domenica 19 luglio 2020



1962


 


 

Traduzioni.

 

 

  Onorato di Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo. Traduzione di L. Tenconi. Illustrazioni di Giuntoli, Milano, Editrice Boschi («Tipografia Milanese»), (luglio) 1962 («Collana “Romanzi celebri”», N. 31), pp. 188, ill.

 

  Traduzione condotta con estrema imperizia, costellata di numerosi tagli e omissioni di intere sequenze testuali.

 

 

  Honoré de Balzac, La pantera, in AA.VV., I prigionieri del Caucaso. Racconti di avventure, a cura di Piero Pieroni e Betty Liberio, illustrazioni di Leo Mattioli, Firenze, Vallecchi Editore, 1962 («I Pinguini», 2), pp. 39-51.

 

 Cfr. 1961.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. A cura di Giorgina Vivanti, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese (già fratelli Pomba Libraj in Principio della Contrada di Pó - 1796), 1962 («Collana di traduzioni. I Grandi Scrittori Stranieri, diretta da Arturo Farinelli dell’Accademia d’Italia», II, 47), pp. 327, 1 tavola.

 

 Cfr. 1934; 1942; 1947; 1956.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Corrado Barberis, Civiltà contadina e sviluppo economico: lettura delle «Scènes» di Balzac (*), «La Previdenza Sociale nell’Agricoltura», Roma, Anno XIII, N. 1-2, Gennaio-Aprile 1962, pp. 3-12.

 

  Balzac: un precursore di Marx o un campione del legittimismo? Un filosofo del materialismo o un fautore del culto cattolico? Tra osservazioni e auspici, tra critica e propaganda così profondo un abisso sembra aprirsi nelle sue pagine da indurre alcuni esegeti o a negargli valore di pensatore politico o a supporlo padre del realismo suo malgrado, raro esempio di una probità letteraria che descrive i fatti anche quando contrari al sentimento.

  A questo tema della dissociazione balzacchiana tra sociologia e ideologia non siamo in grado di apportare contributi. Bisognerebbe decidere, oltretutto, in via preliminare, se il vero Marx sia nel determinismo economico — di cui Balzac ebbe indubbia intuizione e se la fede abbia a spartire alcunché con il legittimismo ateo, da Maurras antilettera, che vede nella religione un mero strumento dell’ordine civile.

  Si aggiunga — a parte ogni verifica della fermezza delle sue convinzioni — che la storia ha tenuto in assai scarso conto i manifesti politici di Balzac: non solo per quanto riguarda la salvaguardia dell’istituto monarchico, ma, ad esempio, la propugnata riforma del codice civile napoleonico, verso ripristinate forme di maggiorascato. Riforma che, in campo agricolo, si identifica nella difesa della grande proprietà (confusa talora con la grande azienda): onde alle pagine di Honoré si rifaranno sempre non inutilmente i critici del frazionamento fondiario.

  Così note sono, d’altronde, le perorazioni di Balzac in favore dei forti complessi terrieri che difficilmente si potrebbe, sull’argomento, aggiungere qualcosa di nuovo. Meglio vale dunque lasciare le dispute teoriche sulla proprietà e raccogliere le osservazioni lasciate su un tema — civiltà contadina e sviluppo economico — che, essendosi posto, nelle sue linee generali, solo in anni recenti all'attenzione sociologica, offre qualche speranza di ritrovamenti anche in un campo arato come la Comédie Humaine: dove è inutile ostinarsi a cercare monete, ma se il compito è di raccogliere sassolini, un’occhiata fra i solchi potrà ancora fruttare.

 

  La civiltà contadina.

 

  L’approccio di Balzac al mondo rurale è apparso, talvolta, contraddittorio. Da un lato egli ha infatti così insistito sulla importanza delle caratteristiche locali, dei fiumicelli che dividono popolazioni dai modelli culturali del tutto opposti, da qualificarsi per maestro di sociologia sperimentale o addirittura della scuola che vede nell’ambiente il condizionatore della persona umana. Dall’altro alcuni suoi paragoni — i frequenti richiami al contadino come al selvaggio, al pellerossa europeo — fanno pensare ad un uomo dei campi concepito quale realtà universale, allo stesso modo che universale è la Natura da cui è espresso e in cui vive. In che misura una intuizione a priori — il primitivo — può calarsi in una serie di persone storiche che ripetono dall’ambiente le loro caratteristiche fondamentali? È una contraddizione di tal genere che lo scrupoloso Blanchard crede di dover attribuire a Balzac, quando afferma, non senza humour, essere costui caduto nello «errore enorme di assimilare il coltivatore francese all’indiano ed entrambi, poi, ai contadini ucraini o polacchi. Balzac ha visto il contadino francese attraverso gli occhi di Cooper, intenti ai pellirosse, e della signora Hanska, fissi sui mugichi. Un uomo piumato che esce da un’isba nelle campagne borgognone, ecco il realismo balzacchiano. Vita da nomadi cacciatori, villaggio comunitario di soli agricoli, borgo rurale francese fanno tutt’uno: per colui che passerà forse un giorno quale maestro di Taine, il rimprovero è pesante ... e basta a giudicare il valore di Balzac teorico»[1].

  Lasciamo ai filologi la cura di stabilire se nel 1829, mentre pubblicava Les Chouans, dove così netto è il parallelo tra i contadini bretoni e i Mohicani, l’autore avesse già conoscenza della produzione letteraria di Fenimore Cooper: non v’era certo bisogno del fantasioso statunitense per istituire un paragone che vive già nell’atmosfera di Chateaubriand e, più lontano ancora, di Rousseau. Il problema non è di accertare, dunque, la originalità dell’intuizione di Balzac ma la sua consistenza: se e fino a qual punto credette egli veramente al mondo contadino come ad un mondo della Natura, una realtà a parte, dotata di una propria autonomia culturale e costruita su un essere, il contadino, fondamentalmente dissimile dal cittadino. Non v’ha dubbio. Balzac ha avvertito, come pochi, la frattura culturale tra città e campagna: ma di essa ha dato una spiegazione storica non naturalistica e ontologica. Ora, se è la storia, e non già la terra, a forgiare una società rurale particolaristica, perché escludere che un diverso corso delle cose possa colmare — anziché allargare — il distacco? L’industria e la conseguente urbanizzazione delle campagne: ecco il ponte preconizzato di Balzac, ecco il minimo comune denominatore della civiltà nuova.

  Si spiega in tal modo perché le Scènes ospitino situazioni e immagini che prefigurano i temi più popolari di Carlo Levi, o dei suoi tardi epigoni della «civiltà contadina», ma che nel contempo vivono di luce non mitica. Sul piedistallo delle sue statue contadine, Balzac ha sempre cura di mettere la data di incisione; i volti hanno il marchio della sofferenza che li separa dal civile consorzio, non l’aureola che astrae le icone dal tempo: quasi che l’eterno sia, per lui, ciò che riuscì ad essere fissato, una volta per tutte, nella memoria della storia, non ciò che si protrae immutato nei secoli.

  Se così è, «l’uomo piumato che esce da un’isba nelle campagne borgognone» non è una contraddizione. È la giustapposizione di tre momenti storici del processo di sviluppo industriale. Infatti, ove alla dicotomia di Toennies fra città e campagna, sostituiamo il moderno concetto di continuum urbano-rurale, per cui ogni società è supposta contenere, in dosi anche piccolissime, l’uno e l’altro elemento, ci accorgiamo che il mohicano, il mugico o il borgognone occupano punti sempre più avanzati lungo l’arco che dall’estremo rurale porta all’estremo urbano. Che poi Balzac collocasse non solo i bretoni ma anche i borgognoni nella metà rurale dell’arco, verso l’estremo primitivo, questo è un altro affare: il problema resta di quantità, non di qualità. [...].

  Per il Balzac di Les Chouans, non meno che per il nostro Levi e, prima ancora, per Nitti, il brigante, l’oppositore in armi della rivoluzione nazionale, è il contadino, tout-court: tanto è vero che il governo repubblicano recluta, nelle città, corpi franchi di bretoni da contrapporre ai rurali (Ch.[ouans] 336). In entrambi i casi la lotta viene presentata come lotta della comunità naturale, la Società, contro lo Stato.

  I soldati armoricani, poi, che, coinvolti nelle lotte della monarchia iberica, attraversano Francia e Spagna, tornando nella piccola patria di lingua gaelica senza avere imparato una sola parola di francese o di castigliano (Ch. 432), sono veramente, per impermeabilità culturale, i fratelli sociologici di quegli «ex-americani» rientrati al paese, di cui ci è stata lasciata una icastica raffigurazione. «In tre mesi le poche parole di inglese sono dimenticate, le poche superficiali abitudini abbandonate, il contadino è quello di prima, come una pietra su cui sia passata per molto tempo l’acqua di un fiume in piena, e che al primo sole in pochi minuti riasciuga»[2].

  Sono parallele che possono curiosamente protrarsi. Per il nostro contemporaneo, Cristo si è fermato ad Eboli. Balzac, oltre un secolo prima, lo aveva visto fermo a Fougères, alle soglie di quella Bretagna che costituisce ancor oggi, per la Francia, come il Mezzogiorno per noi, un’area di sottosviluppo e di particolarismo culturale. «La miseria delle campagne è degna dei tempi feudali e la superstizione vi sostituisce la morale di Cristo» (Ch. 430).

  La superstizione, il rito pagano. Passando dalla Bretagna al Delfinato, come non ricordare, nella lunga scena del mortorio (M. 76-85), la descrizione dell’analogo rito lucano colto di scorcio da Levi e addirittura eretto in dignità di autonomo saggio da Ernesto de Martino? [cfr. Morte e pianto rituale nel mondo antico, Einaudi, 1958]. [...].

  Perché Balzac — il cui cristianesimo politico meriterebbe un saggio a parte — sente, non diversamente da Levi, il Cristo come simbolo della cultura moderna, del tempo in movimento. Per lui, nella regione chouanne, vivono popolazioni autoctone non contaminate dalla latinità, allo stesso modo che per il saggista italiano, nei pagi dell’Italia meridionale, vivono i discendenti non dei romani, ma degli italici. «La Bretagna è, di tutta la Francia, il paese dove i costumi gallici hanno lasciato la più forte impronta ... Là, gli archeologi ritrovano in piedi, i monumenti dei Druidi. Dà il genio della civiltà moderna si sgomenta, nel penetrare attraverso immense foreste primordiali. Una incredibile ferocia, una cocciutaggine brutale, ma anche la fede nel giuramento, l’assenza completa delle nostre leggi, dei nostri usi, della nostra moda, della nostra moneta e della lingua — unitamente a semplicità patriarcale e ad eroiche virtù — contribuiscono a rendere quegli abitanti più poveri dei Mohicani quanto a tecniche intellettuali, ma altrettanto grandi, altrettanto duri, altrettanto astuti» (Ch. 23-24).

  Abbiamo alquanto indugiato in questa parallela descrizione di aree arretrate per meglio sottolineare la diversità delle soluzioni proposte. È nota quella di Levi: una rivoluzione contadina che, pur senza disdegnare l’apporto di altre forze sociali, indispensabili ad evitarle degenerazioni anarcoidi, esprima in istituti autonomi (comuni rurali) il proprio particolarismo culturale in modo da rendere possibile la coesistenza delle due diverse civiltà, la contadina e l’urbana. In Balzac questa consacrazione del dualismo culturale, da proiettarsi nel futuro, manca. L’oggi non fa premio sul domani.

  Si prenda il caso della penisola armoricana. «Il posto occupato dalla Bretagna in piena Europa — nota il romanziere, con acuta anticipazione degli odierni distinguo tra paesi sottosviluppati ed aree arretrate di paesi che non lo sono — la rende molto più curiosa, a chi osservi, che non il Canada. Circondata di luci, il cui benefico calore non la raggiunge, quella regione assomiglia a un carbone ghiacciato rimasto oscuro e nero in seno ad un brillante focolare» (Ch. 24).

  L’accensione del carbone ghiacciato appare, peraltro, mera questione di tempo. «Nobile e sublime Bretagna, che paese di fede e di religione. Ma il progresso la guata. Vi si fanno dei ponti, delle strade, le idee verranno, e addio sublime!» [cfr. Béatrix].

  Decollo affidato alle infrastrutture? Anche, ma come risultato della genuina rivoluzione: l’industria. [...].

  Sarebbe interessante accertare quanto l’osservazione del folclore abbia consentito a Balzac di non interpretare la frattura tra mondo urbano e rurale come indice di una diversa natura. Nel suo romanzo bretone egli ha infatti cura di notare che i contadini portano, per giubba, il sarrau, in cui sarebbe riconoscibile la saye (saga) ovvero sayon degli antichi Celti (Ch. 18); mentre i cappelli sono quelli, a larga tesa, che essi «si tramandano come una reliquia, orgogliosi di avere conquistato, attraverso la servitù, l’antico ornamento delle teste signorili» (Ch. 281).

  Siamo qui, probabilmente, ad una scoperta antilettera: i costumi regionali, che tanto colpiscono la fantasia del viaggiatore in superstiti aree rurali, sono in realtà non foggie autoctone ma desuete mode cittadine di secoli prima. Forse, dobbiamo ad un cappello a tesa larga, se Balzac ha visto, nella cultura contadina, un ritardo, non una negazione, della Storia.

 

  Città e campagna.

 

  Si è visto entro quali limiti venga, accettata, da Balzac, l’intuizione rousseauviana dell’uomo dei campi come «selvaggio»; in ogni caso, però, questo stato naturale non si identifica con la «bontà».

  Del tutto fedele a Rousseau sembra, invero, il Dr. Benassis, protagonista dello sviluppo economico della comunità delfinate identificata, dai critici, con Voreppe. «I costumi semplici — afferma il medico di campagna — debbono essere press’a poco simili ovunque. Il vero non ha che una forma: la vita dei campi uccide molte idee ma indebolisce i vizi e promuove le virtù. In effetti, meno uomini si agglomerano su un punto, meno crimini, meno delitti, meno cattivi impulsi si trovano. La purezza dell’aria ha una grande parte nell’innocenza dei costumi» (M. 79).

  Assiomi che le altre Scènes de la vie de campagne si guardano dal confermare. Già Les Chouans preannunciano, nella ferocia dei contadini-briganti, le cupe rappresentazioni di Maupassant e Zola. Les Paysans sviluppano poi una teoria che è affatto opposta a quella del Dr. Benassis. «È necessario spiegare, una volta per tutte, alle persone abituate alla moralità delle, famiglie borghesi, che i contadini non hanno, in fatto di costumi domestici, alcuna delicatezza. A proposito di una figlia sedotta, invocano la morale solo se il seduttore è ricco. ... La delicatezza fiorisce nell’anima solo quando la fortuna ha dorato il blasone. L’uomo assolutamente probo e morale è, fra i contadini, una eccezione. I curiosi domanderanno perché ...: per esigenze professionali, i contadini vivono una vita esclusivamente materiale che si avvicina allo stato selvaggio, cui sono spinti dall’unione costante con la Natura. Il lavoro, quando spezza il corpo, toglie al pensiero la sua azione purificatrice, specialmente presso gli ignoranti» (P. [Les Paysans] 60-61).

  Virtuosi o corrotti, per definizione, gli abitanti delle campagne? Incerto quanto alla influenza della opacità intellettuale sulla vita morale, a seconda che faccia parlare Benassis o che introduca sue convinzioni, Balzac non ha dubbi su quella opacità e sulla sua origine: il lavoro fisico. È significativo, del resto, come anche nell’atmosfera ottimistica che avvolge Le Médecin de campagne, il responsabile della cura d’anime, il parroco Janvier, sia alquanto più cauto dell’illuminato (e illuministico) filantropo, dr. Benassis. A chi, dopo avere decantato il contegno particolarmente lodevole degli abitanti, rispetto a quelli dei cantoni circonvicini, esprime compiacimento per la religiosità dei valligiani: «Oh, religiosi — risponde sorridendo il curé — il fanatismo non è certo da temere ...» (M. 147). Traspare anche, dal testo, una incipiente difficoltà del clero rurale nei confronti dell’arte tersicorea. Alla domanda «perché impedite alla povera gente di divertirsi ballando, la domenica?» il curé precisa di non odiare la danza in se stessa, ma di proscriverla «come causa dell’immoralità che tenta la pace e corrompe i costumi della campagna».

  Spietati verso i loro vecchi e sanguinari verso i forestieri, prosseneti e incestuosi, i contadini recano sul volto, come il celebre Homme à la houe di Millet, i segni di una degenerazione che è morale perché fisica. La moglie di Galope-Chopine, lo sfortunato chouan decapitato dai suoi stessi compagni di lotta, ha appena trenta anni, ma è così vecchia e rugosa che — se non fosse per la sottana — il sesso potrebbe esserne dubbio (Ch. 343). Altrettanto dicasi per la vedova che, nel Médecin de campagne, indica a Genestas il cammino per raggiungere Benassis (M. 9). Questa precoce vecchiaia ha un nome: superlavoro; allo stesso modo che le malattie dei rurali ne hanno un altro: sottonutrizione. Contemporaneo di Feuerbach, Balzac proclama, attraverso Benassis, che i progressi intellettuali sono già compresi nei progressi sanitari: «Un macellaio annuncia, in un paese, tanta intelligenza quanta ricchezza. Chi lavora mangia e chi mangia pensa» (M. 42-43).

  Si osservi che è il regime di alimentazione urbano, carneo, ad essere proposto come modello nell’incontro tra il parigino e l’operaio agricolo del Berry, descritto ne La Rabouilleuse. L’uomo della capitale vanterà però invano i pregi della carne al rurale intento a consumare una enorme quantità di pane, con formaggio e legumi: questi è troppo timoroso di apparire, accettando la nuova dieta., o troppo ricco o troppo debole (solo i inalati si por mettono certi lussi) agli occhi dei suoi vicini. Detto en passant, Balzac sembra anche ironizzare, in questo quadretto, gli sforzi dei predicatori che sperano di cambiare il mondo attraverso una serie di approcci individuali, avulsi da una ricognizione del contesto sociale.

  Improntato, talora, ad ingenuo ottimismo, dalla città viene comunque un messaggio di speranza. Allorché, in uno dei due romanzi che si sogliono definire utopistici, Le curé de village, Balzac vorrà mostrarci la rigenerazione morale di un ex-bandito, tra le conseguenti fortune di costui non dubiterà di includere il ricongiungimento alla donna amata tanti anni prima.

  Vale la pena di seguire le fasi del ritrovamento. All’inizio delle ricerche, volute dalla ostinazione della benefica castellana, le prospettive intraviste dagli informatori sono di colore fosco: «Nessuno sa che ne è capitato ... la ragazza si è creduta perduta e non ha voluto restare in paese. È andata a Parigi, che cosa vi farà mai? Ecco il punto ...» (C. 205). A dispetto di tali sussurri, gonfi di prevenzioni anticittadine, ecco invece il glorioso incontro: dopo anni di lontananza dal villaggio, Caterina conserva quel fiore della prima giovinezza che, alle ragazze rurali, «i lavori dei campi, le preoccupazioni domestiche, l’affanno e la mancanza di cure tolgono con spaventosa rapidità ... Rimasta nella Corrèze, Caterina sarebbe stata certamente già grinzosa, appassita, i suoi vivi colori si sarebbero inaspriti: ma Parigi, rendendola più pallida, le aveva conservato la bellezza» (C. 276). Ancora una volta sovviene il ricordo di Levi, la concezione della bellezza come grassezza e attributo urbano.

  È probabile che le maggiori comodità parigine siano, anzitutto, per il Balzac del Curé de village, un comodo deus ex machina per giustificare la felicità di una riunione. Fatto si è che Parigi, se ha conservato il fisico della donna, non ne ha guastato i costumi. Essa non si è perduta: ha lavorato come domestica, onestamente.

  Meno fortunato, nello stesso romanzo, è il giovane Tascheron che, partito da Montégnac, il borgo montano ove si svolge l’azione, per lavorare nell’industria a Limoges, viene spinto al delitto dall’amore. Balzac sottolinea comunque che di smarrimento si tratta, non di depravazione: fu altezza di sentimenti ad armare la mano (C. 326).

  Una domestica, un operaio. Il Blanchard calcola che gli agricoltori, o gli ex-agricoltori rappresentati nella Comédie Humaine siano circa 150, ossia l’8% dei suoi personaggi. Siccome i romanzi di soggetto contadino sono ben lungi dal raggiungere, soli, quella percentuale, ne consegue che «Balzac ha assai ben avvertito il movimento migratorio dalla campagna alla città». In maggioranza, avverte Blanchard, gli ex-rurali sono domestici o piccoli commercianti: attivi, diremo noi, nel settore terziario.

  Nei confronti dell’esodo, visto in funzione di concrete occasioni di lavoro, la posizione di Balzac è realista. Non mancano, nelle Scènes, gli operai immigrati: Tascheron, ad esempio. Dati i tempi, però — le industrie sono ben lungi dall’aver garantito il pieno impiego in città — la prima e forse unica strada aperta a chi vuole abbandonare la gleba si chiama: livrea. (Quasi sempre servizio domestico, anche nella casa di città, presso il proprietario fondiario). È un primo passo di tal genere che il père Fourchon dei Paysans sogna, sfaccendato Mentore, per il nipotino Mouche.

  A questa coscienza critica della classe contadina, a questo Sancio Pancia consegnatole da. Balzac tanti anni prima che Zola la dotasse di un Don Chisciotte, col père Fouan de La Terre, poco interessa, per il nipote, il latifondo delle Aigues. Interessa il castello, o meglio i castellani, per le possibilità di evasione che offrono. Non sarà il père Fourchon, dunque, a considerare la terra come bene supremo, da conquistare ad ogni costo: terra è fatica, abbrutimento.

  Essere ingaggiati come domestici significa conquistare una libertà di circolazione non ancora raggiunta dai rurali. «Mi parlate di cercare fortuna, ma dove? Per lasciare il mio dipartimento ho bisogno di un passaporto che costa quaranta soldi; sono quarant’anni che non sento nelle mie tasche suonare una moneta di quel valore in compagnia di un’altra ... Solo la coscrizione ci tira fuori dai nostri comuni ... Il meglio è dunque di restarci, serrati dalla forza delle cose quali montoni allo stazzo, come un tempo dai vecchi signori ...» (P. 103).

  L’unica alternativa all’esodo rurale (ma non però a quello agricolo: sarebbe davvero eccessivo ricercare queste distinzioni in Balzac) è lo sviluppo delle comunità locali, sviluppo che — vedremo — dovrà essere industriale. «Prima del mio arrivo – si vanta il dr. Benassis, guida del comune industrializzato — i giovani coscritti restavano tutti nell’esercito». (M. 37). Dopo lo sviluppo, evidentemente, non più.

  Potremo, sulla scorta di questi frammenti, asserire che Balzac ha avvertito i rapporti tra città e campagna come di integrazione assai più che di opposizione? Il centralismo parigino viene, sì, deprecato ma la città è in più punti additata come condizionatrice dello sviluppo rurale. Tutto l’esperimento del Médecin de campagne vive in funzione della vicina Grenoble. (M. 36sg.). Fattore limitante di quello del curé de village viene invece indicata la mancata prossimità di una capitale: questa sola potrebbe, nell’altopiano grigio e ingrato di Montégnac, «rinnovare il miracolo che si è operato nella Brie durante gli ultimi due secoli» (C. 122). Non c’è progresso agricolo, senza centri di consumo. Promotrice dello sviluppo nelle campagne, la città assolve brillantemente ai suoi compiti anche nel delicato settore della commercializzazione dei prodotti agricoli. I gourmets parigini, abituati a consumare verdure che hanno compiuto in negozio una sorte di seconda vegetazione, ignorano, sì, i sapori squisiti di prodotti le cui virtù fuggitive esigono di essere consumate vive (P. 790) ma, in compenso, pagano questi prodotti meno che gli stessi abitatori delle campagne, quando non serviti dall’autoconsumo: «La carne è meno cara a Parigi che a Sèvres, se si tien conto della qualità ... Una bella pera costa più in campagna che in una serra anidra». Si tratta di un paradosso economico di cui la società contemporanea presenta, di tanto in tanto, conferma.

 

  Lo sviluppo rurale.

 

  Allo sviluppo rurale le città contribuiscono non solo come immissarie di prodotti ma come emissarie di intelligenze suscitatrici. Il curé de village, Blondet, viene da Parigi e il suo «braccio economico», Madame Graslin, da Limoges; il médecin de campagne, dr. Benassis, è nato in una cittadina della Linguadoca, ma è parigino di formazione. In entrambi i casi di sviluppo comunitario progettati da Balzac i pianificatori sono esterni all’ambiente: la loro capacità personale rappresenta un capitale umano[3] la cui addizione all’area sottosviluppata va considerata alla stregua di una accumulazione primitiva di risparmio.

  Poco importa sofisticare sul fatto che questa addizione di estranei lusingava il non segreto paternalismo di Balzac, pronto a far proclamare al dr. Benassis che i pianificatori debbono «allevare il paese come i precettori un ragazzo» (M. 37), o che «i proletari sono i minorenni di una nazione, da tenere sotto tutela» (M. 154). Siamo semmai di fronte ad una riprova della necessità di sceverare gli elementi più attinenti all’ideologia, da quelli più pertinenti alla sociologia.

  Ora, è sul piano sociologico che i due citati romanzi consentono di enucleare una teoria dello sviluppo comunitario: benché non sempre esposta ex-professo con la sistematicità cui cercheremo di ridurla. Essa si raccoglie attorno a queste considerazioni fondamentali:

  a) lo sviluppo di un territorio non può essere progettato in contrasto col potere politico;

  b) esiste uno sviluppo «sociale» distinto dallo «economico»;

  c) lo sviluppo economico può non partire dall’agricoltura;

  d) il fattore umano — e non quello naturale — è il vero condizionatore dello sviluppo;

  e) il processo di sviluppo non può essere del tutto autopropulsivo;

  f) una indagine sociologica deve essere premessa ad ogni piano;

  g) valori cristiani dello sviluppo.

  Esaminiamo le voci.

  A) Sviluppo territoriale e potere politico. Il medico di campagna, dr. Benassis, una volta deciso di prendere il comune sotto tutela, si fa nominare sindaco. Ciò nonostante si sforza di neutralizzare, alleandoselo, il suo predecessore (M. 39). Nella vicenda che ha per protagonista il curato del villaggio, Don Blondet, il sindaco è, già in partenza, perfettamente allineato. Ad ogni buon conto, l’intendente della castellana, Gérard, coglierà la prima occasione per mettere le mani sul municipio (C. 284). Da notare che anche lo sfortunato latifondista di Les Paysans briga per la nomina a sindaco, e ci riesce: ma con l’unico risultato di allargare il fronte dei suoi nemici, ostili ad un progetto di sfruttamento improntato a mero tornaconto individuale.

  B) Sviluppo sociale e sviluppo economico. La prima operazione compiuta da Benassis non ha carattere economico ma, come oggi si dice, sociale: il risanamento igienico di una plaga, popolata da autentici cretini, ebeti e gozzuti. La liquidazione del triste agglomerato, dopo dure lotte iniziali dovute alla incomprensione dei vicini, insorti a difendere il diritto dei cretini a perpetuare il loro malsano insediamento, serve al medico non solo per assumere la leadership comunale, ma per apprendere ai nativi che si può «Cambiare».

  Analogamente, la bonifica territoriale di Montégnac è preceduta dal successo dell’intenso apostolato di Don Blondet, che ha ammansito i feroci costumi dei nativi. (Va però sottolineato che, quando la castellana Graslin darà inizio alle grandi opere irrigue, il paese avrà già ricevuto un primo stimolo, anche economico, a seguito di prodigalità compiute dal marito di costei, per opere ostentatorie e infrastrutturali).

  C) Settori produttivi e sviluppo economico. La fondamentale differenza tra Le médecin de campagne e Le curé de village consisteva, secondo Balzac, nell’ispirazione: filantropica del primo e religiosa del secondo, cui di conseguenza riverberava una maggiore grandezza. A bene considerare i due esperimenti sotto un profilo obiettivo è dato individuare, però, una diversità d’altra natura: il modello di sviluppo del Curé è essenzialmente agricolo, quello del Médecin appare bilanciato, anzi con deciso orientamento verso i settori secondario e terziario.

  L’esperimento di Montégnac è imperniato sulla bonifica idraulica: opera di una castellana che. pur perseguendo il nobile scopo di dare lavoro e pur creando una colleganza di interessi tra sè e il villaggio, finirà anzitutto col valorizzare le proprie terre, alla cui ampia estensione il nuovo sistema irriguo è praticamente circoscritto. Il carattere privatistico della iniziativa condiziona largamente il tipo di sviluppo. Non sorgono industrie, infrastrutture e servizi si espandono a rilento. Domina il tempo lungo, consono all’agricoltura. La castellana dà inizio al progetto attorno al 1830, solo nel 1840 parte per Parigi il primo convoglio di bestiame; bisogna attendere il 1843 perché nel piano di sviluppo si inseriscano iniziative terziarie di estranei al castello: una impresa di trasporti (diligenza giornaliera per Limoges), apertura di un ufficio notarile. Inevitabilmente, a dimostrazione del successo, l’accento ricade, con inconsapevole ironia, sui canoni più elevati che i fittavoli possono, ora, «gioiosamente» pagare (C. 284 sg.).

  Ben più serrato è il ritmo di sviluppo del comune in cui opera il dr. Benassis: «quattro anni erano bastati per cambiare la faccia del borgo» (M. 45). Impossibile non ricollegare questa rapidità alla introduzione del vero motore del progresso: l’industria.

  I lettori del Médecin de campagne sanno che il dr. Benassis ritorna in due distinte occasioni sugli esordi della propria missione sociale. Qualche discordanza nelle versioni non consente di stabilire una esatta cronologia: stando alla prima sembrerebbe che, liquidata con successo la polemica sui cretini e sulle case insalubri, il medico si sia dedicato alla rivendicazione dei beni comunali, nell’interesse dei pascolatori poveri (M. 28). La seconda versione del debutto resta, ad ogni modo, concettualmente, anche se non cronologicamente, significativa: «Ho cominciato la mia opera difficile con una fabbrica di panieri» (M. 38). L’inizio del processo di espansione coincide dunque, nella mente di Benassis, con una attività trasformatrice. E trasformatrice — si osservi — di una produzione, il giunco, non spontaneamente offerta dalla natura, ma appositamente predisposta, da un agricoltore convenzionato, per il piccolo cantiere artigiano fondato dal filantropo al fine di incrementare la confezione di canestri.

  Il primo nucleo di benessere richiama la diffusione di altri mestieri: immigrano muratori, carpentieri, conciatetti, falegnami, chiavari, vetrai, maniscalchi (M. 42). Balzac non anticipa la legge che vede nella riduzione della popolazione attiva in agricoltura una condizione del progresso economico: ma mostra, attraverso l’immigrazione degli extragricoli, che la ricchezza è strettamente legata alla espansione del settore secondario e terziario.

  L’avvenuta diversificazione economica sollecita consumi prima ignoti; gli operai vogliono pane già confezionato: apre bottega un fornaio (M. 42). Col tempo, finisce la panificazione familiare anche tra i contadini (M. 49).

  È solo a questo punto, ad industrie avviate e ad infrastrutture ultimate — la strada per Grenoble — che inizia lo sviluppo agricolo da parte della grande proprietà, cui segue l’impianto di un mulino. Benassis fa inoltre venire un vivaista (M. 44), spinge i piccoli produttori ad organizzare il mercato della bassa corte sulla piazza di Grenoble. Prendono piede l’industria e il commercio del legname. Si incrementano i trasporti, arriva un fabbro con negozio di ferrareccia (M. 45). Siamo al quinto anno di azione, il primo ciclo di sviluppo si chiude.

  Il secondo ciclo è dominato dall’incremento del consumo locale, con apertura di negozi d’ogni genere (M. 46). Le stalle vengono risanate, il bestiame allevato è di razza eletta; le pelli, pregiate, chiamano conciatori. Sorgono esercizi pubblici. La montagna — testimonianza, peraltro, di una fame di terra non placata dallo sviluppo economico — viene messa a coltura dai piccoli proprietari (M. 49). Ci si avvia così alla «terza era, commerciale», come la definisce Benassis (M. 50), caratterizzata dall’impianto di una grande industria di calzature, destinata a mantenere attiva, con la esportazione, la bilancia commerciale del comune. L’esempio è seguito da un cappellaio. Intanto l’analfabetismo è debellato e la ricchezza equamente distribuita (M. 52). Sussiste il pieno impiego.

  D) Natura e uomo nello sviluppo economico. Le industrie sorte ad opera del dr. Benassis sfruttano risorse naturali, ma disposte ad arte. Questo induce a pensare che Balzac individuasse nell’uomo il fattore limitante dello sviluppo. Non per nulla, il cantone di Voreppe viene definito «così ricco per natura ma reso così povero dall’uomo» (M. 37). A Montégnac, con la bonifica idraulica, la natura è addirittura piegata alla nuova volontà dei pianificatori. L’acqua «disgrazia ora, ne diventerà la fortuna» (C. 266). Prodotto dell’ambiente, l’uomo, secondo Honoré? Indubbiamente, ma a patto di riverberare il rapporto fra i due di una luce dialettica: a nulla valgono le risorse senza l’ingegno valorizzatore, mentre l’ingegno finisce sempre per trovare risorse. Non a caso — forse una delle prime volte nella storia della letteratura economica — troviamo in Balzac (C. 123) l’espressione jachères sociales, «maggesi sociali», a designare terre non coltivate per cause non dipendenti dalla natura.

  Vale la pena di aggiungere che, proprio in considerazione di questo fattore umano, e quindi psicologico, Balzac sembra propendere per la teoria che vuole la circolazione del danaro fornite di ricchezza. E vero che questa teoria, accolta nel successivo Curé (C. 266), veniva categoricamente rifiutata nel Médecin (M. 50), ma già in questo precedente romanzo l’autore notava che «la circolazione del danaro, facendo nascere in tutti il desiderio del guadagno, aveva posto fine all’apatia, e il borgo si era risvegliato» (M. 43). Siamo probabilmente di fronte a un riflesso dell’alta concezione filosofica che gli fa esclamare: «i popoli senza bisogni sono poveri» (M. 36).

  E) Il decollo. Indispensabile fattore di accumulazione primitiva è l’arrivo, nell’area sottosviluppata, di intelligenze e volontà. Tale priorità del capitale umano non impedisce però a Balzac di scorgere, anche al netto di siffatta immissione di energie, i limiti economici dell’autopropulsione. La castellana di Montégnac può attingere a risorse proprie e all’amicizia dei banchieri di Limoges: inoltre, i nativi terminano, gratuitamente, la strada. A Voreppe, Benassis avrà facilitato l’inizio da qualche fortunata operazione di finanza locale, dalla valorizzazione dei boschi (M. 27). Anche nel suo caso, comunque, le infrastrutture stradali debbono essere realizzate con il non remunerato concorso della popolazione.

  E poiché qualcuno protesta contro la ripristinata corvée — sembra di leggere uno degli assistenti — viene mandato un attivista a fare il giro delle osterie, per parecchi mesi (M. 40).

  F) L’inchiesta preliminare. I sociologi rurali debbono sincera gratitudine a Balzac. Non solo per la copiosa messe di osservazioni, in parte testé riportate, ma per la indirettamente suggerita valorizzazione della loro competenza professionale. Il che non meraviglia in chi ha attribuito tanta importanza, nello sviluppo economico, al fattore umano.

  «Nessuna scienza è soggetta a varianti più della amministrazione, che ha pochi principi generali. Fa legge è uniforme; i costumi, le terre, le intelligenze non lo sono ... Bisogna consultare lo stato d’animo del paese, la sua situazione, le risorse, il terreno, gli uomini e le cose: per non piantare vigne in Normandia» (M. 59). E ancora: «Esiste, sulla catena montana, una linea naturale a partire dalla quale tutto cambia aspetto: in alto la forza, in basso la destrezza: in alto sentimenti larghi, in basso intese di interessi ... Separate solo da un ruscello, due popolazioni sono dissimili affatto, per statura, portamento, fisionomia, costumi, occupazioni ... Ciò obbligherebbe gli uffici pubblici a grandi studi locali in ordine alla applicazione delle leggi fra le masse» (M. 74).

  Sollecitiamo davvero i testi additando in Balzac un fautore dell’inchieste rurali, un precursore dei servizi di extension? Non ci sembra. Dall’assistenza tecnica egli ha, del resto, intuito una delle maggiori difficoltà: il pregiudizio incrostato. «Fortunatamente, ho incontrato tabula rasa», confessa Benassis (M. 58).

  G) Cristianesimo e sviluppo. I Borboni più lo sviluppo economico: ecco, agli occhi dei posteri, un limite del realismo balzacchiano.

  Non è fra gli scopi di queste pagine verificare natura e consistenza delle correnti che, nel corso dell’Ottocento, cercarono di conciliare autoritarismo politico e progresso economico. Esse non si esimono invece dal rilevare come, alla luce di tale interesse per lo sviluppo, la stessa difesa dei valori religiosi, concepita da Balzac in senso strumentale, ai fini di una politica legittimistica, acquisti una nuova sfumatura: intingendosi — quale che sia la personale posizione dell’autore in quanto figlio della Chiesa — di quel Cattolicesimo che taluni autori definiscono, con brutta tautologia, «sociale».

  Alla vita delle comunità rurali i sacerdoti danno, nelle Scènes, un contributo di primo piano. Essi non sono solo i soldati tra i soldati, le guide politico-magiche additateci dagli Chouans. Sono anche i promotori del benessere, gli autori di un risveglio che è economico perché intellettuale e morale. Il Curé de village vede nel titolo stesso del romanzo, riconosciuta la sua preminente importanza; ma anche la sua controparte laica, il Médecin de campagne, ha un indispensabile secondatore nel parroco Janvier, «vero Fénelon in sedecesimo» (M. 48).

  Più complessa, nei Paysans, la figura dell’abbé Brossette, il quale, giudicando non ricuperabile la parrocchia, traviata dalla Rivoluzione, gravita sul castello. Pessimismo eccessivo? Una punta di accidia, unita al piacere non tanto della buona tavola quanto di una conversazione elevata? Poco importa. Importa che, anche a questo parroco, cui manca, per obiettiva assenza o per incapacità personale, il terreno di una azione sociale, i castellani, chiusi nel loro giro di profitti e piaceri, appaiano come gente finita, che Dio sta per perdere (P. 254).

  Di più: la connessione tra valori cristiani e sviluppo economico sembra diretta e ideologica e non solo affidata, mediatamente, all’opera del clero rurale. Balzac definisce il Médecin come il «Vangelo in azione» e nel Curé — dove pure si accenna esplicitamente, al sorgere di nuove aspirazioni sociali tra il clero, sia pure in funzione legittimistica (C. 80) si afferma, a proposito della bonifica: «Piantare sarebbe evangelizzare» (C. 124). [...].

 

 

  (*) Esula, dagli appunti che seguono, ogni ambizione filologica: appena superficiale è stata la ricerca di testi sulla ideologia e la sociologia balzacchiane, appena iniziata la assimilazione di quello sterminato opus che è la Comédie Humaine, di cui le Scènes propriamente dette (Les Paysans; Le Médecin de campagne; Le Curé de village; Le lys dans la vallée) sono una minima parte. E ciò, mentre solo una tale assimilazione consentirebbe di cogliere, tra discordi opinioni presentate dai testi attorno ad un medesimo argomento, quelle introdotte dall’autore come semplicemente correnti o invece come proprie. Se si indulge ad una provvisoria pubblicazione di questi appunti è unicamente perché il presente sviluppo della società contemporanea apre nuovi problemi, nuove prospettive, di esame delle opere balzacchiane, anche isolate; onde l’oggetto principale della ricerca si sposta, da Balzac, a ciò che già è «nostro» in Balzac.

  Dei romanzi più citati riportiamo tra parentesi, accanto al testo riportato o riassunto, una sigla convenzionale seguita dal numero della pagina. Ci riferiamo:

  a) per Le curé de Village (C): alla ed. Hazan, Paris 1947;

  b) per Les Chouans (Ch): alla ed. Garnier, Paris 1957;

  c) per Le Médecin de campagne (M): alla ed. Garnier, Paris 1956;

  d) per Les Paysans (P): alla ed. Michel, Paris 1950.

 

 

  Corrado Barberis, La fantasia di un romanziere nutrita di scienza economica. La lettura di Balzac è utile ai tecnici del progresso sociale, «Il Messaggero di Roma», Roma, 11 ottobre 1962, p. 3.

 

  Alcuni romanzi del grande narratore, in virtù di certe anticipazioni che contengono, possono essere considerati autentici testi a uso di quanti si occupano d'incrementare lo sviluppo di comunità arretrate.

 

  [...] L’indaffaramento è recentissimo, l’idea è antica. Se la fantascienza tecnica ha anticipato, con Giulio Venie, il sottomarino, una fantasia nutrita di scienza economica, quella di Honoré de Balzac, ha, fin dal 1840, dettato i primi manuali ad uso dei tecnici del progresso sociale, dei cosiddetti «sviluppatori».

  Non si rileggono senza rapimento «Il parroco di villaggio» e «Il medico di campagna», autentiche memorie di ciò che sarebbe accaduto domani. Già i personaggi sono significativi: parroco e medico, autori del risveglio comunitario, non sono del posto. Hanno studiato e vissuto nella grande città. Il loro arrivo nell’area sottosviluppata rappresenta, quindi, una addizione di capitale umano, una accumulazione primitiva, un investimento esterno di intelligenza e di volontà; e anche di danaro, visto che il medico è un signore e ha comunque l’occhio per gli affari, mentre il parroco riesce a farsi alleata una castellana non priva di addentellati bancari. Ciononostante — sembra davvero di leggere qualche corrispondenza dalla Cina o una predica all’India — le opere infrastrutturali, come le strade, debbono essere realizzate attraverso il non remunerato concorso della popolazione. Per ottenere il quale, se al parroco basterà la forza del magistero spirituale, al medico farà d’uopo imporsi con un embrionale apparato di attivisti sul cantiere di lavoro, e soprattutto all’osteria: ciò — si badi — anche dopo aver avuto partita vinta nel risanamento di una plaga insalubre, abitata da infelici (noi diremmo: di una borgata); ossia anche dopo aver sollecitato, con l’esempio, un atteggiamento mentale favorevole a «cambiare».

  Analogie stimolanti: il concetto di «decollo» (il take off degli economisti contemporanei) era dunque già presente in Balzac. Ma ancora più singolare il fatto che quei romanzi-manifesto descrivano puntualmente i due modelli di sviluppo cui può affidarsi una comunità. Modello essenzialmente agricolo, quello del parroco: bilanciato, e anzi con deciso orientamento verso le industrie e il commercio, quello del medico.

  Dobbiamo pensare che Balzac abbia con ciò inteso sottolineare il primato del laico sul sacerdote, la sua maggiore modernità? Non sembra; dal momento che, in una delle Lettres à l’Etrangère, confessa di aver voluto collocare l’ecclesiastico un gradino più in alto, nella misura in cui la religione fa premio sulla filantropia. Pure, prescindendo dall’abito civile o talare dei protagonisti, colpisce la contrapposizione tra i due modelli di sviluppo, agricolo e industriale.

  L’esperimento di Montégnac — la parrocchia limusina di Don Blondet — è imperniato sulla bonifica idraulica: opera di una castellana che, pur perseguendo il nobile scopo di dare lavoro e pur creando una colleganza di interessi tra sé e il villaggio, finirà anzitutto col valorizzare le proprie terre, alla cui ampia estensione il nuovo sistema irriguo è praticamente circoscritto. Il carattere privatistico della iniziativa condiziona largamente il tipo di sviluppo. Non sorgono industrie, infrastrutture e servizi si espandono a rilento. Domina il tempo lungo, consono all’agricoltura. La castellana dà inizio al progetto attorno al 1830, solo nel 1840 parte per Parigi il primo convoglio di bestiame; bisogna attendere il 1843 perché nello sviluppo si inseriscano iniziative terziarie spontanee, di estranei al castello: una impresa di trasporti (diligenza giornaliera per Limoges), apertura di un ufficio notarile. Inevitabilmente, a dimostrazione del successo, l’accento ricade, con inconsapevole ironia, sui canoni più elevati che i fittavoli possono, ora, «gioiosamente» pagare.

  Ben più serrato è il ritmo espansivo del comune delfinate in cui opera il medico Benassis: «quattro anni erano bastati per cambiare la faccia del borgo», sottolineerà ad un certo punto Balzac. Impossibile non ricollegare questa rapidità alla introduzione del vero motore del progresso: l’industria.

  I lettori de «Il medico di campagna» sanno che il dr. Benassis ritorna in due distinte occasioni sugli esordi della propria missione sociale. Qualche discordanza nelle versioni non consente di stabilire una esatta cronologia: stando alla prima sembrerebbe che, liquidata con successo la polemica sulle case insalubri, il medico si sia dedicato alla rivendicazione dei beni comunali, nell’interesse dei pascolatori poveri. La seconda versione del debutto resta, ad ogni modo, concettualmente, anche se non cronologicamente, significativa: «Ho cominciato la mia opera difficile con una fabbrica di panieri». L’inizio del processo di espansione coincide dunque, nella mente del promotore, con una attività trasformatrice. E trasformatrice — si osservi — di una produzione, il giunco, non spontaneamente offerta dalla natura, ma appositamente predisposta, da un agricoltore convenzionato, per il piccolo cantiere artigiano fondato dal filantropo, al fine di incrementare la confezione di canestri.

  Il primo nucleo di benessere richiama la diffusione di altri mestieri: immigranomuratori, carpentieri, conciatati, falegnami, chiavari, vetrai, maniscalchi. Balzac non anticipa forse la legge di Colin Clark, che vede nella riduzione della popolazione attiva in agricoltura una condizione del progresso economico: ma mostra, attraverso l’immigrazione degli extragricoli, che la ricchezza è strettamente legata alla espansione del settore secondario e terziario.

  L’avvenuta diversificazione economica sollecita consumi prima ignoti; gli operai vogliono pane già confezionato; apre bottega un fornaio. Col tempo finisce la panificazione familiare anche tra i contadini.

  E’ solo a questo punto, ad industrie avviate e ad infrastrutture ultimate — la strada per Grenoble — che inizia lo sviluppo agricolo da parte della grande proprietà, cui segue l’impianto di un mulino. Benassis fa inoltre venire un vivaista, spinge i piccoli produttori ad organizzare il mercato della bassa corte sulla piazza di Grenoble. Prendono piede l’industria e il commercio del legname. Si incrementano i trasporti, arriva un fabbro con negozio di ferrareccia. Siamo al quinto anno di azione, il primo ciclo di sviluppo si chiude.

  Il secondo ciclo è dominato dall’incremento del consumo locale, con apertura di negozi di ogni genere. Le stalle vengono risanate, il bestiame allevato è di razza eletta; le pelli, pregiate, chiamano conciatori. Sorgono esercizi pubblici. La montagna — testimonianza, peraltro, di una fame di terra non placata dallo sviluppo economico — viene messa a coltura dai piccoli proprietari. Ci si avvia così alla «terza era, commerciale», come la definisce Benassis, caratterizzata dall’impianto di una grande industria di calzature, destinata a mantenere attiva, con la esportazione, la bilancia commerciale del comune. L’esempio è seguito da un cappellaio. Intanto l’analfabetismo è debellato e la ricchezza equamente distribuita. Sussiste il pieno impiego.

  Non si poteva davvero, nel 1840, delineare più a fondo le conseguenze implicite nel modello di sviluppo prescelto: agricoltura, tempo lungo; industria, tempo breve. Eppure. non si comprenderebbe la lezione balzacchiana, dimenticando che, in entrambi i casi, le risorse naturali giocano un ruolo secondario: il vero fattore limitante è l’uomo. E’ da questa coscienza che si libera la alta concezione filosofica espressa nella massima: «I popoli senza bisogni sono poveri».

  Non so se gli «sviluppatori» in partenza per le Ande, per il Gange o per l’oltre Eboli portino Balzac nello zaino. In caso negativo, non cascherà il mondo. Ma sarebbe un peccato che non lo portassero solo perché si tratta di carta vecchia: dopotutto, sono loro a far diventare nuovissime quelle pagine con il proprio lavoro, sono loro a far diventare profezia una narrazione.



  Giorgio Batini, L’antiquario, Firenze, Vallecchi Editore, 1962 («Il Bersaglio. Saggi e inchieste sulle professioni dirette da Giovanni Grazzini», 12).

 

  pp. 34-38. I letterati in genere, non hanno mai dipinto bene la figura dell’antiquario, e possiamo ricordare una interessante pagina di Balzac nei Parenti poveri quando parla di «Remonencq, ferravecchio, compra oggetti d’occasione» che poi diventa un grosso mercante d’arte. Balzac dice che cominciò col mettere in mostra campanelli rotti, piatti incrinati, ferri arrugginiti, vecchie bilance, cornici spezzate. Poi il genere della merce migliorò: invece dei cocci si videro le porcellane. Presto la bottega passò al grado di museo, e il proprietario lasciò la giacca di fustagno per indossare la redingote: «... Adesso sembra un drago a guardia del tesoro; egli è contorniato da capolavori, è diventato un abile intenditore, ha decuplicato i suoi capitali e non si lascia più ingannare da nessuna malizia: conosce le astuzie del mestiere. Il mostro è là come una vecchia tra venti ragazze che essa offre al pubblico. Le bellezze, i miracoli dell’arte, lasciano indifferente questo uomo scaltro e al tempo stesso grossolano che calcola i guadagni e tratta male gli ignoranti. Divenuto un commerciante, finge di essere affezionato alle sue tele, ai suoi intarsi, o di ritrovarsi in ristrettezze, o attribuisce agli oggetti importanti prezzi di acquisto, dicendosi pronto a mostrar le fatture. È un Proteo, è insieme Jocrisse, Janot, Codarossa, Mondar, Arpagone e Nicodemo ...». E secondo Balzac il modo d’iniziare questo commercio da parte di Remonencq (che andava in giro come robivecchi e poi rivendeva le cose migliori agli antiquari) è una storia comune a molti negozianti di curiosità ormai accreditati.

  Lo stesso scrittore, però, descriveva un altro tipo di antiquario, quel Elia Magus «che indovinava un capolavoro sotto una crosta centenaria e conosceva tutte le scuole e le firme di tutti i pittori». Così Balzac parla di questo personaggio: «Si lasciò conquistare dall’ammirazione dei capolavori che commerciava; e il suo gusto, sempre più raffinato, sempre più difficile, era divenuto una di quelle passioni che si possono permettere soltanto i re, quando sono ricchi e amano le arti ...». Era, sì, un commerciante, ma amava gli oggetti d’arte. «Quest’anima, che aveva la vocazione del lucro, fredda come il ghiaccio, si riscaldava alla vista di un capolavoro, proprio come un libertino, sazio di donne, si commuove dinnanzi a una fanciulla perfetta, e si dedica alla ricerca della beltà senza difetto ...».

 

Il pericolo d’essere sinceri.

 

  Del resto questi mercanti hanno spesso a che fare con clienti abili. Gli antiquari di Balzac avevano a che fare con il cugino Pons, un maestro di bric-à-brac, un cliente temibile che impiegava astuzia contro astuzia pur di strappare i capolavori dalle mani degli antiquari, le principesse prigioniere degli stregoni. «Il vecchio musicista metteva in pratica l’assioma di Chenavard, l’esperto collezionista di stampe rare, il quale sostiene non potervi essere piacere a contemplare un Ruisdael, un Hobbéma, un Holbein, un Raffaello, un Murillo, un Greuze, un Sebastiano del Piombo, un Giorgione, un Albrecht Dürer, che quando il quadro non sia costato più di cinquanta franchi. Pons non ammetteva acquisti al di sopra dei cento franchi; e per pagare un oggetto cinquanta franchi, esso doveva valerne tremila. La più bella cosa del mondo, se costava trecento franchi, per lui era come se non esistesse. Le occasioni erano state rare, ma possedeva i tre elementi del successo: le gambe del cervo, il tempo dei perdigiorno e la pazienza dell’israelita ...».

  Il principe del bric-à-brac si compiaceva degli affari combinati a danno degli antiquari, dopo veri e propri duelli. Conosciamo il resoconto di una di queste contrattazioni grazie alla visita che Pons fa alla presidentessa De Marville per regalarle un ventaglio dipinto da Watteau e trovato dentro un mobile intarsiato da Riesener nel castello d’Aulnay abitato dalla Pompadour prima che fosse costruito Ménars.

  A parte l’errore commesso da Balzac (Watteau non poteva aver dipinto un ventaglio per madame Pompadour perché la favorita venne al mondo il 29 dicembre 1721, esattamente cinque mesi dopo la morte di Watteau) vediamo come Pons riesce ad avere il prezioso oggetto: «“Li conosco tutti quegli avvoltoi!”. “Che avete di nuovo papà Monistrol? Non avreste mica delle lunette?” ho chiesto al negoziante che mi permette sempre di dare un’occhiata ai suoi acquisti, prima di farli vedere ai grandi antiquari. A tal domanda, Monistrol mi racconta come lo scultore Lienard che lavorava nella cappella di Dreux delle cose assai belle per la casa reale, fosse riuscito a salvare alla vendita d’Aulnay, dagli artigli dei rigattieri di Parigi, che badavan solo alle porcellane e ai mobili intarsiati, le boiseries intagliate. “Non ho potuto ottenere gran che — mi dice — ma mi rifarò del viaggio con questa!”. E mi mostra la scrivania: una meraviglia! Vi sono disegni di Boucher eseguiti ad intarsio con un’arte! ... Da inginocchiarsi davanti! “Toh, signor Pons, – mi dice – ho trovato poco fa in un cassettino chiuso, mancante di chiave, e che ho dovuto forzare, questo ventaglio! A chi potrei venderlo?”. E mi presenta l’astuccio in legno di Santa Lucia, intagliato. “Guardate! È quel Pompadour che sembra gotico ornato”. “Oh – gli ho risposto – l’astuccio è grazioso e potrebbe interessarmi, ma il solo astuccio! Giacché, quanto al ventaglio, mio caro Monistrol, non ho una signora Pons, cui regalare questo autentico gioiello; del resto, si fanno adesso dei ventagli molto graziosi. Oggi si dipingono le pergamene in modo miracoloso, e alquanto a buon mercato. E voi sapete che a Parigi vi sono ben duemila pittori!”. E intanto spiegavo con simulata indifferenza il ventaglio, rattendendo la mia ammirazione, osservando, senza far vedere alcun entusiasmo, le due pagine così dipinte alla brava e con una tecnica da sbalordire. Avevo il ventaglio della Pompadour! Watteau ha dato tutto il meglio di sé nell’eseguire un simile lavoro? “Quanto ne volete del mobile?”. “Oh! Per mille franchi ho già un acquirente”. Gli offro una cifra, per il ventaglio, che corrispondeva alle presunte spese del viaggio. Ci guardiamo allora nel bianco degli occhi, e vedo che è affare fatto. Ripongo subito il ventaglio nell’astuccio, a evitare che l’Alverniate si metta a esaminarlo attentamente, e mi estasio davanti al lavoro di intaglio dell’astuccio, che è davvero un gioiello. “Se lo prendo — dico a Monistrol — è per questo, vedete, è solo l’astuccio che mi tenta ...”. “In quanto alia scrivania — dico ancora a Monistrol — ci farete ben più di mille franchi: come sono cesellati questi ottoni! Sono dei veri modelli! Bisognerebbe sfruttare questo genere di decorazione ... esso non è mai stato riprodotto: per la Pompadour si faceva tutto in esemplare unico ...”. E il mio uomo, acceso per la sua scrivania, non pensa più al ventaglio, e me lo lascia per una sciocchezza in cambio della rivelazione da me fattagli della bellezza di quel mobile di Riesener. E così ho combinato l’affare. Ma ci vuole molta pratica. Sono duelli a occhiate, e che occhio è mai quello di un ebreo o di un Alverniate ...!».



  Lorenzo Bocchi, Se ne vanno gli innamorati del secolo, «Corriere d’informazione», Milano, 24-25 agosto 1962, p. 3.

 

Un Balzac d’attualità.

 

  Un libro di Balzac ritrova una singolare attualità alla luce dei recenti incidenti nella campagna normanna. Si intitola Les paysans. Centotrenta anni fa l’autore della Comédie humaine previde la rivolta delle forche. Raccontò un «affare Gabin» in stile Restaurazione. Allora l’accaparratore di terre non era un attore celebre ma un ex-generale dell’impero, un superstite della battaglia di Essling, dove aveva comandato la carica dei corazzieri. I dispetti e i sabotaggi dei contadini della regione lo costrinsero ad abbandonare e a mettere in vendita la magnifica proprietà acquistata fra la Borgogna e il Nivernese. Questo cumulard Balzac lo aveva chiamato generale conte di Moncornet. Si direbbe quasi il cognome vero di Jean Gabin. Pepé-le-Moko si chiama, in realtà, Moncorgé.

 

 

  G. C., Nella casa di Balzac, «Stampa Sera», Torino, Anno 94, Numero 208, 18-19 Settembre 1962, p. 3.

 

  A metà altezza della collina di Chaillot degradante verso la Senna — una delle più suggestive terrazze di Parigi donde si scopre il caratteristico panorama dei tetti e delle gronde, oppressi da guglie e cupole — si nasconde una quieta, piccola strada di provincia dal sorprendente potere evocativo.

  E’ una stradetta larga due metri appena, chiusa da muri muschiosi sui quali si chinano vitalbe ed edere. Tra i ciottoli del selciato spunta l’erba e nell’angolo, un venerabile becco a gas monta la guardia. Ci si crederebbe a cento miglia da Parigi.

  Siamo ora invece a Passy, in Rue Berton. Verso il basso del pendio, una porta rustica e vacillante, colpisce l'attenzione del passante con una iscrizione sbiadita che annuncia: «Casa di Balzac». Si apre su un padiglione d’architettura del XVII secolo, e tre piani.

  E’ al riparo di queste mura che Balzac visse gli ultimi anni della sua vita e scrisse le migliori opere.

  Il municipio di Parigi, completando l’acquisto di tutto l’immobile, una parte del quale era già stata adibita a museo nel 1908, ha salvato dal vandalismo e dal frazionamento un paesaggio di pietra e di verde, caro al nostro patrimonio letterario. Sino al 1945, solo il secondo piano era stato restaurato e riordinato. Vi si accedeva dalla strada superiore, Rue Raynouard, dove sbocca una stretta scalinata di pietra rosa dal tempo che si perde in uno spiazzo verde, silenzioso e, quasi, misterioso.

  Il portiere che venne ad aprire era, secondo i desideri, «Balzacchiano»; lo si sarebbe detto uscito da un quadro di Daumier.

  Quattro stanze poco spaziose, dal soffitto basso, un po’ sguarnite, ricordano, con l’aiuto dei mobili dell’epoca, quella che dovette essere l’atmosfera quotidiana di Balzac intimo.

  Nello studio, tappezzato di broccato rosso, c’è la sua scrivania, così piccola che ci si domanda come il proverbiale disordine dello scrittore vi trovasse spazio per espandersi, i piccoli pupazzi con cui animava per se stesso un mondo surreale, il calamaio a forma di lucchetto, il nécessaire da scrittoio, la miniatura di Mme Hanska, il grande amore di Balzac che soleva dire:

  «Questa miniatura resterà sulla mia scrivania sin che l’originale rientra nella mia casa».

  Di fianco, la sua poltrona ... le sue pipe ...

  Sotto vetrina, la famosa caffettiera di porcellana bianca, dove egli stesso preparava il suo eccitante «antisonnifero».

  Si può fantasticare su quelle leggendarie notti, in cui Balzac, drappeggiato nella sua cordelière creava tutto un mondo!

  Nella sua camera, il suo letto in una alcova; nella sala da pranzo, dal grande caminetto di maiolica bianca, un piccolo secrétaire tarlato, dai piedi ritorti.

  E ancora litografie, acquarelli, fotografie, manoscritti, autografi e l’impronta della sua mano famosa.

  Si trova, intatta, tutta la sua corrispondenza, le Lettres à l’Etrangère, M.me Hanska con cui corrispose dieci anni, non avendola incontrata che una volta. La sposò tre mesi prima di morire.

  L’autore de La femme de trente ans fu d’altronde, per tutta la vita, l’amico delle donne e l’anima della maggior parte di loro frequenta ancora questi luoghi pieni di pace.

  George Sand, di cui egli diceva:

  «E’ un maschio. E’ un’artista, è grande, generosa, devota e casta. Ha le grandi caratteristiche dell’uomo. Dunque non è una donna».

  La bella contessa Merlin Dagout (sic) (Danielle Stern), M.me Carraud, M.me de Berny, a cui fu legato da un puro affetto che durò a lungo e non terminò che con la sua morte.

  L’amicizia fu una delle grandi qualità di Balzac, quest’uomo spettacoloso, intorno a cui vissero le più belle figure dei suoi tempi.

  Fu intimo di Chopin, di Liszt, di Théophile Gautier: il ricordo è vivo fra queste mura tanto capaci d’evocare.

  Balzac aveva 42 anni quando vi si rifugiò abitandovi sino al 1848. Dopo il fallimento delle sue iniziative commerciali — la stamperia di Marais St. Germani, e una fonderia di caratteri — Balzac per sottrarsi ai creditori, dovette più volte cambiar domicilio. Da Rue Casimir (sic) emigrò in una piccola stanza solitaria ed alfine trovò il suo rifugio in questa casa di Rue Raynouard, dove l’artista Louise Conrat, «la Célimène de Thermidor», aveva abitato prima di lui.

  Per maggior sicurezza, visse sotto falso nome. Aveva preso a prestito quello della sua governante. M.me Louise de Brugnol, che accudiva alla sua casa con l’aiuto, di una domestica. Esse avevano l’ordine categorico di non aprire a chiunque ignorasse la «parola d'ordine».

  Per lasciare il suo rifugio, Balzac non usava mai la porta. Aveva fatto aprire una botola nel gabinetto attiguo alla sua camera e attraverso ad essa raggiungeva una scala che lo conduceva alla cantina. Da questa usciva in Rue Berton.

  Egli diceva d’altronde di se stesso: «Ho 39 franchi nel borsellino e 150.000 franchi di debiti». Proprio per cercare di ammortizzarli lavorava senza interruzione ai suoi romanzi per venti ore consecutive.

  Da dieci anni, questo incantevole piccolo Museo era chiuso al pubblico. Una volta ancora Balzac era vittima della mancanza di danaro. In effetti, il servizio delle belle arti del municipio di Parigi, aveva deciso di riparare e di ingrandire «la casa» che minacciava rovina, essendosi incrinato un muro di sostegno. Bisognava anche espropriare l’occupante dell’immobile, ma per questa espropriazione erano stati richiesti 11.115.000 franchi. Ne seguì un processo che si trascinò a lungo.

  Ora gli appassionati «balzacchiani» potranno di nuovo gustare, respirare la sensazione di una presenza: in Rue Berton, contrariamente che in altri musei, corpi senza anima, necropoli fredde in cui nessuna vita appare, tutto parla, suggerisce, resuscita ...

  Perché la presenza di Balzac è quella d’un uomo che suggerì a Théophile Gautier la lode che Shakespeare dedicò a Bruto: «Davanti a lui la natura poteva levarsi arditamente e dire all’Universo: “Ecco un uomo! ...”».

 

 

  Edda Cantoni, Zola critico di Balzac, in Appunti sull’ideologia di Zola, Torino, Bottega d’Erasmo, 1962 («Collana di studi e testi», 2), pp. 15-19.


  Tornando all’esame degli scritti teorici di Zola e connettendoli con quanto s’è detto finora, abbiamo trovato, rileggendo Les romanciers naturalistes, un passo che ci porta subito nel vivo della questione. Si tratta dello studio su Balzac che Zola stese nel 1876 per il «Vestnik Evropy» di Pietroburgo e che riunì in volume insieme ad altri articoli nel 1881.

  Il passo, che mette in rilievo il contrasto fra gli ideali politici di Balzac (come si sa, reazionari) e la sua visione di una realtà storica e sociale in continuo progresso, ci sembra richiamare, se pure con diversa impostazione e con meno chiara coscienza delle conseguenze, la famosa lettera che Engels scrisse a Miss Harkness nell’aprile del 1888 e sulla quale si fondano molte affermazioni della critica marxista d’oggi, soprattutto quelle del Lukács. Benché le parole di Engels siano assai note, gioverà riprodurle qui per la parte che ci riguarda: «Quanto più nascoste rimangono le opinioni dell’autore e tanto meglio è per l’opera d’arte. Il realismo di cui io parlo può manifestarsi anche a dispetto delle idee dell’autore. Mi permetta un esempio: Balzac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comédie humaine un’eccellente storia realistica della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che, dopo il 1815, si era ricostituita ed era ritornata ad inalberare, nei limiti delle sue possibilità, il vessillo della vieille politesse française ... Certo Balzac fu un legittimista politicamente; la sua grande opera è una continua elegia sull’inevitabile rovina della buona società; tutte le sue simpatie sono per la classe condannata a tramontare. Ma, non ostante ciò, la sua satira non è mai così pungente, la sua ironia non è mai così amara come quando fa entrare in azione proprio gli nomini e le donne con cui più profondamente simpatizza, e cioè i nobili. E i soli uomini dei quali egli parla sempre con franca ammirazione sono i suoi più recisi avversari politici, gli eroi repubblicani del Cloître Saint Méry, gli uomini che a quell’epoca (dal 1830 al 1836) erano i veri rappresentanti delle masse popolari. Che quindi Balzac sia stato costretto ad agire contro le simpatie di classe e i pregiudizi politici a lui propri, che abbia visto la necessità del tramonto dei suoi diletti nobili e li descriva come uomini che non meritavano alcuna sorte migliore; e che abbia visto i veri uomini dell’avvenire dove a quell’epoca, solamente, era dato trovarli: tutto questo io considero come uno dei maggiori trionfi del realismo e come uno dei tratti più grandiosi del vecchio Balzac» [Lettera a Margaret Harkness dell’aprile 1888].

  Riportiamo pure, in un brano riassuntivo dello stesso Lukács, alcune osservazioni a cui il critico ungherese è pervenuto muovendosi sulle tracce di Engels: (1)

  «Il problema ora toccato [cioè proprio l’apparente contraddizione in cui si incorre condannando Zola: “esigendo da un lato la politicizzazione della letteratura, attaccando dall’altro lato alle spalle la più energica e battagliera letteratura di sinistra”] fu sollevato per la prima volta (prescindendo dai critici democratici russi) da Engels, appunto nel suo raffronto tra Balzac e Zola. Engels dimostrò che Balzac, per quanto la sua concezione del mondo politico fosse il legittimismo, nelle sue opere era giunto precisamente al più crudele smascheramento della Francia monarchico-feudale, alla potente e poeticamente impressionante raffigurazione della sua condanna a morte. Questo fatto, di cui il lettore incontrerà spesso in questo volume un’analisi particolareggiata, suscita a prima vista nuovamente la falsa impressione della contradditorietà. Potrebbe sembrare infatti che, nel caso dei grandi e seri realisti, fosse indifferente la concezione del mondo, la presa di posizione politica. E fino a un certo punto è effettivamente così. Perché ai fini dell’autoconoscenza del presente e per la storia, ciò ch’e di decisiva importanza è l’immagine che l’opera ci dà del mondo, ciò che essa proclama, mentre e del tutto secondario quanto tutto questo s’accordi con le opinioni dell’autore.

  Con ciò naturalmente si pone un grande e serio problema di estetica. Ciò che Engels, scrivendo di Balzac, chiama il “trionfo del realismo” giunge fino alle radici della creazione artistica realista, svela ciò che il vero realismo significa: sete di verità, fanatismo di realtà del grande scrittore, la cui moralità consiste nell’onestà di scrittore».

  E veniamo infine alle osservazioni di Zola sullo stesso argomento. Ricorderemo che lo studio su Balzac è basato soprattutto sulle sue lettere, con frequenti citazioni; e che ai sei paragrafi iniziali (scritti nel 1876 e pubblicati in Russia) fecero seguito nel volume del 1881 altri due abbastanza importanti. Alla fine del paragrafo sesto, dunque, troviamo queste riflessioni su Balzac politico:

  «Comme je cherche à trouver tout Balzac dans la Correspondance, à emprunter à lui-même des documents qui le montrent debout et entier, je ne serais pas complet, si je ne disais un mot de l’homme politique qu’il a voulu être. Il était, selon lui, d’opinions aristocratiques. Rien de plus étrange, d’ailleurs, que ce soutien du pouvoir absolu, dont le talent est essentiellement démocratique, et qui à (sic) écrit l’œuvre la plus révolutionnaire qu’on puisse lire. Il faut l’étudier à ce point de vue, pour remarquer quels coups formidables il a portés dans le vieil édifice de notre société, en croyant peut-être la consolider. Aussi, malgré son étalage de respect pour les idées monarchiques, n’a-t-il encore trouvé des enthousiastes que parmi la nouvelle génération, amoureuse de liberté. Il y aurait là une étude curieuse à faire, que je poserai ainsi: comment le génie d’un homme peut aller contre les convinctions (sic) de cet homme».

  Più avanti, nel corso del paragrafo ottavo, Zola giunge alle conclusioni con chiarezza anche maggiore:

  « J’arrive à ma conclusion. Balzac a crée (sic) un monde, non pas sans le vouloir, mais sans savoir au juste quelle serait l’action formidable de ce monde. Un détail amusant, et qui prouve combien il était inconscient parfois, ce sont ses prétentions de catholique et de légitimiste. Il soutenait Dieu et le roi, sinon en croyant, du moins en politique qui croit à la nécessité d’une police humaine de direction et de répression. Or, il a écrit l’œuvre la plus révolutionnaire, une œuvre où, sur les ruines d’une société pourrie, la démocratie grandit et s’affirme. Cela démolit le roi, démolit Dieu, démolit tout le vieux monde, sans qu’il paraisse s’en douter; et une seule chose reste chez lui, l’affirmation moderne, la croyance au travail, l’évolution scientifique qui est en train de transformer l’humanité. Sans doute, cette chose est confuse encore dans la Comédie humaine, mais il est certain que Balzac, bon gré, mal gré, a conclu pour le peuple contre le roi, et pour la science contre la foi».

  È chiaro che qui Zola non si occupa tanto di precisare le idee politiche e sociali di Balzac — ché anzi vi annette un valore molto relativo — quanto di caratterizzare il realismo dello scrittore; e ci pare che riesca a individuarne genialmente alcuni momenti fondamentali. L’analogia con le osservazioni di Engels è perciò tutt’altro che esteriore e casuale.

  E inoltre, nonché pensare ad una influenza (inammissibile) delle idee di Engels su Zola, se badiamo alle date dovremmo addirittura avanzare l’ipotesi contraria: ricordando che lo studio su Balzac — sia nell’edizione russa sia in quella francese definitiva dell’81 — è assai anteriore alla lettera citata di Engels, scritta, come abbiamo visto, nell’88. (2)

  In questo stesso studio di Zola è inoltre interessante notare per inciso come egli attribuisse grande importanza all’attività giornalistica e di critica letteraria svolta da Balzac; già allora, quando cioè era passato abbastanza tempo da togliere qualsiasi carattere di attualità alle battaglie di quegli anni 1830-1840; e non ancora abbastanza da conferirvi l’interesse d’una curiosità letteraria. (3) Anche se poi, nei rapidi accenni di questo suo saggio, Zola dimostra spesso una netta incomprensione verso alcuni giudizi o predilezioni letterarie di Balzac che furono tuttavia determinanti per la genesi del romanzo realista. Così, ad esempio, se può lasciare perplessi l’interesse con cui Balzac seguiva la produzione di Eugène Sue, non si deve però sottovalutare l’influenza che ebbe, sui primi grandi realisti, uno scrittore come Walter Scott. (4)

 

  Note. [La numerazione è nostra].

 

  (1) Fu appunto il Lukács — soprattutto negli scritti che nell’edizione italiana portano il titolo Saggi sul realismo — che a partire dal 1935 circa sviluppò queste osservazioni piuttosto rapide di Engels, deducendone non soltanto i motivi per una sempre maggiore esaltazione dell’arte di Balzac, ma anche per una altrettanto vibrante condanna di Flaubert e di Zola. Ora, come abbiamo accennato, molte posizioni del Lukács sono state messe in discussione e molti di questi suoi sviluppi da Engels vengono indicati come vere e proprie deviazioni.

  (2) Zola in ogni modo non conobbe mai le opere di Engels e di Marx; non soltanto quelle, come la lettera in questione, raccolte e pubblicate più tardi, ma nemmeno le altre stampate e diffuse regolarmente.

  (3) Gli studi su Balzac critico furono poi sempre rarissimi, e ad un certo punto anche i testi: esaurita l’edizione del Lumet del 1912, la successiva e anche la più recente antologia di scritti critici di Balzac è italiana: Scritti critici, a cura di Mario Bonfantini, Feltrinelli, Milano, 1958.

  (4) «On trouve d’ailleurs le romancier dans le critique; c’est le même dormeur éveillé, partant de l’observation pour grandir tout dans son rêve, incapable de proportions, criant au génie devant Walter Scott, quine à plaisanter ensuite les vers d’Hernani avec un goût douteux. Le volume que j’ai entre les mains est ainsi plein d’étranges jugements qui nous surprennent aujourd’hui. Par exemple, le roman historique paraît l’avoir fort préoccupé. N’est-ce pas étonnant? Voilà un écrivain qui va créer le roman naturaliste moderne, et il ne paraît s’inquiéter que des guenilles de ces romans prétendus historiques, si faux, d’une lecture si indigeste, à cette heure. Je lui passe encore son admiration pour Walter Scott, bien qu’elle dépasse toute mesure et qu’elle le montre radicalement inconscient de son propre génie, car je ne vois comment l’auteur de La Cousine Bette peut admettre l’auteur d’Ivanohe jusqu’à le proclamer le grand homme du siècle». (Emile Zola, [Les romanciers naturalistes, Paris, Bernoaurd, 1928], p. 55).

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. G. Delattre, “Les Opinions littéraires de Balzac”, Paris, P.U.F., 1961, «Studi Francesi», Torino, 17, Anno VI, fascicolo II, maggio-agosto 1962, pp. 370-371.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. P. Laubriet, “L’Intelligence de l’art chez Balzac. D’une esthétique balzacienne, Paris, Didier, 1961, «Studi Francesi», Torino, 17, Anno VI, fascicolo II, maggio-agosto 1962, pp. 371-372.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. S. Bérard, “La genèse d’un roman de Balzac: «Illusions perdues», Paris, Colin, 1961, «Studi Francesi», Torino, 17, Anno VI, fascicolo II, maggio-agosto 1962, pp. 231-233.

 

 

  Raffaele de Cesare, Recensioni. J.-H. Donnard, “Les réalités économiques et sociales dans la «Comédie Humaine», Paris, Colin, 1961, «Studi Francesi», Torino, 18, Anno VI, fascicolo III, settembre-dicembre 1962, pp. 569-570.

 

 

  Pietro Citati, Pubblicati i primi due volumi della «Corrispondenza» di Balzac. Parla sempre di sé e non si confessa mai, «Il Giorno», Milano, Anno VII, 25 luglio 1962, p. 5.


  L’edizione, a cura di Roger Pierrot, conterrà più di 400 lettere inedite, e raccoglierà insieme per la prima volta la corrispondenza di Balzac, finora divisa in raccolte disparate e introvabili. Ne rimarrà fuori soltanto la grande massa delle lettere alla signora Hanska, sua moglie, pubblicata da Calmann-Lévy.

 

  Nell’agosto 1819, a vent’anni, Balzac affitta per cinque franchi al mese una mansarda di via Lesdiguières, a Parigi. I suoi, che si sono ritirati in provincia, gli hanno concesso due anni di tempo; in capo ai quali, se non avrà dimostrato quel talento letterario che egli sostiene di possedere, dovrà riprendere la carriera interrotta di notaio. Balzac si installa gioiosamente fra i muri gialli e sporchi della sua vecchia mansarda. Spende otto franchi per acquistare uno specchio dorato e una stampa; dipinge i muri di bianco, fodera l’armadio della biancheria, e con sei soldi di carta blu e una vecchia cornice costruisce un paravento.

  A via Lesdiguières rimarrà otto mesi, pulendo ogni mattina la sua stanza, nutrendosi di pane, di salsicce, di pere, di meloni. Nel suo «sepolcro aereo» è quasi prigioniero. Ai Sallambier, i rispettabili parenti di Parigi, i suoi hanno nascosto che il figlio maggiore era stato travolto da fantasie così insane. Raccontano che è nel Mezzogiorno, ad Albi, a far pratica presso un cugino notaio.

  Così Balzac deve guardarsi attorno e nascondersi mentre attraversava le vie di Parigi: esce la mattina presto, a comprar frutta e a visitare i musei; e si attenta appena ad andare a teatro, per vedere il «Cinna» di Corneille, invisibile dietro l’altissima inferriata del loggione.

  «Amavo la mia prigione: era volontaria. Mi ricordo di avere tuffato allegramente il mio pane nel latte, seduto accanto alla finestra a respirar l’aria, lasciando scivolare gli occhi su un paesaggio di tetti bruni, grigiastri, rossi, d’ardesia, di tegola, coperti da muschi gialli o verdi. Talvolta, la sera, dei raggi luminosi, che sfuggivano dalle imposte mal chiuse, sfumavano e animavano le nere profondità di questo paese originale. Talvolta, le luci pallide dei lampioni proiettavano dal basso dei riflessi giallastri attraverso la nebbia, accusando debolmente nelle strade le ondulazioni dei tetti accostati, oceano di onde immobili ... Queste savane di Parigi, formate dai tetti livellati come una pianura, ma che coprivano degli abissi popolosi, si rivolgevano alla mia anima, si armonizzavano coi miei pensieri ...».

  Stava alzato la notte, tra i gelidi soffi del vento che entravano dal soffitto e dalla porta, coperto da un pastrano, avvolto in uno scialle, con in testa un berretto di merino rosso, fasciato di ovatta.

  Ogni innocente attimo di distrazione gli sembrava rubato al suo lavoro: come accade quando si è giovani, una grande idea sconosciuta vive in noi, e ci svegliamo che è buio, ferocemente allegri e orgogliosi di essere soli al mondo, ma, giunti al tavolino, davanti ad un libro o ad una pagina bianca, ci perdiamo e non sappiamo cosa fare di noi.

  Nemmeno Balzac, al tavolino, si ritrovava: tra i tanti e confusi progetti, aveva finalmente deciso di scrivere una tragedia in alessandrini su Cromwell. Giunto alla scena madre, una scena che immaginava tenera e sublime fra il Re e la Regina d’Inghilterra, si disperava, non sapeva come muovere i suoi personaggi, e chiedeva idee, consigli e «colori ossianeschi» alla sorella Laura.

 

Tumulto.

 

  La sua penna avrebbe dovuto conquistargli la gloria e la ricchezza. Timido, goffo, infantile, sognava di attraversare Parigi «disteso sui molli cuscini di un’elegante carrozza»; e immaginava che una donna aristocratica, giovane e ricca, dai begli occhi, dal sorriso fine, gli accarezzasse teneramente i capelli dicendogli: «Come hai sofferto, povero angelo!». Invidiava i giovani «dandys (sic)», così sicuri di sè. Temeva di morire «senza essere mai stato l’amante della donna che sognava di possedere».

  Di questo tumulto, di questa passione larga, di questo «oceano che batteva tempestosamente nel suo cuore», qualcosa traspariva nelle lettere alla sorella, che pensava a lui mentre, ogni mattina, dalle sei alle otto, faceva le scale al pianoforte. Le scriveva nel gergo rabelaisiano e goliardico di ogni ventenne o nella lingua complice e familiare che usavano i giovani Balzac per raccontarsi le sciocchezze dei grandi e i pettegolezzi di casa.

  Si abbandonava a scherzi volgari, a goffe vanterie, a pose eroicomiche: ostentando, come è naturale, il cinismo buffonesco dell’uomo fatto, che conosce la vita; sebbene fosse poi così felice perché le ultime pustolette giovanili erano scomparse dal suo volto.

  «Quanti sono a Bayeux — egli chiedeva alla sorella — i mariti “cocus”?». Cercami qualche vedova ereditiera. Ah, vantami! 22 anni, buone maniere, bravo ragazzo, l’occhio vivo, il sangue caldo, la miglior pasta di marito che il Ciclo abbia mai fatto. Ti do il 5 per cento sulla dote».

  Nell’estate del 1820, Balzac ritorna dai suoi a Villeparisis; ed è subito sopraffatto dagli isterismi, dai capricci, dalle finte malattie, dall’intollerabile bisogno di attività della madre e della nonna, deliziose orchestratrici di tempeste familiari. A 75 anni, il padre emette i suoi rozzi filosofemi e insidia le contadine. Ora Balzac scrive romanzi su commissione: sembra che abbia rinunciato alla gloria. Protesta che non ha ancora avuto «i fiori della vita»: «il mio piatto è vuoto, non è dorato, la tovaglia è grigia, i cibi insipidi ... Ho fame e nulla si offre alla mia avidità». Non sopporta questa «rotazione da macina da mulino, questo perpetuo ritorno delle medesime cose». Ma non è affatto un ribelle: legatissimo alla famiglia, è un figlio e un fratello affettuoso e recalcitrante, ingenuo e confuso, che si sfoga nei suoi immensi sogni romanzeschi.

 

***

 

  A Villeparisis, la donna aristocratica, ricca, dai begli occhi, dal sorriso fine, assunse i tratti di madame Laure de Berny, una signora di quarantacinque anni, madre di otto figli, che dei modesti borghesi come i Balzac dovevano frequentare orgogliosamente. Al suo nome, a quel volto dolce e rassegnato, la immaginazione di Balzac poteva legare, una leggenda di sventure, di infelicità e di discrezione. Figlia dell’arpista e della cameriera privata di Maria Antonietta, aveva conosciuto gli ultimi giorni della regina: conservava ancora una ciocca dei suoi capelli e due orecchini d’oro: era stata imprigionata dai rivoluzionari: sposa infelice, burrascose passioni avevano — si diceva — attraversato la sua vita.

 

Dichiarazione.

 

  Nel marzo 1822 Balzac le fece giungere, sotto falso nome, una dichiarazione d’amore: «Siete infelice, lo so, ma avete nell’anima delle ricchezze che vi sono sconosciute e che possono ancora legarvi all’esistenza ... Per me, la vostra malinconia è una grazia, le vostre sventure un incanto». E lo sconosciuto, che frequentava i suoi figli, aggiungeva: «Sono timido all’eccesso, amoroso fino al delirio, e casto al punto di non osar dire: amo ...». «Voi siete per me più che un’amica, più che una sorella, quasi una madre, una specie di divinità visibile, alla quale io riferisco tutte le mie azioni».

  Di questa corrispondenza ci sono giunti anche gli abbozzi: Balza meditava attentamente le sue lettere, aggiungeva, rifaceva, scartava le frasi meno adatte, calcolando i propri effetti oratori. Forse si era proposto una strategia amorosa: e aveva studiato una tattica machiavellica per piegare la malinconica e sventurata madame de Berny. Ricorreva a tutti i mezzi: attribuiva a Chénier, il poeta alla moda, i propri versi; o inventava addirittura una falsa massima di Teofrasto, che La Bruyère non aveva potuto tradurre, siccome era stata appena scoperta fra i manoscritti della Vaticana. Tentava di convincerla con argomenti di una rara delicatezza: «Se fossi donna, se avessi quarantacinque anni, e fossi ancora bella, avrei, io credo, amato sinceramente, non fosse che per riconoscenza, cercando di trovare in questo sentimento le delizie della prima età, le sue innocenti illusioni ...». E insisteva: «Mi meraviglio che una donna, al principio del suo autunno, si rifiuti di cogliere quel pomo che perse i nostri progenitori».

  Proprio lui, così ingenuo, così libresco, lui che non sapeva nulla del mondo, voleva educare questa signora stanca ed esperta; ed ostentava la propria filosofia materialistica, esaltando quei piaceri che non conosceva: «Moriamo interi, non c’è vizio nè virtù, nè inferno nè paradiso, e la sola cosa che debba dirigerci è questo assioma: prendi tutto il piacere che potrai». Due mesi dopo, gli amanti si scambiavano dei «baisers délirants» sulle panche del grande giardino; sebbene la pedagogia cinica e gli astuti piani del giovane Balzac lo avessero certo aiutato assai meno della sua amabile vitalità giovanile.

  In queste lettere Balzac parla ogni momento di sé. Eppure non si confessa veramente, come non si confessò mai, dopo di allora, nelle proprie lettere. Ma non era nemmeno «dupe» delle proprie finzioni sceniche. Così giovane, Balzac aveva già compreso che, «non essendo diretta, la sua immaginazione si portava indifferentemente su ogni cosa»: «finisco per credere di essere soltanto uno strumento di cui si servono le circostanze».

  Come poteva esistere e possedere un profilo individuale, se era così profondamente disponibile verso tutte le cose? Si conosceva soltanto attraverso una serie di trasposizioni e di mitizzazioni successive. Come nei suoi romanzi nessun personaggio, nemmeno Raphaël de Valentin, Louis Lambert o Félix de Vandenesse, è veramente autobiografico; così anche nella vita Balzac si esperimentava per mezzo delle enfatiche proiezioni che, di volta in volta, portavano per il mondo il suo nome.

  Nato un po’ a caso, dal calcolo intellettuale del giovane conquistatore, l’amore per madame de Berny, questo «fiore di solitudine», rimase un punto fermo nella vita di Balzac.

  Quest’amore era stato immaginato e costruito; poi era divenuto, come gli accadeva, un’idea esclusiva, un desiderio ardente, attorno al quale si erano raccolti, in una provvisoria cristallizzazione, una folla di altri desideri, aspirazioni e sentimenti, che ormai formavano un’unica massa. Doveva trovare, in lei, qualcosa di profondo, di dolce, di triste: un simbolo, come sempre: quasi un’eco estenuata della Francia sensuale e sensibile di Rousseau, simile a quella che sopravvisse, così morbida da toccar la follia, nei racconti di Gérard de Nerval.

  Lei lo chiamava «mio divino cherubino», «mio angiolo grazioso»: lo ringraziava per «quella felicità, quella vita piena, interna, reale, quella vita di cui parla Chénier, quella vita che ne vale mille», che lui le dava ogni giorno. Come madame de Mortsauf, lo avvolgeva «nelle protezioni nutritive, nei bianchi drappi del suo amore materno». La sua tenerezza era così complicata ed intensa, così totale e torbida, che non poteva fare a meno di sciogliersi in un linguaggio esaltato, estatico, agitato da una felicità dolorosa e incontenibile.



  Pietro Citati, Balzac e Fitzgerald nel luccichio di simboli quotidiani, «Il Giorno», Milano, Anno VII, 26 settembre 1962, p. 6.


 

  Alberto Del Monte, Breve storia del romanzo poliziesco, Bari, Laterza Editori, 1962, pp. 58-62.

 

 

  Marise Ferro, Difendo i giovani, «Stampa Sera», Torino, Anno 94, Numero 41, 16-17 febbraio 1962, p. 3.

 

  E i giovani di oggi sono identici a quelli di ieri. Hanno una scorza, una apparenza diverse, ma nell’intimo sono i giovani di sempre. Difatti ai giovani di oggi si potrebbe fare il discorso che Vautrin fece a Rastignac (nel romanzo Papà Goriot, di Balzac), un pomeriggio, nel misero giardino della pensione Vauquer. Rastignac aveva vent’anni, arrivava dalla provincia, era povero ma non voleva esserlo a lungo, voleva denaro, successo e fama. E Vautrin gli illustrò Parigi e i costumi del tempo:

  «La conquista della ricchezza è il problema che si accingono a risolvere in questo momento cinquantamila giovani nella sua identica posizione, mio caro. Lei non è che una unità del numero. Immagini, quindi, gli sforzi che dovrà fare e la durezza della lotta, dato che a Parigi non vi sono certamente cinquantamila impieghi bene remunerati; Dovrete divorarvi a vicenda. E sa come si arriva a Parigi? Con l’intelligenza o con la corruzione. L’onestà non serve a nulla. Si odia l’intelligenza, ma si finisce col piegarsi davanti ad essa; l’intelligenza però è rara, mentre la corruzione è diffusa. Quindi la corruzione è l’arma della mediocrità che ci circonda. Lei non potrà fare due passi in Parigi senza incontrare intrighi e pasticci.

  L’uomo onesto è il nemico comune. Ma vediamo che cosa è l’uomo onesto: a Parigi l’uomo onesto è colui che tace, si ritira in un cantuccio e si rifiuta di partecipare. Non intendo per uomini onesti quei poveretti che lavorano per tutti, che non sono mai ricompensati dei loro sforzi e che io chiamo «le ciabatte del Signore». Certo, in essi è la virtù nel suo fiore, ma anche la dabbenaggine. Dunque, per arrivare, e in fretta, bisognerebbe essere ricchi o fingere di esserlo. Per essere ricchi o fingere di esserlo bisogna non avere scrupoli. In cento professioni, dieci uomini soltanto emergono, ma sono considerati ladri. Ecco la società contemporanea, ecco la vita. Non è più, pulita della cucina, puzza quanto essa, ma ci si deve sporcare le mani se si vuole riuscire una pietanza. Bisogna sapersi lavare bene le mani, ecco la morale della nostra epoca.

  «Se le parlo così della nostra società è perché la conosco. Crede che la biasimi? Per nulla. E’ sempre stata così, i moralisti non la cambieranno mai. L’uomo è imperfetto. Io non accuso i ricchi né difendo i poveri, l’uomo è sempre uguale, in basso, in alto, nel mezzo ... E se devo darle un consiglio, mio caro, è questo: non abbia opinioni incrollabili. Un uomo che si vanta di non cambiare mai d’opinione è un uomo condannato a camminare sempre in linea retta, uno che crede all’infallibilità. Ma nella nostra società non vi sono principi, vi sono avvenimenti; non vi sono leggi, vi sono circostanze. Se vi fossero principi e leggi risse i popoli non muterebbero come mutano. E l’uomo non è tenuto ad essere più savio di una nazione. Avrò un’opinione incorruttibile il giorno che incontrerò tre uomini d’accordo sull’applicazione dello stesso principio».

  Non era una lezione di morale, quella di Vautrin, ma una critica severa della società del suo tempo. Ebbene, la società descritta al giovane Rastignac del 1834 non potrebbe essere la società dei nostri giorni? Uguale ipocrisia, uguale avidità, uguale corruzione, uguale mancanza di principi. Il fatto è che gli uomini di genio, e Balzac. ne era uno, hanno le grandi illuminazioni; capiscono la verità nascosta sotto gli avvenimenti quotidiani, sanno fare scaturire le idee dai fatti, mutare la realtà in pensiero. Egli aveva «visto» la società del suo tempo e l’aveva descritta. Ma non era stato capito. I critici stessi avevano giudicato prima il suo stile delle sue idee; e il suo stile era sporco, era come un grande fiume in piena che trasporta nella sua forza mille detriti. Oggi noi sappiamo, però, che vedeva giusto.

  Chi vede giusto nella società contemporanea? Certo pochi, pochissimi uomini che hanno lo stesso potere di Balzac: il potere dell’intelligenza, che non corre le strade, o del genio, che è un dono rarissimo. [...].

 

 

  Michele Lalli, Il secondo volume della «Correspondance». L’epistolario di Balzac, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno XXXIX, N. 231, 5 settembre 1962, p. 6; 1 ill.

 

  La Correspondance di Balzac, il primo volume della quale, al suo apparire lo scorso anno, suscitò ovunque unanimi consensi, è giunta ora al secondo tomo (H. De Balzac, Correspondance, Garnier Frères, Paris, pagine 896).

  Mentre il primo abbracciava gli anni che corrono dal 1809 al 1832, questo secondo volume accoglie la corrispondenza dal giugno del 1832 sino alla fine del 1835: una mole imponente di materiale, perfettamente ordinato da Roger Pierrot, curatore dell’opera.

  Abbiamo qui infatti ben 284 lettere di Balzac, 239 lettere di suoi corrispondenti a lui dirette, 29 biglietti di vario genere. Da tener presente che delle 284 lettere del romanziere ben 71 vedono la luce per la prima volta.

  Nella vita dell’autore della Commedia umana questi son veramente gli anni ruggenti. Madame de Berny, la donna di ventidue anni più anziana di lui, il primo grande amore, è ormai scomparsa dallo orizzonte della sua vita per essere sostituita dalla marchesa de Castries. Lo scrittore è impegnato nella stesura della Femme de trente ans. Balzac è ormai diventato uno snob, ha mobiliato il suo appartamento di rue Cassini in maniera principesca, acquista cavalli di razza e carrozze di costruzione inglese, ogni vestito che ordina al celebre Buisson gli viene a costare un patrimonio.

  Sono anche gli anni delle prime ambizioni politiche (sbagliate). Il romanziere aderisce al partito neo-legittimista, accarezza addirittura l’idea di presentare la propria candidatura quale deputato monarchico in parlamento. Anche la vita sentimentale non gli dà tregua. La capricciosa marchesa mette a dura prova i suoi nervi, lo costringe a seguirla prima ad Aix-les Bains, poi a Ginevra. Nonostante tutto, il ritmo di lavoro di Balzac non rallenta. Nel 1832 escono i primi dodici Contes drolatiques, La Bourse, Madame Firmiani, Le Message, La Grenadière, La femme abandonnée, Le colonel Chabert, Le Curé de Tour (sic), Les Marana. Il novembre dello stesso anno Balzac riceve la prima lettera — anonima — della Straniera (madame Hanska, la nobildonna polacca il cui amore lo farà dannare per tutto il resto dei suoi anni e che riuscirà a sposare solo pochi giorni prima della morte).

  1833: pubblicazione di altri dodici Contes drolatiques, Louis Lambert, Eugénie Grandet, L’illustre Gaudissart, Ferragus, Le médecin de campagne.

  La marchesa de Castries è stata ormai soppiantata nel cuore di Balzac dalla Straniera, le cui lettere si fanno sempre più frequenti e, ormai, non sono più anonime. E ad esse fanno riscontro epistole altrettanto infiammate da parte dello scrittore. Finalmente il 25 settembre, a Neuchâtel, i due si incontrano: tra il natale del 1833 e il febbraio del 1834 altri incontri tra i due amanti si svolgono a Ginevra.

  1834: lavoro sempre più intenso e vita mondana. Frequenti contatti con la ambasciata d’Austria, ove viene ricevuto dalla contessa Appony, «la divina Teresa». Incontro con la contessa Guidoboni-Visconti e nuovo (sic) «affaire» sentimentale. Spese pazzesche. Il romanziere si aggira per Parigi impugnando un bastone dal pomo d’oro tempestato di turchesi. Un breve periodo di ritiro a Saché, presso il signor de Margonne, ove Balzac lavora a Séraphita ed al Père Goriot. Pubblicazione della Duchesse de Langeais e della Recherche de l’Absolu.

  Nel 1835 esce Père Goriot, il primo romanzo nel quale Balzac realizza il principio della riapparizione dei vari personaggi. L’idea però risale al 1833, quando per la prima volta nella mente del romanziere balena il concetto dell’unità della «Commedia umana». Lavoro frenetico: escono Le contrat de mariage, La Fille aux yeux dor, Le Lys dans la Vallée, Melmoth réconcilié, Un drame au bord de la mer, Séraphita.

  Nel frattempo si è verificato il primo degli innumerevoli crolli finanziari che costelleranno la vita dello scrittore. Il quale, perseguitato dai creditori, è costretto a cambiare casa. Si stabilisce a Chaillot, in rue des Batailles, in un appartamento che prende in fitto sotto falso nome. Nel boudoir che ha già descritto nella Fille aux yeux d’or Balzac scrive sino a sedici ore di seguito, ingurgita litri e litri di caffè, notte e giorno; riceve frequentemente la contessa Visconti. In maggio, si reca a Vienna, ove ancora una volta incontra la Hanska.

  Questo, reso telegraficamente, lo squarcio della vita del romanziere che ci viene incontro durante la lettura di questo volume dell’epistolario.

  Ma occorre anche aggiungere che da queste pagine balzano soprattutto una vitalità possente, uno slancio quasi fisico, un concupire ed una volontà di vivere e di godere di ogni bene terrestre, — vino, frutta, danaro, donne o gioielli che fossero — che a volte addirittura sgomentano. In una parola: un Balzac vivo e senza veli.

 

 

  Pierre Laubriet, Balzac et Venise, in AA.VV., Venezia nelle letterature moderne. Atti del primo Congresso dell’Associazione Internazionale di Letterature Comparate (Venezia, 25-30 settembre 1955). A cura di Carlo Pellegrini, Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1962 («Civiltà Veneziana. Studi», 8), pp. 127-149.

 

  Venise tient dans l’œuvre balzacienne une place qu’elle est la seule ville étrangère à occuper; si l’épopée républicaine et napoléonienne entraîne le romancier à parler de Tarragone, à décrire Menda ou Andernach, si la mésaventure de Sarrasine a Rome pour cadre — et le cadre est à peine indiqué et ne sert guère qu’à expliquer la personnalité équivoque de Zambinella — ni le hasard d’un récit, ni la nécessité ne semblent avoir présidé au choix qu’a fait Balzac de Venise pour trois de ses nouvelles. Toutes trois, bien que deux seulement appartiennent aux Etudes philosophiques, veulent être avant tout des démonstrations de thèses chères à l’auteur: Facino Cane, placé dans les Scènes de Vie parisienne, montre par un exemple particulier la puissance destructrice de la passion; quant à Gambara et Massimilla Doni, elles tendent à démontrer la puissance de la pensée et plus encore à en prévenir les excès. Toutes trois enfin sont liées assez étroitement, en ce que les personnages se trouvent en relations plus ou moins lointaines les uns avec les autres: la fin de Facino Cane a son retentissement au début de Massimilla Doni, et l’action de celle-ci s’inscrit dans le temps des mésaventures de Gambara à Paris; mais le lien le plus important gît dans ce fait qu’elles sont des «nouvelles musicales», Facino Cane par son début, Gambara et Massimilla Doni par l’essentiel de leur contenu. Le cadre de Venise n’était donc imposé à l’auteur ni par l’intention didactique: la force de la passion et de la pensée peuvent s’exercer partout, ni par sa démonstration musicale: Rossini n’était pas joué exclusivement à Venise. S’il a choisi cette ville, c’est pour des motifs tout personnels, tenant à la fois à des souvenirs littéraires et surtout à une dilection toute particulière.

  Rappeler que Balzac visita Venise en mars 1837, profitant d’un voyage d’affaires entrepris pour les Guidoboni-Visconti, serait superflu, après les études faites par MM. Gigli et Prior, qui ont fourni tous les détails désirables sur ce voyage, et il n’est pas de notre projet d’y revenir; mais il n’est pas indifférent de faire souvenir des impressions successives que fit la ville au voyageur. Balzac désirait depuis longtemps connaître Venise, si l’on en croit du moins la réflexion qu’il fait au début de Facino Cane, où il se met lui-même en scène au temps de son apprentissage littéraire rue Lesdiguières: «Venise est une belle ville, j’ai toujours eu la fantaisie d’y aller» dit-il au musicien aveugle; il avait même l’imagination trop emplie des images que répandent de Venise les keepsakes et les peintres de genre, tellement qu’il n’avait plus rien à prêter au vrai, comme il l’écrit lui-même. Aussi fut-ce à l’arrivée déception profonde, mélancolique regret devant une Venise enfoncée dans la pluie, ensevelie dans le silence, «pauvre ville qui craque de tous côtés et qui s’enfonce d’heure en heure dans la tombe», ainsi qu’il l’écrit le jour même de son arrivée à la comtesse Maffei dans une lettre connue [14 mars 1837], où il exprima sans ambages ce qu’il ressentit: Venise est une folie, une «magnifique exception», et une morte dont seul le silence le ravit, car il flattait ses «secrètes aspirations, qui tendent à la mélancolie: aussi, conclut-il, donnerai-je Venise pour une bonne soirée, pour une heure de plaisir, pour un quart d’heure passé au coin de votre feux, car l’imagination peut construire des milliers de Venise, et l’on ne fait pas une jolie femme, ni un plaisir, ni une passion». Cinq jours plus tard cependant, oublieux du compliment et laissant la réalité l’emporter sur les prestiges de l’imagination, il avoue à la même Clara Maffei que la belle Venise est «digne de son nom», et qu’il n’a pu s’empêcher de s’exclamer, comme tous les autres voyageurs, devant les canaux, les palais, les églises, regrettant cette fois d’être si limite en temps [lettre du 19 mars 1837].[4] Cette admiration apparaîtra plus passionnée encore dans une lettre à Mme Hanska d’avril 1837, où Balzac s’écrie: «Venise et la Suisse sont les deux créations, l’une humaine et l’autre divine, qui, jusqu’à présent, me paraissent être sans aucune comparaison, et sortir des données ordinaires», et y mêlant à la fois le souvenir de Mme de Berny et le désir de Mme Hanska, il échafaude déjà le roman d’un amour vénitien devant le palais Contarini-Fasan: «Je ne sais si vous avez remarqué dans le Grand Canal — écrit-il — après le palais, une petite maison à deux croisées gothiques; toute la façade est gothique pur. Tous les jours je m’y suis fait arrêter et j’y ai souvent été ému aux larmes. J’ai conçu tout le bonheur que deux personnes pourraient y ressentir en y demeurant étrangers au monde entier»[5]. Cette passion vénitienne, s’il ne l’a pas vécue, il l’a du moins transposée dans les amours de Massimilla Doni et d’Emilio Memmi. C’est peut-être ainsi, à la faveur d’un fugitif rêve amoureux, fait devant un palais vénitien, que la ville est entrée dans l’œuvre balzacienne, sous les deux aspects mêlés qu’avait vus d’elle le romancier: la splendeur et la décadence. Il est d’ailleurs remarquable que, si Venise joue un rôle dans les deux nouvelles de Facino Cane et de Gambara, elle n’y est guère plus qu’un décor, et dans la première le décor obligé d’aventures romanesques, tandis que dans Massimilla Doni elle est vraiment un des personnages du récit: or Cane et Gambara ont été écrits avant le voyage d’Italie, respectivement en mars 1836 et en juillet-août de la même année, alors que Massimilla Doni n’est mise en chantier qu’à la fin de 1838 et achevée en 1839, c’est-à-dire après le voyage: combien ne s’est-elle pas enrichie de l’expérience, si courte qu’elle ait été, qu’a eue Balzac de la perle de l’Adriatique.

  Mais ce choix de Venise parafe avoir été déterminé aussi par des motifs plus spécialement littéraires. Depuis l’apparition du romantisme, l’Italie était pour les Français le cadre idéal de la passion, et de Mme de Staël à Musset, personne n’avait manqué d’y placer l’action d’un roman ou de l’y vivre. Balzac à plusieurs reprises parlera de cette entente parfaite de l’Italie et de la passion, que ce soit ses paysages, sa langue ou sa civilisation qu’il considère comme particulièrement favorables au développement de l’amour. Dans cette Italie, Venise plus spécialement était regardée, depuis Byron, comme un lieu favorable aux déchaînements passionnels, et trois ans avant le passage de Balzac, dans ce même Albergo Reale où il était descendu, Musset et Sand avaient vécu un drame byronien. Les sentiments outrés, le tumulte des passions, l’extraordinaire des aventures, tout l’attirail du poète anglais, plus ou moins mêlé de réminiscences de romans noirs ou des Mémoires de Casanova, nous les trouvons dans la première nouvelle vénitienne, Facino Cane […].

  De Venise n’apparaît ici qu’une image «stéréotypée», comme le pays des exploits amoureux, des belles jeunes femmes et des maris jaloux, des coups de poignard, des traîtrises, et aussi de la richesse et du pouvoir tout-puissant et secret, image qui disparait presque entièrement dans Massimilla Doni au contact de la réalité, et dont il ne restera guère que la vivacité de la passion; les aventures d’amour et les romans de cape et d’épée seront relégués parmi les rêveries de l’opiomane Vendramin. […]. Ce Vendramin, si attachant qu’il soit, est pourtant condamné; le médecin français ne peut le guérir et il meurt victime de son spleen; l’attitude byronienne est condamnée, et Balzac attaque le poète lui-même en des termes assez vifs […]. À tous [les poètes anglais] Balzac adresse le même reproche qu’à Byron, d’avoir calomnié Venise et toute l’Italie, en y voyant un pays mort. […].

  Si Balzac songe à donner une leçon aux poètes anglais en écrivant ses nouvelles vénitiennes, et principalement Massimilla Doni, il projette d’autre part de se mesurer avec un auteur qu’il admire depuis longtemps, E. T. A. Hoffman (sic). […]. Nous voilà à la source de Massimilla Doni et de Gambara; ce furent les occasions pour Balzac d’écrire ses idées et de rivaliser avec Hoffmann. Pour s’y préparer, […] il est allé en Italie, « aux grandes sources de la musique», il s’est rendu à la Scala, a «remué les cendres de la Fenice à Venise. Nous sommes au centre même des intentions balzaciennes: exposer un «système philosophique», ou quelque chose qui «en ait l’air» […].  Les théories musicales de Gambara, fondées sur une physique et une métaphysique où le son est un des éléments constitutifs de l’univers sont bien proches de la pensée allemande de ce premier tiers du XIXe siècle, qui rêva à cette époque d’une philosophie cosmique dont le son fut le maître-mot. La musique donne la clef de l’univers, comme le suggèrent, chez Balzac, Gambara et la duchesse Cataneo, tout imprégnée des théories de ce dernier. On trouve dans Gambara cette passion pour les instruments étranges que l’on peut voir dans les Automates d’Hoffmann, et même Balzac a donné à l’invention de Gambara le nom que Mätzel, le fabricant du métronome, avait donné au sien: le panharmonicon. Hoffmannesque encore cette création d’une atmosphère fantastique, soit par la peinture d’un cadre propre à éveiller l’imagination, comme la description du bal populaire qui ouvre Facino Cane, ou celle du restaurant du sieur Giardini, ou enfin la présence d’une ville aussi extraordinaire que Venise, dont les palais, les canaux, les eaux luisantes de clair de lune, les gondoles mystérieuses, les fêtes de Mille et Une Nuits forment à Massimilla Doni un fond de féerie, dépaysant le lecteur et le préparant à l’apparition de personnages étranges. Ne serait-ce pas Hoffmann qui aurait suggéré à Balzac de placer l’action de sa plus importante nouvelle musicale en Italie? […].

  On voit donc combien les nouvelles vénitiennes de Balzac n’ont pas pour seule origine une inspiration due à la ville et à la révélation qu’en eut Balzac lors de son voyage, mais autour de l’image de Venise se sont cristallisées plusieurs idées et projets chers au romancier, déjà esquissés dans Facino Cane, et qui se sont pleinement épanouis dans Gambara et surtout dans Massimilla Doni, écrite après le voyage et expression la plus achevée et la plus complète des pensées musicales du romancier, ainsi que démonstration d’idées philosophiques, telles que la puissance de la pensée sur le corps et la nécessité de tenir une juste balance entre le corps et l’esprit, enfin page où Venise est le plus présente. […].

  Si Venise a pu être pour Balzac l’occasion heureuse de rivaliser avec quelques grands écrivains, de donner une leçon à Byron, et de faire mieux qu’Hoffmann, de grouper autour de thèses philosophiques qui lui étaient chères les idées qu’il avait acquises sur la musique, de rassembler les impressions et les expériences que lui avait apportées la connaissance directe de la ville, Venise fut peut-être encore davantage pour lui le moyen de payer à l’Italie et à ses amis italiens un généreux tribut, en disant la grandeur et la beauté de bien des âmes de ce pays que les circonstances du moment obligeaient à moins paraître, et avait bien raison d’écrire à la comtesse Maffei, en novembre 1838, qu’il était fort injuste de l’accuser de ne pas aimer l’Italie, alors qu’il travaille à une œuvre intitulée Massimilla Doni, qui fera tressaillir plus d’un cœur italien. Venise, sous tous ses aspects, y était le symbole d’une nation entière.

 

 

  Giuseppe Lazzari, L’affarista. Avventurieri, speculatori, «facitori di progetti» e capitani d’industria nelle pagine degli scrittori, Programma a cura di Giuseppe Lazzari. Regia di Umberto Benedetto, Terzo programma 6 maggio 1962.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  G. Lo CurzioA. Menitoni, Le Romantisme, in Guide de la littérature française. Histoire et portraits, Palermo, Palumbo, 1962, pp. 94-107.

 

 pp. 106-107.

 

  Honoré de Balzac (1799-1850). On peut dire que Balzac a été le maître du roman réaliste: «Pareil aux créateurs de génie, un Shakespeare, un Molière, il a su mettre sur pied — a dit R. Doumic — une société imaginaire aussi vivante que la société des êtres de chair et de sang».

  D’une nature exubérante, vulgaire, il expliqua une activité fiévreuse: il fut d’abord clerc de notaire, ensuite associé avec un imprimeur, et il fit des spéculations, de mauvaises affaires qui lui firent contracter des dettes, à cause desquelles il fut obligé de travailler même la nuit, se condamnant à un labeur incessant, travaillant jusqu’à quatorze heures de suite. Ce fut ainsi que de son travail de vingt ans, de 1829 à 1850, naquit La comédie humaine, ouvrage qui marque une période nouvelle dans la littérature française.

  Après une époque de rêverie et d’imagination, une réaction devait se produire: et ce fut le «réalisme», qui s’opposa au romantisme par la conception d’un art impersonnel, consistant dans l’observation exacte et objective des hommes et des choses. Dans la préface de la Comédie humaine Balzac indique, en effet, son intention de faire «l’histoire naturelle» de l’homme. Son rôle veut être celui de décrire, d’analyser et de classer tous les aspects de la société, expliquant l’activité humaine d’abord par l’instinct, et ensuite par l’influence du milieu.

  La Comédie humaine se compose de nombreux romans, liés entre eux suivant un plan général et subdivisés en catégories, comprenant chacune plusieurs romans sur la vie privée, la vie de province, la vie parisienne, la vie politique, la vie militaire et la vie de campagne. Dans son ensemble, l’œuvre est un tableau puissamment évocateur de tonte la société française sous la Restauration et la Monarchie de Juillet, représentée dans toutes les diversités des classes, des professions et des hommes, observés non seulement en eux-mêmes, mais en rapport avec le milieu social et familier. C’est ainsi que Balzac fait une œuvre humaine, en même temps que sociale: il peint les masses, il en dégage les types représentatifs avec toutes leurs passions, bonnes ou mauvaises, l’amour, l’ambition, l’envie, la cupidité, et surtout l'avarice, qu’il peint avec un si étonnant relief, qu’on a pu dire que, depuis Molière, elle n’avait jamais été représentée d’une façon plus vraie. La vie de son temps y est observée d’une manière nouvelle et originale, elle est suivie dans tous ses problèmes, dans son mouvement scientifique, jusque dans les applications industrielles, et représentée à travers une peinture vigoureuse et fidèle, extrêmement scrupuleuse dans la description de toutes les parties de la vraisemblance extérieure, de la ville, de la rue, de la maison et de l’appartement, jusqu’au mobilier.

  Balzac échoue dans la représentation de la haute société, mais il excelle dans celle de la bourgeoisie de son temps, de la bourgeoisie parisienne et provinciale parvenant à la fortune par le commerce et l’industrie. Il aime voir le pire côté des hommes et des choses, à observer d’un œil pessimiste la bassesse et la perfidie humaine, à représenter les individus comme poussés par une passion unique avec laquelle ils s’identifient: c’est l’avarice chez Grandet, la jalousie chez la cousine Bette, l’amour paternel chez Goriot. Parfois l’imagination puissante de l’auteur grandit les facultés des personnages, mais «l’unité de la passion qui les anime, le progrès continu de cette passion, son développement logique, de plus en plus énergique et précipité, donne à l’œuvre tout entière un genre d’unité et de progression qui est d’un rare mérite et d’un grand effet».

  Balzac possède une puissance créatrice et une intensité de vision qui font même oublier les défauts de son style, parfois négligé: «Il met, comme personne, — a observé G. Lanson — un personnage sur pied; il lui donne une vie intense, par la netteté de sa vision, par la conviction de sa descriptions. Sans doute il ne fait pas de psychologie profonde, il ne s’attache pas au travail intérieur qui fait ou défait une âme; il compose solidement son personnage intérieur; il y met une passion forte qui sera le ressort unique des actes, qui forcera toutes les résistances des devoirs domestiques ou sociaux, des intérêts mêmes». Et tous les types sont si bien déterminés, moralement et physiquement, qu’il est presque impossible de distinguer les personnages fictifs de ceux qui sont réels.

  C’est par son souci du vrai que Balzac, tout en étant encore lié au romantisme, retrouve un art qui avait été longtemps oublié, mais qui avait déjà existé dans la littérature précédente, le réalisme étant un des caractères de l’école classique du XVIIe siècle: on sait que Racine, Molière, Boileau, La Bruyère et, au siècle suivant, Lesage avaient été des réalistes dans la peinture et l’analyse de la nature humaine. Balzac n’a été que le peintre d’un moment et d’une partie de la société: mais personne n’a eu une connaissance si complète des classes moyennes et des luttes dans lesquelles elles se heurtent, pour l’intérêt ou pour le besoin de vivre. […].

 

 

  Honoré de Balzac (1799-1850), Ibid., pp. 145-146.

 

  Honoré de Balzac (1799-1850), est le génie très puissant du roman français. Il fit ses études de droit à Tours, sa ville natale, et fut clerc de notaire: mais ce n’était pas là sa vocation. Son œuvre — la Comédie humaine — est immense, et fut composée au cours d’une existence aventureuse, au milieu d’entreprises, d’efforts, de tentatives, d’illusions, de défaites de toute sorte (il fut imprimeur, éditeur, fondeur), et parmi les dettes et les créditeurs, harcelé par le besoin incessant d’argent, tantôt dans la richesse, tantôt dans l’indigence. Ses volumes romans et nouvelles — se montent à une centaine, Balzac s’étant imposé un travail colossal: il s’appelait «un forçat de la plume». Sa Comédie humaine, qui comprend des scènes de la vie de province (Eugénie Grandet, Le lys dans la vallée), de la vie privée (Le père Goriot), de la vie parisienne (César Birotteau, La cousine Bette, Le cousin Pons), de la vie politique (Une ténébreuse affaire, Le député d’Arcis), de la vie militaire (Les Chouans), de la vie de campagne (Le curé de village, Le médecin de campagne, Les paysans), romans auxquels on doit ajouter beaucoup de contes (Contes drolatiques, Contes philosophiques) et des livres d’analyse, est une grandiose boîte de Pandore, où bouillonnent les douleurs, les tendresses, les misères, les maux, la vie entière de l’humanité.

  On a de la peine à classer cet écrivain, à le renfermer dans une école littéraire: au fond, il n’appartient qu’à lui-même. «C’est une force de la nature» disait Michelet, et Baudelaire le définissait un «visionnaire passionné». Ce titan du roman est romantique comme il est réaliste ou naturaliste, car il est fait pour les tirades lyriques et pour exagérer les traits que l’observation lui fournit, pour agrandir énormément les rêves des hommes et leur communiquer toutes les vibrations sentimentales de son âme; et il est né aussi pour regarder inexorablement au fond du cœur humain et pour peindre les hommes dans leurs vérités les plus révoltantes. La foule de ses personnages, c’est l’humanité de toujours, avec ses bontés et ses abjections, ses paradis et ses enfers jusqu’à la fin du monde. Cette Comédie n’est seulement pas le plus vaste tableau de mœurs de la société française de la fin du premier Empire au gouvernement de Louis Philippe; c’est un tableau qui dépasse son époque et n’a pas de limites déterminables. L’amour de l’argent et de la science, de la gloire et du pouvoir s’y trouvent comme dans un cadre temporel illimité; la jalousie et l’avarice, l’ambition et l’amour sous toutes ses formes y entrent comme les éternelles maladies de l’humanité; passions et faiblesses sans date de mort, ni de naissance, dans cette peinture gigantesque de tous les milieux et de toutes les professions, où Victor Hugo voyait quelque chose «d’effaré et de terrible mêlé au réel».

  Au théâtre Balzac donna Mercadet, une belle comédie digne de Molière, dont le protagoniste est le type de l’homme d’affaires sans scrupules. Même au théâtre Balzac porte la puissance de son observation et de son sentiment de la réalité; cette vie extraordinaire que communiquait à tous ses personnages le Napoléon du roman. […].



  Giovanni Macchia, Eclisse di un romanziere, «Corriere della Sera», Milano, Anno 88, 8 maggio 1962, p. 3.

 

  Su: Alain Robbe-Grillet.

 

  Per Robbe-Grillet. il romanzo significava soprattutto un campo pressoché illimitato per artifici tecnici, di composizione, di metodo, nella sua superficie e nella sua misura. Alcuni parlarono di narrativa fenomenologica. Sdegnoso di problemi d’anima, d’ideologie, di qualsiasi realtà sociale (il sogno di Balzac). fuori dell’«assurdo» e della «nausea» (Camus e Sartre), egli somigliava ad un giocatore di scacchi che sapesse anche confondere ad arte le regole del giuoco per gettare confusione e sgomento nell’avversario. [...].

  E addio, eroi romantici, subdoli e intelligenti. Addio, Vautrin e Rastignac. Forse non è lontano il giorno in cui svanirete del tutto, come la «figura» dalla pittura.



  Giovanni Macchia, Il mito di Parigi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 88, 24 settembre 1962, p. 3.

 

  Si deve a questa «mitizzazione». a questo tentativo di far divenire allegoria quello che si ha sotto gli occhi, il carattere eccezionale e fantastico del «realismo» di un Balzac e di un Baudelaire e anche di un Hugo (il quale riusciva modernamente a sentire un fascino misterioso fin nei grandi muri che tagliano ad angolo retto immensi campi abbandonati). E’ superfluo dare esempi in questo senso della poesia di Baudelaire. Ma sarebbe difficile seguire nei romanzi di Balzac il procedimento analitico e razionale di uno studio di costumi. Ogni cosa fermenta dietro quei suoi campioni d’umanità che hanno la forza delle apparizioni. Tutti i suoi personaggi, fin le portinaie. hanno «du génie», diceva Baudelaire, cui si deve la definizione del grande romanziere come di un visionario appassionato.



  Padre Giovanni Micoli, Balzac e il Bal de Sceaux. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1962.


 

  Riccardo Morbelli, Intervista in ritardo ... alla Contessa Maffei, «Stampa Sera», Torino, Anno 94, Numero 159, 17-18 Luglio 1962, p. 3; 1 ill.

 

  L’articolo è corredato di una vignetta di Apolloni: Balzac, ovvero quando i grandi scrittori facevano sentire il loro peso.

 

 

  Roland Mortier, Le destin de l’artiste dans la «Comédie» balzacienne, «Studi Francesi», Torino, 18, Anno VI, fasc. 3, settembre-dicembre 1962, pp. 488-494.

 

 Si lui-même, le romancier fécond, l’infatigable créateur de destins et de mythes ne l’a pas éprouvé jusqu’à ses dernières années, Balzac n’en a pas moins évoqué à diverses reprises le drame de la stérilité artistique, le «transparent glacier des vols qui n’ont pas fui».

  De tous les problèmes qui assaillent l’écrivain, celui-là certes est le plus personnel, souvent aussi le plus angoissant. L’artiste n’accède à sa pleine dignité que dans l’œuvre réalisée, au-delà des tâtonnements et des reprises, lorsque l’ébauche encore informe a pris corps et s’est fixée. Il lui faut vaincre, pour cela, la résistance de la matière, ou, s’il est écrivain, celle du langage. Affaire de volonté, d’insistance têtue, de sourde obstination. Balzac ne croit pas aux vertus de la facilité. L’œuvre, en un sens, ne témoigne pas seulement du génie de son créateur; elle porte aussi la marque de son énergie et de son courage opiniâtre. L’artiste ne saurait avoir qu’une éthique: sa responsabilité envers lui-même, ou, plus précisément, à l’égard de l’œuvre qu’il porte en lui et qu’il lui appartient de conduire à son terme.

  Balzac est le premier, en France, qui ait introduit dans la fiction littéraire le personnage de l’artiste créateur, faisant ainsi de l’art à la fois le sujet et l’objet d’une même œuvre et construisant par là une littérature «au second degré». Malgré les apparences, ce nouveau type de fiction ne doit presque rien au Künstlerroman imaginé par le romantisme allemand, ce «roman de l’artiste» dont Josef Berglinger et Franz Sternbald restent les prototypes. Il ne s’agit pas, dans l’esprit de Balzac, de susciter ou de répandre le culte d’un art tenu pour divin, de décrire la naissance de l’artiste, sa formation et son accomplissement ou de faire de lui le grand-prêtre d’une nouvelle religion. A l’exaltation lyrique et sentimentale, il substitue une vision tragique, tournée vers le problème central, celui de la parturition, du passage de «la Conception» à «l’Exécution», pour reprendre les termes qu’il affectionne. Le propos du romancier n’est pas de diviniser l’artiste: ce serait le travestir ou le figer dans une image d’Epinal. Toute création, Balzac le sait, est un drame et le drame de l’artiste s’intègre tout naturellement dans une vision dramatique du monde et de la société. Toute création est aussi rupture, arrachement et dépassement successifs: le rêve et l’extase lui conviennent mal. L’œuvre naît de la souffrance et du renoncement.

  Il n’est donc pas surprenant qu’il y ait plus d’artistes manqués que de créateurs heureux dans le foisonnant univers de la Comédie Humaine. […].

  Frenhofer, Gambara, Lousteau, Steinbock : autant de ratés plus ou moins géniaux. L’artiste serait-il donc voué à l’échec dans la perspective du roman balzacien? En tout cas, l’artiste manqué s’inscrit avec plus de bonheur dans la structure générale d’une «comédie humaine». Le créateur heureux vu par Balzac semble ne pas avoir d’histoire, d’histoire interne du moins, car sa carrière nous est rapportée par le menu. D’Arthez est à la fois un homme intègre et un créateur heureux, mais il est vu du dehors, par les yeux respectueux de Lucien ou par le regard admiratif de la princesse de Cadignan.

  Ou bien il parie du roman, il s’en fait le théoricien comme dans son entretien sur la technique de Scott avec Lucien de Rubempré (IV, 649-50). On croit entendre Balzac lui-même discutant in abstracto du roman moderne, mais on ne voit pas le romancier aux prises avec les affres de la création littéraire. D’Arthez est un «être supérieur», son front porte «le sceau d’un génie spécial», il écrit «une belle œuvre», un livre «sublime», «une œuvre psychologique et de haute portée»: mais nous devons croire Balzac sur parole et faire foi à ses déclarations. D’Arthez, créateur heureux, embarrasse visiblement le romancier que nous avions vu si à l’aise pour analyser les faiblesses de Paquita la Sévillane et les ridicules d’Olympia ou les vengeances romaines. N’est-il pas significatif que Balzac s’empresse d’oublier l’écrivain en d’Arthez pour faire de lui un penseur politique et un amoureux, la conscience de la Droite légitimiste, le rédempteur de Diane de Maufrigneuse?

  Canalis, lui aussi, est avant tout un caractère et un destin. Son personnage de créateur est «donné» plutôt que montré. L’œuvre de Canalis est faite, elle est derrière lui et les cinq volumes d’Oeuvres complètes en sont la forme matérialisée. L’écrivain est ici un homme «arrivé», avec ses mesquineries et ses ridicules: ce n’est plus un créateur. Canalis lit ses œuvres, parie de l’art, disserte sur le génie, mais son œuvre, comme celle de d’Arthez, reste dans le vague, elle n’est qu’une sorte de présupposé.

  La situation de l’art, dans l’œuvre de Balzac, est paradoxale en ce sens qu’il ne l’intéresse que dans la mesure où il avorte, où il s’enlise, où il se détruit parfois en voulant aller au-delà des limites humaines. […].

  En dernière analyse, l’image la plus haute du génie dans la Comédie Humaine s’incarne dans l’énigmatique Z. Marcas: autant dire qu’elle se résorbe dans le mystère et débouche sur la mort. La haute et pure ambition de Marcas ne saurait s’accommoder des médiocres compromis de la vie politique: son génie léonin est voué à l’échec, d’emblée semble-t-il […].

  Le drame de Marcas est évidemment celui de Balzac et celui de tout génie créateur. Encore Marcas est-il vaincu par des forces qui lui sont extérieures: abjection du monde, lâcheté des politiciens, apathie des masses. Mais il arrive que le créateur soit atteint au plus profond de lui-même par des coups plus obscurs et plus insidieux: c’est le drame de la stérilité et de l’impuissance. La volonté, cette fois, n’est plus en cause, mais la vitalité même d’une pensée et d’une imagination. Balzac a vécu le drame dans sa chair et dans son esprit, trop intensément sans doute et avec trop de secrète horreur pour en faire une matière littéraire. Après 1842, les cris de détresse et d’épouvante se multiplient dans sa correspondance […].

  Possédé par ses monstres, il lui faut les exorciser jusqu’au bout et sans relâche. Seule la mort peut venir foudroyer et réduire au silence une nature aussi spontanément fabulatrice. A la limite, la tragédie de l’artiste n’est plus qu’un aspect privilégié de la tragédie de notre finitude et de notre hantise d’absolu.

 

 

  Luca Normanno, Un nuovo studio su Balzac, «Culture française», Bari, Anno IX, 1962, pp. 87-89.

 

  Nel romanzo La Duchesse de Langeais, che è del 1833, Balzac mette a fuoco una serrata analisi ed anzi una vera e propria requisitoria contro l’aristocrazia francese: agli esponenti del Faubourg Saint-Germain Balzac rimprovera, in maniera generale, di non aver affatto inteso il rôle sociale e politico che essi avrebbero dovuto assumere nelle particolari contingenze storiche della Francia post-napoleonica; egli mette in luce come, appunto per la mancanza di solide qualità etico-politiche, quella classe sia entrata in una lenta agonia. Ora, come spiegare che un «impenitente legittimista» abbia rappresentato la classe patrizia con così grande severità? Come metter d’accordo l’ultraconservatorismo politico di Balzac con la sua obbiettiva e spietata analisi dei conflitti e delle realtà sociali?

  Merito di un recente studio di Jean-Hervé Donnard[6] è quello di aver riaffrontato il problema dalla base, cercando cioè di seguire ab initio la formazione ideologica del grande romanziere, e di vederla in stretta connessione con gli avvenimenti ed i movimenti di pensiero dell’epoca; ne è venuto fuori un grosso volume, denso dì dottrina e di riflessioni penetranti, il quale degnamente si colloca accanto agli altri importanti studi balzacchiani che hanno visto la luce quest’anno, nonché accanto ai fondamentali lavori che già il Guyon e il Pradalié, pur partendo da diversi angoli visuali, avevano dedicato all’argomento.

  Il Donnard inizia col chiedersi se il romanziere, descrivendo la situazione materiale e morale delle diverse classi sociali, abbia fedelmente interpretato la realtà obbiettiva, e se i fatti storici, con la loro stessa violenta evidenza, non l’abbiano indotto a modificare le sue opinioni economiche e politiche. Per risolvere questi problemi, egli suddivide il suo lavoro in due parti. Nella prima (Les classes mouvantes) egli studia l’evolversi dell’atteggiamento di Balzac nei confronti delle varie classi sociali (aristocrazia e clero, borghesia, proletariato), in stretta concomitanza con la loro stessa evoluzione storica e quindi con gli avvenimenti, così importanti, degli anni 1815-1848. Nella seconda parte (Les classes dominantes), l’A. concentra la sua analisi sulla classe che più frequentemente di ogni altra ha costituito l’oggetto dell’arte balzacchiana, e cioè la borghesia, studiata da tre diversi punti di vista: la potenza economica che ne ha assicurato il trionfo, la conquista del potere politico e della macchina dello Stato, le forze intellettuali e culturali che ha saputo subordinare al proprio predominio.

  Di tutte le classi sociali Balzac vede con lucido acume la realtà obbiettiva e le linee di svolgimento. Un attento confronto dei testi di Balzac con documenti e testimonianze del tempo, dimostra quanto Balzac vedesse giusto e come la sua trasposizione artistica fosse, in generale, «fedele», e cioè partisse sempre dai concreti dati di fatto della situazione economico-sociale del momento. Così, egli rimprovera all’aristocrazia non solo, sul piano morale e culturale, quel «vide de l’esprit et de l’âme» che costituiva già l’oggetto della sferzante satira di Stendhal, ma anche, sul piano rigorosamente economico, la ricerca ambiziosa e snobistica di posti lucrativi e di promozioni abusive (come nel caso di quell’ex emigrato del romanzo La Bourse, il quale per subdole vie è riuscito a farsi nominare viceammiraglio: «ses navigations terrestres à travers l’Allemagne et la Russie — commenta argutamente Balzac — lui avaient été comptées comme des campagnes navales» ), il traffico del «nome» concepito come valeur matrimoniale, il riacquisto dei beni confiscati, pretesto ad operazioni finanziarie di liceità non sempre rigorosa, l’eccessivo dispendio e la sostanziale improduttività. «Tout tend à prouver que Balzac — scrive giustamente l’A. — a été sévère mais juste à l’égard de la noblesse»: nè certamente i legittimisti gli furono grati di questa sua franchezza, se è vero che l’Echo de la Jeune France interruppe bruscamente la pubblicazione della Duchesse de Langeais, e che La Quotidienne riservò al Lys dans la Vallée accoglienze non certo calorose.

  Nè le altre classi sociali sono guardate da Balzac con maggior tenerezza. Il proletariato, sia agricolo che industriale, gli ispira diffidenza. Egli è indubbiamente capace di rappresentare, in pagine di potente realismo, la miseria e l’oppressione dei ceti diseredati; ed è certamente aperto all’influsso della letteratura filantropica più illuminata del tempo; ma, specialmente a partire dal 1838, egli perde ogni fiducia in una stabile pace sociale, sia per la crisi economica che scuote dal profondo le gracili fondamenta della Monarchia di Luglio, sia (e qui le osservazioni dell’A. ci sembrano particolarmente acute) per il contemporaneo diffondersi delle dottrine socialistiche in seno alle masse operaie: onde l’atteggiamento reazionario, che lo scrittore assumerà nel 1848, e che, per altro, non nascerà da un’ottusa e miope difesa di interessi borghesi, poiché appunto della borghesia Balzac saprà rappresentare, con potenza ineguagliabile, le interne contraddizioni e le profonde tare, denunciandone con spietata lucidità le operazioni fraudolenti, le illegali speculazioni, la sfrenata sete di potere, la corruzione elettorale, l’invadente apparato burocratico, l’asservimento del mondo della cultura.

  Tuttavia, una soluzione dei difficili problemi, ed anzi della profonda crisi della società francese post-napoleonica, Balzac la vede, nonostante il giovanile liberalismo, non certo in un rivoluzionario riscatto della classe operaia, nella costruzione, cioè, di una «società nuova», ma, al contrario, in una rigorosa difesa della proprietà privata, in un ritorno al droit d’aînesse che permetta una lotta contro il frazionamento dei domaines e quindi una politica di bassi prezzi agricoli e, di conseguenza, un abbassamento del salario industriale. In altri termini, l’ultralegittimismo di Balzac, lungi dal significare miope difesa di determinati interessi, intendeva, pur secondo le direttive di un utopistico assolutismo monarchico, prospettare una soluzione coerente ed organica della crisi economico-sociale della Francia, di cui lo scrittore aveva una così lucida e consapevole visione. Non c’è quindi contrasto di fondo fra le idee teoriche di Balzac e la sua opera di romanziere «sociale»: le idee politiche dell’autore delle Illusions perdues scaturivano direttamente dalla sua spietata ed amara visione delle cose[7].

  Nessuna contraddizione, dunque. Tuttavia, a mo’ di conclusione, e anziché soffermarsi su affinità con Maurras che ci lasciano, a dir poco, alquanto perplessi, sarebbe stato opportuno che l’A. facesse vedere come la Comédie Humaine, coerente fin che si vuole con l’ideologia del suo prodigioso creatore, si presenti oggi ai lettori su di un’onda ben più lunga, che non la teoria politica reazionaria da cui è nata e che la pervade. Poiché il sistema politico sognato da Balzac era sostanzialmente utopistico, mentre le indagini e le analisi contenute nei suoi romanzi riescono oggi più che mai illuminanti, e sembrano quasi costituire un terreno fecondo, un valido e probante argomento per i più ardimentosi piani di riforma e per le più lungimiranti prospettive. Il che ci fa capire la simpatia che per Balzac nutrirono Engels e Marx, nonché 1 atteggiamento di un Lukacs, il quale ha collocato Balzac tra i maestri del realismo, in un gruppo di saggi che nel libro del Donnard non troviamo citati, e di cui invece sarebbe stato opportuno che l’A. prendesse visione.

 

 

  Alessandro Pellegrini, Il romanzo di Balzac, in Dalla «sensibilità» al Nichilismo, Milano, Feltrinelli Editore, 1962, pp. 235-250.

 

  Tranne qualche variante formale, è riprodotto il testo del saggio introduttivo al volume: H. de Balzac, Due studi di donna [...], Milano, Bompiani, 1944. A p. 250, è inserita una nota che non figurava nel testo segnalato in precedenza e che qui trascriviamo integralmente:

 

  La critica balzacchiana attuale si diffonde a parlare del realismo di Balzac; e infatti, per quanto si debba concedere alla nozione baudelairiana di un Balzac visionario, non è lecito trascurarne il realismo, nella interpretazione che ad esempio ne dava Erich Auerbach nel volume: Mimesis - Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Francke-Verlag, Bern 1948; ora in edizione italiana, Einaudi 1956. Non occorre soggiungere che il realismo non implica affatto l’accettazione di un romanzo sociale come “schema didascalico”, secondo l’osservazione del Croce; e infatti il realismo è propriamente il modo della visione.

  Nondimeno mi sembra eccessivo il tentativo di un acuto critico italiano, Pietro Paolo Trompeo (cfr. il volume: Le pantofole (sic) di vetro, Roma 1952), che rilevando un dissidio in Balzac fra il moralista e il poeta e giudicandolo “narratore ineguale, poeta a sbalzi, moralista compromesso dal voler troppo provare”, concludeva a chiedersi se Balzac non fosse per avventura uno storico, un memorialista della società francese della prima metà dell’Ottocento. Dobbiamo per nostro conto da una simile proposizione dedurre soltanto che la concezione estetica balzacchiana era estranea al rigore critico della tradizione francese, non riprendendosi essa ai criteri sanciti dalla classicità, anche perché a quei criteri il romanzo si sottrae; il romanzo è ad un tempo storia, anzi memoriale, e narrazione e riflessione moralistica in un’unica sintesi.

  La critica balzacchiana doveva ovviamente rilevare l’importanza storica dell’opera, e ciò non impedisce che la critica possa “discernere, nel quadro dell’epopea, le voci puramente liriche”, secondo l’osservazione di Paolo Russo in un suo studio: Primo inventario della fortuna di Balzac in Italia, in “Belfagor”, fasc. 5, Firenze 1959. Ad ogni modo si vuol qui osservare che l’interpretazione storica e quella rigorosamente estetica, e quella, che al modo come il Russo richiede, rilevando le voci puramente liriche, esalta in Balzac il “poeta dolente degli umili e dei vinti, poeta degli sconfitti della storia, ai quali egli non tralasciò mai di esprimere, nella forma che gli era propria, la propria sommessa condoglianza”, nessuna interpretazione insomma può escludere quella visione sostanzialmente epica, che Strindberg ad esempio e Hofmannsthal nelle loro pagine su Balzac, accentuavano: per cui il romanziere accetta inevitabile negli accadimenti umani una norma, che sembra essere il destino stesso, impietoso e ad un tempo giusto nella pietà verso i vinti e nel riconoscimento del prevalere della forza, che troverà a sua volta un limite e nel proprio eccedere un giudizio e un contrappasso. La ricerca della norma, che regge il mondo di Balzac e definisce quivi il destino, è il compito della critica.

 

 

  Carlo Pellegrini, Les rapports littéraires entre l’Italie et la France (1815-1848), «Rassegna storica toscana», Volume 8, Fascicolo 2, 1962, pp. 125-138.


  Alcune note sui viaggi e sui soggiorni di Balzac in Italia.



  Alberico Sala, La ragazza dagli occhi d’oro, «Corriere d’informazione», Milano, 23-24 marzo 1962, p. 13.

 

  La storia è tratta da un romanzo di Balzac, una delle scene di vita parigina. Albicocco e Pelegris l’hanno sfoltita e attualizzata.

  Henry De Marsay, il dandy 1834, arbitro della eleganza mascolina, è divenuto Henry Marsay, famoso fotografo di moda, tiranno dell’eleganza femminile. Eleonora di San-Real. gran dama dell’aristocrazia è, nel film, Eleonora San-Real, Léo, corrispondente parigina di una rivista americana. Il potere della stampa ha sostituito quello del denaro. La sempliciotta «figlia dagli occhi d’oro» balzachiana, si è mutata in una studentessa, che vive in un appartamento gremito di oggetti, palpitante di voli di colombe, e in cui è celato un segreto. La ragazza non ha un nome, ma tre, quattro, i più dolci.

  Abbagliano l’eleganza dell’ambiente, la fotografia brillante e tenue, con riflessi, trasparenze, sprazzi di cristalli. il dialogo è intenzionalmente sofisticato, letterario, strambo e scucito. Il mondo un poco assurdo delle case di moda, dei grandi ateliers, in cui si muovono come uccelli le indossatrici, elegantissime, nevrotiche ed assonnate, dove si sperpera la genialità, e si tormentano i sentimenti è presentato con ironia, esaltato e mistificato.

  Dello ambiguo «triangolo» del film. Henry è l’uomo delle due donne, la più anziana si chiama Léo, un nome dal suono mascolino. Il dramma si sbarazza delle soggezioni letterarie, figurative, fotografiche, quando Henry scopre il legame particolare che unisce Léo — di cui è socio e amante ufficiale da una decina d’anni — alla ragazza dagli occhi d’oro, alla quale anch’egli vuol bene.

  A chi toccherà la giovane donna? E’ appena mattina quando Henry e Léo, dopo una corsa pazza, arrivano al rifugio della ragazza dagli occhi d’oro. Ella dorme, tranquilla; fuori, nella foresta, il sole alza la nebbia. Henry fuma una sigaretta presso la macchina e attende che l’ultimo incontro fra le due si consumi. Léo gli aveva chiesto dieci minuti; ne basteranno due. La ragazza dagli occhi d’oro, sorridendo, felice, conferma il suo amore per Henry. E Léo l’uccide. All’urlo dell’assassina, che ha distrutto l’oggetto della sua passione proibita, si mischia il grido degli uccelli stridulo tra i vecchi alberi.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Piccole miserie della vita coniugale. Radiocommedia di Ivan Canciullo dal romanzo omonimo di Honoré de Balzac, Secondo programma, 2 maggio 1962.

 

  Cfr. 1960.


 

  Le Serment. Episodio lirico in due quadri (da Balzac). Adattamento drammatico di Dominique Vincent. Musica di Alexandre Transman [...], Terzo programma, 18 dicembre 1962.

 

  Cfr. 1960.



[1] Cfr. M. Blanchard, La campagne et ses habitants dans l’oeuvre de Balzac – Etude des idées de Balzac sur la grande propriété, Paris, Champion, 1931, p. 376. [N. d. A.].

[2] C. Levi: Cristo si è fermato a Eboli, Ed. Einaudi, Torino 1950, pagg. 119-120.

  Non sembri arbitrario l’accostamento. Balzac è veramente il grande emporio dove singolari anticipazioni si accatastano per la felicità dei ritrovatori. Nelle Scènes ricorrono illuminanti intuizioni. Di marketing: «Produrre è nulla, bisogna vendere» (P. 165). Di economia aziendale: «Giardini pieni d'alberi fioriti richiamano le idee ispirate da una miseria laboriosa». (M, I: [...]). Di filosofia della prassi «dimmi ciò che hai, ti dirò ciò che pensi» (P. 144). E persino di tattica rivoluzionaria, preleninistica: alleanza tra contadini e borghesi finché si tratta di costringere gli aristocratici a lottizzare i possedimenti, poi lotta contro la borghesia per liberarsi dei debiti. (P. 71). [N. d. A.].

[3] Il concetto di capitale umano è chiarissimo nel Curé de village ove si afferma, a proposito degli uomini capaci, «che l'allevamento di questo bestiame di alta razza è una speculazione troppo incerta e protratta nel tempo per essere fatta» (C. 231). [N. d. A.].

[4] Ajoutons qu’il exprime aussi dans cette lettre son admiration pour l’école vénitienne de peinture: «Je suis émerveillé de l’école vénitienne, elle est immense par le coloris, mais fautive par le dessin. Les compositions sont surtout remarquables par la grandeur des idées; on y retrouve tout ce qui a été fait dans les autres écoles». Les noms des peintres vénitiens viendront souvent sous sa plume dans la nouvelle de Massimilla Doni: Titien, Véronèse, Tintoret; et il essaiera de rivaliser avec eux, spécialement avec le Titien, en composant dans sa nouvelle, à plusieurs reprises, des tableaux à leur manière, que ce soit la Cataneo et son amant dans les jardins de son palais (IX, 314), ou la Tinti et Memmi dans la chambre à coucher du jeune prince (p. 327), ou encore la duchesse encadrée dans sa loge comme un portrait (p. 338), recherchant même les tonalités riches et chaudes chères aux peintres de Venise. [N. d. A.].

[5] Son admiration pour la nature de la Suisse sera encore mêlée à Venise, à l’occasion d’une longue métaphore, où le contraste entre deux aspects d’un paysage de montagne en Suisse lui sert à évoquer l’opposition de l’amour de Memmi pour Massimilla, et de la passion sensuelle pour la Tinti (IX, 328, 9). [N. d. A.].

[6] Jean-Hervé Donnard, Balzac. Les réalités économiques et sociales dans «La Comédie Humaine», Paris, A. Colin, 1961, pp. 488. [N. d. A.].

[7] E’ interessane notare che la posizione del Donnard si avvicina singolarmente a quella del sovietico Samarin, il quale in un saggio su Balzac pubblicato nelle «Recherches soviétiques» del novembre 1956 ha scritto che «le légitimisme de Balzac n’était pas tant l’expression de sa sympathie à l’égard de la noblesse, qu’une manifestation d’antipathie à l’égard du règne du parvenu bourgeois, l’expression d’une profonde désillusion devant les résultats de la révolution de 1830». [N. d. A.].

 


Marco Stupazzoni

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