza ottimista, o all’alternarsi di depressione e di esaltazione. La moderna caratterologia è ricchissima di tali indicazioni. Che cosa risulterebbe, nei riguardi di Balzac, da siffatto esame?

  Nelle pagine in questione, si trattano successivamente i seguenti punti: a) il volto di Balzac come risulta dall’iconografia che si può raccogliere e che è stata raccolta in proposito, comprese le caricature che ebbero a farsi del volto di lui; b) descrizioni del volto stesso della persona e soprattutto della psicologia di Balzac, così come i suoi contemporanei ebbero a fare; c) poiché Balzac in parecchi personaggi della sua Commedia descrive il proprio volto, che cosa si impara da tali descrizioni? d) e ancora: poiché Balzac in quegli stessi personaggi rispecchia alcuni fondamentali e drammatici aspetti della sua vita interiore, che cosa a loro volta tali descrizioni lasciano supporre? e) non siano dimenticati i grafologi che dalla scrittura di lui vollero trarre induzioni sulla sua psicologia.

 

a) Il volto e il carattere.

 

  Riassumendo, ecco l’iconografia balzacchiana — bella raccolta si trova nell’opera su Balzac dovuta a Pierre Abraham (Paris, 1929) – insegnare: testa voluminosa, fronte alta e larga, segnata da forti rilievi, faccia rotondeggiante, naso largo e quasi quadrato in sulla punta, larga bocca sorridente, tumide labbra, densi capelli nerissimi, sguardo scintillante; e poi: media statura, larghe spalle, collo corto, grosso e forte ... È dunque un brevilineo. Le caricature stesse non fanno che esagerare alcune linee che meglio mettono in evidenza quel tipo costituzionale, come a dire: rotondità lunare, o quasi, della faccia, e persino doppio mento, enorme circonferenza del collo, ventruta corpulenza, gambe corte, faccia gioviale. Tutto sta a indicare, secondo la caratterologia più recente e anche secondo l’antica dottrina dei temperamenti, un esuberante, affacciato da curioso alla vita, extrovertito, e — perché no? – amante del ben vivere e della buona tavola, pronto allo scherzo, socievole.

  E le descrizioni del volto di Balzac fatte dai contemporanei? Léon Gozlan fa un ritratto fisico di Balzac che ben mette in evidenza il tipo, come oggi si dice, «picnico» quasi alla Sancio Pancia; altro ritratto fisico, minutissimo, fu presentato da Théophile Gautier che si compiace a dire della fronte, delle labbra, del naso, e a lungo della mano, di quella mano femminile e grassoccia di cui Balzac traeva vanto e che, come la moderna morfologia ha più volte mostrato, è in intimo rapporto, per la sua forma, le sue dimensioni e le sue caratteristiche, con il tipo costituzionale o può essere indice del carattere. E l’occhio? «Vita, luce, magnetismo inconcepibile: due diamanti neri illuminati a tratti da guizzi d’oro» scrive ancora Gautier nei suoi: Portraits contemporains, pag. 47 e seguenti dell’edizione del 1880, Paris.

  Ma dai contemporanei si hanno pur dirette notizie sul carattere: espansivo, dedito alla socievolezza, alla conversazione brillante, buono, elevato e dolce. Una pagina di Lamartine – rammentata da S. de Pilato nel suo Balzac e il mondo giudiziario (Napoli, 1937) – parla del singolare fascino che esercitava, parlando, sui suoi interlocutori, il nostro Balzac, mobile nel corpo (si abbassava sino a terra e poi si alzava sulla punta dei piedi quasi volesse seguire il volo del proprio pensiero) gaio e leggero suscitando intorno a lui simpatia e una bonté communicative, fisonomia che mai avrebbe potuto esprimere odio o bramosia, sempre aimante et charmante.

  Dicevamo: si interroghino anche i grafologi, checché si pensi della grafologia. Dicono costoro, anatomizzando la scrittura balzacchiana, pesante, movimentata, irregolare, che essa rivela «la mobilità dell’istinto, il capriccio della passione e l’eccletismo dell’intelligenza, vale a dire la facoltà che questa ha di assimilare le più diverse dottrine ... Invero, il grande Balzac ebbe genio immenso e studiò ogni branca dell’umano sapere» (M. Decrespe, Graphologie, Paris, s.d., I, pag. 71).

  D’altra parte, singolare iconografia balzacchiana può trarsi dalle descrizioni che Balzac fa del proprio volto o, quanto meno, di alcune parti di esso quando si compiace ritrarsi in questo o quello dei suoi personaggi. Pierre Abraham ha consacrato molte pagine della sua opera sulle Créatures chez Balzac (Paris, 1931) a tali autoriproduzioni; esse si manifestano in otto personaggi della Commedia nei quali può ritrovarsi il Balzac, nel suo fisico e anche nelle sue avventure e disavventure psicologiche, alle varie età della vita: Louis Lambert (bimbo, allievo in un collegio— e anche più tardi), Félix Vandenesse (sui 21 anni), Athanase Granson (23 anni), David Séchard e Daniel d’Arthez (sui 25 anni entrambi), Z. Marcas (33 anni), Savarus (35 anni) e finalmente Benassis (età matura). Ora, quelle descrizioni non contradicono ciò che l’iconografia diretta poteva insegnare, sebbene qualche divario qua e là si manifesti. Su ciascuno di quei visi – ma tutte copie più o meno approssimate del medesimo esemplare – vi è l’impronta della maschera balzacchiana piena di forza e aperta alle visioni del mondo esterno ... ma, in contradizione con quel volto, le angustie di quei personaggi fanno di ciascuno di essi – se non di tutti – un sofferente, se non una vittima.

  Insomma, dal volto balzacchiano, il tipo e il temperamento dell’espansivo esuberante. Ma nelle narrazioni che ritraggono la vita così come l’Autore la sentiva e la vedeva, un malinconico pessimista. Come spiegare la contradizione?

 

b) Dei varî modi di vedere e di descrivere.

 

  [...]. Vogliamo credere che in cotale motivo psicologico si trova appunto una delle principali ragioni per le quali l'ottimista Balzac si fa, da ottimista in profondità, pessimista in superficie?

 

c) Spiegazione?

 

  Assai da vicino Balzac aveva lottato con le asprezze della vita e le delusioni, e aveva visto il crollare di molte sue troppo audaci imprese; da ciò doveva naturalmente derivare uno stato d’animo che, nonostante la congenita giovialità, portava a fargli giudicare ben amaro il senso della vita. Dalla quale amarezza lo spirito si libera — o crede liberarsi – col comporre l’opera d’arte che riproduce quella vita, quasi per mostrarla in tutte le sue bruttezze all’intero pubblico e dire a questo: «Vedi quale orrore!». È una soddisfazione e anche (perché no?) una sorta di vendetta in cui il contristato «Io» sofferente trova qualche consolazione.

  Di queste sofferenze e di queste disillusioni — uno stillicidio quotidiano! — appaiono più volte le tracce, non solo attraverso le avventure dei personaggi della Commedia umana e attraverso le scene di essa, ma pur nella Correspondence (sic), abbondantissima, del Nostro. Lettere alla sorella Laura, all’amica e confidente Madame Carraud, all’ignota Louise, alla duchessa d’Abrantès e altre, nelle quali si trovano frasi come queste: essere la vita di lui une étrange et continuelle déception; oppure: la mia vita è stata di continuo contrariée; non trovare altra consolazione che nel lavoro, un lavoro di ogni ora e di ogni minuto che solo può risparmiare e far dimenticare ogni dolore; quando lavoro «dimentico le mie pene e ciò mi salva»; oppure: «mi tuffo nel lavoro e là, pur soffrendo, il cuore si placa (on souffre, mais le coeur s’apaise) ... Tra le amarezze, le disillusioni, gli immensi desideri mai soddisfatti, vengono a prender posto le preoccupazioni finanziarie che non infrequentemente assalgono il Nostro, tanto da fargli esclamare – sempre nella sua Corrispondenza – «Ohimè! la mia vita è vita da schiavo attaché à la glèbe dee ses dettes» ...Eppur – altra frase caratteristica in quella Corrispondenza – «la natura aveva creato in me un essere di amore e di tenerezza, ma la vita mi ha costretto a scrivere e descriverò i miei desideri invece di soddisfarli», e quindi – potremmo noi aggiungere – a considerare la vita come nemica o matrigna. Del resto, è forse da negare che sofferenze, disillusioni, preoccupazioni di ogni genere, abbiano talvolta fatto nascere nell’agitato pensiero del Nostro l’idea del suicidio? Era nato, quel grande, per essere gioviale, socievole, espansivo, affettuoso. Le miserie della vita e l’avversità degli uomini e delle cose (forse da lui esagerate) erano venute a battere sulla sua serenità e l’avevano incisa come la pioggia e il vento corrodono a poco a poco la più lucente e resistente immagine di marmo. Qualcuno trova indici di scoramento che va sino all’idea del suicidio, in quelle pagine in cui Raphaël, nella Peau de chagrin, tenta l’estremo gesto, e anche in una lettera nell’ottobre del 1836.

  La contradizione, dunque, tra il temperamento ottimista del nostro vivace romanziere realista e il pessimismo del suo modo di descrivere gli uomini e la Società, non è che apparente e svanisce quando si pensi al meccanismo oscuro, e poco visibile il più delle volte, con cui l’«Io» profondo reagisce alle disillusioni che ogni dì l’affanno della vita semina nel nostro cammino. Gli è che il pensiero balzacchiano non è già di un pessimismo congenito, come quello che intristisce sovente lo spirito del malinconico per innata natura, ma è piuttosto o essenzialmente un pessimismo acquisito che serve di reazione al dolore recato quotidianamente dalle continue disillusioni e dal continuo accertare che le ore e i giorni non si presentano con quel volto che le nostre aspirazioni sognavano; si tratta, dunque, di una reazione di ordine piuttosto intellettuale che porta sollievo allo spirito ingannato e che serve quindi di autoconsolazione per il provato inganno e di difesa dell’«Io» che, toccato e ferito, dà in tal modo sfogo al proprio soffrire. Quando, cioè, appettandomi dalla vita ogni bene e ogni successo, e credendo fermamente che in essa abbiano sol trionfo la Virtù e le Grazie, accerto invece che tutto il contrario avviene, uno dei modi di consolare se stesso della tremenda disavventura sta, appunto, nel dipingere quegli orrori, nel caricarne le tinte, nell’insistere sulla inesorabilità del male e del vizio: facendo il che, colui che dipinge o descrive ha l’impressione di colpire in viso le cose e gli uomini, di farne denuncia o accusa, sicché da tale impressione ricava sollievo e persino una specie di gioia tanto più viva quanto maggiore e l’arte con cui la cruda descrizione è fatta. Il dolore che stava, per così dire, rinchiuso nell’inferno dello spirito, si sprigiona ed esce all’esterno abbandonando o lasciando quasi deserta la sua oscura e aspra dimora. L’opera d’arte, allora, diventa naturalmente una specie di giardino segreto che lo spirito afflitto, o messo nell’impossibilità di sodisfare gli istinti suoi profondi, fabbrica a se stesso, aiuola per aiuola, giardino segreto in cui lo spirito vive e trova pace. [...].

 

  Note.

 

  Trascriviamo integralmente quelle note che ci sono parse maggiormente significative e complementari al testo.

 

  (1) Le varie parti dell’opera cui alludiamo trattano della distinzione tra realismo, naturalismo, verismo, nell’arte narrativa; del perché Balzac è da ritenersi il fondatore della narrativa realista e passano in esame, ad uno ad uno, tutti i contrassegni dell'arte realista quali appaiono nella narrazione balzacchiana. Ed inoltre mostrano come il realismo balzacchiano sia un realismo sui generis, frequentemente venato da vero e proprio romanticismo, un romanticismo che fu caratteristico a tutta la produzione letteraria giovanile dello stesso Balzac. Oltre di ciò si fa esame, diremo così, «costituzionalistico» del tipo fisico di Balzac indicando come l’autore della Commedia umana debba classificarsi tra tipi costituzionali brevilinei, espansivi, aperti alle cose e agli avvenimenti del mondo, gioviali ... per quanto tutta la Commedia umana sia un imponente monumento di pessimismo.

 

  (4) I romanzi di Balzac citati nel presente scritto sono in grande maggioranza dell’edizione detta del Centenario, non illustrata (1900 e anni seguenti, Parigi). Quando si tratta di altre edizioni (quella, illustrata, del 1853-1855, o di altre ancora), si dà precisa indicazione nell’opera della quale le presenti pagine non sono che breve frammento. [...].

 

 

  Alfredo Niceforo, Realismo e non realismo nell’arte narrativa di Honoré de Balzac. Frammenti di uno studio sul realismo della “Commedia umana”, «Atti della Accademia Nazionale di Scienze Morali e Politiche», Volume LXV, Napoli, Stabilimento Tipografico Guglielmo Genovese, 1954, pp. 138-163.

 

  Perché ha da ritenersi Balzac come un «realista» o, per meglio dire, quali caratteri della sua immensa opera — che, tuttavia, ha tanti segni di non realismo — danno a Lui diritto di chiamarsi realista e, anzi, il padre e il creatore del realismo? Quali, dunque, i caratteri del suo narrare che conferiscono alla narrazione stessa il colore realistico?

  Diremo come segue, facendo elenco dei caratteri in questione dapprima, e facendo poi nuovo elenco delle ragioni per le quali l’accertato realismo balzacchiano è, come vedremo, un realismo sui generis.

 

  1. — Perché Balzac è un realista?

 

  Innanzi tutto, Balzac è realista perché tutto descrive con minuzia fermandosi anche, e soprattutto, a ciò che la narrazione letteraria aveva insino ad allora disdegnato descrivere; ora, un ritrarre con fedele precisione la realtà, è compiere opera di «realismo». Si tratta di un metodo che il narratore propone a sè stesso: metodo realista (o verista?). Quante volte Balzac, al momento di prender le mosse per una descrizione particolareggiatissima, crede doversi scusare con il lettore per la lunghezza della descrizione che starà per fare! Si affretta ad aggiungere, però, che quella descrizione, così come è, si rende necessaria per ben comprendere gli uomini, le azioni e le cose che verranno di poi. [...].

  La scuola romantica che, nel 1830 con l’Hernani di Victor Hugo aveva dato la sua chiassosa e trionfale battaglia al classicismo di solenne e geometrica bellezza, si sarebbe ben guardata dal concedere attenzione — come ebbe a scrivere Théophile Gautier nei suoi: Portraits contemporains — e stima a ciò che non fosse elegantemente scritto e presentato con arte di cesellatore dispregiando qualsiasi rappresentazione di moderne scene e di inutili usanze, borghesi e prive di ogni lirismo ... Ma il realismo balzacchiano dava battaglia al romanticismo (sino a un certo punto, come vedremo) così come questo aveva dato battaglia al classicismo, e insisteva nelle sue «fotografie» o inventari di cose prosaiche e volgari. Per la prima volta ciò accade nella letteratura narrativa: aride indicazioni di conti di casa con enunciato di entrate e spese (in un romanzo, si noti, a colori sentimentali), e si trova inoltre, quando i personaggi si assidono al desco, la minuta di ciò che essi mangiano ... mentre gli Eroi del romanzo che precedette l’opera balzacchiana, ben di rado venivano mostrati in siffatti atteggiamenti. Medesimamente, vuole il romanziere realista che le sue figure e figurine parlino, oltre che il linguaggio corrente (sia pure esso adorno di ogni sorta di fiori e di luci) anche quello che è proprio al gergo — talora volgare, volgarissimo, abietto — di alcune categorie o gruppi di persone: ancora un motivo di schietto realismo.

  Ma realismo di tal genere in tutto appare, ed essenzialmente, nel tratteggio minutissimo e coloritissimo che si fa da Balzac del viso dei suoi personaggi, mostrato in ogni suo componente di forme, di colori, di espressione; e non solo del viso, ma anche dei tratti, diremo così, statici e dinamici della intera persona: portamento, tipo costituzionale, gesti, passo ... senza dimenticare la voce, il tutto con arricchimenti continui di induzioni sul carattere della persona che quei tratti presenta. Quei tratti, cioè, sono per Balzac veri e propri segni rivelatori della personalità; di qui la necessaria loro presentazione, non risparmiandone uno, perché il lettore possa ben «vedere» e comprendere il personaggio in tal modo descritto non appena esso appare sulla scena. Correlazioni, dunque, o corrispondenze, tra corpo e spirito, proprie al naturalismo.

  Tra le caratteristiche del realismo balzacchiano abbiamo pur voluto far figurare quella concezione pessimista dell’animo umano, da un lato, e della vita sociale, dall’altro, che risulta e ognor si esprime dalle narrazioni della «Commedia umana». Vedere pessimisticamente l’Umanità, nello spirito dei suoi componenti e nelle azioni delle sue Società, non è forse avere degli uni e delle altre concetto crudamente realista? [...].

  D’altra parte, non si addice forse all’opera balzacchiana il titolo di realista in quanto la descrizione completa degli ambienti e dell’epoca che Egli compie è tale che qualche illustre critico ebbe persino a dire essere stato Balzac uno «storico» del suo tempo? L’opera balzacchiana, cioè, in ragione della minuta e precisa ricostruzione dell’ambiente e dell’epoca con i loro personaggi, con i loro speciali modi di vivere e di pensare, costituisce — come ebbe a dire Ferdinand Brunetière nella sua monografia, talvolta acerba e dura, su Honoré de Balzac — in un certo senso una serie di romanzi storici e ciò non tanto — parla sempre Brunetière — perché questo o quello di essi trae motivo e materia da veri e concreti fatti di storia o di grande cronaca, ma perché, appunto, ricostruisce una epoca. Grandi romanzi comunemente detti, invece, storici poiché tutti intessuti su fatti storici e nei quali storici sono tutti i personaggi, possono benissimo per nulla essere romanzi veramente storici, dal momento che la storia vera e propria vi è a bell’ agio tramutata e falsificata ai fini estetici e magici (diremo così) del romanziere, sul qual punto Brunetière (nella sua opera su Honoré de Balzac, Paris, s.d.) che non pecca di soverchio spirito di riverenza verso gli altri, non esita a chiamare a testimonianza (di romanzi storici ... non storici) il Quintin Durward di Walter Scott. Non entreremo in merito.

 

  2. — Realismo sì, ma «sui generis».

 

  Balzac, dunque, è da ritenersi narratore realista, ispirato anche al naturalismo, ma dobbiamo affrettarci ad aggiungere che il realismo balzacchiano è realismo sui generis. Nè poteva darsi diversamente, poiché l’artista, anche se realista, non può essere un semplice registratore meccanico di ciò che gli sta intorno. Il suo spinto non è un insieme di congegni o ruote ciecamente e passivamente iscriventi ciò che viene da fuori, ma è, per così dire, in continua collaborazione attiva con la realtà esterna che si trasforma per tal modo — più o meno trasfigurata — in realtà interna. E ciò, per quanto l’artista faccia per essere fedele a un suo credo realista. [...].

 

  a) Una confessione di Balzac. — Balzac stesso, imperterrito «dagherrotipista» della realtà, scrive che tale realtà — così come è — ha bisogno del tocco dell’artista per non essere noiosa e per non diventare illeggibile quando è proiettata nella prosa di una narrazione; si trova l’abilità dell’artista nel cercare il vero, ma in quel vero occorre saper scegliere. «Beaucoup de choses véritables sont souverainement ennuyeuses» e il talento del romanziere sta nello scegliere «dans le vrai ce qui peut devenir poétique» (Le message, p. 259). D’altra parte, Balzac stesso confessa che la sua narrazione parte sì dal vero e da quel vero prende documenti oltre che ispirazione, ma quel vero può esser sepolto sotto un variopinto ricamo di assurdità e inverosimiglianze o frammischiato a queste. Quando Egli, infatti, descrive la vecchia casa dei nobili d’Esgrignon, dichiara chiaramente che i personaggi e i cognomi della sua «Commedia» sono di pura invenzione ... e che «l’auteur voudrait rassembler des contradictions, entasser des anachronismes, pour enfouir la vérité sous un tas d’invraisemblances et de choses absurdes, mais quoi qu’il fasse, elle poindra toujours, comme une vigne mal arrachée repousse en jets vigoureux, à travers un vignoble labouré» (Le cabinet des antiques, p. 19). Insomma, è primo Balzac ad ammettere le sue sovrane e fastose falsificazioni, pur aggiungendo che il vero — la realtà - spunta e si affaccia da quei falsi ...

 

  b) Ombre e luci. — Lo slancio romantico del nostro esuberante colorista e sensibilissimo poeta non può fare a meno di frammischiarsi di continuo ai più crudi tocchi realistici delle sue descrizioni le quali diventano così di un realismo sui generis. Vi sono in esse tutte le tinte, tutte le asprezze, tutte le miserie, tutte le volgarità, di questa bassa Terra, ma pur anco tutte le tinte e tutte le armonie del Cielo. Valga, ad esempio, la descrizione di quell’immenso parco delle Aigues, in Borgogna, descrizione che ha, ora la secca precisione di una pagina di botanica, ora il quasi profumato suono di una melodia. Essa è, al solito, un inventario, ma il tocco realista che vi mostra i solchi lasciati nel terreno dalle ruote della carrozza, la polvere della strada sui padiglioni d’ingresso, le pozzanghere verdastre, l’acqua che si caccia nei profondi solchi ove la ranocchia tranquillamente alleva la sua figliolanza, diventa volo lirico e poetico: ora i balsami dei fiori e le mille essenze che, portate di lontano dal vento «recano, idealmente, la propria anima a chi aspira quei profumi», ora sono, sotto il sole limpido e caldo, le capsule degli alti papaveri che «si fendono lasciando colare la loro morfina in spioventi lacrime liquorose» mentre stridono le cicale (Les paysans, nelle prime pagine). Davvero, quanto Victor Hugo nei Misérables, descriverà con lunga insistenza il giardino abbandonato della rue Plumet e in quell’occasione chiederà se il profumo di quei fiori selvatici, saliente al cielo, non abbia forse qualche influenza sul tremolio delle stelle, il grande romantico dei Misérables non sarà da meno — per certi tocchi — del realista e naturalista Balzac!

  E la fotografia di un volto, nelle descrizioni fisiognomoniche del Nostro, non mostra talvolta, accanto alla incisione dei fratti più veri e reali, le sfumature più irreali del romanticismo? Ecco, ad esempio, la bella e bionda Madame Delphine de Nucingen «i cui capelli d’oro piovono in calda cascata sulla piccola testa ingenua e fresca: quella creatura sembra una naiade che affacci il volto alla cristallina finestra di una sorgente per contemplare i fiori della primavera» (La maison Nucingen, p. 21). E la giovane operaia della rue du Tourniquet, del cui volto pur si danno tante indicazioni di puro e obiettivo realismo? «L’amore aveva tracciato sopra le palpebre di lei due archi di perfetta fattura, mentre ampia chioma formava sul suo capo una specie di casco impenetrabile per l’occhio di un amante» (Une double famille, p. 276).

 

  c) Personaggi reali? — Ebbene, si deve proprio al sopra detto frammischiarsi, nei quadri realisti della «Commedia», delle più ardite e impressionanti variegature romantiche se, nello sfilare sulla scena della «Commedia» stessa di mille e mille figure — più di duemila — che sono o dovrebbero essere personaggi vivi, strappati alla realtà quotidiana e colti sul vivo, non pochi se ne trovano che, singolarmente lontani dalla realtà comune, si muovono, pensano e sentono, e a noi appaiono, quali romantiche e romanticissime figure! Accanto a scene e figure duramente realiste non mancano, nell’epopea balzacchiana, figure quasi irreali e talmente sovrumane che raramente si muovono nella realtà vera. Esse escono piuttosto dall’interno mondo di fantasmi che abitano lo spirito del romantico e fantasioso scrittore anziché dal mondo dei vivi che lo circonda. Si tratta, soprattutto, di figure che potremmo chiamare in altorilievo, figure che si danno al bene quasi con furiosa monomania o che hanno cuore e sentimenti che potrebbero trovare vita nel mondo degli Angeli e dei Serafini. Chi oserebbe mai dire che cotali immagini, deliranti nella loro mania, o sorprendenti per la loro candida ingenuità, non aventi frequente riscontro nella vita reale normale, possano costituire documentazioni della realtà ordinaria e corrente quale il romanzo realista dovrebbe raccogliere e presentare? L’incaccellabile (sic) romanticismo del nostro realista, sempre vigile e sempre operante, ha guidato la mano e lo spirita dell’artista. Così si spiega la sublime inverosimiglianza o estrema eccezionalità romantica delle romanzesche passioni e tragedie di certi personaggi balzacchiani. Ecco qualche esempio.

  Per certo, l’immortale profilo di papà Goriot è modello di incommensurabile amore paterno, ma qualcuno potrebbe trovare in quel profilo non tanto la rappresentazione realista dell’amore paterno, quanto i segni, patologici anzichenò, di una decadenza cerebrale o l’espressione di una ultrasentimentale figura romantica (il che non era certo nelle intenzioni dell’Autore) e non la fotografia di una comune realtà ... come l’Autore voleva. Altro altorilievo: l’angelica sposa di Balthazar Claës, che si sacrifica e si consuma per il marito indifferente e inconsapevole, non è a sua volta luminosa creatura da letteratura romantica anziché realista? E non ha da darsi pressoché uguale giudizio quando si leggono le tragiche sommissioni e devozioni della madre al figlio malvagio, mentre è dimentica o quasi del figlio saggio e sottomesso, come si fa allora che si narra della povera Agathe Bridau che accusa sé stessa del furto commesso dal figlio ladro e scioperato? (Un ménage de garçon, p. 92). Sarebbero anche da emettere gravi dubbi sul realismo della figura del buon notaio Chesnel che sacrifica tutto il proprio avere, e che anche sarebbe pronto — se fosse il caso — a sacrificare il proprio onore, per salvare il buon nome della nobile famiglia d’Esgrignon cui era devotissimo, quale discendente da una famiglia di leali servitori di quella nobilissima casa (Le cabinet des antiques). Continuando, ci si potrebbe legittimamente chiedere come mai una trascendentale figura di donna come la contessa de La Chanterie, appartenente più all’azzurro del cielo e degli angeli che alle fosche tinte della terra, possa trovar posto in una «Commedia umana» veramente realista, quella contessa de La Chanterie che porta soccorso, tanto evangelicamente e con animo pieno di tenerezza e di perdono, a colui che le fece condannare a morte la giovane figlia, come si narra ne L’envers de l’histoire contemporaine. E quale figura più romantica di quella di Esther, già bassa cortigiana ma poi riabilitata da un amore purissimo (una anticipazione della Dame aux camelias!) e da un sacrifizio che accetta persino la morte? (Splendeurs et misères des courtisanes). Nè crediamo si possa ritenere di pieno realismo quel conte de Bourlac che, caduto in piena miseria, vediamo vivere e soffrire nell’orrendo appartamento in cui viene ad essere gettato dalla tragedia della sua vita. Colà egli aveva riserbato una stanza alla figlia Wanda, colpita da inesplicabile malattia e immobilizzata nel letto: ma in quella stanza ogni sorta di ricchezza, di broccati, di ornamenti, di quadri, di fiori quotidianamente rinnovati, per nascondere alla malata — che non poteva uscir di stanza — le tristi e aspre condizioni in cui la famiglia era precipitata. Ogni avere, scarso e ognor più scarso, scompariva per le spese destinate a mantenere quell’inganno. Quale romantico avrebbe mai pensato a tale figura e a tale messa in iscena? (L’envers de l'histoire contemporaine). E quel Michel Chrétien, sognatore fiducioso negli Stati d’Europa, repubblicano idealista, che per quattro anni di seguito, innamorato perdutamente della principessa de Cadignan, la segue e la contempla senza mai dir motto! (Le secret (sic) de la princesse de Cadignan). Siamo per tal modo, assai più vicini alle tragiche e irreali figure della poesia byroniana o delle fosche ballate alemanne, piuttosto che a un vero e proprio ricalco — sia pure abbellito dalle nuvole d’oro di una fantasia — ricavato dalla realtà. E ancora, la figura dell’ateo (Balzac fa spesso uso di tale parola senza forse rendersi ben conto del suo significato) che — per commossa ed eterna riconoscenza verso colui che lo aveva salvato dalla miseria — si reca ogni anno, nell’anniversario della morte del suo salvatore, ad ascoltare una Messa in quella chiesa stessa in cui il benefattore, fervido credente, soleva recarsi a pregare (La messe de l’athée). Insomma e in ultima analisi, la realtà — tanto quella psicologica quanto quella sociale — è così lontana dal bello e dal buono che le sovrumane figure di cui sopra si trovano, ben a disagio, e fuori posto, nella narrazione realista.

 

  d) Intrighi d’appendice e inverosimiglianze. — Altro punto del non realismo balzacchiano: quante volte — moltissime volte — l’invenzione che serve di trama al racconto, lussuosamente poi ornata con i più fulgidi ricami, è composta di una serie di intrighi, di inverosimiglianze, di impossibilità, di inaudite sorprese, che ci traggono lontano le mille miglia da ogni aspetto, sia pure eccezionale, della vita corrente e reale! Quante volte il romanzo balzacchiano si presenta (a parte il radioso incantesimo dello stile e delle immagini) come un romanzo di appendice o come una serie di scene tali da sollevare l’infantile entusiasmo del pubblico dei teatri più popolari! Non si tratta davvero, con tali creazioni, di riprodurre in ispecchio la realtà, ma soltanto di interessare, di sorprendere, di far dimenticare persino la realtà stessa, anche andando sotto quel minimo di «credibilità» che un moderno e illustre romanziere e critico letterario domandava e riteneva come necessario a ogni narrazione, opera della fantasia. È vero che il contrassegno del non realismo, mentre colorisce vivacissimamente tutta l’opera di gioventù di Balzac, si fa meno evidente in quella che seguì, ma pur qui di tanto in tanto esso appare, narrandosi ora di truci delitti commessi nel cuor della notte, ora di misteriosi capi di sette segrete capaci di ogni ardimento o di ogni romanzesca azione, oppure di infernali trame poliziesche, o di somministrazione di veleni, di incredibili avventure di ex forzati, di uomini amanti che si lasciano seppellire vivi piuttosto che svelare il nome dell’amata, di tremende vendette ... e via dicendo.

  Aggiungasi che più volte ancora l’opera balzacchiana, in piena maturità, si ispira alle fantastiche e allucinanti novelle di Hoffmann (il cui nome, del resto, è a più riprese citato da Balzac) e quindi quella «Commedia» stessa in cui pur sono tante eloquenti e feconde sorgenti di realismo, vi fa assistere, ora all’incarnazione di Belzebù, ora alla reviviscenza di un cadavere, oppure alla mirabile stregoneria di una pelle magica che si consuma e restringe di mano in mano che un vostro desiderio trova esaudimento, ecc. ecc. ... Dove mai, quindi, un narrare di tal genere — che pur tanto diletto dà alla fantasia e sotto il cui velame può nascondersi squisita saggezza — trova vero e proprio contatto con la realtà e con il realismo?

 

  e) Scienze, occulte. — Si potrebbe ancor dire di altro punto a proposito, sempre, del non realismo proprio al realista Balzac. Quel grande, così curioso del mondo esterno e interno, e così pieno di fiducia nelle scienze naturali, illustrate (come Egli ricorda) da Cuvier e da Geffroy (sic) Saint Hilaire, sente indicibile attrazione per quelle suggestioni e quei suggerimenti che si trovano o trovavano ai margini delle scienze stesse: il magnetismo, la lettura del volto e, persino, della mano, trovano in lui spirito accogliente. Di qui, qualche descrizione da lui fatta di vecchie chiromanti che leggono l’avvenire (per esempio, nella novella: Les comédiens sans le savoir) e il fatto di recarsi egli stesso in stambugi di tal genere per farsi predire, dalla lettura della sua mano, ciò che l’avvenire potrà a lui dare. È anche da ricordare la credenza, da parte di lui, che esista una certa corrispondenza tra la persona e il nome della persona stessa, come potrebbe apparire da qualche passo di sue narrazioni: a proposito dell’originale, strano e geniale Marcas (nel romanzo dello stesso nome) si dice che quel Marcas aveva un prenome con la lettera Z e che quella lettera serpeggiante, che sempre precedeva nella firma il cognome, offriva allo spirito di chi guardava un non so che di fatale. E le sillabe di quel cognome? Provatevi a pronunziarle più volte di seguito, non vi risuoneranno nello spirito con sinistro significato? Non appare forse dal suono di quel cognome, che l’uomo da quelle sillabe rappresentato, era destinato alla sofferenza e al martirio? Sùbito dopo, Balzac incalza e precisa scrivendo non voler proprio affermare che il nome di una persona eserciti vera e propria influenza sulla persona stessa, ma tra le vicende di una vita e il nome dell’uomo che vive quella vita, si danno per certo segrete e inesplicabili concordanze o visibili discordanze fatte davvero per sorprendere; assai spesso correlazioni lontane ma efficaci vengono a mettersi in rilievo.

 

  f) Anche il misticismo. — Del resto, non è forse un mondo trascendentale, di là dalle nuvole e dai visibili orizzonti, il mondo ove Balzac trasporta il proprio spirito — con sovrana delizia — quando Egli narra di Séraphita? Siamo nel 1835, quando il Nostro già aveva abbandonato il romanticismo e la fantasticheria giovanile per darsi alla narrazione realista. Tutto un mondo di profondità mistiche, come Egli stesso proclama nella dedica del libro a Evelina de Hanska (j’ai tenté d’arracher aux profondeurs de la mysticité ce livre ecc. ...). L’annebbiata, e qua e là fosforescente, filosofia o teosofia di quell’Emmanuel Swedenborg che, dalla tecnica, dalla scienza, e dalla oeconomia regni animalis, si innalzò a conversare con le anime dei trapassati e a dilettarsi nelle visioni — Arcana coelestia — dovette esercitare seducentissima attrazione sullo spirito del nostro realista, se un intero romanzo fu consacrato a narrare e a divagare sul tessuto delle visioni swedenborghiane e a tracciare l’evanescente storia di quel duplice, e unico al tempo stesso, personaggio da indicare come Séraphita-Séraphitus ... « nelle sfere divine, nelle sfere spirituali e nei mondi delle tenebre » (Séraphita, p. 336). Dove mai quel realismo che, nato — o quasi — con la «Commedia umana», doveva poi intensificare le sue tinte con i colori di Flaubert e dei de Goncourt, e giungere al «verismo» zoliano?

 

  g) Concludendo. — Potremmo dire, per concludere, che Balzac per il suo carattere appassionato, per l’immaginazione sua prodigiosa, per la sua attrazione verso il mistero, è un romantico; ma per il principio da lui adottato di tutto descrivere perché tutto è in relazione con la condotta dell’individuo che Egli deve fare agire sulla scena, per il posto che Egli dà a particolari per lo innanzi trascurati perché di troppo comune specie o volgare, per la precisione con la quale Egli ricostruisce ambienti ed. epoche, per il suo spirito di osservazione, è un realista. L’uno e l’altro carattere si frammischiano nello stile di lui e nelle sue narrazioni come tra loro tinte assai diverse o suoni di differenti altezze e di differenti metalli.

 

  3. — Le fonti del non realismo balzacchiano.

 

  A voler ben dire del non realismo balzacchiano, vi sarebbe pur da osservare che il realismo del Nostro — per quanto realismo sui generis — non fa vera e propria apparizione nelle pagine di quello scrittore copiosissimo, se non dopo che molti suoi romanzi — romanzi giovanili — erano già usciti dalla sua penna, tra il 1822 e il 1829, e quasi improvvisamente avviene apparizione. Vi sarebbe anche da dire su due punti per nulla trascurabili: da un lato, vi sarebbe da rintracciare la fonte da cui probabilmente provenne la maniera giovanile (1822-1829) di creare e di esporre il romanzo, tanto diversa dalla maniera che venne poi, mentre dall’altro lato vi sarebbe da mostrare come quella maniera giovanile lasciasse indefettibili tracce nell’opera realista e pienamente balzacchiana che seguì, dal 1830 insino alla morte del grande romanziere. Ci guarderemo bene dall’insistere su tali soggetti la cui trattazione ci porterebbe alquanto fuori di via, ma ci sarà pur consentito qualche necessario accenno. Parleremo cioè, per quanto brevemente, delle tre fonti (possiamo servirci di tale espressione) del non realismo balzacchiano: il romanzo giovanile, spontaneo ed esuberante dello stesso Balzac; le scene del romanzo e del teatro popolare, trionfanti all’epoca della giovinezza balzacchiana; infine, il così detto «romanzo nero» venuto d’oltre Manica e che Balzac ben conosceva.

  Cominciamo con le opere giovanili.

 

  a) Il romanzo giovanile. — Le opere giovanili del Nostro, in gran parte pubblicate nel 1822 (quando l’autore aveva appena ventitré anni e firmava con pseudonimi le sue scapigliate produzioni) e negli anni immediatamente seguenti, sono un susseguirsi di scene, di avventure, di figure, della più alta inverosimigianza (sic), tragicità e spettacolosità: assassinii, tradimenti, fantasmi, scoperta di tesori, avventure piratesche e sataniche, e via di seguito. È.’, l’epoca in cui — come scrive un attento studioso balzacchiano — «il giovane Balzac accetta supinamente come Maestri i romanzieri popolari di gran successo i cui romanzi inondavano le sale di lettura; è l’epoca in cui Egli si lascia andare a scrivere con banale prosa nei periodici più effimeri»[9]. Proprio così? Ma in ogni modo, quanta vivacità, quanto scintillio di immaginazione e di intelligenza, e anche — checché se ne dica — quanta agilità di stile in quelle giovanili pagine! Romanzi d’appendice, dunque, alla ennesima potenza; romanzi, come scriverà più tardi lo stesso Balzac nella prefazione al Vicaire des Ardennes, pubblicata in nuova edizione molti anni dopo la prima, da considerarsi come des entreprises de littérature marchande. Non diciamo di no, ma riconosciamo — sia detto tra parentesi — in quella tumultuosa produzione della prima età la genialità, l’esuberanza, la fastosità delle immagini, l’irrequieta verve di quello spirito che doveva poi quasi improvvisamente dar fiori e frutti di ben più alta e più nobile qualità. Non diciamo di no, dunque. Rifatevi, invero, a qualche scena di quelle opere giovanili e troverete — ad esempio — che nelle pagine de L’héritière de Birague passano fantasmi nella notte e che sotto la luna l’avvelenatrice va —niente di meno — a scoperchiare una tomba; nel Centenaire sentirete narrare di quel fantastico individuo che, grazie a un infernale sortilegio, ha più di tre secoli di esistenza perché mai è morto; in Argow le pirate ascolterete come un tale tolga di vita la propria vittima per mezzo di una punta (spina di pesce) intinta in un terribile veleno. È da chiedersi se la trovata non suggerisse poi al popolare romanziere Fortuné du Boisgobey la sua drammatica storia di Un crime dans l’omnibus. Si chiedeva in tono scherzoso all’Ariosto: «Messer Lodovico, da dove diavolo avete mai raccolto tante ... favole?». Si potrebbe muover medesimo interrogativo al ventiduenne Balzac. E si troverebbe risposta, non solo rifacendosi col pensiero all’atmosfera — diremo così — letteraria dell’epoca, in cui popolari romanzi e drammi dovuti a qualche autore, connazionale e amico di Balzac, si ripetevano le mille volte sulle scene parigine ottenendo successo grandissimo, ma anche e soprattutto ricordando la predilezione che il giovane e irrequieto scrittore confessava per il «romanzo nero», venuto allora d’oltre Manica e messo in moda grandissima, di Anna Radcliffe e di altri ... come subito vedremo.

 

  b) Teatro e romanzi popolari. [...]. Balzac era amico personale di Pigault-Lebrun e di Pixérécourt, come si rileva dalla sua corrispondenza, e senza dubbio tono e colorito di quegli agitatissimi e inverosimili romanzi e drammi dovettero formare immagine che suggestionò il giovane Autore. In quanto alle ultraromanzesche pagine di Ducray-Duminil, una citazione di esse fatte da Balzac in piena maturità è assai significativa: la moglie del notaio Latournelle, buona donna quanto altra mai, che non comprende l’ammirazione suscitata dalle opere di Byron e di Victor Hugo, si dichiara invece appassionata lettrice degli straordinari romanzi di Ducray-Duminil (Modeste Mignon, p. 47). Insomma, a volere insistere ed allargare la trattazione del tema, vi sarebbe da rammentare quel — come ebbe ad esprimersi Paolo Arcari in suoi recenti studi balzacchiani [cfr. Panorama di studi balzacchiani, «Pagine nuove», Roma, dicembre 1948 e seguenti] — «lavoro di scavo sulla preistoria di Balzac» [...].

 

  c) Il «romanzo nero». — Ma più importante e più sicura dovette essere l’influenza del «romanzo nero». Dall’Inghilterra erano venuti, tradotti e non tradotti, i fantasmagorici romanzi di Anna Radcliffe, scritti tra il 1789 e il 1797, di Matthews-Gregory Lewis e di Robert Maturin; il famoso Monaco di Lewis fu pubblicato nel 1795, mentre Melmoth o l’uomo errante di Maturin fu pubblicato nel 1820. Balzac più volte ricorda con ammirazione — negli scritti della maturità — e a titolo di modelli, le fantasiose opere di costoro. La Radcliffe è citata più volte nella «Commedia»; le narrazioni di lei dovettero essere suggestionanti per il nostro Autore e dobbiamo confessare che noi pure nella nostra ormai lontanissima gioventù, nel prendere contatto con quelle pagine che narravano di ombre, scheletri e fantasmi, difficilmente riuscivamo a staccarcene, avidissimi di conoscere in qual modo si risolvessero i misteri del Castello dei Pirenei o altri analoghi. Nel suo Sarrasine (1831), Balzac fa citazione del nome di Anna Radcliffe in modo chiaro ed efficace: parlando della misteriosa famiglia Lanty, il nostro Balzac dichiara che «l’enigmatica storia di quella famiglia offriva un perpetuo interesse di curiosità, simile a quello che offrono i romanzi di Anna Radcliffe» (p. 93). Ricordiamo ancora che uno dei personaggi balzacchiani — Monsieur de Clagny — parlando di opere letterarie dovute a donne, osservava doversi al cervello femminile creazioni fantastiche, bizzarre, come testimoniano i romanzi di Anna Radcliffe (La Muse du département, p. 440). Erano pure ammirati, da Balzac, quali capolavori, le fantasie di Lewis il cui nome è più volte rammentato nelle pagine balzacchiane, anche della maturità; del Monaco di quell’Autore (1795), intera storia terrificante, Balzac fa chiaro ricordo. A chi somiglia l’austero conte Ottavio, dal volto su cui è impresso il segno di un mistero e di un profondo dolore? Somiglia, quel volto, «a quello dello straordinario monaco messo in iscena da Lewis» (Honorine, p. 16; pubblicata nel 1844). Nel 1808 Lewis componeva altre storie di mistero e di terrore: Romantic tales e ancor qui cadaveri, innocenti perseguitati e straziati, dita tagliate che permettono scoprire un mistero, streghe che fanno bollire umana carne, allucinazioni. Di scene di tal genere — si noti — sono piene le romanzesche pagine scritte in gioventù da Balzac, E anche — sempre nella raccolta di novelle dovute a Lewis — finissime deduzioni logiche da parte di un sagace osservatore e scopritore di misteri, con anticipazioni su ciò che più tardi farà il celebre detective Sherlock Holmes. Ora, nella prima parte delle Illusions perdues (1843), Balzac cita per l’appunto la novella Anaconda che appartiene alle citate favole: Romantic tales. Come si vede, anche nell’ epoca matura, epoca del «realismo», Balzac non dimentica quelle fantastiche letture che tanto avevano ispirato i suoi scritti giovanili. In quanto all’irlandese Maturin, altro scrittore che regalò ai lettori stregonerie e fantasmi, è da ricordare che Balzac nel 1828, iniziando il suo poco fortunato tentativo di editore, ristampava la traduzione in francese di alcune opere di Maturin tra le quali quella dal titolo Melmoth che egli doveva poi imitare in un suo fantastico romanzo del 1835. Di Maturin, i romanzi di Balzac fanno più volte il nome; ad esempio, ne L’elixir de longue vie (1831) il fantastico tipo dell’eroe ha — dice Balzac — simiglianza con il Don Giovanni di Molière, il Faust di Goethe, il Manfredo di Byron, il Melmoth di Maturin (p. 232). Ancora, quando Balzac descrive il salotto in cui si riunivano, a sera, vecchi gentiluomini e vecchie gentildonne — ombre e fantasmi del passato — assicura Egli che «nè Maturin nè Hoffman (sic), che sono le due più sinistre immaginazioni dei nostri tempi, avrebbero saputo destare maggior spavento di quello prodotto dalla contemplazione di quella riunione di vecchi fantasmi» (Le cabinet des antiques, p. 34). [...].

 

  5.- Anche le fantasie di Hoffmann?

 

  [...]. Quel nome — Hoffmann — è a più riprese citato nelle pagine della «Commedia», con rispetto ... e con terrore, evocato allora che si stanno svolgendo, sulla seducente trama dell’inverosimile, sorprendenti scene o appaiono profili di personaggi misteriosi. Quando si descrive la buia stanza della strega chiromante seduta, questa, tra un rospo e una gallina nera, Balzac dice che quella oscura stanza ha l’aspetto di un fosco antro degno di Hoffmann (Les comédiens sans le savoir, p. 298). E quando si profila la giovane figlia del banchiere ne L’auberge rouge, si assicura che quella giovane doveva aver letto le fantastiche novelle di Hoffmann, oltre che le drammatiche pagine di Walter Scott (p. 178). La figura dell’ingenuo, candido e celestiale Schmuke, dal viso infantile, sorriso di primavera, occhio di un innocente azzurro, ma di corpo quasi sgangherato, ricorda, dice Balzac, «quelle strane creazioni che soltanto furono così ben dipinte da Hoffmann, poeta di ciò che sembra non esistere e che pur tuttavia esiste e vive» (Une fille d’Eve, p. 231). Si noti quella frase: «ciò che sembra non esistere e che pur tuttavia esiste e vive». Essa risponde esattamente ad un continuo motivo che vibra nelle più strane pagine di Hoffmann, ma risponde pur anco ad un segreto pensiero di Balzac, pensiero che, a quando a quando, luccica attraverso il «realismo» del Nostro, anche nell’epoca della piena maturità. Come che sia, da quanto sopra si attesta nonché la conoscenza, ma anche la ammirazione, da parte della «Commedia umana», nei riguardi dei racconti fantastici del narratore tedesco. Ma è sùbito da dire che la prima traduzione francese di alcune novelle di Hoffmann apparve nel 1830, quando le opere giovanili di Balzac (tanto ricche di fantasmi, di stravaganze e di mirifiche assurdità) già, per così dire, erano scomparse dall’orizzonte del Nostro mai stanco narratore, e quando già prende inizio la composizione di opere in gran parte, o del tutto, diverse da quelle uscite dall’irrequietezza sentimentale e mentale della prima gioventù. Inoltre, Balzac in persona dichiara che le novelle fantastiche di Hoffmann furono da lui lette soltanto nel 1833 (Correspondance, p. 91) quando cioè i due romanzi balzacchiani in cui par si ritrovi qualche venatura delle fantasie d’Allemagna — La peau de chagrin e L’elixir de longue vie — erano già state pubblicate entrambe nel 1831. Novelle di fattura quasi hoffmaniana? Nella prima, il giovane possessore di una pergamena magica, rappresentante la sua vita, vede realizzarsi ogni suo desiderio a patto però che la pergamena si restringa, mentre nella seconda un ardito spirito satanico — che potrebbe essere Satana stesso — incarnato nella persona di un vecchio manipolatore di droghe della vecchia Firenze, compone quel liquore che risusciterà i morti: lo snaturato figlio del vecchio, invece di far cadere quel liquore a goccia a goccia sul capo del genitore morente, lascia che questi muoia, per poterne raccogliere l’eredità e torna, ancor caldo il cadavere, alle sue gozzoviglie.

  E la descrizione, ancora, ne La peau de chagrin, della fantasmagorica bottega dell’antiquario satanico? In quella bottega, alla rinfusa tra l’ombra e la luce, si presentano i più strani e deformi oggetti; il descrivere che si fa di essa occupa parecchie pagine descrivendosi pur le sensazioni da visionario che gli oggetti danno al giovane Raphaël entrato in quel diabolico magazzino: l’oreille croyait entendre des cris interrompus, l’esprit saisir des drames inachevés, l’oeil apercevoir des lueurs mal étouffées (p. 17). Davvero, le tinte adoperate in quel fantasioso quadro richiamano quelle di cui ebbe a servirsi Ernesto Teodoro Hoffmann nella sua descrizione dell’antro delle streghe, quale si legge nel Vaso d’oro, ma è assai più minuziosa, oltre che frammista di quelle note veriste che Hoffmann non adoperava nè voleva o poteva adoperare. Vorremmo dire che anche la novella Jésus-Christ en Flandre (1831) fa pensare a qualche novella di Hoffmann, con la sua vecchia misteriosa dalla mano disseccata e fredda, dalla figura verdastra da cui pareano uscire le ossa, dagli occhi bianchi, dalla striscia di cenere che essa fa cadere a terra, sul suo cammino, dalle pieghe della sua sottana, con la sua barca che affonda, carica di miseri e miserabili, con il terrore della sua chiesa le cui navate vengono invase dall’ombra. Ma quella novella non fu scritta prima che il Nostro conoscesse Hoffmann?

  Dicevamo, infatti, che Balzac, non ebbe a leggere le novelle fantastiche di Hoffmann che nel 1833. Questione di date su cui nulla è da ridire, mentre non si potrà forse negare che in più di una pagina scritta dal nostro romanziere dopo il 1833 si può ritrovare, non diciamo l’imitazione (Balzac aveva troppi tesori di sua proprietà e a sua disposizione, per andare a cercare altrove), ma un qualche della maniera fantastica di Hoffmann; d’altra parte, siffatta maniera aveva pur sue radici o analogie, come vedemmo, in quelle fantasticherie d’oltre Manica che tanto avevano dilettato l’irrefrenabile fantasia del giovane Balzac.

 

  6. — Irresistibili attrazioni di Balzac per le scienze del mistero.

 

  Più sopra, e precisamente alla lettera e) del paragrafo due, abbiamo accennato, tra le caratteristiche che fanno di Balzac un non realista o che, almeno, si intrecciano con quelle che attestano il realismo di lui, la singolare attrazione nutrita per le scienze occulte; è il caso di spendere qualche parola su tale attrazione.

  Innanzi tutto, molte vedute di Lavater e la credenza nella misteriosa suddivisione della calotta cranica in bozze, ciascuna delle quali — in omaggio alle dottrine di Gall e di Spurzheim, dei quali Balzac più volte fa il nome — presiede ad una data tendenza o facoltà, sono presenti, più o meno visibili, in non poche pagine della «Commedia», ed è da dire che quelle vedute (a parte il contenuto di verità che esse possono avere, debitamente corrette e interpetrate) ben facevano parte allora del territorio delle «scienze occulte» insieme ad altre analoghe. Balzac ne fu senza dubbio fortemente impressionato.

  D’altra parte, la segreta o non segreta simpatia che Balzac sentiva nei riguardi delle scienze piene di mistero, prende talvolta singolari forme alte e nobili, come accade allorché da Louis Lambert (nel romanzo dello stesso nome, nome sotto il quale Balzac dipinge sè stesso), si tracciano le più ardite fantasie sulla trasmissione e la natura della volontà e del pesiero (sic), o allorché sulle tracce di Swedenborg Egli ci fa assistere alle stranezze metafisiche ed eterne (diciamo pure così) di Séraphita. Tale attrazione per il mistero e l’occultismo si svela ancora quando Egli in una sua narrazione segue lo spirito malefico di Melmoth, che trapassa da persona a persona, o quando dà ad intendere che misteriose fatture conducono a comporre quell’elisir di lunga vita che fa riaprire ai morti gli spenti occhi e pur si svela nel diletto con cui il Nostro par si compiaccia nel dare il quadro di sonnambule e di streghe che leggono — non si sa mai! — l’avvenire. Madame Fontaine, che è una «strega» di tal genere, appare più volte nella «Commedia umana»; a tal proposito Balzac assicura che l’influenza esercitata da siffatte tireuses de cartes non solo si esercita sul popolino minuto, ma anche su uomini politici e simili «il popolo ha certi istinti indelebili, tra i quali è quello che stupidamente è chiamato superstizione» la quale superstizione, aggiunge il Nostro, si trova «così nel sangue del popolino come nello spirito delle persone di superiore levatura» (Le cousin Pons, p. 140). Affermazione più significativa viene subito dopo, a proposito degli increduli: «Costoro negano del tutto l’esistenza di rapporti che la divinazione riesce a scoprire tra il destino dell’uomo e la configurazione di esso destino quale appare applicando uno dei varî mezzi a tal uopo suggeriti, ma accade per le scienze occulte come ebbe ad accadere per tanti fatti naturali che furono negati dagli spiriti forti e dai filosofi materialisti» (id. id. p. 140). Ci vuol altro che attenersi ciecamente — parla sempre Balzac — ai fatti visibili, materiali, alla bilancia del fisico, alle storte del chimico; «le scienze occulte resistono, e proseguono il loro andare». Insistendo, si afferma che se può sembrare assurdo vedere nella configurazione che prende un giuoco di carte lo specchio dell’avvenire o del passato di un individuo, «sembrò anche un giorno assurda la navigazione a vapore e quella aerea, e si condannò l’invenzione della polvere e della stampa, del canocchiale, e persino — ultima tra le grandi invenzioni — la fotografia dagherrotipa» (id. id., p. 141). Si veda ancroa (sic) Madame Fontaine in funzione, nel suo misterioso gabinetto, nei Les comédiens sans le savoir (p. 296 e seguenti). Una vecchia strega — scrive Balzac — che sembrava «una di quelle donne dimenticata tra noi dalla Morte senza dubbio per lasciare quaggiù, tra i viventi, qualche esemplare di cadaveri». Una vecchia strega in una orribile e fetida stanza oscura ove regna il freddo glaciale delle cripte; e in quella stanza la vecchia strega — tra un rospo e una gallina nera di cui Balzac fa minuta descrizione insistendo sul tragico fascino che può esercitare un rospo — legge nella mano del cliente e nel giuoco delle carte il passato di lui.

  Davvero — fa osservare Balzac tra il credulo e il non credulo — «se Iddio ha inciso il destino degli uomini nella fisonomia di costoro, rendendo ciò visibile a occhi chiaroveggenti, perché mai la mano non sarebbe espressione riassuntiva dell’intero corpo e del volto?». Ed ecco la legittimità della chiromanzia, o almeno di una certa chiromanzia (Le cousin Pons, p. 141). La speciale tecnica seguita dalle «streghe» per leggere l’avvenire, par sia da vicino conosciuta da Balzac. Mentre nei Comédiens sans le savoir si descrive con qualche particolare tale tecnica, nel Cousin Pons la descrizione è più minuta. Madame Fontaine si siede al suo solito tavolo con a sinistra un grosso rospo, accanto alla famosa gallina nera; batte con l’estremo della bacchetta i due animali, stravolge gli occhi, si irrigidisce e parla, mescolando le carte, dopo aver gettato alla gallina una manata di miglio e aver invitato il rospo a saltellare sulle carte sul tavolo disposte ecc. In seguito, lettura ad alta voce, da un suo libro di magìa, di incomprensibili formule, consultazione del numero e della disposizione dei grani di miglio che la gallina non aveva ancor beccato, e dei movimenti che il rospo eseguiva nel tornare al suo posto, ecc. ecc. (Le cousin Pons, p. 148).

  Minuta descrizione, quasi fotografica, come si vede, che rientra nel quadro della tecnica realista del Nostro ... ma tanta insistenza e tanto, staremmo per dire, compiacimento non sono forse pur ispirati da quella attrazione che il fantasioso romanziere sentiva per l’occultismo e il mistero, tanto lontani da un vero realismo e naturalismo?

  Siamo sperduti, in tal modo, con le sopra dette pagine balzacchiane, a mille e mille miglia dal realismo e dal naturalismo per cui tanto si illumina il nome di Balzac; siamo anzi nel campo assolutamente opposto. Gli è quanto dire che ci sperdiamo, sia nel mondo dei più assurdi intrighi, delle più sfacciate inverosimiglianze, dei più teatrali artifizi, buoni per il basso popolo, sia in quello irreale della più favolosa metafisica e dei più lontani astri mai veduti. Ma è forse, con ciò, un affermare che le assurdità e non rispondenze al vero, come che siano, nell’opera letteraria o altra, siano incompatibili con la vera arte e ne cancellino persino la traccia? Pensiamo che no. Proprio come il più crudo verismo, sotto la mano dell’artista si anima di espressione d’arte pur lasciando travedere, sotto l’artificiosa maschera, il volto suo, così anche ciò che è assurdo o inesistente, e persino l’intrigo più inverosimile, possono venire a colorarsi in tutta la luce dell’arte, quando l’artista sappia esprimervi il suo spirito vivificatore e creatore. Non sempre è questo il caso dei romanzi balzacchiani in cui — come accade anche nei giovanili — dominano l’intrigo e l’assurdità, ma è per contro il caso di alcune opere di lui, ricche di scene e di personaggi di fantasmagorica fattura, in cui ancora una volta — ma sotto quale nuova forma! — tutto è retto dall’inverosimiglianza e dall’assurdità. [...].

 

  7. – Ma anche nell’opera fantastica giovanile, tracce di realismo.

 

  Realismo e non realismo nell’opera balzacchiana, dunque, e fantasiose inverosimiglianze nell’opera giovanile, ma è pur da dirsi — il che mai, che noi sappiamo, fu ancor notato — che anche in quell’opera giovanile può trovarsi qualche traccia di ciò che più tardi diventerà il realismo balzacchiano. È, abbiamo detto, maniera realista l’insistere nella descrizione di paesaggi e di cose, in quella dei vestiti, dell’arredamento e simili oltre che della fisonomia, senza trascurare – al contrario! — minuti particolari di futile importanza o volgari; ebbene, un qualchè di simile già si mostra, per quanto in tenue ed embrionale forma, sfuggevole, nei romanzi giovanili. Daremo soltanto qualche esempio.

  Si scorrano le prime pagine del Vicaire des Ardennes (scritto nel 1822 quando Balzac aveva 23 anni) e si troverà prospettarsi la figura del buon curato Gausse, per la quale una decina di anni dopo Balzac avrebbe forse speso uno o due pagine ... ma qui, nell’opera giovanile, i tratti descrittivi sono ridotti a qualche cenno, pur espressivo, tanto per l’abbigliamento di quel mansueto personaggio, quanto per il mansueto volto del medesimo. Il povero abate Gausse ha, di solito, «un largo panciotto di velluto verde che mai riesce a raggiungere la cintura dei pantaloni; in quel breve intervallo fa apparizione la camicia che spezza in tal modo l’uniformità del colore del vestito». Quel tocco pittorico è dato per indicare che «tale particolare basta per dare idea della noncuranza propria al carattere del vecchio sacerdote; d’altronde, la faccia stessa di lui è in piena armonia con tale trascuratezza e abbandono» (p. 11). Di già, come si vede, per il giovane Balzac la descrizione del vestito è la descrizione dello spirito.

  D’altra parte, l’aspetto della fisonomia non è dimenticato quale espressione dell’animo. Quel vecchio e buon curato — l’abate Gausse – «era di colorito non troppo acceso, occhi azzurri pieni di dolcezza, annuncianti bontà di cuore, incapaci di nascondere pensiero alcuno di quell’anima candida ... Un’aria di bontà su tutto quel viso, temperata da un soffuso senso di giovialità e di soddisfazione, indicante che il buon uomo nessuna colpa aveva da rimproverarsi e che per di più ben poco si curava delle chiacchiere e dei minuti avvenimenti della vita, pronto a vedere le cose sotto la migliore luce e incapace di dar molestia a chicchessia». Quante cose di già Balzac ventitreenne sapeva o voleva vedere in un volto untano! Nelle giovanilissime pagine del Centenaire (1822) si trova qualcosa di più. Il centenario stesso dice a un tale, guardandolo in volto: «Egregio signore, la vostra rotonda faccia ben mostra che voi siete agiato proprietario, e le modellature per nulla sporgenti del vostro viso indicano che non davvero le ricerche scientifiche furono preoccupazione dei vostri pensieri». Come se nulla fosse, il centenario, sempre guardando in volto il suo interlocutore, dichiara: «Siete uomo pacifico, che non esce di città e son sicuro che prima di notte riguadagnerete il vostro domicilio». Ecc. ecc. ... La cura, o la passione, con cui Balzac descrive non solo il volto dei suoi personaggi (minuzia descrittiva quale metodo o, piuttosto, ispirata dall’idea che nel volto è l’anima, oppure ancora: minuzia descrittiva per l’una e l’altra delle dette ragioni) ma anche le varie parti del corpo, bene appaiono nei primissimi romanzi di gioventù: in quel Jean-Louis — per non dire di altri romanzi — ove si descrive la graziosa Fanchette «jolie taille, bras ronds et potelés, mains dont les doigts effilés et mignons finissaient par une substance cornée colorée comme une feuille de rose». E i piedi? «Non avevano che due pollici di larghezza» ... Charmant indice! E poi, una bocca che era un melograno, un occhio che simigliava a una stella, denti di perla, guancia che ricordava un frutto di pesca ... E poi ancora: chaque geste, une grâce; son ensemble, un enchantement. insomma, una descrizione in cui il realismo obiettivo si mescola al romanticismo, un realismo che si ferma persino a descrivere con qualche compiacenza le forme del seno e che non rifugge, tuttavia, dal notare qualche imperfezione qua e là: il naso non era del tutto aquilino, l’arco delle sopracciglia non era perfetto, ma «disgraziatamente un po’ troppo folto; gli occhi neri erano un po’ troppo grandi, e le ciglia troppo lunghe» (p. 4).

  Si aggiunga che qualche descrizione di paesaggio — fatta per mostrare lo sfondo del quadro su cui poi si svolgerà l’azione — è condotta con certa tal quale minuzia, più con senso realista che con senso romantico e poetico, minuzia che lascia presagire il futuro e sagace estensore di inventari; così si fa quando, nelle prime pagine de L’israélite (1822) si descrive l’accidentata costa marina presso Jonquières in Provenza, con le sue muraglia di rocce a picco e il suo vecchio castello.

  E tanto basti, almeno per il momento, per rammentare come, anche tra le tumultuose fantasticherie del romanzo giovanile, apparissero quelle vene di sorgente che dovevano più tardi tanto vivacemente allargarsi in chiare, fresche e scintillanti acque, rispecchianti la cruda realtà ... ma rispecchianti, anche, al tempo stesso, qualche lembo di cielo azzurro!

 

 

  Roger Nimier, Orfeo Tamburi secondo Balzac di Roger Nimier (Trad. di Domenica Recchia), «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno IX, N. 16, 18 Aprile 1954, p. 7.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 568.

 

  Non sapevo in che modo presentare Orfeo Tamburi, quando ho avuto un’idea. Pensando al suo sguardo brillante, alla sua fronte nobile, alle sue basette, alla sua aria soave e forse energica, m’è venuto in mente un personaggio di Balzac. Perciò m’è bastato di aprire Splendori e miserie delle cortigiane per trovare un capitolo ignoto, consacrato a lui. Eccolo:

  «Il 31 dicembre 1834 uno sconosciuto attraversava il vecchio ponte delle Petites Madeleines, oggi chiamato a voce di popolo ponte di Marengo, quello che il re di Prussia tentò di far saltare e Luigi XVIII, il sottile politico misconosciuto, vi si oppose minacciando di porvisi su. Lo sconosciuto era un uomo di una quarantina d’anni, portava un mantello da viaggio, scarpe coi rovesci gialli e uno di quei cappelli di forma bastarda che i commercianti chiamano, non si sa perché, alla «javotte». Nel suo sguardo c’era il fascino profondo che hanno soltanto i figli di quell’Italia che tanti grandi uomini ha dato al mondo: Machiavelli, Leonardo da Vinci, Rossini, Vico e Lucrezia Borgia. Una indagine più acuta avrebbe dimostrato che quel viaggiatore aveva sofferto, ma aveva saputo dissipare le sue sofferenze nel vino della malinconia. La sua bocca vellutata indicava sensualità ghiotta, e Lavater avrebbe detto che le sue orecchie appartenevano alla classe bordata, con il lobo analitico e la corolla ettagonica. Quel viaggiatore era Orfeo Tamburi».

  Orfeo! Tamburi! In questo nome c’era Orfeo. che adoperava la lira e, accanto, come una brocca accanto a un gioiello graziosamente scolpito da Wiedzkowsky, un tamburo! Orfeo affascinava i leoni ed il tamburo faceva andare verso il fuoco i granatieri di Napoleone, i più intrepidi che si sian visti sulla terra. Quell’uomo prodigioso aveva inventato un linguaggio capace di affascinare le pietre di Parigi, e comporle in una lingua rigorosa ma musicale, su di un bianco foglio di carta. Dapprima, questa algebra del paesaggio parigino era cominciata con un movimento saltellante, che voleva affermare la fluidità delle cose. In seguito, aveva conquistato il suo spazio, affermato il suo potere, ed ora le sue linee nere e taglienti come il volo delle rondini circondavano con esattezza il paesaggio parigino. Tanto bene che un giorno de Marsay aveva detto a Maxime de Trailles: «Davanti a una Parigi disegnata in questo modo i parigini saranno sempre provinciali». Orfeo Tamburi era d’una antica famiglia italiana, imparentata con i Piccoli, i Romani-Castiglione, i Geminiani, i Soltano, i Pisanelli. Il suo stemma era d’oro e porpora e fra due aironi era scritta la fiera divisa: «Chi va svelto, va sano». Aveva cominciato la sua carriera artistica a Roma, dove, macinando i colori che gli dava il vecchio Taormino, era diventato famoso come ritrattista. Pittore di genere, non lo era al modo di Joseph Bridau, e meno ancora di Léon de Lora, giovane geniale. Era venuto a Parigi per trovarvi maggior vigore. «Sono uscito, diceva, – dal sonno letargico in cui v’immerge il sole del mezzogiorno. Troppa luce uccide». L’architettura forte e audace che contrassegnava la Parigi di quell’epoca gli aveva dato le certezze di cui aveva bisogno. Ma con la finezza e la ambiguità italianissima del suo disegno aveva saputo dissipare le apparenze, e la sua arte era quella delle certezze fuggite.

  Il doppio gioco: verità delle immagini nere, e verità della carta bianca, che le inonda come un’altra notte; ecco il segreto di Orfeo Tamburi.

 

 

  C.[arlo] P.[ellegrini?], Libri. Balzac, «La Nazione», Firenze, Anno XCV, 29 gennaio 1954, p. 3.

 

  Le feste per il centenario di Honoré de Balzac, che si svolsero in Francia nel 1949-50 provocarono, come non accade tanto spesso, un rifiorire d’interesse per il grande creatore della Commedia Umana, e se già prima erano assai numerosi gli scritti intorno a lui, negli ultimi anni è stato un succedersi di edizioni delle sue opere, biografie, pubblicazioni di lettere, saggi critici. Dalle edizioni della Commedia Umana fatte da specialisti della forza di Marcel Bouteron, si va a testi commentati che rispondono ad esigenze più modeste, a ristampe economiche. Gli studi critici sono anch’essi di valore vario, da quelli degli interpreti più personali ai divulgatori per il largo pubblico, ai raccoglitori di curiosità per i quali la singolare figura del romanziere offre riserve inesauribili. Fra le pubblicazioni ufficiali tiene il primo posto il Livre du Centenaire (Ed. Flammarion, Parigi), che raccoglie le conferenze che insigni studiosi tennero, a conclusione del centenario, alla Sorbona.

  Certo, per il non iniziato a questi studi, non è facile orientarsi in una produzione così vasta. Per questo giunge veramente molto utile una Introduction à Balzac (Paris, Odilis, 1953, pp. 191) dovuta a uno dei più fedeli, appassionati, dotti studiosi di Balzac, l’abate Philippe Berthault (sic), che ha dedicato tanta parte della sua vita alle indagini sul narratore per il quale la sua ammirazione non ha limiti. Data la familiarità che l’abate Berthault ha con la vita, con l’opera, con quanto si è scritto su Balzac, in meno di duecento pagine riesce a condensare quanto è necessario sapere per affrontare la lettura dell’immensa opera balzacchiana: notizie biografiche essenziali, formazione dello scrittore, svolgimento dell’opera, interpretazioni principali, fortuna, edizioni delle opere, ecc. Iniziazione agli studi balzacchiani, dunque, e bilancio di questi. Il tutto con un tono di cordialità indulgente, che deriva dalla simpatia che l’«abate balzacchiano» prova per tutti coloro che in qualche modo si interessano al suo scrittore.

 

 

  Carlo Pellegrini, Balzac in Italia, «Scuola e vita. Rassegna quindicinale», Firenze, Anno II, N. 4, 28 Febbraio 1954, pp. 8-9.

 

  Fra i lavori che si vedono uscire con una certa frequenza nel campo della letteratura comparata, specialmente fuori d’Italia, c’è da meravigliarsi che a nessuno sia ancora venuto in mente di dedicare un volume ai rapporti di Honoré de Balzac con l’Italia, chè l’argomento si presterebbe proprio a uno di quei libri agili e vivi, ricchi di riferimenti e di notizie, anche assai curiose, in cui sono maestri i nostri amici francesi. C’è, è vero, il libro di Giuseppe Gigli, Balzac in Italia, sempre utile, ma, un po’ troppo esteriore e incompleto per vari lati e ormai vecchio di oltre un trentennio; ci sono, per quello che riguarda i rapporti con Dante, le belle pagine di Vittorio Lugli (nel volume Dante e Balzac, Napoli, 1952), e numerosi articoli su quistioni particolari, ma l’argomento andrebbe affrontato nel suo insieme, approfondito, rivissuto negli aspetti più interessanti.

  All’inizio della fortuna di Balzac in Italia c’è lo scrittore stesso, con la sua rumorosa presenza fra noi a più riprese, con la singolarità della persona, le discussioni a cui si abbandona, le polemiche che suscita. La città nella quale si diffonde dapprima la curiosità per lo scrittore francese è Milano, dove nel 1837 si trattiene per qualche tempo, e la sua presenza è sottolineata più d’una volta – e con notevole rilievo – dalla «Gazzetta» di Milano nella quale si parla della sua fecondità come scrittore, della popolarità della sua opera in Francia, della prodigalità dello scrittore: si lascia intendere che la principale ragione del suo viaggio in Italia sarebbe da ricercare nella necessità di sfuggire per qualche tempo ai molti creditori. È vero che talvolta, nella foga del parlare, si dice che si lasci scappare qualche apprezzamento non del tutto benevolo per il paese che lo ospita, qualche giudizio non troppo ammirativo per il Manzoni, autore di un solo romanzo, il cui spirito animatore, per l’alta fede e la profonda rassegnazione, non è abbastanza compreso nè sentito dal dinamico e fecondissimo narratore francese. Un giorno anzi i due scrittori si incontrano, ma il loro temperamento è così diverso che la conoscenza personale non può aumentare la reciproca comprensione. Balzac a Milano è stato introdotto nel salotto della Contessa Maffei, e ben presto, con la cordialità che gli è propria, diviene il centro delle conversazioni e delle discussioni, tanto che a un certo momento Giovanni Rajberti ce lo rappresenta circondato dai giovani letterati milanesi, mentre anche i poeti dialettali si occupano della sua persona. Meno entusiasta di tutti il povero Andrea Maffei, che scrisse una curiosa lettera alla moglie – lettera pubblicala poi nel 1926 nella Nuova Antologia – nella quale il noto traduttore di poeti stranieri si mostrava seccato del fatto che tutta la città sapesse che il celebre scrittore francese passava gran parte del suo tempo nella loro casa.

  Per Balzac, però, anche nella capitale lombarda non furono sempre rose. Mentre da Parigi Niccolò Tommaseo protestava per tanta curiosità dimostrata per uno scrittore straniero, a Milano un vecchio ufficiale dell’esercito napoleonico, che si dilettava di studi storici, in un opuscolo volle prendere le difese dell’onore militare italiano a proposito di quanto Balzac aveva scritto in Les Marana sulla condotta degli italiani in Ispagna nel 1812. L’opuscolo dette inizio a una vera e propria polemica, con l’inevitabile risultato di accrescere l’interesse per la figura dello scrittore; lo stesso risultato ebbero gli attacchi al romanziere della «Voce della Verità» di Modena per pretesa immoralità (ma di fatto l’elemento reazionario era urtato per la simpatia che a Balzac dimostravano i liberali) e, qualche tempo dopo, la messa all’Indice di tutti i romanzi, «omnes fabulae amatoriae». Nè le cose andarono molto diversamente a Venezia, dove Balzac soggiornò per qualche tempo, e dove pure non mancò un incidente sempre a proposito dei Promessi Sposi: certe parole di Balzac, in cui si esprimeva il dubbio che il fascino del romanzo potesse resistere alla traduzione, dato che a parere di Balzac esso risiedeva soprattutto nello stile, furono interpretate come una critica negativa, alla quale si reagì vivacemente.

  A Genova invece il nostro scrittore sentì parlare di un possibile progetto che lo affascinò a lungo; quello delle miniere d'argento in Sardegna. Da un lato l’impresa gli si presentava come un ottimo affare, che avrebbe potuto aiutarlo a risolvere le sue difficoltà finanziarie in un periodo della vita piuttosto difficile; dall’altro lo attraeva per quello che gli sembrava offrire di avventuroso, quasi la scoperta di un mondo ignoto. Difatti quando si decise a recarsi nell’isola ne ebbe un’impressione tale che scrivendo a M.me Hanska arrivò addirittura a dire; «L’Afrique commence ici; j’aperçois une population déguenillée, toute nue, bronzée comme les Ethiopiens ...». Parole che parrebbero scritte apposta per dimostrare – se ce ne fosse bisogno — quanto lo scrittore fosse veramente un «visionnaire», – secondo la definizione di Baudelaire – negato a un’obiettiva osservazione della realtà. Naturalmente anche questa impresa costituì una nuova delusione, ed è peccato che, nonostante qualche ricerca che abbiamo fatto fare in proposito, non si siano trovati documenti di questa singolare impresa tentata in Sardegna dall’autore della Comédie Humaine.

  Altri soggiorni fece Balzac in Italia, nel 1843-46, in compagnia di M.me Hanska, ma la presenza della donna amata lo distolse spesso da quanto aveva modo di vedere a Pisa, Napoli, Roma. Qui conobbe Michelangelo Caetani, che lo interessò come studioso di Dante: a lui dedicò poi la Cousine Bette. Ma in genere bisogna dire che – a parte le esuberanze del temperamento – nei suoi libri dimostrò grande simpatia per gli italiani, specialmente per gli esuli in Francia, ed ebbe una vera passione per la musica italiana. Tutte ragioni, queste che siamo venuti ricordando, che favorirono il sorgere di un vivo interesse fra noi per i suoi romanzi, che cominciarono a essere largamente tradotti ancora vivente l’autore. Come in genere succede per le traduzioni dal francese, data l’opinione diffusa della facilità di questa lingua per gli italiani, una gran parte di esse non hanno un valore letterario; tuttavia alcune sono opera di scrittori come Adolfo Albertazzi, Gustavo Balsamo Crivelli, Corrado Alvaro, Arrigo Benedetti. Eugénie Grandet ebbe poi la fortuna di una traduzione amorosa di Grazia Deledda per la «Biblioteca Romantica» fondata da G. A. Borgese.

  L’opera di più d’uno scrittore nostro si riconnette alla Comédie Humaine, che ne ha aiutato la formazione, o il determinarsi della vocazione alla narrativa. Basta pensare alla concezione ciclica del romanzo che domina in opere come I Cento Anni di Giuseppe Rovani, le Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo sino al ciclo I Vinti del Verga, per pensare come sia sorto un problema di influssi che è già stato considerato, ma che certo meriterebbe un approfondimento. Esplicita addirittura è la testimonianza di Luigi Capuana che afferma senz’altro di aver sentito sorgere in sè la vocazione al romanzo scoprendo, sui venticinque anni, l’opera di Balzac, tanto che a un certo momento Capuana vagheggiò di scrivere un libro sul narratore francese. Del quale aveva avuto modo di vedere dei manoscritti e osservare il metodo di lavoro, come sappiamo da uno dei suoi Studi di letteratura italiana, nei quali parla proprio dell’influsso di Balzac sul romanzo italiano. Crediamo anche che uno studio dei romanzi di Alfredo Oriani nei rapporti con la Comédie Humaine (un richiamo in questa direzione fu fatto recentemente anche da Mario Vinciguerra) dimostrerebbe relazioni assai notevoli; si pensi all’ammirazione sconfinata dello scrittore romagnolo per la figura di Vautrin. D’altra parte quando Matilde Serao ne Il ventre di Napoli volle dimostrare che cosa veramente rappresentasse per questa città la passione del gioco, prese le mosse da un passo de La Robouilleuse (sic). L’osservazione risale a un critico tanto autorevole quanto non sospetto di dare troppa importanza a certi raccostamenti: a Benedetto Croce. E tanto il caso di Oriani come quello della Serao ci dimostrano come l’influsso del narratore francese si sia esercitato in profondità anche su scrittori legati strettamente alla loro regione, e che proprio per questo motivo sembrerebbero meno disposti a subire l’influenza di scrittori stranieri.

 

 

  Arnaldo Pizzorusso, Introduzione alla “Commedia sociale” di Balzac (*), «Rassegna lucchese. Periodico di cultura», Lucca, N. 14, 1954, pp. 8-14.


  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 569.

 

  (*) Dall’introd. al corso di lett. francese tenuto all’Univ. di Cagliari (anno accad. 1951-52).

 

  Balzac rappresenta l’individuo nei suoi rapporti continui con i propri simili: questi rapporti sono tanto più rilevanti quanto più l’individuo si distingue dai suoi simili. La rappresentazione della società non si volge a circoscrivere come suo oggetto i caratteri medi e comuni dell’umanità; ma si giova di questi caratteri per realizzare il pieno rilievo dei personaggi, e il concreto sviluppo dell’azione narrativa. I personaggi sono duplicemente legati, e con il gruppo sociale a cui appartengono, e con quella comunità indistinta che è come il coro della Comédie humaine. Queste che Balzac chiama “le comparse della grande commedia sociale” riempiono la funzione (egli dice) del “coro antico”: formulazione volta a colpire l’immaginazione del lettore, tipica formulazione “balzacienne”, generica e suggestiva. In realtà la continua presenza (la figurazione assidua e minuziosa) di queste comparse risponde ad una esigenza nuova e profonda: essa rientra in un metodo di rappresentazione narrativa, per cui il personaggio assume rilievo da una serie di rapporti di conformità o di dissomiglianza. Balzac fa osservare che gli esseri tendono a modellarsi gli uni sugli altri, a partecipare quindi di un comune fondo umano (dal quale essi possono pertanto distaccarsi assumendo una loro fisionomia, effetto di tensione, di volontà). Questa nozione di “fondo umano” deve essere tenuta presente dal lettore di Balzac: tale fondo è composto di differenti strati, in concreto di una serie di ambienti diversi, di “società” particolari più o meno direttamente comunicanti. Ciò spiega come la latitudine spaziale del racconto sia vasta, ma non indefinita (né infinita): in questo senso il solo Livre Mystique fa eccezione. Di norma l’accadimento, determinando un continuo rinnovarsi e mutare delle condizioni esterne del personaggio, determina un analogo rinnovamento del “fondo umano”. L’antitesi settecentesca di “uomo naturale” e di “uomo civilizzato” si risolve in una sintesi contrastata: ciò che interessa Balzac è soltanto l’uomo nella società e nella storia; non l’“uomo naturale” ma, per es., il “paysan”. Egli sembra scoprire che l’età dell’oro e l’età del ferro si somigliano più di quanto non si pensi; fuor di metafora, che l’ideale e insieme la pratica della morale non sono da ricercarsi nell’unione costante con la natura, ma nel progressivo differenziarsi dell’uomo della natura.

  L’uomo della natura (lungi dall’ essere innocente e perfetto) è colui che, in nome dei suoi istinti, agisce contro la società: per es., il ladro, la prostituta: “La prostitution et le vol sont deux protestations vivantes, mâle et femelle, de l’état naturel contre l’état social”. Vautrin è l’eroe mitico di questa rivolta, che finisce per utilizzare una tecnica (e quasi una precettistica) rigorosa: per poter lottare contro la società, egli dovrà essere forte quanto lo (sic) società, adottarne in parte i metodi. “Il n’y avait que deux partis à prendre: ou une stupide obéissance ou la révolte”. Il ribelle si dichiara “allievo’’ di Rousseau, dichiara di protestare contro “i profondi disinganni del contratto sociale La rivolta assume le forme positive che i lettori di Balzac bene conoscono: ma le formule che sembrano giustificarla non esprimono un principio generale destinato a trasferirsi nell’azione (1), bensì una sorta di tema ricorrente che non esaurisce il significato del personaggio di Vautrin (il quale del resto rappresenta l’eccezione eroica, in cui il contrasto prevale sulla conformità). Nella sfera media della Comédie, troviamo invece una laboriosa compenetrazione di abiti e di strutture: accade che i principi politico-sociali enunciati da Balzac siano sommersi non tanto dalla loro contraddittorietà (che non esclude possibili tentativi di conciliazione formale), quanto dalla stessa concretezza dei fenomeni umani evocati, per cui il romanziere accede a una “conoscenza rappresentativa” di fatti e di movimenti che cerca invano di analizzare e di definire. L’esempio tipico in questo senso sono i Paysans, in cui non importano le conclusioni di Blondet (“Voilà le progrès! ... etc.”), ma la forza e la presenza di tutta una collettività nella sua azione e nel suo divenire. D’altro lato l’individuo che agisce sulla collettività, che (come Napoleone) “fonde le cose e gli uomini”, il “grande politico”, è colui che ha saputo piegare le strutture esistenti, adeguandole ai suoi fini. La preoccupazione “politica” essenziale di Balzac è di assicurare un continuo rapporto fra i principi dell’azione e la realtà dei costumi: per questa via i temi politici si inseriscono nel quadro della Comédie.

  Balzac, nel ricostruire tutta una società, ha voluto ricostruirne l’organismo, il funzionamento (si pensi al progetto di riforma amministrativa di Rabourdin): questa ricostruzione deve tuttavia essere considerata in funzione della Comédie, e non in funzione di un “pensiero politico” di Balzac che si voglia estrarre dalla Comédie. Chi cercasse nel Médecin de campagne dei principi coerenti si troverebbe di fronte alla figura di Benassis, alla sua personalità, alla sua azione. Chi volesse ricercare nel progetto di Rabourdin il pensiero di Balzac, si troverebbe di fronte alle parole stesse dell’autore: “Quoique la position d’un historien soit dangereuse en racontant un plan qui ressemble à de la politique faite au coin du feu, encore est-il nécessaire de le crayonner, afin d’expliquer l’homme par l’oeuvre. Supprimez le récit de ses travaux, vous ne voudrez plus croire le narrateur sur parole ...”. “Spiegare l’uomo attraverso la sua opera”, ecco una formula chiave, che, applicata ai personaggi di Balzac, ci permette di evitare vane deviazioni, riconducendo alle loro giuste proporzioni i diversi disegni teorici (o intenzionali) che si presentano alla fervida mente di Balzac, già orientati e direi ‘‘inclinati” verso la concretezza di una situazione, di una esistenza. La “teoria” in Balzac è una costruzione contingente, è l’impalcatura provvisoria che permette di elevare l’edificio: le divagazioni generali, i “giudizi” di Balzac (anche quando sono pronunziati a suo nome) sono concepiti come la base di sviluppi particolari, inerenti alla storia narrata, e quindi come “definizione delle cause, e spiegazione degli effetti”. Questo scopo non è sempre raggiunto, poiché le sue reazioni sentimentali conducono spesso Balzac assai lontano dai suoi presupposti. Ma, a proposito dell’esperienza di Lucien de Rubempré, egli scrive: “Le poète apercevait l’envers des consciences, le jeu des rouages de la vie parisienne, le mécanisme de toute chose”. Questo meccanismo in azione è l’oggetto della commedia sociale: Balzac intuisce che il “meccanismo” poggia le sue basi non su circostanze di fatto occasionali, ma sulle necessità dell’associazione umana. Riconosciuto questo fatto, la società diviene a giusto titolo il teatro dell’azione. Mme de Mortsauf ammonisce Félix de Vandenesse : “J’ignore si les sociétés sont d’origine divine ou si elles sont inventées par l’homme, j’ignore également en quel sens elles se meuvent ; ce qui me semble certain est leur existence; dès que vous les acceptez au lieu de vivre à l’écart, vous devez en tenir les conditions constitutives pour bonnes; entre elles et vous, demain il se signera comme un contrat”. Un simile contratto impegna i personaggi di Balzac ad accettare la società come la regola di un gioco: nessun valore umano sembra sussistere indipendentemente dal successo, e questo successo ha luogo nell’ambito della società.

  Agendo o reagendo sui personaggi, la società diviene elemento drammatico determinante (e non solo “sfondo” del dramma); ostacolo tangibile, materia resistente della passione, “natura nella natura”. La natura sociale abbraccia un conglomerato di fatti e di situazioni, di cause e di effetti (che il romanzo si volge a registrare): si istituisce una antitesi (che è insieme un parallelismo) fra natura sociale e natura. Si ricordino le parole di D’Arthez a Lucien: “La Société repousse les talents comme la Nature emporte les créatures faibles ou mal conformées. Qui veut s’élever au-dessus des hommes doit se préparer à une lutte. ...”. Questa lotta non equivale al contrasto romantico fra l’io e una società spesso concepita astrattamente, poiché gli eroi di Balzac sono mossi da passioni che possono essere “situate” socialmente, e il cui oggetto è quasi sempre determinato. L’infinita diversità di rapporti evocati e descritti nella Comédie non esclude il riflettersi dell’ordinamento sociale sulla “tipizzazione” dei personaggi e degli ambienti di Balzac. L’individuo è considerato nell’ambito delle circostanze che lo condizionano, e che in qualche misura lo rendono esponente “tipico” di una condizione sociale: alla vaga corrispondenza fra la vita dell’individuo e la vita della natura succede la più concreta corrispondenza fra l’individuo e la natura sociale. L’universo di Balzac è prima di tutto “l’universo dell’uomo”, è ovunque segnato da impronte umane: il suo centro è la “città”, simbolo della convivenza umana. Questa città è Parigi, che Balzac chiama “le plus délicieux des monstres”, mostro di cui descrive “la vita attiva”, le membra, le articolazioni; “mostruosa meraviglia”, insieme “di movimenti, di macchine e di pensieri”. La Comédie rappresenta non solo e non tanto il grandioso spettacolo della città, quanto il sustrato di umanità che essa cela nei suoi angoli e nei suoi quartieri, in questa intricatissima selva. “Les rues de Paris ont des qualités humaines ...”: descrivere l’agglomerato umano, significa descrivere l’umanità stessa, quella “messe” umana di maschere (“maschere di debolezza, di forza, di miseria, di gioia, di ipocrisia...”). Parigi è stato chiamato un “Inferno”: “Tenez ce mot pour vrai. Là, tout fume, tout brille, tout brille, tout bouillonne, tout flambé, s’évapore, s’éteint, se rallume, étincelle, pétille et se consume”. Parigi rappresenta la natura sociale in dissoluzione, in fusione; ardente cratere in cui si immergono, da cui riemergono, i personaggi di Balzac.

  Balzac inserisce la sua materia (una materia che sempre si dilata e si accresce) nell’organismo mobile e multiforme della “commedia”. Sulla pagina, ogni cosa assume un rilievo monumentale o drammatico: le passioni divengono eccessive ed estreme, il mondo umano subisce con immediata violenza gli effetti della volontà o del destino: “Volontà”, “Destino”, si incarnano e prendono forma. E’ questo l’aspetto romantico della creazione di Balzac: alle dimensioni propriamente umane sembrano sovrapporsi altre dimensioni, e per es. Vautrin non è soltanto un ribelle contro la società, ma un “arcangelo caduto”, un ribelle contro l’ordine divino. Esiste insomma per Balzac una posterità di Caino, una “poesia del male”(2), un genio del delitto. Questi punti sono stati bene chiariti dalla critica: ma occorre tener presente che il satanismo si converte in un metodo d’azione, in una volontà d’azione, che la rivolta metafisica si traduce nella rivolta sociale. Si verifica un reingresso dell’immaginazione nel reale, anche se il reale di Balzac (occorre dirlo!) non è simile ma “analogo” al vero, anche se esso vuole sostituirsi non solo e non tanto allo “stato civile” quanto alla storia privata di tutta un’epoca. Egli ha lo stesso sguardo “avido e completo” che attribuisce a Vautrin, e la sua ambizione è che si dica di lui (come di Vautrin): “Dieu ne saisit pas mieux sa création dans ses moyens et dans sa fin que cet homme ne saisissait les moindres différences dans la masse des choses et des passants”. D’altro lato insistiamo sul fatto che la rivolta è soltanto un momento dialettico della “commedia”: anche se Balzac non è certamente quel difensore del trono e dell’altare che volle proclamarsi, la rivolta trova un complemento nella “soggezione” alla società. Ma questo schema è spezzato o dissolto nella concreta realtà dell’opera: Balzac non può opporsi al “disordine” vitale che invade il suo mondo. Ogni grande opera narrativa trascende, nei suoi significati e nelle sue implicazioni, la fede o l’ideologia del suo autore: le idee si mutano in direzioni di forza, che ora prevalgono ora sono sopraffatte. Nel profondo, Balzac non prende partito, non sceglie (fra ordine e disordine sociale, fra aristocrazia e borghesia, fra proprietari e contadini): scelgono, prendono partito i suoi personaggi, che a volta a volta escono dalla norma sociale o vi rientrano, si sottraggono o si conformano alla loro condizione e alla loro stessa esistenza. Le tesi conservatrici (“Nous sommes, tôt ou tard, punis de n’avoir pas obéi aux lois sociales”), o i quesiti generali (“Y avait-il un heureux dénouement possible aux lieus qui unissent deux êtres séparés par des convenances sociales?”) sono dimenticati – dal lettore, e probabilmente da Balzac – di fronte alla concretezza dell’accadimento. Nessuna vicenda della Comédie si esaurisce nel suo senso “esplicato”, ed è inutile sottolineare il carattere tanto meno fermo e sicuro, quanto più affermativo e reciso, delle formulazioni di Balzac. Egli si trova spesso (come confessa in un passo della Femme abandonnée) di fronte ad una “foule de motifs impossibles à dire, et que le mot de fatalité sert souvent à exprimer”. L’ analisi del romanziere scioglie il nodo di questi motivi, discerne dei rapporti delimitati, contingenti (ma non tutti i dati necessari per tale analisi sono disponibili): la tentazione di tagliare questo nodo con una formula (per es.: “Tout est fatal dans la vie humaine ...”) non è sempre respinta. Le “idee” sembrano assicurare il contatto con il trascendente, illuminare d’improvviso quella parte d’oscurità che sussiste nella creazione letteraria.

  Il narratore Balzac non procede verso l’“assoluto”, non si libera dalle dimensioni dell’umano, considera l’agire umano nello spazio e nel tempo. E’ tuttavia possibile che la commedia non trovi il suo termine e il suo compimento nell’umano (ma al grande edificio manca l’apice e il coronamento): questa “possibilità” accentua le ombre del grande quadro. Si ricordino le parole di Hugo: “Tous ses livres ne forment qu’un livre, livre vivant, lumineux, profond, où l’on voit aller et venir et marcher et se mouvoir, avec je ne sais quoi d’effaré et de terrible mêlé au réel, tonte notre civilisation contemporaine ...” “Un non so che di attonito e di terribile meschiato al reale”: formula criticamente ambigua, ma che difficilmente potrà essere superata sul piano della sintesi. Di fronte a quella oscurità, sta il reale, che pure è nutrito di oscurità; e la società, la “civiltà contemporanea”. Ciò significa che alla monumentale unità esterna subentra una interna dissociazione: Balzac non domina la sua opera ma ne è dominato, ne accumula febbrilmente i materiali, eleva strutture in continuo sgretolamento. Lo stesso procedimento del “ritorno” dei personaggi rispecchia in parte questa “confusio elementorum” che è nel mondo di Balzac, per cui si sovrappongono e si incrociano differenti strati. Le intenzioni dello scrittore, altamente proclamate, si rivelano incerte, spesso contraddittorie: per bocca di Félix Davin, Balzac parlerà degli “sviluppi inattesi che hanno fecondato le sue opere, delle larghe sovrapposizioni che le hanno accresciute”. Accanto al problema della genesi dei singoli romanzi (problema, o piuttosto problemi che non possono esaurirsi in se stessi, ma postulano rapporti più ampi), esiste dunque il grande problema della genesi di questi diversi strati della Comédie. Certo, una parte della critica tradizionale ha ammirato la “coesione” dei suoi intrecci, la felicità degli scioglimenti, l’ampiezza del disegno generale: ma altri critici hanno scoperto e mostrato le brecce della grande cittadella, i punti deboli del vasto organismo. In che cosa gli “effetti sociali” si distinguono dalle cause, in che cosa le “individualità tipizzate” dai “tipi individualizzati”? Queste formule potranno essere interpretate e difese, ma nell’insieme esse si dissolvono di fatto: che Balzac abbia proceduto dal particolare al generale, o dal generale al particolare, sentiamo che i due metodi si compenetrano e si equivalgono (quando consideriamo la vita profonda dell’opera). Se l’“egoismo mondano” di Mme de Langeais può esser detto “l’egoismo di tutto un ceto sociale”, questa espressione è anzitutto una definizione astratta di un essere complesso (e indefinibile), di Mme de Langeais: l’individuo fa dimenticare lo schema, e lo stesso “giudizio” dell’autore. Di qui derivano le perplessità di Balzac sul modo in cui i romanzi devono essere disposti e classificati: per es., che cosa significa esattamente “vita privata”? Qual è il preciso criterio per cui un romanzo appartiene alle Scènes de la vie privée e non alle Scènes de la vie parisienne? Non insistiamo su questo punto, ma è pur evidente che la struttura esterna della Comédie presenta incertezze e cedimenti.

  Alla struttura esterna conviene opporre una struttura interna. Se si può parlare di unità “animale”, se il Creatore si è servito di un unico modello per tutti gli “esseri organizzati”, Balzac, sulle orme di Geoffroy Saint-Hilaire, deduce e conclude: “L’ animal est un principe qui prend sa forme extérieure, ou, pour parler plus exactement, les différences de sa forme, dans les milieux où il est appelé à se développer”. Orbene, “la Società somiglia alla Natura”, la Società determina delle varietà umane (“Espèces Sociales”) analoghe alle varietà zoologiche (“Espèces Zoologiques”). E come Buffon aveva rappresentato le specie zoologiche, era possibile tentare una simile opera per le specie umane. Balzac fa intendere che questo è il suo scopo; ma aggiunge che, per quanto concerne l’umano, l’uniformità delle leggi è alterata da casi complessi e imprevedibili: “L’Etat Social a des hasards que ne se permet pas la Nature, car il est la Nature plus la Société”. Se l’animale appartiene alla sua specie, l’uomo non appartiene definitivamente alla sua classe (e il droghiere diviene pari di Francia). Fin qui Balzac: egli vuol essere l’interprete di una società in movimento, mostrare forze confluenti e operanti nel coacervo sociale, indicare i loro punti di convergenza, di incontro, di urto. Da questa interpretazione ed evocazione emergerebbe un significato: e lo scrittore sarebbe fedele alla sua “legge” (“La loi de l’écrivain ... est une décision quelconque sur les choses humaines”). Si intravede allora il motivo delle dimensioni stesse della Comédie: le due o tremila figure che appaiono nell’ opera sono “la somma dei tipi che presenta ogni generazione”: le divisioni strutturali sono le gallerie in cui debbono allinearsi questi tipi. D’altro lato non esistono solo individui, ma anche situazioni, avvenimenti, suscettibili di divenire “tipici”: “Il y a des situations qui se représentent dans toutes les existences, des phases typiques, et c’est là une des exactitudes que j’ ai le plus cherchées”. Così lo sforzo di coordinare la materia è solo in apparenza astratto; lo è per chi consideri le partizioni della Comédie come compartimenti statici, e sopravaluti la loro portata e funzione. Si può dire della struttura esterna dell’opera ciò che Gide ha detto dei tentativi “teorici” di Balzac: “Balzac a toujours cherché une théorie des passions; c’est une grande chance pour lui qu’ il ne l’ait jamais trouvée Ma è anche una fortuna che l’abbia cercata, poiché proprio i segni di questa ricerca concorrono al rilievo dei personaggi, accentuano la necessità e il senso dell’azione.

  Il problema del disegno generale della Comédie non è un mero problema compositivo. Si ha l’illusione che Balzac altro non abbia fatto che illuminare alcune parti di un grande edificio immerso nell’ombra; che le masse di questo edificio siano disposte in un ordine che preesiste all’illuminazione e alla scoperta. Questa illusione è in gran parte determinata dalla tecnica del “ritorno” dei personaggi: ora l’effetto di questa tecnica non è solo di mantenere e di ravvivare l’interesse del lettore, provocando in lui l’“unceasing delight” di cui parlava il Browning (3); è di rinnovare, di modificare radicalmente il metodo di caratterizzazione del personaggio. In altri termini (come la critica ha bene mostrato) il personaggio si arricchisce di una nuova “dimensione”; la sua natura, la sua unità, emergono dalla giustapposizione di diverse immagini, poste su piani diversi. Ne consegue che uno stesso personaggio, ricomparendo in circostanze mutate, in ambienti sociali vari, assicura una comunicazione fra questi ambienti, e soprattutto una comunicazione fra le vicende che ora procedono parallelamente, ora si compenetrano. Si ricordi quanto egli rimproverava a Walter Scott: “Il il’ avait pas songé à relier ses compositions l’une à l’autre de manière à coordonner une histoire complète, dont chaque chapitre eût été un roman et chaque roman une époque”. Se ciò vale per una serie di romanzi storici, sezione verticale nel tempo, ciò vale egualmente per una serie di romanzi di materia contemporanea, sezione orizzontale nel tempo. Non si tratta soltanto di una accumulazione di fatti, che si annettano gli uni agli altri. Balzac procede in direzioni temporali inverse: alla cronologia progressiva si alterna una cronologia “regressiva” (Preston). L’autore rischiara talvolta alcuni settori del passato rimasti oscuri o poco noti, proietta su certi episodi una luce più completa, ecc. Questa tecnica riguarda i personaggi, ma anche i complessi a cui essi appartengono; ha una portata temporale, ma anche una portata spaziale (ponendo in contatto diverse zone della “geografia” della Comédie). E’ evidente che il ricorso dei personaggi è un metodo originale, essenzialmente diverso dalla “continuazione” di una unica storia: ma le differenti storie prendono rilievo sul fondo di un sostrato comune, e insieme contribuiscono a formare questo sostrato. Esse si basano implicitamente (o esplicitamente) su di una serie di presupposti che qualificano e determinano la vicenda, facendo un più o meno discreto appello alla memoria del lettore. Si concretano così, sul volto dei personaggi, i segni del tempo, le stimmate della passione, dell’azione. Ciò permette di comprendere come l’unità dell’opera di Balzac non sia una formula retorica, non definisca uno schema più o meno rigoroso o contestabile: ma costituisca una realtà operante nell’ ordine dell’arte. Isolare i personaggi dalle molteplici vicende di cui partecipano, cercare di distinguerne l’“unica” fisionomia, è tuttavia un procedimento forse didascalicamente utile, certo criticamente pericoloso: converrà piuttosto rispettare il metodo di Balzac, e considerare tale identità nell’ambito di una “durata” sempre presente alla memoria (e pur necessariamente interrotta da spazi “vacanti”). La coerenza psicologica dei personaggi non deve essere intesa come il continuo riferimento a un “carattere” intellettualmente definito, ma come la concretezza di un complesso vitale, efficiente.

  Al disegno particolare di un romanzo si sovrappone il disegno generale della Comédie: così al ritratto “statico” (inteso come mero elenco di caratteri somatici, e soprattutto psicologici) subentra una caratterizzazione “dinamica” del personaggio. Ciò non esclude il valore “caratterizzante” del ritratto. Il ritratto si coordina spesso intorno al nome del personaggio, a cui Balzac attribuisce un significato “occulto”: “Entre les faits de la vie et le nom des hommes, il est de secrètes et d’inexpliquables concordances ou des désaccords visibles qui surprennent: souvent des corrélations lointaines, mais efficaces, s’y sont révélées” (Z. Marcas). Se il nome è un simbolo centrale, a queste secrete correlazioni si aggiungono rapporti più definiti: la caratteriologia di Balzac ha potuto essere oggetto di studi minuziosi, e Balzac stesso si è vantato (per bocca di Félix Davin) di non aver dimenticato “nè la fisionomia di un personaggio, nè le pieghe delle sue vesti, nè la sua casa, ecc.”. C’è in lui l’esigenza di una caratterizzazione “fisica” del personaggio (che presenti una apparente obbiettività): l’aspetto fisico è decomposto, ogni particolare ingrandito come sotto una lente. Si ricordi eh’ egli rimprovera a Stendhal di avere trascurato l’aspetto fisico (esattamente: “le côté physique”) nella pittura dei suoi personaggi. Si ricordi anche quanto si legge delle correzioni apportate da Bianchon al manoscritto dell’Archer de Charles IX (il romanzo di Lucien de Rubempré): “Ses portraits, un peu mous de dessin, avaient été vigoureusement accusés et colorés; tous se rattachaient aux phénomènes curieux de la vie humaine par des observations physiologiques dues sans doute à Bianchon ... ”. Balzac persegue per parte sua una unità “fisio-psicologica” del personaggio. Rimandiamo per es. al ritratto di Grandet (ed. Conard, VIII, 286), che inizia così: “Au physique, Grandet était un homme de cinq pieds, trapu, carré, ayant des mollets de douze pouces de circonférence, des rotules noueuses et de larges épaules ...”. La forma del viso, l’incarnato, il mento, le labbra, i denti, gli occhi, la fronte (con le sue “protuberanze significative”), i capelli, il naso, ecc. sono successivamente descritti. Questi diversi elementi sia presi a sè (“une loupe veinée que le vulgaire disait, non sans raison, pleine de malice”), sia nel loro insieme, hanno un significato psicologico: “Cette figure annonçait une finesse dangereuse, une probité sans chaleur, l’égoïsme d’un homme habitué etc.”. Impossibile analizzare qui compiutamente tale esempio: basterà dire che la descrizione “caratterizzante” non si appaga degli elementi elencati, ma aspira ad una sempre maggiore concretezza, considerando l’atteggiamento, l’andatura, l’abbigliamento di Grandet, e via di seguito. Le tendenze o le costanti della caratterizzazione potranno essere studiate sul piano dell’analisi: ma il punto di forza di Balzac consiste nel modo in cui questi ritratti si inseriscono nell’azione, nella precisa rispondenza e nella concreta funzionalità dei particolari. Ora il ritratto, fornendo dei caratteri in una certa misura continui e quindi stabili (ma non statici), circoscrive il personaggio nel tempo: la sua puntuale efficacia è tanto più notevole in quanto Balzac fa largo uso di associazioni abituali, di formule correnti ecc. Si attuano nella sua opera sicuri effetti di compensazione: il “longior quam oportet sermo”, o il lirismo incomposto, o il grezzo umore (quei caratteri insomma che sono all’origine dell’opinione tradizionale secondo cui Balzac “scrive male”), non gravano sulla vita organica del romanzo, si perdono nelle vaste prospettive della Comédie humaine.

 

  Note.

 

  (1) B. stesso distingue la “Rivolta” (contro la società) dalla “Lotta” (nella società), quando scrive a proposito di Rastignac: “Il avait vu les trois grandes expressions de la société: l’Obéissance, la Lutte et la Révolte: la Famille, le Monde et Vautrin”.

  (2) E una “configurazione poetica” del Male, il Diavolo.

 (3) Cf. una lett. alla Barrett (27 aprile 1846): “... for you, with your love or a “story”, what an unceasing delight must be that very ingenious way of bis, by which he connects the new novel with its predecessors - keeps telling you more and more news or the people you have got interested in, but seemed to have done with”.

 

 

 Bice Rizzi, Una lettera inedita di Madame de Balzac sulla Russia zarista, «Atti della Accademia Roveretana degli Agiati», anno 203, s. 5.3, Rovereto, Arti grafiche, 1954, pp. 133-136.

 

  In una visita di tre anni or sono, al Castello di Versailles, mentre passavamo da una sala all’altra in un crescendo di fastose ricchezze tra le esclamazioni di ammirata meraviglia espressa in tutte le lingue, non ci riusciva di dissociare il ricordo delle invettive del nostro Carducci e quello dell’insofferenza di uno stesso illustre francese Honoré de Balzac affermata in una lettera «all’Etrangère» Eveline Rzewuska sposata Hanska e divenuta più tardi Madame de Balzac: «Voi non sapete che male fate parlandomene ... (riferendosi a Versailles). Odio quel luogo di lusso e di tradimento... Se voi mi amate non parlatemi giammai di Versailles ...».

  Certo in quella visita non potevamo immaginare che il giorno appresso la destinataria ci sarebbe venuta incontro casualmente, altrettanto severa nel giudizio su un altro regime, nei caratteri minuti e malfermi d'una lettera, rinvenuta in quel mare magnum dei manoscritti conservati nella Bibliothèque Nationale mentre indirizzavano verso altri argomenti le nostre ricerche. Lettera interessante non solo per l’argomento ma per la vivacità dello stile e la sincerità che la pervade e per la rarità degli scritti di pugno della donna che Balzac amò soprattutte. Poiché mentre le lettere del romanziere si contano a migliaia (le sole lettere all’«Etrangère» sono raccolte in tre ponderosi volumi e un quarto attende di essere stampato) quelle di lei sono ben poche dopo la distruzione fatta dal romanziere nel ’47: circa due ne rimangono, dirette a Balzac, diciassette al fratello. Ce ne dà notizia l’accademico Emile Henriot in quel suo bel volume di profili femminili «Portraits des femmes» (edito a Parigi da A. Michel, 1950) scritto con quel garbo insuperabile proprio dei francesi per questo genere di saggi.

  E la lettera accresce d’importanza per la sua qualità d’inedito, almeno per quel cauto giudizio, proprio agli studiosi seri, favoritoci da un illustre studioso balzachiano, Marcel Bouteron dell’Institut de France: «cette lettre est inédite du moins à ma connaissance».

  Essa è diretta a Louis Blanc, rappresentante del nascente socialismo, uomo politico e storico, l’autore dell’«Histoire de dix ans», violenta requisitoria contro la monarchia di luglio. Eveline Balzac la scrisse a diciannove anni dalla morte del romanziere, cioè nel luglio del 1869. Accennammo dianzi alla respirante sincerità di quello scritto, esigenza peculiare del temperamento che contraddistinse la fedele «Polonaise» già fin da quel lontano 28 febbraio 1832 in cui essa dirigeva a Balzac quella sua prima lettera.

 

  Già poco dopo quella data, in una delle due citate lettere ammirative a Balzac, ella non mancava di ammonirlo sulle scorie della sua arte che minacciavano di accerchiarlo: «La vérité la voudrez-vous d’un être inconnu mais qui vous aime, vous le dit, et peut vous le dire?». «Tout de suite» come commenta Emile Henriot «elle montrait son ambition: le droit de dire la vérité nue». Affermazione che trova altra conferma nella lettera che siamo lieti di riservare per gli «Atti» od oltre centocinquant’anni dalla nascita di Eveline di cui in questo scritto il giudizio obiettivo e spregiudicato su un regime feudale ha un particolare significato che va oltre il secolare antagonismo russo-polacco. Non dobbiamo dimenticare che l’amica, che Balzac attese per diciassette anni, era nata in un avito castello e che era imparentata con le più vecchie e nobili famiglie polacche. [...].

 

 

  Giuseppe Santonastaso, Balzac e il socialismo aristocratico, in Il socialismo francese da Saint-Simon a Proudhon, Firenze, Edizioni Leonardo, Casa editrice Sansoni, 1954 («Collana di studi storici e politici»), pp. 161-164.

 

  L’opera letteraria ed artistica di Balzac è percorsa da diversi motivi sociali e politici, ricchi di un’interna logica di pensiero e di sentimento, in cui pessimismo e ottimismo si urtano sotto le sug­gestioni della realtà quotidiana, per comporsi in una concezione individualistica di libera ascensione umana, fuori e contro le masse, in un moto ascendente di progresso e di benessere sociale.

  L’evoluzione politica di Balzac dal 1820 al 1834 è sensibilissima: s’inizia col liberalismo in politica, col positivismo in filo­sofia e l’anarchismo in sociologia per concludersi in un sistema gerarchico, in un ordine sociale, condizione della stabilità del potere e del benessere delle masse. Il suo liberalismo politico pog­giava sulla sua condizione sociale, sulla sua prima educazione: il suo anarchismo lo collegava al Rousseau, di cui fu interprete ed ammiratore, il suo positivismo scientifico si era nutrito degli enciclopedisti e dei sociologi.

  Come dimostra Bernard Guyon che ha dedicato una poderosa ricerca a La pensée politique et sociale de Balzac, (Librairie Colin), Balzac iniziò la sua attività di scrittore avversando la politica reazionaria della Restaurazione: fu ostile ai Gesuiti e alla Con­gregazione, ebbe l’ardore del neofita liberale, vivo l’entusiasmo per le idee di progresso e di libertà, come appare nel Cromwell e in Stenio. Criticò l’istituto familiare, insorse contro tutte le forme di coazione sociale. Tutto preso dello studio della realtà umana, tese a un sistema di filosofia scientifica di cui la Comédie Humaine è la dimostrazione: il mondo morale sorge dal mondo fisiologico e il sistema di psicologia è ridotto alla fisiologia, la morale alla scienza dei costumi. Balzac ricerca le leggi costanti nella mobilità dei motivi, degli interessi, dei contrasti in analogia al Machiavelli e al Pareto, quasi formulando un principio di politica naturalistica, in cui le scienze morali abbiano la stessa pre­cisione delle scienze fisiche.

  Sotto l’influenza di Cabanis in modo particolare, studiò i rapporti tra mondo morale e mondo fisico e, sotto l’influenza di Voltaire e di Rousseau, condannò la religione, colpevole dei mali perché ha impedito lo sviluppo della scienza. Tale fermento di rivolta non sparì interamente dalle sue opere, anche quando considerò il sistema gerarchico colle naturali disuguaglianze e gradazioni di valori modello del mondo politico e sociale. La sua visione dell’universo è leibniziana: l’universo è un insieme di forze momentaneamente raggruppate in un mondo particolare, che vive nel tutto da cui è sorto e a cui deve ritornare.

  Il pensiero, le idee, i sentimenti, le passioni, tutto ciò che viene chiamato spirito od anima, non è che un insieme di forze analoghe al vapore, all’elettricità: il mondo è perciò unità e molteplicità, unità animata in tutte le sue parti. Tale concezione si conclude in un sistema positivista, in cui si identificano passione del sapere e passione del potere. L’uomo che domina le forze dell’universo, possiede anche la potenza sovrana sulle cose e sugli uomini. Balzac in questa fase è apologeta dell’energia sotto l’influsso del Godwin che considera l’energia la più preziosa delle qualità umane.

  Ma per la conversione degli opposti, l’apologeta dell’energia si converte in ammiratore della disciplina dei Gesuiti (1824-26): il liberale anticlericale si schiera allato della reazione, propugna il diritto di primogenitura e la centralizzazione delle fortune fondiarie nelle mani di famiglie potenti: considera il pericolo delle forze ascendenti della giovinezza nella società moderna, l’instabilità e la crisi del potere politico, parabola che sarà percorsa poi dal nostro Ferrero. I giovani non vogliono restare nello stato della propria famiglia, l’artigiano destina il suo figlio alla roba, il commerciante il suo per il notariato, il notaio o il piccolo avvocato vogliono che il loro nome diventi illustre nella assemblea. Compito della classe possidente è perciò di ridurre l’esercito dei poveri, realizzando per tutti un minimo di soddisfazione materiale: essa deve disarmare gli avversari, privandoli dei capi. L’esercito dei poveri è reso pericoloso dagli uomini d’energia che li conducono. Sopprimete questi generali, e i poveri non saranno più rivoluzionari.

  È questo il periodo sansimoniano di Balzac quando si fece editore del «Cahier du Gimnase» (sic) (1828) sotto l’influsso di Buchez e di Bazard: tramite Balzac, De Vigny fu preso dalla dottrina sansimoniana. Mentre per la scuola sansimoniana l’antagonismo tra l’artista e la società è una crisi passeggera da cui sorgerà una era di armonia e di pace, per Balzac l’opposizione è definitiva.

  La società è un organismo vivente, in cui l’insieme delle forze è costantemente minacciato dalla disgregazione; primo compito dell’uomo politico — e tale intuizione è di Machiavelli — è mantenere il suo potere, farlo durare, assicurando la felicità pubblica; il benessere generale è solidale dell’ordine, l’ordine è solidale della stabilità dei poteri. La politica si conclude in un pluralismo sociale e giuridico nel Balzac come nel Proudhon, con la differenza che in Balzac permane la celebrazione dell’uomo politico, che sappia dirigere la società con un abile calcolo di ambizioni e un’esatta valutazione delle loro forze. Precorrendo Pareto e Mosca, ammette le élites ascendenti come condizione del rinnovamento della società. L’ineguaglianza è essenziale alla natura umana: tutto ciò che esiste tende a distruggerla, a creare un periodo di anarchia, durante il quale una società nuova si organizza su nuove ineguaglianze. Un machiavellismo permanente aleggia nell’opera di Balzac nella celebrazione dell’unità del potere e dell’unità assoluta di pensiero nello stato: ma ogni potere che richieda l’unanimità degli spiriti, è tirannia. Ogni tirannia è pietrificazione delle energie vive dello spirito. Ogni energia spenta è servilismo, gesuitismo trionfante. La politica, pur nei grandi complessi economici moderni, deve lasciare una sfera libera morale e giuridica all’individuo, se si vuole continuamente rinnovare. Il sistema di Balzac è un sistema di artista: l’artista è un aristocratico e non considera sempre che la realtà sociale ha molteplici esigenze e realizza un lutto superiore ai fini degli individui, come intuirono il Proudhon e il Marx, sulle orme del Vico: realtà nuova e non sempre deducibile razionalmente, che non può essere ridotta ai fini del singolo individuo, sia pure grande artista.

 

 

  Dante Serra, Dura e laboriosa vita di Balzac. Combatté con la penna, «Il Popolo del Lunedì», Roma, Anno XI, N. 46, 15 Febbraio 1954, p. 5.

 

Lavorare e soltanto lavorare, questo era il suo mito.

 

  La vita agitata di Honoré de Balzac conserva un eccezionale valore nella storia letteraria dell’800 francese.

  Dopo oltre un secolo dalla morte di questo scrittore la sua possente personalità artistica vive e giganteggia come non mai.

  Pochi scrittori, di quell’epoca, hanno avuto tanta rinomanza e pochi hanno suscitato tante polemiche, tante discussioni e tanto interesse quanto Balzac.

  Per quasi trent’anni la febbre del lavoro gli accese la fantasia, lo soggiogò mentre l’avversa fortuna lo incalzava non concedendogli tregua, cotringendolo (sic) a logorarsi la salute e l’ingegno non tanto per il suo meraviglioso sogno di gloria quanto per tenere a bada i numerosi e fastidiosi creditori.

  A ventinove anni si trovò sul lastrico, abbandonato dalla famiglia e da tutti carico di debiti, senz’altro mezzo per pagarli e per vivere che il lavoro della penna. Cominciò da quel momento la lotta prodigiosa che lo scrittore sostenne fieramente sino alla morte, lavorando giorno e notte, sorretto dalla fede nell’avvenire e da una forza di volontà quasi sovrumana.

  Compiute le dodici fatiche, ne escogitava una tredicesima per un sollazzo. E questo è il facile segreto – facile da intendersi, arduo ad imitarsi – di tutti i grandi lavoratori tormentati. Essi hanno sempre saputo, come seppe Balzac, mettersi al lavoro per un triste bisogno, e continuare a lavorare con una superba gioia. Una sola emozione gli occupava il cervello: e se per un istante quell’emozione era il disgusto della necessità, subito dopo soverchiava l’orgoglio della creazione. Ciascuno in verità cerca le catene che gli convengono: Alfieri si fa legare alla seggiola per scrivere tragedie, Balzac si dà da mancipio ai creditori per comporre quella ciclopica opera che si chiama «Comédie Humaine». Ed è stolto andare indagando che cosa mai avrebbe scritto di perfetto Balzac se avesse avuto ordine e tranquillità nella sua vita. Non era nato per levigare la frase, o per cesellare il periodo, o per comporre con euritmia: deplorare la mancanza dell’ordine lapidario di Flaubert nella prosa di Balzac è peggio che andare cercando le farfalle sotto l’arco di Tito. Tra l’uomo e l'opera non v’è discordanza: e si direbbe una formula paradossale, nella quale è pure un granello di verità, che Balzac non scriveva frettolosamente i romanzi per pagare i troppi debiti, ma contraeva troppi debiti per poter scrivere frettolosamente i romanzi.

  Vita tormentata e stravagante quella di Balzac. Temperamento moderno per aver gettato in pieno romanticismo il seme di quell’osservazione realistica che darà i suoi migliori frutti nei capolavori di Flaubert e di Verga; uomo dell’avvenire per non essersi adattato — come tanti altri suoi illustri contemporanei — ad una concezione povera ed unilaterale della vita, egli scontò l’invidiabile colpa di possedere un temperamento così ricco e fecondo con una serie quasi ininterrotta di ansie e di angoscie che avrebbero presto fiaccato una fibra meno energica e vigorosa della sua.

 

***

 

  Forse nessuno ha curiosamente scrutato il proprio tempo come Balzac. Quindicenne alla caduta dell’impero egli vive gli anni di gioventù durante la Restaurazione; e quando nel 1830, si promuove il nuovo Regime, il suo nome è ormai affacciato alla popolarità e alla gloria.

  Questo titano dell’arte scriveva, come si sa, quasi senza pentimenti la prima stesura d’ogni suo libro e lo rifaceva poi sulle bozze di stampa, univa la storia aneddotica, le analisi dei costumi sociali, le indagini psicologiche, ma più si compiaceva di mostrare attitudini alle vaste sintesi psicologiche e al ragionare sentenzioso; lavoratore inesausto egli scriveva per la gloria ed era avido di popolarità, aveva modi e istinti di gentilezza popolana e si vantava di incerte origini nobiliari; era conservatore in politica e professava idee sovversive; parlava tanto liberamente da dover essere considerato eretico dinanzi ad ogni chiesa e a ogni partito, ma concludeva sempre alla necessità della religione e della monarchia; intendeva monarchia quella antica e legittima, e celebrava l’Impero nel tono di Béranger.

  Anche in questo era un efficace interprete del tempo suo; che vedeva gli avanzi dei grandi eserciti umiliati dagli ufficialetti d’anticamera della Restaurazione borbonica; e se ne sdegnava.

  «Chi meglio di lui — si chiese Sainte-Beuve poco dopo la morte di Balzac — ha dipinto le vecchie e le belle dell’Impero, le duchesse, le viscontesse vissute alla fine della Restaurazione, e la classe borghese che trionfò sotto la dinastia di luglio?».

  Per chi si dilettasse a risalire verso le origini il corso di questo massimo fiume del romanzo che si chiamò Honoré de Balzac, ritroverebbe le sorgenti incuneale in Peau de chagrin, che appare nel riodinamento (sic) della «Comédie Humaine» come anello di collegamento fra i documenti e il Medico di Campagna (1833); Eugenia Grandet, (1834); Papà Goriot (1835); Giglio nella valle (1836), eccetera. Del titolo complessivo Commedia Umana l’autore fa risalire l’idea a tredici anni prima; e tuttavia bisogna pensare ch’egli vi includeva Caterina de’ Medici, ad esempio, fra i documenti storici.

  Ma dei duemila personaggi del mondo balzachiano (questa curiosa statistica fu pazientemente condotta a termine da Gautier) nel romanzo comparso più di cento anni or sono si ritrovano già precisi i principali, almeno tra gli uomini.

  «E’ un mondo — osserva Anatole France — è tutto un mondo; e quel che appare meraviglioso è il constatare come l’autore muova duemila personaggi senza il minimo errore né di carattere nè di cronologia».

  Le decine e decine di romanzi che sgorgarono dalla sua vulcanica mente non sono delle opere letterarie sterili o vuote, astruse o fredde, no! Esse, a distanza di più di un secolo, vivono come non mai per le inconfondibili bellezze di stile, di trama, e di indagine psicologica di cui sono tutte profuse. Dalla sua potente macchina cerebrale che valse ad edificare un’opera colossale sono usciti un centinaio di lavori letterari, tra romanzi, drammi, novelle e saggi che non tutti conoscono perché la sua attività era varia, inesauribile e sempre fluente a tal punto che possiamo sognarla ancora in azione, come se il romanziere, mal contenuto nel suo sepolcro, divincolantesi tra le strette della morte, spandesse ancora a larghi flutti il suo genio sul mondo.

  La fama, la vera fama la ebbe dopo la morte. Vivo venne letto per tutta Europa e negli ultimi anni divenne il romanziere alla moda, al punto che si ammobiliavano gli appartamenti secondo le descrizioni dei suoi romanzi, e che molte signore imitavano le maniere delle sue eroine, ma la critica — la grande distributrice degli onori — non gli fu punto benevola.

  Per ben due volte bussò invano alle porte dell’alto consesso delle lettere dell’Accademia Francese. Saputo che il più forte ostacolo per essere accettato era la sua povertà, scrisse al Nodier: «Se non posso giungere all’Accademia in causa della più onorevole povertà, non mi presenterò giammai quando la prosperità mi accorderà i suoi favori».

  Eppure il sole della gloria l’aveva più volte baciato. E di gloria, ripetiamo, fu sempre assetato, anche quando sembrava spuntargli un sorriso ironico e mordace: «La gloria è dodicimila lire spese in articoli di giornali e mille scudi in pranzi».

  Lavorare, lavorare ecco la sola la grande sua passione. Titano inchiodato alla propria fatica, divorato dal suo genio, Balzac si uccideva.

  Intanto cominciava a manifestarsi una malattia al cuore che doveva rapidamente portarlo alla tomba. Il corpo di questo gigante, logorato dallo sforzo immenso di creare e descrivere tutta una umanità, si disfaceva sempre più. La sua vita prodigiosa se ne dissolveva lentamente. Morì a Parigi a cinquantuno anni la sera del 19 (sic) agosto 1850.

  Il giorno dopo, uno dei massimi fogli parigini pubblicava, la seguente modesta nota, perduta in seconda pagina, tra l’ingombro di notizie di politica:

  «Uno degli scrittori più fecondi e più celebri dei nostri giorni, il signor de Balzac, è morto. Le esequie avranno luogo mercoledì 21 agosto, alle ore 11, nella chiesa di Saint-Philippe du Roule».

 

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  L’ultimo amore. Radiodramma da La Duchesse de Langeais. Compagnia di Prosa di Torino della Rai con Misa Mordeglia Mari (Antonietta), Gino Mavara (il generale di Montriveau), Renata Negri (la viscontessa di Fontaine), Nina Artuffo (la contessa di Serizy), Gualtiero Rizzi (il marchese di Ronquerolles), Angiolina Quinterno (Susanne), Angelo Zanobini (Pamiers), Vigilio Gottardi (il portinaio), Piero Nuti (il governatore), Arnaldo Martelli (il cappellano), Lina Acconci (l’Abbadessa), Angelo Montagna, Alberto Marchè, Luigi Lampugnani, Angelo Alessio. Adattamento radiofonico di Mario Vani. Regia di Eugenio Salussolia. Secondo Programma, 9 dicembre 1954.

 

  Disponibile sul sito Rai Teche.



[1] Cito Balzac nel testo curato da M. Bouteron, La comédie humaine, Bibliothèque de la Pléiade, ristampa del 1940. Il passo qui riportato e tradotto è tolto da Louis Lambert ed. cit. volume X, p. 412. [N. d. A.].

[2] «Sa peau brune a été cuite et hâlée par le feu de l’Enfer» Les Proscrits ed. cit. vol. X, p. 326. [N. d. A.].

[3] V. Annette et le criminel […]. [N. d. A.].

[4] L’Elixir de longue vie, La Comédie humaine ed. cit. vol. X, p. 313. [N. d. A.].

[5] [...]. L’interpretazione della figura di Dante mi fa pensare che qualche volta gli adepti vanno al di là delle intenzioni del gran Sacerdote. [N. d. A.].

[6] Louis Lambert ed. cit. t. X p. 381. [N. d. A.].

[7] Les Proscrits ed. cit. t. X p. 340. [N. d. A.].

[8] Su di esse fa luce un passo di Louis Lambert: «Swedenborg ha lavato Dio del rimprovero che le anime sensibili gli muovono sulla perennità delle vendette con le quali egli punisce le colpe di un istante». V. L. Lambert ed. cit. vol. X p. 420.

[9] Pierre Abraham, Balzac, Paris, 1929, p. 51. [N. d. A.].


Marco Stupazzoni


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