mercoledì 16 maggio 2018



1918



Traduzioni.


  Onorato di Balzac, I celibi. I. Pierina. Il curato di Tours di Onorato di Balzac, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1918 («Biblioteca Amena». N. 737), Quarto migliaio, pp. 260.

  Struttura dell’opera:

  Pierina, pp. 1-170; Il curato di Tours, pp. 171-260.

  Cfr. 1907.


  Onorato Balzac, I celibi. II. Casa di scapolo, Milano, Fratelli Treves Editori, 1918 («Biblioteca Amena», N. 738), pp. 287.

  Cfr. 1908.


  Balzac, Il Deputato d’Arcis. Romanzo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1918 («Biblioteca Amena, N. 812»), Terzo migliaio, pp. 338.

  Cfr. 1911.


  Balzac, Eugenia Grandet. El verdugo. - Ufficiali di cavalleria. - I guanti rivelatori, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Treves), 1918 («Biblioteca Amena», N. 701), Quinto migliaio, pp. 269.

  Struttura dell’opera:

  Eugenia Grandet, pp. 1-234; El Verdugo, pp. 237-251; Ufficiali di cavalleria, pp. 255-260; I guanti rivelatori, pp. 263-268.

  Cfr. 1906; 1915.


  Balzac, Memorie di due giovani spose, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1918 («Biblioteca Amena», N. 605), Sesto migliaio, pp. XII-308.

  Struttura dell’opera:

  Balzac, pp. V-XII; Memorie di due giovani spose, pp. 1-308.

  Cfr. 1901; 1909; 1915.


  Onorato di Balzac, I Parenti poveri. II. Il Cugino Pons di Onorato di Balzac. Traduzione di Galeazzo Falconi, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Fratelli Treves), 1918 («Biblioteca Amena», N. 745), Quarto migliaio, pp. 309.

  Cfr. 1908; 1915.


   Balzac, Piccole Miserie della Vita Coniugale, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Treves), 1918 («Biblioteca Amena», N. 615), Quinto migliaio, pp. 306.

  Struttura dell’opera:

  Prefazione, pp. 1-2; Piccole Miserie della Vita Coniugale, pp. 3-303.

  Cfr. 1901; 1911.


  Balzac, L’ultima incarnazione di Vautrin. Un principe della bohème. Un agente d’affari. Gaudissart II. Traduzione di Galeazzo Falconi, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Fratelli Treves), 1918 («Biblioteca Amena», N. 787), Terzo migliaio, pp. 302.

  Struttura dell’opera:

  E. F., Balzac, pp. 1-3; L’ultima incarnazione di Vautrin, pp. 1-206; Un principe della bohème, pp. 207-257; Un agente d’affari, pp. 258-286; Gaudissart II, pp. 287-302.

  Cfr. 1910.


Studî e riferimenti critici.


  Teatri e Spettacoli. Al Cavour, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXXII, N.° 19, 19 Gennaio 1918, p. 6. 

  Anche ieri sera un pubblico enorme accorse in questo ritrovo per le repliche de “L’intorbidatrice, ovvero il colonnello Bridau” riduzione cinematografica del celebre romanzo di Onorato di Balzac, messo in scena in 5 atti dalla Casa Cosmopoli-Films di Roma per l’interpretazione dell’attrice francese Pépà Bonafè e dell'attore drammatico Raffaello Mariani, e confermò il successo che questa magnifica film ha ottenuto ovunque.

  Oggi, Il Colonnello Bridau si ripete per l’ultima volta, avvertendo che il primo spettacolo sarà iniziato alle ore 15,30 per comodità delle famiglie.

 

  Cronaca. Balzac, «Rassegna di Studi Francesi. Periodico bimestrale», Bari, Anno VI, Numero 2, Marzo-Aprile 1918, pp. 83-84.

 

  Fernand Baldensperger. Les Orientations étrangères chez de B. Paris, Champion. (I francesi suoi contemporanei non si resero perfettamente conto della grandezza dell’opera del B. Egli raggiunge invece una grande notorietà ed il successo fuori di Francia. A che è dovuta questa comprensione e la straordinaria predilezione per l’opera dell’autore della «Comédie humaine»? Questa pur essendo francese è «animée d’une énergie supérieure à un simple indice national», che ne assicura la diffusione al di là delle frontiere. Balzac desidera una rinomanza europea e leggendo incessantemente, con una prodigiosa utilità, frequentando stranieri illustri, viaggiando assimilò quanto di più notevole era nel pensiero straniero sicchè l’opera sua amalgama in un tutto che sembra proprio francese il pensiero mondiale. Lo straniero quindi, leggendo, trovava qualche cosa delle idee che avevan credito nel proprio paese, come la vibrazione lontana dell’anima nazionale, e questo spiega la fortuna dello scrittore].

   Marcel Bouteron. — Bettina ou te culte de B. Paris, Ed. Lapine. [Notevole. Il B. editore dei Cahiers balzaciens era assai preparato a dirci della presente fortuna del B.].

  — Charles Léger. — A la recherche de Balzac. Paris, Le Goufoy. [Curioso volumetto ornato di pregevoli riproduzioni di litografie contemporanee, in cui son messe in rilievo le relazioni di B. con Charles de Bernard, legittimista e critico autorevole della «Gazette de Franche-Comté». Nel N.° del 13 agosto 1S3I il De Bernard si occupò della Peau de Chagrin, rimproverando a B. l’imitazione di Hoffmann. Balzac gli rispose con una lettera cordiale in cui si difende dalle accuse rivoltegli. Contemporaneamente inviò al critico i Romans et Contes philosophiques. I due si legarono di amicizia, alla quale è dovuto il soggiorno del B. a Besançon, che gli doveva fornire la scena di Albert Savarus. Il Leger rintraccia sotto i nomi fittizi i personaggi storici che figurarono nel racconto].


  La “Borelli” allo “Splendor”, «La Stampa», Torino, Anno 52, N. 84, 25 Marzo 1918, p. 2.

  Da oggi a tutto giovedì: La storia dei tredici, originale racconto di Balzac, messo in scena da Lucio D’Ambra. Protagonista: Lyda Borelli.


  La “Borelli” allo “Splendor”, «La Stampa», Torino, Anno 52, N. 86, 27 Marzo 1918, p. 3.

  Oggi e domani ultime repliche di: La storia dei tredici, originale racconto di Balzac, messo in scena da Lucio d’Ambra. Protagonista: Lyda Borelli.


  Libri di cui si parla. Francia. “Lazarine” di Paul Bourget. – Paris, Plon-Nourrit, «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno I, N, 2, Maggio 1918, pp. 77-78.

  p. 78. […] la sua protagonista è la degna sorella spirituale di alcune fra le più soavi eroine di Balzac, incantevoli creature fatte di tenerezza, di fierezza e di dolore.


  Marginalia. Balzac e l’accento tedesco, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIII, N. 20, 19 Maggio 1918, p. 3.

  Nono­stante le circolari e le commissioni ministeriali, istituite per esaminare lo stato civile e i passaporti degli alsaziani, molti di loro sono sottoposti a una stretta sorveglianza nei campi francesi di concentramento. È questa una conseguenza dolorosa dei primi errori: al principio della guerra furono presi per te­deschi dei buoni alsaziani che avevano tutto il diritto di rimanere in Francia, ma che ur­tavano le orecchie parigine per l'accento te­desco nella pronunzia del francese. Questo accento tedesco o alsaziano, occasione a tanti malintesi, ha rappresentato una parte note­vole nella letteratura francese e potrebbe avere la sua piccola storia aneddotica, di cui riferisce qualche saggio la Revue Bleue. In­fatti, c’è stato un vero abuso nel teatro e nel romanzo di questo espediente comico, che consiste nel fare pronunziare le d per t e le v per f. Balzac specialmente ha esagerato fino alla sazietà questa pronunzia che attri­buisce a molti dei suoi personaggi. Nel Cousin Pons il tedesco Schmucke non parla altra lingua, e il Balzac non ci risparmia nemmeno una sillaba di quel barbaro fran­cese. Si comprendono facilmente frasi come queste: «Cesde ein anvant ... (c'est un en­fant); Qu’as du, mon baufre ami? ... vaides gomme fus fitrez»[1]; ma talvolta occorre una certa attenzione per cogliere il senso della trascrizione sillabica, profusa dal Balzac quasi in ogni pagina del romanzo. Quest’accento tedesco può dare effetti molto comici. Una sera, a una rappresentazione della Favorita, nel silenzio che seguiva una frase famosa, fu intesa distintamente, con grande successo di ilarità, la voce del barone Rothschild che di­ceva: «Je ne beux fous tonner quel le drois bour cent». Dalla strana alterazione delle sillabe nascono graziosi «calembours». La grande artista Rachel si esprimeva in fran­cesi senza allontanarsi troppo dall’accento usuale; il padre, al contrario, parlava come il buon Schmucke di Balzac. […].


  Marginalia. La «maison de Balzac» e la guerra, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIII, N. 21, 26 Maggio 1918, p. 4.

  In occasione dell’anniversario della nascita di Balzac vede la luce un nuovo giornale Le Balzacien, che nel suo primo numero ricostruisce la storia de la «maison de Balzac», a cui da una diecina di anni dedica la sua opera appassionata B. de Royaumont. La storia narrata dal primo numero del bol­lettino è una meritata glorificazione della parte che hanno avuto nella guerra i collabora­tori della «maison». Sono caduti sul campo dall’onore Charles Dumas, Jean-Pierre Barbier, René Latouche con molti altri valoro­si. Dal settembre 1914 la «maison de Balzac» ha riunito più di sessanta volte i suoi assodati per cerimonie artistiche e per con­ferenze patriottiche. Il Bollettino ricorda, tra l’altre, la «giornata dei ponti» organizzata il 1° agosto 1915, anniversario della mobilitazione degli scrittor morti o feriti per la patria. Quest’omaggio al patriottismo dei poeti caduti, ha servito di esempio a un gran numero di associazioni consimili. […]. Il Balzacien annunzia pel suo prossimo numero un articolo che rivelerà «un ritratto di Guglielmo II tracciato da Balzac nel 1832». Il grande visionario aveva previsto l’irruzione germanica sotto la guida del Kaiser mostruoso.


  Teatri e Arte, «La Gazzetta di Trieste», Trieste, Anno III, N. 824, 18 Agosto 1918, p. 4.

  E’ morto a Parigi il popolarissimo novel­liere francese Michele Zevacco. Era l’autore prediletto di tutto quel grosso numero di lettori i quali vogliono, per un franco, aver in leggere molte pagine interessanti. Egli traeva volentieri i suoi argomenti dalle sto­rie dei re; e sapeva svolgere abilmente i suoi racconti intrecciandoli con intrighi di corte e di politica. Zevacco era dal resto un fervente ammiratore di Onorato Balzac e fece trasformare la casa di Balzac in Passy, in un museo.


  Spettacoli d’oggi. Salone Galileo, «Il Lavoratore. Organo della Federazione Socialista della Venezia Giulia», Trieste, Anno XXIV, N. 4007, 18 Agosto 1918, p. 3; N. 4009, 20 Agosto 1918, p. 2.

  Salone Galileo. Oggi lo splendido spetta­colo di assoluta novità «Il Club dei tredici», dramma sensazionale in 4 atti, tolto dal ro­manzo «Feragus» (sic) del celebre scrittore Onorato de Balzac. Interprete principale la vezzosa artista Mady Christians. Rappresentazioni dalle ore 3 in poi.


  Corriere Teatrale. Echi di spettacoli, ritrovi, ecc., «Corriere della Sera», Milano, Anno 43, N. 261, 18 Settembre 1918, p. 4.

  L’Intorbidatrice. — Nella memoria di milioni di lettori sparsi in tutto il mondo, questa conce­zione acuta, geniale di Balzac vivrà in eterno gra­zie al prestigio del tipo del Colonnello Bridau. Questa leggendaria, cavalleresca figura di eroe spavaldo e generoso ha trovato in Raffaello Maria­ni un interprete non certo inferiore ai più grandi attori; a suo fianco Pepa Bonafè rinnova il fascino della sua parigina, intellettuale eleganza. Ciò spiega il successo semplicemente trionfale che le prime rappresentazioni di Il Colonnello Bridau ottennero ieri dinanzi all’enorme pubblico del Ci­nema Palace dove incominciano le repliche.


   Corriere Teatrale. Echi di spettacoli, ritrovi, ecc., «Corriere della Sera», Milano, Anno 43, N. 264, 21 Settembre 1918, p. 4.

  Pepa Bonafè superbamente elegante nel ro­mantico capolavoro di Balzac, Il colonnello Bridau, che si rappresenta ancora per pochi giorni al Cinema Palace, ha al suo fianco Raffaello Mariani un Bridau caratteristico, geniale, un inter­prete non certo inferiore ai più grandi attori: ec­co come si giustifica il grande successo di questa nuova concezione cinematografica.


  Raffaello Barbiera, Ricordi delle terre dolorose. Con 32 incisioni fuori testo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1918.


Un trentino bardo d’Italia: Giovanni Prati, pp. 121-143.


  pp. 129-130. I romanzi della Sand e del Balzac narravano di adulteri amori, e le donne avidamente li leggevano, se non altro nelle affettate e faticose traduzioni d’allora. Ma Edmenegarda fu il loro poema […].

  p. 131. Nel salotto della contessa Maffei, la quale accolse il chiomato giovane bardo, si tirava a indovinare chi poteva essere mai la “giovinetta cara” l’“amor segreto”, ma chi poteva credere che fosse l’“ultimo” amore del Prati? Quella “giovinetta cara” non poteva essere, come qualcuno pensava, Giulietta Pezzi, di Milano, bionda poetessa romantica.

  Nell’album di Giulietta Pezzi, lasciarono ricordi il Balzac, venuto a Milano nel 1837; il Mazzini […].


Una contessa novellista amica degli umili: Caterina Percoto, pp. 233-248.


  p. 244. Affettato, in quel Conte pecorajo, è, invece, il linguaggio del Nievo; lo è, spesso anche nell’Angelo di bontà […]. Quale figurazione femminile vera e immortale, degna del Balzac è la Pisana delle Confessioni d’un ottuagenario!


  Luisa Benso Giulio, Il sentimento religioso nell’opera di Alfredo Oriani, Roma, Libreria Editrice Bilychnis, 1918.

  p. 6.: […] tutti gli autori che eccelsero in Francia nell’altro secolo furono letti dall’Oriani con amore, con passione grandissimi. Victor Hugo e Balzac gli dànno l’ampiezza della concezione […].

 


  Cesare Cagli, La riforma burocratica, «Giornale dei lavori pubblici e delle strade ferrate. Monitore dei trasporti», Roma, Anno XLV, N. 5, 31 gennaio 1918, pp. 23-25.

 

 p. 23. Uno scrittore di genio, che, secondo la giusta osservazione di un grande critico, rappresenta una singolare e mirabile combinazione dell’elemento artistico con lo spirito scientifico, ha posto mirabilmente i veri termini del dibattito, or sono cent’anni circa. Il programma di riforme amministrative, che costituisce il nodo centrale di quel capolavoro di analisi e di psicologia che sono «Gli impiegati» di Balzac, è ancora il programma dell’oggi: la riduzione del numero degli impiegati. l’elevazione delle loro condizioni morali e materiali. la semplificazione e coordinazione dei servizi, la eliminazione delle ruote e degli ingranaggi inutili, sono i postulati del famoso piano che è finito col costare l’impiego al bravo e generoso Rabourdin, il quale del resto ha trovato la sua pare intima e la sua posizione economica, abbandonando i tortuosi corridoi ministeriali per dedicarsi ad un meno decorativo, ma più proficuo lavoro.


  Benedetto Croce, La riforma della storia letteraria ed artistica, «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da Benedetto Croce», Napoli, Volume XVI (IV della Seconda Serie), 1918, pp. 1-16.

  p. 7. Ma in quel coro mi è pur grato discernere un momento e una voce, la voce di Leone Tolstoi, che in una sua conversazione del 1901 con un ospite francese, venendosi a toccare il tasto della storia del romanzo, ebbe a prorompere: «Non parlatemi della evoluzione del romanzo; non mi dite che lo Stendhal spiega il Balzac, e che a sua volta il Balzac spiega il Flaubert. Codeste sono immaginazioni di critici. Mi piacciono assai i vostri critici francesi, ed essi solo leggo: i loro saggi sono scritti con grazia. Nondimeno mi è impossibile accettare le loro idee sulla successione Stendhal-Balzac-Flaubert. I geni non procedono gli uni dagli altri; i geni sono indipendenti, sempre». E questo è il semplice vero.


  Gabriele Faure, Balzac paesaggista e il “Médecin de campagne”, in Paesaggi letterari (Serie Seconda). Traduzione di Bice Ravà Corinaldi, Firenze, R. Bemporad & Figlio – Editori, s. d. [1918?], pp. 5-41.

  Cfr. Paysages littéraires (2e série), Paris, E. Fasquelle, 1918.

  Alla morte di Stendhal, Balzac dichiarava a Romani Colomb: «E‘ uno dei più notevoli spiriti del nostro tempo; ma non ha curato abbastanza la forma; scriveva come gli uccelli cantano e la nostra lingua è una specie di Dama Honesta che non trova per bene altro che ciò che è irreprensibile, cesellato, leccato.

  Questa lodevole preoccupazione della forma, tuttavia, non riuscì a fare di Balzac un buono scrittore. Come nota il Faguet, egli anzi scrive tanto più male quanto più studio ci pone, e allora «non è agevole dire quanto sia scrittore cattivo». Brunetière, pur facendo del suo meglio per difender lo stile vivace e variato della Comédie Humaine, ne deve riconoscere l’inferiorità. «Gli scrittori di primo ordine — dice — sono quelli che, senza intorbidare il corso d’una lingua, nè deviarla dalla sua direzione secolare, la modificano e da uno strumento consacrato dalla tradizione ci insegnano a trarre accenti nuovi. Così un Ronsard nel secolo XVI, un Pascal nel XVII, e nel XIX uno Chateaubriand o un Victor Hugo ... Il loro passaggio lascia traccia profondamente nella storia di una lingua, e dopo di loro non si scrive più come prima ch’essi fossero apparsi. Balzac, evidentemente, non appartiene a questa famiglia! ... Le sue più belle pagine, che non sono numerosissime, son belle, ma non per delle qualità di stile inimitabili ed uniche. Non vi si vede punto sbocciar quel dono dell’invenzione verbale che è così caratteristico del genio naturale dello stile ...».

  La descrizione pittoresca, che permette particolarmente la magnificenza e l’originalità dello scrivere e che, appunto, ci valse tante splendide pagine d’Hugo e di Chateaubriand, non è il forte di Balzac. Bisogna accusarne la mancanza d’ attitudine dello scrittore. molto più della sua indifferenza davanti alla natura. Certo, ciò che interessa il romanziere sono gli uomini, ma egli è ben lungi dall’essere insensibile alla bellezza delle cose: il Faguet s’inganna quando dichiara che i paesaggi sono rarissimi in Balzac e che, se ve ne sono, questo è perché «nel 1830 bisognava fare del paesaggio sotto pena di non essere considerato un letterato». Essi abbondano, al contrario, in quest’opera dove si trova, come è stato detto, tutta «una geografia della Francia». Chi non conosce le descrizioni di Tours, Guérande, Fougères, Bayeux, Issodoun, Saumur, Alençon, Sancerre, Limoges, Provins, Besançon, Angoulême, per non citare che le più celebri? Nella sola Peau de Chagrin andiamo dal lago del Bourget al Mont-Dore e sulle rive dell’Allier. Balzac fu, con Stendhal, uno dei più appassionati turisti del secolo XIX, percorse tutte le nostre provincie, fece parecchie volte il viaggio da Parigi a Marsiglia, vide la Corsica, la Svizzera, l’Italia, l’Austria, la Germania, la Russia.

  La Turenna e le rive della Loira occuparono sempre il primo posto nei suoi scritti, come nel suo affetto. Fu qui ch’egli ebbe le sue prime emozioni dinanzi alla natura. «Nelle lunghe passeggiate che nostra madre gli faceva fare — dice M.me Surville — egli ammirava già da artista i dolci paesaggi della sua cara Turenna che descrisse poi così bene. Si fermava talvolta entusiasmato dinanzi a quei bei tramonti che illuminavano così pittorescamente i campanili gotici di Tours, i villaggi sparsi su i pendii, e questa Loira così maestosa, coperta allora di vele d’ogni grandezza». In una lettera a Ratier, direttore della Silhouette, datata dal 21 Luglio 1830, egli lascia libero sfogo al suo cuore: «Ah! se sapeste che cosa è la Turenna! ... Son giunto a considerare la gloria, la Camera, la politica, l’avvenire, la letteratura come semplici polpette per ammazzare i cani erranti e senza domicilio, e dico: La virtù, la felicità, la vita sono seicento franchi di rendita sulle rive della Loira». Poi, alludendo ad un recente viaggio in Bretagna: «Oh! condurre una vita da Mohicano, correre su per le rocce, nuotare in mare, respirare all'aria aperta, il sole! Oh! come capisco i selvaggi!». Il Lys dans la vallée racchiude una serie di paesaggi che Balzac scrisse sul luogo, quando dimorò nel castello di Saché, dove si conserva il suo gabinetto da lavoro. E’ in questo romanzo ch’egli dichiara: «Non domandate più perché amo la Turenna; l’amo come un artista ama l’arte. Senza la Turenna, forse, non vivrei più ...».

  Non gli manca dunque l’emozione dinanzi alla natura; ma lo scrittore riesce solo abbastanza goffamente ad esprimere la sua emozione. Lo si giudichi da una pagina della Femme de trente ans, in cui vuol mostrarci «la Turenna in tutta la sua gloria, la primavera in tutto il suo splendore». Egli evoca il paesaggio famigliare: «Attraverso il tenero fogliame delle isole, Tours sembra, in fondo al quadro, uscire, come Venezia, dal grembo delle acque. I campanili della sua vecchia cattedrale si slanciano nell’aria dove si confondevano allora con le creazioni fantastiche di alcune nuvole biancastre ... Il pittore manca d’abilità; il quadro non riesce bene; è insieme confuso e banale; gli epiteti, i verbi, sono poveri ed insignificanti: «L’odore dei salici che orlano il fiume aggiungeva profumi penetranti all’aroma della brezza umida. Gli uccelli facevano sentire i loro concerti prolissi; il canto monotono d’un guardiano di capre v’aggiungeva una specie di malinconia, mentre i gridi dei marinai annunciavano un’agitazione lontana. Molli vapori, capricciosamente fermati intorno agli alberi sparsi in quel vasto paesaggio, vi imprimevano un’ultima grazia».

  Senza che la forma ci guadagni molto, Balzac riesce meglio, tuttavia, nei quadri animati, per esempio, nel Curé de village, questa scena del taglio dei fieni : «I minimi particolari di questo bel panorama si vedevano perfettamente: e coloro che, temendo l’uragano, terminavano in tutta fretta dei pagliai intorno a cui le falciatrici accorrevano con le forche cariche, e quelli che riempivano le carrette in mezzo agli affastellatori e quelli che in lontananza falciavano ancora e quelle che rivoltavano le lunghe file d’erbe abbattute come triture sui prati per farle appassire e quelle che s’affrettavano a farne dei mucchi. Si udivano le risate di quei che giocavano, insieme alle grida dei bambini che si spingevano su i cumuli di fieno. Si distinguevano le sottane rosa o rosse o azzurre, i fazzolettoni, le gambe nude, le braccia delle donne, tutte ornate di grandi cappelli di paglia a falde larghe e le camicie degli uomini, quasi tutti in pantaloni bianchi. Gli ultimi raggi del sole pulviscolavano a traverso le lunghe fila di pioppi piantati lungo i fossatelli che dividono la pianura in praterie ineguali e carezzavano i gruppi composti di cavalli, di carrette, di uomini, di donne, di fanciulli e di bestiame. I guardiani di buoi, i pastori, cominciavano a riunire i loro armenti chiamandoli col suono di cornette rustiche. Questa scena era insieme rumorosa e silenziosa, singolare antitesi, che stupirà soltanto coloro a cui gli splendori della campagna sono ignoti».

  Tutto ciò è stato veramente visto, e si sa che la memoria visiva di Balzac era sorprendente. «Quando voglio — egli dice — io tiro un velo su i miei occhi; subito rientro in me stesso e vi trovo una camera nera dove gli accidenti della natura si riproducono».

  In Béatrix, quasi al principio della descrizione di Guérande, egli nota questo stesso fenomeno in modo abbastanza originale: « Talvolta l’immagine di questa città torna a battere al tempio del ricordo; entra coperta delle sue torri, ornata della sua cintura; spiega la sua veste cosparsa di bei fiori, scuote il mantello d’oro delle sue dune, esala i profumi inebbrianti dei suoi graziosi sentieri spinosi e pieni di fasci di fiori legati a caso; essa vi occupa e vi chiama come una donna divina che voi avete intravista in un paese strano e che ha preso dimora in un angolo del cuore». Quest’ultima nota non è quella che Barrès riprenderà, per parlarci delle belle affascinatrici di Spagna e d’Italia?

***

  Nell’opera ineguale e confusa di Balzac ho sempre avuto una tenerezza particolare per il Médecin de Campagne. E’ uno dei suoi migliori romanzi, benché il romanzo vi tenga poco posto. Certo, vi sono delle lungaggini, delle dissertazioni politiche e sociali, di cui farei volentieri a meno. Nel momento in cui Balzac scrisse questa opera, aveva delle velleità politiche, preparava la sua candidatura alle elezioni in diversi collegi, che, d’altra parte, non vollero saperne; ed egli sperava, come disse alla signora Zulma Carraud, che questo libro avrebbe potuto esser utile alla propaganda in suo favore. Ma non vi è opera di Balzac più nobile e più sana, opera in cui abbia meglio espresso il fascino della vita libera, nella natura, lungi dalle bassezze umane. Con quale, Balzac ha saputo esprimere l’anima degli umili, le loro ingenuità, le loro furberie talvolta, ma sopratutto la loro fede, la loro generosità, la loro bontà, la loro devozione sublime. Il Napoléon du peuple è un capolavoro. Nessuno prima di Balzac aveva parlato così bene il linguaggio dei soldati, dei poilus potrei dire, poiché si trova la parola nel Médecin de Campagne. A proposito della costruzione del ponte sulla Beresina, Balzac scrive: «Il generale Éblé, sotto gli ordini del quale erano i pontieri, non ha potuto trovare che quarantadue uomini abbastanza poilus per intraprendere quel lavoro». In questo caso, come gli è avvenuto spesso, Balzac fu un precursore. Credo che sia la prima apparizione in letteratura dell’espressione che ha fatto fortuna da quasi a momenti tre anni.

  Il Médecin de Campagne è, d’altronde, della migliore epoca di Balzac, che, giovane ancora, ha la piena coscienza del suo genio. Da Aix, dove lavora febbrilmente al volume, egli dichiara alla signora Surville: «Eccomi fra i trenta e quaranta, cara sorella, cioè a dire nella pienezza delle mie forze; bisognerebbe scrivere ora i miei più bei soggetti, che devono formare il coronamento dell’opera mia». In quell’anno medesimo ebbe l'idea di collegare tra loro i suoi romanzi e i loro molteplici personaggi. Sua sorella ci racconta l’ingresso trionfale del romanziere nel suo salotto. «Salutatemi — esclama — perché sto tranquillamente sulla via di diventare un genio!». Non si fermerà che più tardi al titolo di Comédie Humaine; ma, scegliendo, fin dal 1883 (sic), quello di Études de moeurs au XIX siècle, ci prova ch’egli ha già in mente tutto il vasto e magnifico piano del suo edifizio.

  Altre ragioni spiegavano la mia predilezione giovanile pel romanzo di Balzac. Esso si svolge vicino a Grenoble ed io avevo, sin dal liceo, quel patriottismo locale, un po' puerile, che mi faceva ricercare negli autori celebri tutto ciò che evocava le rive del Rodano e le montagne del Delfinato. E poi, leggendo la storia del dottor Benassis, una figura si levava e si leva tuttora dinanzi ai miei occhi. Rivedo il volto buono e sorridente del medico di campagna i cui racconti affascinarono la mia infanzia. Lo sento parlare del suo villaggio nativo, appollaiato in riva alla Drôme, su una collinetta bruciata dal sole, e della vecchia casa dove, nel 1815, amabili soldati austriaci – ignari ancora della Kultur tedesca — lo facevano saltare sulle loro ginocchia. Egli mi narrava come fosse andato direttamente dal suo villaggio a Parigi — cinque giorni e sei notti di diligenza —in quella Parigi di Balzac, dove giunse in tempo per assistere alla rivoluzione di Luglio. Apparteneva a quella generazione di medici che, nel momento in cui la medicina divenne scientifica e si rese consapevole della sua funzione sociale, considerarono il loro ufficio non come un mestiere, ma come un sacerdozio.

  Senza voler paragonare mio nonno all’eroe di Balzac, quanta somiglianza tra di loro! Se non rifiutava gli onorari, non credo che ne abbia mai richiesti e le migliaia e migliaia di visite che fece fino alla sua estrema vecchiaia non lo arricchirono. Vedo, scrivendo queste righe, la cerchia di monti che circondario il Diois; anch’oggi, che numerose strade lo solcano, le corse non vi sono facili affatto. Che cosa dovevano essere mai, alla metà del secolo passato! Spesso la gente del paese m’ha parlato del dottore che andava a fare al Vercors, in pieno inverno, nella neve, a dorso di mulo, una visita che gli prendeva due giorni, visita computata a quindici o venti lire, che, del resto, non riscoteva quasi mai. E, ben inteso, egli non partiva senza portar con sè le medicine che credeva utili ... Benassis mi sembrava un ritratto ingrandito, completato, abbellito, del medico di campagna. Ma aveva egli avuto un originale? La mia gioia fu viva il giorno in cui il caso mi pose sulla traccia dell’eroe di Balzac.

***

  Secondo le indicazioni del romanzo, il dottor Benassis esercitava la sua professione in un capoluogo del Cantone dell’Isère, vicino a Grenoble e alla Grande Chartreuse. Contrariamente alla sua abitudine — cui fanno eccezione soltanto le Médecin de Campagne e i Paysans — Balzac non dice il nome del «grosso borgo» dove si svolge il suo racconto. Egli ha dovuto temere di indicare troppo chiaramente il suo modello, il dottor Rome, di Voreppe. E forse questi, la cui modestia era profonda, l'aveva chiesto a Balzac che, per sopraggiunta, parlò d’un capoluogo di cantone per meglio sviare i curiosi.

  Fu nel 1832 che Balzac andò a Voreppe. Lasciò Angoulême in Agosto e vicino al Thiers cadde dalla diligenza e si ferì leggermente ad una gamba. Il primo settembre è ad Aix-les-Bains, da dove scrive alla madre per chiederle del denaro. «La Bataille terminata (si tratta della Bataille d’Austerlitz che non fu pubblicata mai) andrò a Ginevra e alla Grande Chartreuse». Nei suoi progetti e nei suoi conti dei diritti d’autore, non troviamo ancora rammentato il Médecin de Campagne. Quindici giorni più tardi, annuncia a sua sorella che spera di partire per l’Italia, con M.me de Castries e suo zio, il duca di Fitz-James; per procurarsi il danaro per il viaggio, dice: «Scriverei per Mame il Médecin de Campagne e questo libro pagherebbe tutto». Egli è dunque andato nel Delfinato tra il 1.° e il 15 di settembre, benché la sua gamba non fosse del tutto guarita. Lo dichiara, d’altra parte, in una lettera a M.me Carraud, il 23 settembre; e, lo stesso giorno, scrive a sua madre, a cui l’opera è dedicata: «Lavorando tre giorni e tre notti, ho scritto un volume in diciottesimo intitolato Le Médecin de Campagne». Qualche tempo dopo, nuova lettera a M.me Carraud: «La Bataille sta per veder la luce, con qualche cosa di meglio, un libro secondo i vostri gusti, il Médecin de Campagne. Esso mi procurerà degli onori. È un libro benefico, tale da farmi meritare il premio Montyyon (sic)». Egli fonda grandissime speranze su questo volume e conta di venderne numerose edizioni, come dice al suo editore in una lettera curiosa, di cui credo interessante citare qualche riga: «Sono stato da molto tempo colpito e desideroso della gloria popolare che consiste nel far vendere a parecchie migliaia di esemplari un piccolo volume in diciottesimo, come Atala, Paul et Virginie etc. ... Bisogna che il libro possa andare in tutte le mani, quelle della fanciulla, quelle del ragazzo, quelle del vecchio e magari quelle della beghina. Allora, una volta il libro conosciuto — per la qual cosa ci vuol un tempo più o meno lungo, a seconda del talento dell’autore o del libraio — il libro diventa un importantissimo affare; per esempio, le Méditations di Lamartine a sessantamila copie, le Ruines di Volney ecc. Il mio libro è dunque concepito con questo spirito, un libro che la portinaia e la gran dama possano leggere. Ho preso il Vangelo e il Catechismo, due libri che si smerciano in abbondanza, ed ho fatto il mio». Egli prevede una tiratura formidabile. Émile de Giradin, a ciò ch’egli ci narra, scommetteva per quattrocento mila copie.

  Si sa che Balzac cambiava molto spesso di progetti. Rinuncia al viaggio in Italia e ritorna a Parigi. Se il Médecin de Campagne fu terminato in tre giorni e tre notti, prese all’autore più di tre mesi per le correzioni. Nel marzo 1838, Balzac scrive: «Il Médecin de Campagne mi costa dieci volte più lavoro di quanto me ne sia costato Lambert; non v’è frase o idea che non sia stata vista, rivista, letta, riletta, corretta; è spaventevole! Ma quando si vuol raggiungere la bellezza semplice del Vangelo, superare il Vicario di Wakefield e mettere in azione l’Imitazione di Gesù Cristo bisogna lavorare, e sodo!». La sua fiducia nel valore del libro e nel successo che lo attende cresce di giorno in giorno. L’inseguitor di chimere si esalta, non senza un po’ di ridicolo. «Alla fine di questa settimana — scrive il 2 d’agosto a M.me Carraud — voi leggerete quest’opera magnifica, e vedrete a che punto ho potuto arrivare. In fede mia, credo di poter morire in pace. Ho fatto pel mio paese una gran cosa. Questo libro, a mio credere, vale più che delle leggi promulgate e delle battaglie vinte. È il Vangelo in azione. Quanti hanno già pianto alla confessione del Médecin de Campagne! M.me d’ Abrantès, che piange di rado, è scoppiata in lagrime al disastro della Beresina ...».

  Questi bei sogni svanirono rapidamente. Un processo con Mame cominciò a distruggere le illusioni dell’autore. Il pubblico stesso, non so per quali ragioni, si mostrò più che tiepido. Dove se ne andavano le quattrocento mila copie predette da Émile de Girardin? L’Accademia non giudica l’opera degna del premio Montyon. Balzac scrive alla Duchessa d’Abrantès: «Come? avete bisogno della mia autorizzazione per dir bene del Médecin de Campagne quando tutti ne parlano male, di loro privata autorità?». Nel gennaio 1834, dichiarava a M.me Carraud: «Il fiasco del Médecin de Campagne m’ha addolorato, ma mi son messo l’animo in pace e nulla mi scoraggerà».

  La posterità ha ben vendicato Balzac; anche da vivo egli ebbe la gioia di vedere la sua opera meglio compresa e parecchie volte ripubblicata.

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  La descrizione che Balzac dà di Voreppe e di quell’ angolo del Delfinato è rimasta, tutto sommato, abbastanza esatta. Ecco qui, press’a poco come egli l’ha dipinto, il villaggio «situato a mezza costa», sulle rive della Roise «torrente dal letto sassoso, ora asciutto, ora in piena per lo scioglimento delle nevi», un po’ al di sopra della vallata dell’Isère, nel suo bel quadro di montagne che gli sovrastano a picco, da tre parti. Ecco i tetti del borgo «adunati intorno ad un campanile che s’innalza a cono e la cui porta formava una graziosa prospettiva». Ecco la straducola «sassosa, a sinuosità» e l’albergo del Piccolo Parigi che forniva muli ai viaggiatori che si recavano alla Grande Chartreuse, prima che le vetture automobili fosser venute a turbare il silenzio delle vecchie foreste di San Bruno. Anche questo è reso assai bene: «Ora un mulino a sega mostra le sue umili costruzioni pittorescamente situate, la sua provvista di lunghi abeti senza scorza, e il suo corso d’acqua attinta dal torrente e condotta da gran tubi di legno rozzamente incavati dalle cui fenditure sfuggono una rete di rivoletti umidi. Qua e là casupole circondate da giardini pieni d’alberi fruttiferi coperti di fiori, risvegliano le idee che ispira una miseria laboriosa. Più lontano, case dai tetti rossi, composti di tegole piatte e rotonde abbastanza simili a scaglie di pesce, annunziano l’agiatezza dovuta a lungo lavoro. Finalmente sopra ogni porta, si vede la cesta appesa dove i formaggi son stati posti a seccare». Certo, Balzac ha, talvolta accomodata la sua descrizione pei bisogni del suo romanzo, ma ciò che troviamo non corrispondere alla realtà deriva specialmente dal fatto che Voreppe è molto cambiata da quando sono stati costruiti i quais della Roise e d’una nuova chiesa. Così, se non troviamo più la «duplice fila di pioppi» che dava «l’aspetto d’una strada regale» al lungo viale in linea diritta dal Chevalon al Fontanil, questo lo si deve al fatto che gli alberi sono stati divelti, una ventina di anni fa, su domanda dei proprietari le cui praterie e coltivazioni vicine soffrivano.

  Anche per i dintorni, i paesaggi di Balzac sono nell’ insieme abbastanza fedeli. Quando si sale sopra Vorreppe, sulla strada della Grande Chartreuse, si giunge al Colle della Placette e alla Spianata di Saint-Julien-de Retz da dove si gode la magnifica veduta celebrata dal Balzac. «Prendete la strada che sale disse il dottore — bisogna che giungiamo alla spianata. Da lì, domineremo le due vallate e godrete un magnifico spettacolo. A mille piedi circa d’altezza sul livello del Mediterraneo, vedremo la Savoja e il Delfinato, le montagne del Lionese e il Rodano».

  Il Médecin de Campagne è uno dei romanzi in cui si sente meglio quanto Balzac gustasse la campagna. È qui ch’egli dichiara «che l’amore per la natura è il solo che non deluda le speranze umane». E, dopo aver descritto un viale d’alberi, s'entusiasma: «Quante emozioni di cui la gente della città non ha neppure l’idea! Sentite i profumi esalati dalle gomme dei pioppi e dagli umidori del larice? Quali delizie!». È questo il grido d’ un uomo che, a sentire il Faguet, componeva paesaggi senza convinzione? La graziosa pittura che segue non è meno probante: «Essi andarono a passi lenti lungo un sentiero orlato da due aie di biancospino fiorito che spandevano un profumo penetrante, nell’ atmosfera umida della sera. I raggi del sole penetravano nel sentiero con una specie d’impeto che l’ombra projettata dalla lunga cortina dei pioppi rendeva anche più sensibile, e quei vigorosi getti di luce avvolgevano delle loro tinte rosse una casupola situata in fondo alla strada sabbiosa. Una polvere d‘oro sembrava fosse gettata sul suo tetto di stoppia ... S’incontrano nella vita all’aperto di queste soavità campestri e passeggere che ci strappano il voto dell’apostolo che disse a Gesù Cristo sulla montagna: «Piantiamo una tenda e rimaniamo qui».

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  Ho ritrovato a Voreppe la casa del dottor Benassis. È nota l’importanza che Balzac annetteva alla descrizione delle dimore dei suoi personaggi; egli dedicava a questo lavoro quel che il Le Breton, chiama «la pedanteria dell’osservazione». Non rimpiangeva, a proposito del Lys dans la vallée, di non aver potuto nominare ad una ad una le erbe che formano un prato? Così, egli non si credeva soddisfatto che quando aveva descritto ogni stanza d’una casa, notando i particolari più insignificanti. Certo, legami segreti si intessono spesso tra noi e la dimora che abbiamo scelta o che le circostanze ci hanno imposta. Accade anche che l’abitazione finisca col reagire sulle nostre abitudini, su i nostri modi di vivere e fin su i nostri caratteri; ma Balzac esagera la portata di queste influenze.

  Benché tutto sia stato più o meno messo sottosopra nella casa del dottore, dalla Congregazione che vi prese dimora dopo la sua morte e vi istituì delle scuole, l’essenziale della descrizione di Balzac sussiste ancora. Ritrovo il cortile d’ingresso, il giardino più in basso e le diverse porte d’entrata di cui parla il romanziere. Entro nel «salotto a quattro finestre di cui le une dànno sulla corte, le altre sul giardino», poi nella sala da pranzo dove Balzac si sedette forse di contro a Benassis che gli raccontava la sua esistenza e i costumi dei contadini del Delfinato. Senza dubbio il dottore, quel giorno, aveva fatto venir di cantina una bottiglia di quel famoso hermitage che Genestas pregiava tanto. Nelle due stanze le intavolature dipinte in grigio ricordate da Balzac sono state tolte, qualche anno fa; ho potuto vederle nell’angolo dove sono state poste a dormire.

  Certo, quelle tavole rustiche non avevano gran valore, ma l’insieme ne era molto decorativo. Fu l’autorità accademica — mi hanno detto — che volle questo inutile vandalismo, in virtù d’un regolamento che prescrive che le pareti delle scuole debbano essere frescate a bianco ...

  In un angolo del giardino, isolato dalla casa, si vede ancora il gabinetto del dottore, di cui non resta che il caminetto di legno che guarnisce un cantone smussato. La stanza è oggi abbandonata. Dei rami di bossolo stanno seccandosi, distesi al suolo. È proprio qui che esercitò la sua professione, per più di trenta anni, il medico immortalato da Balzac.

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  Il dottor Amable Rome era nato nel 1781 a La Grave, in quel triste villaggio delle Alte Alpi che ammonticchia le sue mura grigie sul pendìo d’una montagna, dinanzi alla gigantesca muraglia della Meije. Dopo aver terminati i suoi studi classici nel Collegio di Briançon, cominciò a studiar medicina alla Scuola Secondaria di Grenoble e terminò i suoi studi a Parigi, dove prese la laurea di dottore nel 1806. Preso domicilio a Briançon» vi organizzò la lotta contro il cretinismo che infierì in alcune vallate della regione, episodio che Balzac trasportò a Vorreppe. Il barone di Ladoucette, prefetto delle Alte Alpi, che lo aveva notato ed apprezzato, lo condusse con lui quando Napoleone lo nominò alla prefettura del dipartimento della Ruhr. Allorché la riva sinistra del Reno ritornò alla Germania, Rome non esitò a sacrificare la brillante situazione che si era creata laggiù, ma, invece di ritornare a Briançon, dove gli abitanti tuttavia lo richiesero con pubblica petizione, si stabilì a Voreppe e non tardò ad ammogliarvisi. Senza dubbio fu indotto a stabilirsi nel paese dalla famiglia d’Agoult, con la quale mantenne sempre le più affettuose ed intime relazioni. Il suo alto valore scientifico e morale lo fece quasi subito nominare medico dell’importante asilo d’alienati di Saint-Robert, direttore del servizio della maternità del dipartimento dell’Isère e professore d’un corso per levatrici.

  Ma nel 1830, ostile al nuovo governo, non volle conservare alcuna funzione ufficiale retribuita, ed abbandonò questi impieghi, malgrado le più vive istanze dell’amministrazione.

  Da allora, il dottor Rome si consacrò unicamente ai suoi ammalati di Voreppe e dei dintorni, andando due volte alla settimana a Grenoble, dove numerosi clienti lo aspettavano come il salvatore. Medico della Grande Chartreuse, vi si recava a cavallo ogni quindici giorni e quei padri gli riserbavano l’accoglienza più premurosa; nel 1828, il priore dell’ordine gli presentò un diploma che assegnava privilegi e favori speciali per lui e la sua famiglia. Egli era anche medico del convento di Chalais, vecchio priorato del XII° secolo fondato da Sant’Hugues sulla montagna che domina Voreppe; il padre Lacordaire lo comprò nel 1844 così che rapporti continuati si strinsero tra il dottore ed il celebre domenicano.

  Più ancora della sua scienza e del suo valore professionale, la bontà e la generosità del dottore lo rendevano una specie di personaggio leggendario. La gente si fermava al suo passaggio e lo salutava come un santo laico. «Via via che Benassis avanzava, le donne, i bambini e gli uomini si facevano subito sulle loro porte; gli uni si toglievano di capo il berretto, gli altri gli davano il buon giorno; i piccini schiamazzavano saltando intorno al suo cavallo, come se la bontà della bestia fosse loro nota come quella del padrone. Rome non chiese mai il pagamento delle sue visite, mai volle prenderne nota, «Ho poca memoria — diceva — mi succederebbe di non cancellare una somma pagata e i miei eredi potrebbero richiederla una seconda volta». Alcune famiglie ricche gli fecero regali importanti: vino, mobili, una casa, un podere, dei campi; ma egli impiegava tutte le sue rendite nell’acquisto di medicine, di cibi e di abiti per i suoi clienti poveri. Un giorno lo incontrarono che rincasava per una strada insolita; aveva regalato la sua camicia per fasciare un neonato. Nella sua casa di Voreppe, la biancheria doveva essere continuamente rinnovata, perché egli portava via lenzuola e salviette da dare ai malati. Ogni settimana, una infornata di pane era riservata ai poveri del paese. «Mai — dichiarò sulla sua tomba il sindaco di Voreppe — egli contava le sue visite; mai richiedeva salari. Dai ricchi riceveva quel che volevano dargli; dai poveri rifiutava tutto; dai suoi amici non voleva che l’amicizia. Non domandava nulla e tutto prosperava nella sua casa. Mai vi era entrato l’obolo del povero, mai il frutto dell’intrigo e della ciarlataneria, mai il provento di consigli interessati, ma sempre i doni della riconoscenza». Non è la parafrasi della dichiarazione che, diciassette anni prima, Balzac poneva in bocca al dottor Benassis: «I ricchi non potrebbero comprare il mio tempo: esso appartiene ai poveri di questa vallata. Non voglio nè gloria, nè fortuna; non domando ai miei malati nè lodi, nè riconoscenza. Il danaro che mi darete sarà versato ai farmacisti di Grenoble per pagare le medicine indispensabili ai poveri del cantone».

  La memoria del dottor Rome è ancora viva a Voreppe; i vecchi del Comune si ricordano ancora il medico che partiva per la Grande Chartreuse; i giovani lo conoscono per i ricordi ch’egli ha lasciati. Credo che interrogando gli uni e gli altri si riuscirebbe a trovar l'origine della maggior parte degli aneddoti narrati da Balzac.

  Benassis parla del regalo d’un magnifico cavallo che gli è s'tato fatto. «Un padre ha creduto di pagarmi così la vita della sua figliuola, una delle più ricche ereditiere d’Europa, che ho trovata moribonda sulla strada della Savoia. Se vi dicessi come ho guarito questa fanciulla, mi prendereste per un ciarlatano». Secondo la tradizione che ho raccolta presso la famiglia del dottore, il dono di questo superbo cavallo — Rome aveva infatti la passione dei cavalli — gli sarebbe stato fatto dal padre d’ una signorina, colpita da una malattia nervosa che non si riusciva a vincere. Il dottore ordinò un bagno e disse alla ammalata che se, dopo un certo tempo, essa avesse visto dei piccoli globuli salire alla superficie, sarebbe stata guarita. Fece mettere nell’acqua non so quale sostanza che produsse l’effetto voluto e la signorina ne provò un’emozione così violenta che fu guarita. Il dottor Rome impiegava spesso la suggestione per curare le malattie nervose ed otteneva effetti sorprendenti, che, al principio del secolo scorso, potevano ancora esser presi per miracoli e non facevano che accrescere la sua reputazione. Così per l’episodio del bracconiere.

  «Vedete — diceva Benassis — l’uomo che mi ha sparato una fucilata. Se io esprimessi il desiderio d’esser sbarazzato di qualcuno, egli lo ucciderebbe senza esitare». È la trasposizione di un avvenimento che aveva fatto molto rumore nel paese. Una sera che Rome ritornava in vettura da un giro di visite, un individuo, balzato alla testa del cavallo e minacciando il dottore, gli domando la borsa o la vita. Rome, che aveva sempre una pistola per le sue gite notturne, tirò un colpo in direzione del malfattore che prese tosto la fuga. L’indomani, un cliente si presentò al suo gabinetto per farsi curare una ferita d’arma da fuoco. Egli riconobbe l’uomo che lo aveva assalito e lo curò con zelo speciale, lo nutrì per vari giorni e gli procurò del lavoro. Costui ebbe d’allora in poi una riconoscenza infinita pel dottore, che si rallegrò spesso di avere agito così. «Se lo avessi consegnato alla giustizia — diceva — ne avrei fatto un forzato; accogliendolo e interessandomi di lui, ne ho fatto un onesto uomo».

  Anche la Fosseuse, probabilmente, si ritroverebbe come si ritrova Janvier, il buon curato del romanzo. Forse Balzac ha desinato con l’abate Marchand nella piccola sala da pranzo di Voreppe. Era il migliore dei sacerdoti, il grande amico e confidente di Rome, che divideva fraternamente con lui la maggior parte dei regali che egli riceveva. Il giorno nel quale fu battezzato il figlio del dottore, il bravo curato volle egli stesso suonare le campane e ci si mise con tanto ardore che si spaccò la campana.

  Si comprende l’attrattiva che dovettero avere per Balzac Voreppe e la bella figura del dottor Rome. Abbiamo già visto più sopra che egli scrisse con entusiasmo il suo romanzo in tre o quattro giorni, di ritorno da una rapida escursione nel Delfinato. È molto se cerca un canevaccio ove ordire un intrigo dando al dottore delle avventure sentimentali che non formano davvero la miglior parte del libro. Senza dubbio egli ha dato al suo Benassis dei lineamenti che non sono di Rome. La signora Surville ci parla di un dottore di L’Isle-Adam, molto amato e molto rimpianto, vero benefattore del paese, di cui Balzac vide le esequie nella sua giovinezza e del quale dovè serbare il ricordo. D’altra parte, egli stesso scrive in una lettera a sua sorella mandata da Vierzschovnia, il 30 aprile 1849; a proposito delle soffocazioni e delle palpitazioni che lo fanno terribilmente soffrire da parecchie settimane: «Fortunatamente c’è qui uno dei primi allievi del famoso Franck, l’originale del mio Médecin de Campagne, e dopo il mio ultimo attacco l’ho consultato». Balzac, infatti, non copia servilmente un modello. Egli ha troppo fuoco, troppa immaginazione per confinarsi, come tanti romanzieri naturalisti o altri, nella analisi pura e semplice d’un personaggio, l’umanità del quale gli forniva il tipo. Egli lo prendeva per punto di partenza, ma subito ingrandiva, allargava, generalizzava il suo eroe; è così che si creano i capi-lavori di tutti i tempi e non solamente di un momento determinato.

  Come ho già detto, vi erano, verso il 1830, taluni medici la vita dei quali non era che un incessante e disinteressato sacrificio. Balzac ha dovuto conoscerne parecchi, ed ispirarsi a ciascuno di essi; ma senza dubbio il dottor Rome fu il suo principale modello e gli offrì l’idea del suo romanzo. Il momento e le condizioni nel quale lo scrisse, immediatamente dopo una corsa alla Grande Chartreuse, la tradizione famigliare presso i discendenti del dottor Rome che parlano ancora della visita dello scrittore a Voreppe, l’esattezza delle descrizioni dei luoghi e dei personaggi lo provano con sovrabbondanza. Del resto, nella biografia che ella ci ha lasciato, la sorella, parlando dei viaggi di suo fratello, dichiara: «Congedandosi da noi, ci diceva: Io parto per Alençon, per Grenoble, dove dimorano la signorina Cormon, il signor Benassis …».

  E’ infinitamente probabile che Balzac abbia inteso parlare del dottor Rome in casa dei d’Agoult. Costoro, specialmente quando M.me de Flavigny (Daniel Sterne) divenne marchesa d’Agoult, ricevevano tutto ciò che Parigi contava di illustre nelle arti, nelle lettere e nella politica. Numerosi distinti visitatori furono egualmente ospiti del loro castello di Beauplan, a Voreppe. Rome, che aveva sempre il suo posto a tavola a Beauplan, fu così in relazione con le personalità più celebri dell’epoca, qualcuna delle quali dovette avere l’occasione di segnalare al romanziere la sua fisionomia curiosa ed appassionante.

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  Il dottor Rome morì nel 1850, di una congestione cerebrale. Con la strana prescienza che egli aveva qualche volta, Balzac diciasette anni prima, ha quasi raccontato questa morte e descritta l’emozione che essa produsse.

  «Quando all’indomani mattina, la sua morte fu conosciuta, fu uno spettacolo incredibile. Il cortile ed il giardino furon pieni di gente. Erano pianti e grida! Infine nessuno andò più al lavoro, ognuno raccontava ciò che il dottor Benassis gli aveva detto, quando gli aveva parlato per l’ultima volta; uno narrava tutto il bene che gli aveva fatto; i meno commossi parlavano per gli altri; la folla cresceva di ora in ora ed ognuno voleva vederlo. La triste notizia si è diffusa prontamente. Quei del cantone e quei dei dintorni hanno avuta la medesima idea: uomini e donne, ragazzi e ragazze, sono accorsi al borgo da dieci miglia all’ingiro». Ma quello che non aveva punto preveduto Balzac fu che bisognò portare attraverso tutte le strade del villaggio la bara aperta per permettere agli abitanti che si affollavano lungo il percorso di contemplare per l’ultima volta il viso del buon dottore.

  Ho voluto terminare il mio pellegrinaggio con una visita al cimitero di Voreppe. Luogo di riposo commovente! Sul pendìo d’una collina alti abeti ombreggiano le tombe che circondano la chiesa romana di cui parla Balzac. Molto abilmente e fedelmente restaurata da un architetto — nipote del dottor Rome — essa ha ritrovato il suo aspetto del XII° secolo. All’interno il suolo degradante della navata, che segue il declivio del terreno, le dà una fisonomia particolarissima. Ai lati, per solo ornamento, si allineano le arcate delle tombe appartenenti alle vecchie famiglie del paese. Il dottore non è là. Egli dorme il suo ultimo sonno sotto i grandi alberi in mezzo al magnifico quadro di monti che dominano Voreppe. La sua tomba è semplice e nuda. Uno stretto bassorilievo dello scultore di Grenoble, Sappey, rappresenta gli attributi della medicina. In una tomba perfettamente eguale, accanto alla sua, riposa suo figlio che gli succedette come medico a Voreppe e vi morì come lui. Rome non ha la piramide di terra erbosa alta venti piedi, nè l’immensa croce fatta con un abete, che Balzac innalza su i resti mortali di Benassis. La sua tomba non si distingue in nulla dalle sepolture vicine. E sulla pietra questa semplice iscrizione: Pertransiit benefaciendo.

  E’ proprio l’umile monumento che si conveniva a Rome. E qui, ad un tratto, nel silenzio di questo tiepido pomeriggio di luglio, io mi domando se non avrei dovuto rispettare l’anonimato di colui che rifiutò ogni gloria umana. «Ai cuori feriti l’ombra ed il silenzio» mette per epigrafe Balzac all’ inizio del romanzo. Ma il dottor Rome non fu un cuore ferito. Fu un gran cuore che non ebbe battiti che per il bene. Perché non evocar altro che i ricordi più torbidi, le colpe e le manchevolezze di coloro che ci hanno preceduti? Specialmente in que-(sic)[sti] tempi atroci, in cui l’uomo è un lupo per l’uomo, non è consolante il pensare che se l’umanità conta troppi Hulot e Nucingen, è stata lei a fornire a Balzac il modello di Benassis?


  Gam., Come viaggiano i segreti di stato, «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, Anno XVIII, N. 1, 1° Gennaio 1918, p. 76.

  La cultura tedesca, appoggiandosi alla selvaggia necessità delle armi, ha definito pregiudizî le virtù che non siano espressioni della forza e della violenza, e tutto il loro complesso, per dirla con Balzac, pura e semplice ferravecchiamologia!


  Andrea Gustarelli, Francia nuova, «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno I, N, 3, Giugno 1918, pp. 115-117.

  [Su: Luigi Tonelli, Lo spirito francese contemporaneo, cfr. 1917].

  p. 116. […] l’esame della vita e del carattere di Julien e di Vautrin basta al Tonelli perch’ei ne derivi la “sincera e profonda amoralità” del Balzac […].


  Hec, Il Mondo che si gira e il mondo che si gira. Taccuino di Hec. Agosto 1918, «In Penombra. Rivista d’arte cinematografica», Roma, Anno 1°, Fascicolo 4°, Settembre 1918, pp. 168-171.

  p. 168. Avendo quindi letto che al Cinema Tetro Corso si proiettava una pellicola della “Tiber”, La donna abbandonata tolta dal romanzo di Balzac, con Hesperia e con Tullio Carminati che – diceva l’avviso – “piace tanto alle signore” ho detto a me stesso:

  – E chi ti dice che il Carminati non possa piacere anche ai signori?


  Ulrico Imperi, Le Prime Visioni. “La Donna Abbandonata” di H. de Balzac al ‘Gran Cinema Teatro Corso’, di Roma, «La Vita Cinematografica. Organo indipendente dell’industria cinematografica italiana», Torino, Anno IX, N. 27-28, 22-30 Luglio 1918, pp. 75-76.

  Martedì 16 corrente al Gran Cinema Teatro Corso, abbiamo avuta la prima visione di questo film edito dalla «Tiber» ed interpretato da Hesperia e Tullio Carminati.

  La première di questo lavoro, da molto tempo annunciato, ma non ancora proiettato in Italia, era attesissima. La proiezione di un film interpre­tato da Hesperia, la beniamina del pubblico fine ed aristocratico della capitale, richiama sempre al cinematografo una folla sceltissima. Non è da meravigliarsi perciò, se, nonostante il caldo addirittura asfissiante di questi ultimi giorni, la sala del Cinema Corso presentasse, martedì sera, l’aspetto delle grandi premières invernali.

  Il film ha ottenuto un magnifico successo.

  Portare sulla scena muta una novella di Balzac, è rimettere sullo schermo una di quelle favole romantiche che hanno formata la gioia del pub­blico di due o tre anni fa, e che perciò sanno di stantio e i più moderni vorrebbero banditi dal­l’arte muta.

  Però fra tanta pletora di soggetti di vita vissuta, di féeries, di commediole così dette moderne, di tanto in tanto un po’ di romanticismo di quello buono — non fa male. Almeno così sembra la pensi il pubblico del cinematografo, data la buona accoglienza fatta in questo ultimo tempo a qualche scenario del genere. La donna abbandonata ha il merito (per la riduzione cinematografici intendo) di essere una novella piana; senza grande artifizio, molto sentimentale, coefficiente quest’ultimo di sicuro effetto, specie sul reparto femminile degli spettatori. I personaggi della favola sono, come sempre nella letteratura del grande roman­ziere francese, degli eroi a temperamento singolare e non comune.

  Clara de Beauséant, vinta da una passione irre­sistibile per un avventuriero, un violinista spa­gnuolo, sacrifica per lui il marito, il rango e l’onore, e lo segue nelle sue peregrinazioni. Volgarmente abbandonata, non ancora trascorso un anno dalla sua fuga, sì è imposta la più stretta clausura in un castello solitario.

  Gastone di Neuil, mena a Parigi una vita d’in­ferno, tanto che la sua salute se ne risente ed il medico gli ordina un periodo di assoluto riposo nel mezzogiorno. Dove andare? Gastone si ricorda di avere a Curcelles dei vecchi zii, dei quali sarà un giorno l’unico erede, e che non visita da anni. Al verde, nella tranquilla villa degli zii, in quindici giorni di ozio forzato, Gastone si è rimesso in salute, e siccome a Curcelles non c’è nulla da fare, vagabonda pei campi e per le strade di cam­pagna.

  È così che un giorno, il caso lo porta innanzi al misterioso castello della villa di Clara.

  A venticinque anni si crede ancora alle princi­pesse infelici che attendono un consolatore, e Ga­stone trova il modo di penetrare nel castello. Messo alla porta, con una frase di spirito riesce a passare un quarto d’ora vicino a Clara. È il quarto d’ora delle confidenze, e Gastone lascia il castello innamorato cotto. Clara non è indifferente, ma è rimasta troppa scottata al giuoco dell’amore, e sentendosi di nuovo presa, parte, e si va a nascon­dere lontano. Ma Gastone e non si dà per vinto, l’insegue, riesce a scoprire dove essa si è ritirata, e deludendo la sorveglianza dei servi, le si presenta di nuovo innanzi, e: «Avete potuto pensare die vi avrei lasciata partire senza tentare di raggiungervi?».

  Il giorno dopo ripartono, ma insieme, verso il paese del sole e dell’amore. E sono tre anni di fe­licità piena ed assoluta. Poi, un fulmine a ciel se­reno. Il babbo di Gastone è morto improvvisa­mente nel vecchio castello di Mannerville. Il posto di Gastone è ora là, vicino alla mamma vedova, là dove vissero i suoi avi.

  Clara si è installata in una proprietà confinante a quella di Gastone, e là, in una stanza ove Clara ha riuniti i ricordi dei loro viaggi, i due amanti ri­vivono ogni giorno i loro tre anni d'amore.

  Ma la vecchia contessa di Neuil non vede di buon occhio questa relazione del figlio. Essa vorrebbe che Gastone si formasse una famiglia, e tanto fa e tanto dice, che Gastone crede ormai spenta la sua passione per Clara e si lascia convincere.

  Gastone ha sposato la signorina della Rodière, e Clara, abbandonata di nuovo, si è isolata nel suo dolore. Tre mesi dopo Gastone è di ritorno a Mannerville. Egli aveva creduto di poter dimenticare Clara: aveva creduta spenta la sua passione, ma si dovè convincere che lontano da lei non può vivere, cerca riavvicinarla e il dramma precipita. Clara è inaccessibile, e Gastone, disperato, cerca la pace in quella stanza dei ricordi, di cui ha con­servata la chiave.

  Dopo le notti insonni, Clara era solita, all’alba, scendere in quella stanza cercando rivivere qualche momento della passata felicità. Quella mattina la porta del padiglione resiste alla dolce pressione, sembra racchiuda un mistero che non vuol svelare, e quando finalmente cede, Clara si trova innanzi, inanimato, l’uomo che le diede la più grande gioia e il più grande dolore.

***

  Molto romantico, tutto ciò, e di una difficilissima riduzione cinematografica, specie volendo farlo rivivere al giorno d’oggi. Ma ogni difficoltà è stata felicemente superata, e con tanta maestria, che il soggetto cinematografico, pur rimanendo fedele alla novella di Balzac, si presenta così fresco, che sembra scritto ora e appositamente pel cinematografo. Il pubblico ha seguito con crescente interesse le vicende dell’eroina, e se n’è veramente appassio­nato. Le scene si susseguono concatenate in modo da rendere il soggetto assai comprensibile, senza l’ausilio delle didascalie, che sono poche e ottimamente redatte.

  Basta dire che il soggetto è interpretato da Hesperia e Tullio Carminati, e che attorno a questi due principalissimi sono la Carloni-Talli, Diomira Jacobini e gli altri artisti della «Tiber», per concludere: interpretazione ottima. […].

  Affiatatissimo a con la sua attuale compagna di la­voro, [T. Carminati] ha intuito come lei il romantico carattere dell’eroe di Balzac e l'ha modernizzato in modo meraviglioso.

  Hesperia e Carminati hanno dimostrato, in questa Donna abbandonata, che si può fare dell’arte vera anche al cinematografo.

  La messa in scena del film è superiore ad ogni elogio. Gli ambienti sono riprodotti con scrupolosa ricerca di particolari, e gli esterni meravigliosi.

  La «Tiber» è solita editare i suoi films in una smagliante veste fotografica. In questo film la fotografia e la tecnica, dovute a quel valoroso ope­ratore che è il Bini, è veramente meravigliosa. Non un quadro che non sia perfetto. Interni otti­mamente illuminati, ed esterni tutti in controluce, di rara precisione.

  Ottimi gli effetti di luce artificiale.

  Questo film, che ha avuto un così ottimo successo alla première, reggerà per molti giorni il cartello del Gran Cinema, poiché alle repliche il concorso del pubblico è veramente straordinario ed insolito per una stagione come questa.


   Ger. L., Libri di cui si parla. Francia, «I Libri del giorno», Milano, Fratelli Treves, Editori, Anno I, N, 6, Settembre 1918, pp. 300-302.

  p. 300. La Librairie Larousse di Parigi, ad esempio, dà fuori proprio ora, nella serie letteraria della sua Bibliothèque encyclopédique et illustrée, egregiamente diretta da Georges Moreau, un manipolo di bei volumi, che meritan conto d’esser segnalati al pubblico italiano.

  Se, tra cotesti volumi, basta accennare alla nitida e diligente ristampa di La Rabouilleuse del Balzac, il romanzo che vide primamente la luce nel 1841 (dedicato a Charles Nodier, allora bibliotecario dell’Arsenal), ed entrato poi a far parte delle Scènes de la Vie de province nella Comédie Humaine, col titolo: Un Ménage de garçon; occorre però richiamare l’attenzione del lettore sulle Oeuvres choisies de Ronsard […].


  B. M., Spionaggio tedesco, «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, Anno XVIII, N. 2, 1° Febbraio 1918, pp. 151-152.

  p. 151. La spia, nel senso classico della parola, potrà fornire il tema ad un romanzo di Cooper, e si chiamerà Jakal in Dumas, Javert in Vittor Hugo e Corentin in Balzac, o potrà dare a Sardou lo spunto di Dora, o a Bayard quello di Michele Perrin; ma non è la spia da temersi.


  Margutte, È morto Giorgio Ohnet, «La Gazzetta di Trieste», Trieste, Anno III, N. 723, 9 Maggio 1918, p. 3.

  Inutili fantasticare se questa ricchezza ottenuta da Giorgio Ohnet con le sue opere sia stata giusta, meritata o no. Ac­cade in letteratura come negli altri cam­pi, come nella musica, come nella pittu­ra e poi giù fino al commercio e fino alla burocrazia. Certo, se si pensa che Ono­rato Balzac morì povero, verrebbe voglia di imprecare all’ingiustizia del destino.


  André Maurel, Gli scrittori della guerra. Paolo Bourget, «Rivista delle Nazioni Latine», Firenze, Anno II, N. 10. 1° Febbraio 1918, pp. 168-200.

  pp. 194-196. Si Taine cependant était le maître de son cerveau, les maîtres de sa plume se trouvaient, tandis qu’il cherchait à surprendre le secret de leur art — et il le surprit souvent — lui souffler les mêmes aromes empoisonnés. Je veux dire Honoré de Balzac et Barbey d’Aurevilly.

  L’art de Paul Bourget, en effet, forme le plus heureux mé­lange de l’art de ces deux-là. Barbey fut souvent visite par Bour­get. Et on pourrait attribuer à Barbey le même genre d’influence qu’à Taine. Tenons-nous aux livres. C’est, chez Bourget et chez Barbey, le même élan dans le récit, la même manière narrative de présenter les faits, cette sorte de fébrilité continuelle, comme un battant de cloche. Et toujours un grandissement des personnages, même les plus humbles, une invocation fréquente, une volonté de persuader l’extraordinaire bien plus que l’application à le rendre. Le procède de Barbey apparaît nettement chez Bourget. Si Barbey en use avec plus de virtuosité et d’ampleur, Bourget s’en sort avec plus de profondeur et de réalité.

  C’est que Balzac a passé aussi par là. Depuis longtemps Bourget nous promet un livre sur Balzac. Je suis bien sûr qu’il ne tardera pas à nous le donner, parce que Bourget est arrivé à l’époque de son développement où il peut le mieux parler du dieu-roman. A Balzac, Bourget doit la composition générale de son œuvre, l’enchevêtrement du récit, les «départs» dont je parlais tout à l’heure, la qualité sociale des personnages auxquels il s’attache, les problèmes qu’il cherche à résoudre, bref, son souci général de littérature et l’ordonnance de son discours. La Femme de trente ans est le modèle des premiers romans de Bourget et la Physiologie de l’amour moderne procède directement des Illusions perdues, non pas en elles-mêmes, mais en leurs héros cyniques et mercantiles. Le célèbre et définitif Claude Larcher, d’où vient-il si ce n’est d’un Rastignac ou d’un Rubempré ? C’est Rastignac transposé en Rubempré rassis.

  Balzac et Barbey, qui fascinèrent Bourget à l’égal de Taine, étaient monarchistes et catholiques. Et ce n’est pas en vain que Bourget avait un esprit logique qui allait jusqu’au bout de sa pensée. Taine ne pourvoyait pas au remplacement de ce qu’il avait détruit. Balzac et Barbey venaient miraculeusement suppléer à ce manquement. Barbey! on sait de reste son attitude sociale. Balzac avait dit : «J’écris à la lumière de ces deux vérités, la religion et la monarchie». Bourget fut touché de la grâce: Bal­zac et Barbey germèrent sur un terrain admirablement préparé par Taine. Et Bourget, résolument, sur la table rasée par Taine, éleva le monument dont Balzac et Barbey, ses deux autres maîtres, lui fournissaient les matériaux. Par raisonnement, Bourget devint monarchiste-catholique.

  Un troisième élément intervint alors. Car, en ces matières, la raison ne suffit pas. Il y faut aussi du sentiment. La culture anglaise de Bourget le prédisposait, d’ailleurs, à celui-ci. Etant donné la religion, la monarchie et l’Angleterre, Bourget devait, nécessairement tourner les yeux vers l’aristocratie. Ajoutez le cadre habituel de ses romans, inspiré de Balzac sans doute, mais le sien tout de même, comme de tous les autres romanciers, sauf Emile Zola, ajoutez une réelle distinction d’âme qui recherchait cette distinction si ce n’est dans les cœurs, du moins dans les manières ; peut-être aussi — car Bourget est un homme comme les autres — l’orgueil légitime de devoir à la qualité de son esprit des relations auxquelles son enfance n’était pas préparée - des goûts élégants et délicats ; la griserie qu’apporte toute gloire, même légitime, et, enfin, avec les prédispositions philosophiques enfantées par Taine, Balzac et Barbey, vous aurez à peu près tout le composé du Bourget moderne. Tout porte à aimer la noblesse, il fut trop heureux de justifier son affection par sa philosophie. Celle-ci ne se serait pas pliée à sa prédilection, mais, puisqu’elles étaient d’accord, il s’abandonna. Et, comme il va jusqu’au bout de ses idées et de son système, de même qu’il devint monarchiste-catholique, il devint «Blanc d’Espagne», et il alla à la messe. Il est logique et sincère.

  Ne lui reprochons donc rien, regardons-le. C’est un beau cerveau, une âme charmante et chaleureuse. Il est agréable de contredire ceux qu’on estime. Querellons Paul Bourget, mais ne cessons pas de l’estimer ni de l’aimer.


  Camillo Montalcini, Ruggero Bonghi e i suoi discorsi parlamentari, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CXCIV – Della Raccolta CCLXXVIII, Fascicolo 1109, 1° aprile 1918, pp. 260-276.

  p. 263. Ma della facoltà e del diritto di non restare recisamente abbarbicati alla propria opinione, esperienza e coscienza insegnano a far il minor uso; già troppo vacillante è la fiducia nelle convinzioni dell’uomo pubblico, poiché essenzialmente per la politica si può ripetere con Balzac «les hommes n’ont pas besoin de maître pour douter».[2]


   Alfredo Niceforo, Confidenze degli autori. “La Misura della Vita”, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno I, N. 5, Agosto 1918, pp. 80-81.

  p. 81. Ma che cosa avviene per i fatti non direttamente misurabili? Occorre cercare artificio di misura, o ricorrere a pochi sintomi misurabili ed espressivi? Il tipo dell’epigramma di Marziale, poniamo, o il periodare del Balzac e del Voltaire […] possono essere, in un certo senso, trattati con questo metodo quantitativo?


  Fernando Palazzi, Confidenze degli autori. I “Contes drolatiques”, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno I, N. 1, Aprile 1918, p. 12.

  Sto traducendo per la collana dei «Classici del ridere» i «Contes drolatiques» del Balzac[3], il gaio e grottesco festone, che secondo le intenzioni dell’autore, doveva essere una specie di fregio architettonico nel grande edificio della Commedia Umana. L’opera eccezionalmente difficile di traduzione (dovendosi tradurre dal francese antico in antico italiano, per restar fedeli allo spirito e alla bizzarria del testo) era stata dall’editore affidata al compianto amico Giosuè Borsi, che la iniziò infatti con lo slancio e l’entusiasmo ch’egli soleva mettere in ogni cosa sua e qui, per speciali simpatie, mise anche maggiore che nelle altre cose. Ma poi venne la guerra, le gloriose fatiche della trincea, la morte eroica sul campo […]. Allora l’editore Formiggini, ricordando le non poche affinità spirituali che mi legavano a Lui di una profonda amicizia, volle che io seguitassi l’opera lasciata purtroppo incompiuta. […] Seguo naturalmente, nel tradurre, gli stessi criteri che già erano stati fissati dal mio precursore col solito suo gusto signorile della forma e con rara intuizione critica del testo. Quali siano questi criteri il pubblico vedrà a suo tempo. In una cosa sola io mi scosto dal Borsi; e, si capisce, il più lievemente che posso: egli tradusse le novelle ridanciane in un soave italiano classico e trecentesco: io nell’italiano più popolare ma forse più vivace del Doni e dell’Aretino; perché ho pensato che la prosa anticlassicheggiante e grossolana di costoro meglio corrispondesse al rozzo francese antico degli autori pre-rabelaisiani preso per modello dal Balzac e che tanto era disprezzato dall’elegante Boileau, appunto perché scorretto e troppo ardito e indisciplinato. Ciò mi permette di raccogliere, in una specie di vocabolario comico in azione, tutte le più colorite espressioni burlesche, che non ostante la venerabile patina d’antichità sono tuttora fresche d’un irresistibile riso e d’una bella efficace originalità pittoresca. Spero di poter così dare un’idea la meno pallida possibile, del maraviglioso orgiastico capolavoro balzachiano, per compensare alquanto il lettore delle pure gemme stilistiche che gli avrebbe dato il Borsi e che io, oimè, non posso dargli in vece sua. – Peccato che tra queste pagine buffone, quando più sarebbe necessario lottare in spensierata e chiassosa giovialità col Balzac, mi sento invece una gran voglia dentro di piangere! […].


  Giovanni Rabizzani, Notizie bibliografiche. Letteratura contemporanea. Sfinge. “La costola d’Adamo”. Milano, Treves, 1918 […], «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, Anno I, N. 7, Ottobre 1918, p. 108.

  La vita moderna! Rappresentarla nei suoi contrasti è proposito da tentare un Balzac; salvo che esige uno schieramento di mezzi […] ed una forza di personaggi, quali Sfinge non ha pensato di dover porre in atto per darci l’illusione artistica cui ambiva.


  F. Umberto Saffiotti, Rassegna delle pubblicazioni. Metodologia delle scienze sociali. Recensioni. Alfredo Niceforo, Metodo statistico e documenti letterari (Estratto dalla “Rivista d’Italia”, Agosto 1017). Roma, 1917. — I caratteri descrittivi della fisonomia umana e la loro trattazione statistica (Estratto dall’”Archivio di Antropologia Criminale”, ecc., Vol. XXXVII e XXXVIII, 1910-1017). Torino, 1917. Pag. 61, «Rivista italiana di sociologia», Roma, Anno XXII, Fasc. I-II, Gennaio-Giugno 1918, pp. 215-220.

 

  pp. 216 e 218. A questo proposito il Niceforo si ferma a costruire la seriazione della lunghezza del periodo (in funzione del numero delle parole) nel Voltaire, nello Chateaubriand e nel Balzac: per quest’ultimo fa un confronto tra un’opera della giovinezza e un’opera della maturità (Jean-Louis, da un lato, e Splendeurs et misères des courtisanes, dall’altro), mostrando come appaia diverso, in quanto alla lunghezza del periodo e al modo con cui si dispongono le due seriazioni, il periodare del Balzac giovanissimo — abbondanza di periosti brevissimi e uso di lunghissimi — e quello di Balzac maturo — che si rende più composto in un periodare di media lunghezza. […].

  Negli scrittori moderni già Walter Scott abbonda nelle descrizioni Un troppo particolareggiate e minuziose, e poi Balzac, Flaubert e Zola. La descrizione fisica dei personaggi è fatta con cura minuziosa in Balzac, e ciò come espressione della convinzione dell’intimo rapporto esistente tra caratteri fisici e morali, che il Balzac applica nei suoi personaggi (e della quale convinzione il Niceforo cita passaggi significativi delle opere balzachiane, notando la contraddizione in cui cade nell’attribuirne la determinazione ora all’innato temperamento, ora all’ambiente). Opportunamente nota il Niceforo l’importanza di un esame critico di queste descrizioni del Balzac riguardo alla interpretazione antropologica criminale dell’uomo. Anche nei tecnici dell’arte, nei fisiognomici e nei naturalisti si possono ritrovare gli elementi per una precisa descrizione fisiognomica dell’uomo.

 


  Edmondo Trombetta, Questioni d’attualità, varietà, notizie. Democritus ridens, «Giornale di Medicina generale», Roma, Anno LXVII, Fascicolo XII, 31 Dicembre 1918, pp. 1104-1113.

 

 p. 1109. Se è vero che fra le riforme del «dopo guerra» vi sarà anche quella del pesante e complicato macchinario burocratico, dovremo rallegrarcene come di una delle più ardite e salutari innovazioni dei nostri tempi, che neppure la rivoluzione dell’89 riuscì ad imporre ai governi d’allora. Infatti, nei primi decenni del secolo scorso, ossia pochi anni dopo che quel ciclone era passato sull’Europa, Onorato di Balzac scriveva il suo notissimo romanzo Les employés, nel quale la piaga della burocrazia è messa al nudo con quella sincerità e con quel coraggio, ch’eran propri dell’immortale autore de La comédie humaine. A proposito: avete letto quel romanzo? Se non l’avete letto, leggetelo subito; e vi assicuro che rimarrete profondamente sorpresi al vedere che, a quasi cent’anni di distanza, le cose non sono affatto mutate. Ah! come li conosceva bene il Balzac quegli ambienti nei quali l’ambizione più sfrenata si nasconde sotto la maschera della subordinazione gerarchica, e l’invidia e il rancore si trasformano, a furia d’ingegnosi artifizi, in contorcimenti ossequiosi della spina dorsale! Il lavoro intanto procede alla peggio, a sbalzi, a scosse , a traballoni, con lunghi intervalli di broncio (oggi si dice «ostruzionismo») , in cui gli impiegati dormono a gomitello sui tavolini e le «pratiche» si van ricoprendo d’uno spesso strato di polvere fra gli sbadigli degli archivisti e degli uscieri.



  Ettore Veo, Il Romanzo del Cinematografo, «In Penombra. Rivista d’arte cinematografica», Roma, Anno 1°, Fascicolo 4°, Settembre 1918, pp. 164-167.

  pp. 164-165. Alla «Fantasio» prima che l’autunno volgesse nell’inverno, si lavorava alacremente. In un romanzo di Balzac si era trovata una parte «adeguata» - come diceva il Pisa – per l’Elide Giuliani e la Serrani, oltre che in questo lavoro, aveva da lavorare parecchio in un altro scritto apposta dal Silli per lei e ch’era intitolato «L’amore non invecchia». […].

  – E che altre novità mi rechi?

  – Che il lavoro di Balzac e il vostro sono terminati magnificamente nonostante tutto, e che io sono riuscito a girarli completamente.


Iconografia.


  Auguste Rodin, Testa di Balzac, in Michele de Benedetti, Il pensiero e la tecnica di Augusto Rodin, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CXCIV – Della Raccolta CCLXXVIII, Fascicolo 1107, 1° marzo 1918, p. 37.


Filmografia.


  Reginetta Isotta [da Le Bal de Sceaux di Honoré de Balzac]. Interpreti: Thea (Thea, detta Reginetta Isotta), Livio Pavanelli (Max), Eugenia Masetti, Mimì, Fulvia Perini, Roma, Cines Film, 1918.


  [1] Citazione tratta da Le Cousin Pons.

  [2] Citazione tratta dall’Avant-propos del 1842.

  [3] La traduzione della prima decina dei Contes drolatiques balzachiani, curata da Fernando Palazzi, sarà pubblicata dall’editore Formíggini nel 1920.


Marco Stupazzoni

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