giovedì 23 luglio 2020



1963

 

 



Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenie Grandet, avec introduction et notes par Elisa Denina, Milan, Charles Signorelli - éditeur, 1963 («Scrittori francesi», 60), pp. 152.

 

  Cfr. 1928; 1930; 1940.

 

 

 

Estratti in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Coup d’œil sur les rues de Paris, «Le Lingue nel mondo. Unica rivista italiana di cultura linguistica», Firenze, Valmartina Editore, Anno XXVIII, N. 8, Agosto 1963, pp. 353-355.

 

  Questo estratto desunto da Ferragus è preceduto dalla seguente nota introduttiva:

 

  Interprete efficacissimo della vita francese nella prima metà del secolo decimonono, Balzac comprese come pochi la forza divoratrice della società borghese emersa dalla Rivoluzione e dalla Restaurazione con strapotenti appetiti. Li suscitava e li scatenava l’aria di Parigi: là immense energie sorgevano e si spegnevano; là virtù e vigliaccheria si affiancavano: là affluivano a centinaia i giovani dalle provincie, ansiosi di saggiare la loro capacità di misurarsi con la fortuna. E là, nel 1814, il giovane Honoré s’era trasferito da Tours.

  La pagina qui riportata appartiene a Ferragus chef des Dévorants, scritto nel 1833, primo episodio dell’Histoire des Treize nelle Scènes de la vie parisienne: una delle grandi partizioni della Comédie Humaine.

  André Bellessort disse nel suo saggio su Balzac (1924): «Pour Balzac. Paris vit comme un énorme roman dont il ne cesse de tourner passionnément les pages; il avait le sentiment qu’il trouvait en Paris un collaborateur digne de lui: ses rues étaient des personnes humaines».


 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, La donna di trent’anni. Traduzione di Gianna Tornabuoni e Paolo Russo, Milano, Club degli Editori, (marzo) 1963 («Caleidoscopio», 21), pp. XIV-335.


  Struttura dell’opera:

 

  Honoré de Balzac, pp. V-XIV. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La donna di trent’anni, pp. 1-182;

  Il Gabinetto della antichità, pp. 183-331.


  Nella traduzione, a volte piuttosto personale, di Une Fille d’Eve (redatta verosimilmente da G. Tornabuoni) non compare la dedica a Louis Boulanger; la versione italiana de Le Cabinet des Antiques (dovuta a Paolo Russo) ci pare, al contrario, più fedele, corretta e aderente al modello francese.

 

 

  Honoré de Balzac, El Verdugo (Traduzione del Prof. Giuseppe Rigotti), in Conte di Gobineau, Emmelina innamorata. Traduzione e riduzione di Giuseppe Rigotti, Milano, Edizioni Leda, 1963 (?) («La Girandola»), pp. 105-122.


  Traduzione alquanto libera e scarsamente fedele al modello francese.

 

 

  Honoré de Balzac, L’Amica della moglie (Traduzione del Prof. Giuseppe Rigotti), Ibid., pp. 123-138.

 

  Si tratta della traduzione della Méditation 25. III. Des amies de pension, et des amies intimes tratta dalla Physiologie du mariage.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. A cura di Valeria Bianconcini, Bologna, Edizioni Capitol, (agosto) 1963 («Flaminia», 35), pp. 233.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Valentina Bianconcini, Honoré de Balzac, pp. 5-7. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Eugenia Grandet, pp. 9-229.

 

  Il romanzo è suddiviso in sei capitoli titolati secondo il modello dell’edizione originale Béchet (1833-1834); non è inserita quindi la dedica ‘A Marie’. La traduzione del romanzo balzachiano fornita da V. Bianconcini, il cui testo rimanda all’edizione definitiva Furne, si contraddistingue per un numero rilevante di scelte linguistiche e stilistiche piuttosto libere e approssimative rispetto al modello originale. È sufficiente, crediamo, fornire, come esempio, la resa in lingua italiana dell’incipit del romanzo:

 

  p. 1027 [cfr. Balzac, Eugénie Grandet, a cura di Nicole Mozet, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1976, t. III].

 

  Il se trouve dans certaines provinces des maisons dont la vue inspire une mélancolie égale à celle que provoquent les cloîtres les plus sombres, les landes les plus ternes ou les ruines les plus tristes. Peut-être y a-t-il à la fois dans ces maisons et le silence du cloître et l’aridité des landes et les ossements des ruines. La vie et le mouvement y sont si tranquilles qu’un étranger les croirait inhabitées, s’il ne rencontrait tout à coup le regard pâle et froid d’une personne immobile dont la figure à demi monastique dépasse l’appui de la croisée, au bruit d’un pas inconnu. Ces principes de mélancolie existent dans la physionomie d’un logis situé à Saumur, au bout de la rue montueuse qui mène au château, par le haut de la ville. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 9. Capita di vedere, in certe cittadine di provincia, case che inducono alla malinconia proprio come i chiostri più tetri o le lande più squallide o i ruderi più desolati, forse perché pare riuniscano in sé il silenzio claustrale, l’aridità delle lande, la decadenza dei ruderi. In esse v’è tanta quiete che un forestiero potrebbe crederle disabitate se d’un tratto non incontrasse lo sguardo scialbo e gelido d’una persona immobile che ha fatto capolino da un davanzale nell’udire un passo sconosciuto.

  Le medesime caratteristiche malinconiche si possono riscontrare in una casa di Saumur, posta in cima alla ripida salita che mena al castello, nel punto più alto della città.

 

 

  Onorato Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo, Bietti, 1963 («Collana Internazionale», N. 51), pp. 253.

 

  Cfr. 1924; 1928; 1929; 1931; 1932; 1936.

 

 

  Honoré de Balzac, La Sensitiva. Libera riduzione da: “Splendeurs et misères des courtisanes (Ester heureuse)”, «I Romanzi Diabolici», Roma, Anno I, N. 8, 25 Novembre 1963, pp. 127.

 

  Questa scadente riduzione del romanzo balzachiano è preceduta dalla seguente Premessa (pp. 3-4).

 

  Balzac è forse l’uomo che ha scritto di più. Non si contano i volumi usciti durante i vent’anni della sua prodigiosa attività, e se ad essi dobbiamo aggiungere anche quelli che pubblicò sotto gli pseudonimi di Horace de Saint-Aubin e di Lord R’hoone, possiamo dire di avere, grazie a lui, un quadro completo, meravigliosamente denso, di tutto un periodo di storia umana.

  Moderno fino al cinismo, il denaro ha una parte dominante nei suoi intrecci, e i suoi protagonisti non hanno altro dio che l’oro. Stretto nelle spire del carrierismo, dell’imbroglio, anche l’amore langue, decade, agonizza paurosamente, di giorno in giorno. Tuttavia, ogni sua storia è una storia d’amore, anche se spesso prende il carattere di una malattia che può condurre inevitabilmente solo a una fine: la morte.

  «La sensitiva» è la vicenda di una prostituta, che dal cielo all’inferno trascina la sua disperata passione per un uomo che, sfruttandola, giunge fino alle più alte vette della società. E’ la vicenda appassionante di un intrigo moderno, di un amore moderno, di alcuni personaggi moderni, vittime e padroni di una morsa che li stringe e li avvolge, nel convulso arrancare di questi tempi difficili.

 

 

  Honoré de Balzac, Un tenebroso affare. Traduzione di Maria Ortiz, Firenze, Sansoni, 1963 («Classici Sansoni», 9), pp. 199.

 

  Questa traduzione di Une ténébreuse affaire risale al 1950 (cfr. I Capolavori della “Commedia umana”, vol. I).


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Honoré de Balzac, in Honoré de Balzac, La donna di trent’anni ... cit., pp. V-XIV.

 

  L’insieme gigantesco: La Comédie humaine di Honoré de Balzac, di cui fanno parte i due romanzi brevi che qui vengono presentati e, precisamente, “La donna di treni anni” (La femme de trente ans) e “Il Gabinetto delle antichità” (Le cabinet des antiques), pur appartenendo: il primo romanzo alle “Scene della vita privata” (Scènes de la vie privée) ed il secondo alle “Scene della vita di provincia” (Scènes de la vie de province), possono essere considerati come espressione di una visione quasi unica. Anzi, un filo ideale li unisce tanto vi è viva e completa certa società nobiliare del tempo napoleonico e post-napoleonico, mondo, del resto come in tutta l’opera del romanziere, fittizio ma che dà la sensazione di un mondo reale al massimo. Sembra infatti che Honoré de Balzac covi i suoi personaggi d’un occhio paterno in quanto non è mai insensibile ad alcun dettaglio del loro costume. Piace al romanziere mostrarli mentre si muovono nelle loro case, fra i loro mobili, obbedienti ad una loro fisiologia e, benché essi continuino a vivere, da romanzo ad altro romanzo, avvinti come sono, per mezzo dell’abilità balzacchiana, alla storia generale del loro tempo, ne realizzano l’ambizione riuscendo a far concorrenza allo stesso “stato civile”.

  E resta ben vera l’affermazione che la Comédie humaine è un documento storico dal quale non è assente la scienza; ne consegue che materialismo e determinismo si confondono in essa, come applicazione, anche se l’autore di tale complesso enorme si compiaceva di dichiararsi cattolico: di principio, e praticante, sempre però soggiogato dalla sicurezza che sulla terra si danno la mano specie sociali alla stessa maniera di specie zoologiche.

  Ma forse che non è proprio di Balzac, nella prefazione generale alla prima edizione della Comédie humaine, l’asserzione che definisce il suo fantastico lavorio: “questa idea mi sorse da una confusione tra umanità ed animalità”? Da ciò il commento nel quale si avvertiva che Honoré de Balzac sì adoprava, nella narrativa, nella stessa intenzione-guida di Charles Auguste (sic) Sainte-Beuve, dando modo, questi alla critica l’altro al romanzo, di rappresentare una dipendenza dalla Storia Naturale. Dunque l’umanità non era altro, per il romanziere acclamato, che una sola ed unica famiglia, varietà di individui che egli cercava di scoprire in continuità, mettendone in rilievo i caratteri permanenti della razza.

  Concezione che implica, nella mente e nello spirito dell’autore, un disinteresse assoluto per qualsiasi questione di moralità o di immoralità. Se negli anni descritti da Honoré de Balzac, in Francia, avevano preso maggior piede tipi quali il cinico Philippe Brideau, il vecchio forzato Vautrin, il vizioso barone Hulot, l’inventore pazzo Balthazar Claës, poi Goriot, padre sino a raggiungere l’avvilimento, Grandet, avaro sino alla follia, il cugino Pons, collezionista nemmeno preoccupato della sua rovina. Madame de Mortsauf, “Il giglio della valle”, quasi innaturalmente pura, e gli stessi Victurien d’Esgrignon, Mademoiselle Armande, il notaio Chesnel, la duchessa dì Maufrigneuse, Du Croisier, Julie d’Aiglemont e Lord Grenville, e tanti altri, sta di fatto che la proporzione non è riversata nella vita reale ma ne è la espressione più vera e maggiore. Perché non notare così grandi difformità nelle quali si toccano estreme proporzioni, terribili e gigantesche?

  Sommerso in un lavoro da gigante, accumulando centinaia di fogli zeppi di inchiostro attesi con ansia sofferente dai tipografi, nascondendosi in un estenuante mosca-cieca ai creditori di ogni genere, vivendo da mylord e costosamente, amando da lontano per fitta corrispondenza, Balzac mendicava le notizie, accumulava documentazioni, segnava, registrava, raccoglieva tutto quanto gli era necessario. Egli deve essere considerato un forziere gonfio al di là di ogni misura. È però grazie a questa attività smaniosa che chi lo ama e lo segue riesce a credersi a Samour (sic), a Tours, a Angoulême, lungo le rive dell’Indre, poi in Borgogna, a Parigi, a Saint Lange, in una pensione borghese del quartiere latino, nel più splendido dei saloni aristocratici, in palazzi, ville, ecc. Ma la realtà è ben altra: i personaggi balzacchiani sono tutti accanto a lui, nella sua stanza, lo assediano, gli si stringono addosso costringendolo a tours de force preoccupanti. Gli procurano insonnia, nervosismo, infine si annunciano per quei sensi e quella parola profondi, attraverso i quali si rivela un’anima capace di far sprizzare la sostanza vivente della sua immaginazione creatrice.

  Che Honoré de Balzac fosse conscio della sua qualità di magico inventore, in una lettera del 6 febbraio 1844, alla straniera, lo prova confessandosi: “Insomma, ecco il mio gioco. Quattro uomini avranno avuto una vita immensa: Napoleone, Cuvier, O’Connel (sic) ed io voglio essere il quarto. Il primo ha vissuto della vita dell’Europa; si è imbevuto delle armate! Il secondo ha sposato il Globo! Il terzo si è incarnato nel Popolo! Io avrò portato un’intera società nel mio cervello”. Infatti ciò avvenne ed è meraviglioso constatare come molte verità siano giunte al controllo di questo esigente contemplatore, il quale, se alle stesse verità riuscì ad essere infedele, - Balzac non aveva impunemente percorso le strade del romanticismo alterando, in certo qual modo, i caratteri di alcuni suoi personaggi: in modo smisurato per Vautrin o chimericamente per Raphaël, nella “Pelle di zigrino” - seppe creare un’opera gigantesca che, nella potenza dell’illusione, può ritenersi equivalente alla vita stessa.

  “Tutta la società della Rivoluzione, dell’Impero, della Restaurazione, della Monarchia di Luglio: più di duemila personaggi della Comédie humaine, si muovono nel trittico degli “Studi di costume”, “Studi filosofici”, “Studi analitici”, dispersi per sparire o ritrovarsi nella compagine dell’intero ciclo. Attraverso uno stile brutale, faticoso, colorito, pedante ed anche pesante benché ardito, solo a volte soffuso di delicatezza, di grazia e sensibile misura, Balzac non ha mancato alla promessa di sicuri capolavori. Basterebbero romanzi quali Eugénie Grandet, Le père Goriot, Gobseck, Le lys dans la vallée per consacrare la gloria di un grande scrittore.

  Honoré de Balzac nacque il 29 (sic) maggio 1799 a Tours. Il padre: Bernard-François Balzac, cinquantatreenne, sposato ad una giovane di ventun anni: Anne-Charlotte Sallambier, sopraintendeva, a quei tempi, ai viveri e magazzini della “2° Divisione militare”. Prima di entrare come allievo interno al Collegio degli Oratoriani di Vendôme, abbastanza rinomato, il giovane Balzac, (1807), trascorse brevi anni a Saint-Cyr-sur-Loire presso la balia, moglie di un gendarme. Era con lui la sorella Laure che egli tanto amava. Lasciò le scuole alla fine del 1813, seguendo la famiglia installatasi a Parigi. Dopo aver continuato gli studi presso la Maison Lepître, in un ambiente severissimo, frequentò la Facoltà di Diritto, applicandosi poi, per acquistare maggior conoscenza e pratica, all’insegnamento dell’avvocato Guyonnet de Merville amico fraterno dei suoi parenti, indi passando a perfezionarsi in uno studio notarile. La sua passione per la letteratura lo trascinava a seguire le lezioni di tale materia alla Sorbona. Entusiasta attentissimo ai corsi di Villemain, di Guizot e di Victor Cousin, cercò di trarne profitto un po’ a modo suo ma con coscienza. Finalmente, ribellandosi ai suoi che lo volevano uomo di legge, seguì la sua vocazione (1819-1820) installandosi in un abbaino della Rue Lesdiguières e dedicandosi giorno e notte alla lettura, alla meditazione, iniziando quella esistenza di scrittore nella quale sperava come nell’avverarsi dì un paradiso terreno.

  Proprio verso il 1820-1824, mentre la famiglia aveva lasciato la capitale per Villeparisis, un suo amico ne tracciava il ritratto non troppo seducente: “piccoli occhi raggianti di spirito, taglia grossa e corta, folti capelli neri sempre in disordine, figura pesante, grande bocca, denti cariati, vestiti in disordine”. Eppure Honoré de Balzac godeva di molte simpatie femminili e del tenero amore di Laure de Berny, più anziana di lui di vent’anni, sua sincera ammiratrice. Laure de Berny resterà il solo amore conosciutogli nella gioventù.

  Presentato dagli amici: De l’Esgriville ed Etienne Arago entrò nel medio giornalismo, pubblicando contemporaneamente e sotto diversi pseudonimi svariati romanzi, fra i quali: Le Vicaire des Ardennes, La dernière fée, Jean-Louis. Disperato dei miseri guadagni e di non saper bastare a se stesso tentò l’editoria diventando persino tipografo e fonditore di caratteri. L’entità di un disastroso fallimento con un deficit di quasi centomila franchi (1828) lo portò alla perdita di non poco danaro. Non che Balzac se ne desse pensiero, anzi, favorì sempre l'idea di trafficare — pressato com’era in ogni momento — per ottenere molto molto danaro. Tale fantasia non ebbe mai in lui un limite appena possibile.

  Con la pubblicazione de Les Chouans, primo romano incorporato nella Comédie humaine, la fama di Honoré de Balzac prese piede e si affermò. I salotti parigini gli aprirono le loro porte: fra i più importanti quello di Madame Récamier. Ma è nel 1831 che il romanziere Balzac acquista ancor maggiore popolarità. Escono dalla sua penna infaticabile romanzi a getto continuo fra la meraviglia dell’ambiente letterario. Balzac non cerca tregua, si batte da leone. Gode infinitamente di sapersi invidiato, riuscendo a materializzare il suo sogno di grandezza con l’acquisto e l’arredamento della casa di Rue Cassini per la quale profonde somme rilevanti. Non gli bastano i tappeti, i quadri, le statue, l’argenteria ed i cristalli, non una sola governante ma un cuoco ed un cameriere personale. Vuole anche uno, due cavalli, un tilbury, un landau, gioielli ed una biblioteca prestigiosa. Le stoffe costosissime sono quelle che egli chiede al suo sarto; i suoi bastoni da passeggio presentano un’impugnatura preziosa, incastonata di gemme. Siamo negli anni dell’innamoramento per la marchesa di Castries, della rottura con lei ad Aix-les-Bains, nonché del sorgere di una incomprensibile ambizione politica conclusasi nel nulla. Appaiono presso i librai: Le colonel Chabert; Le curé de Tours; Eugénie Grandet; L’illustre Gaudissart.

  Comincia per Balzac (1833) l’epoca dei viaggi. Intemperante per natura eccolo in Svizzera, a Neuchâtel, dove incontra Madame Eveline de Hanska, la nobile polacca dalla quale avrà nel corso della sua esistenza, le poche gioie desiderate. Una strana frenesia lo spinge quindi ad accettare l’ospitalità di Madame de Margonne. Nel castello di Saché, proprietà della gentildonna, prepara il primo tracciato del suo capolavoro: Le père Goriot. Ma la sua fame di notorietà lo richiama a Parigi dove si lega alla contessa Guidoboni-Visconti (1834). Nulla gli manca ormai perché non si trovi sulla strada delle maggiori speranze: solo assillo l’affanno dei debiti sempre più preoccupante. Posti in commercio Le lys dans la vallée, Le contract (sic) de mariage ed altri scritti, prendono forma e si perfezionano nella sua mente i primi barlumi della Comédie humaine. Dare una completa sistemazione ai suoi personaggi è l’unica trepidazione che lo travaglia. Se ne sente scosso sino a soffrirne fisicamente. Perduta ogni pace, si rifugia nel quartiere di Chaillot anche per sfuggire alla massa dei creditori la cui insolenza lo stordisce. Affitta questo nuovo appartamento sotto il falso nome di Veuve Durand e, lontano da tutti, lavora senza sosta per ore e per giorni; unica consolazione le visite della contessa italiana.

  La vita di Honoré de Balzac diventa ogni giorno più sregolata: benché giovane ancora le forze, di tanto in tanto, gli vengono meno. Giornate, settimane intere non soddisfano la sua impazienza di strenuo artigiano attaccato al tavolo di lavoro dal quale a volte non riesce a scostarsi. Si è da poco incontrato (1835) con la desiderata Madame de Hanska, nelle delizie della Vienna imperiale, che la grave malattia di Laure de Berny lo riconduce alla Bouleaunière. La sistemazione degli affari della casata Visconti che egli non porterà mai a termine lo costringe poi ad una corsa a Torino. L’accompagna, travestita da uomo — George Sand ne aveva stabilito la regola — Caroline Marbuty (sic). Alla morte della sempre adorata Laure non sa resistere. Scrive di lei parole indimenticabili. Ma anche questo dolore si placa nella nuova corsa in Italia: a Torino, Milano, Venezia, Genova e Firenze (1837). A Milano, la città prediletta del suo preferito Henry Beyle de Stendhal, incontra Alessandro Manzoni e Clara Maffei; alla Scala si infiamma di entusiasmo. Un inatteso senso di pace lo prende a Venezia dove, all’Albergo Reale, vuole a tutti i costi riposare nella camera di George Sand ed Alfred de Musset.

  Compra quindi nei dintorni di Versailles e presso Sèvres una tenuta: Les Jardies. Sempre pronto a sognare vuol diventare agricoltore, allevatore. Nulla e nessuno resiste alla forza che Balzac sprigiona. Le spese non si contano e nemmeno la profusione del danaro dedicato alle migliorie, agli acquisti. Assecondato dalla solita capacità creativa getta sul mercato: Les illusions perdues (sic), La vielle fille, César Birotteau ispirato dal profumiere Caron e nelle cui pagine racconta i suoi dissesti, i suoi timori, la prigione che tanto lo turbò, i crucci e le agitazioni. Irrequieto come sempre passa da un’amicizia all’altra: per documentarsi, dice. Tutte le contrade di Francia interessano la sua fiamma d’operare. Proprio nel 1838 un nuovo progetto lo riempie di entusiasmo: speculare su alcune falde argentifere sarde, ma giunge in Sardegna troppo tardi. Preceduto da altri è costretto a ripartire stremato. Annoiato e scontento delle case parigine si ritira nella sua proprietà di campagna dove lo raggiungono i Visconti che gli sono fedeli. Un incontro a Les Jardies con Victor Hugo suo estimatore, suscita nuovo fervore in Balzac: ora tende all’Académie. Riprende fiato, domina se stesso e i suoi mali, presenta: Le Cabinet des antiques, Une fille d’Eve, Splendeurs et misères des courtisanes (1839).

  Ma vivere ai Jardies non è più possibile; Balzac, indebitato sino all’osso del collo, vende la campagna. Si ritira a Passy accogliendo presso di sé la madre alla quale non è affezionato e che gli fu ostile fin dalla nascita. Il suo “drammone” Vautrin cade, fra urla e fischi, al Teatro Porte Saint-Martin (1840). Vago ritorno alla politica, poi fondazione della Revue Parisienne di cui vengono pubblicati tre soli numeri. Malgrado la stanchezza ed i malanni il suo grande ideale: l’edizione completa della Comédie humaine da parte di un gruppo di librai, lo esalta. Risorge nella sua mente l’idea dell’Académie, perciò lavoro massacrante. Escono Ursule Mirouet, Une ténébreuse affaire, La Rabouilleuse. Frattanto Eveline de Hanska gli comunica la notizia della morte del marito e finalmente in lui riprende vita la speranza di un prossimo avvenire felice a fianco dell’amata. Se un incontro a Pietroburgo non gli procura la gioia tanto attesa tuttavia egli rientra a Parigi rinfrancato dalla certezza che ben presto Eveline sarà con lui. Infatti Madame de Hanska manterrà l’impegno di unirsi al suo “Honoré” anche se le leggi russe le vieteranno il trasferimento delle ingenti ricchezze lasciatele dal marito.

  Balzac conosce la propria malattia. Il dottor Nacquard (sic) non glielo nasconde: possibile meningite. Sconvolto, un’insolita fretta lo incita a sforzi sovrumani (1844). Un viaggio a Dresda, dove lo attende l’amata, scende nel suo cuore come un balsamo. Giorni sereni per entrambi in Italia, poi ancora Parigi. Qualche segno di ripresa fermenta nello scrittore; linfe piene di soavi apparenze lo sorreggono mentre prepara il nido per il nuovo avvenire dopo aver acquistato un palazzetto in Rue Fortunée. Verrà a Parigi, tutta sua, per sempre, la tanto venerata ed attesa amica. Gli preme d’apparire nel più grande splendore; riacquista potere anche nell’ambito della politica: deve essere completo, perfetto, invidiato. Ma una tragica lettera gli annuncia la morte del figlio: Victor-Honoré natogli dalla divina polacca. L’arrivo di Eveline a Parigi lenisce un poco il recente dolore: nella gioia di questa unione dimentica quanto gli stava distruggendo l’imminente felicità. Si prepara ad un nuovo viaggio in Ucraina dove riesce a trascorrere – benché sofferente – qualche mese di tranquillità: intanto a Parigi i torchi gemono per Le cousin Pons, La cousine Bette e nuovi scritti (1847).

  Rattristato dalle sommosse del febbraio 1848, Balzac, rientrato in Francia, benché lieto del successo incondizionato della sua Marâtre, prova il più grande avvilimento della sua vita: alla Académie che gli è contraria, solo due voci, quella di Hugo e di Lamartine gli sono favorevoli. A Wierzchownia nell’inverno 1848-1849 la sua salute si aggrava: ormai Balzac è finito. Rue Fortunée, cui le cure di Eveline hanno dato femminile grazia ed eleganza, riserverà allo scrittore un’ultima felicità: l’unione consacrata con la sposa straniera. Ma la sua fine è alle porte. Sposatosi il 14 marzo e partito per Parigi Honoré de Balzac, dopo brevi settimane di malattia, muore la sera del 18 agosto 1850. L’ultimo a consolarlo fu Victor Hugo il quale in Choses Vues ne descrive le ultime ore, quello stesso Hugo che sulla tomba al “Pere Lachaise” doveva pronunciare: “A sua insaputa, che egli lo voglia o no, l’autore di tale opera immensa, senza precedenti, è della forte razza degli scrittori rivoluzionari”. Vale anche citare un lapidario giudizio di Federico Engel (sic): “Ho più appreso in Balzac che in tutti i libri degli storici, degli economisti e degli statisti professionisti dell’epoca messi insieme”.



  La rinuncia di Eugenia, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XL, N. 23, 2-8 giugno 1963, pp. 18(-19); 4 ill.

 

  La vicenda.


  Nella città di Saumur vivono i coniugi Grandet con la figlia Eugenia. La ricchezza di Papà Grandet è immensa. Egli cura i suoi interessi, specula con abilità ed instaura in casa ima specie di legge spartana del risparmio.

  A spezzare la monotonia della vita dei Grandet giunge da Parigi il nipote Carlo che reca una lettera affidatagli dal padre prima di suicidarsi. Carlo accetta e anzi sollecita l’affetto della cugina Eugenia, alla quale dona in cambio un’illusione d’amore. Prima di partire per l’America, secondo l’ultima volontà del padre fallito e suicida, Carlo riceve in dono da Eugenia le monete d'oro pazientemente accumulate che la ragazza aveva avuto in regalo da Papà Grandet. Carlo promette eterno amore e parte, portando con sé il tesoro e soprattutto il cuore di Eugenia.

  In casa Grandet ritorna la normalità. Comincia per Eugenia una vita di speranza e di attesa. La signora Grandet trepida per la figlia. Sa che la ragazza ha ceduto i suoi risparmi a Carlo e teme le ire del marito. Infatti, quando il primo dell’anno Eugenia è costretta a confessare al padre di non avere più le monete d’oro, la collera di Papà Grandet piomba sulle donne con brutale violenza. La signora Grandet cade ammalata; ed Eugenia dovrà restare nella sua cameretta, prigioniera. Il notaio Cruchot riesce a far capire al vecchio l’opportunità di lasciare libera Eugenia. Così Mamma Grandet potrà riavere accanto a sé la figlia, ma troppo tardi ormai. Stroncata dal dolore, la donna muore. Eugenia rimane ora sola col padre e con Nanon. Essa compie un gesto risolutivo: firma un atto di rinuncia alla sua grande eredità. Spera così di liberarsi anche spiritualmente dal padre, che però si è imposto nella vita di lei come un fato. Gli anni passano. I corteggiatori della grande ereditiera continuano a circolare nella casa. Il grande avaro ora è vicino a morire. Lascerà la sua immensa ricchezza a Eugenia, ricordandole che lei dovrà rendergli conto di tutto, nell’oltretomba. Torna Carlo ma non sposa Eugenia. Si adatta a una sistemazione matrimoniale di stretto interesse, ignorando l’incalcolabile tesoro ereditato da Eugenia, che sceglierà alla fine di vivere sino in fondo e con tutta dignità la sua solitudine e la sua tristezza.

 

 

  Papà Grandet, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XL, N. 25, 16-22 giugno 1963, p. 24, 1 ill.

 

  In segno di rispetto per le sofferenze di Giovanni XXIII, allora in fin di vita, la seconda puntata del teleromanzo Papà Grandet, annunciata per la sera di domenica 2 giugno, non è stata trasmessa. Anche la domenica successiva, la trasmissione è stata rinviata per consentire la messa in onda della cronaca registrata del confronto internazionale di calcio Austria-Italia. Così soltanto questa settimana, la storia di Eugenia Grandet si conclude sui teleschermi. Riassumiamo qui di seguito per i nostri lettori l’intera vicenda del romanzo.

  Nella città di Saumur, in una grande silenziosa casa, vivono i coniugi Grandet, con la figlia Eugenia e l’affezionata governante Nanon. Felice Grandet, il capofamiglia, è uomo ricchissimo, e la sua abilità negli affari gli consente, attraverso indovinate speculazioni, di ingrandire ancora l’imponente patrimonio. Di questa ricchezza tuttavia papà Grandet si fa schiavo, instaurando per sé e per i familiari una spartana legge del risparmio. A spezzare la monotonia della vita dei Grandet, inaridita dall’avarizia, giunge da Parigi il nipote Carlo, latore di una lettera affidatagli dal padre (che era fratello di Felice) in punto di morte. Carlo accetta, anzi sollecita l’affetto della cugina Eugenia, che in breve si innamora di lui. Egli tuttavia, per rispetto alla volontà del padre, morto suicida per un dissesto, dovrà recarsi in America. In pegno del suo amore, Eugenia prima ch’egli parta gli affida le monete d’oro che papà Grandet, ad ogni Capodanno, è solito donarle. Carlo promette di tornare, e lascia Saumur. In casa Grandet ritorna la normalità, ma per breve tempo: a Capodanno, Felice Grandet scopre la prodigalità della figlia, e le proibisce di uscire dalla sua camera. La signora Grandet cade ammalata; un amico di famiglia, il notaio Cruchot, convince il vecchio avaro a lasciar libera Eugenia, che così può assistere la madre inferma. Ma è troppo tardi: provata dal dolore, l’anziana signora muore. Eugenia e suo padre rimangono soli con Nanon: la vita della ragazza si consuma in una vana attesa del ritorno di Carlo. In segno di disprezzo per l’inutile ricchezza del padre, Eugenia compie un atto risolutivo: firma un atto di rinuncia al suo patrimonio. Spera così di liberarsi, una volta per tutte, dalla pesante influenza che il vizio di papà Grandet ha avuto sulla sua esistenza.

  Gli anni passano, i corteggiatori di Eugenia continuano a frequentare la grande triste casa. Papà Grandet è ora vicino a morire: lascerà, nonostante tutto, la sua immensa ricchezza alla figlia, ammonendola che, nell’oltretomba, dovrà rendergli conto di tutto. Torna Carlo, ma ignorando la fortuna che Eugenia ha ereditato, non sposa la cugina, adattandosi invece ad una sistemazione matrimoniale di stretto interesse. La sfortunata Eugenia sceglierà infine di vivere sino in fondo, con dolorosa dignità, il suo solitario destino.

 

 

  Giorgio Agamben, Lettere francesi. L’angelo e il borghese, «Il Mondo. Settimanale politico economico e letterario», Roma, Anno XV, N. 29, 16 luglio 1963, p. 12.

 

  Quando andava a Les Jardies, Balzac si abbandonava all’illusione di sentirsi “propriétaire”. «La mia» casa scriveva «è posta sulla falda della montagna o collina di Saint-Cloud, addossata al Parco del Re, a mezza costa, a nord. A occidente domino tutta Ville d’Avray e verso sud vedo la strada di Ville d’Avray che si snoda ai piedi delle colline dove cominciano i boschi di Versailles, mentre a levante la vista giunge oltre Sèvres e ha un immenso orizzonte, ai cui piedi è Parigi. La sua atmosfera nebulosa vela il bordo dei celebri pendii di Meudon e Bellevue. Più oltre vedo la piana di Montrouge e la strada di Orléans che conduce a Tours». Girava per la proprietà misurando confini ed escogitando piani grandiosi quanto assurdi: una serra per gli ananas che venderà in città con enorme profitto, vigneti del Tokay, un padiglione all’italiana color mattone, e, appoggiata da una parte al gran portone di pietra con la vistosa scritta: Les Jardies, una pergola verde che menerà fino all’uscio di casa. Da uomo d’affari, calcolava il denaro che avrebbe dovuto guadagnare per comprare altre terre: trentamila franchi, senza contare ciò che avrebbe speso per i bric-à-brac di dubbio gusto e per tendaggi e tappezzerie in profusione tale da far invidia a Wagner. Molto spesso sono stati rimproverati a Balzac questo e altri aspetti “borghesi” del suo carattere (per esempio, la mania della nobiltà, che lo spingeva a firmare i suoi lavori “de Balzac”, o ad applicare sul suo calesse da viaggio lo stemma dei marchesi di Entrague); e della sua vita si è arrivati a scrivere: «it was the most stupid, aborted life that any intelligent man ever lived». Ma Proust non era di questo parere. In un capitolo del Jean Santeuil, egli si è divertito a ricostruire una giornata di Balzac nei suoi quartieri d’inverno a Les Jardies. Dopo averlo rappresentato mentre scende per la colazione, stordito da tutto quello che ha scritto, con lo sguardo ancora fisso e i movimenti del corpo un po’ esaltati, diffondendo su tutti un po’ della sua esaltazione e della sua gioia quasi intenerita, il più snob degli scrittori moderni scrive: “snob Balzac lo era” senza la minima intenzione critica, e, anzi, con l’intimo compiacimento di chi scopre una parentela e un’affinità elettiva. Per uno strano caso (che non è poi tanto strano, dal momento che tutta l’arte della prima metà del secolo, da Thomas Mann a Franz Kafka, è un gigantesco trattato sulla condizione dell’artista), quel capitolo è anche un breve trattato sui rapporti fra arte e vita, o, meglio, fra un artista e la sua vita. Prendendo lo spunto da una frase di Balzac («Se potessi avere questa cosa, non scriverci romanzi, ne farei»), Proust sostiene che ogni volta che un artista, invece di porre la propria felicità nella sua arte, la pone nella sua vita, prova una delusione che è quasi un rimorso; e ciò l’avverte con certezza di essersi sbagliato. «Onde scrivere un romanzo o viverlo non è affatto la medesima cosa, checché si dica. E tuttavia la nostra vita non è totalmente separata dalle nostre opere. Tutte le scene che vi racconto le ho vissute. Come potevano valer meno in quanto scene della vita piuttosto che in quanto scene del mio libro? Lo potevano; perché nel momento in cui le vivevo era la mia volontà a conoscerle per un fine di piacere o di timore, di vanità o di cattiveria. E la loro essenza intima mi sfuggiva. Avrei potuto figgervi gli occhi con tutte le mie forze, mi sarebbe sfuggita ugualmente».

  La condizione dell’artista nell’età capitalistica (e probabilmente in ogni età) non è un letto di rose. Benché essa sia stata rappresentata centinaia di volte con simboli diversi, nessuno ne ha dato, mi pare, un’immagine così squallida e tormentata, almeno per quel che si riferisce all’infanzia e alla giovinezza, come Balzac nel Louis Lambert (e forse Proust nel Jean Santeuil). Tutte le stranezze e le assurdità dell’uomo Balzac (e tutto lo snobismo di Proust) diventano comprensibili e insieme gravide di significato, se si misurano con i patimenti e le frustrazioni subiti al collegio degli Oratoriani a Vendôme e più ancora durante i mesi vissuti nella cameretta di Rue Lesdiguières, quando si ammazzava di lavoro per uscire vittorioso dall’incredibile patto concluso con la famiglia: due anni di tempo a 120 franchi il mese per diventare uno scrittore celebre. Louis Lambert non è né il copain di Balzac né Balzac stesso: è il suo alter ego, il suo doppione; in breve, per usare le parole del piccolo filosofo, il suo angelo. Nel Traité de la volonté, l’opera che Balzac attribuisce al suo compagno di collegio, nell’uomo vengono distinte due creature diverse: l’essere azionale, interiore, ciò che in noi è originario, puro e incomunicabile, e al quale sono dovute le varie potenze incompletamente osservate del pensiero e della volontà, e l’essere reazionale, esteriore, frutto di rapporti col mondo, ciò che in noi è artificiale e contaminato. L’angelo è l’uomo interiore, l’uomo nel quale l’essere interno riesce a trionfare dell’essere esterno. «Un uomo vuole obbedire alla sua vocazione d’angelo? Appena il suo pensiero gli dimostra la doppia esistenza, deve tendere a nutrire la squisita natura dell’angelo che è in lui. Se, non avendo la visione traslucida del suo destinò fa predominare l’azione corporale invece di corroborare la vita intellettuale, tutte le sue forze passano nel gioco dei sensi esterni e l’angelo perisce lentamente per questo materiarsi delle due nature».

  Tutta l’infanzia e la giovinezza di Balzac furono un fanatico quanto disperato sforzo per realizzare l’angelo che era in lui, per essere “uomo di genio” nel significato che egli dava a questa espressione, cioè un uomo che riesce a convertire nei fatti e nelle azioni i suoi pensieri e i suoi desideri. Inseguendo questa illusione (certo ben più nociva di quella di essere un “propriétaire”) Balzac rischiò di spezzare la sua vita, e in certa misura riuscì anche a farlo. Ma mentre nel Louis Lambert, malgrado i patimenti che il protagonista deve sopportare, è l’angelo che prevale liberandosi alla fine nella follia, nella realtà, fortunatamente, Balzac seppe rinunciare, sebbene a prezzo della felicità, alla sua vocazione ultra-terrena per accettare la professione di scrittore in tutti i suoi aspetti.

  Volgendosi più tardi col pensiero a quegli anni, egli poteva dire alla contessa di Abrantès: «sono invecchiato di dolore. Nulla vi può dare un’idea della mia vita fino ai ventidue anni». Nulla, forse, eccetto le lettere che Louis Lambert scrive da Parigi allo zio, che sono una critica così radicale (dal punto di vista dell’angelo) della società borghese fondata sul denaro, che può stupire siano state scritte da Balzac quando entrare in possesso di un patrimonio di duecentomila franchi era la sua più ardente speranza: «Io lascerò presto questo paese dove non saprei vivere: non ci vedo alcun uomo che ami ciò che io amo, si occupi di ciò che mi occupa, stupisca di ciò che mi stupisce. Forzato a ripiegarmi su me stesso, mi rodo e soffro. Qui, il punto di partenza in tutto è il denaro. Occorre denaro anche per fare a meno del denaro». Lo stato di frustrazione a cui Balzac era giunto durante il soggiorno in Rue Lesdiguières, lo aveva spinto a dubitare di diventare mai un “uomo di genio”: «Io non sono preso da alcun amore per queste due sillabe: Lam-bert». Due sillabe, come Balzac.

  La sua nevrotica dedizione al lavoro letterario, i bric-à-bracs grotteschi, la canna tempestata di turchesi, il tilbury lussuoso, i vistosi gilets, la sua insoddisfatta aspirazione borghese a “une femme et un patrimoine”, sono, in confronto, una cosa del tutto trascurabile, quasi l’insufficiente compenso del sacrificio dell’angelo.

  Henry Miller, in un saggio che io non so se sia mai stato pubblicato in Italia, ma che certo è il migliore di quanti egli abbia mai scritto, interpreta il dualismo di angelo e uomo di Balzac come una delle negative conseguenze della scissione fra pensiero e azione caratteristica del mondo moderno. «His life (di Balzac)» egli dice «which is the very symbol of Work, epitomizes the futility of Western life, with its emphasis on doing rather than being; it epitomizes the sterility of even the highest efforts when characterized, as they are in our world, by the divorce between action and belief. If Louis Lambert’s life may be regarded as a typical example of the crucifixion of genius by the society in which he was born, Balzac’s own, life may be regarded as a typical example of the immolation exacted of our superior types through, a limited conception of, and a slavish devotion to, art».

  E’ molto probabile che questa scissione sia propria del mondo moderno e che si affermi con l’affermarsi della borghesia, di pari passo al dualismo tra interiorità cd esteriorità (privato e pubblico), e allo sviluppo della produzione industriale. Sarebbe perfino possibile scorgere nella favolosa dedizione di Balzac al lavoro, nient’altro che un inconsapevole riflesso dell’etica calvinista e borghese del lavoro, che Max Weber pose alle origini del capitalismo moderno. Ciò che non posso condividere con Henry Miller è che questa sia semplicemente una conseguenza negativa. E’ proprio su questa antitesi tra il pensiero e la vita, fra l’angelo e il borghese, che si fonda tutto ciò che l’uomo occidentale è riuscito a creare, lo si approvi o meno. Ed è ugualmente questa antitesi tra l’angelo e il borghese che ha permesso a Balzac di produrre i suoi capolavori.

  L’angelo è troppo evanescente, troppo fedele alla morte per trovar mai la forza di prendere in mano la penna per scrivere. Egli rappresenta una tendenza latente nell’animo di ogni artista, almeno nel periodo capitalista, quando tutto è troppo dominato dalla produttività e dall’attività materiale perché non ci si soffermi a vagheggiare il paradiso. Il mito dell’angelo è infatti il mito del decadentismo: poiché l’interiorità non sa più riconoscersi nel grande mondo sociale, essa tende a chiudersi in sé, rinunciando a eleggere un qualsiasi rapporto col mondo; il suo ideale è annientarsi nella follia, amata e ricercata con cosciente preveggenza, la stessa che suscita stupore nelle lettere di Nietzsche e che sembra guidare l’ostinato auto-tormento di Kafka durante il fidanzamento con F.B. Ed ogni opera d’arte, nell’età borghese, è il risultato di una lotta con l’angelo, che va a buon fine soltanto quando l’angelo soccombe.

  Il prezzo che l’artista paga al mondo è la rinuncia al suo alter ego, al delicato copain della silenziosa giovinezza, al Louis Lambert che è in ognuno. Ed è proprio il dolore per questa forzata separazione, il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e la coscienza di un tradimento che nemmeno la gratitudine dell’umanità intera può rendere sopportabile, che rendono le opere d’arte di questo periodo così profondamente pervase di nostalgia e di complicità con la morte. Tutto questo Balzac lo sapeva assai bene; anche a lui, come per Thomas Mann ha scritto Adorno, «per saperlo non era necessario a ver letto Schopenhauer». Benché egli si dichiari infinitamente grato al suo “Pitagora” (è significativo che in collegio egli riservi a sé il nome di “poeta”), così teneramente amato, in realtà non poteva che disgiungere criticamente la sua strada dalla propria e, in definitiva, condannarlo. Ed è al borghese di Tours non meno che all’angelo di Montoire che dobbiamo le pagine della Comédie humaine, così come è al contrasto latente nella coscienza infelice dell’uomo occidentale che si deve il particolare carattere della sua civiltà.

  Proust amava troppo Balzac, ed era troppo borghese per non avere anch’egli il suo angelo da uccidere. Ma egli visse in un’età più tarda, nel pieno del decadentismo, quando le nuove condizioni storiche spostavano i termini del problema. Arte poteva significare ora non perdita, ma sopravvivenza e ricerca dell’angelo Lo snobismo e l’esistenza borghese non possono nascondere che Jean Santeuil ha gli stessi occhi trasparenti di Louis Lambert. E tuttavia la sua forza sta ancora nel suo realismo, nella mediazione, cioè, tra l’angelo e il borghese.

  La casa ai numero 9 di Rue Lesdiguières dove abitò Balzac, è demolita ormai da un pezzo, e non è nemmeno pensabile che possa un giorno tornare ad esistere. La scaletta nera e maleodorante, i muri gialli e sporchi, le tegole malconnesse da cui si vedeva il cielo, il fumo dei tre soldi di olio bruciati ogni notte, di cui Balzac parla nella Peau de chagrin, tutto ciò è scomparso per sempre. Come nessuno potrà più far risuonare la petite phrase di Vinteuil che evocava a Marcel i campanili di Martinville, né recarsi ai Champs-Elysées per incontrarvi Marie Kossichef. Queste cose, in quanto esistevano, appartenevano alla vita, cioè all’angelo che fu sacrificato attraverso necessarie e intollerabili sofferenze e la cui sopravvivenza a tratti meraviglia il lettore borghese che non immagina nemmeno lontanamente per quali vie egli abbia guadagnato per sé di fronte al tribunale della storia tanta colpa e tanto merito.

 

 

  Aurora Beniamino, Il boulevard, poema di Parigi. I. Durante il regno di Luigi Filippo. Regia di Dante Raiter, Programma nazionale, 16 febbraio 1963.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Valentina Bianconcini, Honoré de Balzac, in Honoré de Balzac, Eugenia Grandet ... cit., pp. 5-7.

 

  Honoré de Balzac nacque a Tours il 17 (sic) maggio 1799 da famiglia borghese (il de nobiliare se lo attribuì da sè, anzi si compose un albero genealogico piuttosto fantastico che poi finì per prendere sul serio): suo padre era stato avvocato nel Consiglio di Stato, sotto Luigi XVI; sua madre, Laura Sallambier, era nobile. Suo padre avrebbe voluto fare di lui un notaio, ma si rassegnò a lasciargli seguire la carriera meno redditizia e più gloriosa del letterato.

  Eppure gl’inizi del romanziere furono faticosi: la rinomanza se la conquistò col lavoro accanito, paziente, quasi titanico. Dopo una serie di romanzi giovanili pubblicati sotto vari pseudonimi e mal pagati, il primo a esser notato dalla critica fu Les chouans (1829), poi la Psichologie (sic) du mariage, ma solo La peau de chagrin (1831) gli dette la notorietà.

  Quando morì, il 18 agosto 1850, a cinquantun’anni, logorato dal troppo lavoro, aveva scritto circa un centinaio di romanzi.

  In quest’opera mastodontica, che Balzac aveva intitolato Comédie Humaine, ha un posto di primo piano Eugénie Grandet.

  Questo romanzo fu pubblicato per la prima volta parzialmente nell’Europe Littéraire del 15 settembre 1833; poi in volume nel 1834 col sottotitolo Scènes de la vie de province, con un (sic) «préface» e un «postface» che gli editori di solito hanno omessi nelle edizioni successive. Si tratta d’uno dei più bei romanzi di Balzac, meritatamente celebre: quando si parla di un uomo avarissimo, subito viene in mente il «père Grandet» accanto allo Shylock di Shakespeare e all’Harpagon di Molière.

  A Balzac fu rimproverato di aver ritratto un avaro troppo spietato, di aver calcato la mano facendo arricchire troppo e troppo alla svelta il suo Grandet. Balzac rispose che a Tours conosceva «un droghiere il quale possiede otto milioni, e un signor Eynard, merciaio ambulante, che ne ha venti e si è tenuti in casa perfino tredici milioni in oro, li ha investiti nel 1814 nel gran libro (in titoli di Stato) a cinquanta franchi, e così se ne è fatti venti». C’è stato chi si è messo in cerca dell’autentico Grandet per scoprire a chi si fosse ispirato Balzac nella sua narrazione: ne è venuto fuori un certo Jean Nivelleau noto a quel tempo a Saumur per la sua avarizia, ma l’avvicinamento non è del tutto convincente.

  Comunque sia, nel romanzo ciò che più importa è la storia d’Eugenia, la storia d’un amore infelice; e l’avarizia di compare Grandet è solo una delle cause, anzi la causa principale delle pene della «povera ereditiera»: studio in grigio d’un tipico ambiente provinciale, in una casa squallida posta in cima alla via tortuosa, semideserta, dove la protagonista vegeta accanto alla madre, nel vano d’una finestra, agucchiando per quanto è lungo il giorno a rammendare la biancheria di casa.

  Ma anche se tratteggiata in grigio, Eugenia risulta una figura di pieno rilievo: dolce ma decisa, poco istruita ma intelligente, ingenua ma avveduta, sottomessa ma fiera, rigida ma sensibile, e profondamente religiosa.

  Nel romanzo l’azione agl’inizi è quasi statica, ogni cura è rivolta alla descrizione dei personaggi e dell’ambiente, di cui ciascun particolare ha un suo significato psicologico; ma quando il dramma prende l’avvio, anche se in sordina si svolge rapido e lineare, «un dramma borghese senza tragedia, nè pugnale, nè spargimento di sangue, ma per quanto riguarda gli attori ben più crudele di tutti i drammi dell’illustre famiglia degli Atridi».

  Tuttavia non è un dramma lacrimoso alla maniera romantica, come non è neppure — per dirla col Le Breton — uno studio sull’avarizia, un romanzo d’amore, un dramma della vita usuale, ma «è assai di più e di meglio: il poema delle esistenze recluse e senza orizzonte, il poema delle vite silenziose».

 

 

  Vittorio Emanuele Bravetta, L’angoscia segreta di Balzac, «Gazzetta di Reggio», Reggio Emilia, Anno XIII, 30 luglio 1963, p. 3.

 

  Nella prima parte di «Louis Lambert», con uno sdoppiamento di personalità non inconsueto nella tecnica narrativa, lo autore de «La Comédie humaine» si dipinge e si descrive oggettivandosi in un suo immaginario condiscepolo. A volte gli cede la parola, a volte, impresta i propri sentimenti al personaggio che tanto gli somiglia. Attraverso le confessioni contenute in quel romanzo (larvata autobiografia dell’adolescenza) penetriamo abbastanza facilmente nel mondo giovanile di Balzac collegiale.

  Dopo il tirocinio della scuola elementare fatta a Tour (sic), i genitori lo chiusero ih collegio a Vendôme; il collegio, situato nel cuore della città, sulle rive del Loir, godeva la fama abusiva di essere uno dei migliori istituti educativi del tempo. Era, invece, una specie di casa correzionale dove vigevano regole conventuali applicate senza alcun criterio a deboli fanciulli in formazione. Al tempo di Balzac-Lambert le pene corporali e la frusta erano all’ordine del giorno.

  Il fanciullo, che doveva diventare il più grande romanziere della Francia e forse del mondo, soffrì atrocemente in quel carcere; trascurava i doveri scolastici, ma — con la tacita complicità di un distratto insegnante di matematica, assorto nella soluzione di chissà quali astrusi problemi, e che, nello stesso tempo, fungeva anche da bibliotecario — poteva asportare dagli annosi scaffali tutti i libri che lo attiravano. Il fanciullo si faceva, deliberatamente, mettere in cella per isolarsi e leggere a suo agio, di nascosto. La cella diventava così un’oasi, se non profumata, certo solitaria e non disturbata dagli schiamazzi incomposti di una ragazzaglia con la quale Lambert non se la faceva.

  E qui lo scrittore apre, nelle confessioni, una parentesi descrittiva, ambientale tutt’altro che gradevole, comunque efficacissima: le camerate puzzavano, pareti e pavimenti coperti di lerciume, igiene sconosciuta, aria di rinchiuso, lezzo di ventiquattro corpi mal lavati, mescolato al tanfo delle attigue latrine. «Codesta specie di «umo collegiale» commisto alla sporcizia delle nostre scarpe costantemente impolverate e infangate contribuiva a formare un letamaio insopportabile».

  Assuefatto alla vita campestre, all’aria aperta, il piccolo Honoré-Louis soffriva fisicamente e moralmente e si rifugiava in cella non appena poteva. I suoi maestri lo giudicavano un inetto. Lo scrittore non ce lo tace, anzi ci regala una pagina di psicologia che, per certi lati, è ancor oggi valida e valevole.

  «I maestri mi disprezzavano; i compagni, ai quali nascondevo i miei studi di contrabbando per timore delle loro beffe, mi disprezzavano non meno dei maestri. Codesta doppia disistima, ingiusta da parte dei Padri (Oratoriani), era, condizionatamente, giustificabile da parte dei condiscepoli. Non sapevo giocare a palla, non correvo, non partecipavo alle loro ricreazioni, ai loro svaghi; mi appartavo, melanconicamente solo, sotto qualche albero del cortile».

  Lavorava di nascosto come un topolino nel suo buco, lavorava, nientemeno, ad un’opera intitolata «Traité de la volonté», un trattato di cui parlerà con insistenza ne «La Comédie humaine».

  Balzac rimpianse per tutta la vita di aver perduto quella sua prima opera e ci raccontò con una commozione non attenuata dal passare degli anni come avvenne il sequestro del per lui tanto prezioso manoscritto. Lo aveva rinchiuso in un cofanetto. Compagni gelosi e invidiosi, che lo spiavano, tentarono un giorno di impadronirsene. Honoré-Louis difese accanitamente il suo tesoro. Richiamato dal rumore della collutazione, il «prefetto» Haugoult accorse e confiscò il cofanetto. Lo aprì e, scoperto lo scartafaccio, esclamò sprezzante: «Ecco qui le sciocchezze che ti facevano trascurare i tuoi doveri di scolaro!».

  Balzac rimpianse la catastrofe irreparabile sino al punto che in «Peau de chagrin» egli motte in bocca a Raphaël le seguenti parole: «Dall’età della ragione sino a quando ho finito di comporre la «Teoria della volontà», ho letto senza tregua, senza sosta, senza risparmio, letto, scritto, pensato. Amante della pigrizia orientale, ho sempre lavorato senza concedermi un istante di ripeso. Mi sono rifiutato di godere le gioie della vita di Parigi. Buongustaio mi sono mantenuto sobrio; desideroso di viaggiare, mi sono inchiodato sopra una sedia con una penna in mano; propenso alla conversazione, ho ascoltato in silenzio le lezioni popolari impartite da docenti universitari alla Biblioteca e al Museo. Ho dormito sul paglione come un benedettino. La donna era la mia sola chimera, una chimera che accarezzavo e mi sfuggiva sempre continuamente».

  L’angosciosa, amara, eroica confessione corrisponde a realtà. Una volta, già famoso, egli invitò a colazione Gautier salito rapidamente in fama con «Mademoiselle de Maupin», per offrirgli di collaborare ad un ebdomadario, «La Chronique de Paris», da lui diretto. Per l’occasione s’era fatto prestare le posate d’argento dal suo editore. La colazione fu squisita, non mancò il tradizionale pasticcio di legato grasso, però Balzac fece notare sorridendo all’ospite che, una volta tanto, in onore di un collega, poteva derogare dalla sua abituale frugalità.

  A quel tempo il romanziere, già illustre, benché non avesse ancora composta «La Commedia Umana», abitava in capo al Lussemburgo, in una straducola, Via Cassini, chiamata così forse per il richiamo suggerito dal vicino Osservatorio Astronomico. Sul muro di cinta del giardino, che occupava quasi tutto un lato della via, Gautier lesse codesta bizzarra scritta: «L’Absolu, marchand de briques».

  Prima di firmare col suo nome e tanto — diceva — «per farsi la mano», Balzac aveva scritto un centinaio di volumi (sic!) sotto diversi pseudonimi (Horace de Saint-Aubin, L. de Villergié, ecc.). Lavoratore prodigioso, si guardava con compiacenza le belle, morbide mani. Una piccola vanità! Per analoga ragione Lord Byron si compiaceva del complimento ricevuto da Alì Pascià: «Avete l’orecchio piccolo, ben fatto: da ciò arguisco che siete un vero gentiluomo».

  Dal «Traité de la Volonté» a «La Comédie humaine» quale lungo cammino, che portentosa ascesa! Eppure la nostalgia di quel primo libro perduto pungeva, di frequente, il cuore del quand’uomo (sic). Che fine avrà fatto il manoscritto? Probabilmente (l’ipotesi è di Gautier) l’inconscio «père» Haugoult lo avrà venduto come carta straccia ad una drogheria di Vendôme.

  Pensate, il primo documento autografo di un genio trasformato in cartoccio per zucchero, riso, caffè! Però di quest’ultimo Balzac era ghiotto!

 

 

  G. C., Controcanale. La solita strada, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XL, N. 20 (144), 27 maggio 1963, p. 9.

 

  Ci pare avessero ragione coloro che temevano per le sorti del grande romanzo di Balzac, Eugenia Grandet, quando si apprese che la televisione si accingeva a condensarlo in due puntate e a presentarlo così ai telespettatori. E ci pare avessero ragione, malgrado l’indubbia cura che il regista Alessandro Brissoni ha messo nel ricostruire gli ambienti e nel guidare gli attori; malgrado la pulizia del riduttore Belisario Randone, che non di rado ha adoperato intieri brani del dialogo originale; malgrado l’impegno dei vari attori e la perizia interpretativa di Aldo Silvani. che vestiva i panni di Felice Grandet. Ora, dopo aver visto la prima puntata di questo nuovo teleromanzo, lo sappiamo.

  Il fatto è che quello di Balzac non è il semplice racconto di una vicenda, nel quale la trama sia l’elemento principale; e non è nemmeno un semplice studio di carattere. Balzac nella sua opera affrescava la società del suo tempo con certosina pazienza: e le sue descrizioni di ambienti, cose, personaggi, che prendono pagine e pagine, non si debbono a uno stile sovrabbondante, ma al preciso intento di trasmettere al lettore un’intera esperienza, di ricostruire la complessità della vita, di rappresentare, in una parola, un mondo. Prendiamo Felice Grandet, appunto. Egli è un avaro, è vero. Ma non è un caso patologico, né una maschera. Affonda le radici nella provincia in cui vive, si nutre della atmosfera del suo tempo, comprende in sé, in un certo senso sublimandoli, tutti i suoi simili, che dalla sua stessa legge sono sospinti. Il Dio di Grandet è l’interesse: tutto, in lui, acquista sapore e colore per via del danaro, dagli affetti familiari alla religione, dalla vita alla morte.

  Ma egli non è per questo un mostro o, almeno, se appare tale, e solo «colpa» della storia, si potrebbe dire. Egli è anche buono, a suo modo; e anche dolce, a suo modo; e Balzac non manca di sottolinearlo. Ha perfino una sua grandezza sinistra, che consiste proprio nel fatto di riassumere in sé una classe e un’epoca.

  Gli avari scrive Balzac in Eugenia Grandet, «non credono in una vita avvenire; per loro tutto si racchiude nel presente. Questa riflessione getta una luce ben triste sull’epoca attuale, perché ora, più che in altri tempi, il denaro domina le leggi, la politica e i costumi».

  Ecco, quindi, quel che si sarebbe dovuto rispettare sul video: la volontà di Balzac di rappresentare in Felice Grandet una classe e un’epoca [...]: il pubblico, infatti, avrebbe avuto dovizie di riferimenti attualissimi per apprezzare la legge dell’interesse che è la molla interna ed instancabile di papà Grandet.

  Ma era in grado la TV di fare una cosa simile? Non sappiamo: a tutt’oggi l’interrogativo resta aperto. Perché, anche in questo nuovo teleromanzo, si è seguita la via delle precedenti riduzioni: si è condensata la storia in una nuda successione di fatti e si sono esasperati i caratteri.

  Così Felice Grandet è diventato quasi un ossesso perfino grottesco nella sua malattia, un personaggio da far gola a uno psicanalista. Pensiamo al suo rapporto con la moglie, ridotta da lui a un’«ilota», come scrive Balzac; o alla sua sorta di complicità con la serva che lo adora, a suo modo; o al suo duello con Eugenia, che nella sua purezza, giunge a contrastarlo per amore di Carlo. Pensiamo al terrore che egli diffonde nella sua famiglia patriarcale e che non ha alcun bisogno, per imporsi, di urli o di scatti d’ira.

  Tutto ciò da Balzac è descritto minutamente, in quello che Brissoni, con un’espressione davvero infelice, ha chiamato «profluvio di parole».

  Sul video tutto ciò non è apparso, soprattutto perché si è scelta programmaticamente un’altra strada: la solita dei teleromanzi d’appendice.

 

 

  G. C., Controcanale. Il sorriso di Valentina, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XL, N. 23 (165), 17 giugno 1963, p. 11.

 

  Diremo che anche per questo la seconda puntata di «Papà Grandet», trasmessa poco dopo sul primo canale, ci è apparsa scialba e artificiosa, malgrado l’impegno degli attori? No, sarebbe ingiusto e superficiale. In realtà, la puntata di questo teleromanzo (la cui conclusione è venuta, per il concorso di parecchie circostanze, a oltre venti giorni dl distanza dall’inizio) ci è apparsa debole per gli stessi motivi per i quali debole ci era apparsa anche la prima parte. Ridotto a pallido sfondo il substrato storico e ambientale da Balzac descritto con così meticolosa precisione, la vicenda della famiglia Grandet è divenuta perfino melodrammatica. Le «scene madri» che animavano questa puntata hanno, dopotutto, peggiorato la situazione. Si pensi al violento colloquio tra papà Grandet ed Eugenia, nel corso del quale l’avaro apprende che l’oro della figlia è uscito dalla sua casa. Il dramma del vecchio risultava esagerato, incomprensibile, quasi ridicolo, proprio perché Felice Grandet si è trasformato sul video in un «carattere», abbandonato il suo ruolo di rappresentante di una classe e di un sistema, di una ideologia e di un mondo. Il bravo Aldo Silvani ha sostenuto uno sforzo notevolissimo per dar forza e umanità alla scena, ma, necessariamente, la sua fredda rabbia ha avuto punte di isterismo piagnucolante estranee al personaggio di Balzac.

  Gran parte della puntata, del resto, ha finito per sfociare in una esteriore drammaticità: così che il momento meno credibile, sul piano espressivo, è stato quello della semifollia di Grandet dinanzi al suo oro. D’altra parte, al di là del suo impegno, Paola Bacci è stata inferiore alla sua parte (peraltro difficilissima): ha giuocato sulla continuità patetica, che non le ha mai permesso di raggiungere la crescente forza rassegnata che nel romanzo di Balzac, costituisce l’anima vera del personaggio. Lo stesso Silvani, del resto, ha perduto più volte il senso del suo Felice Grandet, accentuando eccessivamente la sua ipocrisia o dimenticandola del tutto.

 

 

  Gianfranco Calligarich, Papà Grandet. Un gigante diventa pigmeo, «Vie Nuove. Settimanale di politica attualità e cultura», Roma, Anno XVIII, 23 maggio 1963, p. 63.

 

  Felice Grandet si attacca al crocefisso d’oro che il prete gli porge in punto di morte. Delirando il vecchio non vuole mollarlo e mormora: «Dammelo, è mio. E’ d’oro, mi riscalda, solo l’oro, mi riscalda, soltanto l’oro». E’ questa una scena che rivedremo spesso nella letteratura susseguente a Balzac. Basti ricordare il finale del «Mastro don Gesualdo», o quello de «La roba», il racconto in cui Verga analizza la vita e la morte di un altro avaro. Su questo episodio praticamente si chiude la riduzione televisiva di «Eugenia Grandet» che il regista Alessandro Brissoni ha da poco terminato di registrare e che andrà in onda, in due sole puntate, le domeniche del 26 maggio e del 2 giugno.

  Titolo del teleromanzo è «Papà Grandet». Scelta non molto felice considerando il fatto che altra opera famosa del narratore francese è «Papà Goriot». Facile confondere tra le due. Un giorno o l’altro potrebbero presentare un altro teleromanzo intitolato «Eugenia Goriot». La ragione del mutamento di titolo starebbe, a quanto dice il riduttore Belisario Randone, nel fatto che l’autentico protagonista del dramma balzachiano sarebbe, non già Eugenia bensì suo padre Felice, un avaro di una avarizia mitica, da parabola greca. Basta vedere come muore. Ed Eugenia, la dolcissima zitella che dà il nome al libro? I funambolici riduttori televisivi hanno ridotto la sua storia ad una banale avventura d’amore in bianco.

  «L’essenziale, in Balzac», ha detto il regista Brissoni, «è coperto, nascosto dal fiume di parole che lo scrittore usava per descrivere l’evolversi della società parigina del suo secolo. E’ stato un lavoro duro ed abbiamo dovuto sfrondare pagine e pagine per portare alla luce la trama del libro».

  Ce n'è abbastanza per far rischiare l’infarto a chi, e sono molti, considera Balzac un gigante intoccabile al pari di Voltaire e Rabelais. Le intenzioni vagamente archeologiche di Brissoni (quel riportare alla luce la trama del romanzo) possono essere giustificate dalle esigenze limitative di un allestimento televisivo, tuttavia è certo che ridurre a due ore di trasmissione «Eugenia Grandet» significa rinunciare in partenza a «quel fiume di parole» a cui lo scrittore avevano affidato la sua inimitabile potenza espressiva. Rinsecchendo tutta la linfa allo scheletro dei fatti cosa rimarrà dell’atmosfera del libro? Quell’aria di provincia gretta e odiata in cui Eugenia affonda a poco a poco durante la lunga attesa di Carlo, soffocata dalla avarizia omicida del padre, come potrà essere resa televisivamente dal semplice svolgersi di una parte dei fatti? Si rischia di cadere nel melodramma, nel romanzo d’appendice. Si rischia di fare un «Felice Grandet» grottesco, una specie di Paperon de’ Paperoni sempre in giro per casa a spegnere candele e a chiudere lo zucchero nell’armadio, quando non scende in cantina a contemplare il suo oro, ad affondarvi le mani e il viso. Si rischia di fare una Eugenia lamentosa e sterile e non tenera e viva come nell’originale.

  Scritto nel 1833 (quando Balzac aveva 34 anni) «Eugenia Grandet» fu seguito l’anno seguente da «Papà Goriot», dove il protagonista muore dimenticato dalle figlie alle quali ha dedicato tutta la propria esistenza. Non è possibile dire con precisione quali siano le attinenze tra i due libri, se cioè Felice Grandet abbia provocato una crisi, con la sua avarizia, nella morale di Balzac tanto da spingerlo a scrivere di un personaggio che fosse diametralmente all’opposto. Molto più probabilmente Balzac doveva soddisfare quel suo numerosissimo ed attento pubblico che gli permetteva di sopravvivere ai pressanti creditori. Aveva quindi da farsi perdonare un personaggio—sgradevole e urtante nei confronti dei lettori.

  «Eugenia Grandet» è, cronologicamente, il terzo romanzo di Honoré De Balzac che aveva cominciato a scrivere praticamente tre anni prima quando, deluso dalle precedenti professioni di avvocato, aiuto notaio ed editore nelle quali aveva perso mucchi di quattrini, aveva deciso di rintanarsi in casa e di scrivere ciò che aveva visto nei suoi primi trent’anni di vita.

  Come Proust un secolo dopo, egli lavorò accanitamente sulla scorta delle esperienze accumulate. La sua azione letteraria non si spingeva tanto in profondità rispetto se stesso, quanto nell'ampia ma precisa documentazione dell’evoluzione che in quegli anni la società borghese stava subendo. Lavorò senza soste per vent’anni, quindici ore al giorno sostenendosi coi litri di caffè, consegnando febbrilmente ad ore prestabilite i fogli al suo stampatore. Era molto fiero di questa sua violenza creativa ed amava definirsi, negli ultimi anni, il «Napoleone della letteratura». In quei vent’anni di lavoro scrisse quarantamila pagine suddivise in novantasei romanzi che raccolse sotto il titolo generale di «Commedia Umana». Il suo fu un vero e proprio assalto alla realtà contemporanea, una specie di fiume in piena che travolgeva tutto quanto incontrava. La sua ironia feroce non conobbe limiti, nè la sua pietà e la sua dolcezza nei confronti di alcuni suoi personaggi, è il caso di Eugenia Grandet.

  Morì a cinquant’anni ucciso dallo sforzo compiuto, poco tempo dopo aver sposato la contessa Hanska, sua antica compagna di scuola (sic).

  Interpreti di questa edizione televisiva di «Eugenia Grandet» (una edizione non tanto da Bur dunque quanto da bigino Cetim) sono Aldo Silvani, il padre, Tina Lattanzi, la madre, Paola Bacci, la figlia Eugenia, Mario Valdemarin, Franco Sportelli, Giusi Raspani Dandolo.

  Prima puntata: In casa della famiglia Grandet, ricchi contadini, si festeggia il ventitreesimo compleanno di Eugenia. Felice regala alla figlia, durante una ristretta cerimonia familiare, una moneta d’oro da aggiungersi alle ventidue già donate che formeranno la sua dote matrimoniale. La serata festiva passa tra le visite dei vicini tra cui vi sono Adolfo e Bonfons, due pretendenti alla mano di Eugenia e ambedue non eccessivamente graditi alla ragazza. Giunge all’improvviso Carlo, nipote di Felice. Il padre lo ha spedito da Parigi in campagna in seguito ad un grave dissesto finanziario che lo porterà alla tomba. Papà Grandet non è molto contento di avere in casa il nipote. Una bocca in più da riempire di cibo. La sua avarizia non ha tregua. Eugenia invece si innamora subito del cugino tanto da regalargli la sua dote affinchè possa partire per l’America per fare fortuna. Resterà a casa ad aspettarlo finché lui non tornerà per sposarla.

  Seconda puntata: Felice scopre che Eugenia ha dato a Carlo le monete d'oro e durante una scenata provoca un collasso della moglie che muore. Eugenia rimane sola con la follia paterna. Passano gli anni inutilmente. Carlo non torna dall’America e giorno dopo giorno Eugenia tranquillamente sfiorisce. Tuttavia non si rassegna e respinge gli assalti matrimoniali dei pretendenti del paese. Dopo aver accumulato una fortuna Felice muore maledicendo la figlia perché non gli copre il letto di monete d’oro. Giunge, lo stesso giorno, Carlo. E’ mutato, in cinque anni si è completamente trasformato. Dopo un breve discorso di interessi abbandona Eugenia per sposare una ricca ereditiera parigina. Quando viene a sapere che anche Eugenia adesso è ricchissima ha ormai scoperto il suo gioco e non può fare più nulla. Eugenia resta sola e indurita dal dolore e dalle sofferenze inutilmente sopportate.

 

 

  Custode Carlomagno, Les Ambitieux chez Balzac, Napoli, R. Pironti e Figli, s. d. [1963?], pp. 112; 1 ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Avant-propos, pp. 11-13;

  Première partie.

  La volonté, l’orgueil et la question d’argent dans la vie d’Honoré de Balzac, pp. 17-39;

  Deuxième partie.

  Le pessimisme et la conception de la vie chez Balzac, pp. 43-60;

  Troisième partie.

  Les meilleurs représentants de l’ambition dans la “Comédie humaine”: le baron di Rastignac, Lucien de Rubempré, Raphaël de Valentin …, pp. 63-86;

  Conclusion, pp. 87-93;

  Le “Balzac” de Rodin, pp. 95-102;

  Œuvres et Correspondances de Balzac, pp. 103-108.

 

  Trascriviamo integralmente le pagine che formano la Conclusion:

 

  Pour conclure, le grand effort de Balzac était fondé sur le désir de photographier la société de son temps, comme Walter Scott avait fait pour certaines périodes historiques.

  A ce propos il a parlé de Walter Scott dans son introduction à la Comédie Humaine.

  Balzac a très bien réussi à saisir la tendance capitale de la nouvelle société: son désir d’améliorer sa condition d’origine.

  Après la révolution française bien des choses étaient changées. Le pouvoir pouvait être à tout le monde tandis qu’avant il n’était réservé qu’aux nobles et au clergé et le tiers-état ne pouvait absolument y parvenir. Donc tous pouvaient, à une telle époque, songer à parvenir aux plus hautes places, et ceux qui y réussiront, ce seront les hommes doués de volonté.

  Et le premier rêve de ces hommes du peuple sera la jouissance des dons de la vie.

  La misère crée le besoin de la richesse et le besoin a toujours été un grand ressort dans la vie! «la volonté qui est de la nature d’un instinctif, tend vers les biens de la vie, ils se livrent aveuglement aux besoins matériels». Nous voudrions faire remarquer comment l’oeuvre de Balzac s’enchaîne à celle de Stendhal. Celui-ci nous fait sentir dans l’évolution sociale la transformation profonde qui provoque l’ambition et prépare l’avènement de la bourgeoisie. Celui-là nous peint cet effort universel de l’ascension sociale. L’un nous donne les causes, l’autre nous détaille les effets, et, par conséquent, ce que nous voyons en un type unique, M.me de Rênal, chez Stendhal, devient un monde, à travers toute la Comédie Humaine, plus réel, plus significatif, plus vivant, que le monde même.

  Et de cette manière, on se trouve en présence de la grande fresque qui nous donne le tableau de la vie bourgeoise, de son effort constant pour se développer, se hausser, de manière que l’ascension soit ininterrompue.

  Ce que nous avons cru, en outre, pouvoir démontrer c’est que Balzac est le premier ambitieux de la Comédie Humaine. C’est de lui que les ambitieux balzaciens tirent leurs caractéristiques essentielles. Ferguson [cfr. La Volonté dans la Comédie Humaine, Paris, 1935] dans sa thèse affirme justement à la page 130 que Balzac:

  «C’est aussi un ambitieux par l’instinct de puissance».

  C’est-à-dire que Balzac a été poussé au travail seulement par pure ambition. En cela Rastignac lui ressemble tandis que Raphaël a été poussé à être ambitieux par amour. Lucien, est encore un Rastignac sans volonté, c’est-à-dire il est un ambitieux par désir du pouvoir, mais il lui manque la volonté suffisante.

  Rastignac, Lucien et Raphaël, ce sont là trois aspects du caractère de notre Auteur.

  En 1822 il écrivait à sa sœur à propos de sa jeunesse privée de bonheur: «Mes deux seuls immenses désirs, être célèbre et être aisé (sic; lege: aimé) seront-ils jamais satisfaits?».

 Balzac a été obsédé par l’importance que la volonté a dans la société née après la révolution.

  «En d’autres termes, cette volonté de puissance sous quelque forme qu’elle se déploie, est toujours ce vouloir vivre, ce désir de s’étendre ou par l’amour, par la persécution, ou par la domination, ce désir de l’emporter sur d’autres, ou par les moyens légitimes ou illégitimes. Les efforts de toutes ces volontés de puissance de tous les ambitieux pour arriver au but de leurs ambitions font que le monde de la Comédie Humaine est un tourbillon de désirs confus, d’espoirs déçus, de volontés manquées.

  Quelques-uns de ces passionnés sont poussés par des passions toutes mesquines et toutes banales, d’autres par de grandes passions»[1].

  Ainsi, le vrai monde de Balzac, celui où il se sent à l’aise, c’est le monde où l’on trafique, où l’on intrigue, où les cupidités et les ambitions se heurtent les unes contre les autres. Il est immorale (sic) à la façon de la nature, c’est-à-dire qu’il semble ignorer la morale. La Comédie Humaine se ramène, telle qu’il nous la montre, à l’âpre mêlée des besoins, au choc des forces antagonistes, se disputant le pouvoir et la fortune.

  Nous avons étudié les plus grands ambitieux et ceux qui le sont particulièrement «par instinct de puissance» en voulant étudier l’ambition, en elle-même, en ses caractéristiques générales. Il y a, en autre, beaucoup de petits ambitieux dans l’oeuvre de Balzac.

  Il suffit de rappeler les filles du père Goriot, Madame Libot, Goupil, Charles Grandet, le père Minoret, etc.

  Presque tous les hommes modernes, devant se créer une situation, sont des ambitieux; tous ont leur idéal à atteindre, et dans la seule observation de cette grande vérité, Balzac se révèle comme l’homme qui annonce la nouvelle société après 1830.

  Combien de fois, en lisant Balzac, nous apercevons la modernité de cet écrivain! Dans son âme romantique et fantastique à l’apparence réaliste et vulgaire nous reconnaîtrons l’âme d’une grande partie de la société moderne, qui, tout en voulant devenir réaliste, est restée romantique.

  Cette révolte contre un destin médiocre se transformant en une héroïque et désespérée tension des facultés, constitue la secrète poésie de toute l’ouvre (sic) de Balzac, et c’est, au fond, celle du siècle lui-même, dont le phénomène constant est un universel transfert des choses.

  Et quoi de surprenant, si des hommes élevés, comme lui, comme lui engagés dans la lutte pour l’existence avec de romanesques aspirations se sont retrouvés dans ses livres?

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac nell’aprile 1836, «Saggi e ricerche di letteratura francese», Milano, Feltrinelli Editore, Volume III, gennaio 1963 («Università degli Studi di Pisa. Studi di Filologia Moderna», 13), pp. 121-202.

 

  Gli aspetti letteralmente disastrosi in cui la situazione economica del Balzac si presentava alla fine del marzo 1836, permangono, anche nel mese di aprile, nella stessa inalterata gravità del trimestre precedente. E su tale situazione, fin dai primi giorni del mese, s’abbatte la minaccia di tutta una nuova serie di cambiali in scadenza che ascende press’a poco alla stessa somma delle obbligazioni di marzo.

  Per venire subito alla secca eloquenza delle cifre e configurare esattamente il quadro del bilancio dello scrittore all’inizio del secondo trimestre del 1836 basterà dire solo che — di fronte all’inesistenza di ogni prevedibile entrata — l’uscita è rappresentata da un complesso di debiti ammontanti ad una cifra totale di 4385 franchi e 70 centesimi, e che tali debiti, tutti scadenti fra il 1 e il 30 aprile [...].

  A salvare il Balzac dalla situazione economica che abbiamo qui delineata (e nella quale non abbiamo conteggiato i ben più grossi debiti ancora in sospeso con Madame de Balzac madre, con Laurens, con Madame Delannoy ecc. ecc.), ogni porto di salvezza continua a restare ben lontano. Esso non si profila infatti da nessuna di quelle direzioni che costituiscono le fonti normali di proventi dello scrittore: né sotto forma di vantaggiosi contratti editoriali, né dalla parte della Chronique de Paris, né in vista, infine, di una felice soluzione del processo col Buloz con una conseguente fortunata vendita del Lys dans la vallée.

  Ogni affare di libreria è per ora irrealizzabile. Come già si sa, lo scrittore non si è ancora liberato dal contratto firmato da tempo con Madame Béchet, da cui ha ricevuto notevoli anticipi senza aver ancora consegnato i manoscritti promessi; ed in tali condizioni non può prendere alcuna nuova iniziativa senza aver prima ottemperato agli impegni già sottoscritti. Inoltre le recenti operazioni compiute con Werdet hanno ancor più aumentato le proprie obbligazioni verso il suo secondo editore e rendono impossibile ogni nuova richiesta. [...].

  Rimangono, è vero, nel campo della speculazione libraria, due vie d’uscita ancora aperte che potrebbero risolvere vari problemi economici. Ma né l’una né l’altra si presentano, almeno per il momento, facilmente realizzabili. La prima, che è quella di una fortunata soluzione del progetto di una nuova edizione illustrata dei Contes drolatiques e che si trascina da mesi con alterne vicende, è tuttora — non sappiamo bene per quali nuove difficoltà intervenute — in alto mare. La seconda, che è connessa alla speranza — attraverso un rapido esaurimento degli ultimi romanzi messi in commercio — di procedere a nuove riedizioni o ristampe, è altrettanto problematica. La contraffazione belga, più forte che mai, taglia ogni possibilità di vendita all’estero e, soprattutto, in Italia dove, senza la facile concorrenza degli editori di Bruxelles, la richiesta sarebbe eccezionale. Nella stessa Francia, il pubblico ha accolto con una certa freddezza talune pubblicazioni recenti, e lo smercio della 2a edizione del Livre Mystique è difatti lento ed inferiore alle aspettative dell’autore e dell’editore. Un tentativo di attivare la vendita della 2a livraison delle Etudes Philosophiques, del Père Goriot e del Médecin de Campagne fatto attraverso grossi annunzi pubblicitari nella stampa parigina fra il 6 e il 10 aprile, non sembra avere l’esito sperato.

  Quanto poi alla Chronique de Paris e ai grandi vantaggi finanziari che lo scrittore s’era ripromesso di trarne, da tempo — come anche si è già visto — ogni illusione si sta drammaticamente dissolvendo. La rivista continua a marciare sulla china di un deficit spaventoso dovuto non tanto ad una cattiva amministrazione quanto alla mancanza di lettori e di abbonati. In tali condizioni, tutto quel complesso di operazioni finanziarie compiute nel mese precedente non ha approdato ad alcun risultato positivo; e come è impossibile collocare o vendere le azioni di proprietà del Balzac diventate senza valore, è altrettanto impossibile far affluire denaro nuovo e contante all’amministrazione del giornale. Priva di alimento finanziario, ignorata dal pubblico, la Chronique chiude il suo bilancio nel mese di aprile con un disavanzo non meno desolante di quello del mese di marzo. [...].

  Nessuna novità positiva viene, infine, in soccorso del Balzac per quanto concerne il processo del Lys dans la vallée il quale non è stato ancora chiamato in udienza. Intorno ai primi del mese, dopo tutti i noti rinvii, sembra che sia stata finalmente fissata una nuova data per gli ultimi giorni di aprile: ma anche questa data non è sicura, e sarà difatti ancora rinviata di alcune settimane. Le lentezze dell’amministrazione giudiziaria, insieme ad una serie di contrattempi sollevati da una parte e dall’altra, ritardano così una sentenza che il Balzac spera favorevole a sé e dalla quale attende il vantaggio di potere infine pubblicare in volume l’intero testo del Lys; e trascinano in lungo una contestazione che, al punto in cui si trova, mentre è sfruttata abilmente dal Buloz, irrita, offende, danneggia lo scrittore. [...].

  [...] le preoccupazioni di carattere economico e le disillusioni giornalistiche, pur predominanti, non sono le sole, e [...] ad esse si aggiungono irritazioni ed amarezze più segrete, di origine sentimentale, sia nei rapporti con Madame de Berny sia in quelli riguardanti la propria famiglia.

  I rapporti dello scrittore con Madame de Berny sono, come già sappiamo, distaccati e raffreddati da un pezzo: i due ex amanti non si vedono da molti mesi e tutto ciò che li riunisce non è che una corrispondenza fra Parigi e la Bouleaunière: corrispondenza forse anche diventata più rara e che, in ogni modo, è andata distrutta. È certo comunque che, soprattutto in questi ultimi tempi, non si tratta solo del congedo, un po’ triste o un po’ vibrato di un lungo amore che lentamente si spegne e dell’inevitabile, amara tensione che accompagna ogni addio. Sull’agonia di questo amore si accumulano contrasti umani ben più gravi, sospetti avvelenati da una reciproca diffidenza. [...].

  Sui rapporti con la famiglia, nel corso d’aprile, non sappiamo molto: ma quel poco di cui siamo a conoscenza è per confermarci che, anche da questa parte, preoccupazioni, irritazioni, dissidi non cessano dall’angustiare lo scrittore. Madame de Balzac madre non sta bene e alle sue periodiche crisi nervose non sono estranei il ritardo del figlio nell’assolvere i debiti contratti verso di lei, ed una effettiva condizione di insicurezza economica; Laure è nuovamente malata e, anche qui, il suo stato di salute è aggravato dalle inquietudini per l’ancora incerta situazione professionale del marito; Henry continua a creare imbarazzi a tutti: madre, fratello, sorella, cognato. [...].

  In tale situazione, dove tutto va di male in peggio, e in cui lo scrittore si dibatte senza più nemmeno il conforto di quel suo innato ottimismo e la speranza di una qualche — sia pur lontana — ancora di salvataggio, un nuovo incidente, abbastanza inatteso, viene a portare al colmo le disavventure del Balzac. L’incidente, che in altre condizioni sarebbe stato solo una spiacevole diversione, senza notevole gravità, in questo mese e, più precisamente, nell’ultima settimana di esso, allorché lo scrittore ha più che mai bisogno della sua libertà per dipanare la matassa caotica dei propri affari, è carico delle più disastrose conseguenze.

  Si tratta, come è noto, dell’imprigionamento del Balzac. Questi, la mattina del 27 aprile […], è sorpreso nel suo domicilio di rue Cassini da un commissario di polizia e da due agenti che, dopo brevissime formalità, lo arrestano e, sotto l’imputazione di omissione e renitenza al servizio della Guardia Nazionale, lo conducono alla prigione dell’“Hôtel de Bazancourt”, rue des Fossées-Saint-Bernard, nei pressi dell’attuale “Halle aux vins”.

  La ragione dell’arresto è molto semplice. Iscritto d’obbligo alla Guardia Nazionale (12a legione, 2° battaglione, 1a compagnia di cacciatori), lo scrittore s’era fino ad allora ben guardato dal partecipare ai periodici richiami obbligatori. Assente una prima volta ai propri doveri il 27 gennaio 1835, gli era stata fin d’allora comminata una pena di 48 ore di arresto; renitente alla chiamata del 10 marzo 1835, gli era stata inflitta una seconda pena di altre 48 ore; ancora recidivo, il 28 aprile 1835, alle pene precedenti erano state aggiunte altre 72 ore. La pena complessiva, risultato delle tre condanne successive, ascendeva pertanto, nel 1836, ad una intera settimana di detenzione.

  Tutte le tre condanne erano state fin qui puramente platoniche. Sia che il Balzac fosse riuscito a sfuggire alla cattura grazie al suo doppio domicilio e ad altri piccoli sotterfugi, sia che il Consiglio di Disciplina della sua Legione non avesse posto molta diligenza nell’applicare la pena, sta il fatto che essa era tuttora rimasta in sospeso. Ma improvvisamente (e forse quando meno lo scrittore se l’aspettava) la polizia si decide seriamente a ricercare il recidivo e, senza molte difficoltà, riesce a trovarlo e a mettergli le mani addosso.

  La mattina dunque del 27 aprile, finalmente trovato ed arrestato, lo scrittore è condotto alla prigione della Guardia Nazionale, il cosiddetto “Hôtel des Haricots.” [...].

  È solo [il 4 maggio] che il terzo certificato di uscita consente allo scrittore di essere finalmente e definitivamente rilasciato.

  Inutile sottolineare come questi sette lunghi giorni d’arresto, fra la fine di aprile e i primi di maggio, rappresentino una catastrofe vera e propria per il Balzac. In un momento in cui la sua presenza è indispensabile per la sistemazione dei numerosi ed intricati affari in sospeso, per tutto il lavoro redazionale connesso alla direzione della Chronique de Paris a pochi giorni di distanza dall’attesa udienza del processo del Lys, il fatto di trovarsi rinchiuso in prigione, di non potere disporre della propria libertà per gli indispensabili incontri con creditori, collaboratori, editori, amici, costituisce un danno incalcolabile. [...].

  Più urgente d’ogni altra è, anzitutto, la questione, che si trascina litigiosamente da tempo, della ultima livraison delle Etudes de moeurs au XIXe siècle: i due famosi volumi già pagati, ed invano sollecitati per mesi, da Madame Béchet. Alle rinnovate richieste di costei, che vuole una buona volta definire questa pendenza, il Balzac ha formalmente promesso una pronta consegna dell’opera; ma è promessa che resta ancora ben lontana dall’essere realizzata. Degli Héritiers Boirouge, romanzo destinato a chiudere la serie delle Etudes de moeurs, non sembra che lo scrittore, dopo i tentativi compiuti nel mese di marzo, si sia più successivamente occupato. [...].

  Di fronte all’impossibilità di consegnare il romanzo — né ora e nemmeno nelle prossime settimane — a Madame Béchet, le alternative che si presentano al Balzac si riducono a due, e sono ambedue, per un verso o per l’altro, di difficile realizzazione. Si tratta, cioè, o di rimborsare gli anticipi ricevuti da Madame Béchet, o di trovare un editore che si sostituisca nei diritti di costei, provveda al rimborso dovuto e sia, d’altra parte, tanto compiacente da attendere sine die il manoscritto promesso. Di queste due soluzioni, la prima — inutile dirlo — è la più difficile. Rimane la seconda che offre l’aspetto positivo di riunire sotto la responsabilità di un unico editore la pubblicazione delle opere complete (scritte e da scriversi) e che, per di più, offre il vantaggio di avere già l’uomo che occorre a portata di mano. I rapporti con Werdet sono in questo momento eccellenti e lo scrittore sa di non aver da temere — se l’accordo si raggiunge — quelle azioni giudiziarie che Madame Béchet stanca di indugiare, minaccia ed è risoluta ad effettuare, e sa di aver quindi, per ora, vari mesi di respiro davanti a sé. Ma Werdet è tutt’altro che un grande capitalista ed ha già dato fondo a molte delle sue riserve personali impegnandosi eccessivamente con anticipi e con speculazioni in comune col Balzac. Per riscattare i diritti di Madame Béchet (che ammontano a quasi 4000 franchi) dovrà egli stesso ricorrere a prestiti ed aggraverà ancora di più — con la garanzia di sole speranze — un rapporto d’affari, che è già singolarmente intricato, con il suo autore. Le sue esitazioni alle avances che il Balzac deve avergli probabilmente fatte fin dal mese precedente, sono dunque ben comprensibili.

  Giunto a questo punto, l’affare della cessione dell’ultima livraison e, accessoriamente, di tutta la collezione delle Etudes de moeurs, non può mancare dunque dall’occupare intensamente il Balzac e dal costituire un argomento molto importante dei colloqui avuti in questi giorni col Werdet in prigione. A seguito di tali conferenze, l’editore si è infine convinto della bontà e dell’opportunità dell’affare. Ma, risolto un primo punto, si tratta ora di convincere della cessione Madame Béchet la quale, meno manovrabile di Werdet, preferirebbe ricevere immediatamente i manoscritti e pone, in ogni caso, delle condizioni molto pesanti al trasferimento dei suoi diritti. L’affare è di nuovo dunque arenato [...].

  Senza tralasciare di dirigere la Chronique de Paris e di tener vivi i rapporti con i collaboratori; e non trascurando di sorvegliare, il meglio possibile, l’andamento dei propri affari personali, il Balzac non dimentica neppure di mantenere attiva la corrispondenza del cuore informando le sue amiche della disavventura che gli è sopraggiunta.

  Purtroppo le lettere a Sarah Guidoboni Visconti, che non può non essere stata avvertita dell’incidente, sono (come tutte le altre dirette alla “Contessa”) scomparse: e le risposte con esse. Ma rimangono quelle a Madame Hanska ed a Louise che testimoniano una certa intensità di rapporti epistolari e che si rivelano preziose. [...].

  A Madame Hanska. il Balzac non scriveva da quasi un mese. Il 23 aprile, ricevuta una lettera dell’Etrangère, si affretta a rispondere: ma la lettera iniziata e lasciata sul tavolo è interrotta dall’arrivo del commissario di polizia e viene continuata così, il 27, dalla prigione stessa. [...].

  Contemporaneamente alle notizie per la “Contessa” e per Evelina Hanska, Balzac invia anche a Louise un pensiero dal carcere. Veramente, con quest’ultima Musa, i rapporti epistolari molto intensi erano andati affievolendosi nelle ultime settimane, periodo in cui nessuna lettera fra i due può essere datata con certezza. Ma ad una lettera dell’invisibile corrispondente, pervenutagli verso il 27 aprile, Balzac non manca dal rispondere subito. È una risposta breve, contenuta nei sentimenti, e di un tono quasi ufficiale, ben diverso da quello intimo delle lettere precedenti. Lo scrittore si dice molto occupato nel disbrigo dei propri affari che premono al di fuori delle mura della prigione e si limita a poche frasi di cortesia. [...].

  A differenza dei mesi precedenti, il “carnet mondain” dello scrittore, in aprile, è molto ridotto. A causa forse del ritmo affannoso di attività che assorbe il tempo del Balzac lungo tutta la prima metà del mese, e, più tardi, della condanna della Guardia Nazionale che per vari giorni lo obbliga ad una indesiderata reclusione, la presenza dello scrittore sulle scene brillanti della vita parigina appare molto più rara del consueto.

  Da quanto ci risulta, Balzac ha assistito solo, molto probabilmente, ad una rappresentazione de Les Huguenots, e cioè ad una delle riprese di questo fortunato melodramma dato all’Opéra in aprile: più precisamente (se non ci inganniamo) a quella di domenica 17 aprile. [...].

  [...] dalla Svizzera, perviene al Balzac una lunga lettera della contessa Maria Potocka. La vivace ed intelligente dama polacca, amica comune dello scrittore e di Madame Hanska, è sul punto di lasciare Ginevra e di rientrare in patria. .[...].

  Se all’estero dame di grande nobiltà si struggono dietro i fantasmi poetici creati dal narratore francese, e studiosi di questioni religiose o eruditi proclamano la loro ammirazione per excursus metafisici e misticheggianti di Séraphita, le lettrici francesi non sono da meno, dal canto loro, nell’interessarsi alla celebrità dei romanzi balzacchiani. Sul tavolo dello scrittore continuano a giungere, come è ormai una vecchia consuetudine, lettere di corrispondenti femminili che approvano, discutono, criticano questo o quel romanzo. Con una differenza, tuttavia, abbastanza notevole. Che l’interesse “nazionale” non sempre testimonia l’illimitata ammirazione di quello straniero o si risolve nel plauso. [...].

  Per quanto riguarda l’attività narrativa del Balzac, il ritmo dei primi tre mesi del 1836 — quasi costantemente altissimo — segna, nell’aprile, un notevole rallentamento. [...].

  In tutto l’aprile, lo scrittore si limita all’ultimo lavoro di correzione del Lys dans la vallée [...]. Con qualche probabilità corregge o rivede anche, contemporaneamente, il secondo volume delle Oeuvres complètes d’Horace de Saint-Aubin (di cui il primo volume, Jane la Pâle esce ai primi del mese) e cioè, la Dèrnière fée, annunziato di imminente pubblicazione. Quanto ai nuovi romanzi progettati nei mesi precedenti, in parte già in cantiere, in parte non ancora scritti, che il narratore ha reiteratamente promessi ai suoi editori e ai suoi lettori come di prossima pubblicazione (o, addirittura, già in corso di stampa), nulla ci assicura che il Balzac abbia effettivamente lavorato intorno ad essi. Nemmeno delle due opere, la cui pubblicazione non può soffrire ulteriori indugi per gli impegni editoriali assunti (Les Hériters Boirouge e Illusions perdues) sembra — come già si è detto — che nessun progresso sia da ascriversi a questo mese.

  Più sensibile della produzione narrativa (anche se sempre lontana dai tours de force del primo trimestre 1836), è l’attività giornalistica, redazionale e personale alla Chronique de Paris. Quivi il Balzac, oltre ad inserire note editoriali, notizie di cronaca, brevi articoli (la cui redazione o revisione può essergli attribuita), pubblica ben nove lettere di politica internazionale su La France et l’Etranger. [...].

  Anche nel mese d’aprile il nome del Balzac e delle sue opere — soprattutto delle Oeuvres de jeunesse di cui s’è iniziata ora la ristampa — appare con rilevante frequenza nelle colonne dei giornali e delle riviste continuando a costituire argomento di vivaci discussioni. Ed anche in questo mese tali discussioni sono, nella loro quasi totalità, animate da uno spirito critico ostile allo scrittore e sempre disposto – partendo da spunti scandalistici di carattere biografico o da considerazioni sulla moralità e dignità dell’arte – a prendere a pretesto l’opera balzacchiana per un fuoco di fila di sarcasmi o per un pesante attacco a base di improperî e di indignate invettive.

  A tale atteggiamento, polemico per partito preso, sfuggono pochi articoli a cui una esigenza di serietà riesce a dare il tono sereno di una critica imparziale. Ma [...] si tratta di attestazioni di stima estremamente rare e che, se fanno spicco, lo fanno perché appunto sono pagine isolate disperse nel grande oceano della riprovazione generale. [...].

 

 

  Raffaele de Cesare, La formazione dell’italianismo di Balzac (1820-1836) e l’influenza di Stendhal (I), «Studi Francesi», Torino, 19, Anno VIII, fascicolo 3, settembre-dicembre 1963, pp. 450-461; successivamente, in Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l’Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1993, pp. 3-20.

 

  L’importanza che la geografia, la storia, la cultura letteraria o artistica d’Italia assumono nell’opera di Balzac; l’insistenza con cui, in tutta la Comédie Humaine, appaiono personaggi italiani e si succedono riflessioni concernenti la psicologia e i costumi d’oltralpe; la frequenza, infine, delle stesse espressioni in lingua italiana che ricorrono sotto la penna di Balzac (nei romanzi come nella corrispondenza) sono altrettanti fatti che non mancano d’imporsi, immediatamente, all’attenzione di ogni lettore. [...].

  Senza, certo, poter affermare che Balzac sia stato influenzato dall’Italia alla stessa maniera di altri scrittori francesi del suo secolo (Madame de Staël, Stendhal, Courier, per esempio), non è esagerato riconoscere dunque che la parte dedicata all’Italia nella sua opera resiste ad ogni possibile confronto con quella relativa all’Inghilterra, alla Germania, alla Russia e alla Spagna. Di tutti i temi esotici, quello italiano è stato certamente il più vicino alla cultura ed alla sensibilità di Balzac. [...].

  Il primo obiettivo che ci attende, per inquadrare convenientemente il nostro settore di indagine, è quello di elencare tutti gli elementi che, a quanto è lecito supporre, possono aver contribuito a costituire e ad arricchire le conoscenze dello scrittore, sulla cultura, sulla storia, sui costumi degli Italiani.

  Come è noto, Balzac (dopo vari progetti andati a vuoto) è venuto in Italia a più riprese: una prima volta nel 1836, quindi nel 1837, nel 1838, nel 1845 e nel 1846. Una parte della sua documentazione è dunque legata alle esperienze personali fatte durante questi viaggi a Torino, a Milano, a Venezia, a Firenze, a Bologna, a Genova, in Sardegna a Napoli e a Roma; ai suoi incontri con rappresentanti del patriziato, con letterati, uomini di mondo e di affari italiani; alle sue visite ai monumenti ed ai musei della Penisola; alle sue escursioni: in una parola alle sue curiosità e alle sue impressioni di turista.

  Ma tutti questi viaggi, per quanto numerosi e, talora di lunga durata non cadono che molto tardi nella biografia di Balzac. Essi si realizzano all’epoca della piena maturità dello scrittore, quando questi, cioè, è già da lunghi anni sulla breccia dell’attività letteraria. E quando, per di più, ha costellato i suoi romanzi e racconti di allusioni a poeti, musicisti, artisti italiani; ha messo in scena personaggi italiani ed ha finanche scelto sfondi tipicamente transalpini per inquadrare l’azione della sua narrazione: l’Italia meridionale per Falthurne-Savonati; la Sicilia e Napoli per Les Lazaroni, La Mort de ma tante e Douleurs de mère; Roma per Sarrasine, Olympia ou les vengeances romaines e La Fin d’un dandy; Ferrara per L’Elixir de longue vie; Venezia per Les Gondoliers de Venise, La Vieillesse de don Juan ou l’amour à Venise e Facino Cane; il Piemonte per alcune delle più incredibili avventure che si leggono in quella parte dei Mémoires de Sanson attribuitagli dalla critica.

  Tutta una serie di riferimenti all’Italia risulta dunque indipendente (dal 1820 al 1836 almeno) dalle esperienze dirette dello scrittore, e non può trarre origine che da fonti libresche, da informazioni di seconda mano, da conversazioni raccolte in un salotto o in una redazione di giornale, da una interpretazione necessariamente ideale e, per così dire, mitica del personaggio e del paesaggio meridionali.

  Questa assenza di contatto immediato con una realtà storica, geografica, culturale ed anche linguistica; questa mancanza di verifica personale caratterizzanti le allusioni italiane di Balzac fino al 1836 fanno certo letterariamente più interessante il fenomeno della sua iniziazione italiana, ma lo rendono anche di soluzione più complicata e difficile. [...].

  Iniziamo subito da un gruppo di amici di Balzac, italianisti o viaggiatori nella Penisola, dai quali lo scrittore in confidenze, conversazioni, lettere, ha desunto notizie italiane.

  Il posto d’onore spetta a Hyacinthe de Latouche, viaggiatore in Italia fra il 1811 ed il 1814, conoscitore abbastanza esperto della lingua italiana ed osservatore attento (anche se non irreprensibile) dei costumi italiani e in particolare, di quelli napoletani L’amicizia fra Balzac e Latouche non avrà, come è noto, una lunga durata, e i due scrittori, dopo il 1832, romperanno definitivamente ogni legame per passare ad una implacabile ostilità. Ma dagli inizi della loro conoscenza (intorno al 1825) fino al 1831 (ed anche dopo) l’influenza italianistica di Latouche non manca dall’esercitarsi su Balzac in modo fondamentale. Essa sfiora anzitutto alcuni nomi della letteratura italiana medievale e moderna (Dante, Manzoni) ed [...] avrà il suo momento culminante nel 1829 allorché Latouche pubblicherà quel suo sconcertante (e in verità mediocre) romanzo napoletano che si intitola Fragoletta. Come è noto, Balzac leggerà con grande interesse le avventure di questo ambiguo personaggio, le recensirà ampiamente e favorevolmente nel 1829 (e con molta probabilità anche nel 1831) e, ciò che più conta, terrà presente il quadro geografico dell’azione per ispirarsene, a più riprese, successivamente.

  Un’altra amica – e per un certo tempo, tenera amica – viene ad allinearsi, ad un’epoca di poco posteriore all’inizio dell’amicizia con Latouche, fra gli informatori italiani di Balzac. È la duchessa Laure d’Abrantès che, come è noto, durante la sua tumultuosa esistenza ha attraversato l’Italia, ha soggiornato a Roma e a Napoli, si dimostra al corrente dei costumi transalpini, sfoggia conoscenze letterarie e modi di dire italiani.

  Alcune sue opere e, soprattutto, i suoi interminabili Mémoires, ci informano minuziosamente di tutti questi aspetti biografici e culturali della duchessa d’Abrantès. Nessuna difficoltà si frappone dunque all’ipotesi che la curiosità di Balzac (la cui partecipazione alla redazione dei Mémoires è d’altronde molto probabile) sia stata largamente soddisfatta dalle confidenze italiane della duchessa.

  Anche un salotto artistico e letterario che Balzac frequenta fin dagli ultimi anni della Restaurazione – il famoso salotto del barone François Gérard – può avere singolarmente ampliato le nozioni italiane del nostro scrittore. [...].

  Ciò che conta di più rilevare è che il fatto di avere incontrato, forse per la prima volta, nel salone del pittore, Stendhal; di aver parlato a più riprese e sempre con entusiasmo, di queste «étonnantes» serate (nei Contes Bruns, nelle lettere a Madame Hanska, nella dedica degli Employés alla contessa Sanseverino-Porcia) sono altrettante testimonianze dell’importanza che i famosi mercoledì del «baron Apelle» hanno avuto per la cultura balzacchiana.

  Se, nel salotto del barone Gérard, l’italianismo è, per così dire, di casa, esso è ben lontano dall’essere estraneo al salotto di Charles Nodier, all’Arsenal, che Balzac pure frequenta a partire dal 1830. [...].

  Richiamiamo, anzitutto, il nome del generale barone Gilbert de Pommereul da cui Balzac ha certamente udito vari ricordi delle campagne napoleoniche. È a lui, in ogni caso, che risale il racconto dell’episodio alquanto misterioso dell’incendio di un quartiere a Ravenna, annotato, in vista di un progetto narrativo, in una pagina di Pensées, sujets et fragments e rievocato più fugacemente nel Colonel Chabert. Ma non dimentichiamo neppure, fra questi informatori militari, il comandante Carraud, che ha partecipato ad una delle campagne d’Italia, combattendo a Napoli, e che a Tropea, in Calabria, è stato fatto prigioniero degli Inglesi. [...].

  Ricordiamo poi il marchese Astolphe de Custine che pubblica, nel 1830, i suoi Mémoires et voyages – opera letta e citata da Balzac fin dal 1831 nel frammento dei Deux Amis – ed un altro meno noto amico dello scrittore, Edouard Gauttier d’Arc, autore di alcune impressioni di viaggio napoletane pubblicate nella «Revue encyclopédique» del novembre 1827 e di altri frammenti di un secondo viaggio in Italia nel 1831. Né va trascurato il nome di Jules Sandeau che, per dimenticare le sue recenti disavventure sentimentali con George Sand, compie un viaggio in Italia nella primavera del 1833. Poco tempo dopo il suo ritorno dall’Italia, Sandeau si stabilir in rue Cassini ed eserciterà in maniera alquanto vaga le funzioni di segretario di Balzac. [...].

  Un posto a parte, fra questi amici, menta il pittore Auguste Borget che, nel settembre del 1833, visita il Lago Maggiore, e che di nuovo è in Italia nell’estate-inverno 1834. Al ritorno da questi viaggi, nel 1835, Borget viene a Parigi per trovarvi Balzac, e non v’è dubbio anche qui che i temi italiani siano stati al centro delle conversazioni fra i due amici. [...].

  Questi amici di Balzac sono tutti francesi. Ma non si può ora dimenticare un gruppo abbastanza consistente di amici italiani che ragioni diverse hanno fatto approdare dalla loro patria alle rive della Senna: figure tuttora illustri o oggi quasi ignorate, le quali hanno comunque, in certa misura, esercitato una funzione mediatrice fra la cultura italiana e Balzac.

  Il primo ad essere ricordato è necessariamente Rossini, conosciuto, sembra, intorno al 1830, e rimasto in rapporti, diretti o epistolari, con lo scrittore per oltre un decennio. [...].

  Accanto a Rossini occupa un posto di rilievo, a nostro parere, quella figura abbastanza complessa di gentildonna, di scrittrice e di agitatrice che è la principessa Cristina Belgiojoso-Trivulzio. Balzac dovette conoscerla poco dopo l’arrivo di lei a Parigi, intorno agli anni 1832-1833 e con lei – francesemente chiamata la «Bellejoyeuse», o confidenzialmente Cristina – rimase in rapporti pressoché continui fino al 1847. [...].

  Minore, ma non trascurabile importanza assumono altre persone italiane che si sono trovate a contatto con Balzac fra il 1830 e il 1836. Ragioni che nulla hanno a che fare con la letteratura (ma non con la vita dei sentimenti!) vogliono che fra esse la prima ad essere nominata sia quella del conte Emilio Guidoboni Visconti, marito della molto amata Sarah, bizzarra figura di patrizio e di dilettante [...]. Subito dopo, vanno citati i nomi della contessa Teresa Nogarola, veneta, moglie dell’ambasciatore austriaco Apponyi, di cui Balzac frequenta per vari anni il salotto; del marchese Vincenzo Salvo, diplomatico napoletano [...]; del conte Brignole-Sale, ambasciatore sardo e del barone Nasi, addetto alla stessa legazione, che, nel concedere a Balzac il passaporto per il suo primo viaggio negli Stati Sardi, lo raccomandano a personalità di Torino.

  A chiudere infine l’elenco di questo gruppo di persone legate a Balzac da vincoli di affetto, di amicizia o da semplici relazioni di società, nessun nome ci sembra più interessante di quello della stessa contessa Hanska [...].

  Del tutto sorprendente si presentava invece la possibilità di una sua mediazione fra Balzac e il Mezzogiorno d’Europa anteriormente ai due viaggi compiuti insieme all’amante, a Napoli e a Roma nel 1845-1846. [...].

  Ma, parallelamente a queste fonti «orali» di documentazione, bisogna citare, quale veicolo culturale molto importante, numerose letture di Balzac. [...].

  Innanzitutto, questi ha letto, fin dagli anni della giovinezza, taluni dei capolavori della letteratura italiana. In traduzione, naturalmente (stante la sua inesperienza linguistica) ma che, anche sotto il velo di una lingua diversa da quella originale, non possono aver mancato di imprimere nella sua memoria immagini preziose per l’arricchimento delle sue nozioni culturali o psicologiche italiane.

  Classificando questi scrittori secondo l’ordine con cui i loro nomi ricorrono per la prima volta sotto la penna di Balzac [...] indichiamo Petrarca, il Tasso, l’Ariosto, Dante, Boccaccio, l’abate Casti, Manzoni, forse il Foscolo, Machiavelli, l’Aretino, Vico, Silvio Pellico. Ed aggiungiamo che, accanto a questi scrittori maggiori, Balzac si è anche documentato su di uno scrittore minore, V. Siri (le cui Memorie recondite sono richieste in prestito alla Bibliothèque Royale nel dicembre 1829 e nell’aprile 1830) e su di un memorialista (diventato quasi francese, è vero, e di un valore letterario tutto a sé), Giacomo Casanova, i cui Mémoires costituiscono comunque una miniera inesauribile per la conoscenza di certi costumi «privati» dell’Italia nel XVIII secolo.

  Ci sono poi le opere di intonazione italiana di scrittori francesi. Ed anche qui la messe delle letture balzacchiane che ci è possibile raccogliere risulta abbastanza copiosa.

  Uno dei primi nomi da fare è ovviamente quello di Corinne di Madame de Staël, opera che non solo Balzac cita abbastanza frequentemente nei suoi romanzi e sulla quale si sofferma più a lungo di quanto non faccia per altre opere staëliane [...].

  Lasciando poi da parte le opere di Stendhal, [...] si debbono menzionare le lettere di Paul-Louis Courier (che Balzac stesso menziona favorevolmente in una recensione del marzo 1830), alcuni degli scritti italiani di Chateaubriand e numerose liriche di Lamartine: testi, questi ultimi, che l’autore della Comédie Humaine non ha certamente ignorati fin dai suoi anni di apprendistato letterario, e sulla cui conoscenza, del resto, articoli, racconti, romanzi balzacchiani ci offrono una abbondante documentazione.

  Altri nomi che non possono essere trascurati sono quelli di George Sand, la cui produzione di argomento italiano precede il suo viaggio in Italia e si corona con Lélia, e di A. de Musset che nei Contes d’Espagne et d’Italie (altra opera sicuramente conosciuta da Balzac) raffigura insistentemente, anche se fantasticamente, lineamenti di un’Italia terra di promesse sentimentali e di curiosità folcloristiche.

  In un piano letterario diverso, dobbiamo menzionare altresì due racconti, i cui avvenimenti sono situati in Italia, di due scrittori francesi minori: il primo, Une bonne fortune, di Ph. Chasles, che, pubblicato fra i Contes Bruns, nel 1832, ha probabilmente offerto una precisazione geografica siciliana a Balzac; il secondo, Venezia la Bella, di Alphonse Royer, perché esplicitamente citato nelle Lettres à Madame Hanska come un’opera letta nel luglio 1834.

  Infine, una parte imprecisabile, ma probabilmente abbastanza importante, va fatta a tutti gli articoli di argomento italiano raccolti nella Biographie Universelle del Michaud, opera posseduta da Balzac e da lui consultata (più spesso di quanto non si creda) nel corso della redazione dei suoi lavori. [...].

  Non meno notevole del filone letterario francese sull’Italia è quello rappresentato dalle opere di scrittori tedeschi e, soprattutto, inglesi: altra componente culturale che, conosciuta naturalmente attraverso traduzioni o rifacimenti più o meno liberi, Balzac ha largamente sfruttata. [...].

  Un posto a parte, infine, nel chiudere questa rassegna, spetta alle letture balzacchiane di tutte quelle relazioni di viaggi in Italia, di cui la cultura francese, nella prima metà del XIX secolo, è singolarmente ricca.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac a Roma, in AA.VV., Studi in onore di Carlo Pellegrini, Torino, S.E.I., 1963, Vol. II, pp. 609-634. Con un’appendice: Roma nell’opera di Balzac prima del 1846, Ibid., pp. 634-648; successivamente, in Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l’Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1993, pp. 47-103.

 

  Il viaggio del Balzac a Roma, nell’aprile del 1846, non è stato fatto finora oggetto di quella ricerca paziente ed appassionata che ha posto invece sotto una migliore luce taluni dei precedenti soggiorni italiani del romanziere francese: a Torino, nel 1836. a Milano e a Venezia, nel 1837. [...].

  [...] l’apporto di tutte quelle testimonianze che ci sono normalmente d’aiuto nella ricostruzione delle giornate italiane del Balzac (carteggi, memorie, diari, indiscrezioni giornalistiche, echi di gelosie letterarie locali e fin di polemiche nazionalistiche) ci viene qui quasi completamente a mancare. Le riviste ed i giornali romani – quei pochi, almeno, che uscivano nel 1846 – tacciono del tutto l’arrivo o la permanenza dello scrittore francese fra gli ospiti illustri dell’Urbe; le memorie di quelle personalità dell’aristocrazia romana e straniera che potevano essersi trovate in qualche modo in rapporto con il Balzac e con la contessa Hanska a Roma, nell’aprile del 1846, non alludono menomamente ai due viaggiatori; gli stessi archivi segreti vaticani non serbano ricordo della presenza dello scrittore a Roma; e nemmeno i rapporti dell’Esente della Guardia Nobile, che segnalano minuziosamente i più piccoli avvenimenti del servizio d’anticamera papale, fanno menzione del nome del Balzac fra i fedeli ricevuti in udienza da Gregorio XVI nei giorni precedenti la Settimana Santa del 1846 ed in quelli successivi.

  Rispetto a quell’alone di notorietà, di scandalo, di autentico interesse o di puro snobismo letterario che circonda il narratore francese a Torino, a Milano, a Venezia, a Genova, domina, per quanto riguarda Roma, il silenzio più fondo e più indisturbato. [...].

  Ad inquadrare l’episodio del viaggio romano e a presentarne gli antecedenti, il primo fatto da ricordare è che un tale progetto affonda, nella biografia del Balzac, ben addietro le sue radici e che è accarezzato vivamente fin dal 1832. Nell’autunno di quest’anno, come è noto, lo scrittore, nella speranza di poter realizzare il suo primo viaggio in Italia, conta infatti di spingersi fino a Napoli (dove intende trascorrere l’inverno in compagnia della marchesa de Castries) e di passare quindi, all’andata o al ritorno, per Roma. Due anni dopo (naufragato, come si sa, il primo progetto nel nulla) il Balzac torna a sperare nell’attuazione di un viaggio a Roma, in compagnia dell’amico Borget, per raggiungervi colà Madame Hanska, allora in Italia.

  Ma, allo stesso modo del primo, anche questo secondo progetto si dimostrerà irrealizzabile. [...].

  Più tardi ancora, nel 1845, il quarto viaggio italiano in cui lo scrittore, dopo un lungo vagabondare attraverso l’Europa centrale, accompagnerà Madame Hanska, la figlia ed il futuro genero fino a Napoli, lascerà fuori, una volta di più, Roma. [...].

  Fortunatamente, Madame Hanska, rimasta a Napoli, ha progettato un lungo soggiorno nell’Italia meridionale ed ha deciso di trascorrere l’inverno a Napoli stessa, dapprima, e, quindi, a Roma dove si propone di giungere per il celebre carnevale e per le tradizionali cerimonie della Settimana Santa. La permanenza italiana dell’amante riaccende nello scrittore il proposito di una nuova discesa oltralpe e – finalmente! – l’attuazione del tanto desiderato soggiorno romano. Fin dal suo ritorno a Parigi medita così, e decide, per i prossimi mesi, un altro viaggio avente per meta Napoli e Roma.

  Purtroppo, la situazione che il Balzac trova al suo rientro nella capitale è più imbrogliata e caotica che mai e, verso la fine del 1845, richiede tali e tanti interventi personali, che lo scrittore giunge quasi a disperare di poter mantenere la promessa fatta all’amante, nel lasciare Napoli, di ritornare colà e di ripartire quindi, insieme, alla volta di Roma. [...].

  La data decisa è, questa volta, mantenuta, e Balzac la riconferma all’amante nella sua lettera del 2 marzo. Ben poche delle difficoltà che si frapponevano ad una nuova assenza da Parigi sono state rimosse, e la maggior parte degli affari da portare a termine resta ancora in sospeso. Ma, rotto ogni indugio, lo scrittore è ormai determinato alla partenza. A tale decisione, assurda sotto l’aspetto economico, ma perfettamente giustificata dall’ansia sentimentale che agita il Balzac, non è stata estranea una lettera «adorable» ricevuta nei giorni precedenti da Napoli, vibrante d’amore e racchiudente teneri inviti ad una imminente riunione. [...].

  Per giungere in tempo all’imbarco del vapore a Marsiglia, la partenza da Parigi è stata fissata al 16 marzo, ed in questa data il Balzac scrive ad Emile de Girardin per congedarsi da lui e per tranquillizzarlo sulla sorte dei Paysans la cui continuazione è attesa da più di un anno alla redazione della «Presse». [...].

  Dalla partenza da Parigi all’arrivo a Roma non sappiamo purtroppo più nulla. [...].

  Notizie maggiori abbiamo invece sulle giornate romane dello scrittore, prolungatesi per quasi un mese (dal 25 marzo al 20 aprile) e, come vuole la tradizione d’ogni turista, abbastanza faticose ed intense. Di esse siamo anzitutto informati, con qualche particolare, da una lunga lettera del Balzac alla sorella Laure, scritta al termine del suo soggiorno a Roma e completata da un poscritto da Civitavecchia, il 21 aprile, la vigilia dell’imbarco per Genova.

Per cominciare dal «diario sacro» (di rigore per ogni visitatore cattolico) sappiamo da questa lettera che il Balzac è stato ricevuto in udienza da Gregorio XVI: udienza pubblica, senza particolare apparato essenza possibilità di un lungo incontro col Pontefice, tale tuttavia da permettere allo scrittore di avvicinare, con altri invitati, il «père commun des fidèles». Una seconda udienza, particolare, che gli sarebbe stata concessa due settimane dopo la prima, non ha potuto aver luogo per l’impossibilità da parte dello scrittore di prolungare il proprio soggiorno a Roma. Ma, anche nella prima, come s’è detto, Balzac è stato accolto con distinzione dal Papa che gli ha benedetto uno scapolare ed un rosario destinati alla madre. Contemporaneamente all’udienza papale, lo scrittore ha visitato San Pietro ammirandone l’immensità dell’interno, salendo fino alla sommità della Basilica e spingendosi dentro la famosa palla di bronzo. Ha assistito alle cerimonie della Settimana Santa ed ha ascoltato, due volte di seguito, nel corso di queste cerimonie, il Miserere. Infine, nel giorno di Pasqua, è stato presente alla Benedizione papale e, la sera di questo stesso giorno, ha ammirato l’illuminazione della piazza di San Pietro.

  La conoscenza della Roma pagana non è stata da meno di quella della Roma sacra. Ed anche qui lo scrittore comunica alla sorella di aver percorso in lungo e in largo la città che, in fatto di rovine, musei, palazzi, non ha quasi più segreti per lui, e di esserne rimasto a tal punto colpito da proporsi di trascorrere l’intero inverno dell’anno successivo nella Città Eterna.

  Indagatore attento e perspicace, il Balzac non ha solo osservato ed ammirato la Roma dei Cesari e dei Papi, ma ha colto anche gli aspetti caratteristici della città contemporanea, fatti tipici delle sue usanze, dei suoi costumi e dei suoi abitanti. Come Stendhal [...] e come altri viaggiatori stranieri, è stato colpito dalla prodigiosa quantità dei mendicanti; dalle continue, insistenti richieste di mance all’entrata delle gallerie pubbliche e private; dall’aumento del prezzo della vita causato dall’afflusso dei turisti e dall’esosità dei romani ecc. [...].

  Ammiratore fervente di Raffaello fin dagli anni lontani della giovinezza, è stato particolarmente colpito, ai Musei Vaticani, dalla Trasfigurazione e dalla Madonna di Foligno; alle «Stanze», dagli affreschi celebri; all’Accademia di San Luca da San Luca che dipinge la Vergine; alla Galleria Sciarra, dal ritratto di un Suonatore di violino; alla Galleria Borghese, da un Trasporto della Croce (o da una Deposizione). Infine, alla Galleria Doria, si è letteralmente entusiasmato davanti alla bellezza muliebre di un quadro raffigurante la Signora Olimpia.

  Anche la scultura greco-latina ha destato la sua meraviglia ai Musei Vaticani, dove il Balzac ha vivamente ammirato la Nutrice del gruppo dei Niobidi ed il celeberrimo gruppo del Laocoonte.

  Quanto all’architettura romana non meno viva è stata la sua sorpresa per le chiese barocche i cui fastosi ornamenti interni risorgeranno più tardi nel suo ricordo, paragonati a quelli delle chiese di Cracovia; ed altrettanto viva la sua curiosità di fronte a certe tipiche abitazioni del popolo o della borghesia di Roma, soprattutto di quelle, a Trastevere, con l’orto e la pergola davanti, metà urbane e metà campestri. [...].

  La passione per l’acquisto di quadri e di oggetti d’arte non è nata da ora nel Balzac, che già da qualche anno è tutto preso dalla smania e quasi dall’ossessione dell’antiquariato e del bric-à-brac non solo in vista dell’arredamento della casa di Parigi, ma convinto di potere anche fare, grazie al proprio fiuto di conoscitore, affari d’oro. È certo comunque che il soggiorno a Roma, mercato allora inesauribile di oggetti antichi, ha risvegliato in lui le più grandi velleità di fortunato competente di antichità. E c’è da esser quasi sicuri che al fondo della manìa di collezionista contratta a Roma da Sylvain Pons non sia estraneo il ricordo di un atteggiamento autobiografico del narratore.

 [...] è possibile ricostruire con una certa approssimazione la storia degli acquisti artistici dello scrittore e seguirlo più da vicino in questi aspetti delle sue giornate romane. Aspetti di un certo rilievo dal momento che, complessivamente, la cifra dei quadri e degli oggetti antichi acquistati ha raggiunto la somma molto elevata di 3000 o 4000 franchi: cifra globale che, seppur non è stata pagata in contanti, dovrà naturalmente essere saldata a Parigi all’arrivo delle casse.

  In tale complesso di acquisti, oltre vari oggetti, sono compresi i tre quadri di cui Balzac ha scritto alla sorella: un ritratto di donna siciliana, attribuito al Bronzino, un ritratto di donna fiamminga, attribuito al Miereveldt, ed un ritratto di un Cavaliere di Malta attribuito (per ora) a Sebastiano del Piombo. [...].

  Nel corso del suo soggiorno romano lo scrittore ha avuto anche qualche contatto con amici e conoscenze francesi. [...].

  Ma, soprattutto, il Balzac si è legato d’amicizia con una parte della società romana nella quale è stato introdotto grazie alla sua notorietà di illustre Straniero e per tramite di Madame Hanska. Fra questi nuovi amici romani colui che ha certamente più attratto il suo interesse e con il quale si è legato con più stretti vincoli di cordialità e di ammirazione è certamente Michelangelo Caetani, principe di Teano e duca di Sermoneta. A lui, cugino, per via di moglie, di Eva Hanska, il Balzac fu certamente presentato, appena giunto a Roma, dall’amante; ma già da Parigi lo scrittore aveva avuto occasione di sentir parlare del colto e spregiudicato patrizio romano [...] da un comune amico che, più d’una volta, aveva avuto l’opportunità di scendere in Italia: Astolphe de Custine. Come già si è accennato, era questi, difatti, che si era offerto di dare allo scrittore, in procinto di partire per Roma, una lettera di presentazione per Caetani.

  Nelle poche settimane di permanenza romana, i rapporti di cortesia, stabilitisi fra i due, sono ben presto diventati rapporti d’amicizia. Michelangelo Caetani ha fatto gli onori di casa della Città Eterna (di cui conosce ogni angolo ed ogni secolo di storia) all’intera «Troupe des Saltimbanques»; ha fatto da cicerone agli amici stranieri in talune escursioni archeologiche (alle Terme di Caracalla, all’Aventino), li ha forse accompagnati nelle visite alle botteghe degli antiquari, sfruttando la propria presenza di «romano de Roma» per risparmiare ad essi gli infiniti tranelli che i mercanti tendono ai clienti stranieri; li ha forse accolti nella sua casa di via Condotti o in quella avita di via delle Botteghe Oscure. Con il Balzac ha fatto anche di più. Apprendendo l’ammirazione dello scrittore francese per Dante (ammirazione di lunga data anche se, per la verità, un poco orecchiata e dilettantesca) ha messo a disposizione di lui tutto il tesoro delle sue vaste ed approfondite conoscenze sulla Divina Commedia. Ed ha condotto l’ospite nelle sale di Palazzo Farnese dove, in quel tempo, avevano luogo riunioni di studiosi e di letterati e lo stesso Caetani teneva conferenze e discussioni intese ad illustrare l’opera dantesca.

  Balzac stesso, del resto, ha riconosciuto altamente tale debito di iniziazione culturale a Michelangelo Caetani nella dedica che apre, fin dalla sua prima edizione, il testo dei Parents pauvres. [...].

  La magnifica dedica ora citata appartiene, diversamente da quanto si legge in calce ad essa, al luglio 1846, giacché è il 16 luglio che, per la prima volta, il Balzac accenna, scrivendo alla contessa Hanska, all’intenzione di dedicare questo suo nuovo romanzo («un grand chef-d’oeuvre, extraordinaire parmi mes oeuvres les plus belles») a «notre cher Théano»; ed è il 23 luglio che il testo della dedica è inviato a Creuznach, all’«Etrangère» perché essa provveda a trasmetterlo a Roma al destinatario. [...].

  La corrispondenza fra il Balzac e Michelangelo Caetani [...] è andata distrutta o è tuttora introvabile. Ma alcune lettere di Caetani a Madame Hanska, che si sono fortunatamente conservate, contribuiscono in maniera abbastanza interessante a ricostruire meglio le giornate romane del Balzac e precisano alcuni episodi di quella permanenza.

  Si tratta di un gruppo di quattro lettere, ancora inedite, possedute nel fondo balzacchiano della Collezione Spoelberch de Lovenjoul, a Chantilly, ed inserite in uno dei dossiers contenenti la corrispondenza e le carte di Ève Hanska-de Balzac. Le prime due risalgono ancora ai giorni del soggiorno della «Troupe des Saltimbanques»: una di essa, datata «samedi», appartiene probabilmente al sabato 4 aprile, e ci informa di una escursione compiuta dallo scrittore e dai suoi amici a Tivoli. La seconda, che è forse di lunedì 6 aprile (la domenica delle Palme cade, nel 1846, il 5 aprile), fa menzione di alcuni biglietti d’invito a San Pietro ed è probabilmente connessa alle intenzioni di Balzac e di Madame Hanska di assistere alle celebrazioni della Settimana Santa da una tribuna comoda e di distinzione.

  Le ultime due, lunghissime, sono state scritte dopo la partenza della contessa da Roma: l’una, l’11 maggio 1846, indirizzata ad Heidelberg; l’altra, il 10 novembre dello stesso anno, inviata a Francoforte sul Meno. [...].

  La quarta lettera riguarda ancora, in parte (fra numerose divagazioni politiche che pure, per altro verso, risultano interessanti), i rapporti con Balzac. Caetani ha ricevuto la dedica dei Parents pauvres trasmessagli da Madame Hanska e, come ha già ringraziato il narratore, ringrazia ora anche la cugina che gliene ha inviato l’autografo. Alla riconoscenza verso l’autore del romanzo che ha voluto introdurlo «dans la postérité à ses frais», non manca di aggiungere la gioia che proverà se quegli vorrà mantenere la promessa fatta di ripassare di nuovo da Roma e se, nel corso di questo atteso soggiorno (al quale parteciperanno forse anche la contessa Hanska e i due giovani sposi), vorrà ascoltarlo ancora più a lungo nelle approfondite discussioni su Dante e l’opera sua. [...].

 

Appendice.

Roma nell’opera di Balzac prima del 1846.

 

  La serie di menzioni che presentiamo non è né numerosa né molto importante; ed è probabilmente inferiore, per numero e per rilievo, a quella che lo scrittore francese dedica ad altre città italiane (Venezia, Milano, Napoli). Essa è tuttavia tale da confermare l’esistenza di una certa attenzione del Balzac, fin dalla giovinezza, per il mito di Roma, e di una preoccupazione abbastanza costante, di documentarsi sulla storia, sul paesaggio, di quella città e sulla psicologia di quegli abitanti. [...].

  Per tacere di alcune semplici citazioni alla Roma classica (comune ed insignificante bagaglio di cultura scolastica) che si ritrovano nel Discours sur la mort des enfants de Brutus (1815) e in Sténie ou les erreurs philosophiques (1820) dobbiamo arrivare ad uno dei romanzi di giovinezza per trovare un primo riferimento concernente, sia pur vagamente, le abitudini romane. Si tratta di un accenno all’uso particolare che le donne romane facevano di un preparato chimico (la tuzia o ossido di zinco), accenno inserito nelle aggiunte alla seconda edizione della Dernière Fée (1823). [...].

  Non è che vari anni dopo, fra la fine del 1829 e il 1833, che un maggiore e più insistente interesse per Roma si presenta nell’opera del Balzac. La sua cultura romana si arricchisce ed è utilizzata in una successione più fitta (e talora più ampia) di rinvii culturali.

  Molto generico e scolastico è ancora l’epilogo alla prima parte della Physiologie du mariage (Méditation IX) dove lo scrittore, nel delineare una specie di storia delle istituzioni matrimoniali, dall’antichità ai propri giorni, ricorda lo stato di servitù della sposa romana, l’assenza in Roma di cortigiane, gli antichi costumi romani che impedivano alle donne di calcare la scena, le matrone romane, perfette matres familias, ineccepibili educatrici dei loro figli: notizie tutte che un qualsiasi libro di storia antica può aver fornito, senza difficoltà, allo scrittore. Altrettanto rapida è l’allusione a San Pietro di Roma, richiamata a contrasto dell’umile soffitta in cui celebra l’abbé de Marolles, in una pagina di Un épisode sous la Terreur. E ben poco da rilevare c’è anche nella novella Gloire et Malheur (diventata successivamente La Maison du chat-qui-pelote) pubblicata nell’aprile del 1830. [...].

  Ma verso la fine dello stesso anno, una intera novella, Sarrasine, è ambientata nella cornice di una Roma alla metà del Settecento, gaia, passionale e cinica; ed al personaggio principale – uno scultore francese, Sarrasine – si stringe attorno una folla di personaggi secondari, o di comparse, italiani: cantori evirati, cardinali, abati, principi romani, musicisti ed artisti. [...].

  Ora, il fatto di aver trasportato l’azione di Sarrasine a Roma e di aver tentato di rialzare con qualche riuscita pennellata di colore locale l’ambientazione del racconto, può farci pensare all’esistenza di un’altra fonte di informazione attinta ad altre letture molto più precise ed evocatrici di quelle del Latouche o dello stesso Casanova.

  Si può pensare, certo, ad una delle numerose guide di Roma circolanti in Francia nel primo trentennio del secolo, ma non è meno lecito supporre che il Balzac, all’atto di scrivere Sarrasine, non abbia mancato di tenere d’occhio le opere di viaggio di Stendhal (Rome, Naples et Florence e, in particolare, le allora recentissime Promenades dans Rome), a lui note alla fine del 1829. [...].

  Abbastanza numerosi, anche se di rilievo molto minore, sono gli accenni romani che si incontrano nelle opere balzacchiane fra il 1831 e il 1832. Il primo, in La Peau de chagrin (agosto 1831) ritorna sul ricordo della Roma classica e medievale senza arricchire l’evocazione di quella civiltà (sulla quale peraltro il Balzac si sofferma più a lungo che non nelle opere di giovinezza) di elementi molto originali. Taluni fra gli oggetti d’arte che riempiono il negozio del misterioso antiquario parigino hanno il potere di accendere nel giovane visitatore luminose immagini di un mondo secolare [...].

  Il secondo, in Maître Cornélius (dicembre 1831) tocca il tema (sul quale il Balzac ritornerà in seguito con una certa compiacenza) della venalità della Corte papale romana durante la Rinascenza. [...].

  Il terzo, in Madame Firmiani (febbraio 1832) immagina solamente che, fra le varie persone a cui si domandino notizie della bella e misteriosa signora, uno dichiari di averla conosciuta, dieci anni prima, a Roma. [...].

  Il quarto è costituito da una nuova aggiunta al testo di Maître Cornélius che, nel 1832, il Balzac ripubblica in volume inserendolo nei Nouveaux contes philosophiques, editi dal Gosselin. Anch’esso è un accenno rapidissimo e si ricollega a quel tema della venalità della Corte romana che, come già si è visto, s’affacciava fin dal testo della prima edizione di quel racconto. [...].

  L’ultimo accenno infine, altrettanto rapido, si limita a ricordare ne Les Marana (dicembre 1832) che «Une Impéria [la famosa cortigiana dei Contes drolatiques] bâtit à Rome, je ne sais quelle église dans un accès de de repentir». Sul tema della bella Imperia pentita, sul suo soggiorno a Roma e sul suo matrimonio con un cavaliere francese, il Balzac tornerà più tardi, fra il 1835 e il 1837, in un racconto (La belle Impéria mariée) appartenente al terzo Dixain. [...].

  Qualcosa di più interessante c’è invece da spigolare nell’attività letteraria del Balzac del 1833. Un breve episodio localizzato a Roma è inserito, anzitutto, nel febbraio del 1833, nella seconda edizione di Louis Lambert. Esso riguarda un esempio di trasmissione del pensiero (tema caro, come è noto, al Balzac dilettante di teosofia) ed avrebbe avuto come protagonisti Sant’Alfonso de’ Liguori e Clemente XIV. [...].

  Qualche mese più tardi, un secondo episodio romano, sia pure di tutt’altra natura, fa la sua apparizione in quella Histoire de l’Empereur racontée dans une grange par un vieux soldat che, destinata più tardi a far parte del Médecin de campagne, è pubblicata in edizione pre-originale nell’«Europe littéraire» del 19 giugno 1833. [...].

  Il 26 settembre di questo stesso anno, infine, nelle «Causeries du monde» (una effimera rivista diretta da Sophie Gay) Balzac pubblica per la prima volta quei curiosi Fragments d’un roman publié sous l’Empire par un auteur inconnu che, sotto il titolo Olympia ou les Vengeances romaines e con alcune modificazioni, saranno riutilizzati più tardi (a maggior gioia di Lousteau e di Bianchon e a più sconcertata perplessità degli invitati provinciali di Dinah Piédefer), ne La Muse du Département (1843). [...].

  Dalla stessa ispirazione tutta fantastica e dal rifiuto di ogni documentazione è anche contrassegnato il frammento, fin qui inedito, della Fin d’un dandy, scritto da Balzac ad un’epoca difficilmente precisabile ma che sembra, grosso modo, coincidere con questi stessi anni 1832-1833.

  Più esplicitamente ancora di quanto non sia avvenuto in Olympia, la Roma che fa da sfondo geografico a questo preludio narrativo [...] è una città inventata di sana pianta. [...].

  A partire dal 1833, e per un decennio circa, l’interesse del Balzac per Roma e per i Romani sembra tendere ad attenuarsi o, per lo meno, a non assumere più quello spicco che Sarrasine, da un canto, Olympia e la Fin d’un dandy, dall’altro, parevano dover attribuire a questo tema. Mentre di altre città o regioni dell’Italia settentrionale (che, a cominciare dal 1836, lo scrittore conoscerà direttamente) le menzioni reperibili nei romanzi della Comédie Humaine, si fanno, dal 1833 in poi, sempre più numerose, i riferimenti a Roma, quasi sempre fugacissimi, sono scarsi ed appena accennati.

  Essi non scompaiono, tuttavia, e di tanto in tanto riaffiorano in questo od in quel romanzo, quasi come se emergessero da uno stato d’animo di curiosità latente. [...].

  Verso la fine di questo stesso anno 1836, nel corso della revisione compiuta dallo scrittore al testo dell’Enfant maudit (saldato ora più perfettamente alla sua seconda parte, inedita. La Perle brisée), un terzo riferimento romano vuole aggiungere una pennellata di colore alla figura del conte d’Hérouville. [...].

  Alquanto più ricco di riferimenti – ma di una abbondanza che rimane sempre alla superficie – è l’anno successivo, 1837. Un primo accenno, tutto scolastico, appare nelle Illusions perdues [Les Deux poètes] [...]. Un secondo accenno si trova nelle pagine introduttive della Femme Supérieure (pubblicata nella «Presse» del luglio 1837 e riedita quindi sotto il titolo de Les Employés) in un passo in cui il Balzac fa il processo alla burocrazia contemporanea decaduta per la mediocrità degli uomini e per l’infiltrazione di una politica meschina, e richiama alla memoria Roma ed altre grandi capitali di un tempo [...]. Due referenze, un po’ più compiaciute e fantasticamente localizzate nella Roma attuale, fanno poi la loro apparizione in Gambara. [...]

  Inoltre, una parte del racconto La Belle Impéria mariée (scritto ad una data incerta fra il 1834 e il 1837, ma pubblicato nell’autunno del 1837) è situata a Roma. [...].

  Le due citazioni a Roma che chiudono la serie del 1837 si trovano nell’Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau (pubblicata alla fine dell’anno) e non sono molto più perspicue. [...].

  Col 1838 e con gli anni seguenti, la messe da raccogliere diventa ancora più scarsa e più banale, e si sarebbe tentati di dire che Roma non è nella fantasia del Balzac che un nome privo di significato e vuoto d’ogni contenuto storico o morale. Nel Cabinet des Antiques (pubblicato nel «Constitutionnel» del settembre-ottobre 1838) è detto solo di passaggio che Victurnien d’Esgrignon, nel suo viaggio in Italia, è stato ricevuto «par les plus grandes familles italiennes à Gênes, à Turin, à Milan, à Florence, à Venise, à Rome, à Naples». [...]. Ne La Torpille (dicembre 1838) Vautrin, sotto le spoglie di Carlos Herrera, si fa passare come un prelato di passaggio da Parigi, in corso di viaggio per Roma «à la Cour du Saint-Père» [...]. Nella prima parte del Curé de village (pubblicata nella «Presse» dal 1° al 7 gennaio 1839), il pio abate Bonnet dichiara preferire la nudità della sua chiesetta di Montégnac alle «pompes de Saint-Pierre de Rome» e i fiori del suo giardino all’oro del Vaticano. [...].

  Bisogna giungere al 1842 e soffermarsi sulle opere della Comédie Humaine scritte fra quest’anno ed il 1845 per ritrovare esempi di una rinnovata curiosità del Balzac per Roma, una attenzione maggiore ed un tono sostanzialmente più interessato a tale argomento.

  Rapida è ancora l’apparizione di due personaggi romani in Albert Savarus (pubblicato nel «Siècle» del 29 maggio-11 giugno 1842); i quali però, per quanto fugaci comparse di nessun rilievo per lo svolgimento dell’azione, hanno il merito della verisimiglianza storica. Si tratta del principe e della principessa Colonna (i genitori di Francesca d’Argaiolo) che, con l’autorizzazione del Papa, hanno ottenuto il permesso di abitare a Ginevra con la figlia ed il genero.

  Ma più insistita è l’attenzione romana nei Mémoires de deux jeunes mariées (pubblicato dal Souverain nel 1842) che è il primo romanzo di tale periodo che testimonia il rifiorire del tema nella ispirazione balzacchiana. Un accenno iniziale già nomina Roma come quella capitale di cui sia possibile servirsi per l’inoltro di una corrispondenza segreta che debba sfuggire al controllo poliziesco spagnolo. [...].

  Anche in un altro romanzo redatto in parte nel 1842, Le Danger des mystifications (più tardi intitolato Un début dans la vie) il nome di Roma fa la sua apparizione a due riprese. [...].

  Sono questi gli anni, come si diceva, in cui il pensiero di Roma si presenta nell’opera balzacchiana con una intensità rinnovata. E importa fino ad un certo punto sapere che tale pensiero si attua più attraverso riutilizzazioni di testi precedenti che non attraverso nuove invenzioni. L’essenziale è che il nome suggestivo della città italiana sia più presente che in altri anni nella fantasia dello scrittore e quasi divenga un espediente tematico. Nel 1843, la storia rapidamente tracciata della famiglia dei Medici nelle prime pagine di Catherine de Médicis expliquée, porta Balzac a citare a più riprese Roma [...]. [...] in Splendeurs et misères des courtisanes [...] un tocco nuovo è invece rappresentato da una similitudine romana dalla quale il Balzac prende l’avvio per procedere alla descrizione dell’appartamento preparato dal barone di Nucingen per Esther [...].

  Nella prima parte dei Paysans (pubblicata nella «Presse» del dicembre 1844) un’altra similitudine franco-italiana, tocca questa volta il paesaggio desolato della campagna romana. [...].

  Verso la fine del 1845, infine, nei Comédiens sans le savoir [...] lo stesso riferimento alle meraviglie di San Pietro apparso in Splendeurs et Misères. [...].

  Le allusioni, gli accenni, i rimandi Roma e ai Romani che, di qui in avanti, faranno la loro nei romanzi della Comédie Humaine saranno contrassegnati da un diverso carattere: liberati dalla genericità di orecchiate e da informazioni libresche più o meno fedeli, porteranno il sigillo di una esperienza personale e diretta, il segno distintivo (tanto più prezioso in un osservatore morale della tempra del Balzac) del «déjà vu».

 

 

  Ernst Robert Curtius, Il segreto di Balzac (Trad. di M.[ario] Lavagetto), «Palatina», Parma, Anno VIII, nn. 26-27, aprile-settembre 1963, pp. 3-21.

 

  p. 21. Questo scritto di Curtius è tratto dal volume su Balzac del 1923.

 

  «Chi può vantarsi di essere mai stato capito? Noi moriamo tutti, senza essere compresi». Questo motto, che Balzac pronunciò quasi incidentalmente, può servire come guida a tutti coloro che vogliono penetrare nel cuore della sua opera e della sua anima. Balzac sentiva in sé qualcosa che nessuno capiva e nessuno conosceva. Ogni gloria e ogni amore che gli venivano tributati, non potevano alterare questo sentimento. In lui c’era un segreto che avrebbe portato con sé nella tomba. «I miti moderni — dice in un altro punto della sua opera — sono capiti ancor meno dei miti antichi». Anche queste parole, benché non tocchino gli strati più profondi della sua natura, provengono da una simile coscienza del segreto.

  Nelle sue lettere ritorna questo accento. Al limite tra giovinezza e maturità — 1828 — confessa: «Io sono vecchio di dolori e lei non potrebbe indovinare la mia età dal mio viso lieto. Non ho subito particolari colpi del destino, ma sono sempre stato oppresso da un terribile peso. Questo potrà sembrarle un’esagerazione, un modo per attirarmi il suo interesse. No, perché nulla può darle un’idea della mia vita fino a ventidue anni. Io sono assolutamente stupito di dover combattere, ormai, soltanto con il destino. Potrebbe interrogare tutti i miei familiari senza ottenere alcuna luce sulla natura della mia infelicità. C’è gente che muore senza che il medico abbia potuto diagnosticarne la malattia».

  Nove anni più tardi Balzac scrive alla contessa Hanska: «Io sono incomprensibile per tutti; nessuno conosce il segreto della mia vita e io non voglio sacrificarlo a nessuno». E alla stessa dopo altri sei anni: «Da quando esisto la mia vita è dominata dal cuore ed è un segreto che nascondo con ogni cura. Neppure a te l’amatissima e l’unica amata, ho svelato tutto». Questa frase nasconde per i conoscitori della lingua balzachiana più di quanto sembri a prima vista. Lo si toccherà con mano altrove. Per ora limitiamoci a tener fermo che Balzac, ancora quarantaquattrenne, diceva alla persona a lui più vicina, all’amata, di possedere fin dalla nascita un segreto che neppure a lei avrebbe potuto svelare completamente.

  Il motivo del segreto si delinea lungo tutto il corso della vita di Balzac. Se lo si vuole afferrare, bisogna coglierlo alle radici, nell’infanzia. Nell’infanzia del genio si trova il suo segreto, poiché in quel tempo la natura è ancora tutta raccolta in se stessa, non influenzata dalle forze della storia, non ancora differenziata mediante il pensiero e l’azione. [...].

  Abbiamo poche notizie sull’infanzia dei grandi uomini e Balzac non sfugge alla regola. Tuttavia val la pena di riportare anche questi miseri dati ed indizi. Balzac fu messo a balia in campagna subito dopo la sua nascita (20 maggio 1799) e vi rimase fino all’età di cinque anni. Poi trascorse qualche anno nella casa dei genitori a Tours. Era un bimbo molto quieto e passava per essere intellettualmente poco sviluppato. Ma la sua introversione non era stupidità. La morte del nonno fece sul fanciullo di sei anni, un’impressione non ancora spenta dopo vari mesi. Il suo passatempo preferito, allora, consisteva nello strappare suoni a un piccolo violino, con cui martoriava chi gli stava intorno, mentre egli si perdeva in estasi.

  A otto anni venne di nuovo allontanato da casa e messo nel collegio degli oratoriani di Vendôme (giugno 1807). Ma la vita del convitto danneggiò a tal punto la sua salute che fu ritirato per espresso desiderio del direttore all’età di quattordici anni. Si trovava in una specie di coma: «assomigliava a quei sonnambuli che dormono ad occhi aperti; non sentiva la maggior parte delle domande ed era incapace di rispondere se gli si chiedeva improvvisamente: «A cosa pensi? Dove sei?». Così ci informa la sorella di Balzac, Madame Surville. Lo stato malaticcio era la conseguenza di una smisurata furia di leggere che Balzac aveva soddisfatto nella biblioteca del collegio, trascurando completamente i suoi studi e passando per un cattivo allievo. Uno dei suoi insegnanti ha raccontato più tardi che per due anni non si era potuto ricavare nulla dal ragazzo, che poi aveva cominciato a comporre una infinità di cose, guadagnandosi, tra i compagni di scuola, la fama di scrittore. Era stato caratterizzato con queste parole: grande insouciance, taciturnité, pas de méchancheté, originalité complète. Probabilmente, proprio per la sua «grande indifferenza», fu molto spesso rinchiuso nella sua stanzetta o nella legnaia. Cosa accadde in lui allora? Non possiamo saperlo, ma ci è lecito ricordare la confessione di Rimbaud: Dans un grenier, où je fus enfermé a douze ans, j’ai connu le monde, j’ai illustré la comédie humaine ...

  Tornato nella casa patema a Tours, Balzac si riprese molto in fretta. Passeggiate e giochi gli restituirono i colori rosei della salute. Anche in quel tempo non ebbe successi scolastici, ma ciò non gli impediva di garantire, con sicurezza sempre rinnovata, che sarebbe divenuto un uomo famoso, sorridendo con bonaria compassione a chi lo scherniva. La madre riteneva suo precipuo dovere moderare quello strano ragazzo che la irritava tanto per la superbia, quanto per una naturale inclinazione alla fantasticheria.

  Questo è in sostanza tutto ciò che sappiamo dell’infanzia di Balzac in base alle testimonianze altrui.

  Il suo punto di vista ci è offerto in una lettera del 1846, pubblicata solo di recente, alla contessa Hanska. Balzac è di ritorno da una visita alla madre: «Sono tornato nella più profonda disperazione. Io non ho mai avuto una madre: oggi il nemico si è dichiarato. Non ti ho mai scoperto questa ferita, perché era troppo orribile c bisogna vederla per crederci. Appena venni alla luce, fui consegnato a una balia, che era una specie di gendarme, e con lei rimasi fino all’età di quattro anni. Da quattro a sei anni fui a mezza pensione; a sei anni e mezzo, spedito a Vendôme, vi rimasi fino a quattordici anni, al 1813, senza vedere mia madre che un paio di volte in tutto questo tempo. Da quattro a sei anni la vedevo alla domenica. Infine Venne il giorno che una donna di servizio precipitò nella disperazione mia sorella Laure e me. Quando, più tardi, mia madre mi riprese con sé, fece della mia vita un tale inferno che, a diciotto anni, abbandonai la mia casa, rifugiandomi in una soffitta in Rue Lesdiguières, dove ho condotto l’esistenza da me descritta in La Peau de Chagrin. Così fummo, io e Laurence, l’oggetto del suo odio. Ha ucciso Laurence, ma io vivo».

  Balzac ha raccontato la storia interiore della sua infanzia in La Peau de Chagrin, in Louis Lambert e (benché finora sia stato poco notato) in Le Lys dans la Vallée.

  Per quanto riguarda Louis Lambert (ce lo assicura Madame Surville) nella prima parte del romanzo il narratore e il suo amico Lambert sono la stessa persona: «Si tratta di Balzac in due persone. La vita della scuola, i piccoli avvenimenti dei suoi giorni, ciò che soffrì e pensò; tutto è vero. In che modo dunque Balzac descrive Louis Lambert? Louis è un ragazzo estremamente sensibile. «I suoi sensi avevano una straordinaria delicatezza e tutto il suo essere soffriva sotto il peso della vita in comune». Silenzioso, riservato, dolente, incompreso dai maestri e dai compagni, apatico nei suoi rapporti con il mondo esterno, ma tutto pervaso di visioni interiori e di presentimenti meta-fisici, che espose in un saggio, sulla natura dell’anima, dotato di occulte disposizioni, intimamente penetrato dal sentimento di un grande destino: un genialoide precoce, di casa in sfere cariche di mistero, un ragazzo che risente molto dolorosamente delle circostanze, questi è Louis Lambert. E Louis Lambert è Balzac.

  Naturalmente questa equazione non è valida per tutti i particolari. Il quattordicenne Balzac non ha ancora scritto un Trattato sulla volontà, ma sappiamo che in quel tempo scrisse molto. E non è di poca importanza che, tra queste note giovanili, si trovino i primi appunti di quell’Essai sur les forces humaines che Balzac progettò tutta la vita, senza mai portarlo a termine. La precoce consapevolezza di una grande vocazione trova conferma anche ne La Peau de Chagrin, dove in un passaggio dai colori chiaramente autobiografici dice: Dès mon enfance je m’étais frappé le front en me disant comme A. Chénier: «Il y a quelque chose là». Je croyais sentir en moi une pensée à exprimer, un système à établir, une science à expliquer.

  Ma a me sembra di aver trovato in Le Lys dans la Vallée il fenomeno chiave dell’infanzia di Balzac. Che in questo romanzo l’autobiografia di Felix de Vandenesse sia in realtà quella del giovane Balzac, risulta da molti punti di contatto. A cinque anni – così ci viene raccontato — il fanciullo, deluso dai genitori e dai fratelli in quella tenerezza di cui avrebbe bisogno, prova un primo contatto con l’infinito. Egli prega una stella, la «sua» stella, che egli cerca per lunghi anni nel cielo serale e che elegge a ricettacolo della sua nostalgia e della sua adorazione. Questo delizioso segreto viene infranto da una perfida governante, che denuncia il fanciullo richiamando su di lui la collera della madre. Il secondo stadio della sua vita religiosa coincide con la prima comunione. «Io mi precipitai nelle profondità misteriose della preghiera, attratto dalle idee religiose, paese incantato che affascina lo spirito dei giovani. Animato da una fede infuocata pregai Dio di voler rinnovare in mio favore gli affascinanti miracoli che leggevo nel Martirologio ... La mia estasi fece sbocciare in me sogni indescrivibili che popolavano la mia fantasia, arricchivano la mia capacità di amore e rafforzavano il mio pensiero. Spesso attribuii queste divine visioni agli angeli che dovevano preparare la mia anima per il divino appuntamento: essi avevano dato ai miei occhi la capacità di osservare l’intimo spirito delle cose; essi avevano preparato il mio cuore a quelle immagini magiche che torturano il poeta quando possiede la forza di paragonare sentimento e realtà, i grandi progetti con i piccoli risultati; essi avevano scritto nella mia mente un libro in cui potevo leggere le parole da dirsi, essi avevano deposto sulle mie labbra i carboni dell’improvvisazione». E più avanti: «I sogni dei miei anni di scuola sono stati una specie di Apocalisse in cui la vita mi era predetta in immagini: ogni accadimento felice o infelice era concatenato in tal modo per mezzo di quadri singolari, di legami visibili soltanto agli occhi dell’anima».

  Visioni inebrianti, non suscettibili di un’esatta formulazione verbale, hanno costituito il punto d’avvio per quella conoscenza di sé, in cui Balzac riponeva il significato della sua vita. Una stella mistica, un chiarore di mondi superiori si trovano all’inizio della strada di Balzac. La sua luce d’argento irrompe sempre come un raggio trasfiguratore nel movimento febbrile della Comédie Humaine. Balzac poteva annoverarsi tra gli spiriti anelanti a quel mondo, che «un geniale spirito religioso ha chiamato astrale». Stella e sogno, esterno ed interno, mondo ed io erano fusi in un’unica visione: questo è il segreto dell’infanzia di Balzac, dove è racchiuso il segreto della sua vita e della sua arte. «Dei trentatre anni della vita di Gesù Cristo — scrisse una volta Balzac — soltanto nove ci sono conosciuti: sa vie silencieuse a preparé sa vie glorieuse». E’ impossibile non cogliere, in queste parole di Balzac, un accenno al segreto della sua stessa infanzia.

  La sua arte è lo svolgimento di questo primo sogno. Le sue visioni «hanno scritto un libro nella sua testa in cui poteva leggere, quel che doveva dire». Je trouve en moi des textes à développer, dice in un altro punto. La mistica di Louis Lambert e di Séraphita ha qui le sue radici. Nelle prefazioni — non ristampate più tardi — a questi due libri, Balzac dice che fin da fanciullo aveva provato un vivo trasporto verso il misticismo.

  La visione interiore, l’illuminazione, fu la prima forma in cui Balzac ebbe esperienza del mistero. La seconda forma fu il segreto della creazione. Quelle visioni di infanzia contenevano l’inesprimibile: delizie indicibili, indicibili esperienze, cifre segrete. Ma queste cifre dovevano svelarsi, queste visioni dovevano venir bandite in parole. La terribile tensione di questo compito domina tutta la giovinezza di Balzac fino alle soglie della maturità. Egli trascorse molti anni in uno stato di cupezza, tutta piena di fervori, senza potersi rendere conto del suo dono e del suo destino. Soltanto questo sa: che in lui c’è una forza, ma questa forza è ancora passiva e non giunge ad attualizzarsi. In una lettera dell’anno 1822 a Madame Berny si rifà alle idee di Leibnitz che tutto l’essere, anche l’inorganico, è animato, che anche il marmo ha delle idee, «ma straordinariamente confuse», per poi continuare: «Nella mia vita io sarò un marmo, passivo. Chi inciampa in me mi maledirà; chi è stanco e si mette a sedere, mi benedirà. Se mi si trascina e mi si mette come ornamento sulla cima di una colonna resterò là ... Addio, il mio ruolo comincia». Da questo marmo grezzo doveva sorgere la gigantesca costruzione della Comédie Humaine. Ma il ventitreenne Balzac non ha altra garanzia per il futuro che un oscuro sentimento di forza e fluttuanti immagini interiori. Riuscirà a dar loro forma? Questa è la domanda angosciosa che per molti anni non lo abbandona. Ci si è stupiti che Balzac tra i 20 e i 26 anni abbia prodotto una infinità di cattivi romanzi che egli più tardi rinnegò. Certamente voleva e doveva guadagnare denaro in fretta. Ma il motivo interiore è un altro: egli non poteva ancora dire quel che si agitava nel segreto della sua anima. Allora si sentiva schiacciato dal mondo interiore che egli cercava invano di esprimere. «Perché sono venuto al mondo? Se mi interrogo io lo so ... Ma perché possiedo dunque grandi possibilità senza potermene servire? ... Io sono certamente travagliato da pensieri importanti, mi avvio verso sicure scoperte, una forza invincibile mi trasporta verso una luce che già di buon ora si è irradiata nelle tenebre della mia vita; ma quale nome devo dare alla forza che mi lega le mani, che mi chiude la bocca?». E’ Louis Lambert che così si lamenta. Ma anche in questo caso Lambert è soltanto una maschera di Balzac. Per anni Balzac ha lottato con l’espressione. E anche al culmine della sua maestria, il lavoro artistico gli è parso una battaglia estenuante.

  «Nessuno al mondo — dice Louis Lambert — conosce il terrore che mi causa la mia inquietante immaginazione. Spesso mi solleva in cielo e improvvisamente mi lascia ricadere da un’altezza vertiginosa sulla terra. Potenti slanci interiori, alcuni rari e segreti segni di una singolare lucidità, mi dicono talvolta che io posso molto. Allora io abbraccio il mondo con il pensiero. Io muovo, gli dò forma, lo penetro, lo capisco o almeno credo di capirlo; ma improvvisamente mi risveglio solo e mi ritrovo nella notte più profonda, piccolo e povero; dimentico lo splendore che io visto poco prima; sono privo di ogni aiuto e soprattutto senza un cuore in cui potermi rifugiare». Un significato del tutto simile riappare in La Peau de Chagrin: «Io ho vissuto tra tutte e torture di un energia impotente che si consumava da sola ... Forse io ho disperato di farmi capire oppure ho temuto di venir capito troppo».

  Il problema dell’evoluzione artistica di Balzac ha spesso occupato la critica. Ma in lui non c‘è alcuna evoluzione, alcuno sviluppo continuo di maturità e di forza. La sua legge è del tutto diversa: egli soffre lunghi periodi di intima tensione, in cui tutte le energie creative sono paralizzate da una specie di incantesimo. E poi ecco che l’incantesimo è improvvisamente spezzato, la maturità viene alla luce, l’impedimento si dissolve, la lingua è sciolta. Le forze lungamente ingorgate defluiscono, la produzione si svolge con sorprendente fecondità, la visione si fa parola. Questo è il processo creativo di Balzac: una dirompente liberazione, un rapprendersi di cristalli. Lo sviluppo spirituale e artistico di Balzac consiste in una serie di crisi organiche. L’energia creativa rompe sempre nuovi strati di materia frenante. Ognuna di queste fratture, cui è congiunto un evento ispiratore, fa guadagnare a Balzac una nuova sfera concentrica della sua potenza.

  Di quei momenti di ispirazione naturalmente sappiamo poco, ci resta tuttavia qualche notizia. Nell’estate del 1833 Balzac concepì improvvisamente il disegno di legare i suoi romanzi in un grande sistema unitario, in un cosmo. Sua sorella racconta: «Il giorno in cui fu illuminato da questa idea, fu per lui uno splendido giorno. Dalla casa di Rue Cassini (domicilio di Balzac) si precipitò al Faubourg Poissonnière dove abitavo allora. «Salutatemi — ci disse con allegria — perché io sto semplicemente per diventare un genio». Il parallelo a questa notizia si trova nella novella di Balzac Le chef d'oeuvre inconnu. Il giovane Poussin si precipita attraverso le strade di Parigi a casa della sua amata: «Ella riconobbe il pittore dal modo di afferrare la maniglia. — Che cosa hai? — gli disse —. Io ho ... io ho, gridò egli quasi soffocato dalla gioia, che io ho sentito il pittore in me. Fino ad ora ho dubitato di me stesso, ma da questa mattina io credo in me! Io posso divenire un grande uomo». Una lotta affannosa di anni che poi, d’improvviso, in un momento di ispirazione, si concludeva vittoriosamente: questa è la forma in cui Balzac ha esperimentato la forza creatrice. In grande e in piccolo (nel suo Louis Lambert per esempio) egli voleva coronare le sue concezioni metafisiche con un breve riassunto. Ma egli non era in grado di trovare la forma e le formule per questo scopo. Soltanto nella terza edizione del libro (1835) troviamo come conclusione quindici assiomi speculativi, messi in evidenza dall’uso del corsivo. Come c’era arrivato? Balzac andò a trovare nel 1835 il principe Felix Schwarzemberg a Weinheim. Il principe, nella sua qualità di attaché presso l’ambasciata austriaca a Londra, aveva sedotto una signora della aristocrazia inglese e, per questo motivo, aveva dovuto abbandonare Londra. Nella cittadina, ben situata sulla Bergstrasse, si era creato una specie di «buen retiro». Balzac lo andò a trovare, ma il «povero principe» lo fece restare nel giardino «per cinque ore che egli trascorse con la sua amante». Questo tempo non andò perduto per Balzac, nonostante il suo dispetto. Là, nel giardino del castello di Weinheim, egli ha «scritto, trovato ciò che cercava da sette anni: le frasi in corsivo della fine di Louis Lambert».

  Balzac spiega ogni creatività, secondo la sua esperienza personale, come l’eruzione di forze a lungo compresse. Ma egli non raggiunge sempre il suo scopo. Ascoltiamo ancora Louis Lambert: «Io mi sento forte, pieno di energia e potrei divenire una potenza; io sento in me una vita di tanta forza illuminatrice che potrebbe animare un mondo e con tutto ciò io sono rinchiuso come in una roccia». Quando la forza creatrice non può infrangere le masse rocciose che la racchiudono, torna indietro, verso l’interno, e uccide lo spirito. Lambert finisce nella pazzia.

  Balzac deve aver sfiorato questa oscura regione; spesso questa minaccia dovette incombere su di lui. E’ riuscito a eluderla, ma l’ha rappresentata nella sua opera con quei gruppi di geni deviati, il cui travaglio creativo sfocia nella pazzia.

  Se il segreto di fondo di Balzac risiede nelle visioni interiori dei suoi primi anni, la creatività spirituale è soltanto un’altra forma di quel primitivo segreto. Infatti per lui la creazione non è altro che interpretare, consolidare, decifrare, esternare la visione interiore. Della sua opera egli parla volentieri come di un segreto: «C’è bisogno soltanto di lavoro — dice in una lettera — e dell’appoggio di un qualche cosa che io sento in me: ma non parliamone!». Il genio è per lui un mistero: «Questi uomini hanno la capacità di racchiudere nel loro cervello un universo, o il loro cervello è un talismano con cui possono invalidare le leggi del tempo e dello spazio? La scienza tentennerà a lungo tra questi due misteri ugualmente inesplicabili. Ma in ogni caso è certo che l’ispirazione fa attraversare al poeta una infinità di metamorfosi che assomigliano alle immagini magiche e fantastiche dei nostri sogni. Il sogno costituisce forse la naturale valvola di questa strana forza, se non è impegnata ... Lo scrittore possiede forse le stupefacenti capacità che il mondo ammira, in maggiore o minore misura a seconda della maggiore o minore perfezione dei suoi organi. Ma il dono di creare può anche essere una debole scintilla che scende sull’uomo dall’alto e l’adorazione, dovuta ai grandi geni, sarebbe allora una nobile e alta preghiera! Se così non fosse perché dunque il nostro profondo rispetto sarebbe proporzionato alla forza e all’intensità del raggio celeste che risplende in loro? ... Ognuno scelga tra materialismo e spiritualismo!».

  Balzac scrisse queste parole nel 1831. Nello stesso anno ascoltò Paganini: «La straordinaria meraviglia che mi incanta in questo momento a Parigi è ciò che Paganini sa provocare. Non crediate che si tratti del suo archetto, della sua digitazione o dei suoni fantastici del suo violino ... In quest’uomo c’è senza dubbio qualcosa di molto misterioso ... Paganini mi sembra il Napoleone di questa categoria».

  Nel fenomeno della genialità Balzac ritrovò il mistero delle sue prime esperienze. Ma entrambe le forme del mistero erano da considerarsi come segni di una più profonda e intima correlazione: se i geroglifici del mistero erano impressi nella vita e nell’arte, ne conseguiva che quel mistero coinvolgeva le basi stesse del mondo, il segreto deve essere sentito dagli iniziati in ogni manifestazione dell’essere, perché è la radice di ogni essere. La più alta possibilità intellettuale dell’uomo consiste in questo: riconoscere il carattere misterico dell’esistenza in ogni sfera della natura e della storia e mantenere, costantemente, il senso del grande segreto del mondo nell’indagare e nello scoprire la realtà. La coscienza di questa legge è connaturata all’umanità e fin dai tempi più remoti ha sempre legato gli spiriti più alti. Anche in Balzac ritroviamo una simile consapevolezza, torbida o deformata. L’origine e il fine di ogni accadere sono per lui mistero. La sua filosofia della storia si fonda sul segreto della provvidenza — «il senso di quest’epoca sfugge alla maggior parte dei suoi depositari: sono ruote in un grande meccanismo di cui non conoscono lo scopo» — e culmina nell’accenno al mistero dell’Europa: la grande famille continentale dont tous les efforts tendent à je ne sais quel mystère de civilisation. Ancor più significativamente la coscienza di un segreto universale si riflette nella sua concezione della natura che è magica e nella sua religiosità che è mistica.

  Parleremo più avanti del valore che la magìa e la mistica assumono nell’opera di Balzac. La loro formula generale, nondimeno, è così strettamente congiunta con il segreto creativo di Balzac, che può servire come premessa generale per capire la sua arte. E’ l’antica formula: causa ed effetto. La formula di Aristotele, della scolastica, della rinascenza e della filosofia illuministica. In Balzac serve per esprimere tutte le forme di rapporto tra Dio e mondo, interno ed esterno, sostanza e apparenza, volontà ed opera, significato e forma. Tutto quanto è mondo, apparenza, opera, forma Balzac lo definisce effet; tutto quanto è sostanza, forza, significato, fondamento Balzac lo definisce cause.

  In questo modo «causa» non è un termine scolastico, ma un fondamento mistico. Dio è causa, la natura effetto. «E la natura è affascinante, appartiene all’uomo, al poeta, al pittore, a chi ama; ma agli occhi di alcune anime privilegiate, di alcuni grandissimi pensatori la causa non è forse superiore alla natura? La causa è Dio. In questa sfera delle cause vivono i Newton, i Laplace, i Keplero, i Descartes, i Malebranche, gli Spinoza, i Buffon i veri poeti e i solitari del secondo cristianesimo, come san Teresa di Spagna o i nobili spiriti estatici. Ogni sensibilità umana ha delle analogie con questa situazione, in cui lo spinto abbandona l’effetto per la causa ...». La mistica di causa ed effectus presiede all’estetica balzachiana: «Noi dobbiamo afferrare l’anima, lo spirito, la fisionomia delle cose e degli esseri. Gli effetti! Gli effetti! Sono soltanto le forme accidentali della vita, non la vita stessa ... Una mano non è soltanto congiunta al corpo, esprime anche un pensiero e lo svolge, un pensiero che si deve afferrare e tradurre. Sia il pittore, che il poeta, che lo scultore devono separare l’effetto dalla causa. Entrambi sono indissolubilmente intrecciati. Allora deve svolgersi la vera lotta. Con tutto ciò molti pittori conseguono il trionfo in modo puramente istintivo, senza conoscere questo compito dell’arte. Certo si può disegnare una donna senza vederla, ma in questo modo non si arriva a forzare l’arcano della natura».

  La formula causa-effetto ritorna con infinite variazioni in Balzac. I suoi pensatori svolgono enigmi, sono des chercheurs de secrets, repoussés pendant des années dans leur duel avec les causes secrètes. I suoi grandi artisti hanno tutti l’ambizione di «abbracciare cause ed effetti». Ecco cosa dice Gambara del suo dramma musicale: Je devais trouver un cadre immense où puissent tenir les effets et les causes car ma musique a pour but d’offrir une peinture de la vie des nations, prise à son point de vue le plus élevé ... Jusqu’ici l’homme a plutôt noté les effets que les causes. S’il pénétrait les causes la musique deviendrait le plus profond de tous les arts. Wagner, la cui apparizione ha tante parentele con quella di Balzac, sembra qui preannunciato.

  La mistica della causalità ritorna in Balzac nella lingua degli amanti. Carino, dice Massimilla Doni a Emilio Memmi, n’es-tu pas au-dessus des expressions amoureuses autant que la cause est supérieure à l’effet? Si vede da questo esempio, che la formula usata insistentemente, può guastare lo stile, ma bisogna intenderla se non si vuole misconoscere in eterno Balzac. Balzac applica la sua formula-base sui piani più diversi. La cita scolasticamente nella Physiologie du Mariage: sublata causa tollitur effectus; la ripropone nell’ambito della sfera logica quando, in altro luogo, afferma che per mezzo della «catena delle induzioni, un uomo geniale risale fino alle cause»; motiva un fenomeno sociologico con l’assioma: un effet universel démontre une cause universelle. Della fantasia si afferma che è superiore all’arte, come la causa all’effetto. Il cinico Maxime de Trailles dice alla principessa di Cadignano che la corruzione in lei «non è un effetto ma una causa». Quando Balzac valuta i movimenti spirituali della sua epoca, dice: «L’autore crede che nonostante la indifferenza che a Parigi uccide la letteratura, in nessun secolo il movimento letterario sia stato più vivace e più grande nelle sue cause e nei suoi effetti». E’ sufficiente aprire uno dei volumi della Comédie Humaine per trovare svariati esempi di questo uso linguistico.

  La formula della causa e dell’effetto ha per Balzac l’importanza di un rapporto matematico che può essere collocato, a piacere, tra grandezze di ogni tipo. Ma questa matematica e proprio matematica mistica. La formula scolastica e soltanto indice del fondamentale comportamento di Balzac di fronte all’esistenza.

  Il segreto per Balzac non era solo visione interiore, processo creativo, sostanza del mondo: per lui era anche forma di vita. Egli non avrebbe potuto farne a meno e si creava un’atmosfera di segreto, quando non era il destino a procurargliela. «Il segreto — scrive in una lettera — è uno dei godimenti con cui si trastullano le anime sensibili ... Il segreto è il rifugio di tutti coloro che la curiosità del pubblico trascina in piena luce». Balzac viveva nel segreto e giocava con il segreto.

  Tocchiamo in questo modo per la prima volta uno dei tratti fondamentali della sua natura, che ritorna sempre nella sua vita e nella sua arte, del cui significato ci occuperemo in seguito: la polarità dello slancio appassionato e del gusto di scherzare, del rapimento mistico e del riso sfrenato; dell’alto volo spirituale e dello humour terreno. Il nobile e il comico, estasi e grasso divertimento si sfogano nella Comédie Humaine, che abbraccia Le livre mystique e i Contes drolatiques. Tra l’ideale e il grottesco tutte le sfumature si riflettono nell’opera. Una simile polarità ci colpisce ad ogni occasione, si specchia nella vita di Balzac e testimonia che nella sfera del segreto rientrano moltissime forme: dal mistero alla smania di possederlo, dalla mistica alla mistificazione.

  Il segreto tra la forma nobile e quella scurrile, si affida anche a un gioco romanzescamente compiaciuto.

  In Louis Lambert si parla di una donna in questi termini: «Vorrei occultarne il nome, i lineamenti, la personalità e l’aspetto, per conoscere, io solo, il segreto della sua esistenza e poterlo seppellire nel mio cuore». Ugualmente Béatrix è dedicata a una sconosciuta che Balzac paragona a un meraviglioso fiore marino: portarlo alla luce equivarrebbe a distruggerne il fascino.

  Infinite volte Balzac ha detto che il vero amore, circondato da mistero, dovrebbe schivare con ogni cura gli sguardi indiscreti. Si jamais vous aimez, dice Madame de Beauséant al giovane Rastignac, gardez bien votre secret. Anche nella vita di Balzac le avventure amorose sono circondate dal fascino romanzesco del mistero. Per riguardo ad entrambe le famiglie, fu obbligato a celare il suo amore con Madame Berny. E nel segreto ebbe inizio la sua relazione con la duchessa di Castries che firma la sua prima lettera une femme qui ne veut pas se faire connaître. Le ammiratrici sconosciute giocano un ruolo importante nella vita di Balzac e si racconta che un giorno, con le molte pietre preziose che aveva ricevuto in dono, ordinò al gioielliere Gosselin di adornare l’impugnatura di un bastone da passeggio, nella cui cavità riponeva ricordi intimi (1). Il segreto circonda anche la relazione con Louise. Costei fu fedele a se stessa e rimase nell’incognito. Balzac non la vide mai, ma le scrisse molte lettere, 23 delle quali —- risalenti al 1836- 1837 — sono giunte fino a noi. Oscuri sono anche gli inizi della sua relazione con la contessa Hanska.

  La prima lettera di Balzac alla duchessa di Castries porta la data del 28 febbraio 1832. Per un caso singolare, proprio in quel giorno, ricevette la prima lettera dalla donna che doveva essere la grande passione dei suoi ultimi anni. Era una lettera di omaggio, come Balzac ne riceveva in numero infinito da tutti i paesi, firmata L’étrangère. La lettera è perduta ma sappiamo che criticava il realismo de La Peau de Chagrin e che scongiurava Balzac di liberarsi dallo scetticismo e dall’ironia. Seguirono altre lettere e in una di esse Balzac era sfidato a dame ricevuta per mezzo di un annuncio sulla Quotidienne. L’annuncio apparve il 9 dicembre 1832. Queste lettere di una donna che non rivelava né il suo nome, né il suo indirizzo, ma che si dimostrava lettrice appassionata dell’opera di Balzac, in cui anzi era completamente di casa, costituivano la trama di un’esperienza romantica. Ma ancora più singolare si fece questa avventura per una strana coincidenza che sembra la prova di una nobile corrispondenza di anime oltre lo spazio e il tempo. Proprio nei giorni in cui Balzac pubblicò quell’annuncio, prendeva forma in lui il progetto di una nuova grande opera che doveva essere tutta permeata di spirito evangelico, il Médecin de campagne. E poche settimane dopo gli giunse, a titolo di risposta, dalla lontana Ucraina, un pacchetto che conteneva un'edizione rilegata in cuoio verde della Imitatio Christi. Data la propensione di Balzac alla fantasticheria mistica, questa coincidenza dovette apparirgli come la conferma di una telepatia spirituale. Fu allora che in lui si rafforzò il desiderio di scoprire l’identità della misteriosa corrispondente. L’8 gennaio 1833 egli riceve una nuova lettera in cui la straniera gli comunica di essere in procinto di lasciare la Russia per avvicinarsi alla Francia. Presto gli farà sapere in che modo sia possibile intrecciare una libera corrispondenza con lei. Conta d’altro canto, che Balzac non farà alcun tentativo per scoprire il suo vero nome.

  Questo amore cominciò misteriosamente e misteriosamente fu nascosto al mondo. In tutto l’epistolario con la contessa Hanska si avverte chiaramente che Balzac prova una specie di piacere a custodire come un segreto il più caro contenuto della sua vita. Il suo comportamento nei confronti della società ne viene influenzato. Il segreto accompagnò questo amore in tutto il suo corso e segreto doveva restarne l’esito. Segretamente, poi, doveva esser contratto quel matrimonio per cui Balzac faceva preparativi (secondo le più recenti scoperte) fin dal 1846. Un segreto finalmente, un tetro segreto avvolge lo scioglimento di questa passione.

  Allora il segreto assume forma tragica nella vita di Balzac. Ma accanto all’intimo, al mistico, al tragico troviamo ancora una volta il grottesco. Perché anche il segreto ha assunto nella vita di Balzac forme grottesche. Quando Balzac a venti anni annunciò ai suoi genitori dolorosamente colpiti che egli rinunciava alla carriera di avvocato progettata per lui, poiché si sentiva chiamato alla letteratura, gli fu concesso un anno per fornire le prove del suo talento. Gli fu affittata una soffitta a Parigi in Rue Lesdiguières, ma agli amici di casa fu detto che il giovane Honoré si tratteneva presso amici nel Sud della Francia. Un giorno, però, si imbattè per le strade di Parigi in un conoscente che ci ha lasciato memoria di questo incontro: «Egli (Balzac) aveva l’aria come se uscisse da un ospedale o da un melodramma del Gaîté-Théâtre. Senza lasciarmi il tempo di rivolgergli una parola mi trascinò fuori dalla folla e mi disse con tono serio: ‘La mia vita attuale è un segreto per tutti, anche per la mia famiglia. Ma per lei non ho segreti: le farò conoscere il mio rifugio. Mi venga a trovare domani a mezzogiorno e tutto le sarà svelato’». Negli anni successivi l’amore di Balzac per il segreto fu motivato principalmente dagli impegni finanziari a cui non poteva far fronte. Per non essere gettato in prigione doveva celarsi ai creditori. Le biografie sono piene di aneddoti relativi a questa situazione. A volte per difendersi dagli importuni visitatori, si nascondeva sotto il nome della vedova Durand. Anche le sue lettere sono talvolta firmate con quel nome ed era un trucco per crearsi un falso indirizzo. Se poi qualcuno riusciva ad aprirsi felicemente un varco fino alla porta di Balzac, l’ingresso era possibile solo per mezzo di una parola d’ordine che veniva cambiata spesso. Al portinaio, per esempio, si doveva dire: «Il tempo delle susine è ritornato»; al servo che poi andava incontro al visitatore, bisognava sussurrare: «Porto pizzi dal Belgio». Infine si era ricevuti da un cameriere a cui si doveva assicurare che la signora Bertrand godeva ottima salute. Al termine di questa cerimonia, descritta da Théophile Gautier, si era ammessi alla presenza del padrone. Una volta un editore chiese a Balzac quando e dove avrebbe potuto ritirare un manoscritto. Gli fu risposto di mandare un fattorino la sera ai Champs Elisées (sic): vicino all’albero tal dei tali ci sarà un uomo e questi avrà il manoscritto.

  Ma tutto ciò, nondimeno, è solo il frutto scherzoso e grottesco di una necessità e di un modo di essere che sono radicati nel fondo dell’anima di Balzac. Proteggere il proprio segreto! Per Balzac è una specie di esigenza morale. Ha una grandissima ammirazione per quelle nature che son capaci di preservare il loro segreto e di portarlo con sé nella tomba. [...] Uno dei motivi dell’ammirazione che Balzac nutriva per Cooper era che i suoi pellirosse non tradivano i loro segreti neppure al palo della tortura.

  Ma lo scrittore è proprio colui che svela il suo segreto! Questa fu la causa di un conflitto interiore nella vita di Balzac che talvolta gli fece apparire problematica l’esistenza dell’artista: «Pubblicare i propri pensieri non equivale forse a prostituirli? Se fossi stato ricco e felice, avrei risparmiato tutto per la mia amata». [...].

  Balzac che ha amato con tanta passione la sua epoca, che la celebrato entusiasticamente il suo secolo, ha, nondimeno, deplorato per tutta la vita una lampante conseguenza delle industrie moderne e dell'era del progresso: lo sbriciolamento della sfera privata. L’opinione pubblica e il moderno capitalismo tolgono al singolo la possibilità di crearsi un rifugio. «Il fascino della solitudine è paragonabile a quello della vita dei selvaggi, che nessun europeo ha più abbandonato dopo averne sentito il gusto. Questo risulta con singolare chiarezza in un’epoca in cui ognuno vive tanta parte della sua vita per gli altri, perché si sente addosso gli occhi di tutti e perché la vita privata, nel giro di poco tempo, è destinata a scomparire; a tal punto gli occhi della stampa, questo moderno Argo, accendono l’insolenza e l'avidità». «La vergognosa sfrenata speculazione che di anno in anno abbassa l’altezza delle stanze, che costringe un intero appartamento nello spazio che un tempo serviva per un salone, che dichiara guerra per la vita e per la morte ai giardini, acquisterà senza dubbio un influsso sui costumi di Parigi. Presto dovremo vivere più all’aperto che non dentro le case. La purezza della vita privata, la libertà del proprio focolare dove potremo ancora trovarla? Può avere inizio con una rendita di cinquecentomila franchi». Questi lamenti si fanno sentire di continuo. [...]. Tali pessimistiche considerazioni sullo sviluppo economico risalgono, in ultima analisi, a quella profonda sensibilità che portava Balzac a difendere i diritti della sfera intima e privata contro il controllo delle società moderne. Balzac chiede una vita dove il segreto sia ancora possibile.

  Un’ultima forma in cui l’elemento misterioso appare in Balzac è la forma artistica. Balzac ha proiettato nell’opera il suo rapporto esistenziale con il segreto.

  La Comédie Humaine è piena di personaggi misteriosi di ogni tipo e condizione. In un segreto è riposto il più profondo interesse di Adam Laginski : ama la moglie del suo più caro amico. Perché questa non indovini il suo amore — eventualmente ricambiandolo — egli finge di avere un’amante: La Fausse maîtresse. Una doppia vita conduce anche il conte Grandville, il grande magistrato della restaurazione che, dopo sette anni di infelice matrimonio, ha fondato una seconda famiglia. Il segreto circonda il grande scultore Dorlange. Egli non conosce la sua origine, il suo destino è pilotato da una mano ignota. Finalmente viene riconosciuto come figlio dal Marchese di Salleneuve, che nondimeno si comporta in maniera tanto singolare da proporci un nuovo enigma — un enigma insolubile perché Balzac non ha portato a termine il Député D’Arcis. Una misteriosa figura è anche Felipe Henarez. Egli mostra l’impenetrabile dignità ai un grande di Spagna, ma, sotto questa armatura di acciaio, batte un cuore appassionatamente desideroso di amore. Nessuna donna lo ha capito! Per questo motivo Henarez scarica tutta la sua energia nell’azione politica: Là est le secret de mon ardente politique! Egli ha anche un altro segreto! A suo fratello scrive in tono melodrammatico: tu dois être le seul être vivant qui sache les secrets du dernier Maure christianisé! Un uomo ricco di mistero in molteplici sensi è Raphaël de Valentin. Quando varca la soglia della casa da gioco, i giocatori riconoscono immediatamente nel volto del novizio che quelque horrible mystère ... quelque secret génie scintillait au fond de ces yeux. Albert Savarus — un personaggio in cui Balzac si è ritratto fin nei minimi particolari — è già in sé un’apparizione molto significativa, ma «fece su Rosalia una impressione tanto maggiore in quanto tutto il suo modo di essere, la sua andatura, il suo portamento, tutto insomma, perfino il suo modo di vestire, avevano quell’imprecisabile non so che, che si lascia definire solo come mistero!... La ragazza fu affascinata da questa andatura lenta e quasi solenne, caratteristica degli uomini che sembrano portare un mondo sulle proprie spalle e che nello sguardo profondo, nel gesto esprimono un pensiero di distruzione o di comando».

  Strana è anche la faccenda di Maître Cornélius, il banchiere di Luigi XI. Continuamente gli vengono sottratti denari e preziosi in modo inesplicabile; in realtà si deruba da solo in stato di sonnambulismo. Il re e il suo medico personale conoscono il segreto che proprio lui ignora. La chiave dello strano destino di Honorine de Bauvan si trova in una serie di segreti che gravitano attorno alla vita e alla morte. Un oscuro segreto governa tutta la vita di Vautrin — uno dei più grandi eroi balzachiani. Un povero operaio come Tascheron assurge a grandezza tragica, perché neppure davanti al patibolo svela il segreto che potrebbe salvarlo. La essenza di ogni genio è circondata di ombre. Il grande medico Desplein porta con sé nella tomba la sua scienza e la sua arte. «Come tutti gli uomini geniali fu senza eredi». Il genio non può trasmettere la parte migliore di sé a nessun discepolo. Un uomo geniale e tenebroso è anche il vecchio Frenhofer. «Egli è l’unico allievo che Mabuse abbia voluto formare. Divenuto suo amico, suo salvatore, suo padre, Frenhofer ha sacrificato la maggior parte dei suoi tesori per soddisfare le passioni di Mabuse; in cambio Mabuse gli ha lasciato in eredità il segreto del rilievo, la capacità di dare alle figure quella vita straordinaria, quel fiore di natura che eternamente ci spinge alla disperazione». E Frenhofer custodisce il proprio capolavoro — un ideale ritratto di donna — come un preziosissimo segreto. «Come potrei mostrare la mia creatura, la mia sposa? Strappare il velo dietro cui ho nascosto castamente la mia felicità? Sarebbe un’orribile prostituzione! Sono ormai dieci anni che io vivo con questa donna ed è mia, soltanto mia, mi ama. Non mi ha forse sorriso ad ogni pennellata? Ha un’anima, l’anima di cui l’ho dotata e arrossirebbe se fosse esposta a occhi che non fossero i miei». Qui ritroviamo il segreto nella sfera sublime dello spirito e dell’arte. Qui torna ancora una volta il motivo che ha fatto percorrere a Balzac tutti i gradini della scala psicologica. Ogni forma del segreto si riflette ancora nel segreto della creazione.

  E Balzac non si limita a trovare il segreto nella vita dei singoli: lo rinviene anche nella vita sociale. Nella Comédie Humaine ci imbattiamo in associazioni segrete di ogni tipo. Così facendo Balzac ha fissato un tratto significativo dell’epoca della restaurazione, quando tutta l’Europa era invasa da società segrete a carattere politico, sul modello dei Carbonari italiani. In Francia grande fama ebbe La Congrégation, che offrì al pubblico materia per ogni sorta di storie eccitanti e raccapriccianti, e che fu accusata, in special modo dai letterati della restaurazione, delle più nere macchinazioni. Con questa società ebbe rapporti lo stesso conte di Artois, più tardi Carlo X. [...].

  Innocua era anche La Société du Cheval Rouge, che Balzac fondò in compagnia di Gautier e di pochi altri: i suoi membri dovevano procurarsi reciprocamente potenza e gloria con l’influsso esercitato sui Salons e sull’opinione pubblica. Nella Comédie Humaine ne troviamo un romantico ingrandimento. E’ la lega dei tredici, «una compagnia di uomini superiori, di spiriti amici e beffardi, che in mezzo a una società falsa e meschina conduce-ano la loro esistenza ridendo e maledicendo». La sua origine si rifaceva a un modello letterario: alla Venezia salvata di Otway. In questo dramma Balzac ammirava «la nobile unione di Peter e Jaffier ..., le singolari qualità degli uomini, che sono fuori dall’ordine sociale ..., i privilegi di una potenza esorbitante, che questi uomini si erano acquistata, riunendo tutte le loro idee in una unica volontà». [...].

  Una lega di ergastolani è la società dei Grands Fanandels la cui organizzazione forma lo sfondo della vita avventurosa di un Vautrin.

  Anche l’antica associazione dei Compagnons risalente ni quattordicesimo o forse perfino al dodicesimo secolo e ancora in vita nell’ottocento, (alcuni storici ne fanno derivare la Carboneria) gioca il suo ruolo nella Comédie Humaine. L’interesse di Balzac doveva esserne particolarmente attirato, poiché in essa continuava a vivere la tradizione mistica e rivoluzionaria delle loggie medievali. [...].

  In Balzac il segreto sgorgava dagli stari più intimi e personali dell’esistenza e di qui penetrava nel pensiero e nell’opera. Balzac lo ha cercato attraverso molte strade. La sua vita, la sua arte sono una Recherche de l’Absolu. Ma l’eroe faustiano di questo romanzo il mistico alchimista Balthazar Claës, non è mai riuscito a penetrare fino in fondo il segreto della vita. Egli si corica per morire come un martire del travaglio della conoscenza. Ed ecco che nell'agonia improvvisamente sussulta, sospira un Eureka: egli sa ora improvvisamente quel che ha cercato a lungo. Ma non può dirlo; ricade con gli occhi sbarrati e muore. Forse anche Balzac avrà trovato solo nella morte la soluzione del grande mistero.

  Tra il non potere ancora esprimere e il non poter più esprimere il segreto della vita, si delinea l’arco scintillante della sua arte.

 

 

  Ernst Robert Curtius, Nuovo incontro con Balzac [1950], in Studi di letteratura europea. Traduzione di Lea Ritter Santini, Bologna, Società editrice Il Mulino, 1963, pp. 193-214.

 

  In quest’anno, 1950, si compie il primo secolo dalla morte di Balzac: i miei pensieri ritornano indietro di una generazione, quando nell’estate 1918, tornato in patria ferito, tenni un corso su Balzac. Cinque anni più tardi, usciva il mio libro sul grande scrittore: il libro costituiva una «interpretazione», come si disse allora in Germania. Il mio intento era di mostrare l’opera di Balzac in tutta la sua profonda grandezza, che Balzac era stato fino allora trattato ingiustamente dalla storia letteraria e il suo valore non era stato scoperto e apprezzato che in parte.

  Balzac aveva avuto la sfortuna di non piacere a Sainte-Beuve, e nemmeno alla cosiddetta critique universitaire, cioè ai professori che scrivono la storia della letteratura. A loro avviso, aveva rovinato i suoi romanzi per il bisogno pretenzioso di fare il professore: la sua psicologia era insufficiente, mancava di sensibilità e di finezza; non sapeva mantenere la misura, non aveva gusto. Ignorava completamente il sentimento della natura, era un genio sanguigno e volgare. Peggio ancora: non aveva stile. Il risultato era una serie rispettabile di crassi errori, anche se dopo aver sottolineato i suoi errori con la matita rossa, si faceva prova di indulgenza e gli si riconoscevano alcuni meriti.

  Io mi ribellai all’ingiustizia e all’incomprensione di questi giudizi, tutto penetrato com’ero della incomparabile grandezza di Balzac. La sua opera era per me un universo di cui bisognava studiare la struttura: c’era un segreto da scoprire e io credevo di trovarlo in una esperienza di visioni che risalivano agli anni dell’infanzia di Balzac. Era stato colpito da una illuminazione e trasportato fra le legioni degli angeli, aveva visto «potenze celesti salire e discendere e tendersi i secchi d’oro», era stato come inondato dal sentimento del nesso che governa tutte le cose, aveva sentito in sé una forza indefinibile che urgeva e che non trovava la via d’uscita. Esistono, come si sa, due romanzi filosofici di Balzac: Louis Lambert e La Peau de Chagrin — i cui eroi compongono, in una miserabile mansarda parigina, un trattato sulla volontà, una «Théorie de la Volonté». I critici li cantano, di solito, fra le astruserie cerebrali che deformano l’opera di Balzac; dev’essere stata invece un’idea personale e centrale che gli stava molto a cuore. Perché Louis Lambert e Raphaël de Valentin hanno tratti autobiografici. Quello che loro chiamano volontà non è certamente la facoltà di volere, ma un fluido che penetra in tutte le cose, un fluido che può essere concentrato ma anche disperso: è la forza vitale. Balzac non ha scritto la teoria della volontà, ma le formule che adopera non sono che l’abbozzo di una visione totale dell’uomo e del mondo, visione che può dispiegarsi solo nell’atto creatore. Oggi non diremmo «volontà» ma «libido», nel senso di Jung. Si può ricavare dalla Comédie Humaine un’energetica dell’anima, si può persino considerare tutta l'opera come un grandioso quadro delle metamorfosi e dei simboli della libido. Il talismano che Raphaël de Valentin riceve da un misterioso antiquario, quella pelle di zigrino carica di poteri magici che appaga i più audaci desideri di chi la possiede —a spese, è vero, della sua energia vitale— era un simbolo poetico della libido, un simbolo da racconti delle fate. E se la teoria della libido ha portato Jung a decifrare l’alchimia, ci poteva essere posto anche nella Comédie Humaine per il romanzo di un alchimista: La Recherche de l’Absolu. La teoria dell’energia mi si rivelò come la parola magica che bisognava conoscere per capire il veto Balzac, Balzac tutto intero. La sua opera allora rivelava una sorprendente unità, che io prima di allora avevo solo oscuramente presentita, ma non ero mai riuscito ad afferrare. Una scoperta che mi diede emozione c gioia. Sono convinto oggi, come allora, della verità di questa scoperta e mi sia permesso dire che, da allora, ha ottenuto l’apprezzamento che merita[2]. Poi il mio lavoro scientifico si è orientato verso campi del tutto diversi; sono rimasto ammiratore e lettore di Balzac, ma non sono diventato uno specialista di Balzac. Oggi, se debbo parlare di lui, mi trovo in una situazione singolare; un nuovo incontro con Balzac è per me quasi un incontro con me stesso. [...].

  A diciannove anni non mi era possibile.

  Ma un anno dopo feci la conoscenza con Balzac, e allora tutto cambiò. Ne fui appassionatamente entusiasta, mi sentivo come preso da una forza magica. Innumerevoli lettori, di ogni classe, hanno fatto la stessa esperienza; il mondo di Balzac incanta ognuno come un sortilegio.

  Ma quando parlo di magia e di incanto, penso a qualcosa di molto preciso. Già all’inizio della carriera letteraria di Balzac, un critico notò che la parola fascination ritornava molto spesso nella sua opera e che questa parola definiva a meraviglia l’impressione che lo scrittore produceva sui lettori. Fascination nel significato originario, è il potere che hanno certi uomini di domare gli animali con lo sguardo. È la forza magnetica che emana da certe persone, un inspiegabile, ma realissimo fenomeno. Come intendere il fascino balzachiano? Balzac stesso era attratto magneticamente da tutte le promettenti lusinghe della vita, era posseduto da un insaziabile desiderio di bellezza, di godimento, di potenza, di conoscenza, di ricchezza, di gloria d’amore, di passione. «Je veux vivre avec excès», dice uno dei suoi personaggi. Ha comunicato a tutti questa immensa sete di vivere: «Tutti —dice Baudelaire— possiedono l’ardente vitalità, da cui lui stesso era animato».

  La vita, e la creazione letteraria si compiono sempre, in Balzac, alle più alte temperature, ed egli trasmette al lettore che sa accoglierlo, tutto il suo ardore. Il nostro sentimento si arricchisce, la nostra esistenza diventa più intensa, se guardiamo il mondo con gli occhi di Balzac. Ecco la magica forza che emana da lui. L’insaziabile avidità di Balzac si estende al regno dello spirito come a quello dell’anima e dei sensi, vuol cogliere i frutti dell’albero della vita come quelli dell’albero della conoscenza. Egli esige il tutto, senza restrizione, «la recherche de l’Absolu». Se cerco esempi da opporre, non trovo che l’ambiziosa aspirazione, lo Streben di Faust. Non che io voglia rendere Balzac tributario di Goethe, si tratta soltanto di chiarire, per confronti, un elemento fondamentale della sua personalità spirituale. Nella galleria delle figure simboliche, che lo spirito europeo ha creato, troviamo l’eroe, il santo, il saggio, troviamo il «viveur» che cerca l’assoluto nell’amore sessuale: Don Juan. Ma Faust vuole di più: vuole la magia, vuole Elena, vuole una potenza che superi spazio e tempo, «insaziabile in ogni istante». Non dimentichiamo che anche Faust appartiene alla corporazione degli alchimisti. Questo desiderio senza limiti è quello di un tipo psicologico che solo la moderna Europa ben conosce; non l’antichità e nemmeno l’Oriente, malgrado le meraviglie delle Mille e una notte. È in questo faustiano mondo dell’anima che bisogna vedere Balzac, un grande genio moderno per cui l’antica tradizione europea non ha significato nulla.

  Questo carattere faustiano di Balzac — questo appetito insaziabile ed infinito di tutti i beni dell’esistenza, è soltanto un altro aspetto di ciò che ho chiamato energia, volontà, libido: e la molla della sua creazione, è il motore della sua fantasia, che egli proietta sulla realtà tutta intera: il desiderio diventa in lui principio creatore. [...].

  Balzac è l’unico grande francese del secolo passato che accetta il mondo: questo mondo moderno nella sua immensità, con la sua prosa e la sua poesia, la sua realtà e la sua spiritualità. Balzac ama il suo secolo. Il colossale edificio della commedia umana doveva essere coronato da un «dialogo filosofico e pratico sulle perfezioni del XIX secolo», che avrebbe preceduto una «Monografia della virtù». Non ci possiamo fare nessuna idea di quello che sarebbe stato il contenuto di questi libri: Balzac non ha potuto terminare la sua gigantesca opera, il destino non gli ha concesso che una breve vita di cinquantun anni. Se si pensa che scrisse a trent’anni la sua prima opera veramente valida, Les Chouans, dobbiamo concludere che gli sono rimasti appena vent’anni per il resto del suo lavoro.

  Balzac si è sviluppato lentamente ed è maturato tardi, ha perduto dieci anni in esperimenti professionali e letterari, che sono una serie di insuccessi, ma quando ha trovato se stesso, la produzione erompe con una potenza e una ricchezza senza pari e nella febbre di questa creazione scopre il senso segreto della sua opera. Nell’estate 1833 gli viene improvvisa l’idea di raggruppare sistematicamente i suoi romanzi, di costruire con essi un «cosmo». Egli concepisce quest’idea in uno stato d’illuminazione accompagnato dalla più viva esaltazione. È così soggiogato dalla sua idea che attraversa mezza Parigi, si precipita da sua sorella e le comunica che sta semplicemente per diventare un genio. Che cosa è successo in Balzac? È avvenuta, nel suo spirito, una sorta di apertura, un’illuminazione che è anche integrazione. Un’idea, che esisteva già da tempo come intuizione vaga, è sorta nella sua coscienza in precisi contorni. Balzac sente che tutte le opere che ha di già creato costituiscono un insieme organico, che sono le parti di un tutto che le comprende e questo tutto appare organizzato secondo una struttura piena di significato. Era un processo spirituale che ha la sua analogia nella natura fisica, nel formarsi dei cristalli, nel passaggio folgorante di un fluido a struttura organizzata. Balzac ha fermato la sua scoperta di quel giorno in questa frase: «Il ne suffit pas d’être un homme: il faut être un système». Essere un sistema significa concepire la propria creazione conte un insieme organizzato secondo un’idea; detto in altro modo: non basta scrivere bisogna arrivare a vedere il nesso organico che lega le opere l’una alle altre. Bisogna penetrare, dominare la propria produzione col pensiero, bisogna imparare a conoscere se stessi dalle proprie opere. La creazione intellettuale comprende un elemento naturale ed uno ideale e si manifesta in maniera inconscia quasi vegetativa: l’uomo creatore sente in sé l’urgenza di esprimere qualcosa. Proust l’ha descritta meravigliosamente nella scena in cui, ancora ragazzo, fa una passeggiata in carrozza ed è così violentemente attratto dallo spettacolo delle torri di Martinville, degradanti in prospettiva che scarabocchia qualche annotazione su un pezzo di carta: ha avuto una intuizione artistica e le ha dato forma. Un’esperienza che si rinnoverà. Ma dovranno passare anni, anzi decine d’anni, in cui crede di non valere nulla come scrittore, finché un momento di chiaroveggenza gli mostrerà, chiara, la costruzione ideale che si chiamerà poi: À la recherche du Temps perdu.

  Come ho detto sopra l’esperienza di Balzac, nell’estate 1833, fu accompagnata da uno stato di esaltazione: egli comprese di essere un genio. Cosa significa? Una esperienza di integrazione come la sua, fa nascere nella coscienza una forza, una potenza, fino allora mai provata. L’uomo creatore si sente elevato ad una più alta potenza: può ordinare, organizzare, dominare. Nello stesso anno, 1833, Balzac scrive alla donna che ama: «Voglio dominare il mondo intellettuale d’Europa; ancora due anni di pazienza e di lavoro e camminerò su tutte le teste di coloro che vorrebbero legarmi le mani, inceppare il mio volo». E nel 1844: «Quattro uomini avranno avuto (nel XIX secolo) una vita grandiosa: Napoleone, Cuvier, O’ Connell, e io voglio essere il quarto. Il primo ha vissuto la vita dell’Europa, si è inoculato intere armate. Il secondo ha abbracciato il globo! Il terzo ha fatto suo un popolo! Io avrò portato una intera società nella mia testa!».

  Balzac non si confronta per esempio con i grandi della letteratura contemporanea, non riconosceva una misura a cui riportare se stesso e gli altri. I nomi che ricorda, sembrano disparati: l’imperatore elevato dalla leggenda a mitica grandezza; il grande naturalista fondatore dell’anatomia comparata e della paleontologia; infine il rinnovatore dell'Irlanda. i tratti comuni a loro, Balzac, li ritrova nell’estensione dei loro campi d'azione; nel loro carattere che abbraccia la totalità: essi dominano un tutto, intere armate, un popolo intero, tutto il globo. Sono individui che portano in sé una totalità e proprio questo Balzac, a buon diritto, poteva attribuirlo a se stesso. Che sentimento di potenza viveva in lui! Si pensi al Nietzsche degli ultimi anni. Ma la coscienza di Balzac era libera dall’Hybris.

  Per fare della sua opera una totalità, Balzac inventò l’espediente di far apparire sempre gli stessi personaggi in libri diversi. Cominciò nel 1834; in seguito divise i romanzi in differenti gruppi, infine, nel 1842, scelse il titolo generale: Comédie Humaine e dichiarò le sue intenzioni in una introduzione. Un nuovo ed ultimo piano sistematico fu concepito nel 1845. Secondo questo piano la Comédie Humaine doveva comprendere 137 opere: 87 erano finite, altre 50 erano schizzi o abbozzi. Nei pochi anni che gli rimasero Balzac compose ancora una mezza dozzina di romanzi.

  Dopo che ebbe concepito la sua opera e deciso di organizzarla in un sistema di romanzi inquadrò nello stesso sistema anche le sue opere precedenti. La critica gliene fece un rimprovero e affermò che questa sistemazione non era che posteriore e artificiosa. Vuol simulare —si disse— una unità fittizia. Marcel Proust, uno dei più grandi ammiratori moderni di Balzac, respinse queste accuse. L’unità dell’opera di Balzac era —dice— ancora più convincente ed autentica in quanto Balzac ne aveva preso coscienza soltanto dopo. Proprio perché era inconscia, era una vivente unità, non un sistema logico. Le singole parti tendevano da sole all’unità. Il ciclo dei romanzi di Balzac, pur nello stato incompleto in cui lo possediamo, ci dà un’immagine completa dell’umanità. Cerco invano nella storia della letteratura europea qualcosa di paragonabile. La singolarità di Balzac appare ancor più chiara se la si confronta con i suoi imitatori.

  Zola è il più noto: voleva essere il Balzac del secondo Impero. Il suo ciclo di romanzi —Les Rougon-Macquart— doveva presentare la storia biologica e sociale di una famiglia. Come Balzac, Zola tenta dunque di darci il quadro completo di un’epoca e anche nelle sue opere ritornano sempre gli stessi personaggi. Ma Zola credeva di avere un grande vantaggio su Balzac: potersi basare sulle scienze naturali moderne, cioè la fisiologia e la teoria dell’ereditarietà del 1870. Era un’impresa di una ingenuità enorme. Dell’ambizioso edificio di Zola, non restano che rovine; era un monumento di banalità.

  Anche nel XX secolo ci sono stati parecchi tentativi di creare la commedia umana del nostro tempo sotto forma di romanzi in serie di numerosi volumi. Si avvalgono di tutte le novità psicologiche e sociologiche dell’epoca presente, manca loro soltanto una cosa: il fluido impalpabile della vita. Sono necropoli abitate da ombre di cui si dimentica presto il destino e si ricorda appena il nome. Saranno dimenticate da lungo tempo, quando l’opera di Balzac sarà ancora viva.

  Tutti gli imitatori di Balzac si sono fermati agli elementi esteriori della sua opera e non ne hanno compreso gli impulsi interiori, hanno ritenuto Balzac un realista e i nostri manuali di letteratura, così privi di idee, diffondono, in parte, ancora oggi questa convinzione. In questi volumi si impara che la letteratura si compone di correnti, che si succedono le une alle altre; nel XIX secolo si ebbe prima il romanticismo, poi il realismo. Quest’ultimo si continua in maniera più violenta nel naturalismo, è poi sostituito dal simbolismo, che purtroppo non si può definire in maniera soddisfacente. [...].

  Per Flaubert, nella vita, fra desiderio e realtà esiste un conflitto che termina con un’irrimediabile rottura. Per Balzac è tutto il contrario; un immenso desiderio nutrito da una gigantesca fantasia che riesce ad assorbire tutto il reale e a trasformarlo a propria immagine. [...].

  Si sa quale ruolo abbia giocato il denaro nella vita di Balzac: anche al tempo del maggior successo, a stento si poteva salvare dai creditori, guadagnava molto, ma spendeva ancora di più. Era un collezionista d’arte, amava il lusso, conosceva, per esperienza diretta, l’importanza del denaro nella vita. E fu il primo a tenerne conto nelle sue opere; il primo fra tutti, che ci fece sapere quali fossero le entrate della gente. L’avaro è una vecchia figura della commedia, ma il Grandet di Balzac c il plinto di cui noi vediamo nascere la fortuna e di cui possiamo verificare i guadagni. Le operazioni finanziarie, grandi e piccole, occupano in Balzac un posto che prima sembrava essere riservato alle grandi passioni. Il sordido usuraio fa parte della Commedia umana come il grande banchiere che influenza la politica internazionale. L’industria, al tempo di Balzac, era ancora allo stato di larva, e così pure il traffico moderno; non esistevano le macchine, né la tecnica. Balzac era stato, lui stesso, stampatore di libri; può descrivere il lavoro della stamperia e della fabbricazione della carta, perché l’ha visto con i propri occhi. In un altro romanzo assistiamo all’ascesa di un fabbricante di profumi, siamo testimoni del suo fallimento ma anche della sua riabilitazione alla borsa parigina. Egli muore, martire della sua onestà di commerciante, e a lui spettano le palme celesti. «Ecco la morte del giusto» — dice il prete al suo letto di morte. E la vita di un commerciante di Parigi diventa un dramma moderno, pronto a gareggiare con le tragedie dei martiri del XVII secolo.

  Ma in Balzac si può studiare anche il mondo della legge, i processi, i metodi della polizia, la psicologia del criminale, l’elezione di un deputato. Ministri e tribuni del popolo ci confidano segreti di stato. Si analizza la prostituzione come gli affari della amministrazione pubblica. Entriamo nei saloni aristocratici, ma anche nelle mansarde degli studenti, negli ateliers degli artisti, nelle sale di redazione. E una sociologia di Parigi quella che ci offre Balzac. Arriviamo a conoscere tutti gli aspetti della vita pubblica. Ma Balzac ci mostra anche i segreti di Parigi. Uno dei suoi romanzi porta un titolo caratteristico L’Envers de l’Histoire contemporaine. Facciamo conoscenza con un piccolo gruppo di persone provate dal destino più avverso e duro, e che si sono affratellate per esercitare una carità attiva: il loro breviario è l’Imitatio Christi. Il vero Balzac lo ritroviamo pure quando ci informa esattamente sul loro conto in banca. Il segreto, in ogni forma, ha esercitato su Balzac sempre una magica attrazione. La Commedia umana è piena di gente che nasconde un segreto; ci sono artisti che non conoscono i loro genitori ma il cui destino è guidato da una mano sconosciuta. C’è Vautrin, il galeotto, che appare sotto i nomi e le maschere più diverse, nei più diversi ambienti, per impersonare la provvidenza nella vita di alcuni giovani. Balzac ci presenta le società segrete nel centro della moderna Parigi, ma descrive anche drammi segreti, come la storia della ragazza dagli occhi d’oro, di cui Hofmannsthal ha detto: «È la storia meravigliosa e indimenticabile, dove la voluttà nasce dal segreto; dove l’Oriente solleva le sue palpebre pesanti sulle insonnie di Parigi, dove l’avventura s’allaccia alla realtà, dove il fiore dell’anima si schiude sull’orlo del disordine e della morte e il presente e rischiarato da una tal fiamma, come alle grandi epoche dei sogni ancestrali ... È la storia di Henry de Marsay e della ragazza dagli occhi d’oro. La storia che inizia con una descrizione di Parigi, è una immensa immagine in parole, un grandioso edificio, una torre eretta come una montagna in una luce pallida e fra tenebre nere — e la cui fine è una poesia d’Oriente dove il torpore del più profondo piacere si fonde con l’ardore del sangue, dove qualcosa si distacca dal mondo dei sensi per perdersi dove non c’è più nome, una storia il cui inizio potrebbe essere di Dante, la fine delle Mille e una notte e il resto di nessun altro al mondo, se non di colui che l’ha scritta». «Non so —conclude Hofmannsthal— che sete di immaginazione possa avere un lettore per non saziarla ai libri di un uomo come questo!».

  Se Hofmannsthal cita a confronto Dante e le Mille e una notte, ricorda anche Shakespeare per spiegare la ricchezza poetica della fantasia balzachiana.

  Balzac, infatti, non si lascia classificare in nessun movimento, in nessuna delle rivoluzioni letterarie del XIX secolo, non ha mai tracciato un programma, non ha mai voluto «far scuola». La legge interiore della sua opera e della sua personalità e il libero espandersi; realizzare la visione che portava in sé. Niente è da lui più lontano della rottura col passato che proclamava il romanticismo. Le radici del suo universo spirituale affondano nella tradizione secolare dello spirito francese. Rabelais è, per lui, uno dei più grandi geni, Racine è la perfezione stessa, le favole di La Fontaine sono una delle reliquie sacre dell’umanità, ma con lo stesso entusiasmo venera un Montesquieu, un Diderot, un Buffon e considera se stesso un erede, mai un ribelle. Prova una sconfinata ammirazione per i secoli classici della Francia, come pure per la Francia delle cattedrali, delle corporazioni dei muratori, dell’arte gotica.

  La Comédie Humaine non è soltanto un affresco del presente, conte il ciclo dei romanzi di Zola; l’opera di Balzac ha anche una dimensione storica. Balzac era nato alla soglia del XIX secolo, al centro del grandioso dramma storico che la Francia, dal 1789 al 1815, ha rappresentato davanti al mondo. Alcune delle sue opere più commoventi presentano scene della rivoluzione e dell’era napoleonica ma si ritrovano, nella Commedia umana, anche romanzi ambientati nel XVII, XVI, XV secolo. Un singolare racconto: Les Proscrits, risale ancora più indietro e cioè ai primi anni del XIV secolo. Ci presenta Dante, proscritto a Parigi e un corso tenuto alla Sorbona dal celebre scolastico Sigeri di Brabante. Si sa che questo pensatore ostinato, già condannato per le sue dottrine mentre era vivo, riceve nel Paradiso di Dante un omaggio che pone ancora problemi agli esegeti di oggi. Che cosa può aver attirato Balzac, in questo soggetto? E perché ha ordinato la novella fra le Études Philosophiques, che si elevano alti sul massiccio delle Etudes de Moeurs, come sopra il regno dei fatti la loro interpretazione? C’è una parte, nella Comédie Humaine, che non è mai diventata popolare, ma che ha sempre particolarmente attirato certi spiriti, e a cui Balzac stesso attribuiva il più grande valore. Sono i romanzi in cui ha sviluppato il pensiero mistico e magico d’una primitiva rivelazione religiosa in cui si rifaceva a Jacob Böhme a Swedenborg e a Saint-Martin. Facendo uso della sua libertà letteraria ha posto Sigeri di Brabante all’interno di questo cristianesimo esoterico. Questo è, o almeno io penso, il senso di quel racconto — o per lo meno uno dei suoi significati.

  Perché il racconto significa, naturalmente, molto di più. In Balzac infatti, tutto è legato insieme. Non è un caso che nel 1831, alla soglia della sua carriera, Balzac invochi Dante, il creatore della grande sintesi umana del Medio Evo e uno dei maestri della filosofia cristiana: sono immagini che sorgono davanti a lui perché simbolizzano la sua vocazione. Il poeta, che convoca davanti al suo tribunale il passato e il presente, e lo spirito ardito che esprime, come pensatore, il cristianesimo eterno, sono simboli, sono interpreti, sono potenti custodi e patroni. La rivoluzione del 1830 aveva profondamente scosso Balzac: visioni apocalittiche Io tormentano. A questa stessa epoca risale la meravigliosa leggenda di Jésus-Christ en Flandre, che culmina nella visione di una chiesa rinnovata e si chiude con le parole: «Credere è vivere! Ho visto passare il funerale della monarchia, ora bisogna difendere la chiesa». Il quadro storico della leggenda ci riporta al XV secolo, il secolo cui fu composta la Imitatio Christi. Qui, come nella novella di Dante, Balzac cerca una junctura col cattolicesimo medievale.

  L’interpretazione balzachiana del cattolicesimo contiene clementi gnostici ed eterodossi, che si sono nutriti, in parte, a sorgenti assai torbide. Personalmente era incline ad un cristianesimo esoterico che la chiesa non riconosce, e in favore del quale egli invocava testimoni assai dubbi, ma quando però s’avventura, seguendo Swedenborg e Saint-Martin, nel fantastico e nell’estasi, c’è in lui un’autentica nostalgia mistica. Le forze spirituali del cristianesimo lo hanno toccato. Egli professava anche la convinzione che una carità attiva è il rimedio ai mali del tempo: ha illustrato potentemente questa fede in romanzi come Le Curé de Village e Le Médecin de Campagne. Le figure apostoliche dei suoi preti sono diventate modello per il cattolicesimo sociale del XIX e XX secolo. Tutta l’opera di Balzac è messa al servizio d’una riforma politica, sociale e religiosa della Francia.

  La grande rivoluzione ha diviso la Francia in due campi spirituali che sono in lotta tra di loro da più di cento-cinquant’anni. La storia di questo secolo e mezzo è un Kulturkampf, una vera guerra di religione, il cui esito è ancor oggi incerto. Per la Francia progressista e razionalista, che era all’opposizione sotto Napoleone III e che raggiunse il potere con la terza Repubblica, l’atteggiamento cattolico e monarchico di Balzac non è che un incomprensibile oscurantismo. Il primo critico che ha compreso la grandezza di Balzac —Taine— parlò tuttavia delle sue idee politiche come se si trattasse d’un semplice romanzo. Flaubert nota con costernazione che Balzac era cattolico e legittimista. Il suo laconico giudizio conclusivo è: «Un immense bonhomme, mais de second ordre». [...].

  Se ci si domanda in quale campo si ponga Balzac, nel Kulturkampf del XIX secolo in Francia, nessun dubbio sembra possibile: egli appartiene a quello della controrivoluzione. Ed era logico che Paul Bourget, il rappresentante del romanzo conservatore e cattolico, dichiarasse intorno al 1900, che la dottrina sociale della Comédie Humaine rappresentava, ai suoi occhi, uno degli elementi essenziali, addirittura il coronamento dell’opera intera. La Francia era allora scossa dai tumulti dell’affare Dreyfus. Quando Tours, la città natale di Balzac, volle celebrare il centenario della nascita del suo illustre figlio nel 1899, fece richiesta per un credito di mille franchi, ma esso venne respinto a grande maggioranza dal consiglio municipale col pretesto che l’opera di Balzac era «notoriamente clericale e reazionaria». Ma Balzac aveva disegnato anche eroici ribelli, aveva descritto la corruzione delle classi dirigenti e così si spiega perché marxisti importanti, come Friedrich Engels, lo rivendicassero al socialismo. Uno studioso francese, che ha speso una ventina d’anni studiando le idee politiche e sociali di Balzac, ha pubblicato nel 1947 i risultati dei suoi lavori in una voluminosa opera di 800 pagine: va aggiunto che egli ha seguito l’evoluzione di Balzac solo fino al 1834, ma il risultato è che in Balzac si trova tutto: rivolta e fedeltà al re, tendenze liberali e reazionarie, anarchismo e fascismo. L’autore, Bernard Guyon, non ha osato altro che suggerire; usa pudiche perifrasi e scrive: «Il nous semble que la pensée qui l’anime se rapproche ... de certaines idéologies modernes dont l’extraordinaire force d’expansion et puissance de succès s’est surabondamment manifestée à nos yeux au cours des dernières année (sic)». L’origine sarebbe da ricercarsi in un tragico conflitto interiore che avrebbe straziato l’anima di Balzac. Quest’ipotesi è in contraddizione, secondo ine, con tutto ciò che sappiamo di Balzac. Balzac amava affermare, viveva nell’euforia della creazione; nella sua coscienza titanica si creatore, si confrontava con Napoleone. Potenza-gloria-potere-autorità-legittimità; erano per lui forme della grandezza umana, rendeva loro il tributo della sua ammirazione; le sue convinzioni politiche non si possono misurare col metro del rigido dogmatismo dei partiti. Balzac era inebriato d’ogni forma di grandezza perché vi si riconosceva.

  «Grandezza» — nessun’altra parola è più degna per definire il rango di Balzac. Se percorriamo con uno sguardo il vasto panorama della letteratura europea, non troviamo che poche figure, cui possiamo riconoscere una grandezza assoluta: Omero, Dante, Shakespeare. [...].

  Esiste una più potente testimonianza della grandezza di Balzac che il marmo di Rodin, da cui balza davanti ai nostri occhi il Balzac visionario? Balzac «nell’ebbrezza della visione» come dice Rilke «tutto nella schiuma della sua creazione, nella fertilità della sua esuberanza, creatore di generazioni, dilapidatore di destini». La potenza creatrice di Balzac si può misurare con quella dei più grandi: è loro eguale anche come artista? Certo non si ha il diritto di giudicare Balzac secondo l’ideale artistico di Flaubert e della sua scuola, che è quello dell’art pour l’art. [...]. Uno scrittore come Balzac, in cui si affolla tutto un mondo di personaggi, che urge alla luce, non può scrivere così: non ne ha il diritto. [...].

  E anche Balzac si deve vedere diversamente nel 1950 in modo diverso dal 1900 o addirittura dal 1920. Già da lungo tempo non lo si allinea accanto a Zola; Balzac è ancor oggi sullo stesso piano di Flaubert e Stendhal? Dubito che si continui a farlo ancora a lungo. Credi di notare uno spostamento di valori e nel campo della critica letteraria non trovo problemi più interessanti di quello di stabilire la gerarchia e le sue variazioni. È un compito molto delicato; bisogna interrogare il proprio sentimento, ma guardare anche ai segni annunciatori di un clima nuovo. Se considero Balzac in questa prospettiva, osservo che negli ultimi trent’anni non ha mai cessato di crescere. Il tempo ha fatto apparire in lui nuovi aspetti: non dimentichiamo che dal 1919 la situazione del romanzo francese s’è completamente trasformata, con l’apparire di Proust. Il sorgere di un nuovo artista di genio illumina l’arte, anche l’arte del passato, d’una nuova luce. È un fenomeno costante e necessario, di cui la critica letteraria non si rende conto abbastanza, ma un critico come Thibaudet, ha tratteggiato l’immagine di un Balzac già visto attraverso Proust. In M. de Charlus vede un più evidente Vautrin, e chiama Proust: «Le plus balzacien des écrivains français après Balzac» come Saint-Simon era stato «le plus balzacien des écrivains avant Balzac». Proust è l’intelligenza più completa e differenziata che si sia manifestata nel romanzo francese: un’intelligenza che era intuizione, nel senso bergsoniano. Per questo è doppiamente significativo che l’arte di Proust presenti affinità con Balzac e non con Stendhal o Flaubert. Paul Morand ha notato che soltanto grazie a Proust uno dei più grandi romanzi di Balzac: «Les Illusions Perdues» (sic) è stato riscoperto ai nostri tempi. E basta leggere la meravigliosa novella di Morand: «Parfaite de Saligny» per sentire che questo moderno francese si pone sulla linea delle grandi novelle tragiche di Balzac, penso a El Verdugo o a «La Fille aux yeux d’or». Ma in Proust, come in Morand, ritornano elementi di Balzac, che il XIX secolo democratico e il XX secolo socialista hanno condannato nel grande Balzac, come maniere non valide: il bisogno di lusso e il cosiddetto snobismo. [...].

  Ed è strano che siano stati sempre i poeti a meglio capire Balzac: Baudelaire, Browning, Hofmannsthal e fra i viventi, Gottfried Benn. È una radiazione attiva in profondità e in lontananza, questa di Balzac, che pone un problema anche alla critica, se essa vuol riconoscerlo. Questi poeti trattano Balzac come un elemento familiare e da un simile fenomeno arriviamo a comprendere come Balzac racchiuda una inesauribile sostanza poetica: e altre cose. Questi poeti sono completamente diversi l’uno dagli altri, ma in ognuno di essi si trova la più alta e sottile differenziazione d’anima e intelligenza: il che significa che Balzac riceve l’omaggio dell’élite europea. Ma lo stesso Balzac parla anche alla grande massa dei suoi lettori: Stendhal ha scritto per the happy few, per gustare Flaubert bisogna essere iniziati alle raffinatezze della forma artistica, Balzac non scrive né per gli intellettuali né per gli esteti, ma anche essi gli pagano il loro tributo d’ammirazione. Cerca e trova i suoi lettori in tutte le classi sociali e in tutti i popoli: è forse l’unico scrittore del XIX secolo che ha saputo superare l’abisso fra le masse e le élites. Anche questo un segno di grandezza. Balzac racchiude, da francese, l’umanità tutta intera; per questo è potuto diventare ricchezza, bene comune dell’umanità. La grandezza di Balzac fu discussa fino alla fine del XIX secolo e più tardi ancora, ma oggi un secolo dopo la sua morte, appare sempre più potente e non farà che crescere di secolo in secolo.

 

 

  Achille Fiocco, Honoré de Balzac, in Teatro universale. Dal Classicismo al Romanticismo, Bologna, Cappelli Editore, 1963, pp. 208-211.

 

  Honoré de Balzac (1799 1850) si affacciò tardi al teatro, quando la sua reputazione di romanziere era ben stabilita: probabilmente pensava di esservi meglio ricevuto. Ma dovette ricredersi. Perché il suo debutto di autore drammatico al Théâtre de la Renaissance con L’école des ménages (1839) fu un insuccesso; E altrettanto avvenne sulle scene della Porte-Saint-Martin per Vautrin (1840), riduzione che lo stesso romanziere aveva tratto dal celebratissimo Père Goriot, e non fu replicata anche perché Frédérick Lemaître, interprete del dramma, si era truccato da Luigi Filippo e la polizia aggiunse il suo divieto. Balzac se la prese con tutti, tranne che con se stesso. E per darsi ragione tornò alla carica, nel ’42, all’Odéon, con Les ressources de Quinola, ispirato alla invenzione del battello a vapore e che ancora oggi si legge per la fattura delle scene: altro insuccesso clamoroso. Ancora una volta, Balzac se ne consola, dichiarando di aver preferito affrontare l’alea di un disastro con una platea composta di spettatori paganti, piuttosto che per mezzo della claque. Identica sorte, al Teatro Gaité, ha l’anno dopo il «dramma nero» Pamela Giraud.

  I viaggi dello scrittore a Pietroburgo, a Dresda, e in Italia, accanto alla dama che poi sposò, spiegano il silenzio dei seguenti cinque anni, al termine dei quali il nome di Balzac riappare sul cartellone dei teatri parigini. Questa volta è l’Historique, con La marâtre (La matrigna): finalmente un successo (1848). Ma era scritto che il prosatore non dovesse cogliere il frutto delle sue fatiche teatrali, e il trionfo che salutò la rappresentazione della sua migliore commedia, Le faiseur ou Mercadet (1851), non lo toccò: Balzac era morto da un anno.

 

  La marâtre.

 

  Quante prove per l’opera duratura! Anche La marâtre, di cui si cita spesso la definizione dell’autore, dramma intimo in cinque atti e otto quadri, è tutt’altro che un dramma intimo, nel senso che diamo a questa parola, cioè non solo domestico e borghese, ma intimista, raccolto, sottaciuto, smorzato. È la lotta di due donne, la matrigna e la figliastra, per il possesso di un uomo, finita col suicidio della giovane coppia, all’ombra dell’incredibile odio politico di un generale napoleonico.

  Lotta a coltello, sotto l’incubo del generale, che, per la verità, oggi non farebbe spavento a nessuno, imperniata su un pacchetto di lettere compromettenti e giocata, sopra uno sfondo discretamente macchinoso, con impiego di sonniferi, veleni, e intervento di regi procuratori e giudici inquirenti, attraverso scene di una drammaticità esasperata: c’è stato il «dramma lacrimoso» e vi si annuncia il «basso romanticismo» (non per niente, Hugo è spesso a fianco del suo confratello in questa fase della battaglia).

 

  L’affarista.

 

  La gloria di Balzac a teatro è riscattata da Le faiseur: Mercadet, l’affarista, è la figura che, in un tono innocuo, richiama alla mente i grandi modelli di papà Goriot e di Grandet ed è la trasposizione scenica sufficientemente consapevole della propria autobiografia. In un tono innocuo; perché l’autore si è contentato di seguire, per quanto possibile, il procedimento del romanzo, presentandoci il personaggio bell’e fatto sin dal principio, ma senza impegnarsi seriamente nel problema, disposto a godere e a far godere lo spettacolo di un uomo preso negli ingranaggi della vita sociale e capace di sbrogliarsela o quanto meno difendersene con le sue mille risorse. Siamo in una lepida atmosfera (c’è una vecchia serva che fa da «cuscino», c’è una ragazza, Giulia, che vuole unirsi all’uomo del cuore e, pur contrastando la volontà del padre (Mercadet) che la sospinge in braccio a Michonnin, il falso creso, più squattrinato di lui, sa corrergli in aiuto al momento buono, e c’è una serqua di creditori, tutti ben delineati, ma così pronti a dar fede al debitore); un’atmosfera che un nulla basterebbe a trasformare in fiabesca, se non fosse quel certo carattere veristico nell’impianto della vicenda, da commedia di costume, il continuo riferimento al tempo nel linguaggio e negli atti dei personaggi; e diventa favola, infine, quando dopo aver parlato per quattro atti dell’inesistente socio Godeau, partito inopinatamente per le Indie con la cassetta del valsente, Mercadet si sente annunciare che questo Godeau è veramente tornato e chiede di parlargli. Non c’è più bisogno della mistificazione architettata: quasi a premiare l’estrosa fatica di Mercadet e l’onesto consiglio della sua sposa, che ha rattenuto Michonnin dal farla da «compare» come finto socio, la commedia evoca, sia pure con qualche sforzo, in Godeau il suo genio provvidenziale. Il Denaro, la dura musa di Balzac, dopo aver fatto le sue prove a teatro nelle Ressources, ridiventa nell’Affarista la materia plastica dello scrittore e vi intesse la grata vicenda della fantasia, che sa crearlo dal niente.

 

 

  G., Tv: con «Papà Grandet» il trionfo dell’avarizia, «Corriere della Sera», Milano, Anno 88, 27 maggio 1963, p. 6.

 

  La nuova serie di teleromanzi (giovedì avremo la prima puntata di Delitto e castigo) si è aperta ieri Sera sul nazionale con Papà Grandet che è una elaborazione-riduzione, compiuta da Belisario Randone, del famoso romanzo di Balzac Eugénie Grandet. La riduzione in due puntate per la TV ha spostato l’accento, come del resto dichiara il, titolo, sul personaggio di Felice Grandet, lo Avaro per eccellenza; spostamento non tutto arbitrario se si tenga presente lo spazio che il personaggio occupa nel libro, vogliamo dire lo spazio d’invenzione romanzesca, di energia radiante (Père Grandet è in certo senso il rovescio della medaglia del Père Goriot, che si spoglia per le sue figlie, una figura negativa che rompe con la sua vitalità tutti gli schemi letterari reperibili alle sue origini).

  Sarebbe ridicolo mettersi qui a dichiarare l’importanza di questo libro, uscito nel 1834 e che appartiene alla grande maniera di Balzac; e, tutto sommato, ci sembrerebbe abbastanza equivoco misurare la bontà maggiore o minore della trascrizione televisiva (curata dal regista Alessandro Brissoni) secondo la stretta fedeltà al testo letterario. Tuttavia un certo riferimento bisogna pur farlo. In fondo il carattere della narrazione balzacchiana può essere dedotto già dalla minuziosa descrizione che si fa, all’inizio, di Felice Grandet: un uomo dalle larghe spalle, tozzo, robusto, denso, in una parola: «i suoi occhi avevano la espressione calma e divoratrice che il popolino attribuisce al basilisco». La sua avarizia ha la medesima natura compatta, vitale, meglio: animale; non c’è in Grandet una malvagità di cuore, giacché in lui non si dà alcuna fessura fra la coscienza e la passione dell’oro, quella fessura da superare con la crudeltà o con il calcolo. Grandet non vive da avaro, vive semplicemente come la sua natura gli consente: perciò nel motivo ricorrente della sua avidità ed economia c’è qualcosa di «tristemente comico».

  Tutto ciò si dice per osservare che la versione televisiva ha rotto un poco questa compattezza, questa naturalezza del personaggio, per sottolineare, probabilmente a scopo dimostrativo, l’assurdità e l’insensibilità di certi gesti e parole di Grandet: in alcuni punti egli è apparso più odioso di quanto in realtà (cioè nel libro) non sia; in altri ha assunto i modi un po’ cavernosi, un po’ melodrammatici, dell’Avaro di commedia. Con ciò non si vuole tanto trovare a che dire dell’interpretazione di Aldo Silvani, che era Grandet, quanto precisare che la necessità di stabilire in fretta, con tutta evidenza, le «parti» non poteva che portare a questa semplificazione, schematizzazione troppo sensibile.

  In somma mentre il grande Balzac non è mai convenzionale, lo è stata, nel complesso, la puntata vista ieri sera: specie nel contorno al personaggio di Grandet, nella moglie, nella figlia, nell’ambientazione, nel montaggio stesso del racconto. Era, egli inizi, un male inevitabile? Vedremo. Segnaliamo comunque, accanto al Silvani, Tina Lattanzi, Giusi Rasparli Dandolo, Valdemarin e gli altri. [...].

 

 

  R. G., Eugenia Grandet, «Educazione e TV. Rassegna problematica e didattica per la diffusione della cultura attraverso il sussidio televisivo», Roma, Anno II, Agosto 1963, p. 102.

 

 

  Luigi Losito, Balzac intime, in Panorama. Libri, profili e fatti di Francia, Bari, Tip. Ragusa, 1963 («Collana di Culture française», 1), pp. 115-117.

 

  Balzac a dû attendre dix-sept ans avant de pouvoir épouser M.me Hanska qui, en 1832, du fond de l’Ukraine, lui écrivit sa première lettre. Pourtant chez cette Polonaise vivant si loin de lui, Balzac découvrit l’âme de sa vie et une longue correspondance commença, qui constitue le plus curieux témoignage d’un amour épistolaire. Malheureusement le document est incomplet, car les lettres de la fiancée furent détruites par Balzac mème, mais il nous reste les quelque trois mille lettres du fiancé.

  L’intérêt de cette correspondance est grand: parce que nulle part Balzac n’est plus présent, plus saisissable, que dans ces lettres, où, à travers un si long espace de temps il se montre presque quotidiennement comme dans un journal intime. La lecture de ces lettres nous convainc que Balzac a vraiment aimé cette femme qui d’abord se révéla, sous le masque piquant de l’anonymat, comme une admiratrice littéraire et ensuite comme une grande dame étrangère romantique et insatisfaite, bien que maîtresse d’une fabuleuse fortune. Le grand romancier français découvrit en elle le sujet de son plus beau roman; le vrai et seul roman, de sa vie. Ils se rencontrèrent une première fois en Suisse où, malgré la présence de M. Hanska, l’amour idéal fut vite et solidement complété par les plaisirs de la présence réelle et les lettres de Balzac ne nous cachent pas les agréments de cette beauté grasse et blanche, quelque peu volumineuse, mais très plaisante aussi. Les deux amants se rencontrèrent très rarement: une fois ils restèrent huit ans sans se voir, mai (sic) ils demeurèrent toujours fidèles. Quand le gênant M. Hanska disparut, M.me Hanska, qui s’était promise à Balzac dès qu’elle serait libre, ne tint pas sa promesse et il lui fallut attendre encore des années pour célébrer, en 1850, le mariage tant souhaité. La lecture des Lettres à l’étrangère est particulièrement émouvante, bien qu’assez fatigante. Dans ces pages l’homme privé et le génial créateur de la Comédie humaine ne font qu’un et le souci de l’œuvre littéraire semble même réduit à la seule préoccupation matérielle de produire de l’argent. Cette hantise continue à remplir les lettres dans lesquelles on voit les dettes augmenter et engloutir toujours davantage ce que Balzac réussit à gagner. Ce n’est pas l’échec de ses premiers travaux d’édition et d’imprimerie qui a tellement grevé sa situation économique; ce sont ses extravagantes dépenses. En 1846, persuadé que le mariage va se faire, car Ève Hanska attend un enfant, produit d’une précédente rencontre, Balzac aménage le nid. Il a trouvé un ancien pavillon en mauvais état, rue Fortunée, qu’il transforme en palais.

  Les missives que l’écrivain envoit (sic) à sa fiancée polonaise décrivent, au jour le jour, les mirabolants (sic) achats de meubles, bibelots, vaisselle, objets d’or. Il achète le lit de la Pampadour (sic) pour sa belle. M.me Hanska s’inquiète des prodigalités du candidat époux et le pauvre Balzac se défend et se justifie. Mais le rêve va s’effondre tout à coup. Mme Hanska a mis au monde un enfant mort et le mariage est remis. Balzac voudrait venir en Ukraine, mais sa fiancée le lui interdit. Le triste Honoré est au désespoir. Il est seul, il se tue de travail: sa santé l’inquiète, il n’a que des difficultés, des embarras et des ennuis, ses tentatives théâtrales échouent. Un découragement profond le saisit et ses lettres qui deviennent plus humaines, inspirent plus de sympathie et mettent à nu l’âme de l’écrivain. Son système effréné de vie et de production, son travail de nuit, ses quinze ou seize heures sur le papier blanc, le café noir à haute dose, la nécéssité de fournir la copie pour avoir l’argent immédiatement nécessaire, ruinent sa vie. Conscient du danger, la mort entrevue, et son grand amour toujours en suspens, ses dernières lettres sont tragiques. Balzac comprend bien qu’il se tue, en effet il mourra bientôt, a cinquante et un ans. Quand, en 1850, la comtesse Hanska accomplira enfin son devoir envers ce génial amoreux (sic) qui l’a attendue dix-sept ans, elle n’épousera qu’un mourant: quelques mois après Balzac ne sera plus.

(Giugno 1955).

 

 

  Vittorio Lugli, Nota a un romanzo di Balzac. «Le Médecin de campagne», in AA.VV., Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, Mondadori, 1963, pp. 170-174; successivamente, in: La cortigiana innamorata e altri saggi, Torino, Einaudi Editore, 1972, pp. 160-164.

 

  Citiamo dall’edizione del 1972.

 

  È troppo nota la libertà con cui gli scrittori moderni intendono il romanzo, che sovente diventa per essi confessione, saggio, discorso, tutto fuor che racconto di avvenimenti, di casi, rappresentazione diversa, interessante, di uomini e di azioni. Anche per questo Balzac è moderno, attuale. Proprio lui, il maestro sapiente degli intrichi più appassionanti, il costruttore delle più complesse macchine romanzesche, l’autore di libri colmi d’azione quasi da scoppiarne, s’accontenta a volte della più modesta cornice narrativa, per mettervi dentro un suo pensiero, un sogno, una visione del suo spirito possente e ansioso. Non solo nelle Etudes philosophiques, ma anche in non poche delle Scènes della diversa vita. Così nel Médecin de campagne, la storia del dottor Benassis, che aveva spezzato la vita di una donna e il cuore d’un’altra, interessa appena, nello sfondo, come la ragione per cui il protagonista, dopo aver perduto anche il figliolo solo rimastogli della sua triste giovinezza, pon fine alla prima esistenza e comincia la seconda, apostolo di igiene, di rigenerazione morale e sociale, in un cantone del Delfinato, nel massiccio della Grande-Chartreuse.

  Tra le altre figure paesane, la Fosseuse è una fanciulla assai delicatamente tracciata; la breve storia che reca il capitano Genestas, l’ospite del dottore, è di ben poco rilievo. Il libro è tutto riempito delle idee sociali, politiche e religiose dell’autore, dimostrate anche in pratica applicazione dal bravo dottor Benassis. E doveva riuscire un libro benefico, edificante – pensava Balzac – da meritargli il premio Montyon: quasi il Vangelo in azione, un volume da diffondersi largamente tra il popolo, da vendersi come un almanacco, o un libro da messa. Il pubblico non fu di questo avviso, e Balzac riconobbe le fiasco, caduta la breve esaltazione d’autore.

  E pure si legge volentieri Le médecin, pel fervore che c’è in tutte le cose ove il nostro si è più abbandonato; si seguono le lunghe dissertazioni perché dentro c’è sempre lo spirito ardente, la volontà, la infrenabile forza vitale del grande Onorato. Quanto alle idee, la questione è sempre aperta, anche dopo il gran discorrere che se ne fece un dodici anni fa, per la doppia celebrazione dello scrittore, tra il ‘50 e il ‘51. Mentre, dopo il 1830, con un ritorno tutto consapevole al migliore pensiero settecentesco, alle conquiste della Rivoluzione, il secolo procedeva risoluto verso le più ampie, umane libertà, Balzac tornava alle teorie del Bonald e del de Maistre: «J’écris à la lueur de deux vérités éternelles: la Religion, la Monarchie». Strana figura di conservatore, che in Francia i contemporanei accusano d’immoralità, per l’ardita pittura dei mali che affliggono la società presente: una critica spietata, un’accusa all’ordine attuale, per cui Victor Hugo, nell’alto elogio pronunciato sulla sua tomba, lo definiva, qu’il le veuille ou non, «rivoluzionario».

  L’epiteto, spesse volte ripetuto, da Zola e da altri, tornava in un critico tutto volto all’arte, Albert Béguin. Per lui Balzac, reazionario in teoria, nelle pagine discorsive, è spontaneamente rivoluzionario nella creazione romanzesca: le persone in cui si è accolta tutta la sua passione artistica sono dei fuorilegge, avventurieri, eroi della volontà possente che infrange, o almeno sfida la regola, il limite morale e sociale. I cattolici non hanno mai pensato a rivendicarlo per sé: François Mauriac, senza dubitare della sincerità del credente, si dichiarava spaventato dell’opera del romanziere. Mentre André Wurmser, dell’«Europe», una rivista di sinistra, pensava (1949) che Balzac può essere reazionario pel suo biografo, non pel suo lettore.

  Siamo già alla critica marxistica, alla sua interpretazione del romanziere largamente diffusa in Francia e in Italia, intorno il ‘50, coi Saggi sul realismo di György Lukács. La quale sembra tutta derivare da una osservazione dell’Engels, tante volte ricordata dall’autore dei Saggi: «Che quindi Balzac sia stato costretto ad agire contro le proprie simpatie di classe e contro i propri pregiudizi politici, che abbia veduto la necessità del tramonto degli aristocratici da lui prediletti, e li descriva come uomini che non meritano una sorte migliore: e che abbia veduto i veri uomini dell’avvenire là, dove in quell’epoca, soltanto, era possibile trovarli: tutto questo io considero come uno dei massimi trionfi del realismo e come uno dei tratti più grandiosi del vecchio Balzac».

  Così non pensiamo, nessuno pensa più che lo scrittore si sia volto, dopo il ‘30, alle idee conservatrici per compiacere ai salotti del nobile «faubourg», alla marchesa de Castries e alle dame legittimiste che sorridevano amabili all’inizio della sua fortuna letteraria, e magari gli promettevano anche il successo politico. Pensiamo piuttosto che bisognerebbe vedere più dentro, seguire lo sviluppo di quel pensiero attraverso un ventennio, come già mostrava nel ‘47 Bernard Guyon con la sua Pensée politique et sociale de Balzac. Bisognerebbe segnare i limiti del suo antidemocraticismo, per cui, avverso al compromesso della monarchia costituzionale, ai dannosi intrighi della «mediocrazia» (il nome di un capitolo dei Paysans), sperò poi nella repubblica del ‘48.

  Che il cattolicesimo resti sopra tutto, per lui, una forza politico-sociale, è pur vero, e molto chiaramente risulta dal Médecin de campagne. Come un freno allo straripare dell’umana energia, quale Balzac sentiva in sé, intorno a sé, e unico mezzo a fare meno gravi le inevitabili differenze che sono nella società come nella vita. Il suo assolutismo – l’aveva già visto il Taine – è quello dei grandi pessimisti, che non han fiducia nell’uomo. Pensiero equivoco e patetico – diceva il Guyon – profondamente sentito pur nella sua contraddizione: materia d’arte per uno che era sopra tutto artista. E quella appassionata volontà di una regola, in una natura sregolata, anima appunto gli ampi discorsi di questo Médecin de campagne.

  Scritto tra la fervida autobiografia intellettuale che è il Louis Lambert e il primo grande capolavoro, la Grandet, ha la forza ardita dei primi anni dopo il ‘30, gli anni in cui lo scrittore si ritrova, ne ha coscienza, e si abbandona alla sua felicità anche in questa lunga dissertazione appena dialogata. Nella quale ha inserito un episodio da conquistare tutti i lettori, quelli facili e gli altri, e che rischia di rimanere solo nella memoria: «le Napoléon du peuple», l’epopea di Napoleone raccontata da un umile fantaccino, che con l’Imperatore era giunto anche in Russia. Narra ai contadini, alle donne intente, nel fienile, e la veglia — illuminata da poche candele — è piena di quella rievocazione commossa e ingenuamente fantastica. Benassis e Genestas, non visti, ascoltano dall’alto. Nel 1829, è la leggenda dell’Aquila già tutta formata, dalla nascita in «une île française, chauffée par le soleil d’Italie», fino all’isola deserta del grande mare, la roccia alta diecimila piedi ov’è relegato il padre del popolo e dei soldati. Finché gli sia ridato il suo potere, per la fortuna della Francia. Dicono che è morto, perché il popolo si stia tranquillo sotto il nuovo governo, lo ripete ora il capitano Genestas, ma questi è ancora in servizio, e la consegna è di dire così al popolo. «Faut pas lui en vouloir ... un soldat ne connaît que sa consigne».

  È, pel Lukàcs, l’unica scena forse veramente viva nel libro, mostrando come i contadini, già soldati di Napoleone, fossero a lui profondamente attaccati. E il critico cita, dai Paysans: «Aux yeux du Peuple, Napoléon, sans cesse uni au Peuple par son million de soldats, est encore le roi sorti des flancs de la Révolution, l’homme qui lui assurait la possession des biens nationaux». Per tutti sono pagine memorabili, col loro tono popolano ed eroico; ingenua, entusiastica celebrazione dell’eroe che ha cessato di vincere quando tutti l’hanno tradito. Poesia di popolo; schietta, felice idealizzazione. Un «cortometraggio» francese, visto poco tempo fa, che mostrava le cento gesta dell’Eroe, mentre un dicitore ripeteva appunto le pagine di Balzac, dispiegava i battaglioni moventi bene ordinati all’assalto, come images d’Epinal. La guerra così abbellita dalla vittoria, dalla leggenda.

  Ma l’aspra realtà vien fuori quando il ricordo preciso, sofferto, vince l’entusiasmo che esalta e trasfigura. Il quadro della Beresina è un pezzo di cruda realtà, nelle pagine quasi intonate al canto: «... jamais, au grand jamais ne s’était vue pareille fricassée d’armée, de voitures, d’artillerie, dans de pareille neige ... Le canon des fusils vous brûlait la main, si vous y touchiez, tant il était froid ...». Si pensa a Verga, alla battaglia di Lissa narrata da due scampati, nella piazzetta del povero paese; ma nei Malavoglia, naturalmente, il tono è tutto così, come è solo un momento in Balzac. I due marinai, col sacco in spalla e le teste fasciate, sono lontani da ogni entusiasmo eroico: nessuna amplificazione è possibile; solo, l’autore assomiglia i due che recano così tristi novità, fra i curiosi assiepati intorno, a «quelli che raccontano la storia d’Orlando e dei paladini di Francia alla Marina di Catania». Uno dei due, con gli occhi lustri, parla, parla, giocando con le braccia come un predicatore: «Del resto, sapete, quando suona la generale nelle batterie, non si sente più né seta né vossia, e le carabine le fanno parlar tutti allo stesso modo». E l’altro: «Poi, alla prima cannonata, e come incomincia il parapiglia, vi vien voglia di ballare anche a voi, che non vi terrebbero le catene, e allungate la carabina dappertutto dove vedete un po’ di cristiano, in mezzo al fumo».

  Battaglia sventurata, là nel lontano mare di Trieste, battaglia che tanto nuovo dolore arreca al cuore della povera Maruzza e alla casa dei Malavoglia: i due reduci la evocano così, con una forza schietta ove è la loro generosa anima popolana. Verga, parco, contratto, è sempre lontano dalla copiosissima vena di Balzac, epicamente trasfiguratrice in quel racconto del reduce dalla Russia, e pure degnamente la ricorda, tanto diversa, nei migliori effetti. L’abbiamo pensato la prima volta quando ci è avvenuto di avvicinare la morte di mastro-don Gesualdo a quella di papà Goriot, e ancora adesso per questo fuggevole, suggestivo incontro fra i due scrittori.



  Lorenza Mazzetti, Con rabbia. Romanzo, Milano, Garzanti, 1963 («Romanzi moderni Garzanti»).

 

  pp. 155-160. Quando Elsa dorme io e Baby usciamo per il corridoio segreto che porta direttamente sul lungarno delle Grazie. Io vestita da maschio porto la mia bella a ballare.

  Di notte, sotto la luna, camminando sull’erba lungo il greto del fiume, ci sentiamo libere. Il suono delle canzoni americane bellissime che proviene dall’orchestrina del dancing sul fiume ci attrae.

  Pago il biglietto e entro con Baby. Voglio fabbricarmi il mio destino con le mie mani. Come può Elsa chiuderci in casa e pretendere che noi viviamo solo di giorno? Come fanno le nostre compagne di scuola? Devono sempre ubbidire ai loro genitori. Che pizza. E la notte? E la luna? Che età dunque bisogna aspettare per divertirsi? Non sta bene andare con dei giovanotti alla nostra età. Allora ce la porto io Baby a ballare e nessuno ci darà noia e ci dirà niente!

  Spingo dolcemente la mia bella verso un tavolino e ordino due coca-cola. Va bene, porti la coca-cola. Si mettono a suonare “Temptation” e io faccio ballare Baby. Un signore grosso grosso si avvicina al nostro tavolo e dice ammiccando a me: «È suo fidanzato?»

  «No,» dice Baby, «è mio fratello».

  «Permette un ballo?» e con aria convincente si porta via Baby. Chi è? Ha un fare elegante. Deve essere un artista certamente, si vede dai capelli un po’ lunghi; poi torna e si siede al nostro tavolò e ordina del whisky per tutti, ci offre delle sigarette.

  «Offro io,» dice versandoci e mescolando i bicchieri col ghiaccio.

  «È un artista lei?» domanda Baby affascinata.

  Sì, dice che è un cantante d’Opera. Parigi, Londra, New York, è stato dappertutto. L’avevo detto io. Un uomo grande e grosso così non può essere che «qualcuno», un artista.

  «Davvero?»

  «Lui è un poeta,» dice Baby accennando a me.

  Io arrossisco.

  «Ah, io m’interesso anche d’arte; io compro quadri e vendo quadri, sono amico di tutti i pittori e poeti ...».

  «Davvero?» A guardarlo bene è un uomo straordinario, a parte il fatto che è enorme e mi ricorda Budda o Balzac. È quasi brutto, ma si vede subito il genio. Con quel desiderio che ho di scambiare due parole con qualcuno diverso dal normale, questo Balzac mi appare subito come un evento. Un caso che io capisco subito che non è un caso ma una predestinazione. Infatti io mi distinguo dalle mie compagne le quali vivono seguendo piani prestabiliti perché appunto io invece odio i programmi e faccio proprio del Caso il mio Destino. Insomma voglio dire che mentre le mie compagne hanno già un marito fissato dai loro genitori e dal loro ambiente io sento che il mio destino devo acchiapparlo al volo. La cosa è complicatissima poiché tutti, dico tutti, potrebbero rientrare quindi nel mio destino. Anche il signor Balzac.

  «Scrive poesie,» dice Baby accennando a me.

  «Davvero?» dice Balzac con un vocione. «L’ho detto subito io, ho l’occhio clinico, n’est-ce-pas? Je me suis dit: quello lì è un giovane poeta, potrebbe essere un Rimbaud. Io amo la compagnia degli artisti, non posso stare con la gente comune ...» Si guarda in giro.

  È parsa anche a me della gente comune.

  «Ma lei non è comune!» dice Baby.

  Lui si rallegra e dice che vuole portare la piccola (mia sorella) e il poeta (io) in un posto molto più bello.

  Nel suo macchinone si sta bene, comodi. Lui al volante, io da un lato e Baby in mezzo. Quest’uomo a dir la verità affascina.

  È così sicuro di sè, e poi può bere tanto whisky senza star male. Ogni tanto scompare nel W.C. Suda. Chiacchiera dei suoi viaggi all’Opéra di Parigi, ecc. Poi dice a Baby:

  «Chérie, ecco, ci siamo.» Ma io non vedo nessun dancing intorno.

  «Scendete, è il mio appartamento ... andiamo su e vi faccio vedere le mie foto vestito da Otello ... tutto nero come un negro!»

  «Davvero?» chiede Baby.

  «E ci canta un po’?» Comincio quasi a innamorarmi di lui, così pieno di vita; non fa che metter le mani sulle mie spalle, così amichevolmente, anche senza conoscermi. D’un tratto, penso di amare il signor Balzac, lo amo anche se è così grande e grosso e quasi buffo, lo amo perché è uno sconosciuto, perché è un artista, perché in mezzo a tanti cammelli è un dromedario, perché ha capito che la terra non è che un’anticamera dove tutti si devono guardare in cagnesco e con diffidenza ma che vale la pena di scambiare due parole per vedere se anche l’altro è proprio di carne e di ossa come noi, e se anche lui ha freddo quando piove e se non è per caso un po’ diverso, un po’ soprannaturale per esempio.

  Il signor Balzac è un uomo straordinario, lo sento.

  Io lo sento quando le persone sono persone comuni, o invece piene di una forza speciale. Per me il signor Balzac non è il signor Balzac ma fa finta di essere il signor Balzac.

  Tutti i dromedari fanno finta di essere quello che non sono, ma in realtà sono dromedari. I cammelli sono semplicemente cammelli e i barbari sono barbari.

  L’uomo che seduto al tavolino vicino al nostro ammiccava è un barbaro per esempio. Ora io amo il signor Balzac e ho capito subito che non era il signor Balzac e anche Baby lo ha capito; io e Baby non abbiamo nessuna persona intelligente con cui parlare. Se ci fosse lo zio, era tanto intelligente e un po’ soprannaturale! Io vorrei parlare un po’ con qualcuno intelligente, siamo tanto sole io e Baby, in fondo; quando arriviamo a casa troviamo solo Elsa, la vecchia Elsa che ci parla solo del pranzo e della cena che ci ha fatto, ma io ho tremendamente bisogno di scambiare due parole con qualcuno, con qualcuno di rispettabile e di decente, qualcuno che assomigli allo zio.

  A volte per la strada inseguo un signore con i capelli bianchi perché mi sembra lo zio.

  «Scusi,» dico.

  «Che vuole?»

  «Nulla nulla,» e scappo via.

  Perché nessuna mia compagna di scuola rinuncia a suo padre o sua madre o a uno zio, per me e Baby?

  «Vuole essere mio zio?» dico al signor Balzac che sta mostrando delle foto sue, vestito da Otello, a Baby.

  «Cosa?»

  «Dico, fa miracoli lei signor Balzac?»

  «Cosa? Cosa dice? Questo sono io in Otello, Otello!»

  «Oh, signor Otello, lei che può essere Balzac e Otello perché non prova a essere mio zio? Eccolo lì in quella foto con i capelli bianchi. Venga a casa nostra, lei è così fine e intelligente, lei è un artista e una persona piena di cultura, mio zio non cantava, ma leggeva tanti libri sa, mio zio era forse più bello in un certo modo, sa? E chi è quella bella signora vicino a lei così vestita?»

  «Desdemona. E questa è Ofelia.»

  «Porti pure lei, a casa nostra,» dice Baby. «Non ci lasci tornare in quella grande casa piena di quadri e di stanze vuote,» dico io.

  «Che cosa?»

  «Sì venga signor Balzac. No, non mi dia ancora da bere del cognac. No, signor Balzac, non posso più, sto male, sono un poeta io, non ho tanta resistenza, non mi dia ancora da bere e neppure a mia sorellina che le fa male ...»

  Allora Baby si è alzata ed è andata sul terrazzo della bella casa per vedere le stelle e io mi sentivo male e lui era tutto sudato e rosso e assomigliava a Otello così come mi guardava con gli occhi fissi. Mi sono alzata un po’ barcollante per raggiungere il bagno, allora lui mi ha trascinata in un’altra stanza che sembrava un piccolo teatro perché era tutta rossa e di velluto, con gli ori delle cornici, e c’era della polvere sul tavolino e Balzac enorme si è chinato su di me. Per un attimo mi sono sentita vacillare e immergere nel grande corpo di lui come in Budda, e prima ancora che potessi liberarmi dalle sue braccia lui mi aveva sbottonato i pantaloni. Stavo per emettere un grido quando lui è balzato lontano da me, il più lontano possibile, tutto rosso in volto ...

  «Ma sei una donna!» ha detto e mi è parso disgustato.

 

 

  Fortunato Pasqualino, L’infernale avarizia di papà Grandet, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XL, N. 22, 26 maggio-1° giugno 1963, pp. 18-19; 3 ill.

 

  Dei novantasei romanzi di Honoré de Balzac, colui che si compiaceva di definirsi il Napoleone della letteratura, «Eugenia Grandet» si raccomanda per la perenne freschezza e grandezza artistica. I critici ritengono che sia il momento più elevato e puro della narrativa balzachiana. Protagonista apparente del romanzo è colei che appare nel titolo, la grande ereditiera e vittima Eugenia. In effetti, la vera protagonista è l’infernale avarizia di papà Grandet. Per sottolineare ciò, Belisario Randone, autore della elaborazione televisiva del romanzo, ha creduto opportuno intitolare «Papà Grandet» il suo lavoro. Eugenia è solo una delle conseguenze della logica spietata del vizio paterno. Il vero centro è papà Grandet, una di quelle creazioni balzachiane che sembrano straripare da tutte le parti per eccesso di vitalità artistica. Con personaggi come papà Grandet, Balzac entra di diritto dovunque ci sia vita d’arte. E’ entrato con prepotenza in TV. Si è subito trovato a pieno agio. Un certo imbarazzo, caso mai, è stato avvertito dapprincipio dai programmatori televisivi, i quali hanno dovuto lottare non poco perché lo strapotere artistico di Balzac venisse contenuto entro i termini di una trasmissione. Balzac tende a invadere il campo non solo sulla pagina ma anche sulla scena.

  Una certa difficoltà, nella trascrizione del dramma di papà Grandet in spettacolo d’oggi, è parsa inizialmente la scarsa attualità dell’avarizia. Nell’inferno terrestre della «Commedia umana» di Balzac, Felice Grandet incarna un vizio oggi assai meno diffuso — almeno apparentemente — che non nell’Ottocento e nel passato in genere. Certamente l’avarizia, come ogni male, è sempre presente nel mondo. Oggi ha forme più sottili ma non meno gravi e funeste, come in certe negazioni intime proprie dell’avaro di cuore. Aspetti dell’antico male sono la maggior parte di certe speculazioni. Tuttavia il vizio non si manifesta oggi, come una volta, nella passione per l’oro. L’«oro eccellentissimo», che Cristoforo Colombo prometteva di portare dalle Indie e che alchimisti, commercianti, banchieri ricercavano e bramavano anche a costo della non ha più il culto di un tempo. Ai tempi di Felice Grandet il vizio ebbe un momento di sinistro splendore storico. Dominò per buona parte dell’Ottocento. Quindi cominciò a decadere, incalzato o sostituito da vizi e mali nuovi, conformi alla nuova realtà economica del mondo e alle nuove sciagure spirituali e materiali degli uomini. Da personaggi infernali e maledetti che erano, gli avari oggi rischiano di apparire anacronistici e, in qualche caso, semplicemente pittoreschi, come certe vecchine maniache. L’avarizia attribuita a questo e all’altro attore o regista noto oggi è poco più di una battuta di spirito, rare volte un giudizio morale.

  Per rendere attuale il vizio di papà Grandet un programmatore televisivo suggeriva di riversare il vecchio male in qualcuno di quelli che più vivamente e meglio caratterizzano la commedia umana del nostro tempo: di fare del personaggio balzachiano, per esempio. un lussurioso o addirittura un esteta. L’amore dell’oro e delle monete in Felice Grandet ha qualcosa di sensuale. E’ perfino morboso. Potrebbe riempire benissimo un capitolo dell’odierna psicopatologia, essere un caso patologico in piena regola. Oppure si potrebbe sfumare il vizio di papà Grandet sino a farne una sorta di estetismo e di feticismo; fare di lui un voluttuoso dell’oro e quasi un numismatico un po’ maniaco. Si è però osservato che, cercando di aggiornare in questi modi il vizio, papà Grandet perderebbe la terribilità dantesca che ha nel romanzo. Tanto lo sceneggiatore quanto il regista hanno preferito lasciare a papà Grandet la sua natura e il suo male. Ciascuno penserà da sé a ricercare e a ritrovare nei nuovi vizi e mali del mondo i segni dei vecchi, che pur si rinnovano continuamente. Per consentire a papà Grandet di manifestarsi secondo la sua natura, il regista ha voluto ricostruire fedelmente l'ambiente umano e fisico dell’Ottocento. Su Felice Grandet ha concentrato gli elementi del dramma, in un arco narrativo che si conclude con la morte del protagonista. A questo punto si è giovato di qualche libertà, suggeritagli dalla sceneggiatura. Ha inteso dare particolare risalto all’eredità di male e di solitudine che, insieme coll’oro e la ricchezza, papà Grandet lascia alla figlia Eugenia. Morto il padre. Eugenia continua a farsi male da sé, come per prolungare la vita di papà Grandet e tirare fino in fondo le conseguenze di un destino di fallimento spirituale.

  Balzac dice che papà Grandet aveva contratto negli occhi lo stesso colore e sfavillio delle monete d’oro. «Lo sguardo di un uomo abituato a trarre dai propri capitali un interesse enorme, contrae fatalmente, così come quello del lussurioso. del giocatore o del cortigiano, abitudini indefinibili, moti furtivi, avidi, misteriosi, che non sfuggono ai suoi correligionari: questo linguaggio segreto — continua Balzac — costituisce in un certo senso la massoneria delle passioni». Papà Grandet comunica attraverso il segreto linguaggio dei vizi, che consente agli uomini di comprendersi e di far sorte e forza comune più che non il linguaggio aperto delle virtù. Egli si è modellata un’anima a immagine e somiglianza del proprio vizio, come l’uomo mitico che aspirava ad essere tutto d’oro e moneta. Nella sua casa, tempio consacrato al suo idolo, papà Grandet vuole che si accenda la candela più bella ogni volta che vengono messe sul tavolo e contemplate le monete d’oro. Di queste egli alla fine si riveste come di una nuova carne. «Abbi cura di tutto. Me ne renderai conto laggiù», dice alla figlia morendo. Paola Bacci, che nel lavoro televisivo è Eugenia, sembra abbia provato un senso di orrore spaventoso nel sentire le famose ultime parole di papà Grandet E dire che Brissoni, il regista, si è adoperato come meglio ha potuto per mitigare le tinte fosche del grande avaro, nel tentativo di salvare dalla tremenda perversione del vizio, il segno di umanità che papà Grandet pur conserva fino all’ultimo. Un po’ di cuore, papà Grandet l’aveva: un certo affetto per la moglie e soprattutto per la figlia. Aldo Silvani dice di essersi tenuto sbottonato il giubbotto appositamente, per dare anche così l’impressione che uno spiraglio di affetto e di simpatia c’è in papà Grandet. «Secondo me — confida l’attore — papà Grandet non voleva, dopo tutto, finire all’inferno».

 

 

  André Pézard, Comment Dante conquit la France aux beaux jours du Romantisme (1830-1855), in AA.VV., Studi in onore di Carlo Pellegrini … cit., pp. 683-706.

 

 

  Giuditta Podestà, Realismo dialogato, in I Viaggiatori stranieri e l’Italia, Milano, Gastaldi Editore, s. d. [1963], pp. 195-208.

 

  p. 200. Meno controllato, più gioioso e socievole, più latino insomma, il realismo dei francesi. Spregiudicate e vivaci risultano le esperienze da essi vissute in Italia in questo scorcio dell’800 [...].

  A cominciare da Balzac che in età già avanzata si dirige verso la Sardegna, per sfruttarvi un’antica miniera d’argento. Vi si reca coll’animo del cercatore di metallo prezioso, animato da un fantastico sogno di ricchezza. Comincia a trovar sorprese ad Ajaccio, dove la solitudine selvaggia gli fa pensare alla Groenlandia; e osservando il paesaggio costiero scopre che la Corsica possiede una meravigliosa pittoresca bellezza da cui la Francia dovrebbe trar vantaggio. Dal battello in quarantena crede poi di notare in Sardegna degli Etiopi tutti nudi; sbarcato nell’isola italiana, traversa a cavallo un regno deserto dove lo scenario ha dell’omerico, le case mancano di camini, le capre brucano i germogli e gli uomini si cibano di pane di ghiande e d’argilla, infine trova – intento a lavorare la miniera che egli intende sfruttare –, il genovese che gliene ha dato notizia e così rinuncia all’impresa.

  Visita invece la penisola italiana.

 

 

  Giuseppe Rigotti, Balzac a Milano, «Fenarete. Letture d’Italia. Bimestrale di attualità e cultura», Milano, Anno XV, Fascicolo 4, 1963, pp. 47-48.

 

  Dall’epistolario balzacchiano, quercia intricata di frondosi rami quanto la sua opera, si rileva che il maggior romanziere francese vagheggiava l’idea di un viaggio in Italia fin dal 1833. In occasione di un suo viaggio in Isvizzera con la Duchessa di Castries (immortalata poi nella «Duchessa di Langeais», donna di poco cuore) ed i Fitz-James, Balzac fu sul punto di varcare le Alpi, ma un subito capriccio della Duchessa di Castries (altri vuole per penuria di denaro) l’obbligò a far ritorno a Parigi.

  Ma l’idea di visitare l’Italia si era ormai radicata in lui. Cominciò a far dei progetti senza mai poterli realizzare. Finalmente nel 1837 (sic), presentatasi un’occasione impensata, Balzac visitò Torino in compagnia di due donne, la contessa Guidobono-Visconti (sic) e Carolina Marbouty, sua dama di compagnia. Particolare curiosissimo, Carolina Marbouty viaggiava in abiti maschili, sicché giungendo a Torino tutti credettero che fosse Giorgio Sand, che infatti le assomigliava un poco per il modo di pettinarsi a «bandeaux».

  Il conte Guidobono-Visconti, d’origine lombarda (dei Visconti di Tortona), grande lettore e ammiratore di Balzac (lo aveva anche aiutato finanziariamente e salvato dalla prigione per debiti), aveva nel romanziere una grande fiducia e l’aveva scelto come suo rappresentante per sbrigare un’annosa e spinosa causa d’eredità che aveva appunto in Italia. Balzac, che aveva fatto studi giuridici, non mancava di un certo fiuto ... legale come non mancava di eloquenza. E se non fosse diventato un grande romanziere sarebbe certamente diventato un grande avvocato. Per la cronaca dobbiamo dire però che per questa prima volta il viaggio di Balzac in Italia si limitò soltanto a Torino.

  Grazie ai Guidobono-Visconti Balzac soggiornò in un lussuoso appartamento dell’allora Hôtel Genova ed ebbe carrozza e cavalli a sua disposizione. Si presentava come Onorato De Balzac (particella che non gli apparteneva) e si diceva nobile. Fu in questa occasione che, introdotto presso la Marchesa di Barolo, conobbe il Pellico. In complesso il soggiorno torinese fu un soggiorno felice. Il conte Federico Sclopis, per il quale aveva una lettera di presentazione, lo condusse in casa dei maggiori avvocati della città. Così conobbe Luigi Colla, con il quale trattò per la successione imbrogliatissima dei Guidobono-Visconti, per la quale causa però era competente il tribunale di Milano.

  Motivi impellenti richiamarono Balzac a Parigi, difficoltà con i suoi editori soprattutto, però con lo stesso Colla fissò per l’anno successivo il suo viaggio a Milano.

  Stando alla corrispondenza balzacchiana, mantenne la parola data al Colla, e questa volta giunse a Milano in carrozza da posta il 19 febbraio 1838 (sic). Non era solo ma l’accompagnava Teofilo Gauthier (sic) che per l’occasione inalberò dei gilets anche più stravaganti ma tutti sul rosso (rosso scarlatto, rosso porpora). I due amici scesero all’Albergo Venezia (in Piazza San Fedele). Era il Venezia l’albergo storico per eccellenza, chè anche aveva ospitato Lord Byron ed altri illustri personaggi, e che doveva cadere sotto il piccone demolitore nel 1926-1927.

  Balzac rimase a Milano fino alla prima decade di marzo, quindi si recò a Venezia dove stette una quindicina di giorni (o forse meno) perché il 21 marzo era nuovamente a Milano. Da qui puntò su Genova, Livorno e Firenze. Il 24 aprile rientrava però nuovamente a Milano dove trattava la causa Guidobono-Visconti con gli avvocati Mazzoni-Fiesconi e Carlo Marocco (sic), notissimi nomi del foro milanese, ottenendo una transazione in favore del suo mandatario.

  Se a Torino, a Venezia, a Genova, Balzac ebbe festose accoglienze, immaginarsi a Milano, ch’era di diritto considerata la città più colta della penisola! Quanti suoi libri erano stati tradotti e stampati, magari senza la sua autorizzazione, nella capitale lombarda! Introvabili edizioncine uscite dai torchi di tipografi ch’erano dei veri artisti!

  S’indicava a dito il corpulento signore francese con la sua mazza dal pomo dorato, quando passeggiava in Corsìa dei Servi e lo si accoglieva con entusiasmo in casa della contessa Attendolo-Bolognini. Le dame gli domandavano notizie delle eroine dei suoi libri come fossero state delle creature viventi.

  La curiosità di conoscerlo era grandissima. I giornali milanesi parlavano di lui e davano la cronaca circostanziata di come passava la giornata e quali visite faceva. I suoi discorsi, i suoi apprezzamenti, le sue preferenze venivano segnalati dai gazzettieri.

  Una lettera di raccomandazione della contessa Sanseverino, che già aveva conosciuto a Torino in casa della contessa Santommaso, gli aprì il salotto della contessa Maffei, in Via Bigli. Dell’incontro parlarono tutte le gazzette milanesi e non milanesi. L’eco giunse fino a Parigi, tanto che i cronisti mondani parigini diedero al fatto una consistenza che non aveva. Comunque un numero del «Corriere delle Dame» di Milano (1838) dà un’amplissima relazione dell’accoglienza che Balzac ebbe nel famoso salotto.

  Qui conobbe Massimo d’Azeglio, Tommaso Grossi, l’Hayez e lo scultore Puttinati, questi ultimi due artisti allora molto in voga. Conobbe altresì il fior fiore della nobiltà milanese che frequentava Via Bigli. Da una notizia data verbalmente dalla contessa Santommaso, e poi trascritta non si sa bene da chi, pare che Balzac abbia fatto visita anche al Manzoni. Ma resta soltanto una congettura. D’altronde è poco probabile che l’autore de «I promessi sposi» conoscesse i «Contes drôlatiques» del romanziere francese, come Balzac non doveva aver letto «I promessi sposi», che non erano ancora stati tradotti Oltralpe (sic). Alcuni giornalisti pettegoli attribuirono al Balzac di aver dato un giudizio poco benevolo sul Manzoni.

  Il conte Andrea Maffei, gelosissimo della moglie, fece una famosa scenata a costei per il fatto che Balzac l’aveva chiamata pubblicamente «ma petite Claire». I due coniugi si rappacificarono poi, ma il conte Maffei conservò sempre la sua diffidenza nei riguardi di quella specie di uomo-elefante ch’era il francese. Ma Balzac non era un vagheggino da salotto, era un artista ed annotava tutte le sue impressioni. E soprattutto gli importava come reagivano le donne sotto l’influenza dell’amore o magari di un semplice «flirt». Ed il soggiorno milanese doveva offrirgli più d’una esperienza del genere.

  Verso la fine del 1838 Balzac, cui era stata fatta balenare la possibilità d’uno sfruttamento d’ipotetiche miniere d’argento della Sardegna, si recò a Genova e da qui s’imbarcò per Alghero. Ripartì per Parigi, ma pare, piuttosto mogio e senza più la bella «verve» di quando era giunto.

  Comunque fu questo il più lungo e il più felice dei suoi soggiorni milanesi.

  A Milano Balzac aveva pure lavorato. E’ alla contessa Bolognini che dedicherà poi «Une fille d’Ève», certamente rielaborato su note prese durante questo periodo. Nella dedica ricorda le sue conversazioni milanesi con la gentildonna nel piccolo giardino del Viale dei Cappuccini.

  Ora nel 1922 il bibliofilo francese G. E. Lang acquistò all’asta dell’Hôtel Drouot nientemeno che una novella manoscritta di Balzac rilegata in marocchino e con una dedica: «Donato alla signorina Sofia Grèvedon dal suo umilissimo servitore De Balzac». Questa Sofia Grèvedon era la figlia di un pittore che aveva fatto il ritratto dei grandi artisti di teatro e fra i molti quello della Rachel e della Malibran, non è quindi impossibile che Balzac l’abbia personalmente conosciuta e per simpatia le abbia fatto omaggio di un suo manoscritto. Ma la curiosità sta nel fatto che questo manoscritto è una novella di ambiente milanese, intitolata «Les fantaisies de la Gina». E chi poteva essere codesta Gina se non la milanese contessa Bolognini? In occasione del suo soggiorno milanese, e precisamente in data 15 maggio, Balzac fece dono di un esemplare della sua «Physiologie du mariage» alla contessa Eugenia Bolognini-Vimercati, con una lunghissima ed eloquentissima dedica che sarebbe doveroso riportare qui ma che non facciamo per brevità di spazio.

  A rileggere i giornali milanesi del 1837 e del maggio-giugno 1838, e soprattutto la «Gazzetta privilegiata» che faceva l’elogio della sua veste da camera e voleva lanciare una moda alla Balzac, si possono rilevare tutte le polemiche sollevate dal suo modo di comportarsi in società. Un altro ebdomadario milanese, «Fama», gli si dichiarò contro fin dal suo arrivo.

  Ma come si fa a scindere la verità dalla calunnia? Alcuni mettono in dubbio che il principe Alfonso Serafino Porcìa abbia messo a disposizione del romanziere il suo palazzo sul Corso di Porta Orientale, ed altri ancora che Balzac non abbia approfittato dell’offerta.

  Tuttavia Balzac nel dedicare al principe uno dei suoi libri capitali, «Splendeurs et misères des courtisanes», dice: «quest’opera meditata presso di voi, in questi ultimi giorni». Dicendo «voi» Balzac poteva alludere anche semplicemente a Milano.

  Solo che in una lettera datata il 20 maggio 1838, indirizzata a M.me Hanska, Balzac scrive testualmente: «L’albergo essendomi diventato insopportabile, grazie alla generosità del principe Porcìa, mi trovo in una stanzetta del palazzo di Sua Altezza, che guarda sui giardini, e dove io lavoro come a casa mia». (Era la storia di «Une fille d’Ève» che scriveva? Con molta probabilità, sì). Dunque Balzac ha soggiornato al palazzo Porcìa. E soggiunge: «A. S. Principe di Porcìa è un uomo della mia età, innamorato d’una contessa Bolognini, più innamorato quest’anno di quanto non lo fosse l’anno scorso, deciso a non ammogliarsi, se non per sposare la contessa che ha ancora marito, benché da questi separata di corpo e di beni ...».

  In quest’ultimo periodo vi è il nocciolo della succitata novella milanese «Le fantasie della Gina».

  Possiamo quindi dedurre che di tutte le donne che gli gravitarono intorno durante il suo secondo soggiorno milanese, e non sono poche, la Sanseverino, con la quale amava bisticciarsi e che chiamava volentieri Fanny, Chiarina Maffei, la cantante Matilde Juva, la poetessa Giulietta Pezzi, quella che il romanziere prese maggiormente in simpatia doveva essere l’Attendolo-Bolognini-Sforza, nata Vimercati, della migliore e più autentica nobiltà milanese, non solo dedicandole una sua opera ma facendola eroina indiscussa di un suo racconto.

  Molto si scrisse sui due soggiorni milanesi di Balzac e anche si fecero molte ipotesi, ma le ipotesi restano sempre tali.

  E’ certo che Balzac riportò a Parigi una forte e gradita impressione della capitale lombarda, sebbene non giungesse fino a far scolpire sulla sua tomba le famose parole volute da Stendhal «Cittadino milanese», il che sarebbe stato davvero troppo.

 

 

  F. S., Storia dei Boulevards, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XL, N. 7, 10-16 febbraio 1963, pp. 56-57.

 

  Quando i vasti porticati delle Halles parigine stavano per essere demoliti, Balzac se ne lamentò in quel suo modo accorato e furente. Era un uomo sanguigno e impetuoso. «Ormai la vecchia Parigi — scriveva in un articolo — non esisterà che nelle opere di quei romanzieri abbastanza coraggiosi per descrivere fedelmente le ultime vestigia dell’architettura dei nostri padri, poiché queste cose sono tenute in poco conto dai gravi cultori della storia». In quale conto egli avesse i quartieri della vecchia Parigi lo testimonia tutta la sua opera dalla Comédie humaine agli innumerevoli articoli che firmava «B-z-c», «B.», oltre che «H. de Balzac» e una volta perfino «L’autore della fisiologia del matrimonio». Così è soprattutto nelle sue pagine, come nei diari dei suoi contemporanei (da Victor Hugo ai De Goncourt), e nelle rievocazioni dei soupeurs della Restaurazione o negli epistolari di uomini famosi, che si può ricostruire e rintracciare la storia dei boulevards nel periodo che va dalla monarchia di luglio all’avvento del secondo impero. Dopo la parentesi del ‘70, l’esperimento della Comune, il boulevard torna al centro della vita parigina con la terza repubblica, e con il boulevard l’eco di quella vita «strana e feconda, di lucertola e di sole» che Balzac aveva chiamato «il poema di Parigi». Le ultime strofe saranno poi scritte negli anni spensierati della Belle époque, quando anche i chansonniers entrano a far parte della storia del costume, forse senza saperlo, con quei loro refrains arguti e romantici; del resto arguta e romantica è stata, se si vuole, tutta la lunga vicenda del boulevard dagli anni in cui sui marciapiedi del Café de Paris o davanti a Tortoni si potevano incontrare il vecchio Cherubini e il giovane Liszt, Chateaubriand e De Musset, Balzac e Victor Hugo, e tanti altri che allora erano considerati soltanto i giovani artisti della nuova generazione. Ma accanto ai protagonisti, il boulevard aveva quello che Balzac chiamava il «coro greco», la folla anonima, i lions e le lionnes, i provinciali, le «teste coronate» e i ricchi stranieri. Solo un Michelet, forse, avrebbe potuto scrivere la sua storia, che era poi quella di un’epoca e di una civiltà. Di coloro che vissero la vita del boulevard e che per più di un secolo profusero in quella vita sregolatezze, fantasia e gusto estetico, rimangono innumerevoli aneddoti e ritratti esemplari (dal Mimo del Boulevard du Temple allo stesso Hugo, a Rossini o all’autore della Bella Elena), disegnati con la precisione e l’arguzia di un Daumier o di un Gavarni. Per questo, nella prospettiva del tempo, un piccolo teatro del boulevard o la redazione di un giornale satirico — il Charivari o la Silhouette — sembrano a volte più importanti, più in primo piano di molti avvenimenti politici che sconvolsero la Francia.

  La topografia dei boulevards è insomma, in un certo modo, il compendio della storia di Parigi; ma è comunque a quella storia «minore», quotidiana e apparentemente immobile, che si pensa quando si seguono gli itinerari che Balzac ha tracciato nella sua fisiologia della metropoli. Chi percorra il Boulevard du Temple non penserà sicuramente agli intrighi dei ministri di Luigi Filippo, ma piuttosto ai bons mots di Beaumarchais che in quel quartiere si era fatto costruire una dimora «degna di un re», o ricorderà i fasti del «Panorama Dramatique», antenato del Grand Guignol, grazie a cui il Boulevard venne chiamato «Boulevard du Crime»; o forse sosterà allangolo di rue Saint-Claude, dove era la casa di Cagliostro.

  Questa storia minore, dunque, centrata sui boulevards parigini dal 1830 alla prima guerra mondiale, sarà rievocata da Aurora Beniamino in una serie di tre fonomontaggi che il Programma Nazionale mette in onda a partire dal 16 febbraio (ore 22). In essa come su uno specchio discreto e quotidiano si riflettono il costume e lo spirito di un’epoca. Il mondo di oggi, sembra, non ha più posto per il boulevard; forse il «poema» di Balzac è finito con l’ultimo refrain di uno chansonnier.

 

 

  Giuseppe Tabasso, I nuovi romanzi sceneggiato alla TV, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno XL, N. 14, 31 marzo-6 aprile 1963, pp. 12-13.

 

  [...] Papà Grandet, ridotto, anche in due puntate, per il video da Belisario Randone, con Aldo Silvani e Paola Bacci protagonisti. «Nel lavoro – come ha dichiarato il regista Alessandro Brissoni — è stato preso come personaggio centrale Papà Grandet, tralasciandone altri, che pure avevano parti di un certo rilievo nel romanzo di Honoré de Balzac: e, allo scopo di renderla meno disumana e accettabile al pubblico televisivo, abbiamo presentato l’avarizia di Grandet come una debolezza che, come tale, va compresa e compatita».

 

 

  Giulia Veronesi, Rodin riproposto, «Emporium. Rivista mensile d’arte e di cultura», Bergamo, Anno LXIX, N. 5, Maggio 1963, pp. 195-200.

 

  p. 200. La difficoltà della gestazione di questo monumento [Balzac], e le sue cause, sono evidenti: partito dalla figura umana dello scrittore (e dal proprio concetto del monumento «simbolico»), lungamente Rodin insistette nel modellarne il nudo: con risultati negativi nonostante la potenza plastica delle opere, poiché il panciuto Balzac sfuggiva a qualsiasi idealizzazione. Quando, forse, cercando nella biografia un suggerimento, provò a buttargli addosso la lunga vestaglia che Balzac soleva portare lavorando (lavorava di notte), il blocco plastico immediatamente gli si definì: l’uomo, il povero uomo tozzo e malato, dal gran testone, disparve; e l’immagine del poeta sorse, eroica e purificata, al suo posto. L’opera era nata. Non se ne contentò subito, e più volte lo rimodellò sino alla definitiva versione; si può dire che in alcun altro monumento suo l’essenza del personaggio sia fusa così perfettamente e naturalmente con quella dell’artista modellatore.

 

 

  Jean Vidal, Balzac. Documentario. Realizzazione di Jean Vidal, Programma Nazionale, 24 settembre; 24 novembre e 20 dicembre 1963.

 

  Trasmissione televisiva. N. 48, 51

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Onorina. Romanzo di Honoré de Balzac. Adattamento di Nicola Manzari. Compagnia di prosa di Firenze della Radiotelevisione italiana. Regia di Amerigo Gomez, Programma nazionale, 4-7 giugno 1963, quattro puntate.

 

 

  Pelle di zigrino. Adattamento di G. Montesanto e E. Pannunzio. Regia di Amerigo Gomez, Programma nazionale, 1-8 ottobre 1963, cinque puntate.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Papà Grandet. Dal romanzo «Eugenia Grandet» di Honoré de Balzac Elaborazione televisiva in due puntate di Belisario Randone. Personaggi ed interpreti: Felice Grandet: Aldo Silvani Mme Grandet: Tina Lattanzi Eugenia: Grandet Paola Bacci Carlo Grandet: Mario Valdemarin Il notaio Cruchot: Franco Sportelli Mme Des Grassins: Italia Marchesini Adolfo Des Grassins: Paolo Modugno Bonfons: Renzo Palmer Nanon: Giusi Raspani Dandolo Cornoillier: Adolfo Spesca Dottor Bergerin: Alessio Ruggeri Don Casimiro: Gustavo Conforti Un facchino: Armando Michettoni Una contadina: Armida De Pasquali Un mercante: Egidio Ummarino Un contadino: Piero Vivaldi. Musiche originali di Gino Marinuzzi. Scene di Emilio Voglino Costumi di Maurizio Monteverde. Regìa di Alessandro Brissoni, Nazionale, 26 maggio e 16 giugno 1963.



[1] Cfr. Ferguson, La Volonté dans la Comédie Humaine, 1935. [N. d. A.].

[2] Bernard Guyon mi fa l’onore a pagina dieci del suo libro erudito La Pensée politique et sociale de Balzac (Paris, 1947) di contarmi, con Paul Bourget, fra coloro che hanno preso sul serio il pensiero di Balzac, ma in modo troppo sistematico «faute de s’être soumis à la réalité de la vie». Ma nel 1920 non era possibile intraprendere in Germania uno studio biografico di Balzac; e non si aveva accesso all’archivio Balzac della collezione Lovenjoul, a Chantilly. Pure Guyon afferma più avanti (pag. 110, nota 1), del mio libro: « Cet admirable ouvrage est, de très loin, la meilleure de toutes les études d’ensemble sur Balzac».



Marco Stupazzoni

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