giovedì 14 marzo 2019



1927

 

 


Traduzioni.

 

 

  Onorato de Balzac, All’insegna del gatto che gioca a palla e Il ballo di Sceaux Di Onorato de Balzac. Traduzione di A. Finamore, Lanciano, G. Carabba, (Gennaio) 1927 («Scrittori italiani e stranieri», 34), pp. XVI-160.

 

 Cfr. 1914.

 

 

  Balzac, Babbo Goriot. Traduzione dal francese di A.[rmando] Gorlini, Milano, Armando Gorlini editore-tipografo (Tip. A. Gorlini), 1927 («Il Romanzo quindicinale», 11), pp. 203.

 

  Tranne qualche variante formale, siamo di fronte al medesimo testo della traduzione italiana di Le Père Goriot redatta da Ketty Nagel nel 1903 (e ristampe successive) e pubblicata dagli editori Fratelli Treves di Milano.

 

 

  Balzac, La donna di trent’anni, Firenze, Editore Quattrini Casa Editrice Italiana, 1927 («Il Romanzo popolare»), pp. 40.

 

  Cfr. 1921; 1922.



  Onorato de Balzac, Novelle di autori celebri. Gesù Cristo in Fiandra, «Il Bivio», Roma, Anno VI, N. 67 e sgg., Novembre 1927, pp. 12; 14; 16.

 

 

  Onorato de Balzac, I Gesuiti. Traduzione di G. Morsani, Roma, Tipografia Editrice Laziale - A. Marchesi, 1927, pp. 111.

 

  Cfr. 1922-1923.

 

 

  O. Balzac, Papà Goriot. Romanzo, Firenze, Attilio Quattrini Editore (Stab. poligrafici riuniti-Bologna), 1927 («Il Romanzo popolare»), pp. 139.

 

  Questa traduzione italiana (anonima) di Le Père Goriot presenta una suddivisione del testo in quattro parti e presenta l’epigrafe shakespeariana “Tutto è vero” (All is true) secondo il modello della terza edizione del romanzo pubblicata da Werdet nel 1835. Sia l’epigrafe sia i quattro capitoli saranno soppressi da Balzac nell’edizione Charpentier del 1839. Il testo della traduzione si fonda tuttavia su quello dell’edizione definitiva Furne del 1843.

  Lontana dal potersi considerare come esemplare, questa versione italiana del capolavoro balzachiano si rivela, fin dall’inizio, come estremamente libera e tutt’altro che fedele rispetto al modello francese. Non mancano altresì omissioni di intere sequenze testuali come dimostra questo estratto dall’incipit che qui sotto integralmente riportiamo:

 

  p. 5. Una pensione borghese.

 

  La vecchia signora de Conflans, vedova Vauquer tiene da circa quarant’anni, a Parigi, una modesta pensione borghese, in via Nuova Santa Genoveffa, nei pressi del Quartiere Latino.

  Quella pensione era assai nota con il nome di Casa Vauquer, ospita tanto uomini, che donne, giovani e vecchi, senza che mai la maldicenza abbia trovato da ridire sui costumi di quella rispettabile casa.

  Tuttavia da trent’anni nessun giovane vi era capitato, ed infatti perché un giovane vi dimorasse, dovevasi ammettete che assai scarse fossero le sue rendite.

  Malgrado ciò, nel 1819, epoca in cui si inizia questo dramma, vi si trovava una povera fanciulla. Per quanto in discredito sia caduta la parola dramma, in seguito al modo abusivo ed irragionevole con cui fu prodigata in questi tempi di triste letteratura, non possiamo a meno dir usarla qui, non già perché questa storia sia drammatica nel vero senso della parola, ma perché potrebbe darsi che, ad opera compiuta, venissero versate delle lagrime intra muros et extra.

  Sarà compresa anche fuori di Parigi? Il dubbio è lecito.

  Ma sappiatelo, questo dramma non è nè una finzione nè un romanzo. All is true; è così vero, che ognuno ne può riconoscere gli elementi presso di sè, esso forse nel proprio cuore.

 

 

  Balzac, La Pelle di zigrino. Traduzione italiana di Emilio Girardi, Milano, Casa Editrice Sonzogno, 1927 («Collezione Sonzogno», 17), pp. 253.

 

  Cfr. 1904; 1921.

 

 

  Onorato de Balzac [H. de Balzac, in copertina], Il salotto dei sorpassati. Traduzione di Giulia Bartholini Casarate, Bologna, Casa Editrice Apollo (Stabilimenti Poligrafici Riuntiti), (agosto) 1927, pp. 220.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Nota del traduttore, [p. I]; Lettera dedicatoria “Al Barone de Hammer Purgstall, Consigliere aulico, autore della storia dell’Impero Ottomano, pp. 1-2; Il salotto dei sorpassati, pp. 5-220.

 

  Con il titolo di: Il salotto dei sorpassati, è pubblicata la traduzione italiana di: Le Cabinet des Antiques di cui Giulia Bartholini Casarate è la curatrice. Questa nuova versione italiana del romanzo di Balzac, che si fonda sul testo dell’edizione Furne del 1844, può considerarsi, nel suo insieme accettabile, anche se, in diversi luoghi dell’opera, la traduttrice mostra una eccessiva disinvoltura nella resa, in lingua italiana, del costrutto francese. Si considerino i seguenti esempi tratti dalle prime pagine del romanzo:

 

  p. 965. [cfr. H. de Balzac, Le Cabinet des Antiques nell’edizione critica curata da Nicole Mozet, in La Comédie humaine, t. IV, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1976].


  Dans une des moins importantes préfectures de France, au centre de la ville, au coin d’une rue, est une maison ; mais les noms de cette rue et de cette maison doivent être cachés ici. Chacun appréciera les motifs de cette sage retenue exigée par les convenances. Un écrivain touche à bien des plaies en se faisant l’annaliste de son temps! [Il corsivo è nostro].

 

  p. 5. In una delle minori Prefetture di Francia, nel centro della città, all’angolo di una strada vi è una casa, ma i loro nomi debbono essere taciuti qui, per una saggia reticenza che le convenienze richiedono e che ognuno vorrà apprezzare. Quante piaghe sfiora uno scrittore facendo l’annalista del suo tempo!

 

  p. 966. […] et à l’égal d’une bonne vierge qui guérit les maux de dents […].

 

  p. 6. […] e come una Vergine buona che con le sue virtù riesca a guarire il male ai denti […].

 

  p. 968. Ce grand d’Esgrignon resta longtemps muet, il aspira la senteur patrimoniale de l’air et jeta la plus mélancolique des interjections.

 

  p. 9. Il grande d’Esgrignon restò lungamente muto sentendosi finalmente nella sua terra, poi apostrofò il notaio malinconicamente: […].

 

  È presente una breve Nota del traduttore che qui trascriviamo integralmente:

 

  «Il Salotto d’Esgrignon aveva ricevuto il soprannome che dà il titolo originale al romanzo per allusione al Cabinet des Antiques del Re, raccolta di medaglie, monete, cammei e incisioni antiche che Francesco I aveva cominciato a riunire e che fu organizzata definitivamente da Luigi XIV. Essa è la più bella e ricca collezione d’Europa di questo genere. Abbiamo dovuto dare un titolo quasi egualmente ironico in italiano non potendo conservare quello francese, poco intelligibile ai nostri lettori».

 

 

  O. Balzac, Séraphita. (Tradotto dal francese di Decio Cinti), Milano, Casa Editrice Sonzogno (Stabilimento Grafico Matarelli della Soc. An. Alberto Matarelli), (15 luglio) 1927 («Biblioteca Universale», 535-536), pp. 188.

 

  È tradotta la dedica “À Madame Éveline de Hanska”. Fondata sull’edizione definitiva del romanzo pubblicata da Furne nel 1846, questa traduzione italiana del romanzo filosofico balzachiano compilata da Decio Cinti[1] può ritenersi, nel complesso, fedele e corretta.

 

 

 

Studî e riferimenti critici. 

 


  Riviste e giornali, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno VI, N. 26, 30 Gennaio 1927, p. 3.

 

  Il 28 febbraio del 1832 — racconta Il Giornale di Genova — Balzac trovava presso il libraio Gosselin una lettera con il timbro di Odessa, firmata La straniera: la scrivente lo elogiava moltissimo per le «Scénes (sic) de la vie privée», ma si rammaricava per la «Peau de chagrin» che aveva deluso le sue speranze. Questa «straniera» — la signora Hanska — era una polacca ed aveva ventinove anni. Ella proveniva da una grande famiglia e i suoi parenti, in pessime condizioni finanziarie l’avevano unita in matrimonio, giovanissima, ad un uomo più vecchio di lei di venticinque anni. La lettera aveva colpito Balzac, e il suo pensiero inseguì spesso quest’immagine femminile. L’invio di una Imitation de Jesù-Christ (sic), da parte della «straniera» proprio mentre Balzac scriveva «Le médecin de campagne», lo convinse sempre più che le loro anima si incontravano attraverso lo spazio e che «il loro legame era stato intrecciato in cielo». Fra i due si stabilì una corrispondenza assai fitta ove Balzac si abbandonò molto sinceramente a confessioni molteplici, sulla sua vita, sui suoi lavori, sulle piccole notizie e pettegolezzi di vita letteraria di cui «la straniera» sembrava molto ghiotta. Ella gli aveva scritto: «Per voi io sono «la straniera» e lo sarò tutta la vita. Voi non mi conoscerete mai». Diciotto mesi più tardi ella chiamava Balzac a Neufchâtel. Secondo le intelligenze epistolari, Balzac doveva incontrare la «straniera» in una passeggiata, e riconoscerla da un romanzo e da un fiore cha ella avrebbe recato in mano. Così avvenne, infatti. Ma quando la donna vide lo scrittore, appena sceso dal treno e scomposto e stanco del viaggio, con la sua breve e grossa corporatura, inelegante e volgaruccio in apparenza, la delusione fu istantanea: ella ebbe desiderio — ei dice — di lasciar cadere il fiore e il libro. Ma immediatamente, ella vide gli occhi di lui e il libro e il fiore non caddero. Per Balzac invece, che amava di già la «straniera» tanto da chiamarla «chère ange» la gioia fu immensa. In una lettera, scritta subito dopo alla sorella, dice: «… è bella. Possiede i più bei capelli del mondo, ha la pelle soave bianca e deliziosamente fine delle brune; ha una piccola mano amorosa e un cuore di ventinove anni».

  Balzac la rivide, in seguito, nel dicembre a nel gennaio a Ginevra, dove i due rinnovarono la promessa di sposarsi, non appena il vecchio conte, sempre più infermo, fosse stato liberato, con la morte, dai suoi tormenti. Egli invece non doveva raggiungerla che a Vienna, nel 1835, e a Pietroburgo, in seguito, nel 1843, essendo già lei, vedova da due anni. Dal 1843 al 1850, essi si rividero spesso, con intervalli lunghi, tuttavia, di separazione. E’ a questa. lunga separazione che si deve la corrispondenza amorosa più stupefacente che un grande scrittore ci abbia lasciato, corrispondenza che, per sfortuna, non è che un lungo monologo, poiché le lettere della contessa Hanska sono state distrutte.



  Il centenario di Balzac tipografo, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno VI, N. 46, 23 Febbraio 1927, p. 3.

 

Bruxelles, 22 sera

 

  La rue Visconti, a Parigi, sarà ben presto all’onore? — scrive il «XX Siècle» — Mr. Raymond Laurent, consigliere del quartiere Saint Germain des Près, ha deposto all’ufficio del Consiglio municipale ima proposta per celebrare l’epoca, il 1827 -— in cui Balzac, il romanziere della Commedia umana, teneva una stamperia in rue des Marais Saint Germain, 17, che in seguito prese il nome di rue Visconti.

  Prima di scrivere la Commedia Umana il romanziere aveva tentato di fare fortuna nell’edizione e stamperia.

  Frequentando dei piccoli giornali, Balzac s’era legato d’amicizia con un proto, A. Barbier. Con costui s’installò nella tipografia che acquistarono insieme per 30.000 franchi. Citiamo la descrizione che è stata fatta dell’atelier, che occupava tutta la dimora:

  «Un corridoio scuro; un bugigattolo da portinaio aprentesi come una grotta oscura a mezza altezza del mezzanino; una scala con rampa di ferro e scalini di legno; a sinistra una porta. Si entra e ci si trova in mezzo ad un vasto atelier».

  Là Balzac lottò due anni. Il 1827 fu l’anno più rude. Tutto s’accaniva contro di lui; gli affari marciavano di male in peggio. Per consolidare la sua traballante tipografia, egli ebbe l’audacia d’aggiungervi una fonderia di caratteri. Il signor Gillè figlio, fonditore di caratteri, 4 rue Garancière, avendo fatto fallimento, Balzac costituì una muova società con Barbier ed un certo Laurent, fornitore dei fondi, per la durata di dodici anni; comperò la fonderia e l'installò in rue des Marais-Saint-Germain.

  Tre mesi dopo, débacle (sic): Barbier si ritira. Balzac lotta e trova un conforto negli incoraggiamenti di madama de Berny, che gli portava da mangiare «nella dimora oscura, in cui passava le sue giornate in combinazioni eroiche».

  La de Berny la sera accompagnava Balzac nella modesta camera che occupava al numero 2 di rue Tournon, nella bella casa che esiste sempre e che forma l’angolo della rue Tournon e della rue San Sulpice.

  E fu ancora la Da Berny che salvò Balzac, quand’egli era presso al fallimento, comperando la fonderia di caratteri assieme ai suoi due figli. Uno di essi, Alessandro de Berny, rese prospera la fonderia, cosa che Balzac non era mai riuscito a fare perché mancava del genio degli affari.



  Il Mondo e il cinema. Nostre corrispondenze particolari. A Hollywood. La letteratura e gli artisti, «Cine-cinema. Rivista quindicinale illustrata», Milano, Anno III, N. 37, 10 Aprile 1927, pp. 24-25.

 

  p. 24. Johan Gilbert […] ammira in Balzac la profonda conoscenza della vita. Il suo «Père Goriot» è tra i romanzi favoriti del giovane artista.

 

 

  Teatri. “Madonna Imperia” di Alfano domani sera al «Torino», «La Stampa», Torino, Anno 61, Num. 105, 4 Maggio 1927, p. 3.

 

  Uno fra i più gustosi, rabelesiani Contes drôlatiques di Balzac è La belle Imperia. «L’arcivescovo di Bordeaux — così comincia la saporita storia — aveva aggiunto al suo seguito, per andare al Concilio di costanza, una grazioso chierichetto di Tours, dalle maniere e dal gesto curiosamente vezzosi ... Filippo de Mala, tale era il nome del giovine, si propose di agire correttamente e di servire degnamente il suo patrono; ma non tardò ad accorgersi che a quel Concilio partecipavano molta che menavano vita dissoluta, e ciò non pertanto guadagnavano tanto, e tante indulgenze ottenevano, come se avessero condotta la più saggia e ordinata esistenza». Ora, il diavolo gli mise in mente certi cattivi pensieri, e per quanto egli si proponesse di seguire l’esempio del suo arcivescovo, che, ormai vecchio, era costretto alla probità, non riusciva a dimenticare le belle ed eleganti dame che quotidianamente incontrava per le vie di Costanza, e alle quali facevano lunghe visite notturne i pezzi grossi riunitisi pel Concilio. Avrebbe mai potuto egli, povero e male vestito, penetrare in una di quelle ricche case, davanti alle quali servi e cocchieri attendevano la fine delle suntuose cene, cui allegramente partecipavano principi e prelati? Se osava avvicinarsi a un di quegli usci i soldati accorrevano a scacciarnelo, a colpi di bastone. D’altro canto, il diavolo non cessava di tormentarlo. Una volta, più del solito ardito, elusa la vigilanza d’un guardiano, riuscì a sgattaiolare nella più bella casa di Costanza. «Salì le scale — continua Balzac, — lesto come un cerbiatto punto da amore. Un dilettoso profumo lo attrasse nella stanza ove la signora di quella magione provvedeva alla propria acconciatura insieme con le sue ancelle. Ed era piuttosto svestita». Il chierichetto non potè a meno di sospirare. E la dama, per nulla vergognosa, gli domandò che mai volesse. «Darvi la mia anima» A tale risposta, che non era la più attesa, la dama replicò con motteggi e risa. Ma non fu cattiva verso di lui; era di buon umore, quella sera. Poi, quel giovanotto, tanto audace e ardente nel desiderarla, cominciava a incuriosirla un poco. Ed ella lo congedò con una promessa: Domani! Filippo corse dal suo arcivescovo, gli confessò la forte tentazione e l’avventura, e ne ebbe consigli e predicozzi; e, poiché promise che avrebbe resistito, n’ebbe anche in premio un gruzzolo di monete. Ma il diavolo lo indusse, il giorno seguente, a spendere il suo peculio in profumi e vezzi, per farsene bello, e a tornare a quella certa casa. Domandò ai passanti come si chiamasse la dama che colà abitava. Gli risero sul muso. Donde veniva, lui che non aveva ancora udito parlare della bella Imperia? Fu accolto graziosamente dalla dama, che, quella sera, non aspettava ospiti. Ma appena s’accinsero alla cena, ecco arrivare un disturbatore, il vescovo di Coira, e poi un altro, il cardinale di Ragusa, gente che aveva libero il passo, e molte pretese su Imperia. Il cardinale di Ragusa, furbo italiano, comprese a volo che il chierichetto era un intruso, e non tardò a liquidarlo. Senza perder tempo, trattolo in disparte, gli propose di scegliere: o restare in casa di Imperia ed essere impiccato il giorno seguente, o andarsene col premio d’un’abbazia. Il tono non consentiva discussioni. Filippo preferì l’abbazia. E subito il cardinale gliene forniva il legale documento di possesso, con foglio da lui firmato. Ora Filippo stesso suggeriva al cardinale un espediente per allontanare il vescovo di Coira; avrebbe annunciato che l’arcivescovo di Bordeaux era stato colpito da morbo infettivo; e l’altro, pauroso, sarebbe scappato a rintanarsi in casa. Cento scudi d’oro furono il premio del suggerimento, che, attuato, faceva restare il cardinale di Ragusa padrone del campo. Ma Imperia non era donna che tollerasse siffatte dominazioni. E mentre l’italiano credeva d’aver vinto e si accingeva a iniziare un amoroso colloquio, rivoltandosi sdegnosamente contro di lui, lo scacciava senza pietà. Invano il cardinale minacciò i fulmini del cielo e della terra; non trovò grazia, e gli convenne di andarsene, mortificato. E Filippo, che s’era nascosto nella casa istessa, potè tornare a Imperia, che curiosa e vinta ormai dall’audacia di lui, dall’ingenuo desiderio di lui, era già impaziente di rivederlo; e cenare da solo con la bella cortigiana.

  L’opera nuovissima di Franco Alfano (composta nella scorsa estate, per l’Universal Edition di Vienna), deriva da questo racconto. Per opportunità scenica esso fu castigato col mutamento dello stato dei cardinali e vescovi in civili autorità, come cancellieri e ambasciatori; parzialmente modificato nella stesura, venne rinserrato in una rapida successione di scene costituenti un atto solo. Inoltre, nel tono puramente drôlatique del racconto fu inserito un che di sentimentale e di trascendente; nell’ambiente impregnato di peccato e di voluttà trionfa almeno per un istante il desiderio di un amore cordiale, quasi ingenuo e purificatore. Da ciò risulta una commedia di contrasti passionali e di analisi sentimentale. Il dialogo è di Arturo Rossato.



 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno 185, N. 205, 2 agosto 1927, pag. III.

 

 Tutti sanno che gli autori fanno volentieri l’autoelogio e gli editori più perfidi di quello che non si pensi, rivelano di tanto in tanto i misteri della pubblicità ... Qualche copia imprudentemente conservata, cade un giorno o l’altro nelle mani dei collezionisti di autografi. Gli autori si scagionano spesso dicendo di averlo fatto per disobbligarsi con l’editore, fortemente interessato nella questione ... Bisogna convenire che Balzac ha fatto molto bene questo suo dovere, scrive il «Figaro», quando uscirono i suoi «Contes philosophiques!». Fra gli autografi in vendita si trovò recentemente questo soffietto di Balzac, che non lascia nulla a desiderare:

 «Ls Contes philosophiques» del Signor de Balzac sono usciti questa settimana presso la libreria Gosselin. La «Peau de Chagrin» è stato già giudicato, come sono stati giudicati gli ammirevoli romanzi di Anna Radcliffe; ma queste cose sfuggono ai critici. Il lettore, avido, si è impadronito di quei libri; essi gettano l’insonnia nel palazzo del ricco e nella soffitta del poeta; essi animano la campagna, e nell’inverno dànno un riflesso più vivo al fuoco che scoppietta. Gran privilegiato il novelliere! E’ perché esso è creato dalla natura. Voi avete un bell’essere dotto e grande scrittore, ma ne non siete nato novelliere, non otterrete mai la popolarità che hanno dato «Mystères d’Adolphe», la «Peau de Chagrin», le «Mille et une nuits» del signor de Balzac (? sic).

 «Ho letto in qualche posto che Dio ha messo al mondo Adamo dicendogli: «Eccoti uomo. Si può dire nello stesso modo che Egli ha messo al mondo Balzac dicendogli: Eccoti novelliere!» Infatti che raccontatore! Quanto brio e che spirito!».

 Ecco un esempio commenta il «Figaro» che toglierà molti scrupoli agli autori timidi, se ce ne sono ancora.

 

 

  Ultime di cronaca. Un medico che si fa frate, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 198, 20 Agosto 1927, p. 7.

 

  Non per far torto alle giovani donne di Morimondo, ma difficilmente qualcuna di esse potrebbe competere con l’affascinante malata del museo di Amsterdam. E nemmeno bisogna pensare che Pampuri abbia, sentito i triboli della professione cantati così sonoramente da Fusinato o analizzati con tanta profonda umanità da Balzac nel «Medico di campagna». No: Pampuri s'è fatto frate per vocazione.

 

 

  Notiziario, «Rassegna Grafica. Rivista mensile di informazioni tecniche, industriali e commerciali», Roma, Anno II, N. 18, Settembre 1927, pp. 32-35.

 

  p. 32. Cfr. scheda seguente.

 

 

  Fra riviste e giornali. Autosoffietti di scrittori, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Anno XXXVII, Vol. XLVII, N. 18, 16 Settembre 1927, p. 719.

 

  Tutti sanno che gli autori fanno volentieri l’autoelogio; e gli editori, più perfidi di quello che non si pensi, rivelano di tanto in tanto il segreto. Qualche copia imprudentemente conservata cade un giorno o l’altro nelle mani del collezionista di autografi. Bisogna convenire che Balzac ha fatto molto bene questo suo dovere — scrive il Figaro [2]— quando uscirono i suoi Contes philosophiques. Fra gli autografi in vendita si trovò recentemente questo autosoffietto di Balzac, che non lascia nulla a desiderare:

  «Les contes philosophiques del signor De Balzac sono usciti questa settimana presso la libreria Gosselin. La Peau de chagrin è stata giudicata dal pubblico, come sono stati giudicati gli ammirevoli romanzi di Anna Radcliffe; ma queste cose sfuggono ai critici. Il lettore, avido, si è impadronito di quei libri; essi gettano l'insonnia nel palazzo del ricco e nella soffitta del poeta; essi animano la campagna, e nell’inverno danno un riflesso più vivo al fuoco che scoppietta. Gran privilegiato il novelliere! Perché esso è creato così dalla natura. Voi avete un bell’essere dotto e grande scrittore, ma, se non siete nato novelliere, non otterrete mai la popolarità che hanno dato Mystères d’Adolphe, la Peau de chagrin, le Mille et une nuits al signor De Balzac.

  «Ho letto in qualche posto che Dio ha messo al mondo Adamo dicendogli: — Eccoti uomo! — Si può dire nello stesso modo che Egli ha messo al mondo Balzac dicendogli: — Eccoti novelliere! — Infatti, quanto brio, quanto spirito! Che infaticabile perseveranza a tutto descrivere, a tutto osare, a tutto colpire! Come seziona tutto il mondo quest’uomo! Che psicologo! Quanta passione e sangue freddo! I Contes philosophiques sono l’espressione di una civiltà perduta nel vizio e nella crapula, che il signor De Balzac presenta alla pubblica esecrazione».

  Ecco un esempio che toglierà molti scrupoli agli autori timidi, se ce ne sono ancora.

 

 

  Marginalia. Filiazioni di Balzac nella vita e nell’arte, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXII, N. 38, 18 Settembre 1927, p. 3.

 

  — La fortuna di questo magnifico narratore non si giustifica soltanto con la serie degli imitatori e con la devozione dei lettori; nei riguardi di Balzac c’è qualcosa di più, che permette ai suoi critici più recenti — come Preston Dargan ne la Revue de littérature comparée [3]— di studiare una specie di trasmissione misteriosa, per cui le concezioni di quel genio traversano i tempi e quasi ai prestano a future metempsicosi Indubbiamente questa continuità della «vita prodigiosa» di Balzac trova la sua ragion d’essere nella vigoria con cui furono concepiti i personaggi della «Comédie humaine», nell’atmosfera di realtà che penetra l’opera tutta quanta, nell’entusiasmo che le qualità primordiali di quell’arte suscitarono in una folla di lettori. Il Preston Dargan, sulla scorta di pubblicazioni recenti — come quelle del Bouteron, del Bellessort, del Benjamin — ha anche tentato l’enumerazione degli scrittori che vengono a costituire quella che potrebbe chiamarsi «comunità balzacchiana». La lista comprende nomi dai gusti più diversi, come un Metternich, un Roosevelt, un James. Dal resto, è risaputo che la fama di Balzac fu assai per tempo piuttosto europea che francese. Scrisse il Sainte-Beuve, nel 1850, che quei romanzi dettavano legge in Ungheria. In Germania e in Austria, alla prima celebrità, del 1835, seguì un periodo di ristagno, ma oggi son sorti ammiratori del valore dello Zweig e dell’Hofmannsthal: del saggio di quest’ultimo su Balzac si è potuto dire «che è lo studio più bello, più comprensivo, più profondo che sia stato scritto finora sull’argomento». Tuttavia la Francia rimane la sede naturale delle reincarnazioni di Balzac. Qui si possono citare a profusione i casi di «ritorni» del romanziere e dei suoi personaggi nell’ulteriore letteratura d’immaginazione. La «Canne de Balzac», uscita nel 1836 dalla delicata fantasia di Delphine de Girardin, costituisce il primo tentativo per mettere sulla scena la persona del grande romanziere, senza dire dei personaggi della «Comédie humaine», che, avendo ormai acquistato una personalità storica, ritornano in parecchi romanzi posteriori. Ecco, per esempio, «Monsieur Quatorze» di François Fosca, che aggiunge un quattordicesimo associato ai famosi «Tredici», parecchi dei quali ritornano sulla scena. Non è poi da trascurare il ciclo di Paul Adam — «L’Enfant d'Austerlitz», «La Ruse», «Au soleil de Juillet» — che risuscita personaggi di Balzac come necessaria figurazione di un periodo storico. Infatti l’Adam, in quella Rivoluzione di luglio, ci presenta le figure balzacchiane a fianco dei personaggi di Victor Hugo, come se la loro storicità fosse assoluta; Michel Chrétien diviene il capo di una cospirazione e di una rivolta, mentre Eugène de Rastignac, rimasto fuori degli avvenimenti, continua nella sua cinica speculazione dell’umanità. È questo, forse, il caso più tipico di resurrezione, a meno che non si preferisca entrare nella serie degli aneddoti, come quello di una signora inglese che scrive a Parigi per avere l’indirizzo del famoso medico Horace Bianchon. Continuando su questa via, si potrebbe raccontare come i nomi dei personaggi balzacchiani finissero per divenire termini familiari: nel 1845 un armatore chiese il permesso di battezzare «Balzac» una delle sue navi; nello stesso anno un grosso campagnolo ebbe il soprannome di «Père Goriot»; una rivista di curiosità assumeva il titolo di «Cousin Pons»; nel «Paratonnerre» del Williamson» (1903) una ragazza si decideva a chiamare «Balzac» la sua automobile, «perché è ugualmente un genio violento e complicato».

 

 

  Aneddoti, «Cine-gazzettino. Rassegna settimanale emiliana illustrata», Bologna, Anno II, N.° 41, 8 Ottobre 1927, p. 3.

 

  Un poeta diceva un giorno a Balzac:

  – Io mi vanto di essere un uomo che non deve nulla a nessuno, nemmeno alla propria famiglia. Io sono delle mie opere.

  – Posso pregarla – rispose Balzac – di presentare al suo signor padre le mie congratulazioni, per essersi egli liberato di una così grave responsabilità?

 

 

  Teatri. Le novità Baty al «Torino». «Têtes de réchange» di Pellerin. «Césaire» di Schlumberger, «La Stampa», Torino, Anno 61, Num. 293, 9 Dicembre 1927, p. 3.

 

  Evadere, uscire di se stesso, identificare il proprio io con l’avventura fugace, con ciò che si vede o si coglie per caso sui cammini del mondo, scambiare la propria testa con quella degli altri, essere un altro, l’uomo della strada, il vagabondo, l'inafferrabile. A dire il vero non è necessario scrivere commedie d'avanguardia per proporre un tema siffatto. Il tema è antico come la fantasia dell’uomo, e, senza andar troppo lontano, ci pare proprio che De Musset desiderasse essere almeno una volta il signore che passa; e quando Balzac fiutava per i crocicchi parigini l’odore dell’umanità, e dell’umanità rifaceva la commedia, immedesimandosi nei vari personaggi fittizi e transitori, gesticolando, sbuffando, vociando, creando in furia e trasecolato il tumulto mirabile dei suoi romanzi, Balzac tentava evidentemente un’evasione. Cose da cento anni fa. […].



  Notiziario di letteratura, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno VI, N. 300, 17 Dicembre 1927, p. 3.

 

  Per la stessa epoca «Corbaccio» metterà fuori i primi quattro volumi del suo Tutto Balzac (prima integrale edizione italiana in 53 volumi) e ne darà poi, regolarmente uno al mese. Tutto Balzac viene condotto sulle edizioni originali, e vi lavora assiduamente una schiera di traduttori: Mario Buggelli, Decio Cinti, Tiziano Ciancaglini, Carlo Candida, Giuseppe Castelli, Gian Dàuli, R. Collino-Pansa, Jolanda Bencivenni, Aldo Germonti, Mario Mazzucchelli, dall’Oglio ed altri. Pregio non ultimo di questa grande impresa, la modestia dei prezzi: i volumi, dalle 250 alle 400 pagine, costeranno da 5 a 8 lire; ed ecco un titolo di vera benemerenza ed un fortissimo incentivo per il pubblico che otterrà bellissime edizioni di una poderosa collana, con lievissima spesa.

 

 

  Antonio Baldini, L’Italia che legge. Alcune conclusioni, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 22, 26 Gennaio 1927, p. 3.

 

  Sempre poco spago darei agli scrittori di letteratura amena, a meno che il caso non mi facesse mettere per il primo le mani sopra un Balzac redivivo; nel qual caso mi riterrei però autorizzato, coi lettori che ci dà la piazza, di rifiutare libri che oltrepassassero le trecentocinquanta pagine.

 

 

  Bibliofilo, Testimonianze di Ruggero Bonghi. Dumas, Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 61, Num. 199, 22 Agosto 1927, p. 3.

 

  Leggete ora questo strano giudizio su Balzac: «L’ingegno di quell’uomo è potente, ma uniforme: non ha abilità descrittiva, la quale del resto manca a tutti I romanzieri francesi moderni: non fecondità o spontaneità negl’intrecci: non correttezza o fluidità nel dialogo, troppo pieno di spezzature e sprezzature, o lavorato troppo a motti e lampi, insino a perdere qui e là ogni opportunità e naturalezza: infine indigestione di parecchie idee giuste e vere, viste in un barlume e mostrate in una penombra. La sua qualità principale una certa cognizione, esatta coraggiosa e terribile della corrotta natura umana, e della varia vita parigina: cognizione che rivela un ingegno acuto ed alto, tanto più che è accompagnato da un giudizio morale più virile e più rigido, che non ne’ suoi fratelli. Il Balzac pare capace di meglio di un romanzo, almeno di un romanzo buono: buono in un genere che non sarebbe l’ottimo. Avrebbe potuto scrivere pensieri come quelli del Leopardi, e venirne a conclusioni meno erronee sull’ordine delle cose». E’ di un critico male informato e squilibrato.



  Giuseppe Bistolfi, Un po’ di Robinson Crusoé, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno VI, N. 186, 18 Agosto 1929, p. 3.

 

  Danaro, danaro, affari, avventure, furto: ecco la parabola di quei personaggi usciti dal sogno e forse più ancora dall’osservazione del negoziante di Cornhill ..: Tutto ciò fa pensare a Balzac. Come più tardi a Balzac, l’inferno delle passioni apparve a Dafoe (sic), grazie agli affari, pietra di paragone a cui si rivela il metallo più o meno puro dei cuori umani.



 [Ruggiero Bonghi], Dal diario inedito di Ruggiero Bonghi, «La Tribuna. L’idea nazionale», Roma, Anno XLV, Num. 175, 23 Luglio 1927, p. 3.

 

  Balzac.

 

 Cfr. 1852.

 

 

  Ruggiero Bonghi, I fatti miei e i miei pensieri. Pagine del diario con introduzione e note di Francesco Piccolo, Firenze, Vallecchi Editore, 1927.

 

  Cfr. 1852 e 1853.

 

 

  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Dostoiewski “umorista”, «Corriere della Sera», Anno 52, N. 159, 6 Luglio 1927, p. 3.

 

  Prima della Siberia, Dostoievski aveva subito influente romantiche, russe e francesi; aveva gareggiato con Gogol; aveva tradotto Eugénie Grandet di Balzac; e l’ultimo suo racconto prima dell’esilio era stato Nietoscka Nesmanova, con quei ritratti di donne in atmosfere folgoranti che fan ripensare alla maniera acerba di Pusckin.



  Filippo Brusa, Arte contemporanea. “Madonna Imperia” di Franco Alfano (Teatro di Torino, 5 maggio 1927), «Rivista Musicale Italiana», Torino, Fratelli Bocca Editori, Anno XXXIV, Fascicolo 2°, Giugno 1927, pp. 248-256.

 

  pp. 248-251. Risaliamo per un istante alle origini: al testo letterario prescelto dal Maestro e che Arturo Rossato verseggiava: al primo di quei Contes drolatiques di Honoré de Balzac, contrassegnato col nome magniloquente di La belle Impéria.

  Tela semplicissima: l’avventura boccaccesca di potenti porporati che muovendo all’assedio di una procace cortigiana, sono messi in sacco da un umile chiericonzolo. Ma come nelle maggiori opere dell’insigne creatore del romanzo di costumi, non men che la vicenda conta l’essenza, il contenuto psicologico. Anche qui parlano in Balzac l’umorista e l’ironista, in un linguaggio reso più vibratile e penetrante dall’arcaico gaulois che ci rievoca non il suono, le forme verbali soltanto di un’epoca, ma di quest’epoca, la sensibilità, la mentalità e l’etica propria.

  Ecco la città di Costanza rigurgitante di folla qui convenuta pel Concilio: «Ce mystigorique Concile où force gens menent une vie dissolue, n’en gaignant pas moins et mesmes plus d’indulgences, escuz d’or, bénéfices, plus que tout aultres saigez et bion rengez»; ecco ancora: «Ces pies guallantes qui rabbrouoyent les cardinaulx, abbez, legats, évesques, princes, ducs et margraves, comme elle auroyent pu faire de simples clercs d’argent».

  Queste pennellate ambientali sono sufficienti a definire ed a rilevare, anche indipendentemente dalla burlesca vicenda, il tono del racconto ed i tipi nel racconto coinvolti: il «joly prebstre Philippe de Mala qui estoyt dechaussé de la cervelle iusqu’aux talons et ressemblait autant à ung homme qu’une chièvre coefféede nuict ressemble a une damoiselle» e che nondimeno, fatto audace dal desiderio, riesce a giocare lo stesso cardinale di Ragusa «ung rusé italien, trez-barbu, sophistiqueur et boute-en-train du Concile»; il protettore di Filippo, arcivescovo di Bordò «ung paouvre vieulx qui par force ne péchoyt plus et passait pour un sainct» e che il chierico cerca di imitare in continenza (si noti qui l’ironia finissima del raffronto); e, oltre alle figure collaterali, la protagonista: l’autoritaria e scaltra Imperia, «celle qui s’entendoyt à papelarder les cardinaulx, guallant des souldards les plus rudes oppresseurs du peuple».

  Satira e comicità, in sostanza, con prevalenza di quella su questa: poiché, evidentemente, il riso che ne scaturisce non scende già nell’anima, giocondo e letificante, ma rimane a fior di labbra, commisto all’amarezza ed al sarcasmo.

  Ridotta ad uno schema, spoglia dell’atmosfera, la novella altro non è che la beffa del subalterno al suo superiore; tanto più pungente in quanto ne sono attori preti in fregola amorosa ed una donna che tradisce chi la paga per compiacere il capriccio d’un momento.

  Quali fossero le difficoltà nel trasferire e condensare questi elementi imponderabili cosparsi ovunque, dalla narrazione alla commedia, è superfluo il dire.

  Già il primo ostacolo consisteva nell’abito stesso dei personaggi. Ora, anche a costo di comprometter il senso e di tradire in parte almeno l’essenza del lavoro, gli Autori hanno dovuto acconciarsi a questa dura necessità, e — tranne per Filippo che chierico rimane e per l’arcivescovo di Bordò che fa una fugace comparsa all’ultimo — trasformare cardinali ed arcivescovi in principi, cancellieri e ambasciatori.

  La trama viene così prospettata in termini più genericamente umani, sia nei loro riguardi singoli, sia nei rapporti, in particolare, del Ragusa colle due figure dominanti: Filippo ed Imperia, la cui vicenda si imposta bensì con qualche carattere comico, svolto ed ampliato con abilità dal librettista, ma evolve poco a poco verso un lirismo che diverge dal piano primitivo, in quanto fa della originaria figura femminile prepotente e sensuale, una languida creatura sognante, tutta presa da sentimentali reminiscenze.

  Ma vediamo, qual’è, per sommi capi, la commedia.

  Il velario si apre su di una sala in casa di Madonna Imperia. Mentre una fievole eco del Concilio giunge dal di fuori, dalla gelida e nevosa serata, con voci salmodianti, un giovane avvolto in un mantello entra furtivo. È Filippo che, eludendo la vigilanza delle guardie, ha potuto infine varcare quella soglia su cui era altra volta rimasto bramoso ed estatico in vana attesa.

  Trepidante pel pericolo corso, guata attonito d’attorno: ed ecco profilarsi d’un tratto dall’alcova un’ombra di donna discinta cui le fanti stanno apprestando le vesti. Il poveretto, inebriato, vede uno zendado presso il caminetto, lo afferra e ne aspira avidamente il profumo. Ma in quella la fastosa e splendente bellezza gli appare in persona, ed egli rimane lì, in muta ammirazione.

  — Che vuoi? Tra poco qui ci sarà un trastullo che tu non puoi vedere; ho a cena un Cancelliere, un Principe ed un Messer di Francia. Spacciati! Che vuoi?

  — Madonna, offrirvi tutta l'anima mia ...

  — Tu puoi ripassare domani ...

  Ma Filippo, acceso di entusiasmo, prosegue. Ed Imperia, indifferente dapprima, comincia a divertirsi quando apprende che egli scarnito e tribolato errò per notti intere attorno alla casa. Il chierico fa un po’ di commedia, ora commosso ora appassionato, ora burlesco, ora insinuante: «Mi chiesi allora: Possiedi tu oro? No! Un’abbazia? No! Mitria, zucchetto? No! E deliberai di restare ugualmente con voi: mi presi dei lavori di scrittura: ed eccomi a soffiare, ad ansare sui motti, sulle musiche, sulle bolle dei papi: ma pensando a voi, al lume pio della stanca lampada, vagheggiavo quest’attimo. Dissi al mio vecchio vescovo: Madonna m’ha richiesto un mottetto trionfale; e son venuto qui: ecco il mio gruzzolo: sette grossette; non bastano? ...».

  Ma in quella giungono gli invitati: il Principe di Coira, il Cancelliere di Ragusa, il Conte dell’Ambascieria di Francia: e prendono posto a tavola.

  Il Cancelliere è il primo ad insospettirsi della presenza dell’intruso. Imperia cerca di deviare il discorso, poi dichiara che è suo parente, ch’essa tenne per cantare: «canta come un troviere». E Filippo confuso e spaurito dall’occhio indagatore e dalle rudi parole di Ragusa che lo circonluiscono sempre più, intona un madrigale, inneggiando alla bellezza di Imperia che l’ascolta estasiata e felice. Ciò ingelosisce maggiormente il rivale. E poiché, con uno strattagemma Ragusa già si è liberata del Principe di Coira, che deve lasciare la sala, e dal Messer di Francia, portato via ubriaco, la partita si riduce ora con Filippo. Lo affronta risolutamente ponendogli il dilemma: o rimanere la notte con Imperia ed essere impiccato il domani od andarsene subito col dono di una pingue abbazia. Nella lotta impari, vince, naturalmente il più forte: ma Filippo finge solo di partire, si nasconde ed aspetta. E quando Imperia inviperita caccia il Ragusa, imprecando pure a lui che crede un corrotto, le ricompare dinanzi. E per testimoniarle il suo amore butta sul fuoco l’atto di donazione, e finge di colpirsi con un coltello ... Ma ormai Imperia è vinta. E l'epilogo si svolge con tenerezza quasi puerile: «Non fui mai fanciulla: tu solo, mio piccino, or vieni a risvegliare l’anima smarrita: vedi? Sorrido e piango di dolcezza ...».

  Un ultimo episodio — aggiunto dagli autori — vorrebbe riaccostarci alle origini col sopraggiungere dell’Arcivescovo di Bordò che viene a cercare di Filippo.

  — Egli e Madonna sono di là — risponde maliziosamente la fantesca — di là ad intonare un mottetto trionfale.

  — Quello che ha portato?

  — Credo che sì ...

  — Ebbene lo aspetterò.

  Il vecchietto leva un libro di preghiere e si fa il segno della croce. Voci esultanti giungono dall’alcova.

  — Quel buon Filippo — egli esclama — è Santo; Signore, guardalo e aiuta quello che fa per te...

  Ma il tono decisamente patetico che è venuto assumendo la commedia, impedisce di ricongiungerci in ispirito all’esordio, sia per lo sviluppo del colloquio d’amore, sia pel generoso contri­buto del musicista che lo ha investito per non abbandonarlo più.

 

[…]

 

  pp. 255-256. Il giocoso, il parodistico ed il comico stesso che pure a volte si mostrano, sembrano talora però incidenti, accessori, movi­menti collaterali soltanto; non già perché non siano intuiti e sentiti di per sé o come contrasto, ma perché accade che essi dileguino prima ancora che l’ascoltatore ne abbia avuta coscienza. È il barbaglio subitaneo che colpisce la retina, non sempre concedendole il tempo di percepire l’immagine e di riviverla nella sua interezza.

  Ed è forse perciò questione non solo di sostanza, quanto di forma, di durata e di mezzi.

  Di mezzi e di durai», sopratutto: poiché ove più fluttua il pensiero, ove il pensiero, anzi, è un alternarsi di sottintesi, d’allusioni è di preferenza l’orchestra che è chiamata a commentare ed interpretare, presentandocelo come sfaccettato, in luci iridescenti; in gesti fuggevoli; laddove nell’effusione lirica tende a risolversi naturalmente nel canto; in armoniose, esaurienti ed euritmiche architetture, e vale a dire, in modi di essere continuativi a noi più familiari per la loro stessa organicità.

  Sproporzione, quindi, tra il comico ed il crescente lirismo dell’ultima parte dell’opera; dipendente e dal temperamento del musicista e dalla nuova situazione che il libretto gli creava; situazione unilateralmente patetica che si allontana dal testo balzachiano, in cui Imperia, invece, pur nella felicità traboccante, ancora si mantiene in una rettilinea logicità e con se stessa e coll’ambiente, quando chiama «le ioly petit moyne, qui ait iamais moyenaudé dans cette saincte et amoureuse ville de Constance» e lo vuole a sè: «Va, de petit, réligienx, ie te veulx faire Roy, Empereur, Pape! Dà ! tu peux tout mettre léans à feu et a sang! Je suis tienne! et le monstreray bien, car tu seras tost Cardinal, quand pour rougir ta barette ie debvroys verser tout le sang de mon cœur!».

  Come si vede, non abbandoni, non languori, ma un’esaltazione fervorosa, partecipe, sempre ed ancora, dell’immanente «esprit» «drolatique» che informa tutto il racconto.

 

 

  G. C., Una novità teatrale e una esumazione. “Madonna Imperia” di Alfano. “La cambiale di matrimonio di Rossini”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 107, 6 Maggio 1927, p. 3.

 

  Chi apre il primo volume dei Contes drolatiques, scritti da Balzac «pour l'esbattement des Pantagruélistes» del suo tempo, s’incontra in una grassa satira dei costumi dell’alto clero convenuto in Costanza In occasione del Concilio, nel secondo decennio del Quattrocento. Con vivi e taglienti tratti, in una lingua arcaica velante la crudezza delle espressioni boccaccesche, il creatore del romanzo di costumi narra l’avventura di alcuni prelati convenuti all’assalto di una fastosa cortigiana: la belle Imperia. Prelati ai quali un chierichetto, dotato d’astuzia, d’intraprendenza e mosso da cocente sensualità gioca il riuscito tiro di farli mettere tutti da parte e mettersi al loro posto.

  Da quel saporito frutto rabelesiano, il maestro Franco Alfano, col concorso del librettista Arturo Rossato, trasse i germi della commedia musicale, in un atto, offerta per la prima volta, stasera, al pubblico del Teatro di Torino. Nel libretto, i personaggi presi di mira da Balzac se non mutarono natura assunsero però un altro abito Del Concilio e degli eminentissimi, non restò che qualche traccia decorativa di sfondo al quadro scenico. Cardinali e arcivescovi lasciarono il posto a principi secolari e a diplomatici. Anche le due figure principali di Imperia e del chierico Filippo, oltre a perdere i contrassegni della originaria espressione satirica, assunsero il tono meno sensuale, meno drolatique della sentimentalità aperta alle espansioni liriche. Sicché la trama della commedia musicale appare schematicamente riassumibile così.

 

***

 

  Il giovane chierico Filippo Mala, venuto a Costanza per il Concilio al seguito del vescovo di Bordeaux, riceve una forte scossa dallo spettacolo della vita di piaceri che si disfrena nella città. Dopo aver passato una parte de’ suoi vent’anni fra le astinenze e le veglie facendo il copista delle musiche sacre preferite dal padrone, gli appare d’un tratto la bellezza di una cortigiana che i potenti si contendono e che, per il suo soggiogante fascino, vien chiamata Imperia.

  Una sera, mentre per le vie di Costanza si diffondono le salmodie processionali, il chierico forza la consegna delle guardie custodenti l’accesso alla casa d’Imperia. Ardito, col sangue ardente nelle vene, Filippo giunge a scorgere l’ombra della dama discinta, nell’alcova ove le ancelle la stanno abbigliando. La presenza del chiericotto sorprende dapprima Imperia; poi, all’udire le sue parole di confessione, al vedersi innanzi l’offerta di poche grossette racimolate per lei, madonna passa dal motteggio e dal dileggio all’interessamento benevolo. C’è, per lei, qualche cosa di nuovo nelle parole dello spasimante che non le dispiace e la singolarità del caso rende attraente.

  Quand’ecco sopraggiungere il Cancelliere di Ragusa, il Principe di Coira ed il Conte dell’Ambasceria di Francia, convenuti a un festino. Il chierico cerca nascondersi, ma non può sfuggire all’occhio diffidente del sospettoso Cancelliere. Richiesto dell’esser suo, da Imperia vien fatto passare per un parente che rallegrerà col suo canto il festino. Allora Filippo, non potendo sfuggire alla prova che gli vien chiesta, attacca una canzone di amore tanto calda di sentimento da accendere il cuore non insensibile della bella. Il Cancelliere vede la breccia che il giovane si sta aprendo. Per avere libero il campo innanzi a sè comincia ad allontanare con un pretesto il Conte; assiste alla autoliquidazione del Principe di Coira, che viene portato fuori ubriaco; affronta poi Filippo, al quale lascia la scelta fra il rimanere a prezzo di essere appiccato il giorno dopo e l’andarsele ricevendo in dono una ricca abbazia. La paura induce il chierico ad accettare il dono, ma senza vantaggio del Cancelliere. Ché, rimasto solo costui con Imperia, finisce ad essere messo rabbiosamente alla porta dalla donna indispettita.

  Libera dagli uggiosi pretendenti, senza il giovane creduto corrotto e lontano, Imperia attraversa una crisi di sentimento. Ricordi di giovinezza la fanno pensosa; il dolore per l’inopinato voltafaccia di Filippo non basta a cancellare la sua passione. Ma il chierico si era soltanto nascosto. Ripreso coraggio dalla sorte toccata al prepotente rivale, si ripresenta a madonna che l’accoglie a braccia aperte e seco lo conduce in quell’alcova ove era stata ammirata soltanto come ombra. In quell’istante sopraggiunge il vescovo di Bordeaux in cerca del chierico al quale, fin dal mattino, aveva affidato un mottetto da portare a Imperia.

 

Egli e madonna sona a intonare un mottetto trionfale di là, messere...,

 

  gli dice l’ancella. E il buon uomo, compreso di tanta pietà religiosa, leva un libricciuolo di preghiere e, sonnecchiando, s’acconcia all’attesa.

 

***

 

  Ora, non sarebbe riuscito di molto danno alla vis comica del libretto, se ricavando la trama dell’azione dal racconto del Balzac, gli autori si fossero limitati a qualche ritocco esteriore, al fine di velare qualche soverchia nudità, di deviare il corso della sensualità straripante, di togliere alla satira la virulenza diretta contro il prelatume corrotto convenuto in Costanza. Solo sembra che, malgrado le loro buone intenzioni, essi siano trascorsi un po’ troppo lontano. Mutata la figura di Imperia in quella di una a suo modo redimibile cortigiana e fatto del chiericotto uno strumento inconscio di elevazione sentimentale, la loro commedia tanto ha guadagnato in lirismo quanto ha perduto in comicità, in forza plastica, in espressione satirica. Una sensazione di squilibrio si riceve dall’invadente truculento lirismo dei due lunghi duetti d’amore in confronto degli elementi comici disseminati fra le parti liriche. Talché quel poco di comicità che, con o senza Balzac, è contenuto in Madonna Imperia, vi si trova come a disagio, fuori fuoco, in linea secondaria. Filippo, facendovisi troppo sentire da tenore, si spoglia del costume di chierico. Il festino, dominato dalla cantatina di Filippo, non vale più di un episodio. Ed il vescovo di Bordeaux, allorché giunge all’ultima scena, vi appare quasi un estraneo: figura insipida, incapace di comico contrasto.

  Il maestro Alfano, accostandosi stavolta al genere comico, ha dimostrato in primo luogo di rendersi ragione della importanza che ha la parola nell’evidenza del dialogo musicale.



  Giovanni Casari, Letteratura francese: Pascal e Marot, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno VI, N. 154, 12 Luglio 1927, p. 3.

 

  Sono assai rare, nella letteratura francese, le figure che abbiamo, oltre a un valore artistico sia pure alto, un largo e profondo interesse umano: e un’altezza di statura, una austerità di fisionomia spirituale che veramente le faccia giganti, Troviamo un Balzac, fantasia delle più ricche e varie che siano mai apparse: ma non possiamo dire veramente che il Balzac abbia un mondo interiore profondo e una visione austera come quelli, ad esempio, di un Manzoni e di un Dostojewsky.



  Francesco Cazzamini Mussi, Uomini e libri. Saggi critici […], Palermo-Roma, Remo Sandron – Editore, 1927.

 

 

Paul Adam, pp. 93-106 [1911].

 

  p. 95. Nello squilibrio tra l’espressione artistica e la sua visione morale è appunto la maggior debolezza di Paul Adam.

  Peccato d’origine, questo, peccato che, se bisogna rammentare, non basta alla condanna, anche in fatto d’arte, d’un romanziere. Solo il Balzac, perché nella Comédie humaine è la Vita, – semplicemente, – poteva far rivivere la società che fu sua. Ma il Balzac è principio e fine.

 

 

Léon Daudet. “Il secolo stupido”, pp. 133-148 [1922].

 

  p. 137. Un uomo solo ebbe il senso della verità su la meteora napoleonica, e l’ebbe quando questa, per la sua vicinanza, poteva abbagliare: il Balzac. In lui, non il nemico come Chateaubriand, come Mme de Staël, come il Walter Scott, ma il vero genio chiaroveggente. […].

  pp. 141-143. Che poi il Daudet ritenga ad esempio la Sand «il tipo dello scrittore declamatorio che vuole, prima di tutto, mostrare il suo gran cuore e dissimulare, come Hugo, d’altra parte sotto de’ bei periodi, un temperamento di fuoco» (pag. 100), che la giudichi «un errore della natura, che le aveva dato la violenza del maschio in un organismo femminile», (pagina 100) d’accordo, che sia stato uno scandalo paragonarla al Balzac, approvo, ma la Sand non è un genio, essa appartiene al numero di quegli scrittori, che con più o meno talento, sono destinati a rappresentare le aspirazioni, i dubbi, i tormenti d’un’epoca. Che poi i cosidetti uomini rappresentativi siano i più miracolosamente dotati non è affatto vero, perché troppo spesso il genio, precorrendo i tempi, non è compreso dai contemporanei ed è per questo destinato ad una relativa penombra. Il Daudet saluta il Balzac e il Mistral, il prosatore e il poeta «del genio francese autentico del secolo XIX, se si chiama genio il fatto d’abbracciare ed esprimere e dominare le idee e le impressioni maggiori di tutto un ciclo letterario, artistico e scientifico di più generazioni» (pag. 101, 102). […]. Alle volte, egli ha le intemperanze e le improvvisazioni della critica impressionista. Come si fa ad esempio trovare «poeta divino» il Moréas, un decadente greco rinato per uno scherzo della natura in Francia, e degno della gloria come Honoré de Balzac, il Barbey d’Aurevillv, disordinato, contorto, eccessivo, truculento, un vero romantico e per le sue pose e per la sua arte, perché non del critico parla il Daudet, ma del romanziere del Chevalier des Touches e dell’Ensorcellée (sic). Più di dieci anni fa, io scrissi del Barbey d’Aurevilly, rivendicandogli quel rispetto che meritava, specie in Italia dov’era ed è poco conosciuto, e più per un suo infelicissimo giudizio sul Leopardi, ma da questo ad innalzarlo al fianco del Balzac ci corre! […]. Come può il Daudet, che detesta il romanticismo, essere pure spietato col Maupassant, lo scrittore più semplice, più naturale, più classico nel senso vero di questa parola, e cioè limpido, umano, equilibrato, del secolo scorso? Maupassant piace ancora al pubblico e ai raffinati, più del Balzac, più dello Zola, ossessionato dalla mania d’un’iperanalisi pseudo-scientifica, più della Sand e dei modernissimi.

 

 

Anatole France. «Les Dieux ont soif», pp. 157-169.

 

  pp. 166-167. Il France non è un romanziere nel vero senso della parola come il Balzac, lo Zola, l’Adam, egli è uno spirito polemico, un critico dei nostri costumi e delle nostre azioni. […]. I personaggi secondari abbondano, le disquisizioni divengono spesso anche inopportune, come nel D’Annunzio, l’economia del romanzo è turbata da intromissioni arbitrarie, in generale difetta la fantasia, – la fantasia del Balzac!

 

 

Octave Mirbeau. “Dingo”, pp. 180-188.

 

  pp. 183-184. Appare il Mirbeau un impulsivo sotto vesti di filosofo, un demolitore che probabilmente non potrebbe costruire per difetto di fantasia, perché, nei pochi libri ch’egli ha pubblicato, manca nel modo più assoluto la concezione vasta non dirò del Balzac o dello Zola, ma anche quella distillata del Maupassant.

 

 

  Di un libro su F. Dostojevskij [Aimée Dostojevskij, Dostojevskij nei ricordi di sua figlia, Milano, F.lli Treves, 1924], pp. 220-247.

 

  p. 236. I suoi romanzi precedenti la prigionia sono infatti imitazioni di scrittori europei: Schiller, Balzac, Dickens, Sand, Walter Scott.

 

 

  Emilio Cecchi, Il toro malinconico, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 252, 22 Ottobre 1927, p. 3.

 

  [Su Maupassant].

 

  Le idee critiche del Maupassant, il concetto ch’egli ha della propria arte, sono rudimentali e sbadati; la sua filosofia, bambinesca; e nulla è più estraneo ai suoi gusti della così vantata «scrittura artistica», e della lingua e delle costruzioni ricche e sapienti. Né Balzac, né Dumas padre, né Dickens, né altri produttori di gran lena, compierono il miracolo che egli compiè nel 1885, scrivendo e licenziando oltre millecinquecento pagine di stampa.

 

 

  Le comari, In fontana, «Lo Schermo», Roma, Anno II, N. 1, 1 Gennaio 1927, p. 7.

 

  Un attore di lagnava con Uberto Palmarini che la moglie, avendo letto «I Tre Moschettieri» mentre era incinta, gli aveva fatto tre gemelli.

  «Pensate – rispose a mo’ di consolazione Palmarini – se avesse letto «I tredici» di Balzac o «I quarantacinque» di Dumas».



  Lucio D’Ambra, “Giornale” d’uno scrittore, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno VI, N. 27, 1 Febbraio 1927, p. 3.

 

  Henry Bordeaux, austero discepolo di tanto maestro, ha scritto un giorno: «Bourget è il nostro Balzac». Come Balzac, infatti, Bourget conduce a termine una vastissima inchiesta su la società del suo tempo. E mentre Balzac, per giudicare ed insegnare, aveva introdotto l’essai nelle sue pagine di romanzo, Bourget ha voluto che i suoi romanzi fossero sempre; uno per uno, altrettante testimonianze ed opinioni sui più gravi problemi contemporanei di ogni ordine. L’analogia è completa. E le origini ne sono lontane.

  — «Scoprii Balzac a quindici anni, mi raccontava Bourget Quando alla domenica, avevo libera uscita dal collegio ov’io conducevo a termine i miei studii liceali, subito correvo a ficcarmi in una bibliotechina circolante della via Souflot. Ed una domenica, fra l’una e le sette, io lessi di un fiato un primo romanzo di Balzac: Le père Goriot. Ed io ragazzo ebbi da quelle letture uno di quei coups de foudre intellettuali che non si dimenticano mai più E pure tutti i lunghi anni del durissimo principio della mia carriera letteraria, furono sempre sostenuti, nelle aspre prove dall’immagine di quegli scrittori immaginarii in cui Balzac incarnò la sua propria energia: Valentin di Peau de chagrin e Daniele d’Arthez delle Illusions perdues. Io rammentavo, ascoltandolo, i giovanili versi di Bourget nel poemetto di Edel, là dove descrive le ardenti notti di lavoro del giovane scrittore la cui indomabile volontà è tutta tesa verso il sogno del capolavoro:

  ... il levant (sic) les yeux je vois là sur ma table — cruelle ralllerie à mon ambition — les bustes de Balzac et de Napoléon. — Da quella stanza di notturno. lavoro cominciò l’opera del nostro glorioso. E per sessanta volumi Bourget intese il romanzo così come egli stesso aveva definito, per il Curé de village di Balzac; il romanzo sociale: «Un romanzo che mostra ... e, dopo aver mostrato, tenta di far comprendere il significato del quadro composto dal romanziere». Sono dunque attraverso tutta un’opera, il romanziere ed il moralista che camminano di pari passo: così in Balzac, così in Bourget.

  Ed il parallelo continua nell’ammirevole vita, così nell'uno come nell’altro interamente consacrata all’eroico servizio della Letteratura. Ma se ancora il caos finanziario e la febbre improvvisatrice portavano indisciplina e disordine nell’esistenza avventurosa ed intrepida di Balzac, nulla nella vita quasi mistica artisticamente religiosa, di Paul Bourget, nulla che non sia disciplina, ordine, volontà, coscienza, modesta e tenace fatica d’ogni giorno, metodo e pazienza, e, com’egli suol dire, virtù semplici e solide da artigianato.

 

 

  Giulio Doria, La Galleria delle Madonne. Novella di Giulio Doria, «Cinema-Star. Supplemento di “Kines” per il gran pubblico cinematografico», Roma, Anno II, Num. 10, 13 Marzo 1927, pp. 4-9.

 

  p. 4. […] Così, divisa la mia giornata fra Dante, Cristo, Balzac, Gogol, e questa pipa eccitatrice, io ò vissuto in una prodigiosa euforia.

 

 

  Emme, Cronaca senza fili. Diritti e … rovesci, «La Stampa», Torino, Anno 61, Num. 81, 5 Aprile 1927, p. 4.

 

  La propaganda contro il matrimonio sarà stata di spettanza dell’Ufficio di pubblicità e stampa della Banca, che non avrà trascurato di catalogare tutti i ritagli dei giornali che pubblicano quotidianamente notizie di drammi domestici, uxoricidi, divorzi, tradimenti, fughe. Alla fine d'anno con il doppio stipendio, tutte le impiegate avranno ricevuto l’opera di Balzac «Il Matrimonio» e una fotografia di Landru con acconcia biografia.

 

 

  N. F., Recentissime. Penne e pennelli pubblicitari e commedie su misura, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 290, 6 Dicembre 1927, p. 5.

 

  La «Casa di Molière» è una di quelle vecchie nobili case dove gli anni, anzi i secoli, hanno lasciato il segno, e i tardi nipoti mettono ogni scrupolo nel conservarlo. […]. Segna ancora il tempo una pendola di Robin «horloger du Roi»: personaggio che mi sembra di aver conosciuto in un romanzo di Balzac.



 Clelia Fano, Spigolature illustrate di lettere inedite di Prospero Viani, «Giornale storico della letteratura italiana», Torino, Casa Editrice Giovanni Chiantore, Anno V-VI, Volume XC, 1927, pp. 119-136.

 

 pp. 119-122. Una lettera del 21 novembre 1837 è scritta ad Antonio Lissoni, a Milano. La minuta di questa lettera non è di pugno del Viani, ma è di suo pugno questa nota, scritta quattro anni dopo: « Fu mandata e ne sono molto pentito».

 Il Lissoni, antico ufficiale di cavalleria, aveva licenziato nel 1837, dalla tipografia Pogliani di Milano, una Difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiato dal Balzac nelle sue Scene della vita parigina, e insieme una Confutazione di molti errori della Storia militare della guerra di Spagna fatta dagli italiani. Il Lissoni chiama «menzogne a’ danni dell’onore italiano le ciancie, le baie, les propos des conversations del Balzac; cose che «possono valere ad un romanziere in cui «tutto è finzione ... non gioveranno però mai allo storico; il quale, più che di parole o di bei motti, abbisogna di prove, di autorità a convalidare i fatti che narra». E continua dicendo che l’errore del Balzac è tanto più grave, perché, se l’Italia appariva quieta, non dormiva, e se finora aveva taciuto, non era però da dirsi che dovesse sempre tacersi; né si doveva credere che difettasse di buone ragioni a vendicare il proprio onore e a mantenersi in quella fama che il suo valore le aveva acquistato. Finitela una buona volta di mentire tanto sfacciatamente, che alla fin fine tutte le vostre guerre erano solo profittevoli a voi, non agli italiani, che vi mettevano la loro vita e l’oro che bisognava a morire ben corredati e voi n’avevate vantaggio; l’aiutarvi nelle vostre imprese voi l’avevate per un grandissimo onor nostro, voi la facevate da padroni anche sopra di coloro che chiamavate «vostri fratelli, e quel tout pour moi, signor di Balzac, resta sempre fermo, è tutta cosa vostra. Un francese poi dar del predone, del ladro agli italiani rubati, saccheggiati d’ogni miglior cosa dai loro (e intendetemi bene) fratelli, amici, liberatori, è fatto che sente tutta la prepotenza e ingiustizia umana... Cala alquanto dell’orgoglio tuo, non ti levar cotanto sopra di noi, e viaggiando queste nostre contrade non fare una Beozia novella dell’Atene, che fu già dell’Europa, non far tanti Iloti di coloro che la van del paro co’ tuoi, se già non gli avanzano in molte scienze, di coloro che furono compagni, difensori a’ tuoi, ed emuli gloriosi delle più nominate vittorie... Non credere la Francia e il francese il tutto del mondo; chè noi pure, a tacer degli altri, siam talora da più assai di quel che noi siamo. Non correre l’Italia a guisa di maestro che insegna, ma sì da alunno che impara, che qua pure, come ogni dì fa tutta l’Europa là nella nostra Roma, tempio eterno delle arti del mondo, qua pure è da imparare alcun che da chi baldanzoso non dice non aver cosa da imparare. E il tuo Berenger, se non erro nel nome, il tuo Berenger affermò col candore del vero sapiente, aver imparato più assai in tre soli anni in Roma, in Italia, che non venti nella tua magnifica Parigi  Non guardare all’Italia quasi fosse una vile schiava, ma sì come a Donna che sempre impera dal suo bello e dall’ingegno suo: guardala a quella guisa che il figliuolo guarda alla madre sua, che madre davvero ella fu a molte ragioni, e non montare in superbia che la figlia sia venuta a tanta potenza e grandezza, chè madre augusta, ingegnosa, eccellente è ancora la mia».

  Questa nobilissima difesa commosse il nostro Viani, il quale, fiero di amor patrio, e sebbene sconosciuto al Lissoni, gli mandò questa lettera:

 

  Chiarissimo Signore

 

  Spero che non vi chiamerete offeso della mia presunzione se sono ardito di scrivere a voi, congratulando, come fo grandissimamente di vostra bellissima difesa dell’onore delle armi italiane oltraggiate dal signor di Balzac: spero poter essere scusato da voi, o cortese e buono Signore, del fastidio che vi do con questa; la quale mi hanno indotto a spedirvi e le vostre virtù singolari e il vostro animo severamente italiano. Pochissimi libri hanno dato maggior gusto e piacere a me, giovine di nessunissimo conto, quanto questo vostro meraviglioso ed eloquentissimo libricciuolo. Vi ho benedetto mille e mille volte, o carissimo Signore; e ho divulgata per tutta la mia povera città, ho lodato in estremo agli amici pochi vicini, e a’ molti lontani questi vostri sentimenti generosi, e li ho incuorati a seguire il bello esempio vostro, e a uscire ornai di questa sciocca e vigliacca pazienza di sopportare tante e tante obbrobriose ingiurie scagliate contro noi sfortunati italiani dagli stranieri. È una bella e severa vendetta il disprezzo, ma le cose sono a tale estremo che bisogna levar la voce. E gl’italiani si levino e difendano con l’opera della penna questa loro patria, se non possono con le armi. Ma non fa duopo ch’io mi lasci andare in troppe parole con voi, onorato e lodato italiano: ho voluto mostrarvi e aprirvi i miei sentimenti di gratitudine e di congratulazione, perché, siccome odiatore di tutte le noiose e orgogliose ciance degli stranieri, di tutte le mattezze ... (la parola è illeggibile) de’ Romanzatori italiani, e siccome amatore fervidissimo de’ nostri studi e onoratore di tutti i migliori ingegni d’Italia, mi sono stimato in debito di farlo. V’amo e vi pregio, 0 Signore onorandissimo, in sommo, vi onoro. Desidero di conoscervi di persona come vi conosco di cuore: e dirvi in palese le mie lodi sincere, per Dio, come quelle che do a Dante; ma confido che presto avrete i miei plausi più forti e sonanti di questi. Non ristate di squarciarvi la bocca contro la lordura de’ nemici nostri, chè ne avrete lode e premio da tutti i veri e buoni italiani, che disprezzano il fango degli stranieri che si adducono alle nostre fonti. Se qui è cosa nella quale io possa servirvi spendetemi alla libera, e tenetemi uno de’ vostri più devoti e affezionati. Vi prego ogni consolazione e vi abbraccio affettuosamente. Vivete.

 Di Reggio di Lombardia a’ 21 novembre 1837.

Umilissimo e devotissimo servitore

Prospero Viani.

 

 

  Arturo Farinelli, Il Romanticismo nel mondo latino. Volume III. Appunti Bibliografici. Francia – Italia – Spagna – Catalogna – Portogallo – America Latina – Romania. Appendice: Almeida Garrett, Torino, Fratelli Bocca – Editori Librai di S. M. il Re d’Italia, 1927.

 

  pp. 73-74. Superfluo distendersi in note sul Balzac (si veda il carteggio del Balzac aggiunto all’ultimo dei 24 vol. delle Oeuvres complètes, Paris, 1876). Si ricordi il saggio del Taine, in Nouveaux Essais de critique et d’histoire; quelli: di P. Flat (1893 e 1894); del Weigand, Stendhal und Balzac, Leipzig, 1911; le monografie: del Lebreton (1905), del Brunetière (1906), del Lanson (1910), di H. Heiss (1913). – Un recente vol. di André Bellessort, Balzac et son oeuvre, Paris, 1923. – Gab. Hanotaux e G. Vicaire, La jeunesse de Balzac, Paris, 1922. – Arrigon, Les débuts littéraires de Balzac, Paris, 1924. – E. R. Curtius, Balzac, Bonn, 1923. – Un articolo del Bellaigue, Balzac et la musique, sulla «Revue des Deux Mondes», 1924, 1° ottobre. – Altro art. di Bachelin e Dumesnil, Le Cosmopolitisme dans la Comédie humaine, nella «Revue de Paris», 1924, febbraio-marzo. – Nella «Biblioth. de littér. comp.» verrà in luce il corso svolto dal Baldensperger nella Sorbona: Orientations étrangères chez H. de Balzac.

 

 

  Umberto Fracchia, Corriere teatrale. “La fiaccola sotto il moggio” [di Gabriele D’Annunzio] in prova sulle scene parigine, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 290, 23 Febbraio 1927, p. 5.

 

  Alcune dichiarazioni del commediografo Louis Verneuil hanno destato grande scalpore fra i critici e gli scrittori di teatro. […].

  La tesi del Verneuil, se fa dispetto agli scrittori ed a quella parte del pubblico che è rimasta fedele all’idea dell’ispirazione poetica, manda invece in visibilio Clément Vautel, che ogni giorno commenta l’attualità nel Journal […]: si capisce che egli è d'accordo col romanziere Paul Reboux, che è giunto fino ad ammonire gli scrittori a scrivere per la pubblicità per guadagnare quattrini: ciò non può essere disonorevole poiché anche grandi poeti hanno scritto poesie d'occasione su argomenti più o meno nobili. Inoltre c’è l'esempio di Balzac che, — come è stato scoperto recentemente, — cita con compiacenza in alcuni suoi libri il nome di un cappellaio del suo tempo solo perché questi gli lasciava gratis cappelli elegantissimi in compenso della ambita pubblicità.



  Francesco Geraci, L’unico amore di Balzac, «Giornale di Basilicata. Settimanale delle Provincie di Potenza e Matera», Potenza, Anno XVII, N. 36, 3-4 Settembre 1927, pp. 1-2.

 

  Dobbiamo alla Principessa Radzwill nata Ragwuska (sic) e nipote detta vedova dell’immortale Scrittore, queste lettere rivelatrici: corrispondenza scambiata fra la contessa Hanska e il fratello di costei, Adamo Regwska, padre della Principessa Radzwill.

  Onorato di Balzac conobbe moltissime donne nella sua vita, la quale fu in sostanza tutto un romanzo vissuto da quella grande e complessa esistenza. Si può dire che, senza accorgersene, egli era già un tipo di quella commedia umana che aveva così genialmente inquadrata nei suoi numerosi romanzi: il gaudente, il dissoluto, l’affarista, il cinico, il generoso, il romantico, l’avaro, il politico, l’ambizioso. Tutti gli aspetti della società si trovano nelle opere immortali di questo colosso della letteratura francese. Balzac poteva perciò esclamare con sicura coscienza; «io porto tutta la società nel mio cervello».

  Il Balzac, innamorato delle donne, si può definire piuttosto un cercatore di amicizie sentimentali. Egli fu in questo campo, il poeta dell’amore, ma di quello più puro e più alto. Un romantico. Ed amava sopratutto la donna ricca di intelletto e di cultura, Con le altre si sentiva a disagio.

  Le donne che egli amò furono quattro: la De Berry (sic), la quale creò — in una parola — lo storico nel romanziere ed esercitò una notevole influenza sulla produzione sociale dello scrittore; la Duchessa de Castries; la Duchessa d’Abrantès, che si illuse di aver innamorato il grande scrittore: Balzac viveva, attraverso quella dama, la Corte di Napoleone e il grande imperatore, e i ricordi della Duchessa lo entusiasmavano; il romanziere aveva bisogno di lei per conoscere l’ambiente di quell’epoca. Ecco tutto. E quando la D’Abrantès si accorse finalmente che essa non era mai stata la donna del cuore di Balzac, se ne accorò fortemente. Perciò egli amò le prime due col cervello, in quanto esse con la loro erudizione e il buon gusto artistico, eccitavano la fantasia e favorivano l’indagine psicologica al grande scrittore.

  L’unica che egli amò col cervello e col cuore fu Madama Hauska (sic): piccola, vivace, simpaticissima, pallida, con due grandi occhi neri e dolci, con dei meravigliosi capelli neri. Tipo piuttosto siciliano che polacco, anche per il carattere rumoroso e la espansività dell’animo.

  L’amicizia di Onorato di Balzac per la contessa Evelina Hauska, nacque attraverso una corrispondenza anonima, che la Kadzwill rivela oggi con abbondanza di particolari. Essi non si erano mai incontrati. Solo Balzac ricordava di aver visto un ritratto di Evelina in casa di sua sorella. E in quell’istante pensò: «Ecco la donna che sarà mia». E fu sua.

  La prima lettera di Evelina, giunse a Balzac il 28 febbraio 1832. La corrispondenza, molte volte, può involontariamente stringere due anime e far palpitare due cuori. Una donna d’ingegno può facilmente conoscere attraverso la prosa di un uomo la bontà, il talento, la signorilità, la simpatia dell’amico lontano che il destino le farà un giorno meglio conoscere, apprezzare, stimare e, finalmente, amare. Il caso di Balzac è, se vogliamo, il caso di tutti i giorni. Perciò non deve stupire.

  Ricordo che un mio amico molto intimo, era innamorato di una donna che non aveva ancora avvicinata. E il giorno in cui la conobbe da vicino, si sentì definitivamente conquistato dal tipo fisico e psichico della signorina ventitreenne. E la sposò.

  Così la amicizia di Balzac per la Hauska, si trasformò ben presto in un grande amore, suggellato dalle nozze il 14 marzo 1850; la bella Evelina diventò la signora Honoré di Balzac.

La incognita, al tempo in cui cominciò a interessarsi di Balzac, aveva 23 o 24 anni. Abitava nel Castello di Wierszchownia in Polonia. Lettrice entusiasta delle «Scene della vita privata» indirizzò per la prima volta a Balzac una lettera presso l’editore Grosselin (sic), firmandosi l’Etrangère. Più tardi, essa gli scrisse nuovamente e questa volta suggerendogli il mezzo per una risposta: «Una vostra parola nel Quotidienne mi assicurerà che voi siete in possesso di questa mia lettera e che posso continuare a scrivervi senza esitazione. Rispondete: A. E. H. R.».

  Evelina era in quel tempo una semplice fedele ammiratrice del romanziere, al quale scriveva sotto l’impressione della lettura della Fisiologia del matrimonio.

  Balzac rispose subito alla anonima e dalle sue lettere si vede chiaramente che egli anelava dal desiderio di fare di quella donna la compagna della sua vita.

  Madame Hauska entra in un momento psicologico della vita dello scrittore. Fin dalla giovinezza Balzac aveva aspirato alla celebrità e ad essere amato, e questa nuova strana amicizia con una donna lontana e non ancora avvicinata, gli dava la certezza di aver finalmente trovato la compagna che egli sognava.

  E da quel momento Balzac diventò lo schiavo di Evelina Hauska, la quale era completamente differente dalla buona, devota e romantica de Berry, dalla spirituale D’Abrantès e dalla frivola e coquette Duchessa de Castries.

  La polacca, dotata di una grande forza morale e fisica, e in ciò superiore alle sue rivali, fece ben presto di Balzac «le mugik de sa bien-aimée».

  A Ginevra, egli scrisse quasi tutta la Duchessa di Langeois (sic), ispiratagli dalla donna che amava e alla quale dedicò il lavoro (sic): «Sono felice, nel dedicarvi questo libro, di darvi una testimonianza dell’affezione rispettosa che voi mi avete permesso di manifestarvi».

  Questa devozione in queste parole verso una giovanissima signora, quanto rispetto! Com’egli misurava le distanze e comprendeva la delicata posizione di lei!

  Nella primavera del 1834 Balzac continuò la corrispondenza con la sua dolce amica che faceva raccolta di autografi di uomini celebri, e il romanziere le donò un album per raccoglierli.

  Balzac lavorava accanitamente senza posa e per resistere lunghe ore allo scrittoio, beveva molto caffè, la bevanda che doveva più tardi contribuire a scuotere fortemente il suo sistema nervoso ed a minarne il forte organismo. Eccolo a Firenze da dove scrive alla diletta: «Cara, voi mi parlate spesso della mia vita agitata e delle mie corse pel mondo. Io viaggio quando mi è impossibile di svegliare il mio stanco cervello. E quando riprendo le mie facoltà, non esco più di casa e lavoro giorno e notte».

  La corrispondenza fra i due — era perfettamente logica tale conseguenza — impressionò il maresciallo Hauska, marito di Evelina. Il Maresciallo fece comprendere a sua moglie che l’ammirazione per il grande e celebre scrittore era troppo ... calorosa. Ma fu lo scrittore stesso che rassicurò del contrario il sospettoso marito ...

  Balzac potè realizzare il suo sogno di amore due anni dopo la morte del Maresciallo Hauska. Il matrimonio fu celebrato in Polonia il 14 marzo 1850. Il romanziere, al colmo della gioia, scrisse alla sorella. «Da 24 ore esiste al mondo una Madame Honorè de Balcaz (sic), nata contessa Rezewuska (sic)». Ma la felicità durò poco. La febbre cerebrale gli impediva di lavorare lo distruggeva lentamente. Solo i grandi occhi neri e pensosi dell’immortale e insuperato conoscitore della vita sociale, conservavano la singolare espressione del genio. Eppure, egli era felice di quel «ménage». E’ impossibile trovare – scriveva alla mamma – una coppia così perfetta come unione, amore reciproco, delicatezza e bontà».

  Era la sua ultima lettera. Tre mesi dopo Balzac moriva nel suo sontuoso appartamento parigino, assistito da Victor Hugo e da Evelina che si ritirò dal mondo, dedicandosi unicamente alla pubblicazione delle opere di suo marito. Essa portava con orgoglio quel gran cognome. Il cognome di colui che, senza, volerlo aveva fatto sua la massima che leggiamo nei suoi romanzi:

  «Non è che l’ultimo amore di una donna che può soddisfare il primo amore di un uomo».



 Lorenzo Gigli, Il romanzo della Duchessa, «La Tribuna. L’idea nazionale», Roma, Anno XLV, N. 236, 4 Ottobre 1927, p. 3.

 

 Come apparve la matura Laura [d’Abrantès] al romanziere [Balzac]? Egli stesso l’ha detto: «Questa donna ha visto Napoleone fanciullo, l’ha visto giovine ancora oscuro, l’ha visto occupato delle cose ordinarie della vita, poi l’ha visto crescere, innalzarsi e coprire il mondo col proprio nome! Essa è per me come un fortunato che venisse a sedere al mio fianco dopo aver vissuto in cielo al fianco di Dio!». E’ certo che il progetto di sfruttare la ricchissima miniera di ricordi della Duchessa e di scrivere le Memorie maturò sotto l’influenza di Balzac. Quando, nel 1826, Laura si decide, Balzac interviene, consiglia, collabora effettivamente; la collaborazione procede malgrado l’allarme della destata gelosia di Madame de Berny. E’ Laura che introduce Balzac nei salotti celebri dell’epoca, dalla Récamier e dalla principessa Bagration; e Balzac si sdebita come può, amandola e aiutandola a redigere i successivi volumi delle Memorie, ognuno dei quali desta elogi, recriminazioni e polemiche. La relazione dura sino intorno al 1832, quando nella vita di Balzac, si insinua la figura di Madame Hanska. La passione per Laura è al tramonto; comincia l’amicizia, e continua il carteggio tenero e discreto. Balzac ha trentanove anni, Laura cinquantaquattro. L’età degli amori è finita. La chiude l’ultima avventura e si chiama il marchese di Custine.



  Antonio Gramsci, [Lettera alla cognata Tatiana], Milano, 27 dicembre 1927, ora in Lettere dal carcere, a cura di Palmiro Togliatti e Felice Platone, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1947.

 

  26. XII. 1927.

 

  Carissima Tania, [...]

 

  Io ho letto un libriccino di Brunetière su Balzac, una specie di penso per bambini cattivi. Ma non voglio affliggerti con questo argomento.

 

 

  Diogene Laerzio, Notizie e commenti. Tra i libri e la vita, «Nuova Antologia. Rivista di Lettere-Scienze ed Arti», Milano- Roma, Casa editrice d’arte Bestetti e Tumminelli, Settima Serie Volume CCLI della Raccolta CCCXXIX, Fascicolo 1317, 1° Febbraio 1927, pp. 364-365.

 

  p. 364. [Su Le roman des grandes existences, Plon]. Ma in quei «Romanzi delle grandi vite» che ci vengono adesso presentati o di uomini di «ieri», oppure di uomini che hanno vissuto in ambienti sociali ben conosciuti e tali da non far ammettere troppo fantastiche ricostruzioni. Che cosa dunque può rappresentare per il lettore l’invenzione (naturalmente tutta personale dell’autore) dei dialoghi di Balzac con le sue amanti o quelli di Villon con i suoi compagni di mala vita? E a che possono giovare le discussioni di Baudelaire coi suoi creditori, se non a diminuire agli occhi nostri un grande Poeta?

 

 

  Carlo Linati, Romanzieri americani, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 187, 8 Agosto 1927, p. 3.

 

  Theodore Dreiser è un realista ancor più risoluto. La fama di questo scrittore, che data da pochi anni e che culminò in un poderoso romanzo in due volumi, An American Tragedy, è fondata sulle sue vaste e precise raffigurazioni di vita industriale e affaristica americana. Dreiser è una spece (sic) di Balzac del Centro West ed è potente nella costruzione di alcuni caratteri maestri, ad ampie linee ed ombreggiature. Il suo Cowperwood, uno spregiudicato imbastitore d’affari che troneggia crudele e devastatore nelle pagine dei due romanzi in serie, The Titan e The Finanicier, per poi crollare miseramente vittima della sua rapacità, somiglia a Vautrin, con in più una sua erotomania furibonda e qualche riflesso un po’ retorico alla Bernstein.

 

 

  Martelletto, In punta di penna, «Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo di Pisa e Provincia», Pisa, Anno XXXV, Num. 12, 19-20 Marzo 1927, p. 1.

 

  Sparisce lo scrittore professionale. […]. Né Stendhal né Flaubert vivevano soltanto delle lettere. Perciò quando si esamina la bellezza e la potenza di un Balzac, di un Victor Hugo, e più vicini a noi, di un Anatole France, di un Bourget, si pensa che è triste che le difficoltà della vita, non acconsentano più al letterato di vivere soltanto di quella professione.

 

 

  Martelletto, In punta di penna. L’aneddoto … di Balzac, «Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo di Pisa e Provincia», Pisa, Anno XXXV, Num. 18, 30 Aprile-1 Maggio 1927, p. 1.

 

  Il barone Giacomo Rothschild era grande amico di Balzac. Una volta il romanziere di recò dal Barone Rothschild perché voleva fare un viaggio a Vienna e si trovava, come al solito, senza denari. Rothschild gli prestò tremila franchi e gli diede una lettera di raccomandazione per suo nipote, capo della Casa Rothschild a Vienna.

  Durante il viaggio, Balzac aprì la lettera suggellata e lesse, ma trovandola un po’ fredda, non la consegnò. Ritornato a Parigi, il Barone Giacomo gli domandò so aveva consegnato la lettera. — No, rispose con orgoglio Balzac: l'ho ancora qui: eccola! — Mi dispiace soggiunse sorridendo Rothschild, perché vedi questo piccolo geroglifico sotto la mia firma? È un segno convenzionale che ti apriva un credito di venticinquemila franchi presso mio nipote.

  Gran disdetta per Balzac, che non potè ritornare indietro!

 

 

  Guido Mazzoni, Nomi, persone e cose, «Nuova Antologia. Rivista di Lettere-Scienze ed Arti», Milano- Roma, Casa editrice d’arte Bestetti e Tumminelli, Settima Serie Volume CCLI della Raccolta CCCXXIX, Fascicolo 1315, 1° Gennaio 1927, pp. 36-48.

 

  pp. 47-48. Certo è che gli artisti del racconto e del dramma non si appagano, tanto facilmente quanto crede il pubblico, dei nomi da apporre alle loro creature. Il plautino Pirgopolinice, il molieriano Harpagon, son più facili a trovarci che Emma Bovary e César Birotteau. Questi due nomi li ho scelti a bella posta, per averne il destro di accennare a Gustavo Flaubert e Onorato Balzac; entrambi pazientissimi e oculati trovatori di nomi romanzeschi.

  Il Flaubert si faceva anch’egli aiutare da amici, e raccomandava loro: «Un nome proprio è cosa d’estrema importanza in un romanzo: è una cosa capitale! Non si può far mutare a un personaggio il nome, più di quel che si possa far mutare a una persona la pelle. A un negro non gli si può dare la pelle bianca!».

  Più largamente il Balzac, innanzi al racconto intitolato Z. Marcas, espose nel modo che segue la sua propria teoria, ragionando su quello Z. e sul Marcas. Fin dove credeva egli alle sue proprie ingegnosità? Per conto mio, credo che, almeno finché scriveva, fosse in fede sincera.

  «Tra la persona e il nome v’era una tal quale armonia. Quello Z. che precedeva Marcas, tanto sull’indirizzo delle lettere a lui, quanto, senza ch’egli mai se ne dimenticasse, nella firma sui. quell’ultima lettera dell’alfabeto offriva allo spirito un non so che di fatale.

  Marcas! Ripetete a voi stessi il nome bisillabo, e sentirete lì dentro un significato sinistro. Non vi apparisce che l’uomo di tal nome era destinato al martirio? Per istrano e selvaggio che fosse. è un nome che ha il diritto di passare ai posteri; ben composto come è, e di pronunzia facile, e breve come han da essere i nomi famosi. Dolce e insieme bizzarro! ed anche vi ha da sembrare incompiuto!

  Non prenderei sopra di me l’affermazione che i nomi non esercitano nessuna efficacia sul destino. Tra i fatti della sua vita e il nome d’un uomo vi sono segrete ed inesplicabili concordanze o discordanze visibili che fan stupire; spesso nei nomi si rivelano correlazioni remote ma efficaci. Questo nostro globo è compatto, e tutto vi è legato insieme. Chi sa che prima o poi non si torni alle scienze occulte!

  Nella costruzione dello Z non scorgete un andamento che soffre ostacoli? non ha la figura dello zig-zag aleatorio e fantastico ‘una vita tormentata? Qual vento mai ha soffiato su questa lettera che, in qualsiasi lingua dove sia ammessa, comanda a mala pena su cinquanta parole? Marcas si chiamava Zeffirino: San Zeffirino e amatissimo in Bretagna. e Marcas era Bretone.

  Esanimate un altro poco il nome: Z. Marcas! Tutta la vita dell’uomo è nel fantastico gruppo di quelle sette lettere. Sette! il più significativo dei numeri cabalistici. L'uomo morì a trentacinque anni, cioè di sette lustri. Marcas! Come non aver la sensazione di qualcosa di prezioso che si spezzi cascando, con o senza romore?».



  Mario Musella, Frammenti di scienza, Napoli, Casa Editrice Libraria V. Idelson, 1927.

 

  p. 157. L’abuso del caffè ha ammazzato Balzac, dicono gli igienisti; ma Fontenelle, Voltaire, Kant Schopenhauer, bevevano dodici tazze di caffè al giorno e morirono tutti in tarda età.



  Paolo Nalli, Rassegna di letteratura francese. Biografie romanzesche e romanzi biografici, «Rivista d’Italia», Milano, Anno XXX, Fasc. II, 15 Febbraio 1927, pp. 301-304.

 

  p. 302. Al volume del Benjamin: La prodigieuse vie de Balzac è stato giustamente rimproverato il difetto di essere più un romanzo, anzichè una biografia.

  L’A. potrebbe rispondere che le biografie di Balzac erano già numerose, e che l’elemento romanzesco è giustificato dal titolo della collezione: Le roman des grandes existences. Se, d’altro canto, l’opera può deludere il lettore che vi cercasse una documentazione sicura e precisa, piacerà invece a chi ama una rievocazione un po’ fantastica, se essa è abbellita da un’arte scaltra ed esperta. Che il Balzac del Benjamin sia falso non si può dire, così come non sono falsi i personaggi di Dumas padre, e, per esempio, le ultime pagine di questo volume, che raccontano la morte dello scrittore, sono veramente mirabili.

 

 

  Paolo Nalli, Rassegna di letteratura francese, «Rivista d’Italia», Milano, Anno XXX, Volume III, Fasc. XII, 15 Dicembre 1927, pp. 680-683.

 

  pp. 682-683. Come siamo lontani dall’erotismo patologico del Sade se sfogliamo le paginette nelle quali M. Bouteron raccoglie i pochi frammenti del Contes drolatiques che Balzac aveva già pensati e che non scrisse.

  La facezia rabelaisiana del Balzac è sempre sana, anche se sporcacciona. Questi frammenti compaiono nel 4° fascicolo dei Cahiers balzaciens nei quali il principe dei balzaciens si propone di raccogliere tutte le briciole del gran banchetto balzacchiano.

  Un fascicolo è dedicato a Les fantaisies de la Gina, una novella inedita del Balzac inspirata dai ricordi del soggiorno dello scrittore a Milano; e un altro ci offre una prima serie di lettere di ammiratrici del Balzac. Altri fascicoli sono in preparazione e i fedeli di Balzac li attendono con impazienza.

 

 

  Ferdinando Neri, L’Italia di Balzac, «L’Ambrosiano», Milano, Anno VI, Num. 104, 3 Maggio 1927, p. 3.

 

  La sig.na Maria Pisani presenta, nella «Biblioteca rara» diretta dal Pelizzari, un volumetto su L’Italia nella «Commedia umana», che prosegue e in certo modo vorrebbe integrare il Balzac in Italia, che il compianto Giuseppe Gigli aveva pubblicato nel 1920. Non che l’Italia rappresenti una parte dominante nell’opera del grande romanziere; ma i suoi viaggi a Torino, a Milano, e Venezia, ed a Genova, le sue amicizie con gentiluomini e letterati, con dame italiane, prima fra tutte la contessa Maffei, le polemiche suscitate da que’ suoi discorsi pittoreschi e sventati, la fortuna (non sempre fiduciosa e cordiale) ch’ebbero i suoi libri fra noi, consentono di raccogliere sull’argomento un manipolo di notizie, abbastanza curiose.

  Col rigore e la passione del collezionista, il Prior ha tessuto di elementi italiani alcune pagine della biografia di Balzac, ed i suoi saggi speciali mostrano, nel confronto, quant’era d’un po’ affrettato e superficiale nella trattazione complessiva del Gigli e quant’è ancora in questo lavoro che annunziamo della Pisani. La quale ha ripreso, in un primo capitolo, l’esame d’Uomini e cose d’Italia durante i viaggi di Balzac, per determinare in seguito com’egli abbia giudicato l’Italia e gl’italiani, e quali figure italiane «inventate» da Balzac si incontrino nella Comédie humaine, per far capo ad una rassegna sommaria su La storia e l’arte d’Italia nelle opere di Balzac.

 

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  Nel 1837, un milanese, Antonio Lissoni «antico ufficiale di cavalleria» provvide alla Difesa dell’onore dell’armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac, perché questi, nelle Marana, aveva rappresentato il personaggio di Montefiore, capitano italiano nell’esercito napoleonico, come un tipo spregevole d’avventuriero, aggravato dalla viltà che l’aveva fatto denominare «il capitano dei corvi». Certo, per un tal figuro, Balzac poteva risparmiarci la scelta di un nostro connazionale; ma il suo proposito non era ingiurioso; dal complesso de’ suoi personaggi italiani emerge piuttosto l’idea – che gli si era confermata nel breve soggiorno veneziano, e che ritroviamo, con grandi analogie, nei romanzi della Sand che il lungo servaggio avesse quasi sconnesse le coscienze, e che ogni cuore, abbandonato a sè, cercasse il suo destino nelle passioni amorose, confuse con la sedazione delle arti, e segnatamente della musica.

  Massimilla Doni esprime tutto ciò, attraverso la maniera un po’ leziosa ed enfatica che conoscono i lettori di Balzac, quand’egli vuole innalzarsi alle passioni «poetiche» (maniera da cui non va immune, ad esempio. Le lys dans la vallée), e le scene di teatro lasciano qualche spiraglio al pensier della patria oppressa dallo straniero. La chimera della musica in un demente costituisce il tema centrale di Gambara; e nel bozzetto di Facino Cane il vecchio e povero sonatore, ch’è il principe di Varese onde il suo titolo passerà ben presto a Marco Vendramin, di Massimilla, per quel richiamo ed intreccio consueto dei personaggi della Comédie humaine) evoca nel suo volto sofferente il ricordo della maschera di Dante: «L’expression amère et douloureuse.de cette magnifique tête était agrandie par la cécité car les yeux morts lient par la pensée; il s’en échappait comme une lueur brûlante, produite par un désir unique, incessant, énergiquement inscrit sur un front bombé que traversaient des rides pareilles aux assises d’un vieux mur».

  Sebbene il Balzac dichiari, nelle prime pagine d’Honorine, che in Italia «le type noble» non s’incontra ormai più che nel popolo, come, dopo l’incendio delle città, le medaglie rimangono nascoste fra le ceneri («ce phénomène s’observe chez toutes les nations ruinées»), le sue bellezze italiane appartengono tutte alle più grandi famiglie: Onorina stessa, ch’egli assomigliai alla Notte di Michelangelo, ravvolta di vesti moderne, e Massimilla Doni, e la Principessa Colonna di Albert Savarus, salda nel suo dovere e nella sua virtù ; per non dire di Ginevra (La. Vendetta), la giovine córsa, d’una famiglia amica dei Bonaparte — ma perché la sig.na Pisani la chiama «la piccola sarda?» —, che attinge nella sua ora mortale un’espressione così pura, così «nivea», che la distingue fra tutte le eroine di Balzac.

  Ed in somma il concetto di un’altera nobiltà non poteva scompagnarsi dalla gloria dell’arte, che appariva al Balzac come superstite fra le rovine d’Italia: ciò che, d'altra parte, dimostra — poiché Massimilla Doni è del 1839 e Albert Savarus del 1842 — che dalla Lombardia, dalla Venezia egli aveva riportato la visione di una Italia affranta dal dominio straniero, senza aver compreso il valore del Risorgimento che animava in segreto quelle terre generose e le stesse famiglie che l’avevano accolto quale ospite illustre.

 

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  Al Medio Evo italiano Balzac risalì col racconto Les proscrits, dove campeggia la persona di Dante, esule a Parigi; ma l’età storica che lo attrasse maggiormente fu quella del nostro Rinascimento: oltre agli accenni, sparsi per i suoi libri, a Giulio II, all’Ariosto, a Raffaello, a Michelangelo, la sua predilezione si rivela attraverso due figure femminili, assai diverse tra loro, ma tutt’e due colorite da una intensa fantasia: Imperia e Caterina de’ Medici.

  Nella «bella Imperia», che apre e conclude la serie dei Contes drolatiques, il Balzac volle rappresentare il tipo della cortigiana gloriosa e «leonina», fiorente fra i liberi costumi e la passione estetica e sensuale del Cinquecento. E dopo di lui, Imperia oscurò presso i moderni il nome delle sue compagne più colte e al tempo loro più famose, quali Tullia d’Aragona e Veronica Franco: da Gérard de Nerval, che associò la bella Imperia con Aspasia, e la dama de Beaujeu nelle evocazioni dell’Imagier de Harlem, si giunge sino a Petruccelli della Gattina, autore d’un macchinoso romanzo apparso nella «Nuova Antologia» e si potrebbe continuare.

  Io credo che a questa romantica fama di Imperia non sia rimasta estranea la Vita di Leon X del Roscoe, libro che, sulla prima edizione inglese del 1805, si diffuse ben presto nelle traduzioni francesi ed italiane: queste grandi opere d’erudizione si accordavano con l’interesse per il romanzo storico, che dominò tutto quel periodo letterario, aggiungendovi il prestigio d’uno studio più profondo e più serio. Il Leone X del Roscoe significò ciò che più tardi, con tanta maggior ampiezza di vedute e di pensiero, la Civiltà del Rinascimento del Burckhardt … Certo è che in una nota del Roscoe su quella ch’egli definì senz’altro la più celebre delle cortigiane di quel secolo, si trova raccolto quanto poteva bastare al Balzac: avvertendo che del Bandello (citato pure dal Roscoe), egli aveva una conoscenza diretta, come attesta la dedica degli Employés alla contessa Sanseverino.

  D’Imperia, dopo aver ricordato la fine della figliuola, il Balzac fece nell’ultimo racconto una cortigiana innamorata al sacrificio: affinché il gentiluomo che l’aveva sposata avesse modo di passare a nuove nozze ed ottenere la discendenza negata al loro connubio. “Cecy nous apprende que la vert n’est bien connue que par celles qui ont pratiqué le vice …».

 

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  Ma nel libro che ha per titolo Sur Catherine de Médicis — composto fra il 1828, data dei Deux rêves, e il 1842, della dedica al Pastoret, sì da abbracciare i due terzi dell’attività letteraria del Balzac — egli ha voluto esporre tutta la sua «dottrina» della Monarchia, additandone il tipo ideale nella regina italiana, che altri aveva denigrato come l’espressione crudele del machiavellismo coronato, ed altri compianta con la frase che piacque al Balzac: « Ce n’est pas une femme, c’est la royauté qui vient de mourir!».

  Legittimista, egli giustifica, nella sua requisitoria contro la democrazia e i governi di discussione, il potere d’azione rappresentato da Caterina de’ Medici: così le attribuisce il senso profetico della politica della Rivoluzione e il coraggio d’averla combattuta nel suo germe. Adottando i mezzi necessari che formano in ogni tempo la “morale segreta” d’un governo che medita un vasto dominio. Il popolo, diventato re, ha agito contro i nobili e la monarchia, come questa contro gl’insorti del secolo XVI; Robespierre ritenta fatalmente la prova di Caterina de’ Medici.

  Queste pagine politiche del Balzac sono tumultuose, fumose talvolta e sregolate: ma due tratti se ne svolgono chiaramente, che aiutano a seguirlo attraverso la vasta figurazione della società moderna l’uno, la sua costante avversione contro i Governi e le istituzioni d’origine popolare; l’altro, quel suo sacro sgomento dinanzi all’impassibile energia di chi reca in sè il destino degli altri uomini, e di un’intera nazione: quello sgomento, non privo d’una sua spirituale grandezza, di cui son penetrati gli episodi dei romanzi di Balzac. ove s’annunzi o si discopra il volto pallido e cesareo di Napoleone.

 

 

  Ferdinando Neri, Fratelli d’armi, «L’Ambrosiano», Milano, Anno VI, Num. 212, 7 Settembre 1927, p. 3.

 

  Attraverso le Orientazioni straniere nell’opera di Balzac, il Baldensperger ci ha dato una biografia intellettuale, compiuta e coerente, del grande romanziere; ed i vari impulsi della sua cultura si succedono e si consertano così numerosi, così manifesti da collocare quell’opera nella piena luce di un fatto letterario europeo: come nella sua immensa fortuna, così nelle sue origini. Poi ch’è persino strano che fra i grandi scrittori, fra le grandi letture francesi di Balzac, di cui si può riconoscere l’impronta nei suoi libri, non è forse da contare che il solo Rabelais, di fronte a una schiera di artisti stranieri, che il Balzac ammirò, cercandovi, non degli esempi da imitare (ciò che gli accadde soltanto nel periodo infelicissimo de’ suoi romanzi d’orrore e di frenesia derivati dai modelli inglesi della  Radcliffe, di Lewis, di Maturin), ma delle vedute nuove sulla vita e una sorta d’ispirazione ideale: sommaria, confusa e quasi furente, come ogni atto e creazione del suo-pensiero.

  Agli albori della fantasia, stanno le meraviglie dell’Oriente, le Mille e una notte, il Cabinet des fées, Contes persans, Contes chinois, di cui un riflesso s’estende fino alla Peau de chagrin e più in là; mentre, a cominciare dagli Chouans, il romanzo di Walter Scott offre le linee esterne d’una rappresentazione sociale e storica, che il Balzac potrà spostare gradualmente, dall’età ancor vicina della Rivoluzione e dell’Impero, alla sua propria età, nel quadro grandioso della «Commedia umana».

  L’ispirazione fantastica, ripresa sulle tracce aeree di Hoffmann, s’intreccia col satanismo byroniano e il misticismo di. Swedenborg; la Spagna e l’Italia rischiarano, come per vasti baleni, una profonda vena passionale, ed il Goethe, già apparso nelle velleità giovanili di wertherismo, comanda la saggezza ad un’anima più matura e più comprensiva.

  Un indice più minuto dei molti nomi che ricorrono in questo saggio (lo Sterne, il Cooper, Gian Paolo, il Cervantes, l'Alighieri ...) qui non sarebbe opportuno; l’ultimo episodio, che il Baldensperger riassume nella formula «Il ripudio del Caso», pone il Balzac di fronte al mondo slavo, rappresentato, su due piani diversi, da Wronski e dalla Hanska. Wronki, l’insigne matematico e mistico polacco, spiega a Balzac che il giuoco, la lotteria, non sono che aspetti più densi, e concreti, «indizi cifrati» del problema delle probabilità, ch’è un modo d’interpretare il nostro destino. La composizione della Recherche de l’absolu risente di queste lezioni; e Balzac imposta alcuni suoi romanzi sugli elementi fortuiti che possono deviare, su di una linea imprevista, l’esistenza di un uomo: l’intrico n’è talvolta fittissimo e par che affidi il racconto ai capricci d’una cieca sorte. Ma proprio a questo punto la storia intellettuale di Balzac, con tutto il suo impeto che ravvolge la fiamma col fumo, si trova ad uno dei momenti suoi più originali ed interessanti: «Dans la vie réelle, dans la société, les faits s’enchaînent si fatalement à d’autres faits, qu’ils ne vont pas les uns sans les autres ...»; ma il determinismo che stimola le azioni umane, quasi fossero meccaniche, risale ad una causa … e qui la volontà riconquista il suo regno, poiché l’uomo intelligente è l’interprete di quella causa superiore: le assise della società, che pare un caos attraverso la stessa descrizione di Balzac, sono per lui tuttavia stabili e salde. E tal senso «positivo» della volontà umana, di contro alla negazione che lo spirito slavo avanzerà sempre più risoluta e disgregatrice, consente al Baldensperger di presentarci il Balzac come un difensore dell’Occidente: difensore tanto più consapevole in quanto ha vissuto il problema della civiltà moderna nelle stesse forme, dell’arte che da lui, forse più che da ogni altro, apprenderanno gli scrittori russi: Nel 1836 egli può scrivere: «Je crois peu à ce qu’on nomme les hasard de la vie …».

 

 

  Nomenclator, Il centenario del Romanticismo. Balzac al Pantheon?, «La Stampa», Torino, Anno 61, Num. 120, 21 Maggio 1927, p. 3.

 

  Approfittando della ricorrenza del centenario del Romanticismo, di cui si parlerà ancora per un pezzo, un gruppo di balzacchiani intraprende una campagna pel trasporto delle ceneri dell’autore della Commedia Umana sotto la cupola del Pantheon. La cosa appare più opportuna di quanto che la tomba attuale dello scrittore, sulla collina del cimitero del Père-Lachaise, giace nel più totale abbandono. La fantasia romantica di Balzac si compiacque non di rado nelle passeggiate all’ombra dei salici funerari, all’epoca in cui componeva il Cromwell, la macchinosa tragedia che, come quella omonima di Vittor Hugo, non doveva mai vedere la luce; e non v’ha chi non ricordi la sfida a Parigi lanciata dall’alto del celebre cimitero da Rastignac reduce dal funerale di Papà Goriot. Là dove Balzac errava a capo scoperto e coi capelli al vento, sorge oggi un modesto cippo quadrangolare sormontato da un busto di mano di David d’Angers, del 1844, illustrato da una lapide col nome e le date della nascita e della morte: 20 maggio 1799, 18 agosto 1850. Ma le intemperie hanno ridotta l’iscrizione così a mal partito, che sarebbe impossibile riconoscere la tomba se non ravvisando il capo lungichiomato che le sovrasta. La proposta del trasporto al Pantheon era stata fatta la prima volta nel 1899, alla vigilia del centenario balzacchiano, dal deputato socialista Fournière. La Camera l’accettò e, nientemeno, votò per essa l’urgenza. Il risultato fu che di lì a un certo tempo nessuno più se ne ricordava. Nel 1902 la proposta venne ripresa dall'on. Couyba, ministro non so più di che e autore di canzoni popolari sotto lo pseudonimo di Maurizio Boukay, estendendo la tumulazione nel famedio nazionale a Michelet, a Quinet e a Renan. Il 2 dicembre di quell’anno il progetto venne discusso e rimandato d’urgenza alla Commissione finanziaria, la quale lo seppellì una seconda volta. Oggi si torna alla carica, e c’è chi propone che tutti gli ex-ministri della P. I. facenti ancor parte del Parlamento firmino una nuova proposta di legge pel trasporto delle ceneri di Balzac al Pantheon. Herriot, che dirige il suo Dicastero con tanta, competenza e col prestigio assicuratogli dalla sua bella cultura, sarebbe l’uomo indicato per condurre in porto l'impresa: sembra ch’egli stia per decidervisi. […].

 

 

  Alfredo Oriani, , Bologna, Licinio Cappelli Editore, 1927.

 

  p. 26. […] se fossi Balzac, o almeno Tolstoi, avrei scritto un romanzo, ma anche allora sarei rimasto inconsolabile di non averlo vissuto.



  F.[ernando] Palazzi e S.[ilvio]Spaventa Filippi, Il Libro dei mille savi. Massime – Pensieri – Aforismi – Paradossi di tutti i tempi e di tutti i paesi accompagnati dal testo originale e dalla citazione delle fonti, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 1927.

 

  Le citazioni che riportiamo fanno riferimento alla seconda edizione dell’opera pubblicata nel 1937. Per ogni citazione tradotta, gli autori riportano, in nota, il rispettivo testo originale in lingua francese.

 

  Abitudine.

 

  2. Nessuno osa dire addio alle proprie abitudini. Parecchi suicidi si sono fermati sulla soglia della morte, pel ricordo del caffè in cui tutte le sere andavano a giocare la loro partita di domino.

H. de Balzac, Le cousin Pons.

 

  Adulazione.

 

  35. L’adulazione non viene mai dalle anime grandi; essa è l’appannaggio degli spiriti piccini che riescono a rimpicciolirsi ancora più per entrar meglio nella sfera vitale delle persone intorno a cui gravitano.

H. de Balzac, Eugénie Grandet.

 

  Amore.

 

  281. Quando i fanciulli cominciano a vedere, sorridono; quando una fanciulla comincia a vedere il sentimento della natura, sorride come sorrideva da bambina. Se la luce è il primo amore della vita, l’amore non è forse la luce del cuore?

H. de Balzac, Eugénie Grandet.

 

  282. Se l’amore è la primissima tra le passioni, è perché le blandisce tutte.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 3.

 

  283. L’amore è la poesia dei sensi. O è sublime o non esiste. Quando esiste, esiste per sempre e va di giorno in giorno crescendo.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 5.

 

  284. Amare vuol dire consacrarsi a una donna senza sperare nessuna ricompensa; vuol dire vivere sotto un altro sole, con la paura di arrivare a toccarlo.

H. de Balzac, Illusions perdues.

 

  285. Soltanto l’ultimo amore d’una donna può reggere al paragone col primo amore d’un uomo.

H. de Balzac, Pensées et maximes.

 

  Amor proprio.

 

  625. Nel naufragio dell’ebrezza, l’amor proprio è il solo sentimento che si tiene a galla.

H. de Balzac, Modeste Mignon.

 

  Ateismo.

 

  803. Il deista è un ateo col beneficio d’ inventario.

H. de Balzac, Ursule Mirouet.

 

  Costanza.

 

  1428. La costanza è il fondu della virtù.

H. de Balzac, Pensées et maximes.

 

  Disgrazia.

 

  1783. Esageriamo tanto le disgrazie quanto la felicità; noi non siamo nè tanto disgraziati nè tanto felici quanto diciamo.

H. de Balzac, Modeste Mignon.

 

  1784. La disgrazia fa in certe anime un vasto deserto, nel quale squilla la voce di Dio.

H. de Balzac, Pensées et maximes.

 

  Dolore.

 

  1836. In certe circostanze della vita, l’amico deve restarci vicino, muto: la consolazione parlata inasprisce la piaga e ne rivela la profondità.

H. de Balzac, Le cousin Pons.

 

  1837. In ogni occasione, le donne hanno più cagioni di dolore che non ne ha l’uomo, e soffrono di più.

H. de Balzac, Eugénie Grandet.

 

  Donna.

 

  1940. L’istinto della donna equivale alla sagacia dei grandi uomini.

H. de Balzac, Honorine.

 

  1941 Non c’ è donna che si compiaccia di sentir lodare in sua presenza un’altra donna; tutte si riservano in questo caso di parlare per ultime, per condire la lode con un po’ d’aceto.

H. de Balzac, Les employés.

 

  1942. 11 testo della vita femminile sarà sempre uguale: sentire, amare, soffrire, sacrificarsi.

H. de Balzac, Eugénie Grandet.

 

  1943. Gli errori della donna derivano quasi sempre dalla sua fede nel bene, o dalla sua fiducia nel vero.

H. de Balzac, Eugénie Grandet.

 

  1944. La donna ha questo di comune con l’angelo, che gli esseri che soffrono le appartengono.

H. de Balzac, Eugénie Grandet.

 

  1945. Un uomo, per malizioso che sia, non dirà mai delle donne tanto bene o tanto male, quanto ne pensano già esse stesse.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, Dedicace.

 

  1946. Amare è la religione della donna; ella non pensa che di piacere a colui che ama. Essere amata è il fine ultimo di tutte le sue azioni, eccitare desiderii quello di tutti i suoi gesti.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 2.

 

  1947. La donna è la regina del mondo e la schiava d’un desiderio.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 2.

 

  1948. Una donna virtuosa ha nel cuore una fibra di meno ma di più delle altre donne: o è stupida o è sublime.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 4.

 

  1949.Le colpe delle donne sono altrettanti atti d’accusa contro l’egoismo, la trascuranza e la nullità dei loro mariti.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 5.

 

  1950. Chi sa governare una donna, sa governare uno Stato.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, II, 10.

 

  Gelosia.

 

  2953. Esser geloso è il colmo dell’egoismo, è l’amor proprio in difetto, è l’irritazione d’una falsa vanità.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, II, 18.

 

  Gloria.

 

  3193. La gloria è un veleno che bisogna prendere a piccole dosi.

H. de Balzac, Pensées et maximes.

 

  3194. La gloria è dodicimila lire spese in articoli di giornale e mille scudi in pranzi.

H. de Balzac, Illusions perdues.

 

  3195. La gloria, come il sole, par calda e luminosa a distanza; ma se si avvicina, è fredda come la sommità d’un monte.

H. de Balzac, Modeste Mignon.

 

  Illusione.

 

  3508. Il meglio della vita sono le illusioni della vita.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 4.

 

  Ingratitudine.

 

  3643. L’ingratitudine nasce forse dall’ impossibilità di sdebitarsi.

H. de Balzac, Physiologie du mariage.

 

  Libertà.

 

  3916. Quante sciocchezze umane sono contenute nel boccale che porta scritto sopra: «libertà»!

H. de Balzac, Pensées et maximes.

 

  Matrimonio.

 

  4280. Il matrimonio è un combattimento a oltranza, prima del quale gli sposi chiedono la benedizione di Dio, perché amarsi per sempre è la più temeraria delle imprese.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 1.

 

  4281. Il matrimonio unisce per tutta la vita due esseri non si conoscono affatto.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 1.

 

  4282. Il matrimonio deve combattere senza tregua un mostro che divora tutto, l’abitudine.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 5.


  4283. La donna è per suo marito quel che il marito l’ha fatta.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, II, 17.

 

  4284. Sono le buone qualità e non la bellezza d’una donna che fanno i matrimoni felici. La donna che ci ama, sa farsi bella.

H. de Balzac, Mercadet.

 

  Pazienza.

 

  5228. Ogni potere umano è composto di tempo e di pazienza.

H. de Balzac, Eugénie Grandet.

 

  5229. La rassegnazione è un suicidio quotidiano.

H. de Balzac, Pensées et maximes.

 

  Piacere.

 

  5390. Il piacere è come certe droghe medicinali, di cui, per ottenerne sempre i medesimi effetti, bisogna raddoppiar la dose: la morte o l’abbrutimento è nell’ultima.

H. de Balzac, Pensées.

 

  Socialismo.

 

  6375. Il socialismo, che si crede nuovo, è un vecchio parricida. Ha sempre ucciso la repubblica, sua madre, e la libertà, sua sorella.

H. de Balzac, Pensées.

 

  Vecchiezza.

 

  6917. Il vecchio è un uomo che ha mangiato e guarda gli altri pranzare.

H. de Balzac, Pensées.

 

  Virtù.

 

  7101. La virtù non è forse altro, che la gentilezza dell'anima.

H. de Balzac, Physiologie du mariage, I, 4.

 

 

  Luigi Perrachio, Vita musicale. Teatri. Le prime rappresentazioni. “Madonna Imperia” di Franco Alfano (Teatro di Torino – 5 maggio 1927), «Musica d’oggi. Rassegna di vita e di coltura musicale», Milano, Anno IX, Numero V, Maggio 1927, pp. 149-151.

 

  La vicenda scenica della nuova opera che Franco Alfano ha compunto sul libretto di Arturo Rossato è tratta dai contes drolatiques di Balzac.

  Ha luogo in Costanza ai tempi del Concilio. Prelati, principi, alti personaggi vi sono radunati e con essi è Madonna Imperia, bella e potente cortigiana.

  Fra i prelati è il vescovo di Bordeaux che ha seco un chierichetto di nome Filippo Mala. Al «chierichetto umile e tristo» ribolle nelle vene il sangue dei vent’anni: lo spettacolo della vita di piaceri e di splendori che gli turbina intorno lo riempie di desideri: «scarnito e tribolato erra ogni notte intorno alla casa di Madonna Imperia e «da laggiù nel vicoletto ascolta il romorio dei rubicondi messeri che bevon fieri e cantano giocondi ...». Una sera di neve e di gelo si fa animo ed entra. Madonna Imperia gli domanda che vuole: «offrirvi tutta l’anima mia» ...

  Giungono i convitati: il cancelliere di Ragusa, il principe di Coira, il conte dell’ambascieria di Francia. Fatti i convenevoli s’accorgono della presenza di Filippo, rannicchiato in un angolo: Madonna Imperia non l’ha cacciato e lo presenta, come un parente che «canta come un troviere». E Filippo canta: «Dama, se tanto siete pietosa e ornata, non discacciate il pellegrino oscuro venuto ad implorare!». La nuova dichiarazione tocca il cuore a Madonna ...

  Ma il cancelliere di Ragusa, che vorrebbe per sè i favori della bella cortigiana, si sbarazza con un pretesto del conte di Francia — Il principe di Coira si è sbarazzato da sé, ubbriaco fradicio — e rimasto solo con Filippo gli dice netto: o restare ed esser domani impiccato o buttato in un sacco in fondo al lago o andartene e avere «nelle ladre mani» un’abbazia. Scegli!», Filippo sceglie l’abbazia e va.

Madonna Imperia, che è rientrata, domanda al Ragusa del «fantolino»: al racconto di quanto è successo si sdegna e caccia il cancelliere.

  Ma Filippo non è fuggito: «che mai potevo fare io meschinello contro colui?». Egli si è nascosto e, partito il cancelliere, è ritornato. Madonna lo rimprovera d’aver preferito a lei un’abbazia: «quest’abbazia codarda ecco, la scaglio al fuoco» risponde «ed or muccido ...».

  Madonna è già vinta: «chissà perché, o mio dolce ribaldo, mi prendi l’anima ... e apertegli le braccia lo porta con sé.

  Giunge il vecchio vescovo di Bordeaux: «dov’è Filippo?» — Egli e Madonna sono ad intonare un mottetto trionfale, di là, messere». Siede, attende, prega: «Signore, guardalo ... e aiuta quanto fa per Te ...». S’addormenta. Una campana lontana suona le ore.

 

***

 

  Ho notato che la vicenda scenica è stata tratta da Balzac. Ma la derivazione è stata portata assai lontano. Della concezione balzachiana non è rimasta che una trama rada: il fatto direi. I tipi son mutati e son tutt’altri e tutt'altro è l’ambiente. Con quella sua semplicità piana, cui s’addice così bene l’arcaica ingenuità della lingua, Balzac ha fatto una pittura amara d’ironia e cruda di verità dei mali costumi dell’epoca. I suoi protagonisti son tre alti prelati, una Imperia che è veramente furba e potente che si gabba dei suoi potenti adoratori, e un tipo fra l’astuto e lo sciocco, un Filippo che gode i favori della bella Imperia dopo aver fatto mettere alla porta il Cardinal di Ragusa e avergli portato via un’abbazia. Nell’epoca recente invece l’ironia e la satira, che sono la ragion prima della creazione balzachiana, son scomparse. Quei tipi che là son perfettamente al loro posto ed anche logicamente son qui tutt’altri: Imperia è una creatura sognante, poetica e amante della poesia e Filippo è un innamorato ardente e un garbato improvvisatore di madrigali. Per questo vien fatto di pensare se essi siano sempre e davvero al loro posto e se i fatti che succedono siano necessari e logici. Mancando la ragione dell’ironia e della satira, che mette in così ridicola luce il cardinale di Ragusa, non si sa ben spiegare, ad esempio, perché il cancelliere di Ragusa, che è così potente da promettere a Filippo di farlo impunemente impiccare, non si accontenti di prenderlo per un braccio e di metterlo alla porta: e gli offre invece un’abbazia, alla quale poi Filippo rinuncia.

  Ma tant’è, nè vale insistere su queste piccole cose. E se mai s’ha da tener conto d’un fatto: che il poeta ha voluto ingentilire e mitigare e, direi quasi illuminare di una luce di poesia una vicenda ch’è nata sotto altra luce. Egli ha rinunciato ad un elemento di facile e sicuro interesse, qual’è quello fornito da Balzac, per tratteggiare una vicenda gentile e disegnar tipi animati di calda poesia. E di questo atto s’ha da tener conto come di ogni atto che purifica ed eleva l’arta in una atmosfera superiore.

 

***

  Se il poeta è riuscito ad avvolgere la vicenda in una luce di poesia ben più ancora vi è riuscito il musico. Su quei tratti di comicità e di riso, che son disseminali qua e là, arguti e indovinati, il musico ha sorvolato: non s’è fermato a sottolinearli, Egli ha concentrato, direi, tutta la sua attenzione sugli elementi lirici della creazione. Alfano dice che non sente il comico. Egli è onesto e parla di sè. Io direi senz‘altro che il comico in musica, è una cosa molto discutibile. […].



  G. Petraglione, Balzac a Venezia, «La Gazzetta di Puglia. Corriere delle Puglie», Bari, Anno XLI, Num. 303, 21 dicembre 1927, p. 3.

 

  Caro Direttore,

  leggo nella «Gazzetta del Lunedì» di questa settimana, che la «Revue de France» ha recentemente ricostruito, su qualche documento inedito o poco conosciuto, il soggiorno fatto da Onorato Balzac a Venezia dal 14 al 20 marzo 1837.

  Mi sia ora consentito di rilevare che la ricostruzione della «Revue de France», se si eccettua una lettera inedita di Balzac alla Contessa Maffei, non è che la riproduzione di quanto espose e documentò uno scrittore pugliese prematuramente scomparso, Giuseppe Gigli, nel suo ben noto Balzac in Italia (Milano, Fratelli Treves editori, 1920), che fu l’ultima opera pubblicata dal nostro compianto corregionale, morto a Livorno nel 1921. Cordialmente.

 

 

  Vittorio Pica, Gavarni, «La Stampa», Torino, Anno 61, Num. 29, 3 Febbraio 1927, p. 3.

 

  Pittore di costumi deve considerarsi il Gavarni, checchè altri ne abbia scritto, più e meglio che caricaturista, come lo dimostra del resto l’essere rimasta pura la sua matita da ogni attacco personale (unica eccezione fa una stampa satirica disegnata in gioventù contro Carlo X) e l’avere con assidua cura evitato ogni deformazione ed ogni esagerazione delle figure, che egli copiava direttamente dal vero. Pittore di costumi insuperato ed insuperabile egli è, sicché bene a ragione Paul de Saint-Victor poteva dire della sua Opera che essa meritava di essere intitolata: «Mémoires de la vie privée du dix-neuvième siècle» e ben a ragione egli ha potuto essere posto a raffronto con Balzac, di cui possedeva il grande amore pel vero, senza però avere quella visione ingigantitrice e quella tendenza a trasformare gl’individui in tipi generali, che ravvicina l’autore della Comédie humaine piuttosto al Daumier. […].

 

 

  Enrico Piceni, Rassegna di letteratura italiana, «Rivista d’Italia», Roma, Anno XXX, Volume II, Fasc. XI, 15 Novembre 1927, pp. 508-516.

 

  p. 511. Goethe ordinato e forte, Dostojewski esaltato e degenerato, Balzac che si dibatte tra le fila imbrogliatissime della sua Commedia Umana come tra le maglie dei suoi debiti, e improvvisa nottetempo, ubriaco di caffè e di genio, Dickens sensibilissimo e così bisognoso del favor popolare, da modificare lo svolgimento e il tono dei suoi romanzi a seconda del successo riportato da ciascun capitolo ...: per le vie più diverse e contradditorie, con metodi che a chiunque sarebbero fatal o senza metodo alcuno, contro tutti e fin contro sè stesso, con divina predestinazione, il creatore dà vita al mondo che la vita attende da lui.



  Enrico Piceni, Rassegna della letteratura italiana. Libri del giorno, Italo Svevo, «Rivista d’Italia», Roma, Anno XXX, 15 Dicembre 1927, pp. 674-679.

 

  p. 679. Leggendo questo romanzo [Senilità] non mai si sente il bisogno che sia scritto bene. Un tale impeto, un tale ardore di indagine lo pervade, un tal desiderio di isolare e fermare i più impercettibili moti delle anime e delle coscienze, che trascina anche noi e non ci permette di pensare od altro. Anche Père Goriot non è scritto bene. Già Stendhal diceva cito bisogna scrivere prendendo a modello il Codice Civile: e, per chi veramente ha qualche cosa da dire, è questa ancora una grande regola. I modi espressivi dello Svevo, che lasciano tutto il loro nudo risalto ai fatti, hanno una semplicità disadorna che ci riposa di molte laureate retoriche.

 

 

  Maria Pisani, L’Italia nella “Commedia umana”, Napoli-Genova-Città di Castello, Società anonima editrice Francesco Perrella, 1927 («Biblioteca rara. Testi e documenti di letteratura, d’arte e di storia raccolti da Achille Pellizzari. Terza serie», LXXIX-LXXXI), pp. 109.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Capitolo I. Uomini e cose d’Italia durante i viaggi di Balzac, pp. 7-39; Capitolo II. Come Balzac giudicò l’Italia e gl’Italiani, pp. 41-65; Capitolo III. Gli italiani «inventati» da Balzac, pp. 67-82; Capitolo IV. La storia e l’arte d’Italia nelle opere di Balzac, pp. 83-99: Appendice. Le dieci dediche agli amici d’Italia, pp. 101-108.

 

  Scrive l’A. nell’Avvertenza a p. 5: «La fama di detrattore dell’Italia e, degli Italiani, che accompagna, ormai per tradizione, il nome di Onorato Balzac, non risulta basata se non su riferimenti altrui, la cui fondatezza non è del tutto sicura, e sopra i quali si continua tuttavia a sentenziare di Balzac, e di ciò che egli senti e pensò dell’Italia.

  Senza trascurare queste testimonianze dei contemporanei, e pur tenendo nel dovuto conto le conversazioni dei salotti ed anche i piccoli pettegolezzi della “società„ che il grande Francese frequentò nel Veneto e in Lombardia, io ho pensato che occorresse meglio chiarire i rapporti spirituali che Balzac ebbe, più che con i singoli, con la complessa anima della nostra Nazione, attraverso l’indagine e lo studio di ciò che l’Italia impresse di sè in lui e nella sua opera letteraria: indagine e studio, s’io non erro, più fruttuosi e più nobili. Perché nessuna forma di solidarietà sentimentale è più intima, e nessun omaggio è più schietto di quello che una grande anima rende alle forme dell’arte e della vita altrui, quando di esse impronta, consapevole od inconsapevole, la vita e l’arte sua».

 

 

  Carlo Placci, Proust mondano, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 308, 27 Dicembre 1927, p. 3.

 

  Ho incontrato l’altra sera il duca di Zeta, personalità molto in vista per casato e cultura, a uno di quei ricevimenti eleganti, così propriamente parigini, che ricordano quelli di casa Guermantes, dove il genio di Proust ha saputo fissare per sempre, pur a traverso lungaggini di stile e lentezze di visione, la fisonomia dell’alta società francese nel primo quarto del Novecento. La Francia, nella sua fertilità letteraria, non ha prodotto sempre, in ogni secolo, qualche grande osservatore sociale, Brantôme, Molière, Saint-Simon, Balzac, Proust?

 

 

  Carola Prosperi, Una donna di trent’anni, «La Stampa», Torino, Anno 61, Num. 127, 29 Maggio 1927, p. 3.

 

  La donna di trent’anni ne aveva quaranta. E giusto un centinaio di anni fa, intorno al 1827, ella stava — per economia — a Versailles, nella strada più solitaria, in una di quelle casette con giardino, che si chiamavano padiglioni e servivano di asilo ai passeggeri amori di qualche gran signore. (Ora, chissà, sarà diviso in minuscoli appartamenti per impiegati in pensione ...). Non molti anni prima, questa donna, nel suo fantastico castello di Raincy, antica principesca dimora, arredata con un lusso da nababbi, aveva avuta l’abitudine d’informare del suo umore gli ospiti e gli amici mediante i fiori di cui faceva riempire il vestibolo e le sale terrene. Era un linguaggio muto, venuto allora di moda. Io lo ignoro, ma immagino come sarà stato. Rose thea: languore amoroso. Viole del pensiero: ricordo e rimpianto. Giacinti azzurri: tenerezza. Garofani scarlatti: gelosia. Vaniglia: desiderio ... Dai grandi viali del parco, pieni d'ombre segrete e attraversati ogni tanto da un daino in fuga o da un cervo sbigottito, venivano gli equipaggi dei visitatori, granduchesse e future regine, marescialli e cortigiani ... Veniva anche il conte di Metternich (il linguaggio dei fiori era per lui, allora), alto biondo elegantissimo e languido, un amoroso di primo ordine. Tra le fronde serrate il sole faceva piovere le sue freccie d’oro sui costumi sgargianti dei guerrieri e sulle piume ondulanti delle dame, fino a che la dolce musica dei violini chiamava gli invitati nelle sale illuminate. I drammi silenziosi d'amore e di gelosia si svolgevano tra una danza e l’altra, tra un sorriso e un complimento, fino a che, spente le candele, il silenzio distendeva adagio adagio il suo mantello sui suoni e sui canti, soffocando tutto. Tutto, meno le frementi dichiarazioni d’amore, che il conte di Metternich faceva alla padrona di casa. Ora, nella casetta di Versailles, ella continuava a ricevere. Venivano da Parigi, nella diligenza barcollante che si chiamava gondole, qualche conte decaduto, qualche giornalista principiante, qualche scrittrice di terz’ordine; veniva, soprattutto, il giovane Balzac. Ella non poteva più accoglierlo col linguaggio dei fiori — sarebbe costato troppo! — per fargli sapere il colore dei suoi pensieri. Ricorreva a mezzi più economici. Ricordate come Balzac cominciò il ritratto della Femme de trente ans? «Chez elle la mise était en harmonie avec la pensée qui dominait sa personne». Ora si trattava soltanto di pettinatura, di scialli, di sciarpe, di atteggiamenti. I silenziosi drammi della gelosia e dell'amore si svolgevano senza musica, e il thè con biscotti era qualche volta servito a mezzanotte invece che alle undici, perché, mancando l'argenteria messa tutta in pegno la mattina stessa, bisognava andare da qualche vicina a farsi imprestare i cucchiaini. Eppure, il giovane Balzac, innamorato, entusiasta e povero, era sempre l’ultimo ad andarsene. Dalle finestre veniva l’umido odore autunnale dei boschi di Versailles, un odore che sapeva di cimitero, di acque vaste e immobili, di foglie secche cadute a marcire nei viali deserti, di fiori appassiti sullo stelo, pieni ancora di un’inebbriante e amara dolcezza. La dolcezza dell’autunno inoltrato. Oh, com’era dolce vivere quell’ora notturna, senza paura che i creditori venissero a bussare alla porta, a strepitare nell'entrata, come facevano di giorno! ...

 

***

 

  Sposare un militare nel 1800, a Parigi, poteva voler dire per una signorina fare un matrimonio da storie di fate. Ci si sposava senza un soldo di dote, e dopo qualche anno si portavano calze da centocinquanta lire il paio e mezzo milione di brillanti sopra il vestito di tulle. Ci si addormentava moglie di un generale e ci si svegliava duchessa, ambasciatrice, viceregina o governatrice di Parigi. Laura Permon, che a sedici anni sposava il giovane generale di brigata Junot, non sapeva quel giorno, il 30 ottobre del 1800, a quali fastigi sarebbe salita la sua fortuna. Né potevano immaginarlo i curiosi che facevano ala fuor della chiesa, per veder passare gli sposi. La sposa, di buona famiglia ma senza denari, era una brunetta magra, pallida, col naso un po’ lungo, ma con bellissimi occhi neri, vivaci sotto il velo bianco. Lo sposo, alto, biondo, slanciato, sembrava un sole nel suo costume ricamato d'oro, sovraccarico di cordoni, luccicante di decorazioni, sormontato da pennacchi. Venuto dalla «bassa forza», Junot era quel tal sergente che all’assedio di Tolone, guardando impassibile una palla da cannone cadutagli quasi addosso, mentre egli stava scrivendo, aveva detto, come se niente fosse: «Toh! Mi mancava appunto la polvere per asciugar lo scritto! ...». Questo episodio, diventato leggendario e attribuito poi a una quantità di «officiers de fortune», aveva attirato su di lui l'attenzione di Napoleone, che nominò Junot suo aiutante di campo. Junot fu il vero tipo del «sabreur» della Rivoluzione e dell’Impero: impulsivo, violento, brutale, coraggioso fino all’inverosimile, capace di attraversare l’inferno; eppur galante, donnaiolo, vanitoso e contento di tutto il luccichio che aveva addosso. La sposa sedicenne lo seguì in quella scia di stelle. Le mogli di quei guerrieri non avevano che da aggrapparsi ben forte a un fiocco o a un lembo del «dolman» del proprio marito per salire come dentro un incanto. Napoleone saliva, e con lui salivano i suoi fidi, e coi suoi fidi le loro legittime spose. Sempre più su, fino all’apoteosi grandiosa: l’Impero! ... Per Laura Junot, l’Impero voleva dire essere duchessa a ventidue anni, avere un palazzo a Parigi per dimora abituale, un castello a Raincy per villeggiatura, equipaggi a dozzine e diamanti a manciate. La sera, alle dieci, la toeletta di madama la duchessa era una cerimonia imponente, che si svolgeva davanti alla «psiche», il grande specchio ovale e mobile, tra Federico, il «coiffeur» di moda, la signora Albert, cameriera in capo autorevolissima, e tre cameriere in sottordine, che porgevano gli oggetti e tenevano alti i candelieri. Soltanto quando la duchessa, vestita, profumata, munita di un fazzolettino di pizzo che costituiva da solo un valore inaudito, rutilante di diamanti da capo a piedi, coperta da una palatina di cigno, si era assoggettata a un’ultima severa ispezione, la signora Albert proclamava solenne: «La signora duchessa può andare!». Andare a Corte, prodigare il suo spirito mordente e gaio, che teneva testa a Napoleone, fare sfoggio di brio, gareggiare di vivacità con Ortensia, di grazia con Paolina, sorridere apertamente a Giuseppina, la quale non può sorridere che a bocca chiusa perché ha tutti i denti guasti ... Laura Junot, duchessa d’Abrantès aveva invece dei denti meravigliosi: anche i suoi occhi brillavano incomparabilmente. Nonostante il naso lungo e la pelle scura, si era fatta bella flessuosa e morbida: la sua bellezza si poteva dire bruna e rosa, brillante e provocatrice, tutta ricci neri, lampeggiar di sorrisi, movenze eleganti, guizzi inaspettati, luci spiritose.

  Duchessa, ambasciatrice, governatrice di Parigi, devota e ribelle all’Imperatore, debole e volontaria, ingiusta e capricciosa nei suoi giudizi e nelle sue predilezioni, ella si rivelava sempre creatura d’istinto e di fascino. L’amore scherzava tra i suoi capelli ingioiellati, correva dietro al suo strascico sterminato. L’amore era il pensiero dominante. Junot l’ingannava e la tradiva, quantunque fosse geloso come Otello ... Ella se ne consolava. Junot la voleva uccidere dopo un certo ballo, e di questo ella poi si consolò descrivendo in un diario intimo destinato a Balzac la scena veramente balzachiana. Il Duca, certo dava più che mai segni di squilibrio. Napoleone, che pure si sapeva amato da lui fino al fanatismo, l’aveva giudicato già da tempo «butor, bravache, coureur de filles» e non lo creò mai Maresciallo. Eppure, questo rozzo eroe non presentiva forse, sia pure oscuramente, il tramonto della stella napoleonica? Durante mesi interi delirò e pianse per aver perduto l'affetto e la stima del suo imperatore (dopo la campagna di Russia), e un anno prima della caduta di Napoleone precipitò in un accesso di demenza.

  Rosso all’orizzonte, nuvole nere sul capo. La duchessa si risvegliava come da un sogno, a ventinove anni, vedova, con un milione e mezzo di debiti e quattro figli da allevare. Perché, sì, c'erano quattro figli. E i palazzi, i castelli, gli equipaggi, i diamanti, le trine? Nulla. Rimanevano le briciole, poche. Bisognava piegarsi ai Borboni, chiedere sussidi. Non bastavano mai. Non le rimaneva mai nulla in tasca, per quanti milioni vi passassero: generosa, spensierata, sciupona, rassegnata a lasciarsi derubare dalla servitù, pronta a regalare al primo venuto qualunque cosa ammirasse nella sua casa, era destinata a toccare l’estremo della miseria dopo aver toccato l’estremo dell’opulenza.

  Tuttavia, quando Balzac la conobbe, a Versailles, se già i creditori le abbaiavano alle calcagna come una muta di cani feroci, aveva ancora tanta spensieratezza, illusioni sull'avvenire, luminosità di sguardo e di sorriso, da abbagliare il giovane scrittore, innamorato perso, con la fantasia, di gran dame e di donne interessanti e vissute». Questa era una duchessa di quell’Impero le cui meraviglie lo esaltavano fino alla passione. Una duchessa dal linguaggio colorito e pieno di «verve», con una ricchezza senza fondo di aneddoti e di episodi, capace di schizzare alla brava, con uno spirito pronto, ameno e caustico, dozzine di ritratti dalla crudezza piena di sapore; senza arrivare, s’intende, al ritratto morale, ma rivelando ad ogni modo un dono geniale di osservazione. Ella faceva rivivere davanti a lui il mondo scintillante ed eroico, trionfante e perduto dell’Imperatore ... Balzac piangeva dall’emozione. La duchessa prese fuoco anche lei. Con entusiasmo giovanile, con gelosia, con tenerezza, con malinconia soave ella amò ... Senza saperlo, posava per Balzac, che la ritrasse nella «Femme de trente ans», in «Béatrix», nella «Femme abandonnée», in un’infinità d'altri scritti. Intanto, la casa della duchessa — la baracca, si poteva dire — andava innanzi alla peggio, i figlioli si sistemavano come potevano: la figliuola maggiore, Giuseppina, la figlioccia di Napoleone e dell’imperatrice, si fece monaca, forse perché la sorella minore, rimasta sola, trovasse più facilmente marito ... Lo trovò, infatti, ma modesto modesto. Dei due maschi, il minore si diede alla vita militare e perì poi, eroicamente, nel ‘59, a Solferino, nella guerra d’Italia; il maggiore fu uno dei tipi più assurdi, più scapigliati e più spiritosi della Bohême dorata, e Balzac se ne servì per il suo La Palférine nella novella «Un prince de la Bohême». Naturalmente, Balzac, dopo essersi servito della duchessa per tanti modelli, sbollì completamente come innamorato, ma restò amico della povera donna e le consigliò di scrivere le sue memorie. Già da un po’ di tempo, tornata a stabilirsi a Parigi, ella si era messa a scrivere, ma i suoi romanzi nessuno li comprava. Le memorie ebbero invece un successo enorme e le diedero fior di quattrini. Non che avessero grandi meriti di profondità e di stile (siamo lungi dalla serietà e dalla finezza di una madame de Rémusat), ma così com’erano, scritte un po’ «au petit bonheur», senza ordine e senza metodo, erano divertenti e piacevoli come le conversazioni ch’ella teneva nell’angolo del suo salone, piene di brio, di malizia e di particolari coloriti. Ma neanche quel provento riuscì a salvarla: ella scrisse allora «Les salons de Paris», che furono meno fortunati ...

  Adagio adagio, ella scendeva nell’abisso della miseria. Scriveva giorno e notte, scriveva anche in letto, quand’era malata, e ad ogni momento mandava all’editore suppliche disperate per aver qualche franco. «Eccovi il manoscritto. Domattina alle cinque manderò il resto. Ma per le sei ho assoluto bisogno di un po’ di denaro. Come potrò averlo? Ditemelo. Mandando a casa vostra alle sei, ci sarete? ... Vorrei saperlo. Ma in qualunque modo, vi supplico, datemi questo po’ di denaro!». Ad ogni momento questi gridi di naufraga, questi rantoli d’agonia. «Vi ripeto che manco del necessario. Sono esposta agli insulti, e quel che è peggio perdo la testa e, non posso più lavorare ...».

  Balzac l’aveva abbandonata: aveva tanti fastidi di denaro anche lui, pieno di debiti fino ai capelli! E poi, si era innamorato della signora Hauska (sic), la sua futura moglie. Abbandonata da tutti, sfinita di fatica, non potendo più prender sonno che con l’oppio, malata, la poveretta lasciò finalmente cader la penna dalla mano. Non ne poteva più: si sentiva prossima a morire. I creditori accorsero come un branco di corvi e le portarono via tutto, lasciandole soltanto il letto, dove ella stava, febbricitante. Un’antica serva capitò in quel punto, la fece alzare, l’accompagnò fino a una casa di salute. Ma non aveva denaro per pagare l’anticipo, e le chiusero la porta in faccia. Un’altra casa di salute molto più modesta l’accolse, in una stanzuccia umida e buia, che sembrava piangere con lei la miseria e l’abbandono. I suoi figli accorsero, qualche vecchio amico venne, ella non parlò, sorrise a tutti sentendo di toccare finalmente la riva dell’oblìo, quel giorno stesso, il 7 giugno 1838, a cinquantaquattro anni. La regina Maria Amelia pagò di sua borsa una bellissima bara; la signora Récamier s’inginocchiò in bella posa accanto al letto dell’illustre morta; Chateaubriand, Dumas, Victor Hugo seguirono il convoglio funebre della scrittrice morta di fatica e di miseria. E una quantità di altre celebrità, che non le avrebbero prestato uno scudo, spesero una bella somma in fiori e nastri esposti all'ammirazione del pubblico. E fu tutto.

 

***

 

  Che resta ora di tanto splendore e di tanto dramma, si chiede Henry Malo nel suo recentissimo ritratto «La duchesse d’Abrantès au temps des amours» - éditions Emile Paul Paris)? Che resta delle luci riflesse sui diamanti, delle passioni soffocate sotto le onde di pizzi, dei sorrisi incantatori della fortuna infedele? Nulla, se non i nostri sogni, le nostre fantasie. E’ dolce fantasticare sui segreti di queste donne di cent’anni fa ... In quest’ultimo ritratto, assai modernamente lavorato, Laura d’Abrantès sembra dirci, col suo sguardo intelligente e la sua bocca amorosa: — Sono stata un’appassionata e un’entusiasta. Vivendo in tempi in cui si giocava vicino a me il destino delle Nazioni, ho aspirato la vita da tutti i pori, mi son gettata nella tempesta delle passioni, e nello stesso tempo ho osservato intorno con acutezza e intensità le grandezze e le debolezze altrui. Sono stata frivola e coraggiosa, ho goduto gioie intense, sopportato fatiche inenarrabili. E ho sentito la bellezza dei contrasti della vita, anche quando ne uscivo ferita a morte ...

 

 

  Carola Prosperi, Colui che vinse il tempo, «La Stampa», Torino, Anno 61, Num. 301, 18 Dicembre 1927, p. 3.

 

  [Su Marcel Proust].

 

  E Balzac mi rivelò che i saloni sono come un’arena sanguinosa di circo dove le passioni al par di bestie feroci sbranano e soffocano.



  Alberto Romano, Un amore di Balzac, «Il Popolo di Roma», Roma, Anno IV, 20 ottobre 1927, p. 3. [Cfr. Scritti letterari, Napoli, Alfredo Guida Editore, s. d. (1931?), pp. 81-85].

 

  Il crollo dell’Impero (1814) portò la miseria alla duchessa d’Ambrantès (sic), vedova di Junot.

Il marito, morendo l’anno prima, le aveva lasciato un retaggio di gloria, ma anche qualche milione di debiti, ch’ella s’impuntò a pagare fino all’ultimo. Visse allora per un po’ di tempo col danaro d’un amante, poi Luigi XVIII l’elargì una pensione.

  Dotata di molto spirito, discreta cultura, e quel che più conta avendo in serbo un materiale enorme sui fasti e nefasti imperiali, provò se per caso ne potesse trarre conforto alla sua rovina. D’altronde gli esempi pullulavano; la rivoluzione, prima, il ritorno dei Borboni dopo, avevano spostato due volte le fortune delle classi alte; i saloni erano lì a dar braccio forte, tanto che una sera per un numero unico di beneficenza s’ebbero in qualche ora trentaquattro firme di dame letterate, con a capo la Desbordes-Valmore.

  Sofia Gay, che su questa strada aveva fatto molto cammino, le aprì i suoi saloni. Balzac, già v’era, ancora male in arnese; ambizioso e prepotente, si faceva largo a colpi di spalla, ma anelava al gran mondo.

  Chi ha letto Père Goriot sa da Eugenio Rastignac questa sete d’arrivare, di donne belle, d’amicizie aristocratiche. Una duchessa agli occhi di Balzac era sempre qualche cosa, senza dire che Madama de Berny, sua amante, toccava già la cinquantina.

  E poi la d’Abrantès aveva conosciuto Napoleone, il sogno della sua vita: «L’ha visto fanciullo, giovanotto ancora sconosciuto, l’ha visto occupato delle cose ordinarie della vita, e poi gigante coprire il mondo del suo nome. Ella è per me come un beato che venisse a sedersi al mio fianco, dopo essere vissuto in cielo accanto a Dio». Col cuore libero, con la sete di guadagno che la divorava, ella dapprima accettò e si valse di quest’ammirazione solo per un’amicizia letteraria. Ma si progredì subito nei rapporti, perché non impunemente s’ha un cuor d’oro e amore per ogni cosa bella.

  Tutto sarebbe perito dell’attività letteraria della duchessa se alle Memorie, fonte inesauribile e indispensabile per chi voglia compiutamente ricostruire la storia del Grande Impero, non avesse posto mano pure Balzac. Anzi il successo fu così enorme che il collaboratore pretese la sua parte di celebrità. Ma ella rispose picche: «Vi siete indispettito ch’io abbia negato di avervi avuto a collaboratore. Che volevate che facessi? E perché togliermi quel poco di merito che può venirmi da queste Memorie?». Ma fu una increspatura di breve durata; tutte le lettere di questo periodo finiscono con «mille dolcezze e tenerezze».

  Venne sì il raffreddamento qualche anno dopo, non il distacco. Perché Balzac nella sua avventurosa esistenza trovò questo di buono: che nessuna delle amanti abbandonate mutava la passione in livore, ma tutte gli conservavano un’amicizia sincera che durava fino alla morte. Esse amarono in  lui non solo il genio immenso che egli era, ma anche l’uomo di cuore infinito. E poi Balzac sapeva scegliersi i suoi amori.

  Così questa volta, spentasi la passione, per gradi s’arrivò e si rimase ad un calmo affetto. Ma tre anni d’intimità con siffatta donna non potevano essere passati invano. Ella gli lasciò nell’anima un solco che a ritorno egli dovette ripercorrere più volte quando negli anni seguenti andò alla ricerca di motivi, di luci che solo il profumo e il ricordo di Laura dAbrantès gli potettero dare. Infatti Madama de Berny che lo conosceva a fondo così gli scriveva: «Le tue opinioni hanno incominciato ad avere altra forza dopo le lunghe e interminabili conversazioni con la duchessa».

  La relazione incominciò ad allentarsi quando Balzac, appartatosi un poco per lavorare di lena, volle pagare i suoi 120.000 franchi di debiti. E’ nota la sua tenacia al lavoro di questi periodi: un romanzo in un mese con diciassette ore al giorno a tavolino, senza una sosta. Alle rimostranze di Laura egli rispondeva con celie, e frasi di entusiasmo sull’opera che preparava; divino fanciullo che sapeva sorridere alle gioie ma pure agli affanni. Ma un’altra ragione s’ aggiunse: la stabile fama ormai gli procurava ferventi ammiratrici, lo faceva finalmente dominatore nel gran mondo. Senza smanie, senza acredine, quand’ella si accorse che i suoi dieci lustri non le davano il diritto d’isolare il giovane da altri amori, da altre esperienze, e che quand’anche avesse potuto superare tutte le rivali, contro una sola si

sarebbe spuntata ogni arma, quella che non è possibile mettere in lacci — l’Arte — si rassegnò. «Io sarò per voi una vera sorella. Quando l'amore non dura che un giorno, la fedeltà in amicizia è di rigore. La vecchia amicizia e i giovani amori, ecco la vita!».

  Tenne fede alla promessa; solo nei rari momenti di malumore usciva a dire: «E’ un cuore perfetto, ma vanitoso».

  Egli dovette sempre conservarle l’affetto e esternarlo più volte se anni dopo alla contessa Hanska, che poi fu sua moglie, ingelosita, rispondeva in uno scatto: «Il mio amore divino sei tu, stupida!» La duchessa continuò a scrivere molto; dal 1830 al ‘38 pubblicò cinquantasette volumi, senza contare la collaborazione ai giornali, musicò delle canzoni, s’associò i figli nelle fatiche letterarie, tutto tentò per far danaro; morta poi, lascerà un cumulo di manoscritti. I diciotto volumi di Memorie uscirono in quattro anni, e furon quelli che veramente le costarono lavoro volendo passo passo documentarli fino alla pedanteria.

  Ora si faceva aiutare da Dumas e in cambio gli forniva materiale per romanzi storici. Ma lo affetto fu semplicemente materno, nè poteva essere altrimenti, ora che i mali fisici le divoravano il corpo.

  Il tramonto fu triste, come non lo meritava chi aveva tanto amato e sofferto. Ella incominciò a importunare gli amici con continue richieste di danaro, onde si fece vuoto d’intorno; a Jules Lecomte, atroce libellista e insigne malalingua, non parve vero lanciarle uno strale: «Il giorno in cui ella riceve molta gente è quando invita i suoi creditori».

  Tutta la corrispondenza di questo periodo verte su affannose richieste di prestito, quasi sempre respinte. Allora le uscì il grido: «Un amico, dove trovarlo?»

  Il mondo è ingeneroso coi vinti, ma dopo canta per essi gli epicedi più belli. La piansero tutti, anche quelli che l’avevano avversata in vita.

  Balzac così la commemorò: «E’ finita come finì l’Impero. Un giorno io v’illustrerò questa donna». E vennero Père Goriot, La Maison Nucingen: asfodeli degli amori morti.

 

 

  F. S., Banchiere e letterato. Vincenzo Selvaggi, «La Basilicata nel mondo», Anno IV, N. 1, Gennaio-Febbraio 1927, pp. 59-60.

 

  p. 60. Si tratta di un dramma a vasta tela, di intendimenti sociali: “L’Unno” o “L’amico di suo marito” e di una commedia “Spokane” la quale ultima ha mo­venze di arte e spirito di indagine psico-sociale, che fanno pensare a certe colossali figure di Balzac. […].

  Spokane” è una commedia, che può balzachianamente chiamarsi umana.

 

 

  Alfredo Sandulli, I Delitti nell’arte (Ingiuria, Diffamazione e Oltraggio al Pudore), Napoli, Alberto Morano – Editore, 1927.

 

  pp. 33-34. Onorato Balzac, che, per i numerosi personaggi dei suoi romanzi, aveva bisogno di indicarli con un nome, con grande disinvoltura, si avvalse realmente di cognomi realmente appartenenti a contemporanei. La «Revue Blue» (sic) notò la rassegnazione con la quale molti consentirono — senza dolersene — anche quando erano attribuiti a personaggi, presentati sotto l’aspetto meno lusinghiero. Il nome Rastignac corrispondeva ad una famiglia del tempo. Nel 1750 un componente la famiglia Chapt-Rastignac, fu assassinato a Issoudun nelle più tragiche circostanze e nel secolo successivo se ne parlava ancora ed un amico del Balzac — Peremé — ne dava notizia in un volume di ricerche storiche ed archeologiche sulla città di Issoudun. Balzac introdusse il nome nel suo romanzo «Peau de chagrin». Nè si dolsero i discendenti della famiglia Hulot, cui appartennero parecchi generali, quando il Balzac fece comparire il nome nei suoi romanzi «Les Chouans» e «La cousine Bette». Parimenti autentico era il cognome De Rubempré appartenente, fra l’altro, ad una mondana — Alberte De Rubempré — nota anche a traverso l’opera dello Sthendal (sic). Ed il cognome del generale di brigata sotto l’Impero e deputato liberale ai tempi di Luigi Filippo — De Marsay — fu dal Balzac lievemente modificato nel barone Demarsay.

  Più caratteristica è l’attribuzione ad un personaggio antipatico del cognome di Rogron, appartenente ad un fornaio di Provins, il cui nipote considerava come un vanto della famiglia l’uso che Balzac aveva fatto del cognome. Anzi, assicurava di possedere una lettera, con la quale il Balzac avrebbe chiesto al fornaio di servirsi del nome.

 

 

  Dionigi Scano, Una fallita intrapresa di Onorato Balzac in Sardegna, «Mediterranea. Rivista mensile di cultura e di problemi isolani», Cagliari, Editrice – Società editoriale italiana, Anno I, N. 1, 1 Gennaio 1927, pp. 17-20.

 

  In Onorato Balzac, o de Balzac, come amava esser chiamato, due aspirazioni soverchiavano ogni altro sentimento: gloria e amore: Laure, Laure, mes deux seuls et immenses désirs, être célèbre et être aimé, seront-ils jamais satisfaits? così scriveva ancor giovanissimo alla sua diletta sorella. Più tardi, quando i godimenti della vita lussuosa parigina diventarono per lui una necessità, alle aspirazioni sentimentali sostituì quelle più positive della ricchezza, come fonte di benessere e di godimenti.

  Conquistò la celebrità al di là dei desideri giovanili, malgrado le ostilità degli accademici che gli preferirono un mediocre Monsieur de Noailles, ma, a conseguir quelle ricchezze, per cui volse più volte la sua mente ad intraprese esorbitanti dalla consueta sua attività, non gli valsero nè il grande ingegno nè l’intuito speculativo che, in altro ambiente e con ben differenti mezzi di quelli a sua disposizione, avrebbero fatto del grande romanziere un ardito industriale. E fu una fortuna per l’arte che il formidabile analizzatore della vita parigina non abbia potuto — malgrado i non disprezzabili guadagni dovuti ai suoi scritti — aver i mezzi per soddisfare le passioni che nel suo animo ruggivano come belve, giacché un Balzac, non oppresso dai debiti, senza lo spauracchio della prigione e del fallimento e senza le incertezze del domani, non ci avrebbe dato le complesse e potenti figure di Rastignac, di Nucingen, di Brideau e di Birotteau e alla storia del romanzo sarebbero mancati i Parents pauvres e il Père Goriot.

  Egli fu un industriale mancato, ma bisogna riconoscere che le sue iniziative ebbero un substrato di serietà e di praticità. Quando lanciò la grande impresa editorale-tipografica, dalla quale, senza l’amorevole intervento di Madame de Berny, sarebbe uscito inesorabilmente compromesso, vi si accinse preparato tecnicamente, colla mente fredda del calcolatore e non con l’animo del sognatore. Le angoscie del tipografo David Séchard in Illusions perdues sono le sue e i tentativi per portare ad un robusto organismo industriale la piccola azienda editoriale dai primitivi torchi in legno, riflettono le peripezie di Balzac editore e sono esposti con così profonda conoscenza della tecnica impressiva da lasciar stupiti i più esperti tipografi.

  Egli soccombette perché gli mancò quel minimo di aiuto, di tranquillità e di mezzi occorrente in siffatte intraprese. E perché non ebbe mai questo minimo svanì per lui l’aureo sogno delle colate metalliche ottenute dalle scorie della miniera dell’Argentiera in Sardegna.

 

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  Nella primavera del 1837, a Genova, il negoziante Giuseppe Pezzi parlò al Balzac d’una speculazione in grande stile che poteva esser tentata in Sardegna colla lavorazione delle scorie argentifere che, ritenute non usufruibili dagli antichi metallurgici, formavano grandi depositi presso le miniere sarde.

  Ignoransi i rapporti che, in merito a questa intrapresa, intercedettero fra il Pezzi e il Balzac e le postume affermazioni di questi circa la subdola condotta del suo amico devono esser accolte con non poche riserve. Certo è che il fantasioso romanziere s’accese d’entusiasmo e in questo affare intravvide l’occasione di prender pel ciuffo la fortuna e di conseguire quella ricchezza che dovea dargli agi e tranquillità, ponendo termine ad una vita di ripieghi e d’umiliazione.

  Convinto della bontà dell’affare, il Balzac dedicò tutto sè stesso all’attuazione del grandioso progetto. Gli elementi tecnici che lo inducevano ad aver fiducia nella valorizzazione delle scorie, sono esposti — dopo il suo viaggio in Sardegna — in una dolente lettera a Madame Hanska, la gentile amica che lo sorresse col suo affetto e coi suoi consigli nella sua tormentata esistenza e che il Balzac sposò nel 1850, poche settimane prima che il suo gran cuore cessasse di battere: Les Romains et le métallurgistes due (sic) moyen âge étaient si ignorants en docimasie, que nécessairement ces scories devaient et doivent encore contenir une grande quantité d’argent. Or un grand chimiste de mes amis possède un secret pour rétirer l’or et l’argent, de quelque manière et en quelque proportion qu’il soit mêle (sic) à d’autres matières, sans grand frais. Ainsi je pourrais avoir tout l’argent des scories.

  Il grande chimico al di cui apprezzamento il Balzac sottopose il suo progetto era M. Carraud, direttore della Scuola Militare di Saint-Cyr. Competente in chimica docimastica, uomo positivo ed alieno dai facili entusiasmi e, per di più, legato alla famiglia Balzac da affettuosa amicizia, il suo favorevole giudizio ebbe un peso decisivo.

  Il negoziante genovese non si faceva più vivo, e questo silenzio, che il grande romanziere dichiarò inesplicabile, indusse questi a troncar ogni indugio e ad attuare quella ch’egli, con frase un po’ esagerata, definisce l’expédition en Sardaigne riducentesi in definitiva ad una sua gita nell’isola con un bagaglio di buoni propositi e di grandi speranze ma con scarsi mezzi e senza adeguata preparazione.

  Sul punto di salpare per l’isola lontana il suo animo è turbato da dubbi e da scoraggiacimenti: Dans quelques jours, j’aurai pour mon malheur une illusione de moins, scrive alla sua affezionata amica Zulma Carrand (sic); e a Madame Hansk[a]: Pendant le peu de jours que je suis reste (sic) à Paris j’ai eu mille difficultés à vaincre pour pouvoir faire mon voyage; l’argent est très-rare pour moi. Quand vous saurez que cette entreprise est un coup désespéré pour en finir avec ce perpétuel débat entre la fortune et moi, vous ne vous en étonnez pas; je ne risque qu’un mois de mon temps et cinq cents francs contre une belle et grande fortune.

  Mancando comunicazioni dirette fra la Francia e la Sardegna, prima meta del viaggio di Balzac fu Aiaccio, dove sbarcò il 25 Marzo 1838 dopo una penosa attraversata. In attesa di un qualsiasi naviglio che lo portasse ad Alghero, la città più vicina all’Argentiera, solo e sconosciuto in un paese che non offriva alcun’attrattiva, il suo soggiorno in Corsica fu tutt’altro che lieto: Ayaccio est un sèyour (sic) insupportable; je n’y connais personne, et il n’y a d’ailleurs personne; la civilization (sic) est là aussi primitive qu au Gròèland (sic)... Per combatter la noia si dà a ricerche su Napoleone, visita la casa dove nacque l’imperatore e rettifica alcuni errori correnti sulla sulla sua vita: scopre che il padre del grande corso era un agiato proprietario e non un usciere, e che, al suo ritorno dall’Egitto, il vittorioso generale venne ricevuto, non cogli onori del trionfo, come scrissero i suoi biografi, ma con aperta ostilità; che sulla sua testa venne messa una taglia e che dovette la salvezza alla devozione di un paesano che lo nascose in gole montane quasi inaccessibili.

 

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  La ricerca di una barca che si portasse ad Alghero fu tutt’altro che facile e solo al 2 aprile Balzac potè salpare da Aiaccio.

  Coll’arrivo all’antica cittadina catalana hanno inizio le contrarietà e i disagi che funestarono il viaggio di Balzac nella nostra isola: gli fu impedito lo sbarco per misure sanitarie, essendo stata prescritta una quarantena di cinque giorni per le provenienze dalla Francia.

  In questa sosta forzala dentro una leggiera barca corallifera sballotata dalle onde, il raffinato parigino conobbe le privazioni dei marinai, dormendo sul duro legno e cibandosi di solo pesce: nous sommes condannés à rester, encore cinq jours en quarantaine sur cette petite embarcation en vue du port; et ces sauvages ne veulent rien nous donner.

  Contrariato dalla rigida sorveglianza e particolarmente dalle sofferenze del mal di mare, in un giorno di forte vento richiese di ormeggiare il battello ad un anello della banchina, e ottenutane risposta contraria, comme nous sommes Français, indusse un marinaio a buttarsi in mare e a legare a viva forza il canapo.

  All’impeto francese rispose degnamente la pacata ma rigida condotta del governatore d’Alghero, Don Andrea Cugia, Maggiore Generale nella Regia Armata, salda tempra di soldato che, poco preoccupandosi della grande nation e meno del rinomato romanziere, fece rimovere la fune e non permise l’ormeggio se non dopo ultimato il periodo della consegna che fu per Balzac une pure fantaisie de gouverneur qui vent (sic) que l’on fasse ce qu’il a dit comme preuve de son autorité e (sic) de sa toute-puissance.

  Al (sic) Alghero si trattiene poche ore per riposarsi e senza indugio si porta alla miniera abbandonata dell’Argentiera, dove esamina le discariche e raccoglie diversi campioni.

  Dall’Argentiera, percorrendo a cavallo, attraverso monti e foreste, una quarantina di chilometri senza riposo e a completo digiuno, si porta a Sassari e da questa città, ch’egli indica come deuxienne (sic) capitale de l'ile (sic), a Cagliari, attraversando in diligenza tutta la Sardegna.

  A Cagliari l’attendono notizie disastrose. Mentre egli discuteva a Saint-Cyr col Prof. Carraud sul piano tecnico-finanziario, il previdente Pezzi aveva ottenuto dal governo piemontese il dritto di esplorazione, d’accordo con una Ditta di Marsiglia, la quale aveva inviato in Sardegna tecnici esperti che vennero agli stessi risultati che ottenne il Carraud dall’analisi dei campioni fornitigli dal Balzac e, cioè, che le scorie coi sistemi ordinari di lavorazione poteano dare il dieci per cento di piombo e questo il dieci per cento d’argento. Ainsi mes conjettures (sic) étaient fondées, scriveva da Cagliari, a Madame Hanska: magra consolazione per chi si riprometteva dal buon esito dell’affare la tranquillità più assoluta.

  L’expédition durò una cinquantina di giorni, durante i quali il Balzac sopportò le più dure sofferenze e privazioni. Ai primi di Maggio lo sappiamo a Milano ospite della famiglia Visconti.

  Da Cagliari — facendo buon viso a cattivo gioco — tranquillizza i suoi cari: alla sorella scrive che tutto non è perduto e che si propone di ritornare nell’isola col di lei marito, con lei stessa e con un ingegnere minerario, et comme il n’y a pas de Gènois (sic) dans l’affaire, nous pourrons attendre que nous soyons tranquilles (sic); e alla sua fedele amica ricorda quanto scrisse da Aiaccio: J'ai formé deux ou trois plans de fortune; voici le premier; s’il échoue, j’irai au second; puis, après, je reprendrai la plume que je ri (sic) aurais cependant quittée.

  Per fortuna sua e nostra il Balzac non tentò neppure d’attuare il secondo progetto che la sua fantasiosa mente aveva escogitato, e, riprendendo la penna, arricchì il romanzo francese di una trentina di opere fra le quali vi sono veri capolavori, come Un grand homme de Province à Paris e La Cousine Bette.

 

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  Dai frequenti viaggi in Italia il Balzac ritrasse impressioni che lasciarono larga impronta nella sua complessa opera letteraria. Non un cenno nei suoi romanzi mi fu possibile riscontrare sulla Sardegna, salvo la tradizionale panzana dell’opposizione degli abitanti di Bonorva alla costruzione della strada attraversante il paese per tema di un rincaro d’uova; panzana che risale all’epoca della costruzione della prima strada rotabile Cagliari-Sassari e che venne attribuita agli abitanti di diversi paesi.

  Se non ricordò la Sardegna nelle sue opere, ne scrisse estesamente ai suoi cari e sempre con tinte esageratamente ingiuriose: Ie (sic) viens de faire toute la Sardaigne et j’ai vu des choses comme en raconte des Hurons e (sic) de la Polynesie, e cioè: foreste vergini ed immense, estensioni di terreni incolti e disabitati: uomini e donne nudi con qualche lembo di stoffa ai fianchi, ammassati ai muri delle loro tane: case mancanti di camini nelle quali si accende il fuoco anche in camere tappezzate di sete; le donne intente unicamente a macinare ed impastare un orribile pane di ghiande e d’argilla. E tutto ciò – conclude il Balzac — nel paese più fertile del mondo e a pochi passi della bella Italia.

  Molto si deve perdonare al Balzac per queste ingiuriose fandonie, giacché grande fu il suo disinganno e dure furono le sue peripezie in Sardegna.

  Sui guadagni di quest’affare egli avea fatto assegnamento per pagare le numerose cambiali e continuare la sua vita elegante e spendereccia. Non ci meraviglia quindi se dalla sua gita in Sardegna non abbia avuto che acri impressioni, ma d’altra parte non è scusabile che abbia raccolto — sia pure per esprimerle in lettere confidenziali — le volgarità più stupide che siensi dette sulla nostra isola, volgarità che, se le avesse conosciute, avrebbero amareggiato il buon marchese Boyl che aveva ospitato nella sua casa di Torino il Balzac nel 1836, parlandogli a lungo della sua isola e inducendolo a visitarla, sicuro che ce serait un grand avantage pour la Sardaigne, si un homme d’un talente (sic) voulait la faire connaître au monde comme une île très intéressante et digne d’un meilleur sort. (Lettera al Cav. Pasquale Tola).

 

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  Il piano di sfruttamento delle scorie delle, miniere di Sardegna, prospettato per primo dal genovese Pezzi e fatto suo dal Balzac che ne intravvide i benefici per quell’intuito affaristico che non gli si può disconoscere, malgrado il fallimento di tutte le sue iniziative, ebbe attuazione, venti anni dopo, non per intervento di abili e solidi finanzieri, ma per opera di un puro idealista che la gioventù spese fra le congiure e le prigioni per la causa del Risorgimento Italiano.

  Questi fu Enrico Serpieri, di cospicua famiglia di Rimini, compagno dell’Orsini e segretario della Costituente Romana nel 1849. Fu il Serpieri che compilò la nobilissima protesta contro l’intervento delle truppe francesi volto a soffocare la gloriosa e piccola repubblica romana. Per questa sua costante attività, che preoccupò sempre il governo pontificio, subì due anni di duro carcere e, dopo una miracolosa evasione, formò parte di, quella schiera nobilissima di romagnoli — il Comandini mi ricordò fra questi anche il Finali — i quali, respinti dalla Francia e dagli staterelli in cui era divisa l’Italia, rifugiaronsi nella nostra isola, dove il genio di Cavour seppe dar loro larga ospitalità senza suscitare le diffidenze dei potenti governanti francesi ed austriaci, e senza che le ostilità dei malfermi tirannelli italiani riuscissero ad impedirla.

  Enrico Serpieri non ebbe bisogno di continuare fra noi la tormentata esistenza di agitatore e d’apostolo d’italianità, giacché la Sardegna era troppo legata alle idealità dei nostri grandi perché di esse non facesse una religione. Comprese che nel periodo d’attesa la migliore offerta per la patria era il lavoro proficuo e perciò — d’ingegno acuto e mente aperta negli affari come nelle congiure — prese l’iniziativa di diverse intraprese che portarono ad un risveglio economico nella nostra isola e per le quali si conquistò l’affetto e la stima dei suoi nuovi concittadini che lo vollero alle più importanti cariche pubbliche.

  Seppe egli in Cagliari dell’infelice esito del progetto del Pezzi e del Balzac, o fu la Ditta di Marsiglia ad interessarlo allo sfruttamento delle scorie d’argento? La dispersione delle carte di quest’emerito patriota, dispersione oltremodo dolorosa in quanto, amico e compagno dei più grandi del nostro risorgimento, il suo carteggio dovea aver una rilevante importanza, non permette di esprimere una sicura affermazione. Certo è che lo troviamo, associato alla Ditta Bouquet di Marsiglia, alla direzione di quelle fondite che furono il sogno di Balzac. Questi, non bene informato, si rivolse alla miniera allora abbandonata dell’Argentiera, dove le scorie — se pur esistevano — non erano industrialmente lavorabili, mentre il Serpieri scelse per la sua fonderia il paese di Domusnovas nell’Iglesiente, dove il La Marmora — anche prima del viaggio di Balzac — avea constatati grandi ammassi di scorie provenienti da fonderie antiche pisane e romane. L’esperto geologo piemontese pur tuttavia non intravvide quello sfruttamento che si proposero il Balzac e il Pezzi e che venne attuato dal Serpieri.

  Col suo carattere che non ammetteva indugi, il cospiratore romagnolo, trasformatosi in industriale, acquista i terreni contenenti le scorie, e, in vicinanza dell’abitato, costruisce uno stabilimento per la fondita che diede tali favorevoli risultati da indurlo a deviare una costosa strada per poter dal tronco abbandonato rimuovere la massicciata formata di scorie di piombo-argentifero.

  Di quest’attività sono ancora traccie nel ricordo dei vecchi e dei discendenti e nei ruderi della fonderia, abbandonata dopo, l’esaurimento delle scorie.

  Le deduzioni, che, dall’imperfetta lavorazione della galena argentifera per parte degli antichi, fonditori, il Balzac trasse per lo sfruttamento delle scorie, ebbero per opera del Serpieri un’estensione non intravveduta dal grande romanziere. Depositi di scorie provenienti da antiche fonderie non eranvi solo in Sardegna ma anche in Grecia, dove si spinse la febbrile attività dell’esiliato romagnolo. La miniera del Laurium fu altro suo campo di sfruttamento ed in essa furono gettate le basi della fortuna di Casa Serpieri, la quale ancor oggi è degnamente in prima linea nel campo industriale e finanziario ellenico, nobile espressione della geniale ed intelligente attività italiana in terra straniera.

 

 

  Aldo Sorani, Il crogiòlo di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXII, N. 19, 8 Maggio 1927, p. 1.

 

  Il tentativo di sondare gli strati profondi della composizione letteraria e di sceverarne e di isolarne i diversi, opposti e lontani elementi che vi hanno affluito e vi si sono più o meno bene amalgamati, lo sforzo di ritrovare nell’unità dell’opera letteraria anche più gloriosamente nazionale gli apporti stranieri di cui essa è stata costituita o le reazioni che questi apporti hanno provocato nella visione della vita e nella biografia intellettuale di uno scrittore anche il più orgogliosamente personale e geniale, sono questi i cómpiti precipui della critica comparatista. Lo studio comparato delle varie letterature, condotto con uno zelo che non si allontani troppo dal retto discernimento, dal buon senso e dalla continuata attenzione alla relatività delle cose, ci ha dato frutti cospicui ed anche qualche singolare scoperta. Condotta, invece, con cieca e avventata ostinazione, senza il freno degli accorgimenti che le sono necessari, essa può arrivare, come è arrivata in certi casi, all’estrema scarnificazione e decomposizione di uno scrittore o di un’opera nei suoi componenti più svariati, in modo che anche lo scrittore più solido e l’opera più organica si riducano ad una esistenza evanescente o ad un illogico mosaico.

  Non è questo il caso che possa occorrere ad un Balzac. Per quanto si scavi, si suddivida e si elimini dalla sua opera titanica e nella sua vertiginosa personalità, ne resta sempre inalienabile una così potente ossatura, una tanto inconfondibile forza, una atmosfera di unicità così assoluta e incorruttibile, che l’artista vi rimane creatore originale e l'opera sua, alla confluenza di tutte lo più varie correnti dello spirito, spronata e suggerita dalle più dissimili e implacabili tenzoni di interessi, resiste congiunta saldamente alle radici del genio da cui è esplosa. Per Balzac, inoltre, la fortuna ha voluto che egli fosse preso a partito da comparatisti intelligenti e dottissimi, abili a tenersi a galla sul mare magno delle rassomiglianze e delle influenze copiosamente studiate, comparatisti come oggi Fernand Baldensperger il quale dedica alle Orientazioni straniere in Honoré de Balzac (Paris, Librairie ancienne H. Champion, 1927) un denso volume in cui le influenze che Balzac ha subito dalle letterature straniere e tutti gli elementi letterari esotici costitutivi della opera sua vengono studiati con una minuziosa erudizione che non va disgiunta mai dal senso della reale presenza di Balzac anche sotto le alluvioni o le infiltrazioni che parrebbe dovessero subissarlo e dissiparlo dai confini delle più lontane regioni della letteratura, della storia e della filosofia.

  Dalla lettura del volume del Bandensperger (sic), ormai indispensabile a quanti vorranno occuparsi di un tema così suggestivo e così ricco in illuminazioni intorno alla vita e all’opera dell’autore della Commedia umana, si esce con l’immagine di un Balzac scrittore eminentemente francese, eppure proteso verso tutte le culture e le letterature straniere del suo tempo e d’ogni tempo, pronto sempre ad imbeversi gagliardamente di tutti quegli effluvi intellettuali che possono confarsi al suo temperamento e allo esigenze dei programmi di lavoro e di fortuna che egli si propone senza tregua, invogliato sempre ad inebriarsi dell’idea di una gara coi grandi stranieri con cui gli conviene di misurarsi per riuscire a vincerli e superarli o almeno ad eguagliarli, e a trar profitto di tutto quello che può convenire ai suoi disegni particolari.

 

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  Si può dire che duo siano i moventi principali che spingono Balzac a una sempre acuita attenzione a ciò che viene in Francia d’oltre le frontiere non vietate, anzi aperte dalla moda letteraria o politica. Il primo è il bisogno, che Balzac ha sempre sentito vivissimo, di seguire e di favorire il pubblico nei suoi istinti e nelle sue correnti anche più popolari per trarne i vantaggi desiderati dalla sua sete di gloria e di guadagni pecuniari, senza troppo delicate sofisticazioni sul carattere reale di certi successi popolari e sul valore intrinseco di certi scrittori favoriti dal grosso pubblico. Se la moda impone i romanzi storici di Walter Scott o i «romanzi neri» di Anna Radcliffe, Balzac è pronto a gettarsi nella scia tracciata dalla moda e a spadroneggiare nel genere letterario che in quel dato momento ha successo e decreta le grandi tirature. Se la moda impone invece, poniamo, le memorie storico o pseudo-storiche, ecco Balzac precipitarsi su i più impreveduti memorialisti e andar perfino a farsi dettare i diari rivoluzionari del triste esecutore delle opere di giustizia dell’89. Ma l'altro movente che spinge l’insonne Balzac all’eterna ricerca dei grandi modelli soprattutto stranieri da imitare è il suo orgoglio la sua volontà creatrice, esasperata come sappiamo sino alle iperboli napoleoniche. L’artista possente che si propone di rifare colla penna quello che il Bonaparte ha fatto colla spada, che vuole ricreare il genere umano, descrivere una nuova storia naturale degli uomini, una «commedia umana» come Dante ha scritto quella divina, che non si sgomenta del progetto di far uscir vivi dalla sua intelligenza, con una inaudita forza di procreazione, una folla di quattromila personaggi, questo artista, di fronte alla gloria e alla popolarità d’un Byron e d’un Goethe, sente che gli compete strettamente di imitarli dove è possibile, di emularli sino a che glielo consentano le sue forze rigogliose. I grandi stranieri sono gli ostacoli che egli si propone di saltare per conquistare tutta la sua agilità e la sua prontezza e andare, così preparato ed armato, alla conquista del mondo.

  D’altra parte, Balzac ha, con questo, una sensibilità così sveglia e così nervosa di tutto quel che di nuovo si produce nel suo tempo, nel campo della cultura come in quello degli affari, nel campo della politica come in quello della speculazione scientifica e filosofica, che non arretra mai nel far suo pro di tutto quanto può convenirgli, anche se sia costretto a cogliere e ad afferrare dagli stranieri. Nulla di quello che è umano e che si agita o si mostra intorno a lui gli è indifferente, anche se si tratti della frenologia di Gall, della fisiognomonia di Lavater, della magia o pseudo-magia mistica di Koreff. Dove un interesse qualsiasi fa gorgo, anche in correnti straniere, Balzac si precipita e si abbevera e si ritempra ansiosamente colla volontà di non rimanere mai addietro.

 

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  Ma questa apprensione universale che Balzac compie, questa immersione universale in cui Balzac si prodiga, risultano quasi sempre in acquisizioni rinnovatrici e ristoratrici. Balzac imita ma non copia, si ispira ma completa e prosegue, dove non capisce, intuisce, dove non ha seminato innesta. Così il romanzo storico di Walter Scott può dargli il senso dei valori regionali e della importanza della scena topografica nella composizione del racconto, ma Balzac vi aggiunge l’umanità che viva nel quadro topografico e dalle Wawerly novels usciranno gli Chouans e i romanzi della vita di provincia in cui delle creature vive occupano il quadro e vi si agitano, in cui i costumi si integrano colle particolarità fisiche e storiche del suolo, in cui soprattutto l'amore non resta statico, ma si svolge e grida in trapassi sentimentali o tragici come nella vera vita non assiderata dal cant britannico.

  Il Baldensperger ci dimostra nel suo bel libro che dalle Mille e una notte sino al Faust di Goethe, dai romanzi di Fenimore Cooper sino alle novelle fantastiche di Hoffmann, da Dante sino a Rabelais, Balzac ha assorbito da ogni parte e da ogni letteratura tutto quello che era possibile per lui di assorbire, immettendo nel suo prodigioso e ribollente crogiòlo tutti i metalli di cui riusciva ad impadronirsi e ad arricchirsi, con una versatilità inesauribile, con una inesausta sete di conoscenza e talvolta con una visione mirabile anche delle correlazioni spirituali ancora inesplorate intorno a lui. Così, per Dante, Balzac intravede l’importanza che la Commedia ha avuto come ponte sublime gettato tra l'oriente e l’occidente, quello che intravedranno solo molto più tardi di lui raffinati esegeti orientalisti. Così, per toccare d’un tutt’altro campo, Hoffmann gli darà non solo l’ispirazione del fantastico più esteriore, ma il senso della necessità artistica e intellettuale di un’altra atmosfera in cui immettere creature concrete della sua fantasia.

  Balzac stesso si è reso perfettamente conto, negli anni della sua formazione e in quelli delle sue prime fortune, di quanto egli doveva a fonti straniere e ha forse per il primo compreso che le sue «annessioni» letterarie ed ideologiche avevano quasi una contropartita nel favore che il suo nome e l’opera sua incontravano in Europa più che in Francia. Anche quando, infatti, gli rimanevano ignote alcune delle più belle testimonianze straniere di omaggio al suo genio, Balzac si è accorto del suo europeismo. Mentre egli lottava aspramente per imporsi in patria, per edificare l’impero della sua opera, forse meglio che dentro i confini francesi, fuori della Francia e perfino nell’America il suo nome veniva affermandosi e risonava come una stupenda promessa.

  Un Sainte-Beuve poteva lesinare le lodi a Balzac, ma Goethe affermava di riconoscere in Peau de Chagrin «l’opera di un talento più che ordinario», Emerson trascriveva nel suo diario una frase colta in Louis Lambert, Roberto Browning raccomandava Balzac all’attenzione della sua Elisabetta, Tolstoi affermava che in Balzac tutti noi possiamo imparare a scrivere» e Dostoiewski esclamava, in una lettera solo da poco venuta in luce: «.... Ho letto quasi tutto Balzac. I suoi caratteri sono il prodotto della intelligenza dell’universo! Non è lo spirito dell’epoca, ma migliaia d’anni di lotta che son giunti a produrre questo risultato in un cuore umano!».

 

***

 

  Il Baldensperger chiarisce benissimo che, se Balzac ha molto preso, ha anche molto dato e restituito e che la fama e l’influenza attuali di Balzac sono una magnifica forma di restituzione. Del resto, giustamente, per lui le orientazioni balzachiane verso le letterature straniere, verso Scott ed Hoffmann, come verso Goethe e Swedenborg o venti altri, non menomano l’eccellenza di quel che Balzac ha compiuto. Come egli dice, al termine del suo lungo studio, anche in queste annessioni noi troviamo la grandezza di Balzac. «Egli non si è appagato dei grandi scrittori che imitava, ardeva del desiderio di imitarli e di eguagliarli, ma conoscendo il loro valore e ciò che il suo genio doveva loro, ha creato delle opere in cui la comune dei lettori non suppone la lega composita, in cui il distratto pretenderà di non trovare che la parola facile del genio e in cui il cómpito di coloro che ammirano Balzac senza cessare di volerlo comprendere, è di sceverare la ricca variata sostanza, simile al bronzo di Corinto degli antichi, in cui l’alchimia dello spirito ha fuso, alla fiamma che amalgama e insieme purifica, le verghe di ogni provenienza».

 

 

  Italo Siciliano, Dal romanticismo al simbolismo: Théodore de Banville poeta-commediografo-prosatore (1823-1891), Torino, Fratelli Bocca, Editori, 1927.

 

Libro I. Cap. III.

  La poesia funambolesca e la “poesia senza idee” (Dalle “Funambulesques” a “Sonnailles et Clochettes”).

 

  p. 76. Lo stesso procedimento abbiamo nella Villanelle de Buloz, in cui Banville introduce il direttore della rivista a deplorare l’immaginaria perdita del suo Limayrac: l’effetto comico risulta esclusivamente dal metro — la «villanelle» — che impone come ritornello di ogni strofa l’alternarsi di due versi:

 

Mon Limayrac sur Balzac

Savait seul pleuvoir à verse.

Je veux me vêtir d’un sac.

Pour ses bons mots d’almanach

On tombait à la renverse.

J’ai perdu mon Limayrac.

Sans son habile micmac,

Sainte-Beuve tergiverse.

Je veux me vêtir d’un sac.

Il a pris son havresac,

Et j’ai pris la fièvre tierce.

J’ai perdu mon Limayrac.

 

  p. 90. Alcune Rimes Dorées erano comparse nel 1869 nella prima edizione delle Occidentales, ma il poeta il 1875, aggiungendone altre, ne fa una raccolta a parte. «Queste rime — scrive allora — mi sembravano come effettivamente dorate da quei raggi di sole cadente che hanno talvolta il gaio splendore di un’aurora». E l’esordio è un’Aube romantique, molto lunga invero, nella quale sentiamo ancora una volta gl’indomabili rimpianti banvilliani per il 1830, e le solite esaltazioni dell’ode, del dramma, del sonetto, della pittura, di Shakespeare, Petrarca, Ronsard, Hugo, Balzac, Gautier, Gavarni, Devéria, Dorval, Frédérik ...

 

George Sand en son âme

Porte un éclair de flamme;

Musset, beau cygne errant,

Chante en pleurant;

 

Balzac, superbe, mène

La Comédie humaine

Et nous fait voir à nu

L’homme ingénu.

 

 

Cap. V.

La poesia parnassiana (Dalle «Stalactites” alle “Princesses”).

 

  p. 131. Negli angusti uffici del vicolo Mirès comparivano, nel pomeriggio, Banville che — come ricorda Mendès — offriva «les éblouissements de sa verve lyrique et parisienne, Orphée et Balzac mêlés» […].

 

Libro III. Il teatro e la tecnica. Cap. II.

La Teoria.

 

  p. 250. Egli attacca il nuovo teatro, ma con decisa temperanza; parte in guerra contro il vaudeville, ma con un bagaglio di riserve e di concessioni, scaglia le frecce della Funambulesques contro l’École du Bon Sens, ma non toglie la sua stima ad Augier, Dumas, Sardou; si accanisce contro il naturalismo, ma ha il più alto rispetto pel teatro di Balzac che, tuttavia, con la Marâtre (1848) porta il realismo sulla scena. «De temps en temps — scrive nella prefazione delle Funambulesques — Aristophane refait bien sa comédie de Ploutos, qu’il intitule Mercadet, ou bien une autre de ses comédies, qu’il intitule Vautrin, ou Les Saltimbanques ou autrement».

 

Cap. III.

L’Opera.

 

  p. 258. L’idea è molto modesta e l’applicazione piuttosto ingenua. Aristofane è sul punto di abbandonare il lavoro, quando compare Talia che lo induce a lasciare Atene per andare con lei nel Parigi del sec. XIX. Qui l’ateniese ascolta tutti i personaggi che Banville si compiace di esibire, e soprattutto le idee del poeta: elogio funebre, quindi, di Balzac, derisione del realismo, ironie contro certa musica e certa stampa ed infine esaltazione del Progresso.

  p. 262. L’autore stesso ricorda fra le fonti della commedia [Gringoire] il Louis XI di Michelet e i Contes Drolatiques di Balzac.

 

Parte Seconda.

Il Prosatore.

La Fantasia (“Scènes de la vie”).

Cap. I.

Intenzioni.

 

  p. 335. Il fervente ammiratore di Balzac riunisce poi le sue novelle col titolo di Scènes de la Vie: è tutto un programma.

 

Cap. II.

Il materiale

(Ambienti e tipi).

 

  p. 346. Vedremo come intervenga l’arte dello scrittore su questo materiale e come lo elabori; per ora resti stabilita l’assoluta e completa conoscenza che Banville ha dell’ambiente e dell’uomo. Egli studia il primo come un Privat d’Anglemont che abbia allargato i suoi orizzonti, o come un Balzac che abbia un lievito speciale d’umorismo e di stile prezioso.

 

Cap. III.

L’elaborazione.

(I personaggi in azione. – Lo stile).

 

 

  pp. 348-349. Banville stesso finisce per accorgersi dell’eccesso e fa dire a Balzac e a Janin che a Parigi, «où les amateurs ne sont pas tolérés, il faut du génie pour tout». […]. Qualità fisiche: salvo il borghese, son tutti belli. S’innamorano tutti per «coup de foudre». Parlano tutti, citando sempre, a proposito ed a sproposito Hugo, Baudelaire, l’Intermezzo, il Cantico dei Cantici, la Comédie Humaine, ecc.

  pp. 356-357. Anche nella tirata, quando, cioè, interviene il particolare pletorico e l’inutile erudizione, il periodo conserva un respiro largo ed armonioso che vi fa pensare al poeta Banville conoscitore di tutte le magie del ritmo. «Mais sache pour ta gouverne, — dice un mostro a Balzac — que le roman est un genre absolument chimérique, car tu n’as pas le droit d’écrire un poème aussi long que l’Iliade […]».

  p. 362. Stile anche originale del quale non si son potuti dare che rapidi e caratteristici esempi che forse invoglieranno a rileggere un prosatore che un discepolo diceva «terrible comme Balzac» (1) ed un avversario definiva «un des ouvriers stylistes les plus extraordinaires».

  (1) Mendès, (Enquête di Huret).

 

Cap. IV.

La costruzione.

 

  p. 364. Banville ama, insomma, l’imprevisto, come Balzac, ma lo applica con maggiore ingenuità, se è possibile.

 

Cap. V.

Caratteristiche generali.

 

  p. 370. Banville ha dunque le stesse ambizioni di Balzac. Ha voluto darci dei quadri vasti davanti ai quali noi restiamo meravigliati, perplessi, magari urtati, ma giammai indifferenti. E ci domandiamo se per caso egli, col suo composito, col suo fantastico, col suo assurdo non sia pervenuto ad avvicinarsi più di ogni altro, più di Zola e di Bourget, al cuore della vita ed al suo travaglio misterioso.

 

Libro secondo.

Il Pensiero.

(Les Petites Études).

Cap. II.

Teorie e idee letterarie.

 

  pp. 383-384. Nè si può tacere l’influenza di Balzac che, notevole nell’opera fantastica di Banville, ha una grande efficacia anche nella formazione delle sue idee. Balzac era uno dei pochi «ainés» che la terza generazione romantica ammirava incondizionatamente. Si sa, infatti, quel che Flaubert deve all’autore della Comédie Humaine che, secondo lui, «avait crânement compris son temps» (2); per i Goncourt, Balzac è forse il più grande uomo di stato del tempo, l’unico che abbia visto a fondo il malessere e lo squilibrio spirituale della Francia dopo il 1789 (3) e per Baudelaire — che non tralascia occasione di esaltarlo — è da considerarsi sullo stesso piano di Poe (4), che per lui è tutto dire. In Banville, infine, l’ammirazione pel genio di Balzac ha del feticismo: egli lo mette fra i creatori di grandi tipi e soltanto in lui trova le idee, i documenti, l’anima del secolo.

 

  (2) Correspondance, II (14 novembre 1850).

  (3) Journal, I (settembre 1857).

  (4) E. Allan Poe, sa vie et ses œuvres (1852). Anche il Taine lo portava al livello di Shakespeare: «Ce sont là les œuvres littéraires ls plus profondes; elles manifestent mieux que les autres les caractères importants, les forces élémentaires, les couches profondes de la nature humaine» (Philosophie de l’Art, II).

  p. 385. Per i grandi romantici, più specialmente, il poeta, o l’uomo di genio, è l’ilota, il Chatterton del Vigny, quando non è il pastore dei popoli come Moïse, o il pellicano di Musset. Con Hugo tende ad essere piuttosto il profeta (in Balzac ubbidiente ad una rivelazione divina) del progresso, l'illuminato, il conduttore degli esseri, il «Pontificat de l’infini», ecc.

  p. 400. Banville contesta anche che i tre grandi romanzieri Zola, Goncourt e Daudet (rispetta il primo, è amico del secondo, intimo del terzo) formino una scuola. Essi, infatti, non sono legati da nessun vincolo, nemmeno dalla loro affermata discendenza da Balzac e da Flaubert, perché non c’è scrittore del tempo che sia sfuggito all’influenza di questi due grandi.

  p. 404. E Berlioz, il musicista romantico per eccellenza, da vivo, se non sconosciuto, fu certamente molto discusso ed in parte misconosciuto. Lamartine che, secondo Gautier, era «un piano à vendre ou à louer», non poteva soffrire la musica, come, pare, non la potevano soffrire Hugo e Balzac.

 

Conclusione.

Banville ed il secolo XIX.

 

  p. 432. Colui che, dopo Hugo, trova il maggior numero di elogi è Balzac. Ma Banville lo vide una volta sola, quindi si tratta — come per Heine — piuttosto di un omaggio di carattere puramente spirituale.

  pp. 436-437. L’esame della corrispondenza e delle opere postume di Baudelaire, invece di riserve, porta nuovi elementi della sua ammirazione. «Excepté Chateaubriand — scrive il 1866 — Balzac, Stendhal, Mérimée, de Vigny, Flaubert, Banville, Gautier, Leconte de Lisle, toute la racaille moderne me fait horreur ...». […].

  Ai funerali [di Baudelaire], venuto a mancare il discorso di Sainte-Beuve e di Gautier, è lui che davanti al sepolcro del misconosciuto proclama la sua originale potenza innovatrice, pari a quella di Balzac e di Delacroix […].

 

 

  C. Tomaselli, Il maestro “dell’intelligente viaggiare”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 52, N. 26, 30 Gennaio 1927, p. 4.

 

  Ma come mai questa improvvisa scalmana per la bicicletta! Ecco perché: «Cacciatore non sono: e chi mi darebbe torto dacché non c’è più selvaggina? Pescatore non oso, dacché Balzac definì la lenza: strumento ad una estremità del quale raramente è attaccato un pesce e all'altra sempre uno scimunito».

 

 

  Emilio Zanzi, Il pittore della bellezza: come e perché dipinge Giacomo Grosso, «L’Ora», Palermo, Anno XXVIII, N. 181, 24-25 Agosto 1927, p. 3.

 

  Giacomo Grosso non è soltanto un bel pittore. E’ un artista. Più attento ed esperto di storia e di estetica di molti critici e professori conoscitore di tutte le scuole pittoriche, divoratore di libri, il figlio del povero falegname di Cambiano che si addormenta tutte le sere leggendo Hugo o Verga, Balzac o Manzoni, Zola o Baudelaire è armato in campo – nella vita e nella scuola – contro il cerebralismo letterario che fa strage tra i pittori.



  Claudio Zorzi, Lettera da Parigi. Balzac andrà al Pantheon, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno VI, N. 134, 7 Giugno 1927, p. 3.

 

Parigi, giugno.

 

  Appena raggiunto — e così tardi! — il sogno della sua vita, dopo pochi mesi appena di matrimonio con Madame Hanska, epistolare fidanzata di tanti e tanti anni, trovato in un bell’appartamento di Parigi, il degno asilo del suo lavoro, raggiunta dopo una lotta titanica ed infernale coi suoi creditori la pace economica, Balzac, logoro per troppe fatiche e troppe grandi pene, morì a poco più di cinquant’anni, quando egli si credeva appena alla metà della sua opera gigantesca e quando, dopo l’era del grande romanziere stava per cominciare quella del drammaturgo che sarebbe stato (Mercadet lo prova), non meno grande. Il 21 agosto 1850, Balzac fu condotto alla sua sepoltura, al vecchio cimitero parigino di Père Lachaise. Avrebbe voluto, Balzac, funerali modesti e semplici. E tali furono infatti, nell’apparato. Ma il concorso delle grandi personalità accorse a rendere al grande scrittore l’omaggio supremo, conferì alla cerimonia una importante solennità. Basti dire che, oltre il Ministro dell’Istruzione, i tre più grandi nomi della letteratura francese — Victor Hugo, Alessandro Dumas padre e Sainte-Beuve reggevano i cordoni del carro. — La folla, l’immensa folla di Parigi, che da anni ed anni divorava i suoi libri, formando una doppia siepe umana, lungo tutto il percorso dell’imponente corteo, in commosso e riverente silenzio, vide passare per l’ultima volta nelle vie dei vivi, il suo grande romanziere.

  Davanti alla fossa aperta al Père Lachaise Victor Hugo, con voce potente in cui tremava tutta la commozione, disse grandi parole: «Signori ... Quale perdita abbiamo noi fatta! ... Balzac era uno dei primi tra i più grandi, uno dei più alti fra i migliori ... La sua vita fu breve, ma piena e più ricca d’opere che di giorni ... Ed egli entra, in questo stesso giorno, nella sua tomba e nella sua gloria. E questa oramai splenderà ogni notte, sopra le nostre teste, tra i grandi astri della Patria ... Ma no, no ... Quando muore un Balzac, non è la notte, è la luce! Non è la fine: è un principio! Non è il nulla: è l'eternità! Simili sepolture danno il senso a noi dell’immortalità, poiché è impossibile che quanti furono genii durante la loro vita, non rimangano anima quando son morti! ...».

  Le meravigliose parole di Victor Hugo non tolsero che la tomba di Balzac fosse, breve tempo dopo, in uno stato di deplorevole abbandono. E ancora oggi questa tomba — situata su la collina di Père Lachaise, nel viale Casimir Delavigne — è indegna di Balzac, è indegna della Francia, è impari all’immortalità che rappresenta!

  C’è sopra un basamento quadrato, un busto che il suo amico David D'Angers fece al Balzac nel 1884. Alla base del piedistallo c’è un grosso libro di marmo su cui è scritto: «La Comédie Humaine». E l’iscrizione ricorda: «Honoré de Balzac, nato a Tours il 20 maggio 1799, morto a Parigi il 18 agosto 1850». Ma anche queste poche parole son corrose dal tempo e oramai quasi illeggibili.

  Su tanta rovina e su tanto oblio solo qualche fresco fiore, deposto da mani di ammiratori, ancora onora e ricorda, colui che fu il più grande romanziere d’ogni tempo e d’ogni paese ...

  Di questo stato di cose, alla vigilia del centenerazio (sic?) balzachiano si preoccupò, nel 1899, un deputato socialista, il Fournière, che presentò alla Camera un progetto di legge per la traslazione al Pantheon delle ceneri di Balzac. C’è da osservare che, per lo studio e l’adozione del progetto, trattandosi di un centenario imminente, la Camera votò l’urgenza. Ma urgenza parlamentare, s’intende, che ventotto anni dopo il giorno della sua presentazione e accettazione «d’urgenza», il progetto Fournière è ancora, nel 1927, da discutere! ...

  In verità, nel 1902 il deputato Couyba che fu ministro e che era notissimo con lo pseudonimo di Maurice Boukay come chansonier di Montemartre (sic), riprese il progetto per estenderlo ad altre glorie francesi. Egli chiedeva infatti la traslazione al Pantheon di quattro illustri urne cinerarie: quella di Balzac e di Quinet, di Michelet e di Ernest Renan. Anche questa volta la Camera votò l’urgenza e rinviò il progetto alla Commissione di Finanza. Ma questa per far economia, non redasse nessuna relazione e, invece di far trasportare al Pantheon le gloriose ceneri, preferì di seppellire oscuramente il progetto di legge, inteso ad onorarle.

  Oggi, scrittori e giornali, nell’ora in cui la Francia celebra, per il centenario, i grandi uomini e le illustri opere del Romanticismo riprendono energicamente la iniziativa e chiedono ad Herriot, ministro dell’Istruzione, di far votare d'urgenza — ma questa volta sul serio — il progetto di legge per la traslazione al Pantheon delle ceneri di Balzac. La Francia deve quest’omaggio ad uno dei suoi figli più grandi. Che se la passione politica ha fatto seppellire al Pantheon Emilio Zola, è criminoso che la politica indifferenza dimentichi nell’abbandono del Père Lachaise, l’immortalità autentica di Balzac. Ed io penso, ciò, scrivendo, a questo caro e immenso uomo, contro il quale, anche dopo morto, si accaniscono l’indifferenza degli uomini e la deficienza del danaro. Pochi anni or sono volevan vendere, mancando le poche rendite necessarie a pagarne il fitto al padrone dello stabile, quella che si chiama «La casa di Balzac» dove son raccolte le memorie del grande scrittore. Ma l’iniziativa di Paul Bourget e di altri insigni scrittori riuscì a salvare la «Casa di Balzac» nella quale infatti Paul Bourget. pochi anni or sono, in una memorabile e commovente giornata, potè celebrare, presente tutta la letteratura francese e nel suo settantesimo anno il suo glorioso giubileo letterario. Pare che questa volta l’apostolo della traslazione di Balzac al Pantheon sarà Edoardo Herriot, uomo, tra i suoi molti difetti, certamente energico e capace di obbligare Camera e Senato a compiere in quarant’otto ore un dovere trascurato durante ventotto anni. Certo è questo un vero «dovere nazionale». Racconta volentieri Robert De Flers un incredibile aneddoto. Avendo ricevuto una commissione di americani per non so quali accordi o trattative, il celebre commediografo, al momento degli addii, cavò fuori solennemente, da un cassetto, un pezzo di carta ingiallita:

  — A ricordo prezioso del nostro cordiale incontro, disse Robert De Flers agli americani, io voglio donarvi una meravigliosa reliquia: è un autografo di Napoleone.

  Commossi per l’atto gentile, gli americani ringraziarono il De Flers e confabularono un po’ tra loro per restituire dono e cortesia. E, messisi d’accordo, uno parlò: — Non appena ritornati in America, signor de Flers, noi vi restituiremo la cortesia mandandovi anche noi un cimelio nazionale.

  Preparato in un silenzio l’effetto, l’americano spiegò:

  — Un autografo del nostro grande Charlot.

  Quando altri popoli non sanno vantare che un mimo cinematografico per contrapporlo all’imperatore degli imperatori, non val davvero la pena d’essere la gloriosa Francia se Balzac, gloria francese nei secoli, non ha ancora al Pantheon il posto che gli spetta e che sarà simbolo della sua immortalità.

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Arturo Rossato, Franco Alfano, Madonna Imperia. Commedia musicale in un atto di Arturo Rossato. Musica di Franco Alfano, Vienna-Lipsia, Universal-Edition A. G., 1927, pp. 51. [Interpreti: Florica Cristoforeanu, Antonio Bagnariol e Vincenzo Bettoni].



[1] Decio Cinti (Forlì, 1879 – Firenze, 1954) fu scrittore e segretario privato di Filippo Tommaso Marinetti; come traduttore dal francese, sono da ricordare, tra le altre, le sue edizioni italiane di opere di Voltaire, Stendhal, Daudet, Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, Mirbeau, Zola.

[2] Cfr. Courrier des lettres. Echos, «Le Figaro», 25 juillet 1927, p. 3.

[3] Cfr. E. Preston Dargan, Parmi la descendance de Balzac dans la vie et dans la fiction, «Revue de littérature comparée», VIIe Année, Juillet-Septembre 1927, pp. 480-492.



Marco Stupazzoni

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