sabato 18 luglio 2020



1961

 



 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Gli allegri racconti. Tutto il teatro. A cura di Gianni Nicoletti, Milano, Ugo Mursia Editore, 1961 («I grandi scrittori d’ogni paese. Serie francese»), pp. XVI-919.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Gianni Nicoletti, Presentazione, pp. IX-XVI. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Gli allegri racconti raccolti dalle Badie di Turrena e messi in luce dal signore di Balzac pel divertimento dei Pantagruelisti e non per altri (1832-1837), pp. 1-405;

  Teatro, pp. 406-914:

  Il Matrimonio a scuola. Tragedia borghese in cinque atti e in prosa, pp. 408-496;

  Vautrin. Dramma in cinque atti, pp. 497-580;

  Le Trappolerie di Quinola. Commedia in cinque atti, in prosa, e preceduta da un prologo, pp. 581-671;

  Pamela Giraud. Lavoro teatrale in cinque atti, pp. 673-731;

  La Matrigna. Dramma intimo in cinque atti e otto quadri, pp. 733-819;

  L’Affarista (Mercadet). Commedia in cinque atti e in prosa. Interamente conforme al manoscritto dell’autore, pp. 821-914.

 

  La traduzione integrale dei Contes drolatiques è quella, già nota, di Aldo Fortuna (1913; 1921; 1950), mentre quella delle pièces balzachiane si deve a Gianni Nicoletti. Esse sono condotte seguendo i testi dell’edizione delle opere complete di Balzac pubblicata dalle Éditions Louis Conard (1912-1940).

 

 

  Alfred de Musset, Honoré de Balzac, Il Diavolo a Parigi. Introduzione e traduzione di Alberto Consiglio. Incisioni e vignette di Gavarni, Meissonier, Bartall (sic), Chaupin e Bertrand, Roma, Canesi Editore, (maggio) 1961 («La Bottega dell’antiquario. Collana diretta da Alberto Consiglio», 12), pp. 126; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Alberto Consiglio, Introduzione, pp. 13-22; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Alfred de Musset, Il ritratto di Mimì Pinson, pp. 25-86, in cui è compreso: Mademoiselle Mimì Pinson. Parole di M. Alfred de Musset, musica di M. Frédéric Bérat;

  Honoré de Balzac, Storia e fisiologia dei Boulevards di Parigi, pp. 87-109;

  Parigi che scompare, pp 111-126.

 

  I testi balzachiani tradotti in lingua italiana e compresi in questo volume: Histoire et physiologie des Boulevards de Paris e Ce qui disparaît de Paris furono pubblicati nella silloge: Le Diable à Paris. Paris et les parisiens dall’editore Jules Hetzel (1846).



  Honoré Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo. Traduzione di Marise Ferro, Milano, Cino del Duca Editore, (giugno) 1961 («I Classici degli Anni Verdi»), pp. 253.

 

  Struttura dell’opera:

 

  [Marise Ferro?], Prefazione, pp. 9-21. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Eugenia Grandet, pp. 3-223;

  Ritratto di donna, pp. 225-236;

  El Verdugo (Il carnefice), pp. 237-250.

 

  Per la traduzione di Eugénie Grandet, cfr. 1950: il romanzo è suddiviso in sei capitoli (seguiti dall’Epilogo) secondo il modello dell’edizione originale Béchet del 1833-1834.

  Seguono le traduzioni di Etude de femme e di El Verdugo; in entrambe non sono riportate le dediche delle rispettive opere: soprattutto la versione italiana del racconto filosofico balzachiano non ci pare sempre fedele e rispettosa del modello originale.

 

 

  Honoré de Balzac, Il giglio nella valle. Traduzione di Anna Ponti, Milano, Rizzoli Editore, (novembre) 1961 («Biblioteca Universale Rizzoli», 1767-1769), pp. 291.


  Struttura dell’opera:

 

  Nota, pp. 5-7;

  Il giglio nella valle, pp. 9-290.


  Il romanzo è suddiviso in tre capitoli secondo un modello anteriore (crediamo Werdet, 1836) all’edizione Charpentier del 1839; non è riportata la dedica a ‘Monsieur J.-B. Nacquart’.

  La traduzione che, del romanzo balzachiano, fornisce Anna Ponti ci pare, in diversi luoghi, piuttosto libera e poco aderente e rispettosa nei confronti del testo originale.

 

 

  Honoré de Balzac, La pantera, in AA.VV., Avventure. Racconti di avventure, a cura di Piero Pieroni e Betty Liberio, illustrazioni di Leo Mattioli, Firenze, Vallecchi Editore, 1962 («I Gabbiani», 2), pp. 539-551.

 

  La traduzione non integralmente riprodotta di Une passion dans le désert è preceduta dalla seguente nota introduttiva:

 

  Tra la prodigiosa pleiade di grandi scrittori francesi del secolo scorso, Honoré de Balzac (1799-1850) fu uno dei più fecondi e dei più eccelsi. Inimitabile maestro di stile, creatore, insieme a Stendhal e a Tolstoi, della narrativa realistica, nessun segreto dell’animo umano gli rimase ignoto. Ogni carattere, ogni passione, ogni destino trovò posto nella Commedia umana in cui egli raccolse la sua immensa produzione di narratore. Ed ogni personaggio è inquadrato in un ambiente storico e ideale preciso, nel suo ambiente — la provincia francese, la Parigi della Rivoluzione, la campagna, i ritrovi dell’aristocrazia, i sobborghi della povera gente, i reggimenti napoleonici — con tanta vigorosa evidenza da assumere un valore universale.

  Il titolo che Balzac volle dare alla sua raccolta ben rivela il suo proposito di fissare il fluire della vita umana in una galleria di tipi e di vicende guardate con occhio solo apparentemente freddo e impartecipe. Vi lavorò per ventun anni senza riposo, notte e giorno, incalzato dalle necessità economiche, ma più ancora dalla sua febbre di creare, di non lasciare nulla di non scoperto e di non detto sulla storia segreta degli uomini. Quest’ansia finì per divorarlo e a soli cinquant’anni il «Napoleone della letteratura», come egli stesso amava definirsi, moriva di un attacco cardiaco, sfinito dalla immane fatica.

  Il racconto che presentiamo narra la storia dell’amicizia tra un soldato e una belva nel cuore del Sahara, ma è qualcosa di più: c’è lo sgomento e l’estasi dell’anima in una solitudine dove la natura si apre in tutta la sua grandezza più elementare e desolante, dove si smarrisce ogni dimensione umana, dove regna «Dio senza gli uomini».

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Giorgio Cingoli, Roma, Editori Riuniti, (settembre) 21961 («I narratori del realismo», 35), pp. 263.

 

  Le omissioni di sequenze testuali rispetto al testo originale che si riscontrano, fin dall’inizio, nella versione italiana che G. Cingoli fornisce di Le Père Goriot, non ci consentono di considerare questa traduzione come un modello esemplare di fedeltà e correttezza:

 

  p. 50. [cfr. Balzac, Le Père Goriot, a cura di Rose Fortassier, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1976, t. III].


  Cependant il s’y rencontre çà et là des douleurs que l’agglomération des vices et des vertus rend grandes et solennelles : à leur aspect, les égoïsmes, les intérêts, s’arrêtent et s’apitoient ; mais l’impression qu’ils en reçoivent est comme un fruit savoureux promptement dévoré. Le char de la civilisation, semblable à celui de l’idole de Jaggernat, à peine retardé par un cœur moins facile à broyer que les autres et qui enraie sa roue, l’a brisé bientôt et continue sa marche glorieuse. Ainsi ferez-vous, […]. [Il corsivo è nostro].

  pp. 7-8. Tuttavia vi si svolgono, talvolta, vicende dolorose che l’impasto di vizi e di virtù rende grandi e solenni: di fronte a loro, gli egoismi e gli interessi scompaiono e la commozione ne prende il posto; per breve tempo, però, ché anch’essa sparisce ben presto, come un frutto saporito rapidamente divorato. La stessa cosa accadrà a voi [...].

 

 p. 51. Nul quartier de Paris n’est plus horrible, ni, disons-le, plus inconnu. La rue Neuve-Sainte-Geneviève surtout est comme un cadre de bronze, le seul qui convienne à ce récit, auquel on ne saurait trop préparer l’intelligence par des couleurs brunes, par des idées graves ; ainsi que, de marche en marche, le jour diminue et le chant du conducteur se creuse, alors que le voyageur descend aux Catacombes. Comparaison vraie ! Qui décidera de ce qui est plus horrible à voir, ou des cœurs desséchés, ou des crânes vides ? La façade de la pension […].

  p. 8. La rue Neuve-Sainte-Géneviève, in particolare, è una tetra cornice che si addice perfettamente a questo racconto, al quale né tinte fosche né gravi pensieri possono predisporre a sufficienza.

  La facciata della pensione [...].

 

 

  Honoré de Balzac, Una figlia d’Eva. Traduzione di Irma Zorzi, Milano, Rizzoli Editore, 1961 («Biblioteca Universale Rizzoli», 1753-1754), pp. 135.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Nota, pp. 5-7. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Una figlia d’Eva, pp. 9-1134.

 

  L’opera è suddivisa in nove capitoli secondo il modello dell’edizione originale (Charpentier, 1839): tale suddivisione sarà eliminata da Balzac nella seconda edizione del romanzo (Furne, 1842), sul cui testo si fonda questa nuova traduzione che riteniamo, nel complesso, corretta.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Nota, in Honoré de Balzac, Una figlia d’Eva ... cit., pp. 5-7.

 

  [...]. Una figlia d’Eva (Une fille d’Eve) pubblicato a puntate sulla «Revue de Paris» nel 1834, dovette essere caro a Balzac se, nel pubblicarlo in volume nel 1839 presso l’editore Souverain, vi tornò sopra apportandovi modifiche di rilievo. Egli stesso, nella prefazione all’edizione del 1839, dice che «le “Scene della vita privata” sarebbero state meno complete senza Una figlia d’Eva». E precisa che tale libro è destinato «a descrivere una situazione nella quale si trovano alcune donne spinte verso una illecita passione da un insieme di circostanze più o meno attenuanti, ma che, non essendosi compromesse in modo troppo grave, sono abbastanza sagge da ritornare alla vita coniugale. Le infelicità della passione hanno insegnato loro le dolcezze di un matrimonio felice».

  Non dramma, dunque, questo racconto che pure il dramma sfiora più volte: ma commedia intima inserita nel ben più drammatico ambiente dell’alta società parigina, nella quale sì scoppiano violenze e scandali, ma appena sfiorati perché ad essi Balzac destinava le «Scene della vita parigina» di cui qui tuttavia compaiono alcuni personaggi fra i quali lo stesso Rastignac.

  Maria Eugenia e Maria Angelica, le due sorelle di cui è narrata la storia, sono ragazze di ceppo borghese, e allevate, fino all’età del matrimonio e del loro ingresso in società, nel più severo ambiente religioso. La prima sposa un ricco banchiere dall’animo freddo e sadico, l’altra sposa un libertino invecchiato che ha deciso di smetterla con la vita galante e che la tratta come una figlia. Le due sorelle si confidano a vicenda le loro pene, e cercano di aiutarsi all’insaputa dei mariti; né la comprensione di Maria Eugenia cessa quando sa la sorella innamorata di un giornalista alla moda. Questa passione, alla quale non sono estranee complicazioni dovute a quei terribili legami d’interessi e di connivenze propri del «gran mondo», nella descrizione dei quali Balzac è maestro, sfocerebbe nello scandalo se il marito di Maria Angelica non dimostrasse a un certo punto una superiore comprensione umana che salva tutto, compreso l’amore.

  Nella breve operetta, pur nella sua trama esile e perfino abusata, si ritrovano tutte le doti migliori di Balzac: profonda penetrazione psicologica, magistrale regìa del gioco scenico, acuta pittura di ambienti, tale da dare un quadro di costume di straordinaria veridicità e potenza; e, anche, un tocco leggero e sereno quasi eccezionale nell’autore della Commedia umana.

 

 

  L’avventura sarda di Honoré de Balzac, «Prospettive meridionali. Mensile del Centro democratico di cultura e di documentazione», Roma, Anno VII, n. 1-2, 1961, pp. 28-30.

 

  Recatosi in Sardegna con lo spirito avventuroso dei cercatori d’oro, rincorrendo un fantasioso sogno di ricchezza, Honoré de Balzac scopre il vero tesoro di quest’isola: il paesaggio selvaggio, il mare che la circonda, il suo popolo, la sua cultura ed i suoi misteri millenari. Questa scoperta rappresenterà per lui un motivo di ricorrente conversazione, un ricordo fascinoso che l’accompagnerà fino alla morte.

 

  Honoré de Balzac amava, è vero, l’Italia tutta, sì da venirvi, nel corso della sua breve esistenza, quattro o cinque volte, cioè sin da quando giovane di venti anni, sperava da sua madre mille scudi per poterla girare interamente a piacer suo dalle Alpi alla Sicilia. Amava le nostre grandi città. Torino e i suoi maestosi portici lo entusiasmavano e dalla finestra di un albergo in piazza Castello manifestava calorosamente, gli fosse accanto M.me Hanska, donna del Nord, o Carolina Marbouty, donna del Sud e vestita da uomo, la sua ammirazione. Né poco più in là, nei salotti delle principesse o duchesse lombarde, si stancava mai di vantare Milano in una apologia che più calorosa non era uscita neppure dal cuore di Stendhal, milanese d’elezione. Di Venezia amò persino la pioggia, ed esaltandola si sbracciava per le strette «calli» in tal modo che con le mani picchiava punti esclamativi nei muri dei vecchi palazzi veneziani.

  Ma, tra le città italiane del settentrione, Genova ebbe la sua preferenza. Là dove Taine non vide bellezza, là dove Henri Heine trovò tutto da criticare, Balzac precedette in ditirambici entusiasmi Gustave Flaubert giovane, che doveva qualche anno dopo innamorarsi di quella grande «città tutta marmi, in mezzo ai quali fioriscono le rose»; Balzac tornò a Genova più volte e vi sostò a lungo tanto da potervi scrivere da cima a fondo, anche un suo non breve racconto: «Honorine». Fu ospite del marchese Pareto. Ma, più che i gentiluomini e gli artisti, amava incontrare a Genova uomini d’affari, nababbi dell’alta finanza, armatori e grandi commercianti. Ché a Genova veniva non per i suoi romanzi di cui sempre aveva piena la testa, ma per il suo portafogli che, quanto più egli scrivesse e guadagnasse, più era ostinatamente vuoto. E proprio lì, a Genova, aveva trovato quello ch’egli credeva essere l’uomo del suo destino finanziario. Persuaso ormai dell’impossibilità di arricchire con tipografie o teatri, imprese editoriali o giornalistiche, — esperimenti fatti e risolti in una serie di lacrimevoli catastrofi — tutte le sue speranze, quelle speranze che in Balzac eran sempre e sùbito certezze, aveva riposto sul cittadino genovese Giuseppe Pezzi; il quale gli aveva promesso — così Balzac assicurava — di associarlo ad una delle più grandi speculazioni finanziarie del secolo. Era persuaso che il suo periodo aureo sarebbe stato alimentato da certe miniere d’argento che, in Sardegna, stavano da gran tempo, cioè dall’età dei Romani, ad aspettare che un romanziere francese carico di cambiali si decidesse a riscoprirle per pagare fino all’ultimo centesimo i suoi pertinaci creditori.

  Si trattava, in breve, di fondere le scorie argentifere che abbondavano — il nome lo dice — nell’Argentiera, così da poter estrarre da tante scorie neglette dai Romani un po’ di prezioso metallo. Quando, per la prima volta, sentì parlare di miniere e di scorie d’argento e d’Argentiera, ai genovesi prima e poche settimane dopo ai Francesi, Balzac parve addirittura impazzito. A sentir lui, il colpo maestro era già assicurato; e da Parigi comincia a chiedere alla Corte piemontese la facoltà di mettere piede in Sardegna e di impiantare nell’isola lo sfruttamento metodico delle trascurate miniere. Senonché il ciclo d’improvviso s'annuvola. Non vedendo venire la sospirata licenza, Balzac s’infuria, torna a Genova e accusa il Pezzi di aver brigato da solo per ottenere la regia approvazione, mentre pare — e così risulta da testimonianze non sospette dell’epoca — che le cose non siano andate perfettamente nel modo riferito dal romanziere. Cioè, «le affermazioni del Balzac doversi accogliere con molta cautela; non essendo infatti possibile che il Pezzi, già in trattative col Governo, uomo onesto e stimato, non bisognoso d’aiuti economici e morali, e buon conoscitore degli uomini, abbia preso impegni con lui per uno affare in cooperazione. Forse si tenne tra loro un discorso, più che altro accademico e informativo a proposito della Sardegna, e il fantasioso francese s’immaginò di poter trarre argomento per una proposta di società, colla bramosia d’un lucro effettivo, da quelle che furono soltanto parole».

  Comunque all’improvviso Balzac decide di recarsi in Sardegna. Certo quando vi arriva ha «la non gradita sorpresa di scoprire che il Pezzi ha stipulato per conto proprio il contratto col governo, e allora corre alla vecchia miniera dell’Argentiera, dove prende alcuni campioni del materiale quivi ammassato, tornando così a rianimare nella sua fantasia nuovi progetti che immagina gli debbono procurare le parecchie migliaia di lire necessarie per togliersi d’intorno i creditori». Le testimonianze dell’epoca ci dicono anche che Balzac torna a Genova con le scorie argentifere. Ha preso appunti su appunti. Come Mérimée scrive romanzi còrsi, lui vuole scrivere romanzi sardi. Poco è mancato che precedesse di nonvant’anni (sic) Grazia Deledda. Glielo ha messo in mente un italiano, il Marchese Boyl, il quale ne riferisce a Pasquale Tola: «Gli ho parlato lungamente della nostra povera isola e l’ho incoraggiato a conoscere i costumi. Non si è mostrato affatto contrario al progetto. Ed io lo desidero con tutto il cuore, perché son certo che tornerebbe di gran vantaggio per la Sardegna se un uomo di tale ingegno volesse farla conoscere al mondo come un’isola di grande interesse e degna di migliore sorte. Se tutti oggi desiderano visitare la Scozia, lo si deve a Walter Scott che con tanta perizia ne ha descritto i luoghi ...».

  Delegato così dal destino a scoprire un’isola nelle sue ignote meraviglie, Balzac premedita romanzi con complicate storie di briganti e d’amorose vendette. Ma non si decide mai a mettersi all’opera. Rimanda al tempo in cui sarà ricco. E la ricchezza è sempre laggiù, in Sardegna, mentre i creditori, assillanti, minacciosi, iracondi, sono lì, a Parigi, attorno a lui, da ogni parte, sino al punto d’impedirgli di rientrare in casa e di ridurlo a scrivere nascosto nel retrobottega del suo sarto. Comunque dopo esser riuscito con gran fatica a raccogliere un po’ di denaro («Dannazione! Il denaro, facile per gli altri, è stato sempre difficile per me», scrive a M.me Hanska) lascia Parigi nella prima quindicina del 1842 e, dopo aver toccato Marsiglia e Tolone, si prepara ad imbarcarsi per la Sardegna; questa volta deciso a far da solo ed a tornare indietro con le bisacce colme d’argento. Prima della partenza mette al corrente M.me Hanska dei suoi progetti: «Questa sera, alle dieci, su una piccola imbarcazione, e poi, tra pochi giorni, ad Alghero, piccolo porto che potete trovare sulla carta della Sardegna; là, tra Alghero e Sassari, seconda capitale della isola, si trova il distretto dell’Argentiera, dove mi reco a visitare delle miniere abbandonate dall’epoca della scoperta dell’America. Non posso dirvi di più; quando leggerete questa mia nel salottino del vostro bel Vierzsehovnia (sic), io sarò uno sciocco o un uomo di spirito, forse né l’uno né l’altro, ma semplicemente un ambizioso perduto dietro ingegnose speranze».

  Vorrebbe andare in economia. Ma il viaggio in economia esige quindici giorni di tempo. Quindi scialo e via: in Sardegna in capo a tre giorni, passando per la Corsica. Invece no: finisce su una barca per il trasporto dei coralli che resta in mare cinque giorni. E scrive: «Sono qui, dopo cinque giorni di buona navigazione in una barca di pescatori di coralli diretta in Africa; ma ho conosciuto tutte le durezze cui i marinai vanno incontro. Non abbiamo avuto altro cibo che il pesce che riuscivamo a tirar su coliamo e che facevamo bollire per cavarne fuori una detestabile zuppa. Ho dovuto dormire sul ponte, all’aria aperta, avvolto nella coperta, la testa appoggiata sui cordami; e, in posto agli insetti, che, mi dicono, abbondano in Sardegna». Ma i guai non finiscono. In continente c’è il colera. Quindi non si può sbarcare. «... Siamo costretti a restare altri cinque giorni in quarantena su questa piccola imbarcazione di fronte al porto; e questi selvaggi non vogliono darci nulla. L’Africa comincia qui: da quel che ho potuto intravedere, gli abitanti sono ridotti ad uno stato misero, seminudi e abbronzati come Etiopi ...». E non vogliono, «quei dannati del porto», sebbene il vento soffi e la barca balli, farli attraccare ad un anello del molo. «... Ma un marinaio si è buttato in acqua ed ha legato una corda ad una catena. E’ accorso il Governatore, urlante: ‘Si sciolga la corda’; ‘Non si può — abbiamo risposto — c’è pessimo mare’. E l’altro: ‘Si sciolga la corda!’. Allora dalla barca hanno gridato: ’C’è a bordo il signor Balzac, il famoso romanziere’. ’Me ne infischio. Si sciolga la corda!’. Mi sono fatto avanti ed ho cercato di farmi sentire: ‘Signor Governatore, io sono Balzac e devo scendere a terra’. E il selvaggio non ha trovato altro da dire; ’Me ne dispiace. Io sono il Governatore e devo far rispettare i miri ordini’ ...».

  Finalmente Balzac, superati i cinque giorni, scende a terra, ma di pessimo umore e le impressioni scritte a M.me Hanska sono poco favorevoli a sardi e Sardegna: «... Ho visto cose quali si raccontano degli Uroni e dei Polinesiani. Un reame completamente deserto, di autentici selvaggi, senza alcuna cultura, una immensità di terre nude come un deserto, nel quale brucano alcune capre; una foresta vergine che ho attraversato a cavallo, e grandissime solitudini senza una sola abitazione. Uomini e donne nudi, con soltanto un po’ di tela ai fianchi; ammassi di creature come greggi, sotto il sole, lungo i muri delle loro tane, starsene immobili, nel giorno di Pasqua. E poi, case senza camini, col fuoco acceso in mezzo alle stanze, piene di fuliggine. E donne intente a macinare e impastare il loro pane di ghiande e argilla, e uomini occupati solo a guidare i loro armenti e le loro capre in un terreno incolto ...».

  Ora, per quanto oltre cento anni fa la Sardegna potesse essere indietro nel suo progresso, salta agli occhi come il solo dispetto e la contrarietà facessero vedere a Balzac uomini e donne appena ricoperti d’una pezzuola ai fianchi, e donne intente a preparare il pane impastato di ghiande e d’argilla. E la prova di ciò è Balzac stesso a darcela: l’umore si rasserena andando verso Sassari e poi, di là, alla Argentiera: «... E’ primavera e in questo angolo estremo pare che la Sardegna ripieghi felice al mare. La terra è la più fertile del mondo. Non più elci e sughereti, non più le dure siepi di fichi d’india. Qua e là spuntano palmizi d’alto fusto e steli d’asfodelo. E poi le viti, gli ulivi, i mandorli a distesa vengono lieti incontro, inclinati dal mare. Le case sono curiose e pittoresche ...». Gli uomini gli sembrano ora forti e animosi. E se il popolo è rude, non bisogna dimenticare che rudezza è spesso, se non sempre, segno di potenza. «... Né s’ha da dimenticare che primitivo è sinonimo distintivo, di vitale, di naturale, e cioè la schiettezza che la vita umana, artificiosa, viziata, corrotta, ritrova solamente alle vette o alle radici dell’uomo ...».

  Com’è mutata l’opinione di Monsieur Balzac dal suo approdo nell’isola! Ma il viaggio disagiato, pur non senza interessi, da Alghero a Sassari e da Sassari all’Argentiera è vano. Anche il genovese Pezzi, con la sua famosa concessione, scorie ne trova, ma argento no. E finalmente Balzac apre gli occhi: ha creduto una volta di più possibile l’impossibile, ha una volta di più scambiato il fantastico col reale, come quando ristampando La Fontaine già si vedeva il più grande editore d’Europa, o come quando, tentato dalla diplomazia, non metteva in dubbio che, entro sei mesi, sarebbe stato nominato ministro degli esteri. Dura la via del ritorno! La malinconia è grande. E il malumore è tale che, risalito a Milano, si sfoga anche a dir male delle donne italiane. Ma le nuvole non sono mai, sul suo orizzonte, di lunga durata; e due giorni dopo, le milanesi che egli incontra alla Scala e nel salotto di casa Maffei gli sembrano daccapo le più adorabili creature del mondo. Tuttavia non si dà pace al pensiero che la Sardegna l’abbia deluso. E una sera scoppia al caffè, tra italiani: «Ma che storia è questa? Perché voi chiamate Argentiera un luogo dove poi non si trova un solo filo d’argento? E’ forse questo il modo di illudere i galantuomini? Se in Francia ci fosse una provincia chiamata Dorata o Indorata ...». Ma un milanese interrompe: «Non ci si troverebbe, signor Balzac, neppure un luigi!». E Balzac: «Sapete perché? Perché ci sarei stato subito io a raccoglierli tutti ...».

  Galeotto della letteratura lungo tutta una vita pigra e sedentaria, le sue corse a cavallo attraverso la Sardegna e i suoi monti, per viottoli di montagna e sentieri impervii, alla ricerca del mitico argento, rimangono l’avventura esotica della sua esistenza borghese. La finestra aperta s l’orizzonte del sogno. A chi mai non ha egli raccontato i suoi miraggi sardi? A Nohant, ospite di Giorgio Sand, le faceva fare l’alba prospettandole da ogni lato il suo più che sicuro avvenire di milionario. In Polonia, a M.me Hanska, ricca e vedova che sta per sposarlo, sospira ancora con nostalgica malinconia: «Avrei potuto essere ricco anch’io. La Sardegna ... i Romani ... le miniere della Nurra ...». E in punto di morte, si volge a Victor Hugo con un lungo sguardo discreto: «Plus rien à faire». Il medico gli ha proibito dci leggere e di scrivere. Ma ancora il gran sogno è in bocca all’anima sua e due nomi escono dalle sue labbra violacee: «L’Argentiera, la Sardegna». Pochi mesi prima, da Parigi, ad un amico milanese aveva scritto queste parole, le ultime, il testamento del visionario: «Quando avrò un minuto di respiro voglio riandare in Sardegna con voi. Mi ostino a credere che lì è ancora nascosta la mia fortuna. Solo la Sardegna potrà quello che la ‘Commedia Umana’ non ha potuto farmi pari a Creso, darmi le ricchezze inesauribili, mettermi in gara col barone Rothschild ... che è il più potente e il più felice degli uomini ...».

 

 

  Anna Banti, Picon: «Balzac», in Opinioni, Milano, Il Saggiatore, 1961 («La Cultura», Volume XLVI), pp. 172-177.

 

  Cfr. 1956.

 

 

  Aurora Beniamino, Balzac e la moda, Programma nazionale, 28-29 dicembre 1961.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Francesco Bernardelli, Voci romantiche, «La Stampa», Torino, Anno 95, Numero 146, 21 giugno 1961, p. 3.

 

  L’editore Garnier ha intrapreso la pubblicazione della Correspondance di Honoré de Balzac che, escluse le celeberrime e amorose Lettres à l’Etrangère, comprenderà quattro grossi volumi. Il primo va dal 1809 al 1832: periodo di giovinezza, tormentato, animoso, con un certo piglio, tra vero e rettorico, di genio che matura, e vuole esplodere.

  Il curatore dell’edizione, Roger Pierrot, osserva che a differenza degli epistolografi del ’600 e del ‘700 e del suo contemporaneo Mérimée, Balzac non pensava affatto che le sue lettere dovessero circolare, non ne curava lo stile; già intento alla creazione di uno straordinario mondo romanzesco, riservava l’allucinante suo potere di osservazione e di evocazione all’opera narrativa. Nelle lettere non c’è descrizione dei costumi del tempo, non v’è proposito letterario, ma v’è, brillantissima, la testimonianza di un uomo al lavoro. Quale uomo. A leggere così, abbandonandosi alla curiosità, mentre appaiono i titoli affascinanti: la Physiologie du mariage, La femme de trente ans, Le Médecin de campagne, par proprio di entrare nella sua intimità, di coglierne i segreti.

  Sincero? meno sincero? Balzac giovane, e particolarmente nelle lettere alla sorella Laura, senza dubbio si atteggia un poco, vuole essere brioso, spiritoso, ameno, certe tirate paiono fatte per sorprendere la cara corrispondente, per farsi vedere disinvolto, per attenuare od ombreggiare, tra la burla e l’enfasi, il desiderio di gloria e d’amore. Ma proprio per questo «apprendistato» di romanziere che si cerca, vi sentite nascere una specie di affetto, di tenerezza. Il «gigante» Balzac aveva un che di così ingenuo, impetuoso, irresistibile, e vagamente fatuo, che non si può non amarlo: confondeva il suo genio con la «carriera», con il «successo», con il «denaro», e ignorava, naturalmente, di essere uno dei grandi demiurghi del mondo moderno. [...].

 

 

  Lorenzo Bocchi, Spunti buoni per “chansonniers”, «Corriere d’informazione», Milano, Anno XVI, 2-3 novembre 1961, p. 3.

 

Paura di Balzac.

 

  Al Salone della fotografia organizzato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, il personaggio principale è Daguerre che nel 1839 scoprì il procedimento d’impressione fotografica su vetro. L’invenzione fece molto chiasso. Tutti volevano fissare la loro immagine per la posterità. Balzac, tuttavia, si lasciò fotografare soltanto dopo aver esitato lungamente. Diceva: «Il corpo è costituito da diversi spettri. Uno di questi potrebbe staccarsi al momento dell’impressione fotografica e il corpo resterebbe spogliato di uno dei suoi elementi essenziali».

 

 

  Geoffrey Brereton, Breve storia della letteratura francese. Traduzione di Mirella Biancolini, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1961 («Biblioteca Moderna Mondadori», volume 658-659), pp. 256-260.


  Con una sorprendente intelligenza, questi [Balzac] ci conduce in mezzo alla società ed al movimento culturale della sua epoca che va dalla Rivoluzione sino al 1840, coprendo un periodo di circa cinquanta anni. Balzac riempì una fantastica galleria di tutti i caratteri fisici e di tutti gli oggetti materiali su cui poté mettere le mani, e li conservò sotto la sua coltre descrittiva. Ansimando dietro di noi, il cicerone-romanziere ci spiega per filo e per segno la filosofia dei suoi eroi, mette in risalto le virtù angeliche dei suoi personaggi “buoni” ed esibisce, con un interesse più forte di quello che poteva avere un moralista, le malvage macchinazioni dei cattivi. Se questo fosse un melodramma realisticamente condotto, si potrebbe lodare e ammirare l’arte di Balzac e la sua verve profondamente seria, ma pure sarebbe divertente notare la disparità fra il fine ed i mezzi.

  Questa è la reazione naturale che si prova dopo aver letto solo uno o due dei suoi libri, particolarmente quelli filosofici che sono i più ambiziosi; ma tale reazione muta di fronte agli ottanta e più titoli (includendo i brevi racconti) della Comédie humaine. Un più accurato studio ci porta a scoprire l’esistenza del vero mondo di Balzac, che vive in lui, unito da strettissime parentele a quello che noi chiamiamo mondo “reale”.

  Balzac nacque a Tours nel 1799 da una famiglia di contadini che da poco si era fatta strada nella società borghese. I suoi primi tentativi letterari (romanzi di vario genere, dal genere “nero” a quello storico) furono degli insuccessi; diventò allora comproprietario di una stamperia che ben presto fallì. Rimasto all’età di trenta anni pieno di debiti, dai quali non poté mai liberarsi, ritornò alla letteratura deciso a sfondare, e scrisse Les Chouans (1829) la storia di un monarchico che, diventato famoso durante la Rivoluzione, si era poi imbarcato, affrontando vent’anni di durissimo lavoro ed era infine morto per l’eccessiva fatica. Nelle sue eroiche prove di composizione pare che scrivesse per settimane al lume di candela e con le cortine abbassate, senza mai uscire. Uno dei suoi romanzi fu buttato giù in settantadue ore e riscritto in buona copia. Di tanto in tanto, faceva un’apparizione in società, prefiggendosi grandiosi piani finanziari che mai si avverarono: poi s’eclissava. Una volta arrivò sino in Ucraina per incontrare Eveline Hanska, la contessa polacca con cui tenne un’appassionata corrispondenza per ben diciotto anni. Il loro matrimonio avvenuto nel marzo 1850 lo risollevò per la prima volta dalle preoccupazioni finanziarie, ma egli doveva morire cinque mesi dopo.

  Il titolo di La Comédie humaine fu scelto da Balzac nel 1842 e applicato retrospettivamente alla maggior parte dei libri che egli aveva già scritto, come pure a quelli che avrebbe composto dopo. Esso dà l’apparenza di un lavoro metodico alla produzione balzachiana e suggerisce, secondo la sua intenzione, un tentativo “scientifico” di classificare le varie specie sociali. Comunque la Comédie humaine non ha un piano sistematico, come la serie del Rougon-Macquart di Zola e tanto meno è organica nell’insieme, come il lungo romanzo di Proust. Sebbene gli stessi personaggi appaiano in diversi romanzi, ogni storia può stare da sola. Non si completano né si equilibrano nel piano generale, che non viene imposto piuttosto arbitrariamente all’opera. Tuttavia esso fornisce una conveniente classificazione della vasta produzione di Balzac, e una indicazione del suo programma che, si deve ricordare, egli non ebbe il tempo di completare.

  Balzac fece due divisioni principali, gli (sic) Études de moeurs e gli Études philosophiques. I primi, che sono molto più vasti, furono suddivisi in parecchie parti di cui le principali, che comprendono alcuni dei libri meglio conosciuti, sono le Scènes de la vie privée: Le Père Goriot. Le Scènes de la vie de province: Eugénie Grandet; Les illusions perdues (sic); Ursule Mirouët e il breve Curé de Tours. Le Scènes de la vie de campagne: Le Médecin de campagne; Le Curé de village. Le Scènes de la vie parisienne: César Birotteau; La cousine Bette; Le cousin Pons; Splendeurs et misères des courtisanes.

  Fra gli Études philosophiques furono classificati: La peau de chagrin; La Recherche de L’absolu e i due romanzi “mistici” Louis Lambert e Séraphita. Una forte componente di sentimentalismo mistico pervade Le Lys dans la vallée posto da Balzac fra le Scènes de la vie de campagne. Questi romanzi filosofici, tutti scritti fra il 1831 e il 1835, riflettono il più ortodosso romanticismo di Balzac: essi contengono dei personaggi vagamenti passionali in cerca di circostanze melodrammatiche, per ideali di felicità e di conoscenza che in genere non riescono ad ottenere.

  Louis Lambert e Séraphita riflettono entrambi le dottrine di Swedenborg, il visionario scandinavo la cui influenza sugli scrittoti francesi, da Senancour all’ultimo Hugo, fu notevole. Ciò porta Balzac a giustapporre avvenimenti ed esseri soprannaturali a quelli umani e materiali. Il simbolismo di questi romanzi ambiziosi, ma alquanto nebulosi, ha perduto ora molto del suo significato sicché queste non possono essere considerate fra le sue opere di maggiore successo.

  Il suo romanticismo si estende tuttavia ai suoi libri più realistici; qui gli ambienti appaiono perfettamente ricostruiti grazie a una puntigliosa osservazione quasi da collezionista; ma i personaggi e le loro azioni sono enfiati al di là di un razionale – o ragionevole – punto di vista umano. La purezza della casta madre o della giovane fanciulla è “angelica” senza ulteriori ragguagli. Il cinismo del malvagio e la sua grinta repulsiva è assoluta, così come la malizia della vecchia zitella, la santità di certi preti, la corruzione dei cortigiani, l’integrità degli onesti mercanti, il luccichio dell’alta società parigina. Diversamente da Stendhal, Balzac raramente penetra nei suoi personaggi, alcuni dei quali sono delle vere e proprie caricature di tipi che egli non può aver conosciuto bene. Tuttavia scrive di loro con forte eccitazione.

  A Parigi egli è sempre il provinciale pieno di stupore i cui commenti mostrano ingenuità, penetrazione ed humour allo stesso tempo. Le sue scene provinciali sono le sue cose più felici per la loro rievocazione di piccole stagnanti città dove le cose importanti avvengono dietro imposte socchiuse. Il contrasto fra queste e il mare vorticoso della Capitale è una caratteristica ricorrente nella sua opera. A parte la questione del realismo e del romanticismo, il suo contributo al romanzo fu duplice. Egli stabilì l’inizio della serie dei romanzi “documentaristici” sulla società contemporanea, in cui l’importanza data al denaro era ampiamente messa in risalto. Balzac inoltre elaborò una tecnica del ritratto così violentemente colorato che la ragione deve rifiutarlo, anche se la fantasia lo accetta. Del resto la fantasia talvolta può vedere giusto più che la ragione. Dopo tutto, esistono nella vita reale personaggi così coloriti, così grotteschi, così contorti come quelli di Balzac. Non sono forse quelle eccezioni che sempre ci furono e sono in questo mondo? È un dato di fatto che l’umanità ha riconosciuto la sua immagine in Balzac più chiaramente che in Stendhal.

 

 

  Michel Butor, Balzac e la realtà, in Repertorio. Studi e conferenze (1948-1959), traduzione di Paolo Caruso, Milano, Il Saggiatore, 1961 («La cultura», Volume XL), pp. 90-104.

 

I

 

  Sono tanto più contento di parlare di Balzac in quanto il più delle volte ci si serve di lui come di una specie di spauracchio per cercare d’intimidire ogni tentativo di rinnovamento e d’invenzione nel romanzo contemporaneo. Si oppone in modo sempliciotto il romanzo cosiddetto «balzacchiano» al romanzo moderno, cioè a tutte le opere importanti del XX secolo; ora, è un gioco da ragazzi dimostrare che questo romanzo «balzacchiano» attuale non s’ispira, in realtà, che ad un’infima parte dell’opera di Balzac e che i soli autentici eredi di questo grande nome negli ultimi cinquant’anni sono Proust, Faulkner, ecc.

  Purtroppo i critici che brandiscono il nome di Balzac come una specie di scudo, i romanzieri reazionari che pretendono di scrivere alla Balzac, palesemente non lo conoscono che pochissimo; hanno letto due o tre dei capitoli più rifritti della Commedia umana, Eugenia Grandet, per esempio, o Il curato di Tours, e non si muovono di lì; il guaio è che, qualche volta, taluni spiriti abbastanza aperti e avanzati si lasciano intimidire da questa propaganda, e ci dichiarano di voler scuotere la tirannia di Balzac, di voler dare dell’anti-Balzac, opponendosi ad una nozione di Balzac ridicolmente insufficiente.

  Certo, si tratta di un’opera così enorme che è estremamente difficile, come si suol dire, abbracciarla nel suo insieme; ognuno vi sceglie un po’ quel che gli si conviene. D’altronde rarissimi sono coloro che hanno letto tutto Balzac, come tuttavia è indispensabile ad una vera valutazione. Per fortuna s’incontra sempre meno qualcuno che pretenda di giudicare l’opera di Proust avendone letto due o tre volumi, ma è ancora assai frequente trovare in spiriti abbastanza colti questa reazione: «Balzac, oh, naturalmente non l’ho letto tutto.» «Sì, lei non ha letto le opere giovanili da lui rinnegate, probabilmente non ha letto neppure le Sollazzevoli istorie né il teatro, ma almeno, dal momento che parla di Balzac, che ci oppone Balzac, o che si oppone a Balzac, ha letto tutti i frammenti di quel grande romanzo incompiuto che è la Commedia umana?» «Ne ho letto almeno cinque o sei». «Come? E lei parla di Balzac, e lei ha delle teorie su Balzac, ma questo non è serio; parlerebbe lei di Baudelaire avendone letto solo cinque o sei poemi senza saper neppure se siano scelti bene o male? Ahimè, anche questo capita!».

  In generale ci si cava d’impaccio dichiarando: Balzac è certamente uno scrittore grandissimo ma ineguale; è un po’ come se si dicesse: la Madeleine di Vézelay è un meraviglioso monumento, ma tutte le pietre che lo compongono non sono ugualmente interessanti. Pochissimi lettori, anche oggi, sono capaci di cogliere l’insieme, e di conseguenza la giustificazione di quelle parti che, considerate isolatamente, non sono certo più appassionanti delle pietre che formano le colonne o le pareti di Vézelay.

  Ma questa scelta all’interno della Commedia umana che isola due o tre elementi per rifiutare il resto come inferiore esteticamente, s’è rivelata nel corso della storia letteraria degli ultimi cento anni come estremamente contingente; la linea di separazione tra il buono e il cattivo nella Commedia umana non passava certo negli stessi luoghi per Paul Bourget, diciamo, per Proust, e per Baudelaire o Albert Béguin; è dunque ormai l’ora di finirla di considerare l’opera di Balzac a pezzettini, e di affrontarla invece nel suo movimento generale; quanto alla relazione di Balzac con le forme più audaci del romanzo moderno, si può grosso modo proporre questa formula: se si prende un romanzo, quasi a caso, fra quelli che compongono la Commedia umana, è abbastanza facile mostrare ciò che lo oppone alla letteratura attuale, ciò che in esso c’è di datato e superato, ma se si prende l’opera nel suo insieme, si scopre che la sua ricchezza e la sua audacia sono ben lungi dall’essere state sinora valutate nella giusta misura, e che di conseguenza essa è per noi una prodigiosa miniera d’insegnamenti.

  L’opera di Balzac è incomparabilmente più rivoluzionaria di quel che non appaia ad una lettura superficiale e frammentaria; fra le novità che contiene, talune sono state sistematicamente sfruttare nel corso del XIX secolo, altre hanno trovato eco solo nelle opere più originali del XX, e questa fecondità è incora molto lontana dall’essersi esaurita.

 

II

 

  Cominciamo a far notare a qual punto Balzac su volontariamente e sistematicamente innovatore, quale coscienza abbia della sua originalità come romanziere, a qual punto consideri la sua tecnica e la sua invenzione tecnica come aperte e suscettibili di rovesciamenti sorprendenti, ben lungi dall’irrigidirsi nell’accademismo che gli si attribuisce in seguito a un totale malinteso, e nel quale naufragano i suoi falsi discepoli.

  Nella Commedia umana, come sappiamo, c’è tutta una galleria di uomini di genio: pittori di genio, musicisti di genio, criminali di genio; era davvero impossibile che non vi fosse anche un romanziere di genio. Benché come personaggio questi sia certo alquanto sbiadito all’interno della costruzione incompiuta, ha comunque il tempo di lanciare un proclama in favore del «nuovo romanzo». Si chiama d’Arthez e nella seconda parte delle Illusioni perdute, Un grand’uomo di provincia a Parigi, s’imbatte nel giovane Lucien de Rubempré che arriva da Angoulême con sotto il braccio la raccolta di sonetti Le margherite, ma anche il manoscritto d’un romanzo storico: L’arciere di Carlo IX. D’Arthez è al centro d’un gruppo di giovani ingegni, di giovani che sono nella verità, e che s’oppongono al mondo brillante della stampa che tenterà il giovane provinciale fino a perderlo. Lucien fa leggere il suo romanzo a d’Arthez che gli fa questa dichiarazione:

 

  Avete imboccato una bella e buona strada, ma la vostra opera è da rifare. Se non volete essere la scimmia di Walter Scott è necessario che vi creiate mia maniera diversa; voi invece l’avete imitato. Come lui, cominciate con lunghe conversazioni per caratterizzare i vostri personaggi: quando hanno parlato, fate seguire la descrizione e l’azione. Solo per ultimo viene quell’antagonismo tanto necessario ad ogni opera drammatica. Capovolgetemi i termini del problema. Sostituite quelle diffuse conversazioni, magnifiche in Walter Scott, ma senza colore in voi, con delle descrizioni a cui la nostra lingua si presta così bene. In voi il dialogo sia la conseguenza attesa che corona i vostri preparativi. Entrate subito nel vivo dell’azione. Prendetemi il vostro argomento ora di traverso ora dalla coda; infine variate i vostri piani per non essere mai lo stesso ... Ogni regno autentico, a partire da Carlomagno, richiederà almeno un’opera, e talvolta quattro o cinque, come Luigi XIV, Enrico IV, Francesco I. Così farete una storia di Francia pittoresca in cui descriverete i costumi, i mobili, le case, gl’interni, la vita privata, rendendo insomma lo spirito del tempo, invece di raccontare avidamente fatti noti. Avrete modo d’essere originale rilevando gli errori popolari che alterano la figura della maggior parte dei nostri re. Osate nella vostra prima opera rivalutare il grande, e magnifico personaggio di Caterina, da voi sacrificata ai pregiudizi che gravano ancora su di essa ...

 

  Com’è noto, Balzac stesso s’è ingegnato di realizzare il progetto di d’Arthez nello straordinario trittico Su Caterina de’ Medici. È abbastanza divertente rilevare di questo testo come parecchi romanzi oggi qualificati balzacchiani sarebbero stati da lui considerati come servili imitazioni di Walter Scott. Ed è interessante sottolineare in lui quello che chiamerò il principio di variazione e d’esplorazione sistematica della forma. Ma la vittoria definitiva di Balzac sul grande predecessore, la sua emancipazione da lui, s’esprime con un’invenzione straordinaria che trasformerà interamente la struttura della sua opera, permettendogli di fare del romanzo alla Walter Scott un particolare o un capitolo di ciò che egli considera come il suo romanzo. Si tratta del ritorno dei personaggi. In un testo stupendo e la cui lettura è indispensabile a chiunque desideri superare la concezione scolastica che troppo spesso si ha di Balzac, la prefazione del 1842, egli riprende le idee che aveva attribuire a d’Arthez, elaborandole:

 

  Walter Scott elevava dunque il romanzo al valore filosofico della storia ... Ma, avendo non tanto immaginato un sistema quanto trovato il suo farsi nel fuoco del lavoro o grazie alla logica di questo lavoro, egli non intendeva connettere le sue composizioni l’una all’altra in modo da coordinare una storia completa, di cui ogni capitolo fosse un romanzo, ed ogni romanzo un’epoca. Rendendomi conto di questa mancanza di correlazione, che d’altronde non riduce affatto la grandezza dello scozzese, vedo in pari tempo il sistema favorevole all’esecuzione della mia opera e la possibilità di compierla.

 

  In Walter Scott e negli altri romanzieri per lui classici: Longo, Rabelais, Cervantes, l’abate Prévost, Richardson, Defoe, Lesage, Macpherson che considera in quanto romanziere, Rousseau, Sterne, Goethe, Chateaubriand, Mme de Staël, Benjamin Constant e Bernardin de Saint-Pierre, scopre la possibilità di rappresentare un’epoca della storia con un personaggio romanzesco, e dunque di rappresentare tutta la successione delle epoche storiche tramite una successione di personaggi legati da avventure; traspone questa successione in una simultaneità, scoprendo che questi personaggi non rappresentano solo delle epoche, ma delle «specie» differenti. Dunque, rinunciando pian piano al progetto d’una storia generale dell’umanità, si concentra sulla descrizione della società contemporanea, mondo la cui ricchezza si dispiega sempre più sotto i suoi occhi e la cui pittura è resa possibile dalla pratica del ritorno dei personaggi, tecnica questa che ha anzitutto il vantaggio di costituire in qualche modo un’ellisse romanzesca, un mezzo di abbreviare considerevolmente un racconto che altrimenti sarebbe troppo lungo.

  Egli pone così il problema: «Come rendere interessante il dramma a tre o quattromila personaggi che presenta una società?».

  È evidente anzitutto che una società comporta più di tre o quattromila personaggi, e inoltre che sarebbe impossibile studiarne particolareggiatamente anche solo tre o quattromila; è dunque necessario che un certo personaggio sia rappresentativo di tutta una classe e che, una volta descritto in determinate circostanze, possa servire in determinate altre. Se si ha bisogno, per presentare un dramma, ad esempio d’un notaio, è inutile descriverne di nuovo la psicologia, la vita coniugale, ma basterà riferirsi a quell’altra opera in cui è già comparso.

  Il principio del ritorno dei personaggi è dunque anzitutto un principio d’economia, ma avrà conseguenze straordinarie che trasformeranno fondamentalmente, lo si può ben dire, la natura stessa del lavoro del romanziere.

  Infatti ciascuna delle opere particolari s’aprirà su altre opere, i personaggi che appariranno in questo o quel romanzo non vi saranno rinchiusi una volta per tutte, ma rinvieranno ad altri romanzi nei quali troveremo su di essi indicazioni complementari.

  In ogni elemento di questo insieme, ci sarà fornito, sull’uno o sull’altro, solo ciò che è indispensabile conoscere per un’interpretazione superficiale dell’avventura in questione; e ci sarà possibile procedere oltre grazie alla lettura degli altri libri in cui appaiono gli stessi personaggi, in modo che la struttura e la portata di questo o quel romanzo individuale si trasforma a seconda del numero d’altri romanzi che abbiamo letto; così la storia che ci era sembrata lineare e magari sempliciotta alla prima lettura per via della nostra ignoranza del mondo balzacchiano, si rivela più tardi come il punto d’incontro di tutto un insieme di temi già esplorati altrove.

  Di conseguenza ci troviamo di fronte ad un certo numero di sfaccettature collegate reciprocamente e tra le quali possiamo avventurarci.

  Si tratta di ciò che si può chiamare un movente romanzesco, un insieme formato da un certo numero di parti che possiamo affrontare quasi nell’ordine che desideriamo; ogni lettore percorrerà nell’universo della Commedia umana un itinerario differente; è come una sfera o un recinto con molteplici porte.

  È chiaro che il ritorno dei personaggi o la loro persistenza da un romanzo all’altro si rivela in Balzac di portata ben più vasta di quello che si chiama romanzo-fiume, Alla ricerca del tempo perduto, per esempio, nel quale le diverse unità secondarie, i diversi tomi, si succedono secondo l’ordine del calendario, dove si riprendono al volume seguente i personaggi nel punto, nel momento della loro vita, in cui li si era lasciati nel volume precedente.

  Questa successione cronologica delle avventure, delle unità romanzesche, non è per Balzac che un caso particolare delle loro possibili combinazioni, caso particolare magnificamente illustrato da quella specie di spina dorsale della Commedia umana che forma la serie: Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane, L’ultima incarnazione di Vautrin. Ma si sa che per gustare davvero Splendori e miserie, è necessario beneficiare dell’illuminazione obliqua data da Papà Goriot, e laterale data da La casa Nucingen.

  Nella redazione della Commedia umana, Balzac non segue affatto l’ordine cronologico, ma esplora a poco a poco gli aspetti d'una realtà che evolve sotto i suoi occhi, e, per fare questo, si serve continuamente del ritorno all’indietro; per quanto riguarda il lettore, è impossibile trovare un modo di lettura della Commedia umana che soddisfi un criterio cronologico semplice; è noto d’altronde che, nei romanzi presi singolarmente, la successione temporale presenta sempre delle complessità. Se si prendono i personaggi principali dell’universo balzacchiano, si può vedere che qualunque sia il criterio di lettura adottato, le loro avventure si presenteranno secondo successioni differenti, come diceva d’Arthez: ora di traverso, ora per la coda. Del «Libro» che Mallarmé ha vagheggiato, e che non ha potuto realizzare sul piano della poesia lirica, Balzac aveva già dato un prodigioso esempio sul piano del romanzo.

 

III

 

  Ma il principio del ritorno dei personaggi non ha solo il vantaggio di provocare una moltiplicazione ed un’esplorazione quasi automatiche delle strutture romanzesche, ma comporta anche una notevole soluzione del problema dei rapporti del romanzo con la realtà, giustificando perfettamente l’introduzione di personaggi reali all’interno d’un universo romanzesco.

  Occorre vedere come i personaggi balzacchiani si distacchino progressivamente dai personaggi reali, come la finzione in lui si costituisca metodicamente all’interno d’uno studio della realtà.

  Siccome per lui si tratta di fare una descrizione storicamente datata, gli è indispensabile di far intervenire di tanto in tanto dei personaggi la cui individualità è legata strettamente a questa o a quella nazione, a questo o a quel periodo. Volendo situare un determinato episodio, gli è necessario parlare di Napoleone, per esempio, o di Luigi XVIII, e questi sono punti di riferimento tanto comuni, tanto noti, che non è il caso di sostituirli. Sono personaggi storici, e la loro storicità s’esprime nel fatto che è non solo possibile ma inevitabile trovare indicazioni su di essi al di fuori del romanzo particolare e del mondo romanzesco della Commedia umana.

  Questa caratteristica ha per il romanziere un enorme svantaggio: non è più libero di fronte a quei personaggi, non può attribuir loro, immaginar loro delle avventure diverse da quelle che conosce effettivamente, sotto pena di trovarsi contraddetto da questo o quel documento o addirittura, nella peggiore delle ipotesi, di venir accusato di menzogna o di diffamazione; e d altra parte, siccome sono personaggi unici, non si può battezzarli con un altro nome per non deformare la situazione che essi dovevano invece designare.

  All’altro estremo della scala sociale troviamo classi d’individui quasi interscambiabili: i portinai, ad esempio, o i notai: è allora estremamente facile per il romanziere inventare un notaio che non esiste sui registri dello stato civile e che tuttavia sia del tutto verosimile, su cui, di conseguenza, l’immaginazione romanzesca possa dispiegarsi in tutta libertà e in tutta forza.

  Abbiamo dunque due poli: da una parte personaggi come i re e gl’imperatori, insostituibili perché è proprio della loro natura essere conosciuti individualmente come tali, ma di cui, quindi, il romanziere non può dire gran che, d’altra parte i personaggi oscuri di cui il romanziere può dire tutto quel che vuole, appunto perché è proprio della loro natura d’essere sostituibili in quanto, essendocene sempre parecchi, è perfettamente naturale non conoscere il nome di questo o di quello.

  Tra questi due poli si trova una regione particolarmente interessante, quella degli uomini celebri, intendo dire i personaggi la cui celebrità avrà una funzione nel racconto, ad esempio i poeti e i pittori; la loro celebrità li rende punti di riferimento quasi obbligatori, la loro pluralità consente di aggiunger loro un collega romanzesco che potrà essere il doppio di uno di loro, un personaggio-chiave. Così quando Balzac parla del mondo particolare che gli è contemporaneo, è obbligato a menzionare Lamartine, Victor Hugo, ecc. altrimenti il lettore non riconoscerebbe quel mondo, ma se vuol parlare d’un poeta individuale non può prendere senz’altro Lamartine come esempio, né per parlare d’una romanziera George Sand, perché rischierebbe, attribuendo loro questa o quella avventura, di sentirsi accusare di falsità, e così li sostituisce con dei rappresentanti: Canalis o Camille Maupin.

  Ora, queste copie, questi doppi, finiranno fatalmente per staccarsi sempre più dai loro modelli reali, le cui avventure, con l’aumentare della celebrità, diventavano sempre più note al pubblico e, di conseguenza, sempre meglio distinte da quelle che vengono loro attribuite nella Commedia umana.

  Si possono dunque rilevare tre tappe nella costruzione di questi personaggi : essi sono anzitutto un esempio tra gli altri, un poeta come gli altri, un poeta ordinario allo stesso modo in cui abbiamo un notaio ordinario, ma siccome il poeta possiede appunto una personalità riconosciuta, siccome il poeta ordinario sarebbe un poeta mediocre, è necessario attribuirgli un’originalità che si modelli immediatamente su di un’originalità esistente: Canalis-Lamartine, ma ben presto, distaccandosi l’originalità del personaggio-chiave, distaccandosi Canalis da Lamartine al punto da poter sembrare vicino a lui in un’enumerazione, si mette a rappresentare non più questo o quel poeta esistente, ma anzi una possibilità di poeta che non esiste in realtà e che dovrebbe esistere, colma una lacuna che scopre nel reale, ed ha la particolarità d’essere ben più chiaro dei colleghi esistenti, ben più rivelatore. Così, in molti passi della Commedia umana, Balzac sostituirà per le nuove edizioni Lamartine con Canalis, personalità che è diventata ancor più nota, termine il cui significato è assai più preciso.

  Scrive Balzac: «Vedendo riapparire in Papà Goriot alcuni personaggi già creati, il pubblico ha compreso una delle più ardite intenzioni dell’autore, quella di dar vita e movimento a tutt’un mondo fittizio i cui personaggi sussisteranno forse ancora quando la maggior parte dei modelli saranno morti e dimenticati».

  Così, in un romanzo preso isolatamente, i personaggi reali ci rinviano a tutta una letteratura, a una stampa, ad un genere di conversazione, ed i personaggi immaginari importanti ci rinviano ad altri romanzi, ad una letteratura molto più vicina; queste due categorie di personaggi formano come due sfere concentriche: quella, molto più vasta, del reale, dove essi sono estremamente numerosi, e dove riconosciamo Napoleone, Luigi XVIII, Lamartine e Victor Hugo; e quella della Commedia umana, in cui tutti i rapporti sono in qualche modo visti di scorcio, dove riconosciamo Vautrin, Rastignac, Canalis, ecc. In rapporto a ciascuna delle facce degli studi sociali, l’insieme costituisce, di conseguenza, come un reale più vicino: la relazione tra quel che si dice di un personaggio fittizio in un romanzo e ciò che si dice degli altri è, infatti, esattamente identica a quella fra ciò che vien detto d’un personaggio reale nella Commedia umana e ciò che se ne dice altrove.

 

IV

 

  Queste relazioni interromanzesche sono molto complesse. I personaggi fittizi non possono rappresentare dei gruppi di personaggi reali se non in quanto, nella realtà stessa, gl’individui e gli oggetti hanno dei rapporti di significato. I poeti immaginari di Balzac possono nascere solo perché anche nella realtà, con l’intermediario della celebrità, i poeti sono rappresentativi gli uni degli altri; Canalis può rappresentare e soppiantare Lamartine solo perché già Lamartine rappresenta e soppianta tutta una categoria di poeti, per non parlare del fatto che rappresenta una quantità d’altri uomini, dando loro in un certo senso il proprio nome.

  Esiste dunque tutta un’organizzazione del reale in rapporto alla sua rappresentazione, tutta un’organizzazione che il romanziere si limita a mettere in rilievo: le divisioni che Balzac ha introdotte all’interno degli Studi sociali ne sono come un riflesso o una trasposizione.

  In realtà, non si può non rimaner colpiti dall’apparenza arbitraria di questa classificazione: Scene di vita privata, Scene di vita di provincia, Scene di vita parigina, Scene di vita politica, Scene di vita militare, Scene di vita di campagna, poiché troviamo nelle Scene di vita privata dei passi ambientati a Parigi o in provincia, degli episodi militari o politici, ecc. Ciò perché ciascuno di questi mondi è ovviamente in comunicazione con tutti gli altri, e i termini adottati stanno anzitutto a indicare che l’accento è messo su un certo tipo di relazioni che trovano la migliore illustrazione in ambienti come la provincia, Parigi o l’esercito; così è facile vedere che le Scene di vita privata si rivolgono al lettore nel modo più semplice possibile e appunto perciò Balzac le ha collocate all’inizio della sua opera: ruotando tutte intorno al tema del matrimonio hanno una portata morale semplicissima, ossia cercano di illuminare la gioventù onde evitarle errori fatali.

  Le Scene di vita privata sono, in tutta l’opera, ciò che più s’avvicina alla vita quotidiana del giovane lettore medio. Lo scenario è ambientato a Parigi o in provincia secondo le esigenze dell’aneddoto raccontato.

  Su queste esigenze scenografiche e geografiche Balzac metterà l’accento nelle Scene di vita di provincia, che hanno come primo scopo d’informare il lettore parigino su una realtà che conosce male; ma questo aspetto documentario si sdoppia in uno studio molto più profondo, poiché ciascuna delle città di provincia considerate si rivela come particolarmente caratteristica di un aspetto presente in tutte le altre, e di conseguenza ciascuna è presa, oltre che come città ordinaria, come città che si conviene alla storia raccontata perché in essa quella storia ha potuto o avrebbe potuto assumere la sua forma più significativa.

  Se le città di provincia sono in qualche modo su di un piano di parità, e ciascuna è rappresentativa di tutte le altre in quanto isola in modo particolarmente chiaro un aspetto del loro funzionamento, Parigi si trova rispetto a tutte quante in una situazione privilegiata: non è una città come le altre, non ha con le altre questa relazione di significato reciproco, ma ne è in qualche modo la moltiplicazione, è la figura concentrata dell’insieme dei loro rapporti; la città di Parigi sta al resto della Francia come gli Studi sociali stanno al reale, ne è il sogno o il romanzo, e nelle sue pieghe è il romanzo di se stessa, il romanzesco reale; in essa potranno quindi prodursi avvenimenti inverosimili, straordinari, non soltanto per i forestieri, non soltanto cioè nel senso in cui sono straordinarie per il parigino ignorante le Scene di vita di provincia, ma per il parigino stesso; dopo essersi riconosciuto nelle Scene di vita privata doveva rimaner sconcertato dalle Scene di vita di provincia per poter affrontare il disorientamento ben maggiore che lo avrebbe atteso nella sua stessa città.

  Come la città di Parigi riflette tutte le città di provincia ed è unica per ognuna di esse, come un uomo in vista rappresenta gli altri uomini ed è unico per ognuno di essi, così le Scene di vita politica sono il complemento necessario alle Scene di vita parigina (abbiamo già visto quali difficoltà di principio incontri questa parte dell’opera); e come la città di Parigi è non solo la rappresentazione ma il sogno delle altre città, vi sono così esistenze che costituiscono il sogno di altre, ossia lo scatenarsi di ciò che le altre devono contenere. Dichiara Balzac: «Dopo aver dipinto in questi tre libri la vita sociale, rimanevano da presentare le esistenze d’eccezione che riassumono gl’interessi di parecchi o di tutti, e che sono in qualche modo fuori della legge comune: donde le Scene di vita politica. Ma una volta finito e compiuto questo vasto quadro della società, come non mostrarne l’aspetto più violento, emergente da essa per ragioni difensive o di conquista? Donde le Scene di vita militare».

  Abbiamo seguito un processo centrifugo progressivo dalle Scene di vita privata alle Scene di vita parigina, politica, militare, dalle esistenze abituali alle esistenze sempre più eccezionali, supponendo una complessità sociale via via maggiore, ma, particolarmente nelle Scene di vita militare, si troveranno eventi che spogliano l’individuo della sua complessità sociale, che lo fanno cadere sulla nuda terra; può esserci, poi, rispetto all’esistenza abituale del lettore, un altro processo di spaesamento, che lo tufferà in una generalità assai più profonda: invece di ritornare a Parigi, l’itinerario che passa dalle Scene di vita di provincia può allontanarsene ancor più, e condurci in una regione in rapporto alla quale quella dove vive il lettore è già romanzo e sogno, regione che avrà appunto fra le sue caratteristiche essenziali il fatto che nessuno, lì, legge mai nulla, per cui il romanzo non potrà rivolgersi ad essa direttamente ma la considererà anzi come una specie di «altro» assoluto, un muro contro cui urta, e, per ciò stesso, una base incrollabile di tutti i giudizi, un riferimento ultimo, il reale nella sua estrema resistenza al linguaggio, ciò che, a noi vicino geograficamente, ci è più lontano mentalmente, il selvaggio che incontriamo non nella strada d’una città, ma lungo una strada tra due città: le Scene di vita di campagna.

 

V

 

  Balzac, per fare conoscere il reale, racconta storie che non sono successe; per farci capire i personaggi reali, ne diventa altri che sono loro simili, che sono tipici della loro specie; ma questa tipicità può diventare tanto notevole da costituire una nuova specie, permettendoci di cogliere molto meglio il funzionamento dei gruppi e delle potenze. Il problema concernente gl’individui si ritrova al livello dei gruppi, e Balzac sarà dunque indotto a costituire gruppi immaginari dei quali dovrà, per renderli un po’ verosimili, spiegare perché non sono noti. Così nelle Scene di vita parigina e nelle Scene di vita politica, uno dei suoi temi fondamentali, o, se si preferisce, uno dei suoi strumenti fondamentali sarà la società segreta. Si vede quindi come l’universo degli Studi sociali si distacchi progressivamente dal reale per costituire un universo fantastico che lo completa e lo illumina.

  In tutti i romanzi a cui abbiamo alluso sinora, lo stacco nei confronti del reale resta all’interno di certi limiti. Per sbalorditive, per disorientanti che siano, queste storie rimangono comunque verosimili, almeno per Balzac, e ciò non solo perché obbediscono alle leggi di natura in generale, ma perché potrebbero essere un argomento di conversazione in un salotto parigino; tutti quegli eventi vanno iscritti all’interno della conversazione o del giornalismo, insomma delle notizie che si scambiano. Avremmo potuto apprendere questa storia da uno qualunque dei nostri amici. Essa è dunque non solamente possibile, ma possibile all’interno di limiti circoscritti geograficamente (la Francia ed eccezionalmente un po’ di Svizzera, in Albert Savarus) e storicamente (all’incirca: dopo la Rivoluzione).

  Ma come per parlare dei personaggi reali talvolta è meglio far uso di personaggi fittizi, così per parlare di avvenimenti recenti è necessario far intervenire avvenimenti antichi, e per far cogliere certi aspetti del quotidiano la cosa migliore è spesso collocarsi in pieno fantastico. Certe connessioni, che sarebbe molto difficile e molto lungo mostrare nei particolari, si possono esprimere in scorci efficaci. Come un personaggio inventato può rappresentare un gran numero di personaggi reali, così anche un avvenimento manifestamente inventato può riassumere tutto uno studio.

  Questa contrazione della realtà che si produce nella prima parte della Commedia umana, verrà proseguita nella seconda dagli Studi filosofici che hanno sempre come denominatore comune il più gran distacco nei confronti del quotidiano.

  Abbiamo adottato l’immagine di due sfere concentriche per raffigurare i rapporti tra l’universo della Commedia umana e la realtà nel cui ambito Balzac scriveva. All’interno della Commedia umana questa relazione si riflette, e l’insieme degli Studi filosofici è come una terza sfera all’interno di quella degli Studi sociali, e sta a questa come questa sta al reale: chiarimento e contrazione.

  Abbiamo visto che i personaggi immaginari che popolano gli Studi sociali sono una forma notevole d’ellissi, e gli avvenimenti fantastici o lontani che troviamo negli Studi filosofici sono anch’essi delle ellissi, molto più violente. La relazione tra i due livelli dell’opera è particolarmente chiara, lo si comprende facilmente se si considerano i personaggi d’artisti. È molto evidente come Frenhofer o Gambara, pittore e musicista inverosimili, riassumano e illuminino, esagerandone fino a un certo punto le caratteristiche, i pittori e i musicisti che appaiono nella prima parte.

  La funzione di Studi filosofici come fulcro di riflessioni al centro della Commedia umana spiega taluni degli aspetti più strani e sinora più malcompresi di quest’opera, voglio dire dell’importanza che Balzac concede a certe scienze considerate oggi come false scienze: la fisiognomia di Lavater, o la frenologia di Gall. Le ellissi balzacchiane, il fatto che tutta una categoria di personaggi sia rappresentata da uno solo, dunque da un solo viso, riducono la connessione tra le apparenze esterne e il temperamento, la funzione, ecc. Nella Commedia umana queste connessioni obbediscono a leggi più semplici che nella realtà; le generalizzazioni di Gall e Lavater, che ci appaiono oggi semplicemente infantili o immaginarie, ritrovano tutto il loro valore nell’opera di Balzac proprio in quanto scienza immaginaria, codificando collegamenti interni al romanzo la cui applicazione alla realtà può benissimo avere solo valore figurato. Il che vale anche per la teoria del magnetismo animale, dell’elettricità, della potenza materiale del pensiero. Tutto ciò possiede un grado di applicazione differente a seconda della regione della Commedia umana in cui ci si trova. È facilissimo vedere come queste scienze immaginarie e la filosofia immaginaria di Swedenborg che corona gli Studi filosofici in Serafita, riflettano le particolarità dell’universo balzacchiano e rappresentino una delucidazione provvisoria delle sue relazioni con il reale.

  Per chiunque s’interessi alla teoria del romanzo tutto ciò costituisce una miniera enorme e quasi inesplorata d’esempi e di problemi.

 

VI

 

  Ma il movimento del pensiero balzacchiano non si ferma a questa riflessione: dopo gli Studi filosofici vengono gli Studi analitici. È certamente la parte più trascurata dell’opera, e ciò per la ragione semplicissima che esiste solo allo stato embrionale, ma è comunque indispensabile prenderla in considerazione se si vuol apprezzare in tutta la sua vastità il progetto balzacchiano.

  Dichiara Balzac nella prefazione del 1842: «Dopo aver cercato, non dico trovato, la ragione del motore sociale, non bisognava infine meditare sui princìpi naturali e vedere in che cosa le società divergono o si accostano rispetto alla regola eterna al vero, al bello?», e più avanti, dopo aver di nuovo descritto gli Studi filosofici: «Al disopra, si troveranno gli Studi analitici di cui non dirò nulla, poiché ne è stato pubblicato uno solo, la Fisiologia dl matrimonio. Tra qualche tempo, presenterò altre due opere di questo genere. Anzitutto la Patologia della vita sociale, poi l’Anatomia dei corpi insegnanti e la Monografia della virtù». Nel prospetto del 1845 aggiunge un Dialogo filosofico e politico sulle perfezioni del diciannovesimo secolo. Di tutto ciò non pubblicherà nulla, e non possediamo che un solo altro Studio analitico: le Piccole miserie della vita coniugale.

  I titoli stessi ci indicano che si tratta di opere diversissime da ciò che di solito s’intende per romanzi. Le due che abbiamo sono manuali umoristici, con dei teoremi e degli assiomi, illustrati da scenette. Si tratta di pamphlets contro i costumi contemporanei, che rappresentano, a conclusione dell’inchiesta sulla società, lo sforzo di trasformarla. Il movimento che ha condotto sino agli Studi filosofici si rovescia, e si ritrova il quotidiano con intendimenti polemici. I due libri che abbiamo sono delle Scene di vita privata, ma raccontate in un tono tutto diverso.

  Per render conto della presenza degli Studi analitici, è necessario abbandonare l’immagine delle sfere, che si rivela ormai insufficiente perché tutto l’insieme dell’opera si mette in movimento: gli Studi analitici, infatti, devono poggiare sulle Scene di vita di campagna come gli Studi filosofici sulle Scene di vita parigina. Dovevano essere la conclusione pratica dell’opera, il suo inserimento impegnato, la sua azione immediata sui punti nevralgici scoperti, ed è perfettamente comprensibile che questa parte sia rimasta allo stato embrionale a causa dell’evoluzione prodottasi all’interno del pensiero di Balzac proprio mentre si sforzava di realizzare quel piano a cui doveva sempre aggiungere nuove caselle.

  È noto che il pensiero politico di Balzac è all’origine il più reazionario possibile: il suo programma era come dice egli stesso, «un ritorno ai princìpi che si ritrovano nel passato per il fatto stesso che sono eterni», e dichiara senza ambiguità quali sono per lui questi princìpi: «Scrivo alla luce di due verità eterne, la religione e la monarchia, due necessità che gli avvenimenti contemporanei reclamano, e verso le quali ogni scrittore di buon senso deve cercare di ricondurre il nostro paese».

  Ma è noto anche che il cristianesimo di Balzac, tutto pregno di Swedenborg, ha avuto sempre meno a che vedere con quello della Chiesa ufficiale, e che la monarchia così com’era gli è sembrata sempre più insufficiente. Il suo enorme lavoro romanzesco ha avuto il risultato di mettere in questione sempre più profondamente quei princìpi a cui si dichiarava legato, e che gli si sono rivelati come sempre più lontani da quella verità che andava ricercando. L’immenso movimento dell’opera provoca una specie di sconvolgimento, di rivoluzione dell’immagine del reale che implica qualcosa di ben diverso, politicamente, dal fine propostosi all’inizio.

  L’opera di Balzac oscilla su se stessa, e si può dire che ha comunicato a tutto il romanzo posteriore la sua instabilità, che restiamo nella sua scia. È un trampolino solido, sul cui sostegno possiamo contare, e vi sono poche invenzioni attuali che non possano trovare in essa annuncio e giustificazione. Di conseguenza ci sono poche letture che siano oggi più profittevoli per un romanziere, che introducano meglio il lettore ai problemi del romanzo contemporaneo; ma attenzione, niente malintesi: parlo proprio di Balzac.

 

 

  Custode Carlomagno, La Cousine Bette, Napoli, R. Pironti e Figli Editori, 1961, pp. 133.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Le dix-neuvième siècle, pp. 7-8;

  Honoré de Balzac. Du romantisme au réalisme, pp. 9-10;

  La Comédie humaine, p. 11;

  Les Parents pauvres. «La Cousine Bette» – «Le Cousin Pons», pp. 12-14;

  Composition et publication de «La Cousine Bette», pp. 15-16;

  Analyse du roman, pp. 17-20;

  «La Cousine Bette», roman historique et sociale (sic), pp. 21-23;

  «La Cousine Bette», roman parisien, pp. 24-27;

  «La Cousine Bette», roman psychologique, pp. 28-31;

  Construction du roman, pp. 32-34;

  L’action indirecte, pp. 35-52;

  Le choc émotif, pp. 53-69;

  Fonction des personnages, pp. 70-97;

  Expansion!, pp. 98-109;

  La destruction fatale, pp. 110-124;

  Le Maréchal, pp. 125-127;

  La Cousine Bette, pp. 127-129;

  Bibliographie, p. 131.

 

  Trascriviamo integralmente i capitoli che riguardano l’analisi storico-sociale, ambientale e psicologica de La Cousine Bette (pp. 21-31):

 

  La Cousine Bette [il corsivo, qui come in seguito, è nostro] est d’abord un roman historique et social qu’il faut voir dans la perspective de la Comédie Humaine. Balzac a voulu ainsi achever la peinture de l'évolution d’une société dont il avait déjà esquissé les étapes républicaine et impériale et tracé plus fortement les aspects Louis XVIII et Charles X. Ce sont les mêmes hommes, et d’autres encore, qui vivent sous le règne du roi marchand et bourgeois, Louis-Philippe. Ainsi se mêlent dans le roman souvenirs impériaux et réalités nouvelles.

  Voici le maréchal Hulot, comte de Forzheim, celui qui fut le commandant Hulot des Chouans, le colonel des grenadiers de la garde impériale, celui que les invalides saluent avec respect et qui a gardé de cette époque héroïque le fier républicanisme, la franchise brutale et le sens de l’honneur qu’il partage avec son ancien camarade de combat, Cottin, aujourd’hui maréchal, prince de Wissembourg, ministre de la Guerre; tous deux, soldats de l’Empire, méprisent les civils et, au nom d’une vieille camaraderie, estiment que tout leur est permis, ne s’embarassent guère de scrupules administatifs (sic) et gardent la verdeur du langage militaire, gloires impériales qui s’effacent devant la montée de nouvelles classes. Voici Hulot d’Ervy, intendant général des armées en Espagne en 1807, ordonnateur en chef de la garde impériale à Varsovie, organisateur de l'armée improvisée de 1815, directeur de ministère, administrateur de talent, qui incarne la continuité des services par-delà les régimes.

  La société, c'est celle de 1840, qui obéit au mot d’ordre: «Enrichissez-vous»; société de banquiers et de marchands, où la force brutale est remplacée par les puissances de la corruption.

  «Le principal levier du pouvoir public, dit Engels, fut l’argent». Crevel en incarne toutes les prétentions, toutes les vanités, toutes les sottises, toutes les insolences et tout le mauvais goût.

  Son absence de scrupules, ses talents de spéculateur, sa vulgarité de nouveau riche, ses ruses sordides d’ancien épicier, son entêtement jusque sur son lit de mort, font de ce maire, officier de la Légion d’honneur, capitaine de la garde nationale, une caricature de ce régime bourgeois; il est même dans son physique le portrait de Louis-Philippe.

  En face de lui, plus effacé, son genre, l’avocat puritain Victorin Hulot: portrait rajeuni de Guizot ou de Royer-Collard, de l’incorruptible qui ne recule pas devant des manoeuvres inavouables pour des fins que justifient des principes de morale bourgeoise, qui sait profiter des spéculations sur les terrains, espoir d’une (sic) régime qui cherche à gagner sans paraître le corrompre, avocat du contentieux de la guerre, avocat consultant de la préfecture de police: c’est un rigoriste qui sait s’assouplir devant les circonstances, un «politique» de 1840, comme ce Claude Vignon, secrétaire du prince de Wissembourg.

  Autour de ces hommes, des silhouettes. A l’arrière-plan financier, celle du baron Nucingen, banquier millionnaire et pair de France, celle de Vauvinet, son homme de paille, et celle de Keller. A l’arrière-plan politique, les ministres: Anselme Popinot, ancien commis de Birotteau et le comte de Rastignac, jadis étudiant pauvre de la pension Vauquer, dont l’arrivisme triomphant marque la montée des nouvelles classes.

  A l’arrière-plan économique, les spéculations sur les terrains à Paris, le développement des chemins de fer après la loi de 1842, l’établissement de la conquête en Algérie, les trafics sur les fornitures (sic) militaires avec la complicité de hauts fonctionnaires, les interférences de la politique et du demi-monde, la police de M. Chapuzot, de Vautrin et de Mme de Saint-Estève.

  Mais il y a aussi le monde des ouvriers et des gagne-petit, des fumistes de la rue Saint-Lazare, du matelassier Chardin de la rue des Bernardins, passionné de billard et de prunes à l’eau-de-vie, monde de la misère pour lequel Balzac n’a souvent que des paroles dures.

  L’auteur de la Cousine Bette n’a pas seulement été le peintre d’une réalité contemporaine, il y a aussi dans son oeuvre l’avenir de cette société bourgeoise dans ses types constants.

  Karl Marx croyait que Balzac «était le créateur de ces prototypes qui se trouvent à l’état d’embryons et qui ont atteint leur développement, par la suite, sous Napoléon III».

 

  Les parents pauvres forment un tome des Scènes de la vie parisienne; de tous les romans de Balzac dont l’action se situe à Paris, la Cousine Bette est sans doute le plus parisien. L’écrivain a observé que chacun est forme par le milieu physique et social dans lequel il vit. Aussi a-t-il cherché les liens qui unissaient les acteurs de son drame et les rues de Paris: chaque rue a son individualité et chacune impose à ses habitants certaines habitudes et certaines manières de penser.

  Pour bâtir le Paris de la Cousine Bette, il a placé ses personnages dans le quartier qui leur convenait.

  Aussi, n'est-ce point seulement une atmosphère parisienne qui enveloppe le roman, mais y a-t-il une convenance aux caractères.

  Suivons la cousine Bette ou le Baron Hulot à travers le Paris de 1836 un Paris déjà transformé, bouleversé en 1846.

  D’abord le Paris des ministères et des fonctionnaires, entre les Invalides et le boulevard Saint-Germain. Hulot d’Ervy, haut fonctionnaire du ministère de la Guerre, y habite une grande maison rue de l’Université entre la rue de Bourgogne et la rue de Bellechasse mais il arrivera un jour où le baron ruiné choisissera (sic!) pour sa femme Adeline un premier étage rue Plumet orné de magnifiques boiseries, mais plus simple: c’est la gêne.

 Comment ne pas se souvenir de Goriot, pour qui chaque étage de la pension Vauquer est une étape vers la déchéance et la mort? Il est aussi de changements de quartiers qui ont tout à la fois une valeur psychologique et une valeur sociale. Les jeunes mariés Steinbock et Hortense iront rue Saint-Dominique, près de l’Esplanade des Invalides. Le maréchal Hulot habite rue du Montparnasse, dans un hôtel en harmonie avec sa dignité militaire, mais par simplicité n’en habite que le rez-de-chaussée.

  Valérie Marneffe, au sommet de sa vie de courtisane bourgeoise, ira elle-aussi vivre dans ce quartier respectable, rue Vaneau, puis dans un charmant hôtel rue Barber-de-Jouy.

  Ensuite le Paris des quartiers neufs, celui des nouveaux riches: Crevel réside rue des Saussayes, du côté de Saint- Philippe-du-Roule, dans un apartement (sic) de mille écus par an, décoré par l'architecte Grindot; qui recommence par la millième fois, son salon blanc et or, tondu de damas rouge.

  Voici le Paris des courtisanes, de Josépha, la cantatrice, la maîtresse de Crevel, rue Chauchat, dans l'actuel IXe arrondissement: il n’est pas loin de la Bourse, elle est près de l’Opéra. Mais il y a une hiérarchie dans les demeures des courtisanes, des changements d’état que symbolisent des déménagements: Josépha quittera Hulot, après Crevel, pour la rue Ville-l’Evêque et un petit hôtel payé par le due d'Hérouville. Paris des changements de salons, du demi-monde, du monde, où l'on s’amuse, de la vie parisienne, des diners offerts par Du Tillet, des soirées de Valérie Marneffe: esprit, méchanceté, intrigues.

  Paris des artistes, de Chanor et du sculpteur Stidmann, des étrangers, du polonais Steinbock et du Brésilien Montès.

  Paris financier des Nucingen et des Keller.Paris, la ville, dit Crevel, où tous les gens d’énergie qui poussent comme des sauvageons sur le territoire français, se donnent rendez-vous: Paris des arrivistes, Rastignac et Popinot, Paris mystérieux, cher au romantisme de Balzac, Pari policier et criminel de Chapuzot, Vautrin et Mme Nourrisson, un Paris qu’aimait Eugène Sue.

  C’est aussi le Paris sordide, celui de la rue du Doyenné, où habite par économie la cousine Bette, dans un pâté de maisons, le long du vieux Louvre, où règnent les ténèbres, l’air glacial, le silence, la profondeur caverneuse du sol; maisons-cryptes; maisons-tombeaux sinistre quartier condamné à disparaître, où habitent Marneffe, petit employé au ministère, et sa femme dans la gêne et l’envie, où l'émigré polonais Steinbock a tenté de se tuer: maisons lépreuses, coeurs atteints par cette lèpre.

  Paris sinistre de la petite Pologne, entre la rue du Rocher, la rue de la Pépinière et la rue de Miromesnil, quartier des indigents; un Paris dont s’est emparé d’ailleurs la spéculation, bouges que d’élégantes maisons vont remplacer et d’où les pauvres gens seront, dit Balzac, écartés par le prix du loyer. C'est là, dans le passage du Soleil, qu’Hulot s'est caché sous le nom de Vyder, écrivain public.

  Paris pauvre de la rue Saint-Lazare, où habitent les parents de la jeune Atala Judici qui vit avec Hulot, des fumistes italiens, quartier où se groupent les émigrés de la vallée de Domo d’Ossola.

  Paris des artisans et des ouvriers, que l’on entrevoit à travers les retraites successives du baron: quartier Maubert, rue des Bernardins, chez Elodie Chardin, repriseuse de dentelles, puis rue de Charonne, vers le cimetière du Père-Lachaise, où le baron est resté un mois sous le nom de Thorec. Un Paris qui s’agrandit, qui s’étale, qui fait maître des cloaques, des taudis, un Paris où les associations charitables envoient des Adeline Hulot en des expéditions moralistes.

 

  «La vie est en passion» écrivait Balzac en 1829. Et ses romans sont en effet devenus des monographies de passionnés, des études de monomanes: ce sont les histoires d’une lente destruction, d’une dégradation continue d’une personnalité (sic), de l’anéantissement en elle de tout ce qui n’est pas sa passion. Le passionné n’est plus qu’un être instinctif. Le baron Hulot a la passion des femmes, il veut aimer et être aimé; d’aventure en aventure, sa passion de plus en plus exacerbée, cherchant sans cesse une satisfaction que l’âge lui refuse bientôt, le conduit aux pires déchéances. Il ne reste plus de lui à la fin du roman qu’un être auquel le vice impose des gestes automatiques et où ne brillent plus en de rares lueurs que des appétits ou des désirs charnels. Gestes et mots de bête, que Balzac guette et nous livre avec une cruauté scientifique: Hulot déchu, devenu l’écrivain public Vyder, dit à sa femme Adeline, qui veut l’arraccher (sic) à cette vie et à la jeune Atala Judid: «Je le veux bien, mais pourrai-je emmener la petite?».

  Hulot, revenu dans sa famille, chuchote à la servante Agathe: «Ma femme n’a pas longtemps à vivre, si tu le veux, tu peux être baronne».

  Cette passion Balzac ne l’étudie pas comme un état définitif et permanent, il la voit dans son devenir; il met ainsi le doigt sur la lente déchéance physiologique de Hulot, concrétise à nos yeux son affaissement progressif. Trois portraits, 1836: «Chez le baron, rien, il faut en convenir, ne sentait le vieillard: sa vue était encore si bonne qu’il lisait sans lunettes; sa belle figure oblongue, encadrés de favoris trop noirs, hélas! offrait une carnation animée par des marbrures qui signalent les tempéraments sanguins; et son ventre, contenu par une ceinture, se mantenait (sic), comme dit Brillat-Savarin, au majestueux».

  — 1841: Le baron aux cheveux blancs a, sur les conseils de Valérie, ôté son gilet de peau et son corset; «il se débarrassa de toutes ses bricoles. Le ventre tomba, l’obésité se déclara».

  1846: Hulot-Vyder, en veste grise tricotée, en pantoufles, est un agréable vieillard complètement détruit, mais spirituel. Cette déchéance physique est soulignée par la déchéance sociale: le baron, dans son hôtel, rue de l’Université, puis rue Flumet, dans le magasin d’Olympe Bijou, chez Élodie Chardin, la repriseuse de dentelles, enfin, écrivain public du passage du Soleil. Avec Hulot, c’est une des images les plus puissantes de la Comédie Humaine, que Balzac nous ait laissées: création qui s’apparente aux Goriot et aux Claës, mais avec une piussance (sic) de destruction qui dépasse la famille pour atteindre la société.

  L’originalité de Balzac est d’avoir placé en face de Hulot une cousine Bette tout aussi passionnée, dévorée, brûlée et desséchée par l’envie et la jalousie, qui finit elle-même par se brûler, qui est tout intrigue et toute haine, où se mêlent la puissance de son amour refoulé pour Steinbock, la virulence de la jalousie qu’elle a conçue dans sa jeunesse pour sa cousine Adeline, et l’envie bourgeoise de parvenir à la considération.

  Elle voit ses espoirs frustés (sic) les uns après les autres, et ses machinations aboutissent à l’échec final de son mariage avec le maréchal Hulot, qui meurt hélas! trop tôt. Elle se consume alors d’une de ces maladies qui est un symbole, consomption lente, entourée de l’affection de ceux qu’elle hait et qui ignorent sa méchanceté. Elle, l’araignée, au centre de cette toile dont elle a tissé tous les fils, hypocrite géniale, animée de cette frénésie des femmes vieillies sans amour.

  Les passionnés de Balzac sont tous à la fois entourés de mystère et de terreur; car ils causent d’immenses ravages. Unis inconsciemment dans cette oeuvre, Hulot et Bette provoquent cette désagrégation d’une famille bourgeoise: Victorin Hulot sera complice d’un crime pour la sauver du déshonneur; Adeline s’avilira devant Crevel; le baron se rendra coupable de malversation. Et la famille n’échappera pas à la ruine et à la honte: démission de Hulot, mort du maréchal, séparation d’Hortense et de Steinbock.

  Il faudra par la suite les efforts de Victorin pour reconstituer l’unité de cette famille. Du choc de cette puissance mystérieuse et des obstacles qu’elle rencontre naissent les drames, et, comme dans une tragédie classique, le drame ne se termine qu’avec la mort.

  Mais Balzac n’a pas pour autant sacrifié tous les autres personnages à deux figures aussi vigoureusement éclairées. Valérie Marneffe, jeune femme de vingt-trois ans, est la courtisane bourgeoise, rusée, avide d’argent, instinctive et passionnée. Adeline incarne la fidélité conjugale et l’ennui; c’est un des rares personnages honnêtes de la Comédie Humaine. Le maréchal Hulot est l’honneur, Victorin le respect filial.

  Wenceslas, l’artiste, le slave nonchalant et paresseux, l’inadapté.

  Balzac ne s’est pas non plus arrêté avec le baron à éclairer un seul asp[e]ct de l’amour dans ce qu’il y a de plus charnel et de plus sensuel, le roman contient toutes les nuances de ce sentiment: amour respectuex (sic) du maréchal Hulot pour sa belle-soeur, amour conjugal d’Adeline pour le baron, où flotte le souvenir d’une admiration et d’une grande passion, amour ambitieux et commerçant de Crevel pour Adeline, où se concilient la passion et l’arrivisme, amour refoulé et jaloux de la Cousine Bette pour Steinbock, où se mêlent le sentiment de protection et l’instinct maternel, amour-caprice de Valérie pour le jeune Polonais avec ce qu’il a de goût pour l’étrange. Étude aussi de la naissance de l’amour chez Hortense, rappel de la naissance de l’amour chez Hortense, rappel de la Princesse lointaine, jusqu’aux scènes que ne désavouerait pas un romancier naturalisthe (sic) dans la maison de Mme Nourisson. Il y a dans ce roman le tableau de toute une humanité à la fois dans ce qu’elle a de plus noble et de plus dégradant, une analyse de la passion qui rejoint par sa profondeur celle de Racine.

 

 

  Ugo Casiraghi, “La fanciulla dagli occhi d’oro”, maliziosa ma priva di passione, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, 23 agosto 1961, p. 6.

 

  La fanciulla dagli occhi d’oro è l’opera di un regista della nouvelle vague che ha affidato il proprio ingresso nel lungometraggio all’autorità di Balzac, facendo ricorso per la sua, diciamo così, esercitazione di laurea, ad un breve romanzo del grande scrittore, che gli è parso il più suscettibile di attualizzazione. [...].

  Così, il – dandy – balzachiano è diventato un arbitro della moda femminile attraverso la sua lussuosa agenzia fotografica, e la sua amica-collaboratrice, si è trasformata nella corrispondente parigina d’una rivista americana a grande tiratura. Ciò che nel 1834 si conquistava a Parigi con il danaro e la nobiltà, lo si ottiene oggi con il ricatto e la fuoriserie: ma il vizio di allora non è cambiato, se non nel senso che, da violento, si è fatto sazio, da sanguigno, esangue.

  Sfortunatamente, una simile evoluzione sembra aver subito anche lo stile del film: il nostro Albicoco ha imparato troppo presto da suo padre (che del resto gli ha fatto da operatore) a centrare tutto sulla bella inquadratura e sull’equilibrio della composizione luministica. mentre di Balzac ha dilatato a dismisura i particolari scenografici e di costume, trascurando di proposito la drammaticità, o comunque offrendola sempre attraverso il velame del formalismo. Cosicché il suo autore, più che il robusto e realistico Balzac, sembra uno di quei già annoiati favolisti – crudeli – della decadenza di fine-secolo. [...].

  La «modernità» e l'audacia di Balzac, per Albicoco, consistono semplicemente nel fatto che nel libro era narrata una storia di «amicizie particolari». La fanciulla del titolo, infatti, stabilisce il terzo lato di un «triangolo», abbastanza avanzato per quella prima epoca di fiorente borghesia. Balzac la descriveva «vergine, ma tutt’altro che innocente» (la fanciulla, s’intende, non la borghesia). I suoi occhi rimanevano puri, ma la sua innocenza si era già perduta tra le braccia della sua protettrice, la marchesa Eleonora. La quale si vendicava come una fiera, pugnalandola a morte, quando scopriva che la fanciulla si era innamorata del cinico De Marsay e a lui aveva donato voluttà tanto più cocenti, quanto più motivate.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac nel marzo 1936, «Contributi del Seminario di filologia moderna, serie francese», Milano Società Editrice “Vita e Pensiero”, Volume II, 1961, pp. 72-167.

 

  Altrettanto grave che nei mesi precedenti ed altrettanto intricata e confusa la situazione economica del Balzac continua a presentarsi, nel mese di marzo, non solo senza possibilità immediata di miglioramento, ma senza nemmeno lasciar intravedere lontane speranze di una soluzione positiva.

  Se l’ammontare delle cambiali in scadenza (a quanto almeno risulta dai documenti conservati) sembra meno rilevante, nel corso di questo mese, di quello del gennaio e del febbraio, l’insieme complessivo dei debiti e degli impegni commerciali che lo scrittore dovrà in qualche modo provvedere a pagare entro la fine di marzo rimane singolarmente pesante. E tanto più oneroso in quanto estremamente problematiche, e molto spesso del tutto illusorie, sono quelle speranze di nuove fonti di guadagno che possano irrorare le casse esauste del Balzac. [...].

  Alle, scadenze delle obbligazioni di carattere personale debbono aggiungersi infatti quelle effe, susseguentisi nella prima e nella seconda quindicina del mese, riguardano gli impegni, pivi importanti e più gravi, relativi all’amministrazione della «Chronique de Paris» e al processo del Lys dans la vallée. Il 1° marzo, a termini del contratto del 24 dicembre 1835, scade infatti la seconda rata del versamento che lo scrittore deve fare al Béthune per le spese di gestione della rivista: rata rappresentata dalla cifra, elevatissima, di 15.000 fr., e il cui pagamento non è ricoperto che, per metà, dalla promessa del versamento di 7.500 fr. fatta dal Werdet. Inoltre, taluni contrasti che già si delineano nella direzione della «Chronique» e che porteranno nella seconda metà del mese alle dimissioni di Duckett dal comitato direttivo, obbligheranno il Balzac ed il Béthune a disinteressare il direttore uscente e a regolare i conti con lui. E la liquidazione del Duckett, per la sola parte spettante al Balzac, ammonterà alla somma, abbastanza ingente, di 1.250 fr. Infine, nel corso di queste stesse settimane, lo scrittore è tenuto a depositare in tribunale (in attesa che questi decida in merito alla contestazione del Lys) l’intera somma di 2.100 fr. che costituisce il rimborso degli anticipi ricevuti dal Buloz sui romanzi destinati alla «Revue de Paris» e lasciati interrotti: somma, del resto, che lo scrittore, fin dai mesi precedenti, s’era impegnato a mettere a disposizione del direttore della «Revue de Paris».

  Tutte queste cifre — il cui ammontare è in un modo o nell’altro già calcolato — non esauriscono ancora l’intero complesso dei debiti che, sotto un certo aspetto, rimane sempre imprevedibile. Giacché ad essi va unita una serie di altre, improvvise, sollecitazioni o ingiunzioni di pagamento: spiacevoli ed inattese sorprese che, nella grande confusione degli affari balzacchiani, così come sono sempre state abituali nei mesi precedenti, non mancano infatti dal presentarsi anche in marzo. [...].

  Di fronte al pesantissimo carico di tale passivo, l’attivo del bilancio balzacchiano si presenta, come s’è già accennato, singolarmente irrisorio per non dire inesistente del tutto. Senza fondi di cassa, senza possibilità alcuna di trarre dalla propria collaborazione alla «Chronique» un guadagno immediato e liquido o di ottenere nuovi anticipi dai suoi editori (in pauroso arretrato come è con i suoi impegni editoriali!), il Balzac non può contare su alcun provento immediato nè da parte della propria attività giornalistica nè da quella libraria. Egli spera bensì nella felice conclusione di un progetto editoriale, ancora suscettibile di rivendita, (la ristampa dei Contes drolatiques) e in una fortunata combinazione speculativa da operare sulle azioni di sua proprietà della «Chronique», ma, in realtà, si tratta di speranze delle più dubbie e, per quanto riguarda la ristampa dei Contes drolatiques, del tutto vane. Le operazioni affaristiche potranno approdare, verso la fine del mese, alla vendita di un certo numero di azioni della rivista; ma, anche qui, si tratterà di una speculazione molto inferiore alle aspettative e i cui proventi andranno probabilmente a colmare falle finanziarie nuovamente apertesi. [...].

  La coscienza di trovarsi in una condizione finanziaria gravissima e, almeno per ora, senza via di uscita, non rende tuttavia più ragionevole lo scrittore in fatto di spese. Se questi, che per tutto il mese risiede stabilmente nella sua casa di rue Cassini, ha abbandonato giudiziosamente ogni progetto di investimento immobiliare a Parigi ed ha persino interrotto gli sfarzosi lavori di arredamento della casa di Chaillot, non ha tuttavia rinunziato completamente a tutte quelle piccole o grandi fantasie di lusso che costituiscono, si direbbe, una delle ragioni permanenti (e non delle minori) della sua stessa esistenza. [...].

  L’atteggiamento del Balzac di fronte a tale complicata situazione economica e la misura delle sue reali preoccupazioni ci sono abbastanza fedelmente rappresentati dallo scrittore stesso in vari passi della sua corrispondenza con Madame Hanska. Pur attraverso il diaframma di cautela che, normalmente, vela gran parte delle informazioni trasmesse alla lontana corrispondente, e pur attraverso le prospettive improvvisamente ottimistiche che, di tanto in tanto, allorché qualche nuova speranza balena davanti agli occhi del narratore, sembrano aprirsi e capovolgere d’un tratto la realtà, la sensazione di trovarsi all’orlo della rovina, l’inutilità di ogni sforzo tentato per far fronte ad una situazione di giorno in giorno più catastrofica, la disperazione di non riuscire a raggiungere, dopo tanti anni di lotta, un qualsiasi, sicuro, risultato materiale, sono i motivi continuamente, inequivocabilmente ricorrenti. La stessa improvvisa nota d’ottimismo che, talora, risuona come una vittoria e sembra segnare l’inizio di una radicale trasformazione della situazione e, addirittura, di una èra nuova, non sempre appare schietta ed autentica: e si basa sulla speranza — alquanto miracolistica — della felice risoluzione di affari che sono, al contrario, dei più fragili ed illusori e che tali, del resto, dovevano essere giudicati, in fondo al cuore, dallo stesso corrispondente. [...].

  Come si è visto dalle precedenti citazioni, talune delle speranze più vive nutrite dal Balzac per cercare, almeno in parte, di risanare il proprio disastroso deficit sono affidate all’affare della «Chronique»: sia che lo scrittore si auguri ancora un aumento di abbonati e di lettori del giornale, sia che, in seguito, più dubitoso del successo, confidi almeno in una fortunata cessione di una parte del proprio capitale azionario e, fors’anche, in un nuovo afflusso di capitali. [...].

  La storia della «Chronique» nel mese di marzo è abbastanza complicata e non è chiara in tutti i suoi sviluppi, ma è, grosso modo, ricostruibile nei suoi avvenimenti più importanti; ed è tutta, purtroppo, storia ingloriosa, che si trascina con difficoltà d’ogni genere in un terreno malfido, fra quotidiane ristrettezze. [...].

  Se la gestione finanziaria della «Chronique de Paris» e se tutte le preoccupazioni che essa desta non sono per contribuire ad uno stato d’animo di serenità, il processo del Lys dans la vallée non crea minori ansie al Balzac nè determina in lui minori contrarietà.

  Fissato per l’udienza del 1° febbraio, ed in seguito rinviato, il processo è stato ora assegnato al 25 marzo. Da un lato e dall’altro, pertanto, in tutto il corso del mese, il lavoro delle due parti in causa e dei loro avvocati per preparare elementi di documentazione, argomentazioni, «memorandum» da presentare ai giudici per l’udienza, si fa più intenso e più fitto.

  Da parte del Buloz l’azione preparatoria, già in pieno sviluppo, assume ora il carattere di una vera e propria offensiva. Ad una data imprecisata (che dovrebbe comunque coincidere con la metà di marzo) il Direttore della «Revue de Paris» redige per rimettere ad uno dei membri della Prima Camera del Tribunale della Senna, incaricato della istruzione del processo, il giudice Durantin, un lunghissimo documento relativo ai precedenti della lite fra la «Revue de Paris» e il Balzac, e dove tutti i torti, veri e presunti, dello scrittore verso la direzione della rivista sono minuziosamente enumerati, commentati e, naturalmente, prospettati nel modo più ostile per l’avversario.

  Il promemoria del Buloz è di notevole interesse: e benché esso, in fondo, non ci dica cose nuove e costituisca la materia bruta sulla quale lavorerà di cesello la brillante e sarcastica eloquenza dell’avvocato Chaix-d’Est-Ange, il giorno (ancora lontano!) dell’udienza, rappresenta tuttavia un vero e proprio «historique» dei rapporti fra la «Revue de Paris» e il Balzac (in una prospettiva che è naturalmente tutta parziale) dal 1834 al 1836, e si affianca così, ora contrapponendosi, ora integrandolo, a quello che rappresenterà, più tardi, il punto di vista balzacchiano: il cosidetto Historique du procès auquel a donne lieu le «Lys dans la vallée». Indipendentemente, poi, dai fatti narrati, il tono di questo «factum», quanto altri mai aspro e duro, rivela chiaramente a qual punto il contrasto dei due abbia raggiunto animosità e violenza; e denuncia come, almeno dalla parte di Buloz, il risentimento verso l’avversario sia diventato tale da far dimenticare ogni più elementare rispetto sociale e da coinvolgere nel giudizio tutta la personalità morale e privata dello scrittore. [...].

  Anche da parte del Balzac, naturalmente, l’attesa dell’udienza non è attesa passiva; e già si sa quanto, in lui, il proprio prestigio di scrittore non meno che considerazioni di indole più schiettamente economica, siano fortemente impegnati in questo affare. Nella difficoltà di impostare la propria difesa su quel piano di correttezza professionale sul quale il Buloz vuol portare il processo (e sul quale la «Revue de Paris» ha, evidentemente, il miglior gioco) il Balzac punta tutte le sue armi sul reato di contraffazione letteraria e sul danno morale di cui ha risentito il valore artistico della sua opera, in seguito all’indebita trasmissione in Russia delle prime bozze di stampa. È probabile che appartenga a questa fase di preparazione alla difesa l’invio al proprio avvocato Boinvilliers, perché siano comunicate ai giudici, delle famose bozze del Lys (quelle cosiddette «en tête de clous») che erano servite alla stampa della «Revue étrangère de Saint-Pétersbourg» [...].

  Le difficoltà di condurre di fronte, contemporaneamente, la battaglia dei propri affari, quella della direzione della «Chronique», quella del processo del Lys e [...] quella ancor più importante e quasi immane della propria attività letteraria, sono rese più onerose dalle condizioni di salute, non buone, in cui si trova lo scrittore. [...].

  Anche in questo mese, come già in febbraio, nessun documento ci è rimasto della corrispondenza fra Honoré, la madre e il fratello – quest’ultimo sempre domiciliato a Les Andelys e sempre insabbiato in una situazione economica e sociale delle più critiche ed umilianti. Nulla, naturalmente, vieta di supporre che tale corrispondenza sia esistita e che possa essere stata anche intensa; e che ciò che noi interpretiamo oggi come un premeditato silenzio sia solamente dovuto alla scomparsa delle lettere. Ci sembra comunque molto probabile che lo scambio epistolare fra Parigi, Chantilly e Les Andelys non sia stato, nemmeno in questo mese, nè frequente nè affettuoso. È certo, in ogni caso, che nessun fatto nuovo è intervenuto a sanare i contrasti ed a cambiare i rapporti — che sono e restano normalmente cattivi — fra Honoré, la madre e il fratello; e che tutti i motivi di urto e di diffidenza reciproca continuano a sussistere sia sul piano economico (lo scrittore non ha provveduto ancora a saldare, nemmeno in parte, il suo grosso debito con la madre) sia su quello affettivo (le pressioni comuni di Honoré e di Laure per decidere Henry a ripartire per le Colonie continuano a restare lettera morta).

  Ci troviamo insomma di fronte, nel mese di marzo, a quella stessa situazione familiare, tesa e pesante di contrasti, che, da molto tempo, conosciamo abituale di questa strana famiglia dei Balzac. Divisi da un groviglio d’affari, da resistenze affettive, da una serie segreta (ed impossibile a chiarirsi) di equivoci, stanno, come sempre, da una parte, Honoré, dall’altra Madame de Balzac madre ed Henry; e senza nemmeno la possibilità che Laure (la quale è un po’ il trait-d’union fra le due parti) riesca a ristabilire di tanto in tanto un senso di simpatia o di comprensione reciproche.

 

***

 

  Non molto diversamente dalla situazione familiare, quella sentimentale varia di poco rispetto agli amori che conosciamo dominanti nel cuore del Balzac nel mese di febbraio.

  Sempre più lontana dagli affetti dello scrittore, Madame de Berny che «depuis la perte de son fils ... n’a pas encore voulu le voir» e che «ne veut recevoir que son fìls aîné » continua a non rappresentare più che un ricordo: ricordo tendente ad affievolirsi sempre di più nel tempo e che, se talora è richiamato alla memoria, lo è per essere giudicato con una specie di distacco storico, non privo di una certa realistica durezza.

  Più vicine al cuore o ai sensi del Balzac rimangono invece le tre Muse che già, da tempo più o meno lungo, ed anche recentissimamente, sono penetrate nel suo segreto mondo sentimentale e se ne dividono — in verità un po’ confusamente — l’impero: la contessa Guidoboni-Visconti, Madame Hanska, Louise.

  Più intima di tutte, in questa triade femminile, è certo la «Contessa» della quale (anche se dei suoi rapporti con Balzac ignoriamo tutto) sentiamo inesplicabilmente presente la bellissima ed opulenta figura. Il diario misterioso della sua intimità con lo scrittore [...] non ci permette di dire nulla, nemmeno ora, di questo amore. Ma ci sembra naturale affermare che esso debba essere sempre fortissimo e ardente; e che la passione (o forse anche il capriccio) continui ad investire questi due esseri così diversi per temperamento, per cultura, per educazione.

  Di qui a tre mesi Sarah darà un figlio al Balzac, Lionel-Richard, e l’attesa — ormai prossima — del frutto di questa relazione non può mancare certo dal tenere in uno stato di tensione lo scrittore (che, alla fine di maggio, saluterà abbastanza rumorosamente, l’arrivo del figlio adulterino). Come non essere tentati, per esempio, di leggere in una cifra simbolica un lungo passo sui figli, sulle responsabilità morali dei genitori, sui delicatissimi principi della prima educazione, che si inserisce stranamente in una lettera a Madame Hanska del 27 marzo? Si tratta, naturalmente, di osservazioni generali che evitano, soprattutto, di favorire ogni possibilità di aggancio reale (nè altro ci si potrebbe attendere in una lettera diretta all’Etrangère) ma che, lette in trasparenza da chi conosce oggi alcuni segreti della vita intima del Balzac, assolutamente insospettati alla lontana corrispondente polacca, sembrano assumere una vibrazione tutta attuale e personale. E il significato «a chiave» di queste strane pagine tanto più s’impone alla nostra attenzione quanto più si riflette che il motivo dei «padri e figli», il tema di certa «folle ivresse» paterna e della singolare tenerezza con cui «les femmes aiment l’enfant d’un illicite amour», non sono motivi e temi tipicamente balzacchiani, ma hanno una loro improvvisa (e quasi involontaria) fioritura proprio nel periodo di cui qui ci occupiamo, dal marzo sino alla fine del 1836.

  Cara al Balzac (e certo molto più vicina di quanto non fosse stata nei mesi precedenti) è anche Madame Hanska con la quale il Balzac riprende, dopo più di un mese di silenzio — peraltro reciproco — una attiva corrispondenza. Ai contrasti bizzosi ed adirati che le lettere del gennaio denunciavano apertamente; al silenzio, carico di significato, del febbraio, succede, nel marzo, una ripresa epistolare abbastanza intensa, la quale è, per di più, contrassegnata da un tono più caldo e più affettuoso: parentesi breve che si chiuderà fra non molto e che non eviterà, nei mesi successivi, una quasi-rottura fra i due amanti, ma di cui bisogna tener conto perché indica un tentativo di rilancio stranamente insistente da parte del narratore. [...].

  È già molto difficile conciliare queste manifestazioni così insistite e così calde di affetto verso Madame Hanska con la presenza della contessa Guidoboni-Visconti: presenza non platonica, come sappiamo, e strettamente legata all’intimità balzacchiana. Ma la lontananza dell’una e la vicinanza dell’altra possono, in certo modo, spiegare (se non giustificare) tale curiosa bilocazione sentimentale, per così dire, dello scrittore. Più sconcertante ancora è mettere d’accordo l’amore realizzato e trionfante con la Contessa, quello teneramente dichiarato ad Evéline Hanska, con il tentativo di un terzo legame sentimentale, nella stessa Parigi, con una terza donna: quella misteriosa Louise che, fin dal febbraio, è entrata nella vita sentimentale dello scrittore. Eppure Louise viene occupando, in queste stesse settimane, un posto che tende a diventare sempre più importante nel cuore del Balzac. E non è certo per volontà di questi se le operazioni strategiche che dovrebbero portare alla conquista della enigmatica corrispondente non saranno coronate dal successo e l’amore fra i due non avrà la possibilità di realizzarsi compiutamente.

  La giovane sconosciuta ci appare infatti, per tutto il mese di marzo, oggetto di interesse incuriosito, vivace ed irrequieto per il Balzac che lotta con tutti i suoi mezzi per vincere le resistenze morali di lei, per farla recedere dalla decisione assunta di rimanere lontana ed ignota, e che, di fronte ai rifiuti costantemente opposti, sente eccitata la sua curiosità, più forte il suo capriccio, e, per uno strano fenomeno di cristallizzazione a distanza, prova un sentimento d’amore sempre più intenso. [...].

  I rapporti d’amicizia che, insieme ai legami amorosi, costituiscono la vita sentimentale del Balzac, verificano ancora, nel mese di marzo, quanto si è avuto già l’occasione di dire altrove sulla «solitudine» psicologica dello scrittore per quanto riguarda questo aspetto,— per altri così intenso e consolante — del sodalizio umane,- Essi continuano infatti ad apparirci periferici alla sua natura, al suo carattere ed al centro vero dei suoi affetti, e, per quanto ci consta, sono piuttosto causa di preoccupazione e di contrarietà che non fonte di distensione e di serenità di spirito.

  E’ nota la cerchia — non ampia — di quelli che, in questo periodo, possiamo considerare gli amici del Balzac: Madame Zulma Carraud, il pittore Borget, Regnault, Sandeau e pochi altri; e già essa dimostra, nell’esiguità dei nomi, una certa incapacità dello scrittore ad abbandonarsi — al di là di un certo limite sociale e mondano — alle gioie e alle responsabilità più intense dell’amicizia. Ma è ancora più nota — anche entro questa cerchia piuttosto ristretta di persone — una certa invincibile riserva del Balzac ad un pieno dono di se stesso. Temperamento dominatore, tirannicamente egocentrico, non insensibile all’altruismo, e generoso, ma troppo consapevole della propria vocazione artistica per farne comunque sacrificio ad altri, egli non è mai riuscito a porsi in quell’atteggiamento di fiducia, di partecipazione e di sottomissione che è la base naturale d’ogni amicizia. Forse con la sola Zulma Carraud un vero sodalizio s’è andato formando attraverso il tempo, e forse solo con essa un rapporto di perfetta uguaglianza e di assoluta sincerità ha cementato una amicizia a tutta prova. Ma del conforto di questa amicizia [...] nulla è possibile dire ora: fra Frapesle e Parigi la corrispondenza, interrotta fin dal novembre del 1835, continua a tacere ancora per tutto il marzo. [...].

  [...] anche il mese di marzo, sotto l’aspetto della produzione narrativa e giornalistica, è straordinariamente fecondo e mantiene, pressoché immutato, quel vertiginoso ritmo di lavoro intellettuale del tutto inconcepibile per un qualsiasi altro scrittore che non sia il Balzac.

  Ai primi del mese, questi ha già ripreso il disegno del Cabinet des Antiques e ne ha forse continuato la redazione, riprendendola e correggendola, almeno parzialmente, per la stampa. [...].

  [...] interrotta la pubblicazione del Cabinet des Antiques alla sua prima parte, nello stesso fascicolo della «Chronique» del 17 marzo, appare un secondo racconto del Balzac, iniziato, questo, e concluso, in una sola puntata. È Facino Cane, la breve storia del grande signore Veneziano, bandito dalla Serenissima che, dopo numerose traversie e casanoviane avventure, riparato a Parigi e derubato d’ogni suo avere, è accolto all’ospizio dei «Quinze-Vingts» e quivi (dopo aver comunicato mirabolanti segreti al suo giovane interlocutore) muore cieco e nella più abbietta miseria. Racconto non certamente dei migliori del Balzac, dove l’invenzione troppo insistita e compiaciuta delle avventure disperde nel rocambolesco la purezza del filone narrativo, ma che pur riesce a trovare, nella penetrante rievocazione autobiografica degli anni lontani della giovinezza, nel tocco chiaroscurale di certe scene, nella descrizione della maschera «dantesca» del vecchio protagonista e, infine, nell’amaro umorismo della notazione finale, elementi autentici di poesia. [...].

  Il lungo frammento del Cabinet e la novella Facino Cane sono le due sole opere narrative nuove pubblicate dallo scrittore nel corso del mese di marzo; ma di questo periodo non costituiscono ancora, come è noto, che una parte dell’opera balzacchiana. La quale, notevolmente più vasta, abbraccia anche altri settori, periferici alla narrativa, e connessi invece con le complesse esigenze della professione giornalistica.

  [...] Balzac aveva inaugurato una nuova — ed in certo senso sconcertante — collaborazione politica nella rubrica Critique politique (Extérieur) della «Chronique de Paris», redigendo le prime due lettere sulla France et l’Etranger. Alle due lettere del 25 e del 28 febbraio, lo scrittore fa ora seguire, nel corso di questo mese, ben nove nuovi articoli che vengono pubblicati nei numeri del 3, del 6, del 10, del 13, del 17, del 20, del 24, del 27 e del 31 marzo.

  Si tratta di un complesso, di oltre diciotto piene colonne del giornale, in cui, come il titolo stesso indica, sono dibattuti i più gravi ed i più scottanti problemi di politica estera del momento. [...].

  Per tutto il corso del mese, Balzac è tormentato dalla correzione del Lys dans la vallée che dovrà uscire non appena il processo con la «Revue de Paris» sarà terminato, e di cui vuol fare — per amor proprio di scrittore ed in odio a Buloz e all’«infame» contraffazione russa — un vero e proprio capolavoro di stile. [...].

  La nostra rassegna dell’attività letteraria del Balzac nel mese di marzo sarebbe conclusa qui se non esistesse ancora la probabilità di un’altra fatica intellettuale dello scrittore: fatica intellettuale che, pur rimanendo singolarmente indocumentabile e misteriosa ha suggestive apparenze di realtà e può essere sottoposta ad esame e, con ogni naturale cautela, prospettata al lettore.

  Vogliamo accennare alla questione (che, a nostra conoscenza non è mai stata seriamente posta o è stata frettolosamente risolta per la negativa) della paternità della revisione delle Oeuvres de jeunesse.

  Alla fine di questo mese sono già interamente stampati, per essere diffusi in commercio nei primi giorni di aprile, i due volumi di Jane la Pâle (l’antica Wann Chlore del 1825) destinati ad inaugurare la grossa impresa editoriale compiuta dal Souverain delle Oeuvres complètes de Horace de Saint-Aubin.

  È fuori di dubbio che in un periodo intercorrente fra la fine del 1835 e tutto il primo trimestre del 1836, quest’opera è stata sottoposta ad un lavoro di revisione e di correzione di bozze; ed è altrettanto certo che revisione e correzione sono state straordinariamente lunghe e complesse. Basta dare un’occhiata, anche rapida, al testo del romanzo pubblicato nell’aprile 1836 e confrontarlo con quello del 1825 per rendersi conto delle radicali trasformazioni che la prima edizione ha subito passando alla seconda. E non si esagera affermando che Jane la Pâle dà l’impressione di essere quasi, rispetto a Wann Chlore, un tutt’altro romanzo, o, se si vuole, l’opera di uno stesso scrittore, ma tessuta secondo due maniere diverse. Il fatto che la trama, la successione degli avvenimenti, i personaggi restino fondamentalmente immutati, non vieta che particolari narrativi, movenze e, soprattutto tono e colore del racconto siano profondamente mutati.

  Ora, il problema che si pone è il seguente: a chi compete la responsabilità della revisione del testo e di tutte quelle radicali trasformazioni che (fin dal titolo!) fanno di Jane la Pâle un romanzo differente da Wann Chlore? A de Belloy, al cui compito di revisore fa esplicita menzione un articolo del contratto Regnault-Souverain del 9 dicembre 1835? A de Gramont, l’altro segretario del Balzac, che, nello stesso contratto sembra destinato, implicitamente, a sostituire il primo, nell’eventualità che questi «arrêterait la publication pendant un délai d’un mois soit en ne donnant pas de copie en temps utile, soit en négligeant de rendre les bons à tirer» A Regnault, cui il titolo generale dell’edizione affida la responsabilità pubblica della «mise en ordre»? A Sandeau — che il contratto non nomina neppure, ma che è stato certamente associato all’impresa con la mansione di redigere la Notice su Horace de Saint-Aubin? O, infine, al vero Horace de Saint-Aubin e cioè al Balzac? [...].

  Gli atteggiamenti tritici dei contemporanei verso il Balzac e la sua opera non mutano sensibilmente il quadro già tracciato per i mesi di gennaio e di febbraio: quadro ancora una volta, fatto di luci e di ombre, dove tuttavia le ombre dominano quasi incontrastate per caratterizzare la personalità dello scrittore sotto gli aspetti ad essa più sfavorevoli.

  Ove si eccettui qualche rara e privata attestazione di simpatia (è il caso, il 22 marzo, della lettera di Sophie Mazure che, ringraziando il Balzac dell’invio «toujours aimable, quoique un peu tardif» di Séraphita, afferma di amare questo romanzo e di considerarlo fra le cose migliori dello scrittore), la risonanza della critica continua ad essere fondamentalmente ostile sia nel giudicare l’immoralità dei romanzi balzacchiani o la loro mediocrità letteraria, sia nel commentare m maniera beffarda e sarcastica i fatti personali dello scrittore.



  Raffaele de Cesare, Recensioni. Honoré de Balzac, “Correspondance”. Textes réunis, classés et annotés par Roger Pierrot, Vol. I, Paris, Garnier, 1960, «Rivista di letterature moderne e comparate», Firenze, vol. 14, n. 3, settembre. 1961, pp. 206-210.

 

 

  Raffaele de Cesare, Sur une anecdote de la «Physiologie du mariage»: Stendhal ou Latouche?, «Stendhal Club», Lausanne, 4e Année, N° 13, 15 octobre 1961, pp. 21-30.

 

 […]. Tous les érudits qui se sont occupés des rapports entre Balzac et Stendhal ont mis en relief, à juste titre, parmi les dettes que le premier contracta envers le second, celle qui concerne l’un des exemples destinés à démontrer, dans la Méditation XVII, consacrée à la Théorie du lit, un des inconvénients les plus scabreux des «lits-jumeaux». Balzac, qui connaissait peut-être déjà dès les anuées 1824-1825, une partie de l’oeuvre de Stendhal, et qui, de toute façon, avait utilisé De l’Amour pour une série de considération (sic) sur l’éducation des femmes dans la première version de la Physiologie du mariage (1826), ne se borne pas à reprendre, dans la rédaction de la première édition (1829), les motifs empruntés au texte de Beyle. Voici qu’il ajoute un nouvel élément, bien précis, qui, de son propre aveu, dérive d’un récit stendhalien. Il s’agit de l’épisode milanais où l’on voit la comtesse Elisa Pernetti et son amant Ludovico, emportés par une passion typiquement italienne, oser s’étreindre en présence de l’époux endormi, et braver même la mort.

  L’allusion est précieuse, et il n’est point étonnant que les exégètes lui aient accordé une place particulière. Car, hormis même l’intérêt culturel qu’elle revêt, elle permet de préciser certains éléments biographiques assez significatifs. Ainsi que nous le notions plus haut, Balzac ne se limite pas à mentionner explicitement Stendhal; il indique que c’est de la bouche même de Beyle qu’il tient cette anecdote. Il s’ensuit que, avant décembre 1829 — date de la publication de la Physiologie du mariage —, les deux écrivains avaient dû se connaître personnellement – peut-être lors d’une rencontre chez le baron Gérard, ou même pour avoir été mis en relation par celui qui était alors leur ami commun, Latouche —; et que chez Balzac, à l’intérêt littéraire qu’il portait à l’œuvre de Stendhal s’est ajouté aussi une sympathie personnelle suscitée par l’homme et ses prestigieuses qualités de causeur.

  Voici, reproduite en totalité, l’anecdote bien connue de la Méditation XVII qui, traitant entre autres choses des dangers des lits-jumeaux […]:

 

  Je dois à Beyle une anecdote italienne, à laquelle son débit sec et sarcastique prêtait un charme infini quand il me la raconta comme un exemple de hardiesse féminine. […].

 

 […] Balzac n’a pas subi seulement, avant la fin de 1829, l’influence de l’oeuvre stendhalienne, il a ressenti également, au contact d’Henri Beyle, le charme de sa présence, des qualités, exceptionnelles en vérité, qui s’exprimaient dans sa conversation définie ici avec une remarquable pénétration — «le débit sec et sarcastique».

 

***

 

  Mais les choses se compliquent et perdent de leur belle clarté si nous tentons de les approfondir et — comme il est indispensable de le faire chaque fois qu’il s’agit d’une oeuvre de Balzac — de les vérifier en ayant recours à l’histoire de la genèse et du texte de la Physiologie du mariage. […].

 […] quelle est notre surprise lorsque, en nous reportant à l’édition originale, publiée par Levavasseur en décembre 1829, nous y lisons une rédaction presque identique dans sa substance, mais qui […] ne fait aucune mention de Stendhal […].

  L’attribution de paternité est tout autre … A qui doit-on donc penser? […].

  Le doute est, bien entendu, permis. Mais les éléments qui militent en faveur de Latouche nous paraissent malgré tout bien plus décisifs et éloquents que ceux qui peuvent faire penser à Gérard. Et, après avoir bien pesé chaque expression, mesuré […], c’est de Latouche et de lui seul que l’écrivain a voulu parler. […].

  Si, et cette éventualité nous paraît très probable, le nom de Gérard doit être écarté, et si, par voie de conséquence, on reste en présence de celui seul de Latouche, les vicissitudes de l’attribution de paternité de l’anecdote pourraient facilement trouver leur motivation dans une raison psychologique familière à tous les balzaciens. Les rapports entre Balzac, et Latouche, qui avaient été jusque-là intimes, deviennent, entre 1832 et 1833, tendus et franchement hostiles. Après cette date, ils ne font qu’empirer, des deux côtés à la fois, et l’on assiste à une guerre sourde et incessante où tous les coups sont permis. […].

  S’il est en effet certain que ce récit italien a été raconté à Balzac par quelqu’un, ce quelqu’un est-il Latouche ou Stendhal? […].

  Nous ne connaissons pas l’existence, dans l’œuvre de Latouche, d’un récit italien rapportant l’aventure passionnelle d’Elisa Pernetti et de Ludovico. Si Latouche a raconté cette anecdote à Balzac, il ne semble pas qu’il l’ait utilisée par la suite dans un de ses romans. Et ce n’est pas non plus la lecture des œuvres de Stendhal qui nous permettra de retrouver ce récit. […].

  Au lecteur attentif n’échappera pas, toutefois, la saveur stendhalienne particulière de ce récit; saveur qui a son origine aussi bien dans l’empreinte du moule où l’imagination de son auteur a coulé cette histoire que dans la localisation de l’action à Milan, caractéristique elle aussi des évocation de Beyle. En outre, il n’est pas rare, en parcourant ses œuvres italiennes, de rencontrer des épisodes qui présentent une certaine analogie avec celui que rapporte Balzac. Déjà, dans la première édition de Rome, Naples et Florence (1817) nous trouvons par exemple un passage qui n’est pas sans rapports avec l’aventure de la comtesse Pernetti et de Ludovico […].

  Un autre exemple d’audace provoquée par la passion, qui a lieu dans des conditions analogues à celles que raconte Balzac, trouve place, trois années plus tard, dans les Promenades dans Rome […].

  […] si l’on admet l’existence d’un certain «air de famille» qui lie entre elles ces aventures, on peut avancer une autre hypothèse : peut-être est-ce bien Stendhal qui raconta l’histoire de la Physiologie, et Balzac peut., en 1829, l’avoir apprise directement de sa bouche. Mais, à cette date, cette attribution de paternité n’avait ni importance personnelle, ni relief culturel, et Balzac, consciemment ou non, l’a «prêtée» à un auteur plus connu: Latouche ou — mais c’est beaucoup moins probable — Gérard, dont l’autorité augmentait le piquant du récit. C’est seulement beaucoup plus tard, en 1846, alors que la célébrité de Stendhal était devenue un fait patent, que l’attribution véritable a été reprise et soulignée […].

 

 

  Raffaele de Cesare, Pierre Laubriet, Un essai avorté de “Chronique italienne”: «Douleurs de mère» (Fragment inédit de Balzac), «L’Année balzacienne», Paris, Édition Garnier Frères, 1961, pp. 97-109.

 

  pp. 97-102. Il existe à la Collection Lovenjoul, sous la cote A 61, un petit album de seize demi-feuilles de papier rose, de format 22 x 14, reliées par un demi-chagrin rouge foncé ; la première demi-feuille (f° 2) porte un titre, Douleurs de Mère, qui n’apparait nulle part ailleurs sous la plume de Balzac : ni dans Pensées, sujets, fragmens, ni dans les divers albums de notes ou dans la correspondance. Il semble que nous nous trouvions en présence d’un projet totalement avorté.

  Ce projet de roman ou de nouvelle a pourtant donné lieu à trois tentatives. Les folios 2 à 6 sont rédigés sans interruption ; sous le titre figure, en épigraphe, une phrase attribuée à Pie VII: «tanta donna, quanta madre». Le folio 8 contient un texte complètement barré, qui devait constituer la rédaction primitive de la seconde page, représentée par le folio 3. Au folio 9 figurent seulement un titre et une phrase le titre, en italien cette fois, Madre e donna, reprend deux termes de l’épigraphe notée ci-dessus et reparait, au folio 10, avec la phrase du pape et le nom de l’héroïne, Lucrèce Montorio.

  Deux autres folios écrits (7 et 11) paraissent sans rapport avec les folios précédents. Le folio 7 offre, au recto, un début abandonné de César Birotteau et au verso un fragment biffe de description d’appartement; le folio 11 porte seulement un titre rayé et, semble-t-il, inachevé: L’Enfant, qu’il serait hasardeux de rattacher à Douleurs de Mère, malgré l’association naturelle d’idées qu’imposent les mots «mère» et «enfant». Ces deux derniers demi-feuillets étaient-ils originellement réunis? Rien ne permet de le supposer, sinon la présence des derniers feuillets vierges, qui ne s’expliquerait pas si le brochage avait été destiné à regrouper des feuillets écrits non utilisés et isolés. […].

  D’autre part l’examen des écritures révèle une grande ressemblance entre le début de César Birotteau et les quelques lignes de Madre e Donna, au f° 9 ; le premier fragment (Douleurs de Mère) ne comporte d’ailleurs pas à cet égard de différences très accusées avec les autres; en tout cas il n’y a eu, semble-t-il, ni changement de plume, ni changement d’encre. Ces indices, si faibles qu’ils soient, peuvent permettre d’avancer une hypothèse sur la date de la rédaction des quelques pages intitulées Douleurs de mère. […].

  De toute façon, ce début de Birotteau est antérieur à la composition des premiers feuillets du manuscrit définitif écrits à Frapesle en avril 1834. Il porte d’autre part en exergue une phrase des Marana qui parut pour la première fois dans la Revue de Paris en décembre 1832-janvier 1833. Si nous lions la rédaction de l’ébauche Douleurs de mère à celle du faux départ de Birotteau, Douleurs de mère a été composé entre les deux dates limites de février 1833 et avril 1834; si nous dissocions les deux textes, cette rédaction peut avoir été entreprise entre 1829 et une date plus imprécise, mais de toute façon antérieure à juillet-août 1836.

 Il apparaît en effet de toute évidence, dès qu’on passe de l’examen externe du fragment à l’analyse de son contenu, que les pages intitulées Douleurs de mère ont été écrites avant l’expérience «italienne» vécue de Balzac, dont le début remonte au séjour de 1836 et que les voyages ultérieurs (1837, 1838, 1845, 1846) ne cessèrent d’enrichir. […].

  Or un rapide examen permet de saisir un aspect fondamental de cette œuvre inachevée: on ne discerne dans Douleurs de mère ni invention personnelle, ni unité, ni ce frémissement de vie qu’aurait pu imprimer à ce récit une expérience authentique. […].

  Songeons aux œuvres italiennes postérieures à 1836 qui se rapportent de près ou de loin à l’Italie ou aux Italiens: Gambara, Massimilla Doni, Albert Savarus, Honorine et comparons-les à Douleurs de mère. Indépendamment des progrès techniques accomplis, le narrateur, de notre ébauche à ces œuvres achevées, est devenu présent dans son récit. Psychologie des Italiens, coutumes, caractères individuels et collectifs de ce peuple si proche du peuple français et pourtant si différent, tout est désormais pris sur le vif. […].

  Rien de semblable dans Douleurs de mère. Balzac se borne à utiliser des souvenirs de lectures. Tout au plus étoffe-t-il son canevas en introduisant des lieux communs répandus en France, à son époque, sur l’Italie et les Italiens. Comme il ignore la foule des différences historiques, géographiques, psychologiques, onomastiques et dialectales qui séparent les Italiens du Nord des Italiens du Sud (son premier voyage à Turin, avant même le voyage à Naples, suffira à les lui apprendre), il est incapable de les marquer. On s’explique dès lors qu’il choisisse pour un personnage sicilien le nom de Litta, patronyme d’une illustre famille lombarde; qu’il emprunte à un roman irlandais le titre de Comte de Montorio; qu’il renouvelle une bévue commise par Latouche en affublant une camériste du nom inventé de Leona ... La liste de ces maladresses pourrait aisément se prolonger. Une phrase comme: «Je suis Lucrèce moins le poignard» fait honneur aux souvenirs scolaires de Balzac et, à la rigueur, peut passer pour un trait d’esprit; mais un minimum d’expérience italienne directe aurait conseillé à l’écrivain de ne pas la prêter à une jeune femme italienne, même napolitaine, car elle est tout aussi gauche et invraisemblable dans sa bouche qu’elle le serait dans celle d’une jeune femme française.

  Si Douleurs de mère se distingue si nettement des romans italianisants postérieurs à 1836, nous y reconnaissons au contraire un rapport étroit avec tous les aspects de la vie italienne qui apparaissent dans les œuvres de jeunesse et dans celles de la période qui s’étend de 1829 à 1833. Conventions psychologiques, poncifs folkloriques, citations approximatives, absence d’un décor précis, tout dénote un air de famille avec les nombreuses pages consacrées à l’Italie, depuis Falthurne jusqu’à Sarrasine, aux Contes bruns et aux Marana.

  Le caractère livresque de la documentation donne lieu, en outre, à quelques remarques sur les lectures de Balzac et plus généralement sur les sources de sa culture italienne. Les noms des informateurs sont pour la plupart déjà connus ; mais […] ils aident à préciser certaines orientations de notre auteur: ils appellent, à ce titre, une analyse attentive.

  La première influence à signaler semble celle de Charles-Robert Maturin et de son roman pseudo-napolitain La Famille de Montorio. Non que Balzac ait imité, ici ni ailleurs, le fatras de ce roman prolixe et terrifiant; mais il en a utilisé à coup sûr un élément. Nombre de renseignements accumulés par Balzac sur l’Italie ont du reste été puisés dans les romans «noirs» anglais dévorés pendant sa jeunesse.

  Notre fragment fournit une autre confirmation importante : l’influence de Fragoletta de Latouche s’y exerce encore. Balzac ne cesse de se reporter au roman de son ami comme à une source d’information (douteuse à la vérité), même quand ses rapports avec Latouche commencent à s’altérer ou se brisent tout à fait.

  Reste enfin à noter l’apport de l’œuvre stendhalienne, dont les souvenirs nous apparaissent assez sensibles. Certaines considérations sur les mœurs de l’Italie, sur l’antithèse entre l’Italienne et la Parisienne, sur la psychologie des Napolitains décèlent une connaissance approfondie de Rome, Naples et Florence, du traité De l’Amour et même des Promenades dans Rome, dont la publication devait être encore assez récente à l'époque où Balzac se disposait à écrire Douleurs de mère.

  En résumé, sans rien ajouter à la grandeur de Balzac romancier, le court fragment que nous publions offre matière à des observations intéressantes, de nature historique et culturelle. Il témoigne, chez Balzac, d’une curiosité réelle pour l’Italie et souligne l’importance de quelques-unes de ses lectures. Il soulève aussi des questions qui ne sauraient être résolues qu’au terme d’une enquête plus vaste: celles de l’influence de Latouche, de Stendhal et, d’une manière générale, celle de l’italianisme de Balzac.

 

 

  Alberto Consiglio, Introduzione, in Honoré de Balzac, Alfred de Musset, Il Diavolo a Parigi ... cit., pp. 13-22.

 

  [...]. E’ difficile dire se fu proprio Balzac l’ispiratore, l’organizzatore, il tessitore dell’ordito di questa grande guida di Parigi, di questa gigantesca cronique (sic) della molle e feroce capitale su cui regnava il Re dalla testa a forma di pera: Luigi Filippo. Tutto autorizza questa supposizione. Soprattutto il fatto che Le Diable à Paris appare, coi suoi cento tipi, i suoi cento caratteri, le sue mille macchiette, una vera Comédie Humaine: una commedia che porta la impronta della fantasia di Balzac, il sigillo dello (sic) sua personalità tumultuosa.

  Usciva, Le Diable à Paris, nel 1845, nel grigio tramonto della Monarchia di Luglio. Nell’anno della piena maturità tanto di Honoré de Balzac che di Alfred De Musset. Nel periodo, quello di Luigi Filippo, in un certo senso centrale nell’ottocento romantico. E’ nella Monarchia Costituzionale, più che nella Restaurazione, che si forma e si approfondisce il dramma romantico di cui furono eroi i Balzac, gli Stendhal, i De Musset. E’ nel periodo più propriamente «borghese» della storia di Francia e di Parigi, quello nel quale il negoziante si mette la corona e impugna la spada, e il re indossa la palandrana e brandisce l’ombrello, che si manifesta con maggiore ricchezza di colori e molteplicità di accenti, il doloroso contrasto tra gli ideali e la realtà, tra gli impulsi eroici e le necessità della vita quotidiana. [...].

  Abbiamo compreso in questa raccolta alcuni curiosi scritti di urbanistica e di «colore locale» di Balzac, che vengono ordinariamente trascurati dalle «operae omniae». Di Balzac? Meglio diremo di de Balzac; anzi, di Monsieur, del «sire» di Balzac. In questi piccoli scritti, forse meglio che negli altri maggiori, si può osservare il polemico e romantico «aristocraticismo» del grande scrittore. Documenti, anche questi, del dramma di cui Balzac era uno dei massimi interpreti. Il contrasto tra l’entusiasmo, lo spirito, l’intelligenza coi quali descrive la vita e il colore dei Boulevards che sono le arterie della rivoluzione e del progresso, e la nostalgia pungente con la quale piange su Parigi che scompare, ha patetici accenti, e stridori grotteschi, e giudizi paradossali.

  Negli scritti concessi a Le Diable à Paris, Balzac è, soprattutto, maestro di giornalismo, principe dei croniqueurs (sic) nel descrivere la vita e il movimento, il colore e lo spirito della Parigi di Luigi Filippo. Si possono agevolmente comprendere le ragioni per le quali alcuni di questi scritti, e particolarmente quello sui Boulevards, e, quello sugli angoli e sui tipi di Parigi che andavano scomparendo sotto i colpi di piccone o nelle complicazioni del progresso tecnico, non siano stati compresi nelle grandi raccolte delle opere balzachiane: scritti propriamente «minori», giornalistici, cronachistici, per non dire addirittura, nello spirito, «dialettali».

  Ma a distanza di tempo quelle pagine estemporanee di Balzac acquistano significato e sapore di «documento». Il mondo di cui la penna impulsiva ed ardente del grande scrittore descriveva la nascita, il mondo della belle époque, è vecchio, o meglio è morto, da almeno tre quarti di secolo. E da qualche decennio si libra nella sfera dei miti. Le cose, le mode, i costumi, i personaggi che Balzac denunciava in Le Diable à Paris, come rivoluzionari, sovversivi, eretici, hanno trascorso tutti una lunga stagione nella pattumiera dei vecchiumi e nei depositi polverosi della reazione, per risorgere nei tempi nostri col fascino e la magia dell’antico.

 

 

  V.[ictor] Del Litto, Balzac, Stendhal et les «Contes bruns», «Culture française. Quindicinale didattico linguistico-letterario», Bari, Anno VIII, 1961, pp. 237-240.

 

 La date à laquelle Stendhal et Balzac se sont rencontrés pour la première fois est controversée. Vers 1827, a avancé Louis Royer dans un article du Divan de septembre-octobre 1936; vers 1830, a affirmé quelques années plus tard le maître des études balzaciennes, Marcel Bouteron, dans un travail publié en 1941 dans la Revue des Deux Mondes. Cependant les deux érudits tombent d’accord pour admettre que la première rencontre a dû avoir lieu dans le salon du baron Gerard. «Ce fut peut-être chez le baron Gérard, écrit Louis Royer, et cette fois déjà Balzac avait évoqué «cet homme gros et gras et de beaucoup d’esprit», en lui attribuant une anecdote plutôt grivoise». Et Marcel Bouteron de son côté: «N’était- ce pas Stendhal qui avait fourni en 1830 à Balzac, au cours d’une conversation chez le baron Gérard ... la gauloise anecdote d’Ecce homo pour ses Contes Bruns...? »

  Un point de ce débat est à retenir, car il ne manque pas de piquant: les tenants des deux dates, 1827 ou 1830, invoquent tous les deux le même argument pour étayer leur opinion, une anecdote que Stendhal aurait fournie à Balzac. Mais quelle est celle anecdote? Pudiquement, ils gardent le silence, alarmés par sa grivoiserie ou gauloiserie. Ce n’est certes pas une raison de ne pas la sortir de l’oubli, d’autant plus que, bien dans le goût du XVIIIe siècle, elle risque de paraître, au fond, assez fade à des palais habitués, aujourd’hui, à des mets autrement pimentés.

  Au mois de février 1832 a paru chez les libraires Urbain Canel et Adolphe Guyot un ouvrage à la couverture bizarre. Au-dessous du titre, Contes Bruns, le nom de l’auteur était remplacé par une vignette représentant une hideuse tête à l’envers. L’anonymat n’était qu’apparent. Les auteurs, car il s’agissait d’un ouvrage collectif, sont connus: Philarète Chasles, Charles Rabou et Honoré de Balzac. Indiquons au passage que dans la contrefaçons (sic) belge de 1836, la tête à l’envers a disparu et, sans doute pour des raisons commerciales, le frontispice porte: «par M. de Balzac». Des dix récits que le volume renferme, deux, le premier — Une conversation entre onze heures et minuit — et le dernier —Le Grand d’Espagne — sont de Balzac. Une conversation entre onze heures et minuit comporte à son tour treize contes auxquels le cadre donne une unité. La scène est, en effet, chez le baron Gerard. […].

  Entre onze heures et minuit, la conversation devient «conteuse». Un général, le «meilleur de nos philologues et le plus aimable de nos bibliophiles», un médecin, un colonel d’artillerie, racontent tour à tour des aventures vécues. Elles sont toutes plus ou moins tragiques, à tel point que la maîtresse du logis, s’adressant à l’un des présents, réclame une histoire gaie. Le personnage visé s’exécute de bonne grâce. Son conte, le sixième de la série, est précisément l’anecdote «gauloise» à laquelle il a été fait allusion plus haut et qui dans l’édition Conard (1938) des Œuvres diverses de Balzac a été intitulée, pour la commodité des lecteurs, Ecce homo. A son propos nous remarquerons que l’édition Conard ne donne pas le texte de l’édition originale, mais celui de 1844. En effet, Balzac a repris à cette date la plupart des récits d’Une conversation entre onze heures et minuit et les a insérés, sous le titre Echantillon de causerie française, au tome III des Splendeurs et Misères des courtisanes. L’anecdote qui nous intéresse est du nombre. On y relève un certain nombre de variantes, en particulier dans les noms propres. […].

  Que Balzac ait voulu mettre en scène Stendhal, nul ne saurait le contester. L’allusion à l’«homme gros et gras, homme de beaucoup d’esprit et qui devait, partir pour l’Italie, où l’appelaient des fonctions diplomatiques» est claire. Nommé consul de France à Trieste par ordonnance royale du 25 septembre 1830, Stendhal a quitté Paris les premiers jours de novembre. Ce qui d’ailleurs n’implique pas forcément que Balzac ait écrit ce conte avant le départ du néo-consul. La question est de savoir s’il a entendu le conte de la bouche même de Stendhal ou s’il le lui a prêté dans la simple intention de varier son récit. La tentation d’attribuer d’emblée le conte à Stendhal est forte. Ce dernier adorait, nous le savons, surprendre et même scandaliser son auditoire par des paradoxes et des propos fort vifs. C’est Balzac lui-même qui en témoigne dans le célèbre article qu’il a consacré à quelques années de là à la Chartreuse de Parme. […].

  Cependant force est d’avouer que la facture du récit des Contes Bruns est, malgré tout, plutôt balzacienne que stendhalienne. La mention de la fable du Gland et la Citrouille n’est pas un élément décisif, puisque le goût pour La Fontaine est aussi vif chez Stendhal que chez Balzac.

  Mais il y a un argument qu’on aurait tort de négliger: le commentaire à fond polémique dont le narrateur fait suivre son récit. On a vu que les dames faisant mine de s’effaroucher et l’une d’entre elles remarquant que le narrateur «n’a jamais pu rien conter sans y mettre un trait trop vif», celui-ci s’étonne «naïvement» et entreprend de démontrer qu’on ne sait plus rire parce qu’on prétend interdire « toutes les sources de le gaieté franche qui faisait les délices de nos ancêtres ». Or Stendhal a été préoccupé toute sa vie par la question du rire. Ainsi, des trois chapitres qui composaient son pamphlet romantique de 1823, Racine et Shakespeare, l’un était précisément intitulé Le Rire. L’auteur y soutenait, en parlant des Français de son époque: «Chez nous, tout ce qui est fort est indécent». Il y exposait aussi une idée qui lui était chère, le principe de Hobbes sur les causes du rire: le rire est produit par la vue d’un malheur qui suivent subitement à l’un de nos semblables et qui nous fait sentir notre supériorité. Et, à l’appui, il donnait cet exemple: un beau jeune homme, habillé avec recherche se rend joyeusement au bal, mais il tombe dans la boue au milieu des éclats de rire de tous ceux qui ont été spectateurs de son malheur. […].

  L’allusion à Stendhal qui se double ainsi d’une allusion à des idées bien stendhaliennes semble confirmer que Balzac a été assez frappé par la conversation de son contemporain pour en tirer parti le moment venu, soit en faisant sien un conte dont ce dernier illustrait ses considérations sur le rire, soit en adaptant à ces considérations une histoire de sa façon.



  [Marise Ferro?], Prefazione, in Honoré Balzac, Eugenia Grandet ... cit., pp. 9-21.

 

  Balzac, secondo l’anagrafe Honoré Balzac e non Honoré de Balzac come egli firmò i suoi romanzi, aggiungendo al suo nome, poiché era di moda, la particella nobiliare, è stato il più grande romanziere francese dell’800. In quel secolo così fecondo per la letteratura, in cui in Francia, dai romantici ai naturalisti, vi furono scrittori di genio e di talento in quantità prodigiosa, scrittori ch’ebbero nome Chateaubriand, Germaine de Staël, Mérimée, Victor Hugo, George Sand, Benjamin Constant, Alexandre Dumas, Stendhal, Gerard de Nerval, giù giù fino a Flaubert, Maupassant, Zola, senza parlare dei poeti, egli è stato senza dubbio quello la cui «invenzione» fu più acuta, le cui «scoperte» dell’anima umana furono più profonde. le cui «verità» sociali furono più rivelatrici. Scrisse un’opera che ancora oggi stupisce, che ancora porta conoscenze e rivelazioni agli uomini moderni. Balzac descrisse le passioni umane, i vizi e le virtù con una chiarezza e una verità forse uniche. E scrisse novantasei volumi, molti dei quali di quasi mille pagine l’uno, in pochissimi anni, trenta si potrebbe dire. La sua vita, che fu prodigiosa come la sua opera, merita un cenno.

  Egli nacque a Tours il 20 maggio 1799. II padre era un ricco funzionario dello stato, la madre una parigina uscita da una famiglia di banchieri, ricca anch’essa, molto più giovane del marito, bella e capricciosa. Il piccolo Honoré non ebbe un'infanzia felice. Il padre non si occupava di lui, la madre gli preferiva il fratello minore e le due sorelle. Venne chiuso in un collegio a otto anni e vi rimase fino a quattordici, vedendo raramente la famiglia. A quattordici anni, l’età più pericolosa, si ammalò di una malattia che nessun medico di allora riuscì a capire. Il ragazzo era ammalato di esaurimento. Egli non faceva altro che leggere; di giorno, di notte, leggeva tutto quanto gli capitava. Rimandato a casa per curarsi, guarì e riprese gli studi a Parigi, dove i genitori si erano trasferiti.

  Dal 1816 al 1819 seguì i corsi universitari di legge, poiché il padre voleva che diventasse notaio, e si laureò. Ma la passione per la lettura e i libri lo portava nelle biblioteche, dove passava quasi tutta la giornata. Per qualche mese fece pratica in uno studio notarile (pratica che risulterà molto utile a Balzac scrittore, facendogli creare i suoi impareggiabili uomini di legge e i suoi imbroglioni) ma non se la sentì di diventare notaio. Voleva diventare un grande poeta. Disse della sua vocazione alla famiglia e la famiglia, sdegnata, si schierò contro di lui. Allora egli fece una proposta: «Datemi un anno, lasciatemi vivere solo a Parigi, occupato soltanto a scrivere; se tra un anno non avrò scritto un capolavoro, tornerò allo studio notarile».

  La famiglia accettò, a patto ch’egli non chiedesse un soldo di più della piccola somma mensile che gli avrebbero data. Il padre, oramai vecchio, era in pensione, aveva avuto dei rovesci di fortuna e per vivere economicamente si era ritirato con tutta la famiglia a Villeparisis, un paese non molto lontano da Parigi. Honoré, per scrivere il poema che aveva in testa, prese in affitto una mansarda in via Lesdiguières, numero 9, l’ammobiliò con un lettuccio di ferro, un armadio, due sedie, una piccola libreria e un tavolo sul quale poter scrivere. E incominciò una tragedia in versi, Cromwell, che egli immaginava gli avrebbe dato successo, denaro e gloria. Per scrivere la tragedia in versi soffrì fame, freddo, solitudine, ma riuscì a finirla in un anno.

  Col rotolo dei suoi duemila versi sotto il braccio, scaduto il tempo fissato, il giovane Honoré si recò a Villeparisis. Tutta la famiglia, compresi alcuni amici e i fidanzati delle sorelle, erano radunati, pronti ad ascoltarlo leggere il capolavoro. Honoré incominciò la lettura in un silenzio trepidante; ma man mano andava avanti nel leggere, vedeva davanti a sé visi sempre più bui, sempre più delusi ed annoiati. Finì di leggere nella costernazione generale. Il giudizio, anche senza parole, era del tutto negativo. A quello dei familiari si aggiunse quello di un professore di lettere il quale decretò che Honoré poteva fare qualsiasi carriera fuorché quella letteraria.

  Egli non si diede per vinto. Non volle riprendere l’impiego nello studio notarile e, ammettendo di non essere adatto a scrivere in versi, dichiarò che avrebbe scritto romanzi. Tornò a Parigi solo, e vi riprese la sua vita di studio e di miseria. Ma una luce era entrata nelle sue giornate: una gentildonna, la contessa di Berny, conosciuta a Villeparisis, gli aveva detto che credeva nel suo ingegno, che doveva perseverare e scrivere. L’amicizia della contessa di Berny, più vecchia di vent’anni, sarà preziosa a Balzac. La delicatissima donna, piena di bontà, di intelligenza, di comprensione, seguirà il giovane come una madre, infondendogli fiducia e dandogli preziosi consigli. È il figlio di lei, il giovane Alessandro, il quale aveva la stessa età di Honoré, sarà anch’egli un amico incomparabile.

  Ma, sebbene volesse scrivere dei capolavori ed avesse la vocazione letteraria, il giovane Balzac doveva vivere e mantenersi, poiché il padre non poteva più dargli un soldo. Per avere denaro Balzac fece delle speculazioni sbagliate. Volle fondare una casa editrice, una stamperia. Voleva dare una degna cornice esterna ai libri e agli autori che amava. L’impresa, impiantata con idee grandiose (Balzac sbaglierà tutta la vita in imprese finanziarie, per le quali aveva temerarie idee, del tutto irrealizzabili) fu presto un fallimento. E il fallimento gli creò i primi debiti, quei debiti il cui assillo lo perseguiterà tutta la vita. Per potere vivere e pagare i debiti, egli allora pensò di scrivere in collaborazione con un amico dei libri popolari di quella letteratura detta, in quel, tempo «nera». Si trattava di scrivere romanzi di avventure macabre, tra il poliziesco e l’orrendo, genere nuovo, da poco lanciato in Inghilterra da una donna, Anne Radcliffe, e che aveva successo. Ma non firmò i libri col suo nome, bensì con uno pseudonimo: Horace de Saint-Aubin. I romanzi «neri» di Balzac ebbero successo? Forse gli permisero di vivere decorosamente, certo non gli diedero fama, neppure una piccola notorietà. Horace de Saint-Aubin rimase per tutti, benché letto, uno sconosciuto.

  Un giorno del 1829 — Balzac aveva ormai trenta anni, era riuscito ad avere un appartamento in via Cassini ammobiliato con gusto ed eleganza, a vestire bene, a frequentare i caffè e i ristoranti alla moda — un suo amico direttore di un giornale al quale collaborava, gli disse: «Perché invece di scrivere romanzi d’invenzione macabra, non ti riferisci alla realtà e non descrivi ciò che avviene intorno a te? Le passioni vere non ti interessano?». Balzac ebbe un sobbalzo. È vero, non ci aveva pensato! La sua fantasia si mise subito a galoppare, si vide il Walter Scott francese e ideò di scrivere un romanzo a sfondo storico, ma pieno di passioni roventi: l’amore, l’odio, la cupidigia, il bisogno di vendetta. Si ritirò in casa di un amico, a Fourgères (sic), la cittadina bretone che voleva descrivere dal vero nel suo romanzo, e per trenta giorni non uscì dalla sua stanza se non per mangiare e fare quattro passi igienici. Dopo trenta giorni il romanzo era finito. Lo intitolò Les Chouans e lo firmò col suo nome: Honoré de Balzac.

  Il romanzo, che narra un fosco episodio della guerra civile tra bianchi e azzurri, cioè i monarchici e i repubblicani, durante la Rivoluzione, in Bretagna, ebbe subito un grande successo. Il nome di Balzac corse sulla bocca di tutti. Egli era lanciato. In pochi anni divenne famoso. Anzi divenne l’autore alla moda, ricercato e richiesto persino dalle grandi dame nei loro salotti pieni di gente dal nome altisonante. I suoi romanzi vennero letti in tutta Europa; molti lettori, di ogni nazione, gli scrivevano per ringraziarlo e complimentarlo. Balzac, descrivendo le passioni e la società del suo tempo, aveva instaurato un genere nuovo, molto diverso dal romanticismo, che non era ancora il realismo come lo intendiamo noi, ma che molto gli assomigliava. I suoi libri mettevano in scena uomini e donne veri, con i loro interessi anche meschini, i loro sentimenti anche piccoli ma palpitanti; e tutti i lettori, soprattutto le lettrici si ritrovavano nei personaggi ch’egli descriveva. Balzac fu, quindi, il vero fondatore del romanzo moderno. In pochi anni, dal 1829 al 1833, egli scrisse oltre al romanzo che gli diede fama racconti che stampò sulle diverse riviste dell’epoca e molti romanzi: La maison du chat qui pelote, La peau de chagrin, Le colonel Chabert, Le curé de Tours, Louis Lambert, La Phisiologie (sic) du mariage, Eugénie Grandet. I suoi libri e la sua fama erano arrivati anche nella lontanissima Russia. E una ricca e bella contessa polacca, sposata a un conte russo, li aveva letti, non aveva dominato il suo entusiasmo ed aveva scritto al romanziere francese una lettera d’elogi firmandosi, L’Etrangère (La straniera). Balzac le rispose. Tra i due si stabilì una corrispondenza che a poco a poco divenne amorosa. E a poco a poco la Straniera si rivelò. Disse di chiamarsi Evelina Hanska, di abitare il castello di Wierzchownia, in Ucraina, d’essere sposata a un uomo più vecchio di lei di quasi quarant’anni, d’essere infelice nonostante avesse una deliziosa bambina. Balzac si innamorò. Si innamorò come un ragazzo e volle conoscere la straniera. Ella accettò. L’incontro avvenne in una cittadina della Svizzera, nel settembre del 1833, dove la contessa Hanska andava a villeggiare col marito e la figlia. Fu un incontro determinante, che mise basi a un amore che durerà tutta la vita. Tutta la vita di Balzac, bene inteso, che fu breve e dolorosa.

  Evelina Hanska era una donna di trent’anni, bella, imponente, un po’ grassa come allora voleva la moda, elegantissima, gran signora. Egli era uno scrittore di genio, ma non era bello, nonostante avesse degli occhi di fuoco e una generosità, una freschezza di maniera che ispiravano subito simpatia. Se Evelina Hanska ammirò incondizionatamente lo scrittore, possiamo immaginare, però, che non ammirò l’uomo. Si lasciò amare e fu lusingata d’avere destato amore nell’uomo più celebre del suo tempo.

  Balzac innamorato non desiderava che una cosa: sposare Evelina Hanska. Ma ella era sposata. Egli le giurò che avrebbe aspettato che rimanesse vedova (i mariti di allora potevano essere nonni delle loro mogli!). Di aspettare scrivendo e divenendo il più grande scrittore di Francia. Così fece. Per diciassette anni dal 1833 al 1850, Balzac non fece altro che scrivere, bere fortissimi caffè per rimanere sveglio per poter scrivere, e pagare debiti. Ne fece anche altri, di debiti, poiché era spendaccione, gli piacevano le cose belle, i mobili antichi, i quadri, l’eleganza del vestire e si circondava, in casa, di tutte le comodità. Guadagnava somme enormi, ma non gli bastavano. E scriveva, scriveva. Scriveva diciotto ore al giorno, con degli orari singolari: si coricava alle dieci di sera, si faceva svegliare dal domestico alle due, scriveva fino all’alba, tornava a dormire fino alle due, mangiava, si metteva la sua famosa vestaglia simile a un saio e tornava a scrivere.

  Tra un caffè e l’altro, tra un creditore e l’altro, Balzac scrisse in poco meno di trent’anni dei capolavori. Les (sic) lys dans la vallée, Les illusions perdues (sic), Le père Goriot, La Cousine Bette, Le médecin de campagne, La rabouilleuse, Béatrix, Honorine, sono dei capolavori. Nel 1845 egli pensò di raggruppare i suoi romanzi in un unico quadro, che li avrebbe compresi tutti, sotto il titolo La comédie humaine. Voleva dare un panorama della società del suo tempo che rappresentasse tutte le categorie sociali, tutte le esistenze: gli aristocratici, i borghesi, i piccoli borghesi, gli operai, i negozianti, gli impiegati, i banchieri, gli usurai, i contadini, i militari, visti nel loro ambiente, interpretati attraverso le loro abitudini, le loro passioni, i costumi delle città o dei paesi in cui vivevano.

  Le sue Scene della vita di provincia, le sue Scene della vita parigina, le sue Scene della vita militare, ecc., ecc., sono la descrizione stupenda degli uomini e delle donne del suo tempo coi loro vizi, le loro virtù le loro prevenzioni, le loro ambizioni, le loro miserie e le loro grandezze.

  Mentre scriveva i suoi romanzi Balzac scriveva regolarmente alla contessa Evelina Hanska lunghe lettere in cui le raccontava la sua vita. Le lettere che le mandò formano un epistolario oggi famoso di ben tremila lettere vive e appassionate come i suoi romanzi. Per diciassette anni Balzac nutrì la sua donna lontana del suo costante pensiero. Di quando in quando andava a raggiungerla in qualche città d'Europa, erano pochi giorni di felicità rubati al lavoro e al dovere.

  Nel 1842 la contessa Evelina Hanska rimase vedova. Balzac credette realizzato il suo sogno. Invece dovette aspettare altri nove anni prima di sposare la donna amata. Evelina Hanska, ch’era una aristocratica boriosa e che voleva sposare il romanziere francese col consenso di tutti i parenti, incontrava molte difficoltà in famiglia. Invece di ribellarsi, dato che aveva quarant’anni suonati, ai giudizi di gente che non aveva mai visto Balzac e non era in grado di giudicarlo, ella ascoltava le chiacchiere di cui le riempivano la testa: e cioè che Balzac era un «borghese», che le sue abitudini non sarebbero state adatte a quelle di una castellana, che avrebbe stonato nell’ambiente aristocratico, ecc., ecc.. Ella, un po’ per le pressioni dei parenti, un po’ perché non amava più, rimandava di anno in anno le nozze con mille scuse. Oggi che possiamo giudicare l’amore di Balzac e quello della contessa Evelina Hanska, possiamo dire senza paura di sbagliare che egli solo amò. Però Evelina Hanska, sebbene non amasse più Balzac, non ebbe il coraggio di rompere una promessa così fedelmente mantenuta e di dare un dolore a un uomo che l’aspettava da diciassette anni. Lo sposò, si potrebbe dire, per compassione. E lo sposò morente.

  Balzac nel 1850, le carte per sposare finalmente pronte, fece il viaggio da Parigi all’Ucraina in condizioni di salute poco buone. La fatica sovrumana di scrivere per anni diciotto ore al giorno, i caffè fortissimi che egli stesso si faceva, avevano intaccato il suo cuore. Arrivò al castello di Wierzckownia ammalato. Fu costretto a letto, ma riuscì a guarire e a sposarsi. Il matrimonio venne celebrato il 14 maggio 1850. Come viaggio di nozze i due sposi tornarono a Parigi. Il viaggio fu fatto in carrozza e durò un mese. A Parigi Evelina trovò un magnifico palazzotto interamente arredato che Balzac aveva preparato per lei, mettendovi mobili, tappeti, arazzi, oggetti preziosi. Egli entrò in quella casa felice. Credeva di incominciare una vita di amorosa sollecitudine vicino alla sua Evelina, invece la morte lo colse pochi mesi dopo il suo arrivo nella casa ammobiliata con tanto amore. Balzac morì il 19 agosto 1850, a cinquant’anni, di mal di cuore. Ai funerali accorse tutta Parigi. Molta gente del popolo, che aveva letto i suoi libri, piangeva seguendo il carro funebre. Victor Hugo, fece sulla sua tomba ancora aperta un discorso commosso, riconoscendo in lui lo scrittore di genio.

  La fama di Balzac, invece di declinare, come avviene quasi sempre, aumenta di anno in anno. Gli ammiratori, gli studiosi della sua opera sono numerosissimi. In Francia e fuori di Francia sono stati scritti su di lui e la sua Comédie Humaine centinaia di volumi, una bibliografia quasi paragonabile a quella fatta su Napoleone. E Balzac non è ancora interamente scoperto. La sua opera è immensa. Egli lasciò oltre ai novantasette volumi di romanzi e racconti, un epistolario vastissimo (lettere alle sorelle, agli amici, agli uomini illustri del suo tempo) che non è ancora interamente pubblicato, opere di teatro, filosofia e quei romanzi «neri» che firmò Horace de Saint-Aubin e che gli editori parigini ristampano.

  Il breve romanzo che presentiamo in questa collana, Eugenia Grandet, è stato, in ordine di tempo, il primo capolavoro scritto da Balzac (è del 1833). Molti credono che sia la storia di un avaro; invece è la storia di un amore puro e infelice, la descrizione di una ragazza dal cuore forte e sensibile, capace d’amore e destinata a fallire la propria vita. Il carattere di Eugenia e del padre sono descritti in maniera ammirevole. La passione dell’avaro, che sembra portata all’eccesso, quasi a diventare una passione simbolica, è invece lampante di verità: gli avari, i veri avari sono identici a papà Grandet.

  Ritratto di donna, scritto nel 1832, è nel suo genere, un piccolo capolavoro. Serrato, ironico, scritto a periodi brevi, ci mostra il segreto di una donna che obbediva alla morale ma che era sempre, nell'intimo, donna; cioè sensibile all’amore e desiderosa di amore. La contessa di Listomère è una donna virtuosa che vorrebbe essere civetta e Balzac la descrive mirabilmente.

  Il breve racconto El verdugo, è un cupo episodio di guerra, quella guerra in partenza perduta che Napoleone, sicuro di dominare la Spagna come aveva dominato gli altri paesi d’Europa, accese nella penisola iberica, e perdette. La scena dell’esecuzione dell’aristocratica famiglia spagnola è una delle più fosche che siano state scritte ed è scritta in maniera violenta, dura, che non permette un palpito di pietà. El verdugo, dà un senso d’orrore, ma era ciò che Balzac voleva, poiché era moralista e condannava la guerra da qualunque parte si facesse. La nostra mente esita ad ammettere che vi siano fatti come quello descritto dal Balzac ne El verdugo, pure la guerra provoca crimini anche peggiori e noi uomini moderni, che abbiamo visto che cosa sono le camere a gas e i campi di concentramento, ne sappiamo qualche cosa.

  Abbiamo scelto questi tre racconti perché danno un’idea della maniera e dello stile di Balzac. Diversissimi tra di loro, fanno pertanto capire che cosa è la Commedia Umana e invitano, speriamo, a leggere Balzac.

  Nel febbraio del 1844, quando il piano della Comédie Humaine era interamente elaborato e tracciato, Balzac scrisse alla contessa Evelina Hanska: «Insomma ecco ciò che faccio. Quattro uomini di oggi avranno avuto una vita immensa: Napoleone, Cuvier, O’Connel (sic), io sono il quarto. II primo ha vissuto la vita dell’Europa, si è inoculato interi eserciti; il secondo ha sposato il globo; il terzo si è incarnato nei popoli. Io porto una società intera nella testa». Sono parole ambiziose ma vere. La società della Rivoluzione, dell’Impero, della Restaurazione, sono studiate nella Comédie Humaine; duemila personaggi vi sono descritti. Ma, ahimè, l’opera immensa immaginata, organizzata e intrapresa, è stata interrotta dalla morte. Balzac lascia progetti e libri incompiuti. La Comédie Humaine non è finita.

 

 

  Rosanna Folz Cantù, La «Comédie humaine» e la cultura italiana di Honoré de Balzac. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Lettere, 1961.

 

 

  Eugenio Gara, Un grand’uomo dopo l’altro per la bella Alma Malher, «Corriere della Sera», Milano, Anno 86, 11 agosto 1961, p. 3.

 

Le «avances» di Balzac.

 

  Si potrebbe definirla addirittura senza precedenti, se non fosse per il ricordo della seconda moglie di Rossini, la francese Olympia Pélissier. Essa pure legata in un primo tempo a un pittore illustre, Horace Vernet, che ne tramandò le fattezze alla posterità con una tela in cui Olympia veste i panni — lievi, in verità — di Giuditta, l’eroina di Betulia. Passata quindi alla letteratura col popolare Eugenio Sue, l’uomo dei Misteri di Parigi, salì di grado, in tale settore, con le «avances» di Balzac, nientemeno, il quale però dovette accontentarsi di fame la quasi protagonista del romanzo La peau de chagrin. (E’ lei Foedora, «la femme sans coeur»), E finalmente passata alla musica con l’unione con Rossini, legittimata dal matrimonio dopo la morte di Isabella Colbran.

 

 

  Arturo Lanocita, Un racconto audace di Balzac tenta di suscitare scandalo, «Corriere della Sera», Milano, Anno 86, N. 200, 23 agosto 1961, p. 3.

 

  «La fille aux yeux d’or» è il titolo del film, come era il titolo del lungo racconto di Balzac il terzo episodio de «L’histoire des treize». Un regista di venticinque anni lo ha realizzato. Jean-Gabriel Albicoco, e questa è la sua opera prima. [...]. Che cosa raccontasse Balzac ricordano in molti, supponiamo. Un’avventura capitata a uno degli uomini che vivono nella religione del piacere, e anzi del vizio e della licenziosità. Un libertino cinico s’innamora davvero, un giorno, d’una ragazza; e qualcuno gliela contende; c’è storia più risaputa?

 

Rotto al mestiere.

 

  Balzac, nel suo calderone, enorme, rimestava di tutto, il risaputo e il nuovo. Accedeva egualmente al melodramma, e come; lo fece anche per «La fille aux yeux d’or». Ma il suo punto di partenza era tortuoso e morboso come per una storia dei tempi nostri; e la parte più scottante e pruriginosa consisteva nella personalità del rivale di Marsay, il libertino. Non era un rivale, era una rivale; una focosa Eleonora, dama anch’essa della società ricca e corrotta a cui apparteneva Marsay. Questa Eleonora non si rassegnava a cedere la preda che da lungo tempo era sua succube; la «fille», una specie di bestiolina- passiva e sgomenta, tentava invano di sottrarsi al fascino oscuro della signora che la dominava; e quando confessava alla protettrice di amare Marsay, la protettrice, pur di non perderla, la freddava a pugnalate.

  Trasferita ai giorni nostri, la storia di Albicoco non è dissimile nella sostanza; se mai, è ripulita di certi elementi di ottocentesca drammaticità, per esempio la finale scoperta che i due rivali, Marsay ed Eleonora, sono fratello e sorella. Tutto il resto coincide, il canovaccio non è stato certo mandato alla lavanderia. Che offenda, che colpisca come un pugno nel petto, che, insomma, provochi scandalo non diremmo, giacché la letteratura di tutto il mondo predilige questo genere di temi. Dire «scabroso» non è biasimare, è, purtroppo, allettare.

 

 

  Gustave Lanson, Dal Romanticismo al Realismo. Balzac, in Storia della letteratura francese, rimaneggiata per il periodo dal 1850 al 1950 da Paul Truffau. Prefazione italiana di Giovanni Macchia. Traduzione di S. Montanelli, Milano, Longanesi & C., 1961 («I Marmi», 12), Volume II, pp. 1188-1193.



  Oreste Mazzoni, Federico Canale, Onorato (de) Balzac, in Italia nel pensiero dei grandi. Prefazione di Umberto V. Cavassa, Milano, Ceschina, 1961, p. 16.

 

  Il grande romanziere francese visitò anche «le calde e poetiche contrade della bella Italia» [Il ballo di Sceaux]; e nel nostro Paese trovò donne bellissime, se sincero è questo suo complimento che si legge in «Onorina»: «Onorina Pedrotti è una di quelle belle genovesi che sono le più magnifiche creature d’Italia, quando son belle. Per la tomba di Giuliano, Michelangelo prese le modelle a Genova, e di là deriva quell’ampiezza, quella curiosa disposizione del seno nelle figure del «Giorno» e della «Notte», che tanti critici trovano esagerata, ma che è propria delle donne della Liguria».

  Noi personalmente non conosciamo se altro disse o scrisse Balzac dell’Italia, ma giudichiamo conveniente ricordare l’elogio che egli dedicò a Dante, il più illustre dei nostri compatrioti: «... Voi mi avete fatto scorgere la meravigliosa trama di idee sulla quale il più grande poeta italiano ha costruito il suo poema, il solo che i moderni possono opporre al poema di Omero» [La cugina Betta].

 

 

  Rocco Musolino, Sul «realismo» di Balzac, «Il Contemporaneo», Roma, n. 34, marzo 1961, pp. 76-93.

 

  [...]. pp. 81-89. Engels osserva: «Certo Balzac fu un legittimista politicamente; la sua grande opera è una continua elegia sulla rovina inevitabile della buona società; tutte le sue simpatie sono per la classe condannata all’estinzione». «Ma ciò non ostante — continua Engels, e si potrebbe dire proprio per ciò — la sua satira non è mai così tagliente, la sua ironia mai così amara come quando fa agire proprio gli uomini e le donne con cui simpatizza più profondamente, i nobili»: considerazione da cui, a mio vedere, non si può dedurre, a rigore, una contraddizione di Balzac [...]. Non una semplice contraddizione ideale di Balzac, ma, se mai, un lapsus forse non solo verbale di Engels, il cui riconoscimento ci commette l’obbligo di vedere come e in quale misura gli ideali di Balzac vengano artisticamente trascesi nell’opera letteraria, senza essere semplicemente contraddetti o eliminati, e, in particolare, ci consente di intravvedere come la satira cui Balzac sottopone la «nobiltà» del tempo provenga non da una pura e semplice «autocritica» — come pretende assai stranamente il Lukács — e neanche da una sua tendeziosità (sic) lepida o superficiale, ma da un atteggiamento intellettuale complesso (che solo schematizzando — e schematizzando oltre il lecito — si può riassumere in un «odi et amo»): da una parte, fedeltà indiscussa all’ideale monarchico assolutistico e nostalgia della trascorsa magnificenza storica, della «vieille politesse française», e, dall’altra — conseguentemente e non contraddittoriamente — amarezza e disprezzo per la decadenza e degenerazione presente della classe che quell’ideale dovrebbe rappresentare; quindi, per contrasto, e per intolleranza di ogni soluzione politica di tipo medio o di compromesso — quale B. vedeva ad esempio nel governo di Luigi Filippo — «ammirazione non dissimulata» — di tipo moralistico, diciamo noi — per gli avversari politici, «gli eroi repubblicani del Cloître Saint-Merry, gli uomini che in quell'epoca (dal 1830 al 1836) erano i veri rappresentanti delle masse popolari ...».

  Del resto, a favore della tesi del bifrontismo balzacchiano non depone di certo la viva rappresentazione letteraria della spinta sempre crescente della borghesia contro la vecchia classe nobiliare e cortigiana, improntata come, quella rappresentazione, a una critica vigorosa e violenta e senza misericordia del mondo appunto borghese e dei suoi eroi, i parvenus, che in uno dei romanzi di Balzac sono paragonati alle scimmie, «delle quali hanno l’abilità; li si vede in alto, si ammira la loro agilità durante l’ascesa; ma, arrivati in cima, non si scorgono altro che i loro lati vergognosi». Senza dubbio, una critica proveniente non da spirito progressistico, ma, al contrario, da posizioni ideali del passato, e rivolte più al passato che al futuro, eppure critica acuta e veritiera, tanto che a buona ragione si può dire, con Marx, che Balzac – il Balzac che sapeva bene come non solo gli uomini, ma anche gli avvenimenti principali della vita si formulino attraverso dei tipi (v. la sua prefazione alla Commedia umana) — «spicca in genere per una profonda comprensione delle condizioni reali», e perfino che egli «non fu solamente lo storico della società dei suoi tempi, ma anche il profetico creatore di figure che si trovavano ancora allo stato embrionale sotto Luigi Filippo e che solo dopo la morte di costui, sotto Napoleone III, dovevano raggiungere il loro completo sviluppo» (v. i ricordi personali di Lafargue su Marx). Tanto più notevole appare la chiaroveggenza critica dello scrittore quando si osservi che egli individua e denuncia i mali più nascosti della borghesia proprio nella fase in cui questa classe è in ascesa, e si è posta nella società francese come classe dirigente. Ma l’accento distruttivo della critica balzacchiana non si spiega interamente se non in riferimento alla sua tendenziosità conservatrice (che letteralmente si traduce nel presentimento apocalittico del collasso della civiltà, in una concezione pessimistica regressiva della storia); né al di fuori di tale riferimento si spiega, a meno di non voler giungere, per assurdo, a vedere in Balzac un fautore degli ideali rivoluzionari, l’ammirazione non dissimulata per gli eroi repubblicani. Lo stesso scrittore, in fatti, si incarica di spiegarcene le ragioni e i limiti moralistici. Si veda, nel famoso saggio «Sulla “Certosa di Parma” di Stendhal» del 1840, il brano — da Lukács più volte citato ma non chiarito mai — che riguarda il personaggio di Ferrante Falla, medico, poeta ed eroe liberale: «Palla Ferrante è un grande poeta, come Silvio Pellico, ma, a differenza di Pellico, egli è un repubblicano radicale. Noi non ci occupiamo dell’oggetto della fede di quest’uomo. Egli ha la fede, è il San Paolo della Repubblica, un martire della Giovine Italia, è grande nell’arte, come il San Bartolomeo di Milano, come lo Spartaco di Foyatier, come Mario sulle rovine di Cartagine. Tutto ciò che egli fa, tutto ciò che egli dice è sublime. Egli ha la convinzione, la grandezza, la passione del Credente. Per quanto alti siano, come fare, come concezione, il principe, il ministro e la duchessa, Palla Ferrante, questa superba statua, messa in un angolo del quadro, attira il vostro sguardo, esige la vostra ammirazione. Malgrado le vostre opinioni, o costituzionali o monarchiche o religiose, egli vi soggioga ...». E più in là Balzac aggiunge: «Palla Ferrante è il rappresentante di una famiglia di spiriti che vive in Italia, sinceri ma illusi, pieni ili talento ma che ignorano i funesti effetti della loro dottrina». Come si vede, i limiti della «ammirazione» di Balzac sono precisi, e, per il mio assunto, significativi. D’altra parte, dell’inclinazione dello scrittore all’elogio generico dell’eroismo, l’eroismo che il Croce chiamava «dell’energia» o «della passione vuota», la Commedia umana offre esempi diversi e non meno eloquenti (basti qui accennare all’alone eroico e affascinante di cui lo scrittore circonda nei suoi romanzi il personaggio dell’«infernale» Vautrin. In somma, il fatto che l’opera realistica di Balzac sia valida ed apprezzabile anche le soprattutto, direi) nell’àmbito della critica storico-materialistica, non può — a mio vedere — portarci a concludere con Lukács, se non a prezzo di una astrazione ideologica, che la concezione del mondo balzacchiana, quale appare dal tessuto narrativo della Commedia umana, sia una concezione progressistica: l’opera di Balzac storicamente rappresenta, sì, un elemento culturale di progresso, ma solo nel senso [...] che essa consegue dei valori conoscitivi, indissociabili dalla sua artisticità. E si intende che cogliere l’artisticità, cioè la consistenza conoscitiva di tale opera significa di per sé fornire la spiegazione di ciò che a quei valori si oppone o non giunge, ili tutto ciò che il Balzac vi è di artisticamente fiacco e irrilevante.

  Inutilmente cerchereste nella critica lukácsiana un chiarimento diretto delle ragioni artistiche della grandezza di Balzac. La critica storico-filosofica lukácsiana di Balzac, della quale per altro qui non voglio disconoscere i meriti, riesce critica estetica solo parzialmente, in forma occasionale ed anche equivoca, poiché in essa il giudizio storico-culturale non è mediato da una analisi dei rapporti interni dell’opera d’arte, ma pretende di implicare e superare tale analisi di per se stesso, così da esercitarsi tendenzialmente al di qua o al di là dei valori propri dell’oggetto artistico. Con procedimento tipicamente deduttivo, la peculiarità artistica della sintesi (che è unità, non identità) «forma» e «contenuto» viene data per scontata, il «cotenuto» (sic) viene staccato dalla forma e sottoposto a una considerazione storico-ideale tendenzialmente generica. Il limite scientifico del procedimento critico si evidenzia in una sostanziale fuga dall’artisticità della Commedia umana. Si può dire che nel saggio su I contadini (come in quello su Le (sic) illusioni perdute), Lukács non chiarisce le ragioni per cui diciamo che Balzac e un artista e non uno storico, non ci dice cioè che cosa di più o di diverso la Commedia umana ci offre rispetto a uno studio puramente storiografico di quel periodo storico-sociale. Secondo Lukács, Balzac è — non metaforicamente — lo «storiografo della vita privata» dell’epoca della Restaurazione e della Monarchia di Luglio. Per il filosofo ungherese si pone quindi, essenzialmente, il problema di stabilire come e quanto i riferimenti storico-sociali del romanzo si adeguino a una trattazione storica rigorosa. (Si tratta nella fattispecie del problema del latifondo aristocratico francese nella prima metà del secolo e della lotta tra latifondisti e contadini). Dalla misura di questa adeguazione Lukács deduce la grandezza artistica di Balzac, né ci nasconde il criterio regolativo intimamente contraddittorio secondo il quale egli viviseziona il corpo dell’opera letteraria: ogni elemento narrativo che di per se stesso esuli in una esatta prospettiva storico-sociale è elemento non realistico, indicativo dell’intenzionalità reazionaria di Balzac e — si badi — della conseguente visione pessimistico-elegiaca che è il riconosciuto contrassegno artistico del romanzo («Il frazionamento del latifondo — dice Lukács — è «una tappa di quella rivoluzione che, iniziatasi nel 1789, secondo le previsioni di Balzac, finirà con il collasso della civiltà. Questa prospettiva determina il tono fondamentalmente pessimistico e tragicamente elegiaco di tutto il romanzo»); per contro, ogni elemento narrativo che di per se stesso rientri in una valida concezione dei problemi sociali è elemento tipico, realistico, e per tanto significativo del progressismo (involontario) di Balzac, e quindi della vera grandezza artistica (involontaria) del romanzo. Ed ecco un brano sufficientemente indicativo di tale procedimento. Lukács scrive:

  «Balzac illustra con alcuni esempi concreti quali siano in realtà le buone azioni dei possidenti. La precedente proprietaria della tenuta, una celebre attrice di quel periodo d’oro dell’ancien régime, che Balzac tanto elogia, esaudì una volta la richiesta di un contadino: La brava madamigella, che era abituata a render felici gli altri, gli regalò uno iugero di vigna in compenso di cento giorni di lavoro. E Balzac, l’uomo politico, aggiunge: Questa delicatezza di sentimenti non fu sufficientemente apprezzata. Ma non manca di dimostrare che cosa pensi di questa delicatezza di sentimenti il contadino «beneficato»: Al diavolo tutto! Ho comprato quel pezzo di vigna e l’ho pagato. Ci ha forse mai fatto un regalo il borghese? Cento giorni di lavoro sono forse nulla? A me personalmente sono costati trecento franchi e oltre a ciò la vigna è anche di qualità scadente. E Balzac così riassume la conversazione: Questo punto di vista corrispondeva all'opinione generale». Dove non si può fare a meno di notare la facilità con cui Lukács assegna le parti a Balzac nei limiti minimi del brano, storpiando inoltre i termini del testo in una accezione banalmente caricaturale; ed è evidente come a Lukács, volto ad una accezione nettamente eteronoma dei dati letterari citati, sfugga la loro reale significazione artistica, il loro valore contestuale, amaramente ironico, fondato sulla paradossalità semantica che, ad una lettura non superficiale, assumono significati letterari come «render felici», «regalò», «delicatezza» in riscontro ai drammatici significati letterari degli interrogativi retorici: «Ci ha mai fatto un regalo il borghese? Cento giorni di lavoro non sono forse nulla?»; è evidente cioè come a Lukács sfugga il contrasto, lucidamente proposto da Balzac, tra le intenzioni filantropiche della proprietaria, reali (per lo scrittore, o meglio: nel contesto) anche se non disgiunte da una forma di tornaconto, e la corrispondente ira e amarezza del contadino, che ha sì ottenuto quello che richiedeva, ma non può di certo esserne riconoscente, sia perché ha compensato la «donazione» col suo lavoro, sia perché l’oggetto concreto di questa è al di sotto delle sue aspettative. Per cui dal brano risulta, sì, di che lacrime grondi la beneficenza presunta della proprietaria, ma l’accento artistico di Balzac cade sull’inconciliabilità degli interessi economici e dei sentimenti dei due personaggi, cioè sulla problematicità umana (storica) del rapporto, tra un personaggio al quale lo scrittore non sa negare le sue simpatie e un personaggio al quale non può negare la sua comprensione. Sicché davvero qui si può giungere a vedere e a comprendere quello che altrove il Lukács, chiama «ghigno» amaro della saggezza balzacchiana: una ironia che in genere risulta non solo da un intervento moralistico immediato dell’autore nella narrazione, alla maniera manzoniana, né tanto da nessi metaforici o comunque da nessi espliciti o diretti tra segni verbali presi singolarmente, quanto, e soprattutto — come pare proprio del discorso narrativo più che del discorso poetico — da un contesto più largo di segni-frasi accettati nella loro letteralità, nella loro evidenza descrittiva letterale di fatti e situazioni.

  La fuga dall’artisticità che si riscontra nella critica lukácsiana è strettamente legata alla tesi del bifrontismo di Balzac: di ciò rende conto a sufficienza la constatazione che Lukács, ogni qual volta nei saggi citati si spinge fino a suggerire una vera e propria caratterizzazione d’ordine estetico (che rimane, per altro, scopo a se stessa) è obbligato a smentirsi, in quanto non può non fare un riferimento positivo alla tendenziosità di Balzac: così quando riconosce «il tono fondamentalmente pessimistico e tragicamente elegiaco» del romanzo I contadini, o, nel Truffamorte di Le illusioni perdute (e di Papà Goriot), «il ghigno satanico dell’amara saggezza balzacchiana», o, in generale, il «pessimismo del mondo artistico» dello scrittore. Tutto ciò non esclude si intende la validità — ma su altro piano — dei saggi lukácsiani, la loro ricchezza documentaria e la consapevolezza che il filosofo ungherese mostra di possedere della complessa fenomenologia storico-sociale cui Balzac si riferisce nei suoi romanzi. Un rigoroso e completo studio critico-estetico della Commedia umana può anzi avvantaggiarsi di certe indicazioni, più o meno frammentarie e chiuse, ma esatte e potenzialmente feconde, dei saggi lukácsiani su Balzac: liberata dalle deduzioni che Lukács ne trae, pare fondamentalmente giusta e verificabile positivamente, la considerazione che il giudizio sui fatti e sui personaggi è espresso dallo scrittore nelle forme dell’ironia (nel senso che dall’ironia che le vicende politiche e sociali esercitano oggettivamente sulle tendenze reazionarie di Balzac, questi si difende per così dire ricorrendo, sul piano letterario, alla stessa arma). E si intende anche che in tale studio non è da escludere l’incidenza letteraria del supporto misticheggiante (Swedenborg) dell’ironia balzacchiana, secondo cui l’umano non-senso rinvia a una divina onnicomprensività («Dio, che è l’infinita preveggenza, avrebbe gettato la specie umana sul globo terrestre, senza preoccuparsi di ciò ch’ella sarebbe divenuta?»). Pare, comunque, che la visione ironica che lo scrittore ha del suo tempo, e che non contraddice — così e semplicemente — alle sue tendenze ideali, ma ne è un trascendimento artistico, relativamente conseguente, sia il segno distintivo delle opere per le quali si dice che Balzac è un «maestro del realismo». La misura dei valori artistici di Eugenia Grandet, già distorta da certa lacrimosa critica tradizionale interessata unilateralmente al «patetismo» del personaggio di Eugenia, è ad esempio nella dimensione ironico-grottesca in cui si muovono più o meno ottusamente, tutti i personaggi, in vario modo trascinati e perduti nel mostruoso meccanismo sociale che si giustifica nel mito borghese del denaro. Scrive Balzac nel suo romanzo: «I filosofi che incontrano delle Nanon, delle signore Grandet, delle Eugenie, non hanno forse il diritto di credere che l’ironia è la sostanza del carattere della Provvidenza?». E alla catarsi ironica, realisticamente determinata ma pessimisticamente giustificata e coerente, cui Balzac dirige i personaggi e i loro drammi, non sfugge il vero protagonista del romanzo, Grandet, coinvolto nella geniale tragicommedia degli equivoci in cui sono avviluppali gli altri personaggi, e sul quale lo scrittore costruisce pagine artisticamente tra le più alte e significative (in chiave grottesca, appunto: si pensi all’orrore (cristiano) ironicamente mediato — della morte del bonhomme: «Quando poi il prete gli accostò il crocefisso dorato per fargli baciare l’immagine del Cristo, egli fece un gesto spaventoso per afferrarlo, e quell’ultimo sforzo gli costò la vita ...»). L’ironia di B. cade su tutto il finale: l’accumulazione delle ricchezze, già esclusiva ragione di vita per Grandet, è impotente a risolvere (ma sempre a causa di un equivoco) il dramma di Eugenia, che è l’erede, vittima paziente e ignara di un mostruoso deus-ex machina storico-sociale al servizio di un’oscura provvidenza, misticamente inteso, eppure non è accostabile, contro le apparenze, all’Ermengarda manzoniana, per il fatto che in Balzac il dramma dell’esistenza non è inteso come viatico sicuro seppur doloroso alla grazia eterna, ma come caos morale, non-senso, e disperato gioco umano. Quanto poco lo scrittore sia incline al patetismo e quanto sia coerente invece al suo amaro disegno ironico, è mostrato inequivocabilmente dalle pagine finali, dove la «santità» di Eugenia — la quale «non ha imbrattato la propria anima a contatto del mondo» appare subito corretta o sminuita dalla «durezza della zitella» e dalle «meschine abitudini che provengono dall’angusta esistenza provinciale», per cui il dubbio cade anche sulla purezza della pur generosa beneficenza dell’erede: «Essa accumula accuratamente le proprie rendite, e forse sembrerebbe un po’ tirchia se non smentisse la maldicenza con un nobile impiego della ricchezza ...».

  Il pessimismo ironico-fatalistico di Balzac campeggia in Papà Goriot, dove la figura del prodigo genitore è, con grottesca evidenza, una sorta di pendant moralistico dell’avaro Grandet, e dove il fulcro drammatico della vicenda poggia sulla complessa equivocità nei rapporti del popolano con le figlie aristocratiche e l’ambiente della povera pensione. Così, riaprendo a caso il romanzo, vediamo come si concluda nel grottesco la morte di Goriot («Oh, è proprio morto — annunciò Bianchon ridiscendendo. — Andiamo, signori, a tavola! — esortò la vedova; — la minestra si raffredda»); e come ritorni anche qui concretamente l’idea della vita come caos (Rastignac: «Amico mio, ho ascoltato finora gridi e lamenti. C’è un Dio! oh, sì, c’è un Dio, ed egli ha creato un mondo migliore, in cui la nostra terra è un non senso ...»), per cui anche Vautrin, il demoniaco Truffamorte, che muove le fila del destino di Rastignac, finisce per apparire al servizio di un oscuro disegno divino, la cui provvidenzialità è sfuggente, misteriosa.

  Per contro, il venir meno dell’ironia coincide, nell’opera di Balzac, con una inferiore rilevanza artistica, senza escludere del tutto la caduta nei meccanismi del romanzo d’appendice (nell’accezione negativa che il termine ha assunto): si veda, per esempio, il monotono, prolisso Le lys dans la vallée, che fa pensare a una sorta di autobiografia in chiave allegorica, dominata e mortificata dal mito cattolico del peccato, e improntata in buona parte a una retorica dei sentimenti che a volte rasenta il bigottismo. L’ironia di B. torna però in primo piano in una delle pagine finali della storia, dove sembra suggerire una amara variante della Presidentessa di Laclos: questa impazzisce e muore per aver acconsentito alla propria umanità a prezzo della perdita della sua superba purità di credente; la pazzia e la morte della protagonista di Balzac provengono al contrario dall’aver sacrificato i propri impulsi sentimentali ed erotici all’esaltazione religiosa: ed è la pagina artisticamente più viva del romanzo balzacchiano.

  In generale, si è soliti ammirare, l’abilità geniale di Balzac nel muovere i personaggi, tale che questi sembrano vivere di vita propria, al di fuori di un preciso piano narrativo, e tale che si è detto perfino che lo scrittore sia solo il fedele «cronista» di vicende reali: che è un modo falsamente metaforico di significare la verosimiglianza e la corposità della narrazione balzacchiana, e, insieme, il superiore distacco ironico che è dell’autore rispetto ai personaggi. Si pensi in particolare al gusto balzacchiano dell’anticipazione narrativa, in funzione del contrasto tra ciò che i personaggi fanno e dicono, tra le loro attese e i loro piani, e gli sviluppi effettivi della vicenda: è il gusto ironico di chi sa già come le cose andranno a finire, la destinazione finale dei personaggi nella storia, in quella storia: che è già chiusa, senza reali prospettive, non ostante il nesso narrativo che Balzac stabilisce tra le vicende del ciclo (il finale, solenne «A noi due, ora!», che in Papà Goriot Rastignac rivolge a Parigi, è una sfida solo apparente: segna la sua prostituzione, la sua resa al conformismo, al già divenuto: «Come primo atto della sfida ch’egli lanciava alla società, Rastignac si recò a pranzo della signora di Nuncingen»). Si capisce, finalmente, perché suoni assurda, e quanto inesatta sia (ed equivoca sul piano del metodo) l’avvertenza che Lukács, coerente con le sue impostazioni, pone a proposito di Balzac nella introduzione ai suoi Saggi sul realismo: «Non è un vero realista, non è uno scrittore veramente notevole colui che riesce a dirigere e regolare il corso dell’evoluzione dei propri personaggi»: avvertenza destinata, del resto, a obbligate implicite smentite all’interno degli stessi testi lukácsiani.

  Per quanto detto sopra, mi pare che sin da ora si possa avanzare una ipotesi critica volta al riconoscimento che nell’opera di Balzac non vi è una semplice contraddizione tra rappresentazione artistica e tendenze ideali, e tanto meno una «autocrica» (sic) di tali tendenze, ma che in essa tendenziosità di Balzac agisce in forma complessa seppur relativamente conseguente, e quindi resta tutt’altro che estranea alla misura artistica dello scrittore; volta, in altri termini, al riconoscimento che la tendenziosità, in quanto nudo schema politico-ideale, è di per sé condizione necessaria ma non sufficiente dell’opera d’arte, poiché questa vive non di schemi o di semplici atteggiamenti, ma di idee concrete; e, per tanto, che la capacità di osservare e rappresentare artisticamente la vita, la storia, deriva, nei grandi scrittori (Balzac o Tolstoj o Manzoni) dalla ricchezza e complessità delle idee con cui fanno vivere concretamente la loro tendenza; e, finalmente, che Grandet (o Goriot) non è L’ebreo di Verona, che Balzac non è un qualsiasi reazionario, ma un grande scrittore reazionario, un pensatore dallo sguardo acuto, e non un parente prossimo o lontano di Padre Bresciani (ch’è suo contemporaneo e scrittore tendenzioso assai, eppure resta solo un fazioso scribacchino); sì che a ragione si possa dire che la genialità artistica dell’opera di Balzac, che non va scambiala tout court con la sua perspicuità sociologica, rappresenta sì un «trionfo del realismo», ma non certo a dispetto dello scrittore, e che per tanto è il trionfo del realismo di Balzac.

  Negare che uno scrittore reazionario possa farsi osservatore e critico acuto di fatti e personaggi della sua classe, o di una classe diversa da quella alla quale vanno le sue simpatie, significa cadere nel sociologismo volgare, nello schematismo estremamente semplicistico di chi non riesce a vedere come nello svolgimento sociale l’esistenza di classi antagonistiche non comporta l’isolamento di una classe dall’altra: sia in campo economico (v. Stalin) sia, e tanto più, in campo culturale.

 

 

  Gianni Nicoletti, Presentazione, in Honoré de Balzac, Gli allegri racconti ... cit., pp. IX-XIII.

 

  I Contes drolatiques furono stampati tra il 1832 e il 1837. Balzac era già uno scrittore amato, perseguitato dai debiti, celebre, affaticato, innamorato della bella Hanska, sognator di quiete, ma incapace di acquetarsi per un solo minuto. Il suo unico modo per riposarsi, era scrivere ancora. Voleva sorridere, e non subire il fascino tetro della sua epoca di speculazioni. Esser ironico e burlesco senza pensare. Non c’era di meglio, per un buon romantico, che rivivere il passato; e siccome per lui vivere era un po’ sognare, rivivere era risognare.

  Per questo scrisse i Contes drolatiques; che egli trasse dal suo amore per Rabelais, abbastanza noto perché qui vi si debba insistere. Non soltanto da lui, naturalmente: nel Mémento des Conts drolatiques ricorda fra l’altro Boccaccio, il Cabinet des fées, Desperriers, l’Heptaméron della regina di Navarra; e a questi dobbiamo aggiungere, per dir poco, l’Ariosto. Come ha recentemente mostrato il Lecuyer1, Rabelais influì su di lui per innegabile affinità di carattere, o almeno per quella affinità che possiamo supporre; e per affinità di formazione culturale, o meglio di atteggiamento culturale. Balzac, che s’era interessato di studi intorno alla sostanza del pensiero, che faceva l’inventario dei crimini della borghesia, che aveva scoperto la ricchezza e le desolazioni che comporta, la povertà e le miserie sue, era naturalmente portato ad ammirare il suo confratello di tre secoli prima.

  Rabelais gli ha anche suggerito La Peau de chagrin; ma è questo un romanzo meravigliosamente putrido, come diceva Sainte-Beuve; appartiene alla vena più profonda del suo secolo. Con i Contes, siamo invece a un curioso giuoco di memorie, ma non ad un gioco di superficie. Non a caso Balzac li preferiva alla stessa Comédie humaine. In un certo senso, è vero che questa è opera d’archeologo, cioè imparentata al gusto che suggerì la “mistificazione” del Macpherson, o quella più scoperta del Manzoni, in cui col fingere un manoscritto ritrovato, o col simulare una ricostruzione, si passavano per buone cose da dire al proprio secolo. Balzac ha invece rinunciato completamente alla finzione. E non perché disdegnasse gl’innocenti trucchi, ma perché pur essendovi in lui qualcosa dell’antica vena, sentiva un’ispirazione troppo moderna diremmo appunto troppo balzachiana Per la Bella Imperia, egli ricorda doverosamente in una delle note sulla Revue de Paris (7 giugno 1831) le sue fonti; ma la dama compiacente dal piede “plus petit que le bec de cygne” è una donnina dell’ottocento, una cortigiana sublimata da una specie di sognante lontananza storica; una raffinata, ed alla fine eroica, cortigiana. Che è proprio un personaggio reale, di cui il Bandello descrisse la dimora e che l’Aretino vide, amica del Sadoleto; e anche reale è il personaggio della figlia, come il cardinale che si rese colpevole, e si chiamava Petrucci. Ma Balzac ne fece creature sue, in una specie di ottimistica esaltazione dell’amore naturale, — che non pareva peccato neppure al Carducci — che si riscatta alla fine dalla vergogna (cui però collaborano i più insospettabili fornicatori) con la dolente morte.

  Quindi, Balzac aveva ragione quando giudicava i Contes una delle sue opere più importanti. Per essere più precisi, diremo che la sua lingua è rabelaisiana, il tono è del Boccaccio con un pizzico dell’Ariosto, e un pizzico del Bandello (ma per comunicazione, diremo, mentale; perché il Bandella lo conobbe soltanto dopo); ma l’arte è sua, e dell’autenticità più limpida (egli s’inquietò a ragione, e scrisse il prologo al Quint Dixain des imitacions per difendersi dall’accusa di mero imitatore). Lo studio attento del Succubo porterebbe ad una maggiore precisazione di quel Balzac romanziere “visionario” che la critica va facendo intelligentemente, ma nel senso che egli coglieva romanticamente la verità delle superstiziose malefatte di ogni tempo e di ogni ambiente (in particolare, della chiesa cattolica), rappresentandone le tristi conseguenze sociali e morali. Quindi, non fu un realista, ma il tramite per un lato del volterianesimo, per l’altro del fuoco libertario romantico, che insieme sboccarono (in un certo senso si sanarono) nel naturalismo di Zola; essendo quindi quel realismo, di cui la storiografia ha fatto finalmente giustizia, il suo strumento per giungere a una carità umana (in questo senso de Cesare lo ha inteso perfettamente). Balzac non era contro la religione quanto contro la falsa religione; e se ne scopriva più di falsa che di vera, non è colpa sua. Il Succubo è uno dei capolavori, per profondità e finezza, dell’amplificazione storico-fantastica. Capire Balzac vuol dire coglierne la livida e satirica grandezza trasognata e insieme reale, romantica e insieme storica; di uno storicismo naturalmente più vissuto che studiato come compete ad ogni artista che, per questa ragione, si tiene lontano dall’erudizione, ma non l’ignora né tantomeno la spregia. La stessa cura con la quale Balzac studiò la lingua del Cinquecento lo prova. Ed è da quel contrasto (forma antica, spirito moderno), tradotto così bene da Aldo Fortuna, che ne viene il maggior fascino.

 

*

 

  Come si comprende, un Balzac “visionario” non poteva riuscir bene nel teatro; pure, il teatro fu la sua grande passione; un po’ passione da affarista, come sempre gli accadeva, sotto la pressione dei creditori, ma prodiga perché prodiga era la sua natura. I suoi primi passi drammatici li fece in rue Lesdiguières: ci rimangono innumerevoli abbozzi sugli argomenti più svariati, da Alceste a Don Giovanni, dal Corsaire alla Mandragore; sotto l’influsso di Henry Monnier, scrisse non solo le Petites misères de la vie conjugale,2 ma il tentativo della Comédie du Diable, una breve satira, e una serie di progetti sul personaggio creato da Monnier, Joseph Prudhomme.3

  Di tanto fiume, non andarono in porto, cioè sul palcoscenico, che sei opere: L’École des Ménages, Vautrin, Les Ressources de Quinola, Paméla Giraud, La Marâtre e il Mercadet o Le Faiseur. Nessuna ebbe una vita facile; l’occasione del successo venne a Balzac più di una volta, ma non seppe coglierlo, o fu sciupato da collaboratori maldestri quanto lui. Per la prima di Quinola, che pure non manca di meriti, decise di vendere personalmente i biglietti; ma con furberia sottile quanto ingenua, cominciò a rifiutare i posti, affermando che il teatro era già esaurito; gli accadde quindi di avere una sala semivuota, riempita frettolosamente di indifferenti e nemici, lagnanze a non finire, giornalisti irritatissimi; la caduta di Quinola fu tanto clamorosa che alla quarta rappresentazione dovette intervenire la polizia. Quanto a Vautrin, Balzac aveva a disposizione uno dei migliori attori dell’epoca, Lemaître; ma il direttore del teatro lo vestì in modo da accentuare una sua rassomiglianza con Luigi Filippo; per conseguenza, la platea trovò la rassomiglianza o “oltraggiosa” o divertente, ma s'interessò più alla novità che all’opera stessa; e infine, provocò l’intervento del Ministero, che chiuse il teatro. Solo Paméla fu messa in scena senza entusiasmo, ma anche con pochi fischi. La Marâtre si risolse in una delusione. L’École des Ménages dovette attendere la regia del grande Antoine, giacendo in cassetto settantun anni. Quanto al Faiseur, fu lo stesso Balzac a disinteressarsene, e partì per la Russia, il 20 settembre 1848. Pochi mesi dopo il matrimonio con Hanska, moriva senza aver visto il trionfo di un’opera drammatica veramente degna del suo genio di narratore.

  Tuttavia, neanche la peggiore delle sei commedie qui presentate meritava sorte ingrata. Va detto non tanto che Balzac non conosceva il mestiere del teatro (aveva avuto modo di farsi un’esperienza), quanto che non aveva la natura del drammaturgo, il senso dell’essenziale, la capacità di far apparire una psicologia dal dialogo diretto, e non da quelle analisi che frugano fin nel cuore del personaggio, o in ciò che ha al posto del cuore4 Lo prova la sua esigenza della battuta “a parte”. Non ostante ciò, ogni sua figura ha un rilievo smisurato, ma non senza misura. Collaborò agl’infortuni l’astio della stampa; e un po’, qualche consiglio non molto azzeccato.

  Valga un esempio solo, quello della futura moglie, che gli avrebbe consigliato di modificare il piano primitivo della Première Demoiselle, cioè dell’École des Ménages. Balzac infatti aveva l’intenzione di descrivere un “tartuffe en jupons”: non discutiamo se l’idea fosse buona; diciamo che era balzachiana.5 Hanska lo sconsigliò; nell’opera che ci rimane, il difetto maggiore sta proprio nell’aver trasformato un dramma dell’ipocrisia in un dramma dell’amore: nel primo, si sarebbe trovato molto più a suo agio. Il finale, poi, gli sarebbe stato suggerito dal Metternich, che conobbe nel 1835:6 finale violentemente romantico. Per poco che fosse rimasto aderente a quella secchezza che ogni arte scenica esige, per romantico che sia, Balzac avrebbe non precorso ma iniziato il naturalismo. Bisogna anche confessare che la necessità di guadagnare lo fece giungere a qualche compromesso: ebbe quattro collaboratori per il Vautrin (e non l’aiutarono molto; ma neppure bene); anche per Paméla si valse di due “esperti”: ma se è l’opera meglio costruita, è anche la più inconsistente. Restano Quinola e Le Faiseur, oltre alla Marâtre che la critica giudica a ragione un’opera mancata. C’è da rimpiangere che Balzac non abbia avuto modo di sviluppare a fondo la sua vena. Quinola è veramente un novello Figaro, un Figaro picaresco ma insieme abbastanza francese, borghese della restaurazione: fedelissimo al suo padrone perché solo essendo fedeli a qualcuno fino in fondo, lo si può derubare fino in fondo. Quanto al Mercadet, il generale consenso e le recenti rappresentazioni e trasmissioni televisive in Italia hanno tolto ogni dubbio: è un autentico capolavoro. Balzac lo cominciò intorno al 1840; terminato nel 1844, solo nel ’48 cercò di portarlo sulla scena. Come sappiamo, la sua ennesima speranza fallì. Se ne riparlò nel 1851, e l’abile Adolphe Dennery trasformò il Faiseur nel Mercadet, qua e là rabberciando, ma più abilmente che intelligentemente.

  Per la prima volta, Balzac vi affronta un personaggio psicologicamente autobiografico: Mercadet era egli stesso, fantasioso, paradossale, eccessivo, generoso e insieme pronto al calcolo, che imbroglia i creditori, ma perché i creditori sono degl’imbroglioni, pronto al falso, ma perché tutti gli stati del mondo vivono sul falso; cioè, Mercadet costruisce una specie di filosofia della truffa, ma la giustifica moralmente, secondo il diritto della legittima difesa. Ora, dicevamo che il difetto delle sue opere sta nella sovrabbondanza; ma nel Faiseur la sovrabbondanza diventa lo stesso strumento espressivo, in quanto il difetto è una qualità stessa del personaggio, e si trasforma nel dinamismo scenico. Non manca la satira del mondo degli affari, fatto di castelli di carta e di poca sostanza. Con il Faiseur, Balzac diede l’ultimo tocco al quadro di quella borghesia che in Francia è la spina nel fianco di una nazione che sarebbe ben altrimenti forte: pronta a distruggere la società e lo stato per salvarsi; e quando è sconfitta, pronta a rifugiarsi in provincia, ritirandosi dagli affari, e godendosi il frutto di mille piccoli furti. Per questo il ministro degli Interni, alla prima assoluta, intervenne per censurare qua e là, dopo aver letto personalmente l’opera. Ma il successo fu ugualmente enorme. Si ebbero settantatré repliche. Gli applausi zittirono le critiche. Ma ormai, Balzac non poteva più sentirli.

 

 

  p. XV. Honoré de Balzac nacque da una famiglia borghese a Tours nel 1799. Cominciò i suoi studi di diritto (ma anche di filosofia), nel 1819 dichiarò alla famiglia la sua vocazione di scrittore; poi si rinchiuse in una poverissima «mansarde», a meditare drammi, tragedie e poemi impossibili. Ne uscì Le Corsaire (sic), che lesse in famiglia, e che tutti disapprovarono. Tentò allora il romanzo, ma senza produrre nulla di veramente importante. Deluso, si volse alla speculazione, associandosi nel 1825 con la Librairie Urbain Canel, stampando La Fontaine e Molière. Ne ricavò quattordicimila franchi di debiti. Si diede allora all’arte della stampa, e ne ricavò un aumento di debiti fino a centotredicimila franchi. Reagendo alla cattiva sorte, tornò al romanzo. Le Dernier Chouan è la prima opera che firmi con il suo nome. Il gruppo di capolavori di questo periodo va da La Peau de chagrin (1831) al Médecin de campagne (1833), alla Recherche de l’Absolu (1834). Intanto componeva i Contes drolatiques, e le prime grandi opere cosiddette realiste, Eugénie Grandet (1833), e Père Goriot (1934). Fu nello scrivere Père Goriot che fece comparire personaggi già apparsi in opere precedenti, fissando il suo ideale di narratore: animare una società fittizia «che sarà come un mondo completo». Seguirono Le Lys dans la vallée (1837-’43 [sic]), Le Curé de village (1839); il titolo complessivo fu da lui scelto nel 1842, La Comédie humaine, contrapposto al titolo di Dante, nella quale, secondo un metodo imparentato a quello delle scienze naturaliste, voleva dipingere le specie sociali. Gli ultimi capolavori furono Les Paysans (1844), Modeste Mignon (1844), La Cousine Bette (1846), Le Cousin Pons (1847). La celebrità era giunta tra il 1829 e il 1832. Riceveva, dalle sue ammiratrici «di trent’anni» anche quattro lettere al giorno. Fra queste ne scoprì una che sollecitò la sua fantasia. Eve de Hanska, nobile polacca e sposa di un uomo più vecchio di lei di venticinque anni, gli fu amica fin dal 1832. Riuscirono a sposarsi nel marzo del 1850. Pochi mesi dopo, ucciso da un lavoro massacrante, Balzac moriva all’età di cinquantun anni.

 

  Segue, alle pp. XVI-XVII, una Bibliografia essenziale.

 

  Note. [La numerazione è nostra].

 

  1 M. Lecuyer, Balzac et Rabelais, Paris, 1956.

  2 Cfr. A. Le Breton, Balzac, l’homme et l’oeuvre, Paris, 1905, pagg. 104-108.

  3 Sul teatro inedito del Balzac vedi Douchan Z. Milatchitch, Le Théâtre inédit de Honoré de Balzac, Paris, 1930.

  4 Cfr. V. Lugli, Il Teatro di Balzac, in Jules Renard e altri amici, Messina, 1948, pagg. 81-89.

  5 Cfr. Lettres à l’Étrangère, Paris, 1899, I, pagg. 381-382.

  6 Cfr. Douchan Z. Milatchitch, Le Théâtre de Honoré de Balzac, Paris, 1930, pag. 42-44

 

 

  Leo Pestelli, Ombre torbide e ricordi letterari nella «Ragazza dagli occhi d’oro», «La Stampa», Torino, Anno 95, Numero 199, 23 agosto 1961, p. 3.

 

  Il produttore Gilbert De Goldschmidt gli [a Jean Gabriel Albicoco] ha dato fiducia, e oggi La fille aux yeux d’or («La ragazza dagli occhi d’oro»), interpretato da Marie Laforêt, sua fidanzata e ispiratrice, lo laurea regista nell’ateneo veneziano.

  Nouvelle vague? Diremmo di no. In primo luogo Albicocco non si è vergognato d’ispirarsi al pontefice massimo del naturalismo, Balzac, il cui romanzo dallo stesso titolo (appartenente al ciclo «I tredici»), gli ha offerto una nitida traccia. Secondariamente, pur dovendo travestire quella vicenda secondo il costume e i gusti d’oggi, lo ha fatto senza adoperare speciali veleni, ma lasciando intatta, o se mai riducendola, la carica di perversità introdottavi dallo scrittore.

  Quel travestimento è riuscito anche troppo facile. Il protagonista balzacchiano, Henri De Marsay. il dandy 1835, arbitro dell’eleganza femminile, è diventato, perdendo la particella, un paparazzo d’alto rango, arcintrodotto nella haute couture parigina. E il suo dongiovannismo è diventato più corsaro e sostanzioso, alimentato dallo spirito di scommessa e dal desiderio di farsi bello con gli amici Sua anima gemella e socia in affari (una agenzia specializzata in servizi giornalistici e fotografie per l'alta moda), è Eleonora San Real, che cento anni fa, in Balzac, aveva anche lei la particella de e faceva la gran dama. La potenza che nel 1835 le dava la ricchezza, le dà oggi il periodico americano per il quale lavora. Favoreggiatrice di tutte le avventure del suo amico, Eleonora ha la glaciale apparenza della donna superiore, impermeabile alle passioni. Invece ha anch’essa il suo diavolo in corpo, e sarà «la ragazza dagli occhi d’oro» a farlo venir fuori. A codesta ragazza Balzac aveva dato un nome: Paquita. Qui ella si rifiuta di dire come si chiama, il suo riserbo è totale. Intrigato da quella ninfa che gli si affaccia e fugge, Enrico incalza la nuova preda, dimenticando per lei tutte le altre. E quantunque ne divenga l’amante con relativa facilità, non se ne sazia, perché impenetrato resta il mistero di cui la ragazza si circonda. E’ chiaro soltanto che vive soggetta a qualcuno, e che di questo qualcuno ha una gran paura, paura che le risale negli immensi occhi di gazzella. Enrico, che non è abbastanza corrotto da pensar il peggio, immagina ci sia un altro uomo e con furore geloso ne va cercando le tracce nell’appartamento della ragazza. Scopre così che il padrone dell’innominata è Eleonora, divorata da un fuoco impuro per la sua giovane amica. Allora i due soci diventano nemici: Eleonora trasporta la sua preda al sicuro, in una casetta nel bosco, ed Enrico la torce, con le buone e con le cattive, perché le riveli il nascondiglio. Ma la sparviera gli resiste, e quando vede d’aver perso la partita e che gli emissari di Enrico hanno scoperto il nascondiglio, uccide la colomba perché non sia più di nessuno. [...].

 

 

  Graziella Piras, Honoré de Balzac critico di Sainte-Beuve e di Stendhal. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Giancarlo Menichelli, Cagliari, Università degli Studi, Facoltà di Magistero, Anno Accademico 1960-1961, pp. IV-184.

 

 

  Gino Raya, I racconti. Balzac cerca madre, «Narrativa. Trimestrale di prosa e critica», Roma, Anno VI, n. 2, Giugno 1961, pp. 51-53.

 

  Io sono bello come una statua e forte come un albero. Scrive e dice così, spesso, Bernardo Balzac, funzionario napoleonico in Turenna, a cinquant’anni suonati. Di quale statua parla? Quella del sepolcro? Speriamo.

  La speranza, quale sorride alla sua diciottenne fidanzata, Carlotta Sallambier, non si avvera. Carlotta, ubbidiente ai genitori che non vedono l’ora di accasarla, trova presto il modo di correggere la frase prediletta da Bernardo: mette «freddo» al posto di «bello».

  Freddo come il marmo. I figli vengono su, non c’è che dire: prima Onorato, nel 1799; l’anno dopo Laura; sedici mesetti ancora, ed ecco Lorenzina. Ma Carlotta trova il marito sempre freddo. «Dove?», gli chiede un amico di casa, M. De Margonne.

  «Nei ginocchi». Chissà perché, i ginocchi di Bernardo sono sempre così freddi. De Margonne non ha più pace. Un po’ nella sua casa di Tours, un po’ al castello di Saché, non fa che palparsi, ordina un massaggio dietro l’altro, si fa preparare dalla moglie delle enormi ginocchiere di lana.

  Tante cure non sono sprecate. Carlotta non ha più a deplorare l’inconveniente, la sua soddisfazione è immensa, nel 1807 le nasce Enricuccio.

  Enricuccio è il cocco di mamma. Per gli altri figli, avvengono scenate di clamante tenerezza solo nei casi in cui Bernardo interviene con qualche rimprovero. Allora Carlotta impreca contro il padre tiranno, si strappa i capelli per il dolore di vedersi maltrattati i figli, grida: «Quelli! Quelli! Gli angioli miei», e non si calma se il medico non le ordina una settimana di riposo in campagna. La campagna è a ventitré chilometri da Tours, al castello di Saché, dove gli amici De Margonne saranno felici di ospitare lei ed Enricuccio.

  I De Margonne non hanno figli: la signora, gobba e bigotta, è come se non ci fosse; il signore è pieno di tenerezze per Enricuccio. Tutti sanno che sarà suo erede.

  In città, quel piccino si trova molto a disagio. La casa è piccola. Non ha, per sé, tutte le stanze che occorrerebbero. Carlotta, senz’altro, manda il primogenito in collegio, a Vendôme.

  Onorato rimane in collegio sei anni di seguito. I compagni parlano di papà e mamma, ricevono dolci visite lettere da casa; Onorato non riceve nulla, non prende vacanze di sorta, deve fare uno sforzo per ricordare l’immagine dei familiari.

  Prima della partenza per Vendôme, Onorato è stato un quinquennio presso una nutrice di Saint-Cyr, e con lui la sorellina Laura. A casa, era spesso relegato in una stanzetta al terzo piano. L’unico ricordo preciso della mamma è il suo grido isterico: «Quelli! Quelli! Gli angioli miei!». E basta. Durante i sei anni di collegio, Carlotta ha affrontato due sole volte le quindici leghe che separano Tours da Vendôme.

  Il ragazzetto cresce male. A quattordici anni è corto, pallido, tossicchiante. Il direttore del collegio lo spedisce a casa, non vuole responsabilità. La mamma lo manda a Saché: l’aria di Saché fa bene a tutti. De Margonne ospita volentieri il primogenito della sua amica: gli assegna la stanza più piccola del castello e gli rinnova quasi ogni anno l’invito di ospitalità.

  Si direbbe ch’egli ami il ragazzo più di quanto non l’ami la madre. Questa non se lo può vedere d’attorno: gli fa frequentare il liceo di Tours per un anno, e poi lo manda a Parigi Nello stesso anno 1814, i rovesci napoleonici costringono per altro la famiglia a lasciare la Turenna e stabilirsi a Parigi.

  Carlotta non parte malvolentieri: la sua relazione con De Margonne ha una barba da otto anni. L’amicizia resta, ma i ginocchi raffreddano a tutti. Il fedelissimo di Saché sarà ormai Onorato.

 

***

 

  Onorato parla sempre con tenerezza dell’aria natale di Saché, Onorato cerca fra quegli olmi la carezza che la madre non ha saputo dargli. Ma nel mondo, forse, non ci sono carezze di sorta: non c’è che la volontà per vincere gli ostacoli, non c’è che il denaro per procurarsi soddisfazioni.

  Scrivere: ecco una via buona. Ma anche la Camera sarebbe ottima. Peccato che uno non possa presentarsi come candidato se non paga almeno 500 franchi d’imposte! Onorato non possiede nulla, e non sa dove battere la testa per essere tassato di 500 franchi d’imposte. Trovasse, almeno, una buona dote!

  E trovò, invece, Madame de Berny, una vecchia amica di mamma, anzi tre annetti più grande di mamma. Come un giorno, nel congedarsi, gli cadde un bottone dal panciotto, Madama prese l’ago e glielo attaccò lei stessa.

  Allora, nel 1821, a ventidue anni, Balzac ebbe l’impressione di avere finalmente una madre. Gli (sic) confidò via via tutti i suoi sogni, le sue ambizioni, le manovre matrimoniali politiche letterarie. Ricevette, sempre, i più saggi consigli.

  «Come fare (le chiese un giorno) per persuadere la mamma a prestarmi del denaro? Le ho offerto tutti gl’interessi che vuole, è inutile, è fissata che le lettere non danno pane».

  «E tu (suggerì l’amica) non parlarle di romanzi, dille che tenti una sicura speculazione commerciale, che ci guadagnerà anche lei ...».

  Onorato pensa e ripensa, e offre alla madre delle azioni sopra una tipografia, anzi una grande casa editrice, che frutterà quattrini a palate. Carlotta abbocca all’amo, pretende cambiali, interessi, un diavolio ma sborsa quarantamila franchi.

  Ancora più teneri dei consigli, i servizietti di Madame de Berny. Camicie stirate, zabaioni, dolcini, caffè puro ... Onorato non poteva soffrire quella brodaglia, che in Francia chiamavano caffè. L’amica di mamma glielo ritirava apposta dall’Italia, chissà come faceva, certo è ch’era l’unica, a Parigi, a preparare un caffè come si deve.

  Onorato si faceva cadere apposta qualche bottone. La Berny glielo riattaccava con tanto garbo, era miope, gli sfiorava i capelli col suo stesso capo, allora prendeva il pettine per ravviarglieli, intanto gli pestava un piede e occorreva la spazzola per le scarpe.

  Quando il giovane si schermiva, debolmente, Madama diceva, quasi implorando: - Lasciati servire, io ho avuto nove figli, io lo so cosa avete bisogno, voi ragazzi. - E le tremava la gola, piatta fra due vene azzurrine.

  Dov’erano, i nove figli? Chi sposato, chi in collegio, chi fuori. Onorato non trovava mai nessuno, neanche una persona di servizio. Lei sola, Madame de Berny, linda, saggia, magretta, con molti capelli bianchi sugli occhioni canini.

  Ella lo seguiva da una stanza all’altra, come scodinzolando. O lo guidava? Le stanze, ordinatissime. Le ghiottonerie, sempre più scelte. Il profumo del caffè, i regalucci, i servizietti, tutto – tranne l’alcova – aveva un sapore e un alone materno.

 

 

  G.[iovanni] Titta Rosa, Al vecchio caffè, «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXXIV, Numero 38, 7 febbraio 1961, p. 3.

 

  Si sapeva che Balzac, il grande artiere della Comédie humaine ormai in via di compiersi, alla fine di quel decennio dal ‘30 al ’40, aveva invece optato per il conte: e per il conte aveva optato anche il buon Roger de Beauvoir. No: egli, imitando in questo Musset, stava per Brummel. Del resto. Balzac era di un’altra generazione; c’era una notevole differenza d’età, più di vent’anni. Era un ancêtre persino Musset, che ne aveva soltanto dieci di più. Lui, il più giovane, ventenne appena, e alla vigilia di quella fuga, con Balzac poteva avere in comune soltanto un proposito: lavorare, lavorare con lo stesso accanimento, se non con lo stesso metodo. Ma in casa questo era impossibile.

 

 

  Ettore Settanni, La romanzesca passione dell’autore della ‘Commedia umana’. Per vent’anni “fidanzati” Balzac e la dama polacca, «La Giustizia», Bologna, 6 luglio 1961, p. 3.

 

  Una vicenda reale che si direbbe immaginata dal grande narratore — Con Eva Hanska, moglie di un latifondista, lo scrittore stipulò un matrimonio segreto, in attesa che la signora restasse vedova! – Dopo l’interminabile attesa l’unione legittima durò cinque mesi, per la sopraggiunta morte dell’artista.

 

  Tre anni Onorato di Balzac rimase a Wierzchownia, a due passi dall’Ucraina, che canta coi suoi cento fiumi magici d’azzurro e le foreste di betulle, figlie predilette della terra decantata dai più delicati poeti slavi. I contadini dicono che d’autunno le ragazze che vengono di notte a far l’amore nel tepido verde, sospendono le loro vesti sgargianti d’oro e di argento, i fazzolettoni rossi e gialli a quei rami.

  Onorato di Balzac venne quassù poco prima della sua morte e forse fu questo il periodo più riposante della sua vita. Il suo viaggio ai limiti dell’Europa avvenne quando egli era già uno scrittore celebre, il grande autore della Commedia Umana. I suoi personaggi visti da qui eran lontani, quasi si rinserravano nelle ombre dei comignoli di Parigi, calavano dalle grondaie scroscianti, figli delle chimere che si specchiano nella Senna. I suoi romanzi più importanti già avevano visto la luce, quando gli giunse, appunto da Wierzchownia, la lettera di una ammiratrice polacca che apertamente, a differenza delle altre, gli rimproverava la brutalità del romanzo La pelle di zigrino, esortandolo a guardare al di là della «banlieue» parigina e delle pianure di Francia: «Ritornate alle sorgenti pure della ispirazione e leggetevi queste Imitazioni di Cristo, che vi spedisco».

 

Viaggio a Parigi.

 

  Diciotto anni durò questa relazione che non fu soltanto sentimentale. Balzac ricevette la lettera della Hanska nel 1832, e le sue mani non l’ebbero aperta, che tremarono. Aveva allora trentadue anni, ed è questa l’età più propizia all’esaltazione dell’immaginazione e alle cosiddette pazzie d’amore. La loro corrispondenza, partita da una premessa spirituale, si accese ben presto di vera e propria passione.

  «A quell’epoca del romanticismo — scrive Boy-Zelenski — un tal gioco del cuore e dell’immaginazione, pieno di rischi e che non scartava comiche delusioni, era assai caratteristico». Balzac si gettò nell’avventura fiducioso, e così Madame Eva Hanska, la quale, moglie di uno del più ricchi latifondisti dell’Ucraina polacca, invogliò il marito ad un viaggio a Parigi, allo scopo di incontrarvi Balzac. Suo marito aveva subdorato la cosa e brigò a Mosca affinchè le autorità zariste rifiutassero il permesso alla giovane donna. «Madame Hanska avrebbe perduto il suo ascendente fra i numerosi schiavi della gleba, dando il cattivo esempio di recarsi nella città del diavolo e delle boites della dannazione».

  Ma Eva non disarmò; non sognava altro che l’incontro col lontano scrittore francese, che era diventato l’unico obiettivo della sua vita. Indusse così il marito a partire con lei per la virtuosa Svizzera, non senza avervi dato appuntamento a Balzac, a Neuchâtel. Si conobbero in un giardino, ad un segnale convenuto, e ben presto la fiamma della passione li divorò.

  Madame Hanska dovette poco dopo seguire il marito in Italia, protraendovi il soggiorno per un anno, dopo di che i due si ritrovarono a Vienna, dove Balzac li aveva preceduti, con la scusa di una visita ai campi di battaglia di Wagram, scena di un libro che egli si proponeva di scrivere sull’epopea napoleonica, e del quale non vergò mai un sol rigo.

  Dopo Vienna trascorsero sette anni senza che i due amanti si incontrassero una sola volta, ma nel frattempo la loro corrispondenza s’infittì, sino a costituire il voluminoso materiale dell’opera intitolata da Balzac «Lettere ad una Straniera», rimasta incompiuta. L’epoca era, come abbiamo detto, romantica, e le cose si facevano per benino anche allora: la liason (sic) amoureuse fra i due era avvenuta dopo un matrimonio segreto che avrebbe avuto attuazione civile in caso che il Signore si fosse deciso a chiamare al suo Paradiso l’ingannato signor Paul Hanski, che, d’altronde, era un gagliardo per nulla disposto a sacrificarsi per la loro felicità.

  Gli anni passano; per Balzac è il trionfo e, coi successi, si susseguono le avventure galanti. Madame Hanska ne è gelosa, nella sua prigione dalle betulle dorate di Wierzchownia. Essa si accorge che con la lontananza diventa sempre più una ombra pallida e incorporea: la fidanzata esotica ai confini dell’Europa. Non gli risparmia recriminazioni per la sua infedeltà, lei che è bellissima e adulata da tutti e sa conservaglisi (sic) di una fedeltà adamantina.

  La «Commedia Umana» è il coronamento dell’arte balzachiana e costituisce il suo trionfo. Egli se ne inebria tanto che quasi non si ricorda più della sua amica lontana, quando gli giunge una lettera da Wierzchownia listata di nero: il marito di Eva è morto, lasciandola milionaria. «Balzac — scrive Boy Zelenski — si precipita al suo paese. Non si tratta solo di una questione di cuore ma di ambizione e di un calcolo veramente balzachiano: una magnifica fine del romanzo della sua vita. Un matrimonio così, ricco e aristocratico, egli lo riservava ai suoi personaggi più favoriti».

 

Gioiello di famiglia.

 

  Epperò Eva non è più quella che gli ha scritto lettere folli; ella si è resa conto di quel che è successo nel frattempo, e il genio dello scrittore la impaurisce, al pari delle infedeltà che hanno fatto sfiorire la sua immaginazione. Non è più quella che gli ha scritto mille volte di volersene fuggire verso il suo amore con la sola veste che indossa.

  D’altra parte Balzac a Wierzchownia è sbalordito dall’ambiente. Egli scrive alle sorelle e alla madre, suggerendo loro il tono più altisonante da usare nelle loro lettere, che vengono lette da lui nella solennità della campagna ucraina, ad alta voce. Madame Hanska ancora bellissima, indugia a stringere il nodo del matrimonio civile. Ma finalmente il compimento arriva, dopo molte vicende. Scrive Balzac all’indomani delle nozze civili alla sorella: «Ci ha sposato un nobile. Il cognome di Hanska è: contessa Rzewulska (sic), e in questa, giorno ella è stata il vero gioiello della vecchia magnifica famiglia Rzewulska. Il tuo fratello Onorato, al colmo della felicità».

  Onorato Balzac scriveva questo il 15 marzo 1850; il 18 agosto dello stesso anno, il grande scrittore non era più.

 

 

  Vittorio Strada, Balzac e la critica sovietica, «L’Europa letteraria», Roma, Anno II, n. 11, 1961, p. 148.

 

  Boris Reizov è uno dei migliori rappresentanti della «scuola» sovietica di storia della letteratura francese. Insegna all’università di Leningrado e a lui si devono alcune originali monografie su Balzac, Flaubert, il romanzo storico del romanticismo e la storiografia romantica in Francia.

  A distanza di vent’anni (nel ‘39 aveva pubblicato il libro Tvorcestvo Balzaka, La creazione di B.), il Reizov ritorna sul grande tema dell’opera balzachiana, affrontandolo qui — in questo Balzac, (Izdatel’stvo Leningradskogo Universiteta, 1961) — con una serie di studi particolari sui motivi di titanismo nella Commedia umana, Balzac e Diderot, Le (sic) illusioni perdute, etc. Apre il libro uno studio metodologico generale: «Problemi dell’estetica di Balzac». Il Reizov polemizza con l’inesatta interpretazione del noto giudizio engelsiano sulla contraddizione tra il realismo artistico e il legittimismo politico di Balzac, interpretazione che crea una problematica astratta in cui l’opera concreta dello scrittore passa in secondo piano: si discute così se Balzac pervenne a una raffigurazione profondamente realistica della società borghese del suo tempo «nonostante» i suoi pregiudizi di classe o non piuttosto «grazie» ad essi. In realtà, scrive il Reizov, per determinare «l’indissolubile legame tra visione del mondo e creazione, bisogna in primo luogo capire l’intenzione, il problema che la data opera doveva risolvere, bisogna interpretare il tutto e ogni dettaglio dall’angolo visivo del loro significato storico e sociale». Inoltre: «Studiare l’opera di Balzac fuori della sua estetica è un’impresa oziosa. L’analisi di ogni singola sua opera non approda a nulla se l’opera stessa è riguardata fuori della prospettiva di tutto lo [s]viluppo estetico-letterario e filosofico di Balzac. Uno studio veramente scientifico della sua opera è possibile soltanto nella costante unità dialettica del momento generale e di quello particolare, del materiale e del romanzo, della filosofia e dell’estetica, del problema e del testo». Questi sono i criteri metodologici più generali, che sorreggono le belle analisi storico-critiche del Reizov.

 

 

  Franco Venturini, Miserie e fortune del Travet. Le vicende dell’impiegato nella letteratura: da Balzac a Kafka [...]. A cura di Franco Venturini. Regia di Gastone Da Venezia, Terzo programma, 8 giugno e 10 agosto 1961.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Piero Virgintino, Uno scabroso romanzo di Balzac portato sullo schermo in Francia, «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, Anno LXXIV, Numero 233, 23 agosto 1961, p. 6.

 

  Il racconto da cui è tratto il primo film francese in gara qui alla Mostra reca lo stesso titolo del lavoro cinematografico, La fille aux yeux d’or (La ragazza dagli occhi d’oro»), e fa parte del ciclo I tredici della Commedia umana di Honoré de Balzac, il quale lo scrisse tra il marzo del 1834 e l’aprile dell’anno successivo e lo dedicò a Eugène Delacroix.

  Confessiamo di non aver letto questo racconto, che a quanto pare, si può definire uno dei più sconcertanti lavori del celebre scrittore [...].

  Ci è stato detto che i realizzatori del film non hanno incontrato particolari difficoltà nell’inserire la vicenda del 1835 ai giorni nostri: è bastato mutare qualche particolare, ma il tessuto è rimasto come l’originale. Solo il finale sarebbe stato cambiato, ma non abbiamo avuto modo di controllare il racconto di Balzac: ci è stato detto che il romanziere ha immaginato che la donna uccida l’uomo, mentre nel film pugnala la ragazza sua «protetta». [...].

  Mentre, la ragazza dagli occhi doro, che in Balzac si chiama Paquita e non sa né leggere nè scrivere e che ignora tutto della vita, ma conosce a fondo l’amore si è trasformata in una studentessa timida ingenua ed esperta insieme, alla quale, però, i realizzatori del film non hanno voluto dare un nome, volendo aggiungere mistero a un personaggio già pieno di ombre. [...].

  Certo, la storia è quanto meno imbarazzante, siamo ai limiti della patologia, naturale che si possa interessare a particolari psicologie e a particolari stati d’animo. Sgradevole la materia, esteticamente cospicua la sua tessitura. Crediamo sarebbe piaciuto a Balzac questo moderno racconto per immagini, sospese a uno struggente filo musicale di Corelli, un altro romantico.

  Riesce anche a commuovere, com’è, tutto sommato, nelle auree regole del romanticismo, e sarebbe, crediamo, piaciuto questo film a Balzac, anche perché tenendosi quasi sempre lontano dalla tentazione letteraria, ha detto con i suoi mezzi quello che ha voluto dire.

 

 

  Stephan Zweig, Balzac, in Opere scelte. A cura di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1961, Volume Primo.

 

 

 


Adattamenti radiofonici.

 

 

  Honoré de Balzac: Una passione nel deserto. Traduzione di Giuseppe Guglielmi. Lettura, Terzo programma, 31 gennaio 1961.



Marco Stupazzoni

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