mercoledì 23 ottobre 2019



1941

 

 


Studî e riferimenti critici.

 

 

  Fra le quinte, «Minerva. Rivista delle Riviste. Quindicinale», Torino, Anno LI, N. 13, 15 Luglio 1941, p. 312.

 

  Onorato di Balzac si dibattè continuamente in gravi difficoltà finanziarie.

  Una notte, mentre stava dormendo, fu svegliato da un rumore e nella penombra scorse un uomo che s’avvicinava furtivamente allo scrittoio. Balzac, che fingeva di dormire, scoppiò in una fragorosa risata.

  — Perché ridete? — domandò, spaventato ed insieme stupito, il ladro.

  — Perché — rispose l’autore della «Commedia umana» — voi cercate di notte, con chiavi false, là dove io, nel pieno mio diritto, non riesco a trovare nulla neppure di giorno!



  Rivista delle riviste. Balzac e gli affari, «Cultura moderna. Natura ed Arte», Milano, Anno L, Numero 10-11, Ottobre-Novembre 1941, p. 414.

 

  Chi conosce quel capolavoro che è la Commedia umana sa bene come Balzac avesse una conoscenza profonda della società del suo tempo, del commercio, della finanza e dell’industria. Egli aveva pure una intuizione straordinaria degli affari.

  Questa qualità di uomo di affari in Balzac si rivelano in modo notevole quando egli nei suoi romanzi redige un bilancio o conduce una procedura. In essi i calcoli sono rigorosamente esatti, i bilanci fatti bene; il conto del fallimento del César Birotteau, che il Bouvier ha potuto ricostituire completamente sui soli dati del romanzo, rivela una competenza di perito rotto alle scritture più delicate della contabilità in partita doppia. Gli atti legali o estralegali, che riempiono pagine intere della Commedia umana, sono redatti da mano maestra, con la previsione di tutti gli incidenti, dei tranelli da evitare o da tendere. Se teme che non si afferrino tutti gli elementi del meccanismo, tutti i suoi congegni e i suoi fili, egli torna sull’argomento, precisa completa. Maneggia le cambiali e le spese che caricano questi strumenti di tortura con la destrezza di un vecchio ufficiale giudiziario.

  Egli avrebbe potuto scegliere perfettamente il suo personale: conosce la mentalità spesso pericolosa dei tecnici e si preoccupa di conciliare le indicazioni empiriche degli uni con i dati teorici degli altri: a questo riguardo formula riserve che restano meravigliosamente vere sulla forza e sulla debolezza delle scuole, della Scuola politecnica, specialmente, molto maltrattata dal giovane ingegnere Gérard nel Curato di villaggio. Non dimentica alcuno degli ingranaggi necessari al buon funzionamento degli affari, neppure quei modesti contabili che troppo spesso oggi si lasciano ancora in un cantuccio, mentre potrebbero avere, se delle loro indicazioni si sapesse approfittare meglio, una funzione tanto importante.

 

 

  Balzac, «Storia di ieri e di oggi», Roma, Anno III, N. 32, 15 Dicembre 1941, p. 661.

 

  BALZAC — che morì a cinquant’anni — si credeva destinato alla longevità Narra Teofilo Gauthier (sic) che spesso, cogli amici, tracciava progetti d’avvenire: avrebbe terminato la «Comédie Humaine», scritto la «Théorie de la Démarche», composto la «Monographie de la vertu» e una cinquantina di drammi, avrebbe messo assieme una grossa fortuna, si sarebbe ammogliato e avrebbe avuto due figli: «Due figliuoli — diceva — stan bene sul sedile anteriore di una carrozza». Gli si faceva osservare che era un programma enorme, che, compiuto tutto questo, avrebbe almeno ottant’anni Rispondeva: «Ottant’anni? Ma è il fior dell'età!».

 

***

 

  E’ noto che Balzac lavorava enormemente (come avrebbe altrimenti potuto condurre a termine tanti volumi in si pochi anni?) e lavorava precisamente dall’una di notte all’una del pomeriggio, contentandosi di dormire cinque o sei ore ogni sera. Per fornire quest’immenso sforzo gli era indispensabile il caffè. Ne ha scritto l’elogio:

  «... Il caffè cade nel vostro stomaco, ed ecco che tutto si agita, le idee si mettono in moto come i reggimenti della Grande Armata sul campo di battaglia, e la battaglia si svolge. Arrivano a passo di carica di ricordi; la cavalleria leggera delle similitudini si svolge con magnifico galoppo, arriva l’artiglieria della logica coi suoi cannoni e le sue munizioni; i tratti di spirito giungono come le truppe d’assalto; le figure si drizzano, la carta si copre d’inchiostro: giacché la lotta cominciata col caffè finisce coll’inchiostro …».

  Viceversa, come Goethe, Balzac non poteva soffrire il tabacco. E’ di lui l'aforisma: «Il sigaro infetta l’ordine sociale», e la frase: «Il tabacco distrugge il corpo, intacca l’intelligenza e incretinisce le nazioni». Ancorché rapido, il suo lavoro non era, perciò, frettoloso. Scritte in tempo brevissimo le sue opere, le rivedeva con amore. Informa una delle sue tante ammiratrici di aver corretto il Louis Lambert: «Come un’orsa ho amorosamente leccato il mio piccolo».

 

***

 

  Per Dio sa qual capriccio, come se al suo nome non facessero il massimo onore le sue opere, ambiva a discendere da certi Balzac d’Entraigues, nobiltà di Tours. Qualcuno gli disse un giorno: «Ma sapete bene che è uno scherzo e che non avete con essi nessun rapporto». «Ah! — rispose Balzac. — Ebbene tanto peggio per loro!».

 

 

  I romantici, Ibid., p. 662.

 

  Balzac, aveva scritto su Stendhal un vivace articolo che aveva tolto si può dire dall’oscurità lo scrittore per renderlo noto a tutta Europa. Incontrato l’amico gli chiese se lo scritto gli era parso buono. «Caro Balzac, non potete immaginare quanto mi ha fatto ridere ...».

  «E perché?».

  «Mentre leggevo i vostri elogi e la vostra ammirazione per me, pensavo alla faccia che avrebbero fatto i miei nemici leggendolo».

 

 

  Salvatore Aponte, La pelle di zigrino, «Corriere della Sera», Milano, Anno 66, N. 75, 28 marzo 1941, p. 2.

 

  Ricordate la fiabesca avventura di Raphaël de Valentin narrata da Balzac ne «La pelle di zigrino»? Sul misterioso talismano orientale era scritto: «Se mi possiedi, possederai ogni cosa: ma la tua vita mi apparterrà. Desidera, e sarai esaudito. Ma regola i tuoi desideri sulla tua esistenza, perché ad ogni tuo desiderio io mi rimpicciolirò, e nella stessa misura diminuiranno i tuoi giorni». Il tonnellaggio mercantile domina le sorti e segna i giorni dell’Inghilterra: è la sua pelle di zigrino.



  Emilio Cecchi, Album da disegno. «Date lilia», in Corse al trotto vecchie e nuove. Con 12 tavole, Firenze, G. C. Sansoni, 1941, pp. 179-180.

 

  p. 180. Tornito e lustro, come una specchiera Luigi Filippo, è il pezzo di bravura dell’offerta d’un mazzo di fiori nel Lys dans la Vallée. Balzac doveva illudersi d’aver toccato i vertici del platonismo. Quel giovane Rastignac (sic), con sulle braccia una cupola di pistilli, di petali, d’ovari! In realtà, sembra di vederlo presentarsi all’atterrita M.me de Mortsauf, non essendosi accorto di stare senza calzoni e senza mutande.



 Virgilio Feroci, Balzac e gli ufficiali giudiziari, «Sapere. Quindicinale di divulgazione di scienza, tecnica», Milano, Anno VII, Serie Seconda, Vol. XIV, N. 44/164, 31 Ottobre 1941, p. 220.

 

 Il Balzac fu per tutta la vita assillato dagli uscieri, o, come oggi si dice, dagli ufficiali giudiziari.

 Una volta fu dichiarato fallito e fu condannato dal tribunale a pagare una forte somma di denaro, o, in mancanza, al carcere. Non aveva un soldo per evitare il carcere, e si nascose in casa di amici. L’usciere che doveva eseguire la sentenza escogitò un espediente degno di qualcuno dei personaggi del romanziere: si presentò nella casa degli amici, travestito da fattorino, con un sacchetto pieno di monete, e domandò: — Si trova qui il signor Balzac? Ho da consegnargli seimila lire.

 A sentir ciò, il Balzac uscì dal nascondiglio; ma l’usciere, invece del sacchetto delle monete, gli consegnò il mandato di arresto. Per liberarlo dalla prigione, i suoi amici pagarono per lui.

 

 

  Valentino Martelli, Traduzioni, «Lingua Nostra», Firenze, Sansoni, Anno III, Fasc. I, Gennaio 1941, pp. 21-22.

 

  Anche più meravigliosa è la traduzione d’un romanzo celebre del Balzac fatta da una scrittrice illustre [si tratta di Eugénie Grandet nella traduzione di Grazia Deledda], poco famigliare però con la lingua francese e ... col buon senso. À la fois è tradotto «qualche volta», les maisons de la vielle ville, que dominent les remparts divengono «le case della vecchia città che dominano i bastioni» (que, complemento oggetto, è divenuto soggetto e la città si accorda con un verbo al plurale), la gloria cambia sesso, un de ses prés cioè uno dei suoi prati, è tradotto «presso di sé», i davanzali delle finestre che sorreggono i vasi di fiori, si trasformano nelle «imposte». Tutti questi fiori sono raccolti nelle primissime pagine, ma se ne trovano in abbondanza anche nelle rimanenti ...

 

 

  Giulio Marzot, Battaglie veristiche dell’Ottocento, Milano-Messina, Casa editrice Giuseppe Principato, 1941.

 

Verismo, realismo e naturalismo.

 

  p. 8. Poiché, quando in Italia si comincia a parlare di Balzac, di Flaubert, di Zola, e ci si commuove e ci si turba dinanzi a quelle rappresentazioni vigorose e audaci, rispondenti a una vita che anche da noi si avvertiva, pur non avendo trovato ancora il suo originale interprete, tutti, consenzienti e avversari, riconobbero quella nuova forza di passione, ma si lasciarono sfuggire le premesse dottrinarie sulle quali quelle opere si basavano e ricevevano forza e significato.

 

Manzoni e Zola.

 

  p. 28. Tra i libri d’arte che «drammatizzano la psicologia», ci sono quelli del Balzac, in cui il fenomeno patologico aveva larga parte; e patologica, più che naturalistica, si era già annunciata la prima scapigliatura. Il Rovani, pur ancora attaccato al romanzo storico, e perciò col peso di una materia addossatasi alle spalle per un gioco non privo di grandiosità, teoricamente si libera dal Manzoni, attingendo formule e motivi al romanzo balzacchiano.

  p. 29. Ma dove il Rovani andava invece più in là del Capuana scrittore, è nel criterio con cui la materia dei suoi Cento anni è disposta: mirando a «svolgere il nodo drammatico nel seno di quelle famiglie più o meno cospicue per le quali quel processo e quell’azione (la storia di un processo criminale, e di una azione giuridica e civile conseguitane) continuarono per settantacinque anni»; e ottenendo così che, «dove per consueto gli attori sono individui operanti nel tempo limitato di un periodo della vita, nel suo lavoro gli attori fossero invece famiglie, la cui vita camminasse colle generazioni, cogliendo da ciò occasione di tener dietro agli svolgimenti graduali di tutte le parti che costituiscono la civiltà di un paese» (p. 5). Non c'è ancora, neanche accennato, il principio darviniano che lega, come il fato antico, gli individui dello stesso sangue; né c'è alcuna tesi dimostrativa, né sperimentale; ma nel criterio di muovere le famiglie e di legarle, se non mediante una vicenda patologica, mediante l'interesse comune di un processo, è già l’intuizione di qualche aspetto del romanzo nuovo e del suo collegamento in cicli. Qui c'è, oltre che Balzac, un poco anche Zola.

  pp. 33-34. Ma sulla natura di questa armonia non tutti andavan d’accordo. Chi si muoveva per entro l’atmosfera, più ardente e impetuosa, di Shakespeare o di Balzac, avvertiva, nella temperanza con cui erano rappresentate quelle passioni, il segno di uno scrupolo morale che agiva arbitrariamente sulla natura dello scrittore, più libera e drammatica e vigorosa che il libro non dimostrasse […].

  p. 37. Nel discorso manzoniano Sul romanzo storico (1845) egli [De Sanctis] credette di «scorgere il presentimento, che inconsapevolmente conteneva, di una nuova forma della letteratura»; e ciò fece fuori della diretta influenza del naturalismo balzacchiano[1].

  p. 43. Il principio scientifico è appunto quello sperimentale, già felicemente provato in altri campi c non nuovo in quello letterario. Il Balzac lo aveva limpidamente dimostrato in Cousine Bette: «L’operazione intera consiste nel prendere i fatti in natura; studiarne poi il meccanismo, operando su di essi con le modificazioni delle circostanze e dell’ambiente, senza mai staccarli dalle leggi di natura». Il risultato della operazione era «la conoscenza scientifica di un uomo, nella sua azione individuale e sociale».

 

Prime discussioni: I manzoniani.

 

  p. 49. Lo Zola teorico e polemista fu discusso in Italia in ritardo (intorno all’8o), quando già declinava la fama del romanziere; sicché riusciva più facile accomunare i vizi artistici con gli errori di quella critica). Né infatti sfuggirono le esagerazioni, le contraddizioni, gli assurdi cui essa conduceva. Primo a suscitare interesse e discussione fu lo scrittore; ma solo a cominciare dal ‘77 (e cioè da un articolo del Capuana su Assommoir, che è di quell’anno) lo Zola fra noi divenne un problema di critica. Anteriormente a quella data, in Italia, fra gli scrittori francesi, tenevano il campo Balzac e Hugo, e nei ceti di cultura più modesta, Dumas il vecchio e Sue.

  pp. 51-52. Proprio allora egli [De Sanctis], conquistato dallo Zola, mostrava con quell’esempio quali fossero le vie nuove anche per la nostra arte, se voleva rigenerarsi e tornare alla vita. Zola è il secondo grande narratore dell’Europa contemporanea che trova caldo consenso nel critico; l’altro è Balzac (poiché l’ammirazione per l’Hugo tocca specialmente il lirico). Fin dal ‘56, Balzac gli pareva offrire un esempio di quel nuovo realismo ch’egli sentiva necessario ai tempi moderni; infatti quello scrittore «aveva sostituito gl’intrecci curiosi e attraenti dei Gil Blas, delle Pamele e delle Clarisse una storia fina e conscia dell’anima»). La difesa fatta del Balzac, nel saggio sul Cours de littér. dramatique del Girardin, appunto del ‘56, è una delle prime e più esatte affermazioni di quella tendenza alla rappresentazione del ’brutto’ in arte, che poi egli vedrà grandeggiare nello Zola. Al Girardin, che accusava la figura di père Goriot di materialismo, risponde: «Sono materialisti i personaggi rappresentati, non è materialista l’arte ... E da quando in qua non sarà lecito al poeta di rappresentarci la parte istintiva dell’uomo? Non è suo uffizio di cogliere i sentimenti in tutte le gradazioni che hanno nell’umana natura? ... Né so perché dobbiate cacciarmi fuori della poesia gli uomini materialisti, come li chiamate, ovvero istintivi, che sono forse le più attraenti creature poetiche»).

  Ma l’esempio del Balzac, negli anni intorno al ‘70, pur rimanendo ‘principe’ illumina solo alcuni aspetti del problema scienza-vita-arte che il De Sanctis si sforzava di far penetrare nella coscienza degli italiani. Infatti il Balzac superava il Manzoni per aver collocato al centro del suo mondo il vizio, il «brutto morale»; ma era inferiore allo Zola, di temperamento più istintivo, energico, brutale. Oramai il De Sanctis aveva bisogno di trovare un’arte sanculotta per agire più efficacemente, accettandola e compromettendosi fino all’ultimo, anche fino allo scandalo). È innegabile che egli non spieghi Zola con Manzoni, il quale a quel contatto avrebbe inorridito.

 

Classicisti.

 

  p. 99. Ma guardando a quello che disse e alla risonanza che ebbe e alla interpretazione che ne fu data, come nessuno può affermare che il Carducci fosse un manzoniano, nonostante il riconoscimento più tardi fatto del grande romanziere e lirico, così non si può dire che il Carducci fosse verista. E non fu né l’uno né l’altro, anche perché un po’ di diffidenza per il romanzo la conservò sempre: e là dove dai contemporanei si levava, convinta e frequente, la voce a condannare il poema epico come anacronistico nella nuova era europea e a salutare, come continuatore di esso, il romanzo, il Carducci invece deprecò quasi dovunque questo nuovo e florido prodotto, anche in Francia, che pur aveva dato, con ancora nessuna o molto discreta premessa dottrinaria, l’opera di Balzac e di Hugo. Sicché c’è da fantasticare, ma con qualche fondamento di verità, che, se il De Sanctis avrebbe dato i Promessi Sposi per avere Père Goriot o l’Assommoir, il Carducci, in qualsiasi momento fosse stato trovato, se la sarebbe intesa più facilmente con l’autore dei Promessi Sposi.

  p. 112. Secondo lo Scarfoglio, quando lo Zola scrive la sua prosa, a differenza del Balzac, che la fa e vera e grande, riesce nel tono poetico, fantastico, melodico […].

 

Verismo integrale.

 

  pp. 194-195. In genere, filosofi e scienziati positivisti diedero allora scarso apporto alla discussione sull’arte, essendo o troppo astratti o troppo meccanici nei loro procedimenti. Forse più efficaci si dimostrarono i lombrosiani e i mantegazziani, indicando un diverso metodo di lavoro e di ricerca, da utilizzare nella critica letteraria; ma questi poco parteciparono alla questione sul verismo, anche se tendenzialmente, più o meno, fossero tutti veristi, o almeno naturalisti nel senso tainiano. — Tra i più vivaci di loro, Giustino L. Ferri scese in campo contro l’idealismo («una forma di misticismo» – egli diceva —, rivolta a favorire «il ritorno della vecchia filosofia trascendentale e inconcludente», e perciò pericolosa alla vita nazionale); strenuo difensore del Balzac e correttore dello Zola, quando questi (come nel caso del romanzo L’oeuvre), sotto l’apparenza di naturalismo, metteva in scena personaggi di psicologia romantica (il pittore Lantier, che finisce suicida per la sua passione e delusione dell’arte); o quando si allontanava dalla sana semplicità del vero (come in La terre, «che doveva essere il poema in prosa delle nuove Georgiche», ed invece era «precipitata nel mostruoso»), deformando la calda voluttà umana in satiriasi senile). Ma il Ferri, pur criticando certi aspetti dello Zola e con l’aria di accettare nello Zola solo quanto questi aveva accettato del Balzac, come scrittore al Capuana appariva uno dei più chiari seguaci del naturalismo zoliano […].

 

Il verismo negli ultimi romantici.

 

  pp. 240-241. In Balzac e in Tolstoi [Oriani] ama quello che egli non è capace di dare: la forza di diventare «uomini indistinti nella loro folla»); la capacità di obbiettivare, di creare l'etica, gli sembra superiore a quella di muovere le figure del dramma.

  p. 243. Nel giudicare dello Zola, l’Oriani mette sempre in gioco l’arte del Balzac, come se questi rappresentasse la forma ultima di un processo che in Zola rimane imperfetto.

 

Il verismo dei moderati.

 

  p. 258. Essenzialità è unità di vita, e cioè complessità: proprio il contrario di quella constipazione di dati, più e meno di quelli che occorrono a creare il personaggio poetico. Perciò il Martini non partecipava all’entusiasmo del Nencioni per il Balzac, anch’egli costrettosi a una visione unilaterale della realtà: infatti l’artista non deve procedere per la facile e comoda via dell’esclusivismo e della semplificazione, che ci danno figure o striminzite o eccezionali: non la realtà, ma la illusione di essa. Il Balzac ci pone dinanzi agli occhi «un essere ridotto a una semplificazione estrema; e il proprio bel carattere umano è la complessità; quella che si trova nei romanzi di Eliot […]».

 

L’altro Zola.

 

  p. 275. I paragoni die vengono naturali ai critici non sono mai ricavati da pensatori o scienziati, ma da poeti: Balzac, Hugo, Chateaubriand.

 

La fine del verismo.

 

  pp. 353-354. Noi possediamo al giorno d’oggi — aveva scritto il Capuana — un’opera d’arte non meno difficile dell’epopea e popolare quant’essa al suo tempo, ma più seria, più variata, più efficace, diremmo quasi più eccellente; e questa è il romanzo. Non già il romanzo storico, parto ibrido e falso, nato in un momento di esaltazione archeologica e morto subito con essa; bensì quello che dipinge caratteri e costumi della realtà contemporanea: sicchè non sappiamo capire perché, per esempio, Les parents pauvres e Le père Goriot di Balzac non possano mettersi accanto all’Iliade e all’Odissea nella storia dell’arte».

 

 

  Rodolfo De Mattei, Il matrimonio, in Viaggi in libreria, Firenze, Sansoni Editore, 1941 («Itinerari», I), pp. 147-155; 2 ill.: La donna onesta; Lo scapolo (Da Physiologie du Mariage), pp. 128-129.

 

  Cfr. 1938.

 

  Il colonnello Bridau, ivi, pp. 155-163.


  Cfr. 1938.

 

 

  Marino Moretti, Giardino delle piastrelle, «Corriere della Sera», Milano, Anno 66, N. 175, 23 luglio 1941, p. 3.

 

  Là, in uno dì quei lembi di terra felice detti anche tanto ingenuamente «paradisi terrestri», fra la collina e la baia, e su cui tuttavia era passata da un anno la guerra, avevo visitato alcune ville, ora deserte, tutte più o meno note per la ricchezza e vastità del giardino. Quando passammo davanti a un ingresso fastoso su cui era scritto in spagnolo «El jardin de los novelistas», io dissi non senza orgoglio che questo era davvero il giardino mio: guardai gli amici uno per uno, giunsi quasi le mani, pregai che mi facessero entrare.

  Non avevo torto. I «novelistas» ritratti in ceramica come numi tutelari su la fantasia del complesso portale erano tre, due grandi c uno grandissimo, eccelso: in mezzo sovrastava, dunque, don Miguel Cervantes de Saavedra che aveva ai lati in qualità, si direbbe, di diacono e suddiacono Onorato Balzac (sotto il ritratto, il nome della villa in francese, «le jardin des romanciers») e Carlo Dickens («the novelists garden»). Era come se questi padri del romanzo europeo m’invitassero, in una natura straordinariamente ricca e scoppiante di salute, al festival della gloria. […].

  Allora andammo alla ricerca «de los novelistas». Anche qua Balzac e Dickens servivano, nella zona dell’esedra, alla gloria e popolarità di Cervantes […].



  Alfredo Niceforo, Criminologia. Vecchie e nuove dottrine, Milano, Fratelli Bocca – Editori, 1941.

 

Capitolo quarto: L’uomo: la «facies» interna.

 

  p. 437. La fantasticheria può chiedersi: chi faresti uccidere se, come un re negro o un tiranno cinese, tu potessi senza controllo esercitare il tuo potere? oppure – per ricordare la celebre insinuazione del brigante Vautrin, del Père Goriot – se, premendo un bottone a portata della tua mano tu sapessi che con quel gesto poni a morte un mandarino che vive in Cina, ma che morendo ti lascerà erede delle sue incalcolabili ricchezze, premeresti tu quel bottone? [...] durante la fantasticheria il «sognante» [...] si delizia con quei suoi fantasmi come se possedesse [...] la pelle di zigrino del romanzo balzacchiano che permetteva la realizzazione di ogni aspirazione [...].

 

 

  Pietro Solari, A passo d’uomo. Da non so che museo hanno tratto fuori la diligenza a cavalli che faceva servizio ai tempi di Onorato Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 66, N. 250, 19 ottobre 1941, p. 3.

 

  Da non so che museo hanno tirato fuori la diligenza a cavalli che faceva servizio fra la Bastiglia e la Maddalena ai tempi onorati di Onorato Balzac, si vedono scene alla Daumier, scene da Secondo Impero, come se davvero la Terza Repubblica fosse stata inghiottita dalle fauci del tempo senza lasciare di sè traccia o memoria.

 

 

  Angelo Sommaruga, Guerrini, in Cronaca bizantina [1881-1885]. Note e ricordi. Con 20 illustrazioni fuori testo, Milano, A. Mondadori – Editore, 1941, pp. 143-156.

 

  p. 146-147. In una lettera, egualmente senza data, […] mi scriveva:

  Sarebbe mia intenzione di fare Il Trentanovelle di Messer Lorenzo Agnolo Stecchetti.

  … Farei insomma Les Contes Drolatiques del Balzac all’Italiana.

 

 

  Adriano Tilgher, Prefazione in Clarice Tartufari, L’uomo senza volto. Romanzo, Roma, Tosi, 1941, pp. 9-16.

 

  p. 11. Difatti le sue qualità ella deve, oltre che alla disposizione nativa del temperamento, alla frequentazione assidua ed amorosa del suo autore prediletto, Balzac, studiato negli anni di giovinezza, quando l’animo è più pronto ad assorbire influenze esterne.



  Tram., Milano non era «franciosa». Balzac: aspetto da panettiere e modi da ciabattino del borgo ..., «Le Ultime notizie. Il Piccolo delle ore diciotto», Trieste, Anno XX, N. 80, 26 Dicembre 1941, p. III.

 

  Qualche giudizio tutt’altro che rispettoso - I panciotti e il resto da istrione – Sedute spiritiche e duelli - Generale indifferenza.

  Davvero: neppure nel tempo dell’«infranciosamento», che dilagò sovrattutto nell’ottocento, i milanesi furono dei succubi. Italiani e fieramente indipendenti, ne offrirono un esempio, quando accolsero Balzac per niente accecati dall’incenso della sua fama. Sarà un grande scrittore, ma è un pessimo uomo che ha dei francesi tutti i vizi e i difetti, solevano dire. E per tale lo trattarono.

  Era giunto a Milano preceduto alla grancassa della pubblicità; proprio in quell’epoca tutta Parigi seguiva la moda alla Balzac, cioè certi panciotti sgargianti, delle vesti da camera bianche come tuniche da frate, dei bastoni dall’impugnatura mastodontica; ma allorchè i milanesi lo conobbero allibirono e pensarono: «ci hanno preso per allocchi? O dov’è questo famoso e celebrato fascino balzacchiano?». Lo giudicarono così coi loro occhi, ed i giudizi non furono certamente benigni, al punto che una scrittrice meneghina dell’epoca così lo dipinse: «aspetto da panettiere, modi da ciabattino del borgo, corpo da bottaio, camminata da facchino, abiti da autentico bettoliere ...».

  Ma se l’estetica del romanziere non convinse e non piacque, il suo animo soprattutto indispose i milanesi, nonostante la sua celebrità e la nomea che l’aveva accompagnato nel suo viaggio transalpino. Balzac si gonfiava di una boria acre e dispettosa; fioriva sulla sua bocca un’apologia incessante della sua terra e del suo intelletto, non parlava che per millantare Parigi ed suoi compatrioti, sprezzava apertamente l’Italia e il monda intero.

  Balzac non era venuto a Milano per ragioni artistiche e fu una menzogna quanto si pubblicò alla sua partenza; che cioè scopo del viaggio era di «raccogliere materiale onde descrivere le campagne francesi in Italia». Lo scrittore, seppure strapieno di debiti, si piccava di essere un finanziere, magnificava anzi il suo raro intuito industriale. Spesso parlava di grandiosi progetti, primo fra tutti lo sfruttamento' delle miniere sarde, mai messo neppure sulla carta. Comunque, tutto ciò che riguardava il danaro lo rendeva zelante e servile ed a Milano venne appunto per liquidare una certa eredità che non si fidava a lasciar incassare da altri.

  Balzac capitò a Milano nel febbraio 1837. La prima visita la riservò alla Scala, dove passa da un palco all’altro, non sempre adulato e corteggiato come si attendeva. Buon senso innato della nobiltà milanese, per nulla abbagliata dai suoi modi queruli e altezzosi. Dapprima prese alloggio in albergo, poi trovò ospitalità in casa del principe Porcia in corso Venezia; in questo palazzo s’installò fragorosamente divorando ogni giorno un subisso di frutta e annegando il tutto in innumerevoli tazze di caffè.

  Naturalmente il famoso salotto della contessa Maffei lo accolse con i dovuti onori; non tutti i frequentatori di quel cenacolo artistico rimasero però incantati al cospetto di tanta celebrità e soltanto la contessa e pochi altri gli perdonarono il suo fare da rodomonte, il suo continuo esaltare la Francia ed il parlar male dell’Italia e della stessa Milano, il cinismo con cui confessava i propri debiti e le scappatoie per eludere le richieste pressanti dei creditori.

  E nel salotto della contesta Maffei Balzac cominciò quell’opera denigratoria sugli scrittori italiani che doveva ultimare a Venezia in altri cenacoli artistici. La stessa contessa Maffei apprese con dolore che Balzac nel salotto lagunare della marchesa Soranzo aveva definito i «Promessi sposi» un lavoro di «scarso interesse e fiacco d’ordito». E Manzoni era quasi un padre per Clara Maffei! ... Ma Balzac trinciò giudizi anche più scottanti per Massimo d’Azeglio e per Tommaso Grossi, provocando l’indignazione del conte Tullio Dandolo. Messo alle strette, il rodomonte francese dovette alla fine confessare di non avere mai letto nè i lavori del primo nè le opere dell’altro ... Balzac si trovò così moltiplicate le antipatie. Vi fu una vera levata di scudi nella stampa milanese: Angelo Fava nel Vaglio scrisse parole roventi contro di lui; il giornale teatrale La fama, raccogliendo la voce che Balzac fosse venuto nella nostra città per scampare all’arresto, invitava addirittura la polizia a sorvegliare «certi scrittori giramondo che altro non erano se non malviventi della più bell’acqua ...».

  Un certo Mario (sic; lege: Gaspare) Aureggio pubblicò un volumetto in difesa di Balzac; mal gliene incolse perché Antonio Lissoni, ufficiale di cavalleria sotto le bandiere napoleoniche, gli manda un cartello di sfida dopo aver replicato con un altro opuscolo dal titolo: «Difesa dell’onore dalle armi italiane oltraggiate dal signor De Balzac». Aureggio, in un prato della Bicocca, si buscò un colpo di spada memorabile.

  Ma Balzac a tutto ciò non diede soverchia importanza; continuò a visitare gli studi dei pittori e degli scrittori in quell’epoca assai numerosi a Milano, a scrivere, lavorava anche di giorno al lume di due candele accese, a praticare lo spiritismo — fu questa un’accusa elevata con grande entusiasmo, che in quei tempi le scienze occulte erano considerate vere e proprie stregonerie! — valendosi quale «medium» di un lustrascarpe di Porta Orientale... Tra le visite di riguardo volle includere anche quella ad Alessandro Manzoni, dimentico di averlo tanto ferocemente giudicato. Il grande Lisander lo accolse senz’ombra di risentimento, lo inchiodò sul posto con la sua serafica bontà ed apparve a Balzac, come più tardi volle definirlo facendo ampia ammenda dei suoi torti, un «Chateaubriand moltiplicato per tre».

  Gli ultimi tempi della permanenza di Balzac a Milano passarono tra la generale indifferenza. Neppure il salotto della Maffei accolse volentieri quell’omaccione sbuffante e vociante, agguindato come un istrione. No, davvero, neppure Milano era «franciosa» a quei tempi, per grazia di Dio! ...

 

  Diego Valeri, Vitalità dell’opera di Bourget, in Saggi e note di letteratura francese moderna, Firenze, G. C. Sansoni – Editore, 1941 («Biblioteca Sansoniana Critica», IV), pp. 89-99. [1936].

 

  p. 97. Il «dono di visione» e il «dono d’analisi» ch’egli ebbe una volta a distinguere nei suoi più ammirati predecessori, Balzac e Stendhal (Pages de critique et de doctrine - 1912: Taine romancier), erano ben fusi in lui; l’accordo del temperamento immaginativo e dello spirito scientifico-moralistico era in lui naturale.

  Il genio, s’intende, è altra cosa; e gli sbandamenti da una parte o dall’altra d’un Balzac e d’uno Stendhal possono valere molto più dell’equilibrio stabile ch’egli, Bourget, sapeva così agevolmente raggiungere. Ma è certo che, nel limite delle sue forze, egli ha toccato un punto di perfezione.

 

 

  Romanzi, memorie, saggi. Guy Mazeline, “Les Loups”, Paris, Gallimard, 1932, pp. 179-187.

 

  p. 185. Nei Loups c’è, piuttosto, qualcosa di balzacchiano; ma questo qualcosa mi pare precisamente la debolezza di Balzac, ossia la mancanza d’una rigorosa facoltà di scelta, nella grande abbondanza delle cose e delle parole. Invece, la prepotenza creativa, l’irresistibile getto fantastico, che in Balzac riscatta e giustifica quella debolezza, in Mazeline davvero non si sente.

 

 

  Giuseppe Villaroel, Il cruccio di Lucio, «Il Regime fascista», Cremona, Anno XXVII, N. 91, 16 Aprile 1941, p. 3.

 

  Lucio D’Ambra s’attaccava a Balzac. Aveva certi suoi corollari d’arte e pensava che la prontezza e la copia della fantasia e la facilità dell’esporre e la grazia di accedere al vasto pubblico fossero, invece, le migliori doti naturali di un romanziere. Ma Balzac fu un fenomeno eccezionale e Lucio D’Ambra non volle mai vedere l’effetto nocivo della fretta e della superproduzione, anche nei riguardi del grande romanziere francese, la cui opera giace oggi, sotto il peso della sua stessa ipertrofia.



[1] Il Discorso, com’è noto, fu lungamente elaborato dal ‘28 al ‘45; mentre il Balzac stabiliva il piano generale della sua Comédie humaine nel ‘42. [N. d. A.].


Marco Stupazzoni

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