mercoledì 5 dicembre 2018



1924


Edizioni in lingua francese.


 

  Honoré de Balzac, La reine du désert, Treviglio, Tipografia Sociale Editrice, s. d. [1924?] («Collana di letture per ragazzi e giovinetti in italiano e francese diretta da Rosa Errera e Maria Mariani»), pp. 23.

 

  Si tratta della riproduzione (parziale) di Une passion dans le désert: il testo balzachiano è integrato da note in lingua francese.


Traduzioni.

 

  Onorato Balzac, La Casa dei melograni. Il Capolavoro sconosciuto. Gesù Cristo in Fiandria. Traduzione di Adele Fabro, Milano, Casa Editrice Sonzogno, 1924 («Biblioteca Universale», N. 526), pp. 93.

 

 Cfr. 1923.

 

 

  O. Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo, Milano, Casa Editrice Bietti (Stab. Tip. della Casa Editrice Bietti), s. d. [1924?] («Biblioteca réclame», 33), pp. 221.

 

 

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 Questa nuova traduzione (anonima) di Eugénie Grandet, che, in più punti dell’opera, si presenta come lacunosa e di modesta qualità, si fonda sul testo dell’edizione originale del romanzo pubblicato da Béchet nel 1833-34. Esso, infatti, presenta una suddivisione in sei capitoli (più un capitolo conclusivo) che saranno soppressi da Balzac nell’edizione separata del romanzo edita da Charpentier nel 1839.

 

 

  Balzac, Papà Goriot. Romanzo. Traduzione di Ketty Nagel, Milano, Fratelli Treves Editori (Tip. Treves), 1924 («Biblioteca Amena», N. 652), Nono migliaio, pp. 296.

 

  Cfr. 1903; 1912: 1917; 1920.

 

 

  Balzac, Pensieri di Balzac sulla musica, «Musica e Scena. Rivista mensile di Arte e di Teatro», Milano, Anno I, N. 7-8, Luglio-Agosto 1924, pp. 28-29.

 

 

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  Si tratta della traduzione di pensieri e di riflessioni di Balzac sulla musica estratte da Gambara.

 

  – Esiste nella natura una musica eterna.

  — La musica procede dal cervello e non dal cuore. Quando un artista ha la disgrazia d’essere colmo della passione che vuole esprimere, non è più in grado di riprodurla poiché è la cosa stessa invece d'essere l’immagine. Quando il soggetto lo domina, ne è lo schiavo e non il padrone. È simile ad un re assediato dal suo popolo. E il sentire troppo vivamente quando si tratta d’eseguire e l'insurrezione dei sentimenti contro la facoltà.

  – La musica è una lingua mille volte più ricca di quella delle parole e sta al linguaggio come il pensiero sta alla pa­rola; risveglia le sensazioni e le idee secondo la loro stessa forma, là dove in noi nascono e le idee e le sensazioni, ma lasciandole come sono presso ognuno ... Le altre arti impongono allo spirito delle creazioni definite, mentre la musica è infinita nelle sue. Là dove le altre arti chiudono i nostri pensieri, fissandoli su di una cosa determinata, la musica in­vece li scatena sulla natura intiera che essa ha il potere di esprimerci.

  – La natura ha messo in tutte le cose il suono puro e noi io risvegliamo più o meno bene mediante strumenti con i quali componiamo delle masse colorate.

  – La voce del cantore colpisce in noi non tanto il pensiero, non tanto i ricordi della felicità, quanto gli elementi del pen­siero e fa muovere i principi stessi delle nostre sensazioni.

  – Il musico crede che i suoni incontrino in noi una so­stanza analoga a quella che genera i fenomeni della luce e che, in noi, produce le idee. Secondo lui l’uomo ha nel suo interno dei tasti che i suoni colpiscono e che corrispondono ai nostri centri nervosi di dove si dipartono le sensazioni e le idee. Vede nelle arti la collezione dei mezzi con i quali l’uomo può mettere in sè stesso la natura esteriore d’accordo con quella meravigliosa natura che egli chiama la vita in­teriore.

  – Si ottiene l’unità musicale quando una frase capitale viene condotta di tonalità in tonalità, raggruppando le masse e i personaggi su questo motivo con modulazioni e con ca­denze.

  – La lingua musicale dipinge, poiché dipingere è risvegliare con suoni certe memorie nel nostro cuore o certe im­magini nella nostra intelligenza, e queste memorie, queste immagini, hanno il loro colore, sono tristi o gaie ...

  – Ogni strumento ha la sua missione e si rivolge a certe idee come ogni colore risponde in noi a determinati senti­menti.

  – L’oboe ha una natura campestre, gli ottoni una natura guerriera e gli archi la natura più delicata.

  — Tra la musica e l’architettura v’è il più stretto rapporto.

  – Nei loro sforzi grandiosi le arti non sono che l’espres­sione dei grandi spettacoli della natura. Ogni istrumento, avendo per le sue espressioni la durata, il soffio o la mano dell'uomo, è superiore, come linguaggio, al colore che è fisso e alla parola che ha dei limiti. La lingua musicale è infinita, contiene tutto e può esprimere tutto.

  – La musica che preferisco è la musica di tono bruno.

  – Vi sono delle armonie che fanno indietreggiare i limiti della melodia.

  – «Don Giovanni» è al disopra per la sua perfezione, «Roberto il Diavolo» rappresenta delle idee. «Don Gio­vanni» suscita delle sensazioni ed è il solo lavoro in cui me­lodia ed armonia stiano in proporzione esatta.

  – Gluck, prima di scrivere, rifletteva a lungo. Calcolava tutte le probabilità e concretava un piano che poteva esser modificato in seguito dalle ispirazioni del dettaglio ma che gli consentiva di non uscir mai di rotta durante il cammino.

   Nell’opera di Meyerbeer la scienza è grande, ma questa scienza diventa un difetto quando si isola dall’ispirazione, ed io credo d'aver scorto nell’opera di questo artista il penoso lavoro d’uno spirito assai intelligente che ha passato al cri­vello la sua musica in migliaia di motivi d’opera cadute o dimenticate, credendo di appropriarseli col distenderli, mo­dificarli o concentrarli.

  – So benissimo che ogni compositore ha le sue forme par­ticolari alle quali ritorna suo malgrado, ma è essenziale vi­gilare per evitare tale difetto.

  – La melodia è un filo d’oro che non si deve mai rom­pere, neppure nella composizione più vasta. L’armonia re­gna sovrana invece d’essere il fondo su cui si distaccano i gruppi del quadro musicale.

  – È la melodia, e non l’armonia, che ha il potere di at­traversare le età.

  – Avverrà spesso che il compositore non abbia altro scopo che di mostrarsi bizzarro e fantastico; afferrerà allora con premura ogni occasione per produrre un effetto barocco, senza curarsi della verità, dell'unità musicale, nè dell’incapacità delle voci, schiacciate sotto questo scatenamento strumentale. 

  – La forza si riconosce alla semplicità; ed è la sobrietà dei mezzi che rende ancora più stupefacente la fertilità della musica.

  – Quando il principio è più forte del risultato non vi è niente di fatto.

  – A volte, nelle opere d’arte, la perfezione impedisce alle anime di ingrandirle. — Non è forse il processo guadagnato dall’abbozzo contro il quadro finito davanti al tribunale di quelli che completano l’opera col pensiero invece di accettarla come è stata fatta?

  – Beethoven ha fatto indietreggiare i confini della musica strumentale e nessuno l’ha seguito nella sua via.

  – Nella scuola italiana che inerzia di pensiero! che vi­gliaccheria di stile! Quelle forme uguali, quella banalità di cadenze, quelle eterne fioriture gettate a caso, in qualsiasi situazione, quel monotono «crescendo» che Rossini ha messo in voga e che è oggi parte integrante d’ogni composizione, quelle usignuolate, in somma, creano una specie di musica chiacchierina e agghindata e profumata che trae il suo merito dalla maggiore o minore facilità del cantare e dalla legge­rezza dei vocalizzi. La scuola italiana ha perso di vista l’alta missione dell’arte!

  Senza commenti!

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Marginalia. Una compagna di viaggio di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIX, N. 5, 3 Febbraio 1924, pp. 3-4.

 

  Che Onorato di Balzac abbia viaggiato in Italia è noto. Pochi anni or sono Giuseppe Gigli ha pubblicato un libro proprio su questo argomento (Balzac in Italia, Milano, Treves, 1920) di. cui a suo tempo fu reso conto in queste colonne. Ivi si legge come il romanziere francese facesse il suo primo viaggio a Torino nel 1836 e di questa corsa è riferito quanto egli stesso ebbe a scrivere all’amica polacca, la ben nota Madama Hanska. In questa lettera Balzac racconta di essere andato a Torino per occupami di una pendenza ereditaria del suo amico Emilio Guidoboni Visconti passando all’andata per il Moncenisio e al ritorno per il Sempione ed avendo per compagna di viaggio una donna e precisamente la signora Claire Brunne Marbouty, nonché di avere alloggiato nell'«albergo di piazza Castello» che era poi l’Hotel d’Europe d’oggi. Un collaboratore della Stampa [Curio Mortari] sunteggiando da un saggio di Henry Prior testè pubblicato nella «Revue de Paris»[2], dà dei particolari interessanti su questa signora nata e residente a Limoges separata dal marito, petulante ammiratrice del romanziere che piombando dal fondo della sua provincia ella era riuscita a sedurre, come essa stessa si dette la cura di spiegare scrivendo alla madre, a cui confidava di aver potuto «magnetizzare» Balzac mediante le trasparenze di un abito di mussolina. Viaggio tipicamente romantico questo di Balzac a Torino in compagnia della Marbouty che fra altro adottò il vestito mascolino ottenendo successi mondani e suscitando la più straordinaria curiosità nella società torinese. Fu la stessa Marbouty che si preoccupò di lasciare ai posteri notizia di questi particolari che altrimenti sarebbero stati dimenticati. Balzac ebbe a Torino le accoglienze più cordiali e lusinghiere e trionfò nei saloni della più dorata aristocrazia: c’è, a quanto pare, la sua eccentrica compagna [che] sfigurò al suo fianco. Una serata memorabile fu quella del ricevimento in casa della contessa di Saint-Thomas dove erano convenuti, insieme a leggiadre dame, uomini gravi come Silvio Pellico e il conte Sclopis. In questa occasione la Marbouty aveva lasciato l’abito mascolino per mostrarsi in tutto il fulgore della sua eleganza parigina. Nessuno sapeva chi ella fosse e Balzac, famoso mistificatore, fu ben lieto di vedere accendersi intorno alla sua compagna le curiosità più acute e sbizzarrirsi le ipotesi più fantastiche; fra le altre questa: che si trattasse nientemeno che di Giorgio Sand. Nonostante tanta grazia e tanta eleganza la compagna di Balzac deve ammettere con qualche amarezza e dispetto che la nobiltà di Torino si interessava più al romanziere che non a lei. Singolare coincidenza: al ritorno a Parigi, dopo il viaggio che era durato una ventina di giorni, Balzac ebbe una notizia che doveva procurargli uno dei maggiori dolori della sua vita: la morte di quella dolce Madame de Berny, che fu per lui l’incomparabile «Dilecta», l’anima femminile che lo aveva confortato nelle maggiori tempeste e di cui il ricordo non uscì mai dal suo cuore.



  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 35, 9 Febbraio 1924, p. 2.


  Ancora Balzac! Ma queste squisite ricordanze ha evocato Leo Larguier. del «Petit Journal»[1], visitando giorni fa la casa del grande Onorato! Quale casa? Quella che lo scrittore ha abitato nel 1842, in rue Basse, ora via Raynouard. Sono quattro camere vuote, squallide. In una si legge: «Qui dormiva Balzac ... Questa era la sala da pranzo». La custode della casa dà, in proposito, utili, indicazioni. Essa porta (il freddo è grande!) una berretta di lontra, che forse — chi sa — le fu lasciata dalla contessa Hanska, la bella forestiera che Balzac amò. Essa (la custode) mostra, sorridendo, al visitatore un quadro, cioè, una cornice senza quadro, che porta la scritta: «Qui, un Rembrandt». Queste diciture ricordano il modo con cui Balzac soleva ammobiliare i suoi sontuosi appartamenti. Egli indicava sul muro, col carbone: «Là, un rivestimento in marmo di Paro — Qui un soffitto dipinto da Eugenio Delacroix — Là una tappezzeria d’Aubusson — Qui, delle porte tipo Trianon — Più in là, un camino in marmo cipollino ...». Egli aveva evocato dei tesori. Ciò bastava. Per lui, per la sua formidabile fantasia esistevano. Un giorno un amico entrò bruscamente nel suo gabinetto, annunziando; «Madama Marneffe», (La Marneffe della «Cugina Betta»), Balzac lisciò i suoi duri capelli ribelli, compose la sua veste da camera, e disse: «Pregatela d’entrare!». E non mentiva.



  Il sistema di Balzac, «La Festa. Rivista settimanale illustrata della famiglia italiana», Milano, Anno II, N. VIII, 24 Febbraio 1924, p. 25.

  Balzac. non conoscendo affatto la lingua tedesca. durante un suo viaggio in Austria si trovò sovente nell’imbarazzo al momento di pagare certe piccole spese che gli capitava di fare. Ora, il sistema da esso adottato nel pagare il vetturino è veramente curioso e degno del grande psicologo ch’egli era. Giunto al termine della corsa, l’automedonte si presentava per riscuotere il suo onorario e Balzac, cavato di tasca il borsellino, sempre ben fornito di monete spicciole, incominciavo a mette[re] nella mano aperta del vetturino — guardandolo attentamente in viso colla coda dell'occhio — un kreutzer, due kreutzer, tre, quattro, ecc … fino a che non lo vedeva sorridere. Balzac capiva allora che costui aveva ricevuto un kreutzer di più, svelto riprendeva la sua moneta e il vetturino era pagato!

 

 

  Dalle città d’Italia, «Rivista di notizie cinematografiche. Films Pittaluga. Pubblicazione quindicinale», Torino, Anno II, N. 12, 15 Marzo 1924, p. 101.

 

  Cinema Moderno. Venne seguito con grande attenzione il magnifico film, tratto dal romanzo di Balzac, con protagonisti Gustavo Salvini e Paola Pax, «Cesare Biretteau (sic)».

 

 

  Il maestro A. Carloni, «Musica e Scena. Rivista mensile di Arte e di Teatro», Milano, Anno I, N. 4, Aprile 1924, p. 16.

 

  E questo salto il maestro Carloni sta ora facendo, spiegando nell'azzurro dell’arte, arditamente la sua vela bianca, con tre lavori lirici, ognuno dei quali è una espressione progressiva della sua chiara tempra di artista. Étienne è un’opera in tre atti e un epilogo, il cui argomento fu tratto dal romanzo di Balzac: L’enfant maudit. Originariamente il «libretto» — su testo francese — era in due lunghi atti, e già, per l’importanza musicale, la Direzione della «Gaité Lirique» aveva annunziata l’andata in scena dell’opera, quando, per circostanze improvvise, estranee all’arte, la stagione fu troncata, e il maestro Carloni ritornò in Italia.

  Nella quiete serena della sua Pesaro, ei volle dar nuova forma e più concreta a questa sua prima opera, valendosi della collaborazione poetica di Antonio Lega, col quale si strinse sempre in più fervido connubio d’arte.

 

 

  Teatro. Scena italiana, «La Parola. Rassegna mensile di Conferenze e Prolusioni», Torino, Anno XVII, N. 5, Maggio 1924, p. 159.


  Lieto successo ha sorriso in più teatri italiani alla commedia di Federico Nardelli, Eugenia Grandet che ha il suo contenuto nel notissimo romanzo di Balzac.

  Non è la prima volta che i romanzi più famosi dell’autore della Commedia umana hanno invogliati i drammaturghi a tentarne la riduzione in opere teatrali, ma con esito letterariamente poco felice; ricordiamo, ad esempio, il tentativo di un uomo di grande ingegno. Emilio Fabre, di portare sulla scena la personalità caratteristica di César Birotteau. Tutte le creazioni possenti balzate dal genio inesauribile di Balzac, tolte agli ambienti per i quali erano nate, e spinte a forza sotto la luce sfacciata della ribalta, rimpiccioliscono, scemano, diventano poco meno che caricature.

  Dunque, fra tanti scrittori più o meno sconfitti, il Nardelli si può chiamare fortunato, se gli è riuscito di riprodurre con sufficiente fedeltà il carattere di Eugenia Grandet: dolce creatura accarezzata invano dalla grazia e dalla bellezza, e condannata a languire, pur essendo ereditaria di diciassette milioni, in una fredda casa poco dissimile da un chiostro, e vittima inconsapevole e rassegnata della sordida avarizia paterna.

  Ad Eugenia Grandet, si contrappone il carattere del padre Grandet: vero protagonista del romanzo, che per la ingegnosità delle sue losche speculazioni, vince di gran lunga gli avari classici di tutte le letterature antiche e moderne, ed è odioso peggio di Arpagone e di Sylock.

  Il Nardelli si è ingegnato di darcelo con fedeltà scrupolosa, mettendone in rilievo le manie ridicole suggerite dall’avarizia. Forse il diligente autore della commedia avrebbe potuto, in una scena famosa, assurgere ad un’altezza tragica: intendo dire la scena in cui il Grandet inveisce contro Eugenia, la quale ha prestato al cugino Carlo, ardentemente amato da lei, il suo piccolo tesoro di seimila franchi. Ma anche contenuta nei limiti ch’egli stesso si era imposti, l’opera ricostruttrice del Nardelli non manca di effetto drammatico.


 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno 182, N. 144, 24 Maggio 1924, p. 3.

 

 Sainte-Beuve ha definito squisitamente il carattere di particolare penetrazione nell’intimità femminile proprio dell’opera di Balzac, ed è noto che le donne hanno avuto gran parte nel determinare la fama e gli straordinari successi del romanziere. Un collaboratore della «Revue des Deux mondes» passa in rassegna ben documentata le ammiratrici di Balzac dividendole per nazionalità e prendendo naturalmente le mosse dall’incomparabile sorella e dalla «Dilecta» che fu più che sorella, nonchè da quella Madama Hanska che fu troppo amata dal romanziere perché non debba essere ricordata. Il culto di Balzac fondato sopra una popolarità che si può dire senza precedenti si diffuse rapidamente in tutta l’Europa. Un contemporaneo calcolava che egli avesse ricevuto dodicimila lettere di donne e lo stesso romanziere non dissimulava l’ascendente che il suo nome e la sua persona esercitava nel mondo femminile. C’era chi pretendeva il suo nome per arricchire qualche conquista femminile così come in omaggio all’opera sua a Venezia e in Germania si trovarono dei circoli più o meno aristocratici dove uomini e donne si chiamavano coi nomi degli eroi e delle eroine dei suoi romanzi. Balzac potè coltivare direttamente la sua popolarità in Italia dove fu più volte, ma poiché vi ebbe aspre parole contro i nostri autori si trovò fatto segno agli attacchi della stampa. Ciò che non impedì alla contessa Maffei di riceverlo nel suo famoso salotto mettendosi in ginocchio davanti a lui e lanciandogli l’apostrofe: «Io adoro il genio».

 

 

  Marginalia. Dalle ammiratrici agli specialisti di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIX, N. 21, 25 Maggio 1924, p. 4.

 

  Sainte-Beuve ha definito squisitamente il carattere di particolare penetrazione nell’intimità femminile proprio dell’opera di Balzac, ed è noto che le donne hanno avuto gran parte nel determinare la fama e gli straordinari successi del romanziere. Un collaboratore della Revue des Deux mondes passa in rassegna ben documentata le ammiratrici di Balzac dividendole per nazionalità e prendendo naturalmente le mosse dall’incomparabile sorella e dalla Dilecta che fu più che sorella, e da quella Madame Hanska che fu troppo amata dal romanziere, perché non debba essere ricordata.[3] Il culto di Balzac fondato sopra una popolarità che si può dire senza precedenti si diffuse rapidamente in tutta l’Europa. Un contemporaneo calcolava che egli avesse ricevuto dodicimila lettere di donne e lo stesso romanziere non dissimulava l’ascendente che il suo nome e la sua persona esercitavano nel mondo femminile. C’era chi prendeva il suo nome per arrischiare qualche conquista: così come in omaggio all’opera sua a Venezia e in Germania si trovavano dei circoli più o meno aristocratici dove uomini e donne si chiamavano coi nomi degli eroi e delle eroine dei suoi romanzi. Balzac potè coltivare direttamente la sua popolarità in Italia dove fu più volte, ma poiché vi ebbe aspre parole contro i nostri autori si trovò fatto segno agli attacchi della stampa. Ciò che non impedì alla contessa Maffei di riceverlo nel suo famoso salotto mettendosi in ginocchio davanti a lui e lanciandogli l’apostrofe: «Io adoro il genio». Non minore adorazione egli ebbe in Austria dove per meglio intonarsi all’alta nobiltà che lo ricercava e lo accarezzava egli non dubitò di inalberare talvolta un blasone di marchese che non gli spettava affatto. Lo stesso in Germania, in Ungheria, in Polonia ed anche in Russia dove pure parecchi dei suoi romanzi erano proibiti e dove la sua popolarità veramente straordinaria è attestata da curiosi aneddoti. L’elenco delle ammiratrici per nazionalità si chiude con le donne inglesi e belghe. Fra queste, figura quella contessa di Bocarmé che inventava sempre nuove forme di omaggio al suo Dio. E’ lei la donatrice di quel famoso bicchiere in vetro di Boemia istoriato a gloria del romanziere che ne fece poco conto, mentre oggi è ritenuto un pezzo di prim’ordine. Il Belgio ha dato agli specialisti di Balzac il visconte di Lovenjoul famoso collezionista di autografi che, dopo la morte di Madame Hanska, raccolse la maggior parte dei manoscritti del romanziere mettendo insieme quella collezione unica nel suo genere che fu poi lasciata da lui all’Istituto di Francia. Ed egli fu anche l’autore di quella «Storia delle Opere di Balzac» che è un libro fondamentale a cui bisogna sempre ricorrere; non meno che a quello curiosissimo, dovuto alla collaborazione di due autori e che s’intitola il «Repertorio della commedia umana» dove personaggi reali come Napoleone e Talleyrand hanno la loro biografia balzacchiana insieme con i personaggi immaginari. Fra i letterati celebri o illustri che si votarono al culto di Balzac vanno ricordati Théophile Gauthier (sic), Lamartine, Victor Hugo e quel Barbey d’Aurevilly che in una dedica di uno dei suoi libri a Madame Hanska non si perirò di affermare che Balzac era stato il sovrano degli scrittori del secolo XIX, «il nostro Imperatore». A Ippolito Taine va riconosciuto il merito di avere per il primo studiato la filosofia e la morale che si contengono nell’opera di Balzac, così come a Brunetière quello di avere definito il carattere del nuovo tipo di romanzo fissato nell’opera di Balzac. Dei contemporanei non si può dimenticare lo studio di Bellessort su «Balzac e la sua opera». Singolare che con una popolarità mondiale e con un culto che trova sempre più fervidi adepti, la casa di Balzac a Parigi, la sola che resti in piedi fra quelle che egli abitò, sia minacciata da una distruzione da cui non si crede che la «Società Onorato Balzac» possa riuscire a preservarla.

 

 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 49, N. 143, 15 Giugno 1924, p. 3.

 

  L’Accademia di medicina francese si occupa del problema dei mezzi pazzi, usciti dai manicomi o non ancora entrativi, che danno alla delinquenza un grande contributo: si vorrebbe censirli medicalmente per poterli sorvegliare. Ma come distinguerli? Qualche decennio fa, a quanto raccontava il celebre alienista Blancher e riferisce Excelsior, un dottore in visita a Parigi presso un collega alienista espresse all’amico il desiderio di mangiare con un pazzo. Il giorno seguente, i due medici erano a tavola con altri due convitati, uno vestito di nero, calvo, corretto, con occhiali d’oro a stanghetta e modi irreprensibili, di poche parole; l'altro dai capelli scomposti, l’abito sbottonato, la cravatta sciupata: costui mangiava insaziabilmente ed insaziabilmente parlava, raccontando le storie più strampalate e mescolando senz’ordine l’antichità e l’attualità. Alla fine del pasto, il medico di provincia, facendo cenno a quel ciarliero sconclusionato, disse all’anfitrione:

  «Grazie: il vostro pazzo mi ha molto divertito!». «Come! il pazzo è quello che non ha quasi aperto bocca!». «E quell’altro?». «E’ Onorato Balzac!». Al quale, un giorno, saltò in testa di far mangiare a tutto il popolo gli ananassi e dichiarò che si sarebbe consacrato a tale coltivazione. «Voglio subito affittare una bottega per la vendita: voglio costruire delle enormi serre per la produzione». Gli fu obbiettato da un amico che occorrevano tre anni per la coltura e intanto la bottega ... «Tu vedi sempre difficoltà — rispose impazientito Balzac. — E’ impossibile che io non trovi modo di produrli subito il primo anno!».

 

 

  Fra giornali e riviste, «Corriere d’Italia», Roma, Anno XIX, N. 149, 24 Giugno 1924, p. 3.

 

  Le società protettrici degli animali che fioriscono in Inghilterra, non sanno più cosa inventare per la delizia dei loro protetti. […] Oggi, annuncia «Zoo News», si stanno preparando gli spettacoli cinematografici le cui rappresentazioni sono riservate ai più intelligenti fra i nostri amici inferiori: i cani. I films, naturalmente produrranno spettacoli adatti ad allietare questo nuovo genere di spettatori, e specialmente le caccie. Ma anche in ciò si è avuto il precursore e questi fu nientemeno che un grande romanziere in erba: Balzac bambino. Si narra che in casa Balzac vi fosse un grosso cane da guardia chiamato Mosca, compagno di giuochi del piccolo Onorato. Una sera la nonna per divertire il piccino fece portare in casa una lanterna magica; mentre si stava per iniziare lo spettacolo il piccolo Balzac interrompe autoritariamente: «Aspettate!». Uscì e tornò poco dopo accompagnato dal fido cane che fece sedere davanti allo schermo della lanterna magica, con questo ragionamento: «Siedi qua, Mosca, e guarda bene. Divertiti, che non costerà niente; paga la nonna».



  La Duchessa di Langeais. Protagonista Norma Talmadge, «Bollettino di informazioni su films Cinematografiche pronte per la Programmazione», Torino, N. 1, Luglio 1924, pp. 8-9.

 

  Edizione First National – Direzione artistica di Frank Lloyd – Soggetto tratto dal celebre romanzo di Honorato (sic) Balzac – Parti 4 – Interpretazione di grande stile.

 Azione di fondo storico inscenata con fine scrupolosità e dignità d’arte, del tempo degli ultimi Re di Francia. I forti contrasti di passioni che si agitano in questo film si snodano nell’ambiente dell’alta nobiltà e perfino a contatto con la stessa Corte. Il campo d’azione richiede una superba cornice di lusso e di eleganza. Pittura della vita e dei costumi del tempo nello sfoggio della più lussuosa mondanità e frivolezza propria dell’epoca. […].

 

 

  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 180, 29 Luglio 1924, p. 3.

 

  Un contemporaneo di Balzac calcolava che egli avesse ricevuto 12.000 lettere di donne e lo stesso romanziere non dissimulava l’ascendente che il suo nome e la sua persona esercitavano nel mondo femminile. V’era chi prendeva il suo nome, per arrischiare qualche conquista femminile, così come in omaggio all’opera sua a Venezia e in Germania si trovarono dei circoli più o meno aristocratici dove uomini e donne si chiamavano coi nomi degli eroi e delle eroine dei suoi romanzi. Balzac potè coltivare direttamente la sua popolarità in Italia dove fu più volte. Sainte-Beuve ha definito squisitamente il carattere di particolare penetrazione nella intimità femminile proprio dell’opera di Balzac. Ed è noto che le donne hanno avuto gran parte nel determinare la fama e gli straordinari successi del romanziere. Un collaboratore della Revue des Deux mondes [Marcel Bouteron] passa in rassegna ben documentata le ammiratrici di Balzac dividendole per nazionalità e prendendo naturalmente le mosse dall’incomparabile sorella e dalla «Dilecta» che fu più che sorella, nonché da Madama Hanska che fu troppo amata dal romanziere perché non debba essere ricordata. Il culto di Balzac fondato sopra una popolarità che si può dire senza precedenti, si diffuse rapidamente in tutta l’Europa.



 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno 182, N. 215, 3 Agosto 1924, p. 3.

 

 Cfr. scheda precedente.

 

 

  Marginalia. Alcune date nella vita e nell’opera di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIX, N. 36, 7 Settembre 1924, p. 3.

 

  È un argomento assolutamente inesauribile questo dell'operosità di Onorato di Balzac, il quale dopo esordi penosi e tentennamenti ben noti, quando era poco più che ventenne si considerava quasi un uomo finito: tanto da scrivere all’amata sorella Laura: «che sfacelo dei miei progetti di gloria!». Le sconfitte e le delusioni si succedono e poiché la letteratura non gli riesce, dal 1825 Balzac si butta negli affari, facendosi editore ed anche stampatore ed anche fonditore di caratteri. Lo scrittore a ventinove anni, dopo circa un decennio di continuata attività aveva messo da parte soltanto centomila franchi di debiti! Proprio allora e soltanto allora, nella pace di un nuovo rifugio, vede la luce il primo saggio degno del suo genio: Les Chouans. Come riferiscono Les Annales,[4] Andrea Bellessort noto studioso del romanziere, calcola che la produzione di Balzac nei soli quattro anni che corrono dal 1829 al 1833 annoveri una quindicina di volumi. E quali volumi! Romanzi come Peau de Chagrin, Louis Lambert, Le Médecin de Campagne e Eugénie Grandet: il libro sulla «Fisiologia del Matrimonio», più di una ventina di Contes drolatiques, almeno una trentina di novelle, gli abbozzi di altri romanzi famosi, studî, appendici, fantasie. E fu precisamente nel 1833 che Balzac ebbe l'idea di costituire con le figure della sua immaginazione una vera società, riflesso della vita contemporanea. Allora alla stessa sorella egli confidava invece che gli sconforti la fiducia illimitata nelle proprie forze: «Saluta in me chi sta per diventare un genio!». Il lavoro immane del romanziere continua per più di quindici anni e dal 1838 si arricchisce dell’attività teatrale che però non ha mai un seguito deciso nell'opera di Balzac. Si pensi che lo stesso Mercadet, il suo capolavoro, fu rappresentato soltanto dopo la sua morte. A proposito di questa vita e di questa attività eccezionale è interessante ricordare che il primo accenno dei rapporti di Balzac con la famosa Madame Hanska che doveva avere tanto influsso sul romanziere è del febbraio del 1832 e consiste in una lettera firmata «La straniera», nella quale scrivendogli da Odessa Madame Hanska dichiarava che egli non l’avrebbe mai conosciuta. Invece diciotto mesi dopo, Balzac era chiamato da lei a Neuchâtel dove rimasero insieme cinque giorni che decisero del loro destino, perché fu stabilito il matrimonio che si sarebbe dovuto effettuare quando per la morte del marito, il conte Hanski, vecchio e malazzato, la donna fosse stata libera. Questo evento che si supponeva prossimo, non si avverò che nel 1841. La scomparsa di colui che costituiva il solo ostacolo alla sua felicità dette a Balzac una tale emozione che egli «restò come inebetito per ventiquattro ore chiuso nella sua stanza da studio senza comunicare con alcuno». Eppure dopo i lontani giorni di quelle promesse reciproche egli aveva rivisto una sola volta, a Vienna, Madame Hanska. È vero però che quella lontananza era stata in certo modo annullata dalla meravigliosa corrispondenza, di recente pubblicazione. Balzac rivide Madame Hanska soltanto nel 1843 quando ella era vedova da un anno e mezzo, ma non è arrischiato supporre che il sentimento di lei col passar degli anni si fosse assai attenuato: certo ella non dimostrava nessuna fretta di rimaritarsi. E quando il matrimonio fu compiuto, pochi mesi prima della morte del romanziere, che ormai da tempo era affetto da una malattia di cuore, esso parve determinato più che altro dalla pietà.



 Spettacoli d’Oggi. Cinema Teatro Eden, «La Patria del Friuli», Udine, Anno XLII, N. 220, 13 Settembre 1924, p. 2.

 

 Ieri sera le première del Capolavoro di Honorato (sic) de Balzac «Commedia umana» (Eugenia Grandet) non poteva avere un esito più felice. Pubblico delle grandi occasioni, entusiasta nell’ammirazione del per la soavità degli interpreti Alice Terry, Valentino Rodolfo, Edoardo Lencis nostre vecchie e simpatiche conoscenze nel film «I quattro Cavalieri dell’Apocalisse» [...].

 L’orchestra commentò con scelta musica la bellissima pagina del grande dramma dell’Avarizia.

 Oggi dalle ore 17 e domani dalle ore 14 si replica.

 

 

  Marginalia. Un amico di Balzac dimenticato, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIX, N. 37, 14 Settembre 1924, p. 3.

 

  È Pierre-Charles-Marie du Grail, nato a Besançon il 25 febbraio 1804; ma egli è più conosciuto col cognome de Bernard, vecchio nome patronimico di famiglia che il padre del nostro personaggio ottenne con sentenza del tribunale di Besançon nel 1816. Il giovinetto formò la sua prima educazione nel collegio dalla città natale, ma più specialmente nella bottega del libraio Bintot dove era conosciuto per un divoratore di libri. Una gentildonna, M.me de Boussières, ispirò i suoi primi saggi di poesia. Nel 1829 godeva già larga reputazione di poeta avendo riportato un premio ai giuochi floreali di Tolosa. Di lì a poco, nel 1831, in un viaggio a Parigi conobbe Balzac, ma una vera amicizia tra i due può dirsi cominciata solo alcuni anni più tardi quando, quando, essendo il de Bernard ritornato in patria dal suo fugace soggiorno parigino, ricevette la visita del grande romanziere che era capitato per caso a Besançon. Al maestro fu offerto un pranzo al restaurant Migon, e fu qui che ai convitati l’ospite tenne una brillanto lezione sull'arte del romanziere. A Charles de Bernard egli consigliò di andare a Parigi, ma non più con un bagaglio di poesie, come la prima volta, bensì con una buona raccolta di novelle. Ed avrebbe anche aggiunto questo ammonimento: «La carriera letteraria è piena di scogli per i principianti e gli sconosciuti; ma io m’incarico di appianarvi la via. Non esitate, dunque, e preparate le vostro valigie». Il consiglio fu seguito e Charles de Bernard andò a stabilirsi a Parigi, definitivamente questa volta. Nel 1835, con l'appoggio di Balzac, potè entrare nella redazione de la «Cronique (sic) de Paris»; quindi fu assiduo collaboratore della «Revue de Paris», del «Journal des Débats» e della «Revue de Deux Mondes» che pubblicarono i suoi romanzi, Con grande versatilità, dette anche articoli di politica e di storia alla rivista «France et Europe». Nel 1845, passata ormai la quarantina, sposò la figlia di un capitano di artiglieria, dalla quale ebbe due figli. Ma era ormai alla fine della breve sua vita: egli moriva il 6 marzo 1850 precedendo di poco nella tomba il suo grande amico Balzac. Principale fra le sue opere è il «Noeud gordien» che contiene parecchie novelle di cui si ebbero molte edizioni dopo la sua morte; e dopo morto, fu conosciuto il suo nome anche sulle scene, perché nel 1866, il teatro del Vaudeville rappresentò «Gerfaut», un'azione drammatica che Émile Moreau, il futuro autore con Sardou, di «Madame Sans-Gêne» derivò da un romanzo di Charles de Bernard. Del resto, il nome di quest'ultimo cadde presto in un oblio immeritato. Fece rivivere le sue memorie, trent’anni dopo la morte, il generale de Piépape, membro dell'Accademia di Besançon, che pensò di «scoprire» Charles de Bernard, e di farlo conoscere ai suoi concittadini. Questa memoria, nutrita di lunghe ricerche, che fu letta quarant’anni or sono in una seduta pubblica dell'Accademia, è stata la fonte precipua di Louis Hosotte che oggi, nella Revue Hebdomadaire,[5] ha voluto rinverdire ancora una volta il nome di questo quasi ignorato amico di Balzac. Il critico recente accetta, salvo poche riserve, i giudizi del vecchio accademico di Besançon: il quale era, a sua volta, in buona compagnia, perché Sainte-Beuve nel 1838 non aveva risparmiato i suoi elogi al giovane romanziere.



 Spettacoli d’Oggi. Cinema Teatro Eden, «La patria del Friuli», Udine, Anno XLII, N. 220, 13 Settembre 1924, p. 2.

 

 Ieri sera le première del Capolavoro di Honorato (sic) de Balzac «Commedia umana» (Eugenia Grandet) non poteva avere un esito più felice. Pubblico delle grandi occasioni, entusiasta nell’ammirazione del per la soavità degli interpreti Alice Terry, Valentino Rodolfo, Edoardo Lencis nostre vecchie e simpatiche conoscenze nel film «I quattro Cavalieri dell’Apocalisse» [...].

 L’orchestra commentò con scelta musica la bellissima pagina del grande dramma dell’Avarizia.

 Oggi dalle ore 17 e domani dalle ore 14 si replica.

 

 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 49, N. 234, 30 Settembre 1924, p. 3.

 

  Quando Balzac aveva ideato il soggetto di un romanzo ne tracciava su pochi foglietti l’informe schema e li consegnava allo stampatore. Poi, sulle prime bozze di quel suo scritto succinto incominciava ad ammassare per lungo e per largo una tal quantità di modificazioni e di aggiunte, specialmente di aggiunte, da far dannare il più esperto e paziente dei compositori. Le bozze gli ritornavano dieci quindici volte, ampliate e corrette, e sempre le restituiva, infarcite di varianti e di aggiunte, tanto che. della prima traccia non restava mai parola. Egli terrorizzò talmente gli operai compositori che essi, nei loro contratti di lavoro, vollero inserita la clausola di non dover mai fare più di un'ora al giorno di «Balzac». Pure all’arte tipografica, alla quale dava tanti dispiaceri, l’immortale autore della «Comédie humaine» si sentiva particolarmente inclinato giacché, fra le molte e svariate imprese extra letterarie cui si diede, ci fu quella dello stampatore, anch’essa però, come lo altre, miseramente redditizia. Uno dei lati caratteristici tuttavia di questa sua attività — ricorda Il Risorgimento grafico — fu l’intuizione che Balzac ebbe fin d'allora della pubblicità e di tutto il vantaggio che se ne poteva ritrarre, ma il romanziere arrivò troppo presto: a quei tempi la pubblicità non era, come oggi si dice, l’anima del commercio, e i profitti non furono quali egli sperava. In ogni modo ne fece lo scopo quasi principale della sua industria ed esiste ancora oggi una raccolta di edizioni uscite dalla stamperia Balzac nelle quali erano intercalati fogli volanti nei quali si vantavano rimedi, si celebravano nuovi prodotti di specialità farmaceutiche.

  E il modo con cui erano presentati lasciano la persuasione che se fosse vissuto oggi, Balzac sarebbe stato, anche, un ottimo produttore di pubblicità.

 

 

  Marginalia. Balzac e la musica, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIX, N. 43, 26 Ottobre 1924, p. 3.

 

  La passione musicale di Balzac è tutta espressa in una lettera alla «straniera» che è del 1834: «Mi sono sprofondato nella musica. Ho preso un posto in un palco dell'Opera e vado a passarci due ore ogni due giorni. La musica rappresenta per me il ricordo. Ascoltare della musica equivale ad amare meglio ciò che si ama. a pensare voluttuosamente alle proprie voluttà segrete, a vivere davanti agli occhi di cui si ama lo splendore, ad ascoltare la voce amata. Così il lunedì il mercoledì e il venerdì dalle sette e mezza alle dieci io amo deliziosamente. Il mio pensiero viaggia». E già tredici anni prima nei disagi dei primi infelici tentativi letterari Balzac si consola con un pianoforte che ha fatto issare nella sua soffitta parigina. Camille Bellaigue, che nella Revue des Deux Mondes (1° ottobre 1924)[6] intende di definire questo aspetto della personalità di Balzac; osserva che due romanzi di lui «Gambara» e «Massimilla Doni» sono quelli nei quali più si discorre di musica, sebbene gli accenni significativi non manchino anche in altri. Per il primo di questi due romanzi Balzac stesso scrive di essere stato obbligato ad approfondire i suoi studi sulla musica sotto la guida di un tedesco, al quale poi «Massimilla Doni» doveva essere dedicata. Questo romanzo fu scritto, si può dire, in gloria del «Mosè» di Rossini, l’opera «più immensa creata dal più bel genio d’Italia». La stessa protagonista del romanzo si incarica, durante una rappresentazione dell'opera al teatro della Fenice, di tesserne l'apologia a un francese che è lontano dal partecipare al suo entusiasmo. L’articolista osserva che alcuni di questi giudizi musicali espressi da Balzac per interposta persona sono da accogliersi con tutte le riserve: anzi questa frase gli pare addirittura una bestemmia: «Vecchi maestri tedeschi Haendel, Sebastiano Bach e tu stesso Beethoven in ginocchio! Ecco la regina delle arti, ecco l’Italia trionfante!» Già in «Gambara» che precede di due anni «Massimilla Doni» Balzac aveva dato al romanzo un protagonista che è una specie di maniaco della musica: un allucinato che alle melodie e alle armonie create dalla sua fantasia dà un valore del tutto diverso da quello che debbono attribuir loro gli ascoltatori, i quali trovano il caos cacofonico dove il compositore sogna accenti sublimi e incomparabili trame musicali. In questo romanzo si fa l’apologia di «Roberto il Diavolo» di Meyerber: ed anche di Beethoven che viene esaltato mediante un imprevedibile paragone con Walter Scott. A proposito di Beethoven, nell’anno stesso in cui pubblicò «Gambara» Balzac scriveva a Madame Hànska: «... Beethoven è il solo uomo che mi faccia conoscere la gelosia. Avrei voluto essere Beethoven piuttosto che Rossini o Mozart. C è in quest'uomo una potenza divina». Ma più che in questi giudizi particolari e nello sfoggio di cognizioni tecniche del resto assai limitate, la penetrazione musicale di Balzac si rivela in accenni di definizione dove la spiritualità tutta propria dei suoni è precisata efficacemente: sia che egli insista sulla differenza che passa fra la musica e le arti figurative e la poesia: «... ognuno di noi interpreta la musica in rapporto al proprio dolore o alla propria gioia, alle proprie speranze o alla propria disperazione: sia che affermi: «la musica esiste indipendente dall’esecuzione». Osservazione profonda fatta nel romanzo da un direttore d'orchestra sordo. Ed è pure di Balzac questa frase in lode di una melodia: «il canto entrava nell'anima come un'altra anima». Secondo l’articolista è questa la più singolare parola di Balzac musicista e uno dei maggiori omaggi che sieno stati resi all’idealismo trascendentale della musica. Si potrebbe anche riavvicinare all’iscrizione che Mazzini proponeva di collocare in un alture dedicato alla musica: «Numini ignoto».

 

 

  Marginalia. Un editore stampatore eccezionale, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIX, N. 44, 2 Novembre 1924, p. 3.

 

  È Balzac, di cui tutti sanno le difficoltà e le amarezze prima di conquistare un nome nella letteratura. Prima della gloria letteraria corse dietro ad un altro miraggio: la notorietà e la ricchezza. Accortosi che non poteva realizzare rapidamente né questa né quella, si diede a speculazioni finanziarie e industriali le più strane, le più inadatte al suo temperamento e abbandonò l’arte alla quale doveva poi tornare con rinnovato fervore. Tra le molteplici attività di questo periodo! L. Sbragia ricorda nel Risorgimento Grafico la partecipazione del Balzac ad una società che aveva in esercizio una stamperia in via Marais Saint Germain. La società però si disciolse quasi subito ed egli rilevò la stamperia. Fu detto che prendesse tale determinazione per venire in aiuto di un operaio stampatore, tale Barbier, che associò alla sua disgraziata impresa. Ma il Balzac, sia per il suo temperamento, sia perché ossessionato dallo stimolo di assicurarsi una rapida fortuna, non poteva pensare a fare il filantropo; e l'articolista ritiene che egli si associasse il Barbier per avere vicino chi potesse essergli largo di consigli nella non facile prova che tentava. In verità il Balzac nella stamperia fu tutto: proprietario, editore e compositore. Ebbe anche l’intuizione geniale della pubblicità e di tutto il vantaggio che se ne poteva ritrarre, ma egli arrivava troppo presto: a quei tempi la pubblicità non era, come si suole chiamare oggi, «l'anima del commercio» e i profitti non furono quali egli sperava. Così la tentata speculazione finì col fallimento; il Balzac fu costretto a vendere a basso prezzo tutto il suo materiale. Alla sua vita di stampatore egli alluse poi nei suoi scritti: la storia della stamperia di Séchard nelle «Illusions perdues» è quella della sua stamperia; il fallimento di César in «César Birotteau» è il suo fallimento. Insomma nella «Comédie humaine» vi sono ripetuti accenni a questa sua disgraziata speculazione. Dopo, non contento delle delusioni provate, tentò subito un'altra impresa. improvvisandosi fonditore ili caratteri; ma di questa sua nuova industria, che ebbe, anch'essa, vita brevissima, si hanno poche ed incerte notizie.

 

 

  Norma Talmadge, «al Cinema», Torino, Anno 3°, N. 45, 16 Novembre 1924, pp. 3-6.

 

  p. 6. Il posto d’onore nella presentazione delle produzioni di Norma Talmadge in Italia spetterà alla «Duchessa di Langeais» (The Eternal Flame). È questo un lavoro tratto dal noto romanzo di Onorato Balzac, ridotto per lo schermo da Frances Marion, e messo in scena da Frank Lloyd sotto la sovrintendenza di Joseph M. Schenck. […].

  La «Duchessa di Langeais», che è un lavoro artistico di altissimo valore in cui l’espressività drammatica di Norma Talmadge emerge in tutta la sua grande potenza, verrà programmato in questo inizio di stagione nei primari locali gestiti dalla Società Anonima Stefano Pittaluga.



  [Citazioni tratte, per la maggior parte da La Peau de chagrin e dal Médecin de campagne], «L’Assalto. Organo della Federazione Provinciale Fascista Umbra», Perugia, Anno IV, N. 273, 25-26 Novembre 1924, p. 1.

 

  Il dispotismo compie illegalmente grandi cose; ma la libertà non si degna neppure di farne delle piccole.

  Quante imbecillità umane, nel boccale che porta l’etichetta LIBERTÀ!

  Chi dice potere dice forza; la forza deve riposare su cose indiscutibili. Chi vota discute; e le cose discusse non esistono.

  La legalità costituzionale e amministrativa non partorisce nulla. È un mostro infecondo per i poli, per i re e per gl’interessi privati. Essa appiattisce una nazione, ecco tutto.

  L’elezione estesa a tutti, ci dà il governo delle masse, il solo che non sia responsabile e nel quale la tirannide non ha limiti, PERCHÉ SI CHIAMA LA LEGGE.

  La libertà no; la libertà sì, ma definite, caratterizzate, cioè ristrette.

 

 

  Cronaca Cittadina. I divertimenti, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 288, 2 Dicembre 1924, p. 6.

 

  Intanto viene preannunciata “La Duchessa di Langeais” magnifica vicenda d’amore tolta da una novella di Balzac. E’ la storia di una bellissima donna, civetta fino all’inverosimile e atrocemente punita da un suo corteggiatore. Norma Taldmage si rivelerà al pubblico torinese quale protagonista di questa eccezionale film, messa in scena con grande lusso e storicamente ambientata in modo insuperabile.

 

 

  Cronaca Cittadina. I divertimenti, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 289, 3 Dicembre 1924, p. 6.

 

  La impressionante novella di Balzac è stata messa in scena con grande fedeltà storica e un lusso eccezionale. Norma Talmadge, la protagonista, che impersona una raffinatissima civetta, è di una efficacia straordinaria.

 

 

  Cronaca Cittadina. I divertimenti. Domani al “Ghersi”. “La Duchessa di Langeais” con Norma Talmadge, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 290, 4 Dicembre 1924, p. 5.

 

  L’originalissima novella di Balzac (storia di una civetteria femminile raffinatissima, audacemente continuata fino all’orlo della tragedia) è stata sceneggiata stupendamente dalla First National. E’ un grande lavoro che illustra l'epoca languida e fastosa di Luigi XVIII in Francia e che è saturo di passione dalla prima all’ultima battuta. Norma Talmadge si rivelerà ai torinesi in una delle sue più splendide interpretazioni.

 

 

  Cronaca Cittadina. I divertimenti. “La Duchessa di Langeais” con Norma Talmadge al Salone Ghersi, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 291, 5 Dicembre 1924, p. 6.

 

  Andrà in programma oggi, in questo aristocratico locale, un altro lavoro di gran fama. Norma. Talmadge, — la protagonista — è sorella a Richard Talmadge (Bambù) e tutta la famiglia e una famosa famiglia di artisti. Norma Talmadge è di una rara finezza interpretativa, a passaggi delicati e suggestivi.

 

ONORATO DI BALZAC

 

  è l’autore dell'originale romanzo di una bellissima e virtuosa donna, che rovinò un suo grande amore con un eccesso di civetteria morbosa portata fino al parossismo. Un giovane generale, irretito dalla bella, fa le spese dei pettegolezzi da salotto, fin che si accorge di essere stato burlato e condanna l’imprudente dama a un castigo tremendo. Le più belle, le più profonde pagine balzachiane di psicologia femminile, sono rivissute in azione nella magnifica film sceneggiata con grande ricchezza e fedeltà storica dalla First National.

 

 

  Cronaca Cittadina. I divertimenti, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 293, 7 Dicembre 1924, p. 6.

 

  Una film d’arte originalissima si rappresenta al “Salone Ghersi” con un successo di vaste proporzioni. Di replica in replica il capolavoro “La Duchessa di Langeais” conquista gli spettatori, che si sentono trascinati in una insolita atmosfera, che sono presi dal fascino sottile dell’arte di Balzac, realizzata mirabilmente in cinematografia dalla grande Casa americana First National. […].

 

 

  Cronaca Cittadina. I divertimenti, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 294, 8 Dicembre 1924, p. 3.

 

  Esauritissimo fu ieri il Salone Ghersi per “La Duchessa di Langeais” […], tratto da una delle più romanzesche storie di Onorato di Balzac. […].

 

 

  Norma Talmadge, «al Cinema», Torino, Anno 3°, N. 52, 28 Dicembre 1924, p. 6.

 

  L’arte di Norma Talmadge manifesta in tutta la sua potenza interpretativa ed espressiva ne «La Duchessa di Langeais» proiettatasi recentemente a Torino, Genova, Firenze, Roma nei cinema Ghersi, Orfeo Gambrinus e Imperiale.

  Questo film, allestito dalla «First National» con degna grandiosità, con aristocratica eleganza, ha per argomento una novella di Onorato Balzac, nella quale è descritto mirabilmente un carattere di donna e un contrasto passionale di intensa drammaticità passionale. […].

  Norma Talmadge ha impersonato la Duchessa di Langeais, rivelandone tutto l’animo, nelle più intime sfumature dei suoi sentimenti e della sua passione, in una gradazione mirabile di misura e di irresistibile efficacia, e traducendo la finzione scenica in totale rappresentazione di vita.

 

 

  Marginalia. Dostoiewski e Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXIX, N. 50, 14 Dicembre 1924, p. 3.

 

  La maggior tutte dei critici odierni, che filialmente hanno sentito la necessità di dare dovuta importanza all’opera del Dostoiewski, non ha tralasciato di notare l’influenza che ebbe Balzac nella formazione dello scrittore russo. Questi, assai giovane ancora, si appassionava alla lettura del romanziere francese, le cui opere occupavano il posto d’onore nella sua biblioteca. Data questa simpatia letteraria, non c’è da meravigliarsi che il primo lavoro stampato col nome di Dostoiewski sia una traduzione dell’«Eugénie Grandet». Il critico Grossmann ha detto che Balzac fu per il Dostoiewski quello che Virgilio era stato per Dante: il suo maestro e il suo autore; ma altri capitoli sono da aggiungere alla storia delle relazioni tra lo scrittore d’occidente e quello orientale. J. W. Bienstock[7] afferma nel Mercure de France che l’entusiasmo del Dostoiewski per Balzac ebbe a manifestarsi soprattutto in occasione del viaggio che quest’ultimo fece a Pietroburgo nel luglio del 1843, quando era ormai all’apogeo della fama. Era stato scritto che «una speculazione letteraria era nei fini di quel viaggio»; ma l’articolista respinge questa supposizione citando uno scritto del giovane critico russo. M. Lountz, il quale recentemente, nel giornale «Zveno», racconta il vero movente di quei viaggi. Balzac aveva riveduto a Vienna, nel 1835. madame Hanska che, divenuta indifferente, cercava di sfuggirlo con tutti i pretesti. Questa situazione durò fino al 1841 quando la donna perdette il marito e il romanziere francese cominciò ad esigere che fosse mantenuta la promessa di matrimonio. Per questo, per conseguire l'adempimento della promessa. il Balzac si sarebbe recato nel 1843 a Pietroburgo, dove madame Hanska dimorava. Ad ogni modo, qualunque sia stata la causa di questo soggiorno in Russia che si protrasse tre mesi, è innegabile che molto se ne avvantaggiò la fama dello scrittore, fatto segno a grandi accoglienze, negli ambienti culturali di Pietroburgo. I giornali e le riviste del tempo gareggiarono nel pubblicare traduzioni e critiche delle sue opere. Si giunse a proclamarlo «il più penetrante analizzatore del cuore umano», «il primo prosatore dell'epoca» e perfino lo scrittore più notevole dell’universo». Onesta accoglienza entusiastica non poteva che aumentare l’ammirazione del Dostoiewski, che già si era votato al culto dell’arte balzacchiana, ed incitarlo a condurre a fine la traduzione dell’«Eugénie Grandet». Quando poi egli giunse a dirigere col fratello Michele la rivista «Vrèmia», nella parte critica fu largamente analizzata l’opera del Balzac con articoli non del solo Dostoiewski, ma anche del Grigoriev che pubblicò uno studio notevole sulla «Commedia umana».



  Varia. La durata della vita umana, «Il Policlinico. Sezione pratica», Roma, Anno XXXI, Fasc. 51, 22 Dicembre 1924, p. 1714.

 

  Anche la letteratura, che è lo specchio della vita, conferma tale assioma. Molière chiama «vecchio barbone» un uomo di quarant’anni e i padri nobili della commedia del Medio Evo e del teatro spagnuolo ci vengono presentati di un’età non superiore ai 45 o 46 anni. Balzac poi, ha espresso nei suoi romanzi, le angoscie della donna di trent’anni, che vede declinare la sua gioventù. Simile sconforto assale adesso se mai, le donne che hanno oltrepassato la cinquantina!

 

 

  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Tempo di edificare […], Milano, Fratelli Treves, Editori, 1924.

 

 

Giovanni Verga. Caratteristica, pp. 1-5.

 

  p. 5. Per essere dei massimi poeti gli mancò la gioia ebra della creazione, la shakespeariana o balzacchiana inestinguibile sete di vita. Rimase un malinconico e deluso, con quegli occhi un po' sazi, quasi con l’attitudine di chi resiste all’ispirazione e la subisce a malincuore.

 

La fortuna, pp. 11-22.

 

  p. 21. La malinconia succeduta alla guerra e la putrefazione di tante illusioni ottimistiche coltivate dal secolo dei lumi possono avvicinare a Verga una nuova generazione di lettori. Ma non è probabile ch'egli abbia mai a diffondersi come un Dickens o un Manzoni o un Balzac o un Tolstoi: artisti che oltre le belle immagini davano suggerimenti, a loro giudizio infallibili, per la felicità individuale e sociale, temporale ed eterna.

 

Il sogno errante di Guido da Verona, pp. 69-78.

 

  p. 71. Pare come se avesse avuto la sua culla in un grande albergo, e, per quanto facciate, non riuscite ormai ad immaginarlo che discorra o scriva in un dialetto o che dipinga uno di quegli angoli terrestri, pieni di un odore d’orto chiuso, precisati in una fissità da stella polare, come la Sicilia di Verga o la Turenna di Balzac.

 

 

  G. A. Borgese, Mauriac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 49, N. 177, 25 Luglio 1924, p. 3.

 

  L’amore del grande lo travia qualche vòlta verso l’accademico, verso fragili sonorità di gesso; e l’esame dei suoi libri, così diversi di valore, da pagina a pagina, è interessante anche per vedere quanto sia sdrucciolevole la strada dai grandi modi di Balzac alle «buone maniere» di un Ohnet. […].

  Sembra, finoggi, che il meglio di Mauriac possa venire in un dialogo di amanti tragici, ma non in strutture di proporzioni epiche, e che il capolavoro francese più consentaneo al suo spirito non sia la Comédie Humaine, ma un libricino come Manon Lescaut o Paul et Virginie.

 

 

  A. C., Anatole France è morto, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 245, 13 Ottobre 1924, p. 1.

 

  Quella di Anatole France è una «Comédie humaine» composta da un letterato, ispirata da nobili preoccupazioni intellettuali e sociali, che se non ha la straordinaria potenza ed efficacia dell’opera di Balzac, possiede una perfetta unità di toni, una coerenza stilistica eccezionale. Ciò che perde in rilievo acquista in profondità.

 

 

  P. C., Corriere parigino. I romanzi postumi di Marcel Proust – Due volumi per una giornata – Un parallelo patetico, «Corriere della Sera», Milano, Anno 49, N. 55, 4 Marzo 1924, p. 3.

 

  Gli ammiratori trovano che il microcosmo proustiano è superiore a quello stesso di Balzac il quale è collegato in modo arbitrario sotto un titolo comune di «Commedia umana». Il mondo di Proust è un gruppo di persone della buona società; che si incontrano, si separano, si ritrovano di nuovo, si accendono l’una per l’altra d'amore o di gelosia, si bisticciano, si fanno soffrire, si ricercano. Il lettore che ne ha fatto la conoscenza nei primi volumi li considera come persone famigliari, si interessa ad ogni pettegolezzo, fa parte del loro mondo.

 

 

  P. C., Corriere parigino. […]. I viaggi in Italia, «Corriere della Sera», Milano, Anno 49, N. 44, 20 Febbraio 1924, p. 3.

 

  Alcuni anni dopo [Michelet] tornava in Italia per tuffarsi con voluttà nelle memorie di Venezia. Era su per giù l’epoca in cui la visitava anche Balzac i cui primi viaggi sono stati rievocati in questi giorni dal letterato Bellessort, incaricato dalla Società delle conferenze di tratteggiare la figura del grande romanziere[8]: egli ha dimostrato in una delle sue prime lezioni quanta influenza abbiano esercitato sullo spirito del fecondo scrittore le sue peregrinazioni italiane. Anche Balzac aveva sentito fremere sotto l’apparente inerzia i prodromi del risorgimento non lontano.

 

 

  A.[rrigo] Cajumi, Rovani, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 145, 18 Giugno 1924, p. 3.

 

  Orbene, fate che questo gazzettiere in cui si nasconde un Sardou, s’impadronisca di un gruppo di personaggi storici, si appassioni per le cronache private di tutti i tempi, vada in cerca del particolare succoso e raro, s’inoltri negli archivi famigliari, si sbizzarrisca a immaginare i raccordi che non è riuscito a scoprire nelle vecchie carte di cui è in possesso; dategli l’esempio di Balzac (Rovani assimilò in modo incredibile non solo la maniera dell'autore di Une ténébreuse affaire, ma persino il suo stile avventato e diseguale, lutulento, composito e tumultuoso) e l’esperienza di Manzoni, una facilità impressionante di scrittura, il vezzo di interporre la propria personalità tra il lettore e i personaggi (che par quasi derivato dagl’inglesi), la manìa di sfoggiar costumi e ornamenti, un gusto profondo per gli atteggiamenti tenorili e melodrammatici, corretto però dal piacere della beffa; avrete, come risultati, i Cento anni, La Libia d’oro, La giovinezza di Giulio Cesare. Rovani si fa il burattinaio della storia. Ma un burattinaio di genio. […].

  Nel romanziere era però racchiuso un polemista: «I lettori si preparino ad assistere a un quadro storico il quale vorrebbe esser arte innanzi tutto, ma anche indagine e discussione ... introdurre l’arte, pur sempre conservandole il poetico suo scopo, nel campo della critica storica». Scopo dell’arte è «la manifestazione dell’idea e della bellezza poetica e morale per mezzo della bellezza fisica» onde conviene «interrogare il vero cogliendone quelle bellezze che non si rivelano che al senso estetico» e respingere il precetto di copiar scrupolosamente la natura perché questo nega le «leggi perpetue del bello, che vogliono osservato il culto della forma decorosa». Chiaro è l’errore dei critici che riattaccarono Rovani a Zola e a Balzac e presero sul serio il suo realismo. […].

  Nei Cento anni, Giuseppe Rovani tenne in pugno tutti i fili della sua arte, toccò diecine di pedali, si valse delle intonazioni più vane, e costruì un’opera in certo senso omogenea, ponendovi al centro sè stesso. Non è il caso di ricordar Balzac (il denaro non è affatto il fulcro dell’intrigo), Stendhal (nessuna ambizione signoreggia tutto il romanzo, e il Galantino è un servitore della commedia dell’arte e non Julien Sorel) e Manzoni (la provvidenza giunge a delle conclusioni alquanto beffarde): i Cento anni nascono da un’ispirazione del genere di quella che contemporaneamente dettava al Gautier il Capitaine Fracasse.

 

 

  Angelo Cipollini, Cronaca degli spettacoli. Da Pisa, «La Rivista Cinematografica», Torino, Anno V, N. 2, 25 Gennaio 1924, pp. 57-58.

 

  p. 57. Gennaio 1924.

  Cinema Teatro Lumière.

  Commedia Umana, di Balzac. – Alice Terry ha interpretato con naturalezza la difficile parte di Eugenia la fanciulla torturata dalla strana, indicibile avarizia paterna che, oltre l’oro, non conosce né affetti, né passioni. Il grande scrittore francese ha saputo creare in questo suo celebre romanzo due tipi addirittura opposti l’angelo e il demonio, che, come per uno strano scherzo del destino, sono padre e figlia. La scena culminante di tutto il lavoro è senza dubbio per tragicità quella della pazzia. In essa Balzac ha impegnato tutto il suo ingegno, e l’attore cinematografico, interprete di quell’anima di avaro, dimostra tutta la sua arte impressionante. Devo notare che le tre apparizioni della moglie morta di dolore, del fratello derubato, del popolano, a cui è stata uccisa la compagna dalla crudeltà del padrone, tolgono qualche cosa di tragico alla scena, perché queste tre persone si susseguono troppo alla svelta, nello stesso atteggiamento, colle stesse parole, il chè dà un senso di noia; come pure «il Dio oro» che vorrebbe esser terrificante, ci si presenta goffo come un bamboccio, privo di vita, tirato da fili. Ma queste son piccole pecche, le quali non diminuiscono né la bellezza, né la grandiosità del film.

 

 

  Baldassarre Cocurullo, I movimenti a delinquere e la letteratura contemporanea, «Il Foglietto giudiziario. Dottrina, Cronaca e Giurisprudenza del Tribunale di Foggia», Foggia, Anno III, N. 10 e 11, 30 novembre 1924, pp. 1-6.

 

  p. 4. La viltà di Teobaldo [in La Fiaccola sotto il moggio di Gabriele D’Annunzio], l’asservimento a una femmina da trivio, noi avevamo già trovati descritti negli amori di Hulot, con la lurida fantesca, da Balzac, e, da Zola, negli amori del capitano Burle, che scende tutti i gradini dell’abbiezione e del delitto e spende il danaro dell'esercito francese per godere gli amori di una rozza fante.

  p. 5. [...] parliamo dell’«Arrivista» di Champsaur.

  Questo romanzo rimuove, con metodo balzacchiano il fondo della società di oggi. Come nella «Commedia umana», esso ci presenta tipi di delinquenti ribelli, di giudici corrotti, di mercanti disonesti.

  In una società nella quale il fine giustifica il mezzo, nella quale la potenza del danaro non è diminuita dalla sozzura della sua origine, nella quale se non si è divoratori si è divorati, Claudio, lottatore forte ed ardito, volontà ferrea che per il suo trionfo non conosce ostacoli, si ripropone lo straziante quesito che in «Papà Goriot», Vautrin pone innanzi alla mente di Rastignac, la ossessionante dimanda del Rossean (sic). «Se dipendesse da voi, di procurare con un semplice gesto, la morte di un uomo: e se dalla morte di quest’uomo derivasse la vostra ricchezza, compireste voi quel semplice gesto? Claudio non esita a rispondere di sì.

 

 

  Benedetto Croce, Conversazioni critiche. Seconda serie. Seconda edizione riveduta, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1924.

 

  p. 99. Mi guarderò dal seguire l’ultimo editore che ha avuto in Italia l’Elogio della pazzia, Eugenio Camerini, gonfiando il valore filosofico e artistico dell’opuscolo di Erasmo, e ripetendo dietro lui che «Erasmo, in uno scorcio magistrale, fece quel che Balzac tentò invano nelle sue superbe tele della Comedia umana». Il Camerini non era sempre abbastanza misurato nei giudizi; per non dire che talvolta si lasciava trascinare fuori della verità dal piacere di scrivere un arguto periodo e di disegnare una leggiadra immagine e comparazione.

 

Il “Paese di cuccagna” della Serao e un pensiero del Balzac, pp. 300-301.

 

  Sebbene non ne dica nulla neppure il Garzia, che dopo di me ha composto uno studio, anzi un grosso volume intorno alla Serao [1916], io credo che l’aiuto ci fu, da parte di un romanziere assai letto dalla novellatrice napoletana, il Balzac. Nel racconto La Rabouilleuse, scritto nel 1841 e di poi intitolato Un ménage de garçon, narrandosi di madama Descoings — la parente del terribile Philippe Brideau, — la quale da ventun anno giocava un famoso suo terno, il sociologo e filosofo romanziere osserva: «Cette passion, si universellement condamnée, n’a jamais été étudiée. Personne n’y a vu l’opium de la misère. La loterie, la plus puissante fée du monde, ne développerait-elle pas des espérances magiques? Le coup de roulette qui faisait voir aux joueurs des masses d’or et de jouissances ne durait que ce que dure un éclair: tandis que la loterie donnait cinq jours d’existence à ce magnifique éclair. Quelle est aujourd’hui la puissance sociale qui peut, pour quarante sous, vous rendre heureux pendant cinq jours et vous livrer idéalement tous les bonheurs de la civilisation? ...». È proprio il concetto, che la Serao trasportò nelle novelle e nelle altre sue pagine di costume napoletano, ritraenti la passione del lotto. […].

  Senza che si tolga nulla alla sua originalità di scrittore, si deve riconoscere che la scuola che la Serao frequentò fu quella del Balzac e dello Zola, e più tardi, e in modo meno a lei confacente, del Bourget.



  Donna Paola, Fra briganti e brigantesse, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de “La Tribuna”», Roma Anno XIV, N. 7, Luglio 1924, pp. 833-840.

  p. 833. Balzac spende, per sfaccettare la complessa psicologia di Vautrin, il meglio del suo ingegno acuto e profondo ... 


 E. Fedelini, Il romanzo cattolico in Francia, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Volume CCXXXIII, Serie VI, Fascicolo 1244, 16 Gennaio 1924, pp. 154-173.

 

Il romanzo naturalista.

 

 pp.158-159. Un altro osservatore, ma più vivo questi, che ammette la necessità d’un animatore, è il Balzac, figlio di quella ubertosa Touraine cui la letteratura francese doveva già il sensuale Rabelais. Nei quaranta volumi riuniti sotto il titolo di Comédie Humaine, egli ci ha dato un quadro vigoroso e fedele della società a lui contemporanea, e d’una parte specialmente di questa, la borghesia, creando tipi e caratteri spesso presi sul vero, che sono per il secolo XIX quello che i personaggi del Molière furono per il secolo di Luigi XIV; e traducendo in pratica quel dogma della nuova scuola, che con lui s’inizia, e che i fratelli Goncourt hanno formulato con queste parole: «Il romanzo attuale si fa con documenti raccontati e presi dal vero, come la storia si fa con documenti scritti. Gli storici sono i maestri del passato, i romanzieri sono i maestri del presente». L’idea dominante nell’opera del Balzac, è un paradosso fondato sul rapporto fra l’umanità e l’animalità. Le teorie scientifiche ed evoluzioniste che allora si andavano elaborando, tutte le ipotesi trasformistiche che, precorrendo Darwin, scuotevano la Francia, hanno orientato senza dubbio lo spirito di Balzac giovane ancora, che non sapeva domandarsi se queste teorie che vagavano nell’aria, potessero conciliarsi o meno, colle sue credenze religiose; e in omaggio alla scienza che lo attirava, egli introdusse nella letteratura l’idea evoluzionista e segnò l’avvento del naturalismo nell’arte.

 Su tutto, in questo scrittore, dominava una volontà assoluta e un’illusione persistente, e forse anche la sua facoltà d’osservazione non è che uno sforzo e un effetto della sua volontà. In fondo Balzac era un romantico, un essere cioè, di lirismo e di immaginazione, su cui il sogno dovea aver maggior prestigio della realtà. Ma egli aveva posto come uno dei suoi principî che «una letteratura deve esser l’espressione della vita del suo tempo», e quindi primo dovere dello scrittore era, secondo lui, di guardar intorno a sé, di osservare i costumi, gli errori, le manie, gli aspetti, le anime e di fare dell’opera sua la trascrizione di cose vedute. Ed in ciò egli è maestro; le descrizioni degli ambienti sono in lui vere e proprie rievocazioni minuziosissime, ed il suo metodo sta nell’analizzare le abitudini morali delle persone che hanno formato l’aspetto dei luoghi, Così, dopo di aver riprodotto scrupolosamente l’ambiente, egli lo anima introducendovi le sue creazioni psicologiche, i suol tipi, personaggi eccessivi, smisurati, talvolta inverosimili, assorbiti e dominati da una passione che è tutta la loro coscienza e fa tutta la loro energia: Papà Goriot, Papà Grandet, Vautrin; e, accanto a questi, ì suoi caratteri più veri, perché meno enormi, e nei quali sì può seguire la lenta formazione e la lenta evoluzione: Balthazar Claës, l’abbé Bonnet e César Birotteau.

 In questo modo, con la sua potenza e con le sue stesse insufficienze, Balzac operava la transizione dal romanticismo al verismo.

 p. 163. Ma questa vena di cristianesimo e di cattolicismo non apparisce soltanto negli scrittori fondamentalmente credenti e che fanno professione di fede. Questa sorgente si schiude e si diffonde più o meno per l’opera di altri maestri dell’arte letteraria. Nel suo Médecin de campagne, il Balzac, che certo non potrà essere sospetto, mostra nel Dr. Bénassis, che le sue antiche credenze salvano dal suicidio, come la religione sia all’inizio delle vite che si rinnovano e vogliono riparare al male passato essendo feconde di bene, per giungere alla conclusione che «il cristianesimo, e sopra tutto il cattolicismo, considerato come sistema completo di repressione delle tendenze depravate dell'uomo, è il più grande elemento dell’ordine sociale». Il Dr. Bénassis da utilitario giudica le credenze anche secondo il loro coefficiente sociale. Egli dice in un punto, che «il dogma della vita futura, non è soltanto una consolazione, bensì anche uno strumento atto a governare»; e continua «di recente si è giustificato Dio; al posto della Religione lo Stato dovette inventare il Terrore, per rendere esecutorie le sue leggi»; e conclude: «Una religione è il cuore del popolo: essa esprime i suoi sentimenti, li ingrandisce dando loro un fine».

 La funzione sociale della religione entra dunque in misura considerevole anche nel piano della Comédie humaine.

 Nel Curé du Village il Balzac ripete lo stesso concetto, che afferma nella prefazione delle sue opere complete, dove possiamo leggere: «Il pensiero, principio di ogni male e di ogni bene, non può esser preparato, domato, diretto, che dalla religione. L’unica religione possibile è il cristianesimo: esso ha creato i popoli moderni e li conserverà ...».

 Ma se anche non è esatto per queste sue affermazioni, fare del Balzac un vero e proprio rappresentante della corrente cattolica; tuttavia è certo, che un vigoroso soffio di spiritualismo passa nell’opera sua; e se egli cede alla sua natura voluttuosa, concedendo larghissima parte al giuoco naturalistico delle passioni, sente però, forse per l’influenza dei ricordi materni, un bisogno di idea che domini la materia.



  Francesco Fosca, Il Signor Quattordici. Traduzione di Maria Stella, «La Tribuna», Roma, Anno XLII, Num. 6, 6 Gennaio-Num. 39, 14 Febbraio 1924, p. 4 (34 appendici).

 

  Pubblicato nel 1923 dall’editore Grasset con il titolo di Monsieur Quatorze, questo romanzo di François Fosca (1881-1980), pittore, illustratore, storico dell’arte e romanziere, può considerarsi come la continuazione dell’Histoire des Treize di Balzac. I personaggi protagonisti: Orjules, De Cré e Marcherouge fanno parte della Società dei Tredici, la quale si propone di restaurare, all’epoca in cui De Marsay è divenuto primo ministro, sul trono di Francia il nipote di Luigi XVI (Luigi XIX) e a tal proposito si associano con Monsieur Quatorze (il Signor Quattordici), ossia Vautrin. Sulla figura di François Fosca e su questo suo primo romanzo, si veda lo studio di François Ouellet, Le Balzac de François Fosca, «L’Année balzacienne», N. 16, 2015, pp. 215-238. François Fosca ha curato anche un’edizione di Ferragus pubblicata nel 1926 dall’editore Bossard (Histoire des Treize. Ferragus chef des Dévorants avec une introduction, des notes et une bibliographie par François Fosca).


 

  Giacinto Francia, L’Impero di Bisanzio, «Humanitas. Gazzetta autarchica», Bari, Anno XIV, N. 25, 22 giugno 1924, pp. 164-165.

 

  p. 164. Anathole (sic) France bollò, con la penna caustica volterriana, la sete di sangue dei nuovi dei della Rivoluzione giacobina! Les dieux ont soif! Poi verranno coloro che, venduta la loro sapienza sovvertitrice alla reazione della sciabola napoleonica, alla restaurazione dell’ancien régime — dal perfido Talleyrand al perfido Fouché — conieranno l'oro di Giuda nel sangue della guerra civile.

  E Balzac consegnerà alla gogna dell’arte i fuorusciti dell’esercito napoleonico e rivoluzionario che portarono lo spirito d’avventure dagli avamposti nelle conquiste politiche ... e finanziarie! ...

 

 

  Socrate Gambetti, Un trinomio. La Mottà – Balzac e Cassegrain, «Strenna del Pio Istituto Artigianelli», Reggio Emilia, Tipografia Artigianelli, di R. Bojardi, Anno 1924, pp. 72-75.

 

  Ho esumato in questi giorni da un vecchio canterano di casa mia un raro volumetto stampato a Milano nel 1837, coi tipi di Felice Rusconi, intitolato:

«Difesa dellonore dellarmi italiane oltraggiato dal signor di Bolzac (sic) nelle sue «Scene della vita parigina» e Confutazione di molti errori della Storia militare della guerra di Spagna fatta dagli Italiani di Antonio Lissoni antico Uffiziale di Cavalleria». —

  Il titolo è un po’ lungo, ma il contenuto del libretto è bello, grande, straordinario e sublime tanto che meriterebbe una ristampa per nostra edificazione anche perché si allaccia al presente.

  Il bravo e valoroso Lissoni — forse oggi dimenticato dai più — ha avuto il fegato, in quei tempi bui e pericolosi per il sentimento di italianità — pensate alla terribile Austria del Lombardo-Veneto attorno al 1837 – di rintuzzare con accese parole di sdegno chi osò offendere l’onore nazionale degli Italiani! Ma dov’erano gli italiani allora? Se però l’Italia non era ancora politicamente una, indipendente e grande, i figli suoi si chiamavano pur sempre italiani; ed il generoso Lissoni, tutto sfidando, non permise a nessuno che l’onore nazionale venisse inpunemente (sic) vilipeso.

  Il gesto magnanimo poteva anche, oltre a tutto, fruttare al coraggioso italiano se non la forca, la deportazione in Moravia! — Ma non ha temuto: un evviva adunque alla venerata memoria di Antonio Lissoni che noi qui, sia pur brevemente, vogliamo rinnovata.

 

***

  Il popolarissimo romanziere francese O. di Bolzac, in un suo lavoro a base storica dal titolo «Scene della vita parigina» pubblicato a Parigi sullo scorcio del 1836, vi inquadra diversi fatti della campagna napoleonica nella Spagna con speciale riferimento all’assedio ed alla tragica presa di Tarragona. In questa città, avvenutane la capitolazione sanguinosa per opera delle truppe francesi, il romanziere pone l’azione del suo disgraziato romanzo i protagonisti del quale, crudeli, feroci e sanguinari, hanno tutti artatamente e intenzionalmente nomi italiani. Ma il signor di Balzac non si arresta ancora; per dare colorito di vero alle sue «Scene parigine», e qui sta il grave, fa precedere il romanzo da una lunga prolusione storica falsando, a danno delle armi italiane presenti, gli episodi culminanti della presa di Tarragona.

  Avvennero in Tarragona eccidi, massacri, orrori, stupri in massa ed altro? — Ebbene, furono i soli italiani a consumarli! ... — Balzac è stomachevole! — Dalla suaccennata prolu­sione storica, della quale riportiamo qualche brano, il valoroso Antico Uffiziale di Cavalleria Antonio Lissoni, che si trovò all’assalto di Tarragona, prende le coraggiose mosse delle sue Confutazioni per vendicare vittoriosamente il nostro onore nazionale.

 

***

 

  Scrive il Balzac nella sua digressione storica (?):

  «Malgrado la disciplina che il Maresciallo Suchet aveva introdotto nel suo corpo d’armata, non ha potuto frenare il disordine lamentato nella presa di Tarragona».

  E trascriviamo ora senza tradurre per non togliere nulla alla efficacia delle parole del Balzac: — «A entendre aujourd’hui quelques militaires de bonne foi, cette ivresse de la victoire ressembla singulierement (sic) à un pillage que, néanmoins, le Maréchal sut promptement réprimer». — Ristabilito l’ordine, accasermati i reggimenti, nominati il comandante della piazza e gli amministratori militari — «et tout s'y organisa naturellement à la française —» la travagliata città ritorna al respiro. E qui il nostro scrupoloso Balzac passa alla ricerca dei responsabili del disordine: — «Ce premier moment de pillage qui dura pendant une periode (sic) de temps assez difficile à determiner (sic), eut, comme tous les événemens sublunaires, sa cause occulte; et cette cause est facile à révéler. Il y avait à l’armée du Maréchal un régiment presque entièrement composè (sic) d’Italiens ... Tous gens incompris pour la plupart, dont l’existence peut devenir, ou belle ou grè (sic) d’un sourire de femme qui les relève de leur brillant ornière, ou èpouvantable (sic), à la fin d’une orgie, sous l’influence de quelque mèchante rèflexion echappèe (sic) à un compagnon d’ivresse». —

  Tutti avventurieri questi italiani, tutta gente pericolosa; come un vero filibustiere era il loro capitano Bianchi (leggi Bianchini – il prode Bianchini) che secondo il Balzac è lo stesso «qui, pendant la campagne, avait parié monger le cour (sic) d’une sentinelle espagnole, et le mangea». (!!!)

  Non ridete; perché il signor di Balzac asserisce questo fatto inedito ed incredibile colla massima serietà! Se gli ufficiali italiani che guerreggiavano nella Spagna con Bonaparte avevano l’animo e la capacità gastrica di mangiare il cuore dei soldati spagnoli, immaginate la potenzialità cannibalesca ed assassina della soldataglia italiana! Infatti, appena Tarragona cadde, gli italiani si slanciarono per primi — come dice Balzac — sulla povera città, e tutto misero a ferro e fuoco dandosi al saccheggio, all’assassinio, allo stupro; non rispettando vecchi, donne e fanciulli che tutti passarono a fil di spada! ... Questo il disordine cui accennava l’ineffabile romanziere e ... scusate se è poco! La digressione storica (?) termina affermando che se la legione italiana si acquistò buona fama sui campi di battaglia — «la plus détestable de toutes — se l’acquistò — dans la vie privée» — E ... consumatum est!

  Peccato che lo spazio non ci consenta di riportare qui la vera ricostruzione storica della presa di Tarragona che ci dà il nostro Antonio Lissoni — testimone oculare — e di riportare le nobilissime ed infuocate frecciate che egli lancia all’Areopago francese e più segnatamente a quella faccia tosta del signore di Balzac! — Il Lissoni incomincia col tacciare di falsario recidivo lo scrittore francese che inventa di sana pianta la storia della presa di Tarragona inferendo che fu bensì il nostro capitano Bianchini a piantare per primo la bandiera vittoriosa su quelle mura sfidando impavido la morte, ma che dalla breccia aperta e conquistata dal valore italiano, si riversarono sulla infelice città, ormai non più pavide, le truppe francesi inbaldanzite (sic) e feroci che tutto misero a ferro e fuoco e di tutti i più efferrati delitti si macchiarono!

  — «Ho visto io — scrive il Lissoni — le vostre truppe francesi ad ammazzare, a ferire senza un perché i cittadini inermi: vecchi, donne e teneri lattanti caddero a centinaia invocando inutilmente pietà! — Tredici fanciulle da voi stuprate furono da me raccolte e protette dai dragoni italiani! Sotto le porte, negli anditi, ho visto venti, trenta francesi addosso ad una povera donna ... Da per tutto si trafiggeva, si scannava pel solo gusto di uccidere! E quando apparimmo noi italiani un grido di gioia si levò fra la popolazione terrorizzata: Voilà les braves italiens. voilà nos défenseurs! Là dovevi esser tu, o Balzac, là dovevate esser tutti, o detrattori dell’onor nostro, là essere e vedere e sentire. — Il faut tuer tout le monde — era il terribile grido che i vostri francesi lanciavano alla popolazione da macello! — Altro che léger pillage, o romanziere di Balzac, il sacco di Tarragona fu un’onta francese! — Le armi italiane? Vuoi sentire cosa scrisse, caro Balzac, il Capo dello Stato Maggiore dell’esercito, Saint Cyr Nugues, al Generale italiano? — «È impossibile, scriveva, è impossibile il trovar soldati più bravi dei vostri: io non ho mai veduto soldati più coraggiosi, più intrepidi —». — Il generalissimo Suchet così dettava nell’ordine del giorno: — «Io fui testimone della valorosa condotta delle truppe italiane al forte olivo: questa aggiunge un nuovo lustro al valore italiano». — Ed ora, grande Balzac, nasconditi! —». — E il bravo Lissoni attacca subito l’opera letteraria del Balzac «Le scene della vita parigina» che Egli chiama indegna, oltraggiosa al buon nome italiano ed oscena! —

  Come s’è detto, il fantasioso scrittore improvvisa italiani tutti i personaggi del suo romanzo e, manco a dirlo — «Ci volle codardi, scellerati e infami!». È tutto un programma di denigrazione all’indirizzo di casa nostra; ed il suo Romanzo poteva intitolarsi «Scene della vita italiana» poiché di francese non v’è che la lingua e l’autore. — «Era egli proprio necessario — conclude il Lissoni — di fare, di creare italiani gli iniqui personaggi delle tue lascivissime, indegne Marane? È dunque l’Italia divenuta una sentina di vizi, un’officina di delitti, una terra di maledizione, una spelonca di masnadieri, un antro di bruti, una famiglia che lavora solo a scelleraggini, a nefandità da inorridirne, da metterne in ispavento la natura ed il mondo? — E che ci han da far gl’ italiani a descrivere le turpitudini della vita parigina? La tua Francia, il tuo Parigi, covo da qualche tempo di tanti traditori, di tanti assassini, non ti darà mai materia al colorare, al dipingere le turpitudini, onde tanto si diletta la tua immaginativa?»

  Alla fine il buon Lissoni prende per le orecchie il grande Balzac e gli sputacchia in faccia tutte le sozzure francesi contrapponendo ad esse le belle virtù italiane con un florilegio interminabile, quasi inprudente (sic) per la incolumità della sua pelle, perché l’aquila bicipite, sospettosa e vigilante, già arruffava le penne! — Ma tanto può, in uomo intemerato, l’amor di patria.

 

***

 

  Concludendo, Onorato di Balzac del 1836, che il nostro Lissoni ha messo alla gogna, non è che la continuazione del famigerato La Motta del 1503, di storica memoria che si prese le sue a Barletta; Balzac ha la sua continuazione in quell’ignobile ed oscuro Cassegrain del 1923 che tutta Italia unita, grande, vittoriosa e potente, ha subissato. — Avvi purtroppo, nella psicologia francese questa fenomenale incongruenza periodica: la diffamazione all’Italia. — Invidia dei nostri fati fortunosi? — Se questa può sussistere nel 1923 le nostri sorti non erano certamente invidiabili nel 1503 e nel 1835 —! — Invidia delle alte virtù di nostra gente e del nostro militare valore? — Forse qui potremmo trovare le ragioni del fenomeno dolorosamente constatato. Fenomeno vero e proprio, perché mentre la Francia, la grande Francia Ufficiale non ha nella storia dei nostri vicendevoli rapporti che parole di alta ammirazione per l’Italia, sprizza di tanto in tanto da’ suoi vari strati sociali l’insulto banale e poco cavalleresco alla maggiore sorella latina.

  — Se ciò significa il guizzo rivelatore di un fuoco che covi sotto la cenere non v’è che da augurarsi la definitiva opera dei ... pompieri, mentre al popolo francese, per debito di riconoscenza, spetta il dovere di gridare al mondo: Voilà les braves italiens nos défenseurs..., et nos sauveurs!

 

 

  Gill, Cronaca degli spettacoli. Da Modena, «La Rivista Cinematografica», Torino, Anno V, N. 5, 10 Marzo 1924, pp. 45-46.

 

  p. 45. Cinema Teatro Principe.

  Per il passato. – «Medusa Film». Interprete Maria Carmi. Lavoro tratto dal romanzo di O. Balzac con procedura drammatica sentimentale. L’interpretazione per quanto buona e vivace non riesce ad ottenere l’effetto voluto per lo scarso adattamento della personalità dell’artista troppo attempata in certe situazioni. […].

 

 

  Adriano Giovannetti, Cinematografo, che passione! Novella di Adriano Giovannetti, «al Cinema», Torino, Anno 3°, N. 43, 26 Ottobre 1924, pp. 3-7.

 

  p. 6. L’hall di un albergo di lusso, in una stagione climatica di prim’ordine, ospita, quasi sempre, la gente degna della penetrazione di un Balzac!

  Personaggi autentici, personaggi da domicilio coatto e personaggi da operetta.

 

 

  Glazer, Uno e tutto, «L’Ora nuova. Giornale di Taranto», Taranto, Anno VI, N. 2, 10 Gennaio 1924, p. 1.

 

  Ed è vero: «sullo spirito agiscono gli egoismi, gli interessi, le passioni» ed indirizzare una «massa di uomini verso determinate direzioni per arrivare a certe mete» occorre effettivamente avere una volontà viva, ardente e giovanile e un potere di indiscussa autorità: volere e potere, questi due termini nei quali un personaggio di Balzac vedeva due atti fatali, che inaridiscono le sorgenti dell’esistenza umana, due verbi che esprimono tutte le forme di due cause di morte, se in essi non vi si innesti una terza formula, un terzo verbo regolatore ed equilibratore: il sapere; il sapere che sopravvive a tutto, che è uno e tutto.



 Gino Gori, Il Teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni, Torino, Fratelli Bocca – Editori, 1924 («Letterature moderne. Studi diretti da Arturo Farinelli»).

 

 p. 156. Balzac. Cercò di portare sulla scena il vasto complesso del reale mondo dei suoi romanzi, ma non vi riuscì. Vautrin, Les ressources de Quinola, Pamèla, Giraud, La Marâtre, sono opere affatto negative. Balzac, come drammaturgo, non vale la più pallida e sbiadita ombra del romanziere. Il decennio che corre dal Vautrin (1840) a La Marâtre (1850) conta, riguardo a lui, per ben altro che per codesti poveri abbozzi. Di Balzac scrittore di teatro, non occorre proprio aggiungere parola.

 

 

  Lector, Rievocazioni. Il rammarico di Napoleone, «Avanti! Giornale del Partito Socialista», Milano, Anno XXVIII, N. 78, 30-31 Marzo 1924, p. 3.

 

  Eppure fu proprio quella, cui altra se ne aggiunse coi nuovi arricchiti delle guerre napoleoniche, e che Balzac ha così drammaticamente rappresentata nella sua «Comédie humaine», l'aristocrazia della finanza, che, quando ebbe pieni i forzieri e piene ... le scatole di nuovo guerre, mandò al diavolo Napoleone.

 

 

  Letterio di Francia, Storia dei Generi Letterari Italiani. Novellistica, del prof. Letterio di Francia. Vol. I. Dalle Origini al Bandello, Milano, Casa Editrice Dottor Francesco Vallardi, 1924.

 

  p. 400. Nel personaggio principale e nell’intreccio, questa novella (testo anonimo italiano del XV secolo) fa ricordare lontanamente una commedia moderna del Balzac, Mercadet le faiseur; ma restiamo ancora a una bella distanza dall’abilità dello scrittore francese, che nelle ultime scene sa raccogliere ingegnosamente le sparse fila, trovare uno scioglimento impensato, quanto verosimile, e fare del protagonista un carattere interessante e drammatico, un misto di raggiro e di probità.

 

 

  N. F. Mancuso, Corriere parigino. Le novità della quindicina, «La Rivista Cinematografica», Torino, Anno V, N. 7, 10 Aprile 1924, pp. 18-19.

 

  p. 18.  Il Cugino Pons. – Dopo aver visto il film di Jacques Robert, non si ha il diritto di notarne i difetti, tanta è la bellezza della interpretazione dei due principali attori: Maurice de Féraudy ed André Nox.

  Il testo è abbondante, specialmente nella prima parte del film, ed alcuni dei personaggi creati da Balzac, sembrano staccati da un album di fotografie romantiche. La messa in scena è accurata; ma essa non basta, malgrado il contributo d’una atmosfera di verosimiglianza, alla realizzazione di una opera forte, come il capolavoro balzacchiano. Che il rigattiere perpetri dei delitti o dei furti; che la serva dei cugini ricchi – resa alla perfezione dalla signora Bérangère – agisca contro la tranquillità di Pons; che un uomo d’affari bacato ed un mercante di quadri, preparino e dirigano dei misfatti, essi passano nel Cugino Pons come accessori di teatro.

  Ma le scene in cui appare Pons, che, ritenuto povero, ha accumulato delle opere d’arte, s’illuminano d’una grande luce. Alcuni hanno indovinato l’alto valore della sua collezione e bramano la sua eredità, mentre egli soffre atrocemente delle vessazioni subite.

  Un amico veglia: Schmuke, il pianista, magnificamente ispirato nelle sue composizioni e sofferente di tutta la tristezza umana.

  La più grande bontà è espressa dallo sguardo di Maurice de Féraudy; la devozione più generosa impegna la maschera meravigliosa di André Nox. Questo film, poco felice nella sua redazione letteraria, impressiona e commuove per la sola virtù di questi due grandi artisti.

 

 

  Giovanni Mari, L’arte dello scrivere con gli esempi e la pratica dei prosatori nostri contemporanei, Milano, Ulrico Hoepli editore libraio della Real Casa, 1924. 

 

  Originalità e Imitazione. I rifacitori, pp. 39-40.

 

  Ma chi rifarà la Frusta dovrà più o meno attenersi al modello, nel mentre invece i geniali rifacitori, diavolo! ricalcano il loro modello modificandolo; altrimenti dove andrebbe l'originalità? Non fa bisogno di sollevarsi fino alla parodia, come potrebbe essere La Secchia Rapita, basta sterzare a destra dove l’altro sterza a sinistra, basta opporre metodo a metodo, scopo a scopo, come già fecero i nostri storici, il Pallavicino in confronto del Sarpi, per esempio, e come in Arte, fra i molti, per buttar sassi fuori di casa, ognun potrebbe ricordare Le Lis (sic) dans la vallée di Balzac in confronto di Volupté di Saint Beuve (sic) e parecchi romanzi di Zola in opposizione a quelli del Feuillet e di George Sand.


 

  Teoria e Pratica. Generi nobili e generi ignobili?, pp. 57-59.

 

  p. 59. Che cos’era il romanzo in Francia prima del Balzac e in Italia prima del Manzoni? Fino al 1829, l’anno in cui il Balzac cominciò il glorioso suo curriculum artistico, quale grande scrittore si era mai degnato di scendere a quello che era considerato come «genere inferiore»?... Più coraggioso oltre che più artista il nostro Manzoni; perché l’autore di Eugénie Grandet nel 1829 era giovane, povero, ignoto, senza compromessi letterari, mentre il nostro, allorché si accinse a comporre I Promessi Sposi, era ricco, non più giovane e già in fama; […].


 

  Realtà e Finzione: la Coerenza come limite. Verità e coerenza, pp. 68-72.

 

  p. 69. Càpita alle volte di veder delle nubi in forma di croce, in forma di cavallo; ma quale pittore le accetterà nel suo cielo?... Il Balzac ci fa incontrare ad ogni pagina in milioni e milioni di franchi; i suoi sono romanzi di gente che nuota nell’oro; ebbene egli ha un bel difendersi in una sua lettera del 1833: «Ah il y a trop de millions dans Eugénie Grandet? Mais, bête, puisque l’histoire est vraie, veux-tu que je fasse mieux que la vérité?» [Balzac a Laure de Surville].  Il Brunetière osserva giustamente: «L’histoire, quoique vraie, n'était donc pas tellement vraie, que la vérité n’en souffrît quelques accomodements!» (p. 70 [Honoré de Balzac]); e non del tutto diversamente, a proposito dell’Uragano di Gino Rocca, il Borgese notava che «certe simmetriche denunzie d’infedeltà donnesche ... sono così ingenue da valere per false anche se sono copiate dal vero» (cfr. Tempo di edificare, p. 92).


 

  La Tonalità di visione come limite. Più figurazioni in una figurazione, pp. 86-88.

 

  Così il Boccaccio alla Commedia che egli, dicono, chiamò «divina» contrappose la Commedia Umana; titolo e figurazione che poi dovevano piacere anche al Balzac. I volumi del quale possono a uno a uno non tutti contentarci; ma quando egli ce li offre come scene della gran Commedia Umana, noi comprendiamo che sono al loro posto anche certe narrazioni le quali davvero a tutta prima non riuscivano a persuaderci, e che adesso, visioni o strane o scolorite ciascuna per se stessa, acquistano l’una dall’altra un loro più intenso significato, trovano il loro motivo di essere nella più vasta rappresentazione che tutte le involge.

  Libri corti in serie lunga con eventuale continuità di personaggi sembra sia stata la strada tracciatasi dal Balzac per dare fondo alla meravigliosa e spettacolosa sua idea. […].

  La continuità della Commedia Umana francese è in gran parte esterna; nè molto giova che in essa un romanzo alle volte continui l’altro nei personaggi e nei luoghi, come poi piacque, tra i molti, anche al nostro Fogazzaro e ultimamente al Brocchi, per non nominare il Romain Rolland, il Proust, Martin du Gard e non so quanti altri forestieri. Siffatta forma di continuità interna sembrerebbe, a occhio e croce, non solo imprimere un sigillo di unità all’intera corona di romanzi, ma anche offrire allo scrittore quest’altra agevolezza: dopo il primo in ogni ulteriore romanzo egli può avvalersi dell’antecedente per risparmiare informazioni di antefatto, descrizioni di luoghi, di casi, di caratteri. E in vero, per dir solo dei caratteri, ogni personaggio già conosciuto due rientra in iscena ha già la sua ben definita determinazione, porta con sè tutta un’esperienza ben nota al lettore; parrebbe dunque che quando siffatta esperienza venisse ad aggiungersi ai nuovi eventi, questi dovrebbero sembrare più concretamente veri, come quelli che partono da un fondo più reale già ammesso anzi approvato. Continuare parrebbe anche meno arduo che creare dal nuovo. Ma non è proprio del tutto così; e davvero già in Balzac la voluta continuità di visione da libro a libro ottenuta costringendo un eroe di una storia a figurare più o meno oscuramente in una storia tutt’affatto diversa, sminuisce quel reduce eroe e conturba la nuova storia in cui egli riappare. Senza dire che ogni ulteriore aggiunta sembra accusare di incertezza la visione precedente; e senza osservare che, siccome aggiungendo bisogna pur variare (chè mai si aggiunge ripetendo!), ne deriva la difficoltà di mantenersi in perfetta coerenza sia con gli eventi più o meno forzatamente incatenati, sia coi personaggi tenuti in iscena per tanto tempo nel foco di visioni disparate. Di qui le contraddizioni del Balzac e quel non so che di stanco, di mal predisposto, di voluto, di prolungato che hanno alcune di siffatte serie narrative, anche recentissime.


 

  Il Disegno interno: Maniere, Movenze, Modi, Forme. Digressioni, episodi, commenti, ecc., pp. 96-98.

 

  pp. 96-97. Ci sono tuttavia delie sapienti ripetizioni, simili al ritorno di date linee in architettura e al leitmotiv in musica; ci sono anche delle sapienti deviazioni. Ecco per esempio Tolstoi che in Guerra e pace s’indugia in commenti e perfino in polemiche; ecco il Manzoni che ti fa fermare fra Galdino a narrare il miracolo delle noci e che sacrifica addirittura un capitolo a farci conoscere la vera storia del Cardinal Federigo ; ecco il Balzac estendersi in digressioni e trovar modo in Le Médécin (sic) de campagne di far l'apologia del cattolicismo, ovvero, nell’Envers de l’Histoire contemporaine, dilungarsi a difendere il diritto e il potere dell’associazione, o ancora, in Le cousin Pons, dissertare sull’occultismo; eccovi insomma la digressione, l’episodio, l’aneddoto: un più o meno evidente uscir dal cammino pel quale l’autore pareva guidarci. La narrazione procedeva come un grande e pieno fiume, quando uno scoglio, una piccola isola, rompe l’acqua e fa rizzare le creste dell’onde, le quali, passato l’ostacolo, si ricomporranno di nuovo e sembreranno riaffrettarsi più contente alla foce; nè il fiume parrebbe così bello senza quell'infrangersi, senza quella variazione.

  E non è tutto qui; in un’opera d’Arte siffatte deviazioni non sono unicamente motivo di varietà; tanto meno di una varietà tutta esterna e ingombrante; nè il Manzoni nè il Tolstoi nè il Balzac nè il D’Annunzio vanno per esempio paragonati a Gian Battista Marino il quale nel suo Adone trova opportuno di farci perfino la storia del gioco degli scacchi e di cento altre cose. I veri artisti non centonano; per loro la Finzione non è un mero pretesto per discorrerti de omnibus rebus et quibusdam aliis; no, se nel compatto fluire dell’opera c’è un interludio, c’è una pausa, c’è un’apparente diversione, quell’interludio, quella pausa, quell’apparente diversione formano carne viva in corpo vivo, sono il portato della visione stessa della quale accrescono il tono, il valore, l’estensione, o anche solo il colore locale, l’atmosfera storica e le secrete responsioni e gli echi più o meno riposti.


 

  La descrizione come preparamento, pp. 102-103.

 

  p. 103. Descrizioni, digressioni, minuzie assai più che nel Manzoni abbondano nel Balzac; ma prova a toglierle! Nei romanzi stessi dell’Hugo prova a lavorar troppo di forbici, come, con intento di diffusione popolare, ha fatto il Fabietti; il romanzo non regge più, l'architettura va a catafascio, il libro diventa un riassunto, un catalogo.


 

  Come necessità ossia intonazione, pp. 108-112.

 

  pp. 109-110. Si dice: bisogna mettere in evidenza i lati essenziali delle cose; si, se essenziale vuol dire quello che nell’oggetto descritto allo scrittore sembra più caratteristico in relazione con l’intero componimento. L’artista non descrive le cose, esprime ciò che lui, al posto del suo personaggio, sente di esse; esprime le cose trasfigurate dal suo stato d’animo. I caratteri essenziali di una cosa variano dunque all’infinito come infiniti sono i modi di sentire.

  Così è per le movenze: la sapiente prolissità del Balzac alle volte nel Balzac stesso si fa una ancor più sapiente brevità; l’artista che così spesso è minutissimo in tutti i particolari, ecco crede ad un tratto opportuno di lavorare di scorcio; quel medesimo che nelle prime pagine di un romanzo ha gettato colori su colori a precisare quadri e situazioni, poche pagine più in là trova che basta una pennellata così di sfuggita.

  Alle volte, come generalmente in Balzac, la descrizione sembra un vasto fiume, lento, uguale, perenne; alle volte invece, come in Tolstoi, nel Verga, sembra breve fiamma improvvisa: appare, illumina, scompare; altre volte è un quadretto visto da lontano, una rievocazione tratteggiata appena a mezzo, una domanda lasciata da risolvere al lettore, un occhio d’azzurro tra le nubi. Ricordate il suggestivo incanto che certi schizzi hanno nei romanzi del Flaubert? sembrano rievocazioni dirò così riassuntive; l’autore tocca e passa da cosa a cosa, come talora anche piace al Papini (cfr. Un uomo finito, p. 9 e sgg.) e a qualche altro ottimo nostro.


 

  Il Disegno interno: la Parola. La bella invenzione verbale, pp. 159-160.

 

  Non sospettate forse nemmanco dal poeta che ora le coglie dall’anima sua e stupito trova in sè qualcosa che non è soltanto poesia, ma quasi divinità. Invenzione verbale, per la quale non basta essere nati artisti, ma che richiede studio e studio; invenzione verbale che mancava per esempio al Balzac, e che invece è così viva in Lucrezio, nel Leopardi, in Victor Hugo, nel Flaubert, nel Carducci, nel Pascoli, nel D’Annunzio, nel Papini, nell’Ojetti, nel Borgese e in tutti coloro che, artisti nell’anima, hanno il sentimento dei remoti accordi, dei profondi richiami, delle segrete rispondenze, e di là per la gioia loro e per la gioia nostra traggono la capacità di plasticamente tradurre le sensazioni più tenui e inafferrabili, la capacità lirica di ricrear le cose in una atmosfera di giovinezza e di stupefazione.


 

  La Prosa d’Arte: Storia e Finzione. Caso eccezionale e storia comune, pp. 256-259.

 

  p. 259. La biografia è composta copiando la vita, ed è a simiglianza di tutte le altre biografie; è lì essa a limitare me; ma una Poesia non può simigliarsi a nessun'altra Poesia; essa è l’animo mio stesso in quell’attimo e si forma in quanto io mi formo. Con un po’ di studio posso trovare, come fa Balzac, cinque o sei biografie le quali s’incastrino e più o meno si completino a vicenda per formare la storia di Cousin Pons o un’altra storia qualsiasi alla quale io non abbia più nulla da aggiungere se non la materiale estrinsecazione, una storia che mi imponga la sua coerenza e così mi fissi i suoi limiti e qui richieda una descrizione, là un dialogo, più oltre una lettera, una storia insomma cui io serva da umile servitore; […].


 

  Determinazione storica, pp. 259-261.

 

  pp. 260-261. Ciò che Balzac e seguaci fecero in un verso, altri fecero in un altro verso: quelli cercarono, affollarono, conglomerarono, disposero specialmente dati cronologici e di costume; questi precipuamente si appigliarono a dati psicologici o così detti scientifici. Il fondo è però sempre la storia; la storia, che il romanzo psicologico fissa nell’approfondire pochi casi di coscienza o di passione mediante dati fisiologici e psicologici; la storia, che il romanzo scientifico o filosofico discute, svolge e prosegue mediante suppellettile di scienza o di pseudoscienza; la storia, che il romanzo lirico interpreta a furia di enfasi, di cinematografia panoramica, di casistica personale, di coloriture sentimentali; la storia, che il romanzo a tesi costringe e falsa mediante preconcette e studiate determinazioni convergenti a un preconcetto segno; la storia, che il romanzo satirico coglie nei suoi lati deboli, in quelle circostanze cioè che lascino migliore appiglio onde sia volta a derisione o correzione; la storia, che il romanzo di domani strapperà dal mondo interiore di ciascuno di noi, mondo tanto più tragico del mondo esterno quanto meno facilmente esplorabile e più assolutamente, più perdutamente, più inalienabilmente nostro.


 

  La Prosa d’Arte: Parola e Azione; Maniere, ecc. La narrazione e la descrizione nel romanzo e nel dramma, pp. 313-316.

 

  p. 316. Ci sono dei romanzi in cui tutto è movenza emotiva, tutto è concitazione, tutto è dramma; ce ne sono altri invece in cui le tirate descrittive e narrative dilungate nelle più calme movenze espositive somigliano deserti troppo vasti e troppo aridi fra le poche oasi della poesia. Oggi sembrano troppo minuti perfino I Promessi Sposi; e anche Balzac con quel suo riprender le cose proprio ab ovo, con quel suo andare innanzi lento, largo, diffuso, lascia pensare che un po’ più di fretta, un po’ più di riservatezza, di economia, di scorcio forse non guasterebbe.


 

  La Prosa d’Arte: Parodia e Azione; Procedimenti. Sospensione e sorpresa, pp. 380-385.

 

  p. 381. Già nel gioco delle trasmutazioni il lettore o lo spettatore è trasportato dal vasto e diverso fluttuare dell’azione; questa pareva promettere sole e gioia, ci ripiomba invece nell’ombra e nel dolore; ci vedevamo già vicini a una vetta; era la mèta? ... e come mai siamo ora ridiscesi? ... per risalire, si intende; ma forse a un’altra vetta.

  Quando il vecchio Goriot ci si presenta la prima volta ha dell’enigmatico: chi è? ... da dove viene? ... che fa? Oh, i suoi compagni dozzinanti sono gente navigata e capiscono o intuiscono e «rien ne pouvait démentir ces inductions». Segno infallibile che tutta la storia smentirà quelle induzioni; ma traverso quali ambagi? ...


 

  Plausibilità, pp. 389-392.

 

  p. 391. Strane invero o anzi peggio sono certe situazioni di La femme à trente ans (sic), e anche grossolane in La dernière incarnation de Vautrin; ma l'arte del Balzac ci prepara fin dai primi capitoli. O forse, per noi tardi venuti, a farci ammettere logiche quelle scene può influire anche il prestigio dello scrittore? ... Quel prestigio sovrabbonda al Manzoni per far accettare a tutti noi l’ultima scellerataggine dell’Innominato. Ma perché costui promette così presto a don Rodrigo? ... e perché quel servile misfatto? il satellite tien la corda al boia, non il boia al satellite! ...


 

  L’Igiene del lavoro creativo; Pareri vecchi e pareri nuovi. Assiduità, riposo, regime, pp. 437-439.

 

  pp. 437-438. Intanto non tutti (specialmente parlando di artisti!) sono nati per un lavoro metodico come un Victor Hugo dall’esistenza laboriosa e regolare o come un Maeterlinck o, se volete esempio più da travet, come uno Zola o un Sardou o un vostro qualsiasi amico compilatore. Non tutti gli uomini di lettere hanno del resto gli agi di un Manzoni o di un Fogazzaro; e anche fra quelli che potrebbero scialare di tempo e di denaro ce n’è parecchi che, a parte l’accanimento nel lavoro, meglio sembrano specchiarsi nel febbrilmente disordinato e poderoso Balzac o nel gioiosamente tumultuoso Dumas padre.


 

  Disciplina prossima: Ispirazione ed Elaborazione. Da creazione a creazione, pp. 507-509.

 

  p. 508. Così da creazione a creazione il disegno verrà infine a rigidamente stabilirsi, inconcusso; la visione a poco a poco si epurerà, si chiarificherà, si esalterà in tutte le sue minime connessure, diverrà imperfettibile. Se la tocchi ancora è la rovina. Tu sei alla mèta.

  Ma per arrivare a quel punto la strada è lunga; tardate il più possibile a dire che la tela del vostro libro è definitiva; i testamenti si fanno in articulo mortis. Aspettate a definire; lasciate maturare ciò che deve maturare; ne sarete ricompensati poi. Il Balzac per interi lustri porta e lascia fermentare sotto il cortice del suo cranio il romanzo César Birotteau, che poi scriverà in quindici giorni, colla furia delle gemme già troppo gonfie di linfa le quali vogliono scoppiare alla luce, delle cose già vive e che ora chiedono movimento, aria, sole.



  Pietro Melandri, Cronaca di vita romana. I Teatri, «Roma. Rivista di studi e di vita romana», Roma, Anno II, 1924, pp. 282-286.

  p. 283. La novità che ha avuto liete accoglienze senza alcun contrasto è stata Eugenia Grandet, tre atti che Federico Nardelli ha tratto dal romanzo omonimo di Balzac. Costringere in un numero d’atti determinato dalle esigenze orarie di uno spettacolo teatrale il mondo di quel grande pittore di costumi e scultore di caratteri, era impresa temeraria. E non c’è da meravigliarsi se nel lavoro del Nardelli qualche figura non ha avuto tutto il suo rilievo, e qualche altra è stata ridotta ad un’ombra evanescente, e se qua e là si nota nel dialogo, con cui l’autore ha dovuto riassumere tante pagine del romanzo, qualche stonatura modernistica. Ma queste sono mende che non viziano il valore della difficilissima riduzione, eccellente, sia per il rilievo dato ai principali caratteri, sia per il colore balzacchiano quasi sempre conservato; per cui insieme con Balzac, trionfò meritamente anche il Nardelli, e con questo la Gramatica che era Eugenia, e il Pilotto che era Grandet: due interpreti stupendi. 


  F. M. M., Teatri e Concerti. “Eugenia Grandet” al Quirino, «La Tribuna», Roma, Anno XLII, Num. 70, 21 Marzo 1924, p. 3.

 

 Il romanzo balzacchiano che è una delle opere più vigorose, più belle, e artisticamente più pure di quante siano uscite dalla fantasia del grande scrittore francese (qualcuno, e fra i critici di maggior nome, ha considerato «Eugenia Grandet» come il capolavoro di Balzac) è certamente troppo noto ai nostri lettori perché convenga e non possa sembrare offensivo per la loro cultura indugiare in questa nota sulla sostanza e la vicenda dei tre atti che Federico Nardelli ha tratto dalle pagine del romanzo e che Emma Gramatica ha recitato ieri sera al «Quirino»: ci basterà ricordare come il Nardelli abbia fedelmente seguito le linee egli sviluppi fondamentali del romanzo e avvertire «tout court» che la sua fatica — a differenza di quello che accade per solito a quanti si accingono a così pericolose imprese — ci è parsa singolarmente fortunata. Che pericolo ci sia a ridurre per la scena opere narrative e di quelle

già consacrate dal comune consenso alla gloria, il lettore non ha bisogno di saperlo da noi: è chiaro che gli sviluppi consentiti nelle pagine di un libro non posson non esser sacrificati nel rigido schematismo della costruzione scenica, e però tanto meno un romanzo è adatto ad essere trasformato in dramma, quanto più ricco esso sia o di indagini psicologiche o di valori poetici. Se mai la trasposizione dall’una forma d’arte all’altra sarà più facilmente consentita per opere la cui precipua consistenza sia tutta nella esteriorità della vicenda.

 Detto questo, e dato il carattere del romanzo nel quale aveva posto le mani, non si può negare al Nardelli una singolare abilità se i suoi tre atti ci sembrano aver reso, quasi con la stessa evidenza delle pagine del romanzo, sia l’ambiente di casa Grandet, sia la figura del vecchio avaro che è una delle creature umane più poderosamente segnate dall’arte incomparabile del romanziere. Solo in un punto non possiamo nascondere d’avere avvertito una sorta di inevitabile inaridimento, prodotto dalla trasposizione; e questo è accaduto quando il Nardelli si è trovato costretto a chiudere in una scena o poco più quella lunga ansiosa attesa dell’amato lontano che suggerì al romanziere molte pagine della sua narrazione, e solo in quel naturale sviluppo narrativo poteva esprimersi in tutta la sua efficacia. Anche avremmo preferito che il Nardelli non avesse abusato nell’attribuire all’eroina dei suoi tre atti certi modi di espressione i quali – senza indugiare in pedanti confronti tra le pagine del racconto e le battute del dialogo — paiono echeggiare un certo lirismo «provinciale» caro ai «crepuscolari» di oggi, ma forse non troppo adatto a quel tipo di fanciulla che – secondo il ricordo di una nostra lettura giovanile e quindi ormai lontana negli anni — Onorato di Balzac ci sembra aver composto in una linea di più aspra austerità. Ma tutto questo ha una ben scarsa importanza di fronte al valore effettivo di una riduzione scenica come quella offerta dal Nardelli, nella quale il tipo del vecchio, avaro (il più umano e il più vero fra i molti avari apparsi sulla scena da Harpagon in poi) non ha perduto la superba efficacia che aveva nelle pagine del romanzo, e si è composta una sicura vita scenica in una di quelle genuine commedie di carattere (altro non è la riduzione del Nardelli) che costituirono un tempo l’orgoglio del nostro teatro e la gioia degli ascoltatori. A tanto il Nardelli è riuscito attraverso una devota fedeltà ai segni essenziali con cui il romanziere diede vita alle sue creature, colti con una chiara perspicacia dei valori più vitali dell’opera che egli si accingeva a ridurre, e soprattutto attraverso una molto accorta sceneggiatura (il secondo atto specialmente è apparso costruito con sicura maestria) che denota nel Nardelli un conoscitore del teatro consumato e dalla mano felice.

 L’esecuzione, che ci parve affiatatissima, giovò molto al pieno successo dei tre atti. Emma Gramatica animò, come la grande attrice solo può fare, di una vita genuina e commovente la figura di Eugenia, e fu applaudita anche a scena aperta; il Pettinelli, che è attore di nobile stile e di efficaci risorse, parve perfettamente a posto nella figura di Carlo, e al second’atto,

alla rivelazione del suicidio paterno ebbe accenti di dolore profondi e commossi; ma l’attore, cui la serata fruttò un personale vivissimo successo, fu Camillo Pilotto, che disegnò quel tipo di vecchio avaro come meglio non avrebbero potuto i caratteristi più gloriosi della nostra scena di prosa, dei quali oggi vive solo il ricordo. Ci congratuliamo vivamente con lui e lo incuoriamo in una fatica d’arte che gli consente così vigorose affermazioni.

 La cronaca registra tre chiamate dopo il primo atto, cinque dopo il secondo e la commedia inizia da stasera le sue repliche.


 

  Curio Mortari, Romanzo di gioventù, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 11, 12 Gennaio 1924, p. 3.

 

  [Su: Carnaval di Mireille Havet].

 

  S’incontrano spesso in questo mondo, per definizione contradditorio, romanzieri spregiudicati, i quali sono platonicamente fedeli al loro primo amore; turisti esotici che noti hanno viaggiato più in là di Milano o filosofi eleganti che hanno vissuto le loro esperienze soltanto sui casti volumi delle biblioteche circolanti. Si scagionano citando Balzac. Ma in realtà questo meraviglioso coatto evadeva di quando in quando dal suo gabinetto da lavoro per qualche misterioso viaggio. Egli vide fiords norvegesi e panorami germanici meglio di qualche commesso viaggiatore delle Lettere. Ma possedeva un fantastico passaporto che non si rilascia spesso.

 

 

  C.[urio] M.[ortari], Libri. “La tentatrice” [di Vincenzo Blasco Ibanez], «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 22, 25 Gennaio 1924, p. 3.

 

  Qualcuno ha parlato di arte plebea. In questo senso Balzac fu il romanziere più plebeo del nostro secolo.

 

 

  Curio Mortari, Un’avventura di Balzac a Torino, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 24, 27 Gennaio 1924, p. 3.

 

  Un Balzac misterioso sta per essere evocato dalle ombre degli archivi. Non si tratta dello scrittore sedentario, dell’ergastolano delle Lettere che trascorre notti bianche nel suo gabinetto da lavoro ad elaborarvi cicli di romanzi che serviranno a pagare debiti babelici e a dotare l’umanità di quel titanico capolavoro che è la Commedia Umana. L’immagine dello scrittore tarchiato e smaniante sulle pallide carte, come un Lucifero precipitato dal cielo e inchiodato a un tavolo da scriba, è stata tramandata da una tradizione che non è falsa, ma è certamente unilaterale. Balzac non è soltanto lo schiavo della propria poltrona; altrimenti la sua opera non sarebbe che la ingente elaborazione d’uno scrittore dispeptico. Egli è anche l’uomo delle avventurose evasioni, dei lunghi viaggi velati di mistero; il turista sentimentale, degno fratello di Stendhal. In un'epoca in cui non esistevano non dico i grandi espressi europei, ma le più modeste caffettiere stradali, giungere a Milano, a Vienna, a Varsavia e fors’anche più in là, costituiva un eccezionale raid. Henry Prior, l’appassionato e diligente balzachiano, che si dedica a rintracciare gli itinerari del grande romanziere in Europa, ci offre ora — sulla scorta di documenti raccolti nei più segreti scaffali — una deliziosa primizia sulla Revue de Paris.[9] Si tratta d'una scappata di Balzac a Torino nel luglio del 1836. Fu il primo viaggio che Onorato fece nella capitale del Piemonte. E in graziosa, compagnia.

 

La graziosa e terribile Carolina.

 

  Pregato da un amico, il conte Emilio Guidoboni, di sbrigargli le complicate pratiche della eredità materna a Torino, Balzac si accinse senz’altro a varcare le Alpi. Il viaggio in diligenza doveva avere i suoi pregi romantici: il sinuoso paesaggio, gli echi delle vallate rispondenti al suono dei corni soffiati dai postiglioni, le soste alle stazioni, il passaggio del Cenisio, la visita alla Grande Chartreuse ... Ma sarebbe anche durato cinque lunghi giorni. Fu così che Balzac decise di scegliersi una compagnia femminile ed è così che entra in scena la signora Carolina Marbouty (in arte Clara Brunne) nata e residente a Limoges, separata dal marito, curiosa figura di donna, animata da incoercibili aspirazioni letterarie. Era, come ce ne furono tante, una imitatrice di Giorgio Sand, una «vulcanica», una chiacchierona e una vanitosa. Troppo frivola per essere appassionata, troppo gretta per essere una vera ambiziosa, più femmina che donna. Femminuccia, anzi, presuntuosa e maledica, che in un romanzo a chiave, intitolato La fausse position, giunse più tardi a mettere in ridicolo quello stesso Balzac pel quale aveva fatto più di qualche pazzia. Ma era graziosa, molto graziosa; tanto da farsi notare dalla contessa Maffei che in una lettera, riferita nel Salotto di Raffaello Barbiera, citava la sua «voce soave», i suoi «movimenti d'una dolcezza e d'una souplesse estreme ...».

  Carolina Marbouty aveva già disturbato a parecchie riprese Onorato Balzac. Dichiarandosi sua fervente ammiratrice gli aveva scritto nel ‘30 da Limoges, per ringraziarlo dell'invio di suoi libri. Nel 1833 tornò alla carica chiedendogli di essere ricevuta. Balzac non stimò opportuno di privare il Limosino di quella terribile Musa dipartimentale e non le rispose. Allora l’implacabile ammiratrice si stabilisce a Parigi, fa la corte al buon Giulio Sandeau e, pel suo tramite (dolce Sandeau!) ottiene di essere invitata a pranzo da Balzac, insieme all’amica Sidonia Haas. In questa occasione, decisa a conquistare il grande scrittore, ella spiega ogni scaltrezza, ogni seduzione ...

 

Come Balzac fu sedotto...

 

  Per giudicare la donna, basta leggere la lettera che Carolina, scrisse alla madre, per rivelarle i particolari ... della seduzione.

  «Avevo messo nei miei progetti che il giorno in cui ci fossimo (lei e la Haas) incontrate con lui, io avrei dovuto sedurlo. La mia volontà era decisa. Sono riuscita e l’ho magnetizzato, se mi è lecito servirmi di questa espressione, che sola può rendere appieno l’impressione che ho prodotto. Avevo una toilette deliziosa, una redingote di mussolina chiarissima, che lasciava vedere con la più grande arte le mie forme nel loro migliore aspetto ... Breve, siamo stati tre notti senza dormire ...».

  Queste indiscrezioni bastano a definire il temperamento e la levatura di questa emancipata signora di provincia, che amava le Muse e gli abiti trasparentissimi, scriveva «Staindal» invece di Stendhal, infiorando di errori d’ortografia le sue lettere, che riteneva destinate alla posterità. E fu a lei che Balzac dedicò nel ‘42 la ristampa della Grenadière, con questa dedica

 

A Caroline. A. la poésie, du voyage

Le Voyageur reconnaissant

de Balzac.

 

  La dedica scomparve, è vero, nelle edizioni posteriori. Ma allora la volubile damina, si era già tramutata in arpia, scrivendo le diffamazioni di La fausse position. Tale fu la compagna che Balzac si elesse per il suo viaggio a Torino. Un viaggio assolutamente romantico, durante il quale capitarono le più strane avventure. Di esso noi non avremmo oggi, attraverso la penna di Balzac, nessun resoconto, neppure nei suoi romanzi, se la linguacciuta Carolina non si fossa incaricata di trasmetterne accuratamente i particolari alla posterità. Ella infatti, parecchi anni dopo la morte di Balzac, ebbe la peregrina idea di rivolgersi un'immaginaria lettera del romanziere, nella quale era enfaticamente rievocato il galante itinerario da Parigi a Torino. E’ in grazia di questa cervellotica trovata, che la biografia di Balzac può arricchirsi oggi di dati gustosi e inattesi.

 

Parigi-Torino “en garçons”.

 

  Fu — secondo la Marbouty — una delicatezza di Balzac che la indusse, per mantenere l’incognito sulla onorabilità, del suo «nome col de», a indossare vesti maschili. Ella sarebbe così assolutamente sfuggita ad ogni indiscrezione di diligenza. E poi che spedito viaggiare, senza pacchetti, toilettes e minutaglie femminili! Naturalmente Carolina lasciò le spoglie donnesche per quelle maschili nella casa di Balzac, mentre la vettura attendeva nel cortile e i sonagli squillavano. Alla vestizione e alla partenza assisté anche l'eccellente Sandeau (mite Sandeau!). Della poca eroica figura che egli faceva in tutto questo amabile intrigo, Carolina dà questa disinvolta giustificazione psicologica:

  «... Giulio ci guardava con invidia. Questo sentimento, che forma la base del suo carattere, l'ha sempre dominato. L’invidia consiste ... nel desiderare ciò che gli altri hanno preparato o conquistato. Egli era incapace di organizzare. Era la sua natura...».

  E come avrebbe potuto, il povero Sandeau «organizzare» questa indiavolata donnina in cravache? Il viaggio non fu scevro da peripezie. I monaci della Grand Chartreuse non si lasciarono corbellare: fiutarono la donna e permisero la visita dell’ospizio soltanto a Balzac. Avvennero cose pazzesche. Carolina ebbe l’eccentrica idea di prendere un bagno in un ruscello ... La vettura minacciò di ribaltare, mettendo in pericolo la vita dei duo viaggiatori. Ma queste contrarietà non fecero che rendere più piacevole ed acuto quest’idillio in diligenza. «Voyage en garçons» lo ha definito Carolina. Ma questa dilettante dei sensi e delle Lettere, ha condito subito la definizione con uno spizzico d’ipocrisia: «Di galanteria, nemmeno una parola. Ognuno potrà pensare ciò che gli piacerà». E arrivarono a Torino.

 

La Capitale Albertina.

 

  Ecco Torino, le sue vie lunghissime, spaziose; le sue grandi piazze, non eccessivamente animate in quel tempo, ma ricche di quella dignità pittoresca che si ammira nelle vecchie stampe in rame. E’ Torino coi suoi edifici rosso-scuri, un po' severi, un po’ impettiti come se fossero stilizzati in una eterna etichetta. Ma oltre i balconi ridondanti e gli opimi cornicioni, ecco gli abbaini che si affacciano dall’alto coi loro ciuffetti di verde e le tendine rosso e gialle. E’ la Torino Albertina ma che non ha cessato ancora d’essere Carlina, grande urna dissepolta di vecchio rame dalla quale traboccano tuttavia frutti e fiori. L’arrivo di Balzac e della sua amica produce un certo effetto:

  «La nostra vettura faceva un gran fracasso attraverso le grandi vie deserte di Torino. Il nostro arrivo fu un avvenimento. Ero atteso …».

  Senza dubbio la fama di Onorato di Balzac si era largamente diffusa anche nella capitale del Piemonte. Dalla società di Parigi — ove Balzac viveva nell’intimità della duchessa di Castries e del duca Fitz James, della principessa Bagration e dei conti Apponyi, — l’eco del suo genio doveva essersi trasmessa, per la trafila delle relazioni aristocratiche fino alla società di Torino, che in quell’epoca era assai ben composta. Balzac e la sua amica scendono al Grand Hotel — l’attuale Hotel «Europa» — in piazza Castello, «presso il castello reale ...» cioè l’odierno palazzo Madama. L’arrivo dello scrittore è così segnalato dalla Gazzetta Piemontese del 2 agosto, nel movimento degli stranieri giunti a Torino: «De Balzac, possidente, di Toen (sic)...». Non è lusinghiero per l’autore di Vautrin.

  Ma in quell’epoca i quotidiani non avevano una pagina letteraria ...

 

Dalla contessa di Saint-Thomas.

 

  La Marbouty appena scesa all’Hotel, sebbene in abiti maschili non trae in inganno nessuno circa il proprio sesso. E poi il travestimento è per lei soltanto il pretesto per una mascherata letteraria. Ella pensa a un altro travestimento celebre: quello di Giorgio Sand in occasione del suo viaggio in Italia con De Musset. Naturalmente questo paggio troppo femminile suscita curiosità e muove sussurri. D'altra parte di questa agitazione pubblica si compiace lo spirito paradossale di Balzac. Egli giunge perfino a presentare come suo segretario nella più eletta società piemontese questa «garçonne» stile 1836. Sarebbe curioso sapere che cosa pensò della Marbouty il pio Silvio Pellico! Egli volle conoscere Balzac, che gli fu presentato insieme alla sua amica, dalla contessa Carron de Saint-Thomas, nata Guasco di Bisio. Del resto sembra che se Balzac fu accolto come un Principe delle Lettere, la Marbouty non sia dispiaciuta alle stesse dame torinesi.

  Vero è che Carolina aveva avuto il tatto di mutar panni, indossando una toilette femminile «semplice, elegante, tutt’affatto parigina» che ebbe la previdenza, di portare con sè. Poiché l'identità della Marbouty era ignota e Balzac, squisito mistificatore, godeva nel non svelarla, i convitati almanaccarono molto sulla piccante limosina. Le furono trovate somiglianze con la Sand. Al dessert fu portato un ritratto della scrittrice e il dubbio divenne realtà. «Mi divertivo a lasciarli nell’errore» ha scritto Carolina. Come errava e come lasciava errare volentieri, questa donna! La serata dovette essere magnifica e veramente intonata alla tradizione ospitale e sontuosa della aristocrazia torinese di quel tempo. Tutta l’Accademia era presente. Noi non abbiamo la descrizione magica del convito, con il candore dei lini, la sontuosità dei pesanti vasellami, il gioco smagliante dei vini nei limpidi cristalli, le livree dei domestici, i scintillanti grappoli dei lampadari nella cornice severa ed elegante di ori, di stucchi, di specchi e di broccati ... Ma la possiamo immaginare, attraverso il periodo fantasioso e, al tempo stesso preciso dell’autore della «Peau de chagrin». In quella memorabile serata brillarono la soave marchesa Di Barolo Colbert, la scintillante ambasciatrice di Francia marchesa De Rumigny, l’incantevole marchesa Roero di Cortanze, dama d’onore della Regina Maria Teresa, e tra gli uomini celebri o insigni, l’austero Silvio Pellico, dalla figura buia e quasi clericale, il conte Sclopis, futuro ministro della Giustizia, l’abate Gazzera, e l’avv. Colla, principe del Foro e botanico appassionato ed altri ancora. Tutta la bellezza, la grazia, l'aristocrazia e l’intellettualità della capitale di Carlo Alberto, adunate in quel salotto, di cui Balzac costituiva l’astro maggiore! No, non era certo un bell’uomo Onorato Balzac! La contessa Maffei ne scrisse:

  «Guardatevi dal farvi sì belle illusioni! E’ un uomo piccolo, grasso, paffuto, tutto rotondo, rubicondo ...».  Sì; ma la spirituale contessa deve aggiungere che i suoi occhi d’un nero intenso vi investono con uno strano sguardo di fuoco. E’ il leggendario sguardo balzachiano, tessuto di demoniaci scintillii: lo sguardo del genio. Ebbene, lo credereste? La farragginosa Carolina ebbe il coraggio di aversela a male perché quella gente corteggiava Balzac più di lei! E ne scrisse:

  «Niente mancò al vostro successo. Il mio fu ecclissato dal vostro. E, devo riconoscerlo, ne ebbi dispetto».

  Così ricompensava Carolina Marbouty il suo grande compagno, che nella esaltazione e nell’illusione ingenua del genio l’aveva presentata a quella squisita società, di autentiche dame, come una donna superiore. Creazioni dei grandi, delle quali non sempre si tiene conto!

 

Commedia a triste fine.

 

  Terminata la sua missione ed anche ... esaurito il danaro, Balzac e la sua stravagante compagna fecero ritorno a Parigi. E qui doveva attendere quest’uomo, già tanto provato, un grandissimo dolore. La avventura a Torino, fu scontata amaramente. Giungendo a Parigi Balzac apprese che la donna che lo aveva tanto amato, l’unica donna, forse, che lo amò e lo comprese, madame de Berny, la «Dilecta», come egli l’aveva appassionatamente denominata, era morta. In una lettera in data 1 settembre 1836 così lo stesso Balzac ne dà l'annuncio al conte Sclopis:

  «... un violento dolore m’attendeva. Ho perduto, durante la mia assenza, una persona che era la metà della mia vita, così che voi perdonerete il ritardo della mia lettera ...».

  E più sotto, questa riga che erompe, come una livida folgore in una taciturna notte dopo la tempesta:

  «Ho ripreso la vita del forzato letterario».

  Una riga soltanto; tutta una vita.

 

 

  Curio [Mortari], La tavola e la felicità, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 297, 12 Dicembre 1924, p. 3.

 

Frati, donne, scrittori.

 

  Balzac scrisse: «Gli uomini si appassionano per le donne che sanno preparar loro appetitose pietanze».

 

 

  Piero Nardi, Scapigliatura: da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Bologna, Nicola Zanichelli editore, 1924, pp. 336.

 

  p. 262. Rovani, componendo il suo romanzo ciclico, doveva guardare alla Comédie humaine di Balzac. Dossi vi guardava, ideando il piano generale dei Ritratti umani.

 

 

  Ugo Ojetti, Romanzi inglesi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 49, N. 50. 27 Febbraio 1924, p. 3.

 

  E’ che nelle donne il pubblico inglese, più fresco e infantile del pubblico nostro, ritrova nuova e incorrotta la gioia d’inventare e il gusto di raccontare: due qualità, al loro stato elementare, fuori dell’arte, più femminili che virili, ma pure, checché si predichi, non necessarie al romanziere, sia egli un vecchio fanciullo come Dumas o un gigante enciclopedico come Balzac.

 

 

  Alfredo Oriani, Gallia victa, in Fuochi di bivacco. Prefazione di Vincenzo Morello, Bologna, Licinio Cappelli editore, 1924, pp. 157-163 [8 maggio 1909].

 

  Cfr. 1913.



  Adolfo Padovan, Orgoglio punito, in Il Libro degli Aneddoti. Seconda Edizione riveduta e Aumentata, Milano, edito per ‘Bottega di Poesia’, 1928, pp. 219-220. 

  Il barone Giacomo Rothschild era grande amico di Balzac. Una volta il romanziere si recò dal barone Rothschild perché voleva fare un viaggio a Vienna e si trovava, come al solito, senza denari. Rothschild gli prestò tremila franchi e gli diede una lettera di raccomandazione per suo nipote, capo della casa Rothschild a Vienna.

  Durante il viaggio, Balzac aprì la lettera suggellata e le lesse, ma trovandola un po’ fredda, non la consegnò. Ritornato a Parigi, il barone Giacomo gli domandò se aveva consegnato la lettera. – No, rispose con orgoglio Balzac; l’ho ancora qui, eccola! – Mi dispiace, soggiunse sorridendo Rothschild, perché, vedi questo piccolo geroglifico sotto la mia firma? È un segno convenzionale che ti apriva un credito di venticinquemila franchi presso mio nipote. 


  A.[dolfo] Padovan, Le avventure dei grandi. Fra i colossi della penna, «La Domenica del Corriere. Supplemento illustrato del “Corriere della Sera”», Milano, Anno XXVI, Num. 9, 2 Marzo 1924, p. 7.

 

Penne e matite.

 

  Balzac inviava allo stampatore dei manoscritti molto brevi; quando riceveva le prime prove cominciava allora a svolgere su quelle il suo romanzo. «Cesare Birotteau» fu da lui scritto per intero facendo rifare 17 volte le bozze di stampa.


 

  Concetto Pettinato, Un pittore degli umili, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 44, 20 Febbraio 1924, p. 3.

 

  Raffaelli continua Balzac e Daumier, ma con un sentimento più intimo e caldo, poiché è solo negli ultimi anni del secolo che l’umanismo alla Balzac comincia a soffrire, a sentire, a interrogarsi oltre che a ritrarre. La visione si è andata indiscutibilmente restringendo, sfrondando.



 R., Da un giovedì all’altro. Balzac e il modo di camminare, «La Nuova Italia. Quotidiano della Libia», Tripoli, Anno XIII, N. 73, 27 Marzo 1924, p. 3.

 

 Balzac, in uno dei suoi giorni d’ozio si soffermò su uno dei boulevards per osservare il modo di camminare dei passanti. Osservò il modo di camminare di 250 parigine e ne ricavò una sequela di aforismi.

 Eccone alcuni:

 — Il modo di camminare è la fisionomia del corpo.

 — Lo sguardo, la voce, il respiro, il modo di camminare sono identici; ma poichè non è dato all’uomo di poter contemporaneamente vigilare su queste espressioni diverse e simultanee del suo pensiero, cercate quella che dice la verità e conoscerete l’uomo.

 — Vi sono dei movimenti di gonna che valgono un regno.

  — Ogni movimento senza grazia tradisce un vizio o una cattiva educazione.

 A conforto di queste sue citazioni Balzac citava il seguente aneddoto: Durmstadt condusse le sue tre figliuole dall’imperatrice, perché sua maestà scegliesse tra loro una moglie al Duca. L’imperatrice, prima ancora che le ragazze avessero aperto bocca, aveva già presa la decisione favorevole per la seconda.

 La principessa stupefatta, le chiese spiegazione dell’istantaneo giudizio.

 — Le ho guardate tutte e tre dalla finestra — rispose l’imperatrice — mentre scendevano di carrozza. La maggiore ha fatto un passo falso, la seconda è scesa naturalmente; la terza. è balzata sul marciapiede. La maggiore deve essere malaticcia; la terza stordita: dunque preferisco la seconda.

 

 

  Luigi Sbragia, Un editore stampatore eccezionale, «Il Risorgimento grafico. Rassegna mensile d’arte applicata al libro ed alla pubblicità», Milano, Anno XXI, Numero 9, 30 Settembre 1924, pp. 373-376, ill.

 

  Onorato Balzac, il geniale e prodigioso maestro del romanzo moderno, aveva diviso gli anni dell’infanzia tra le monotone mura della casa paterna a Tours e la forzata reclusione a Vendôme in un collegio di religiosi che lo ritennero non soltanto inadatto allo studio, ma assolutamente incapace del minimo sforzo intellettuale.

  La indovinarono proprio giusta! A quindici anni, seguita la famiglia paterna a Parigi, vi riprese i suoi studi e si laureò in legge.

  Il padre ne voleva fare un notaro: egli invece dichiarò di volersi dare alle lettere. Si mise in aperta lotta, fu costretto ad abbandonare la famiglia e visse in una stanzetta col modesto mensile assegnatogli dal padre, dandosi con fervore al romanzo. Ma i suoi primi tentativi non ebbero fortuna. Apparvero scritti in uno stile involuto e pesante, qualche volta troppo rude, ornato di orpelli sentimentali e religiosi dai quali, nemmeno in seguito riuscì a liberarsi completamente, uno stile che sta a quello rutilante d'immagini d’oro del suo grande contemporaneo Victor Hugo come un getto di bronzo ad un prezioso e delicato cesello. Ma a quale potenza, a quale altezza doveva poi assurgere ne’ suoi scritti il creatore del romanzo realista!

  E quale strano e originale modo di lavorare era il suo! Quando aveva ideato il soggetto di un romanzo, ne tracciava l’informe schema su pochi foglietti quasi indecifrabili e li consegnava allo stampatore. Poi sulle prime bozze di quel suo breve scritto incominciava ad ammassare per lungo e per largo una tal quantità di modificazioni e di aggiunte – specialmente di aggiunte – da far dannare il più esperto e paziente dei compositori. Le bozze gli ritornavano dieci, dodici volte, ampliate e corrette, e sempre le restituiva infarcite di varianti e di aggiunte. Così la primitiva traccia spariva e l’opera, a poco a poco, si disegnava intera e corretta.

  Il suo Père Goriot giunse alla ventesima revisione!

  Egli terrorizzò talmente gli operai compositori che essi, nei loro contratti di lavoro, vollero inserita la clausola di non dover mai fare più di un’ora al giorno di «Balzac».

Ma non è mia intenzione di parlare dello scrittore, di quegli che fu uno dei più grandi pensatori e filosofi del secolo scorso, bensì di rendere noti alcuni lati meno conosciuti – e forse ignorati – della sua vita agitata e della sua multiforme attività.

  I primi anni che Balzac trascorse solo a Parigi, furono pieni di aspre e incessanti lotte che non riuscirono però a fiaccare la sua meravigliosa energia nè a far vacillare un solo istante la sua rigida volontà. Voleva raggiungere a qualunque costo lo scopo che si era prefisso: la notorietà e la ricchezza. Accortosi che non poteva realizzare rapidamente nè questa nè quella, si diede a speculazioni finanziarie e industriali le più strane, le più inadatte al suo temperamento (fra esse ve n’è perfino una sullo sfruttamento di una miniera in Sardegna) e abbandonò l’arte alla quale doveva poi tornare con rinnovato fervore: o meglio, se ne allontanò, ma non di troppo, poiché per suo primo tentativo scelse proprio quella industria che con l’arte sua era più intimamente collegata. Aveva sperato d’essere l’idea creatrice, divenne la forza che le dà forma: si unì ad una società che eserciva una stamperia in via Marais Saint Germain, ed è questo uno dei lati più bizzarri della sua multiforme attività.

  In quella stamperia si stavano allora pubblicando, in edizione illustrata, le opere del La Fontaine, per le quali il Balzac stesso aveva anzi scritto una prefazione di notevole acume critico e di aggraziata, e per lui insolita, finezza.

  La società però si disciolse quasi subito ed egli rilevò per proprio conto la stamperia.

  Fu detto che egli prendesse tale determinazione per venire in aiuto di un operaio stampatore, tale Barbier, che associò alla sua disgraziata impresa. Infatti il nome del Barbier figura con quello del Balzac sulle fatture della stamperia della «rue Marais Saint Germain».

  Ma il Balzac, sia per il suo temperamento, sia perché ossessionato dallo stimolo di assicurarsi una rapida fortuna, non poteva pensare a fare il filantropo: ed io opino, a ragione, che egli si associasse il Barbier per avere vicino chi gli potesse essere largo di aiuto e di consigli nella non facile prova che tentava.

  In verità, il Balzac nella stamperia, fu tutto: proprietario, editore e ... compositore.

  Sarebbe curioso conoscere se, componendo i propri scritti qualche volta indecifrabili a lui stesso, pensò mai a ... non voler fare più di un’ora al giorno di «Balzac»!

  Il Balzac ebbe subito l'intuizione geniale della pubblicità e di tutto il vantaggio che se ne poteva ritrarre; ma egli arrivava troppo presto: a quei tempi la pubblicità non era – come la si suole chiamare oggi – «l’anima del commercio» e i profitti non furono quali egli sperava.

  In ogni modo ne fece lo scopo quasi principale della sua industria, e il conte Primoli di Roma possiede una raccolta di edizioni uscite dalla stamperia del Balzac e da lui stesso composte come l’«Annuaire de la Société de Médecine de Paris» e di pubblicazioni – diremo così – réclamistiche, fogli volanti nei quali si vantano rimedii, e nuovi prodotti dei quali modifica perfino il nome, e specialità farmaceutiche. Il titolo di una di queste, Le trésor des poumons, è una vera trovata! Si hanno pure composti da lui, Les remèdes de bonnes femmes, la Instruction sur l’emploi des pilules antiglaireuses de longue vie e un volumetto, il Traité des maladies des enfants nouveau-nés à la mamelle. Quest’ultimo è corredato da varie tavole contenenti molte figure a colori, e ciò, se non dimostra di essere un’assoluta novità nemmeno per quel tempo (nel diciottesimo secolo abbiamo alcuni tentativi del Gautier-Dagoty), fa almeno supporre che la stamperia del Balzac fosse fornita di un macchinario assai perfezionato.

 

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  Ma gli affari andarono a rotta di collo e la tentata speculazione finì con un fallimento: il Balzac fu costretto a vendere a basso prezzo tutto il suo materiale.

  Alla sua vita di stampatore il Balzac alluse poi nei suoi scritti: la storia della stamperia di Séchard nelle Illusions perdues è quella della sua stamperia; il fallimento di Cesar in César Birotteau è il suo fallimento. Anche nella Comédie humaine, suo capolavoro immortale, vi sono ripetuti accenni a questa sua disgraziata speculazione. Dopo questa ne tentò subito un’altra, improvvisandosi ... fonditore di caratteri! Ma di tale nuova sua industria, che ebbe pur essa una vita brevissima, si hanno poche ed incerte notizie. Uno dei suoi ultimi tentativi (e già tale speculazione finanziaria lo riavvicinava all'Arte che aveva abbandonato) fu la pubblicazione della Petite Revue parisienne che nel formato, nei tipi e perfino nei titoli imitava le Guêpes di Alphonse Karr.

  Ma la Petite Revue non visse che tre mesi soltanto, e il Balzac, oberato dai debiti, si diede di nuovo alle lettere e li pagò con un’esistenza di lavoro indefesso, non concedendosi un istante di tregua.

  Chi ammira oggi la poderosa opera Balzachiana stenterebbe a credere come fosse trattata con disprezzo sui giornali e sulle riviste da degli scrittorelli cretini, presuntuosi e invidiosi. Ma egli aveva sicura fede nell’avvenire e vedeva già levarsi all’orizzonte l’astro radioso della sua gloria. Poteva ben rassegnarsi se non gli aveva sorriso il rapido successo nelle tentate imprese commerciali. Se soltanto una fosse riuscita, il mondo non potrebbe oggi ammirare l’opera colossale dello scrittore, salda e intatta come un masso di granito.



  Arturo Segre, Bibliografia. Recensioni. Malvezzi A., “Il Risorgimento Italiano in un carteggio di patriotti lombardi. 1821-1850, Milano, Hoepli, 1924, pp. XV-577, «Il Risorgimento Italiano», Torino, Nuova Serie, Vol. XVII, Fasc. III, Luglio-Settembre 1924, pp. 526-531.

 

  pp. 530-531, nota (1). Ad es., il Collegno informa il 1 aprile 1837 che il Balzac, sceso in Italia, lasciava divulgare a Parigi di adoperarsi per la restituzione dei beni al conte Luigi Guidobono (sic) Cavalchini da parte del governo austriaco (p. 125). — Sul viaggio del grande scrittore, oltre lo studio del Gigli, cit. nel Carteggio, v. ora per la breve residenza a Torino H. Prior, Balzac à Turin in Revue de Paris, 1924, 15 gennaio, pp. 360-404.

 

 

  Sfinge [Eugenia Codronchi Argeli], La gaia scienza. Novelle, Roma-Milano, A. Mondadori Editore, 1924.

 

Il bacio della gloria.

 

  La voce di Santoro (che aveva finito di leggere e si era disteso sulla comoda poltrona accanto al fuoco) disse: «Sì. L’éminent confrère si degna rendere l’onore delle armi al nostro grande! Ma non lo fa di buon animo ... Si sente che avrebbe dato chi sa cosa per trovargli dei difetti. Ma li ha cercati invano. Quel ragazzo è arrivato veramente ad un’altezza ... vertiginosa! Dopo Balzac, non so davvero che nome pronunciare prima del suo!».



  Aldo Sorani, Segreti di scrittori, «La Stampa», Torino, Anno 58, Num. 277, 19 Novembre 1924, p. 3.

 

  Con facilità assai maggiore scrive H. G. Wells. Egli non ha certo eccessive preoccupazioni stilistiche, ma a guardar qualcuno dei grandi fogli in cui questo autore così prolifico depone i primi getti del suo pensiero, se ne vedono a ogni tratto partire lunghi fili che conducono ai margini, a sostenere con agilità larghi segui circolari, palloni pieni di idee sopraggiunte e da aggiungere, che talvolta, invece di rimaner sospesi in alto, s’afflosciano anche nel bel mezzo della pagina o la penetrano di fianco. E il pensiero corre, anche suo malgrado, a certe bozze di Balzac, da cui le correzioni sprizzavano ad ogni riga come tanti fuochi artificiali filanti da stelle d’ogni dimensione. Balzachiana è certo, almeno quanto alla mole e alla varietà l’opera di Wells, frutto d’una foga e d’una costanza indomabili.



  Tantalo, Cose viste. France in Italia, «Corriere della Sera», Milano, Anno 49, N. 98, 24 Aprile 1924, p. 3.

 

  Si trovava una sera lì nel salone comune a sorbire il suo caffè quando un amico gl'indicò su una poltrona cardinalizia tra due palmizi: in vaso; Matilde Serao. L’illustre scrittrice circondata da colleghi e da amici, parlava e gestiva col fragoroso fervore che è suo proprio. France pensò che era suo dovere andare a riverirla. Timido e cauto, a piccoli passi le si avvicinava di fianco come ci si avvicina ai cacciatori che hanno il fucile caricò e spianato, ed era già a due metri da lei quando la signora Serao, a non so che aneddoto o facezia, scoppiò in una risata così tonante che Francò dette un sobbalzo e, com’era venuto, se ne tornò quatto quatto al suo posto senza parlarle. Re del sorriso, quel riso vesuviano e scrosciante gli aveva fatto tremare il trono: dovette sembrargli prodigioso come il tuono ai bambini. Quando poi in ore più calme la conobbe, le narrò egli stesso quel primo incontro e il suo spavento, e concluse: — Madame, je vous admire. Je n’ai jamais, hélas, entendu rire Balzac; mais il devait rire comme vous riez. C’est déjà beaucoup.

 

 

  I. Z., Corriere viennese. […]. Futili cause di grandi decisioni, «Corriere della Sera», Milano, Anno 49, N. 164, 10 Luglio 1924, p. 3.

 

  Come sono tesi i nervi della stanca umanità! Voltaire e Balzac si beffavano volentieri del suicidio, considerandolo romanticheria senza proseliti fidati, ideale da vagheggiare a parole, ben guardandosi dal tentare di raggiungerlo […].

 



[1] Cfr. Léo Larguier, Mon voyage autour de Paris. La Maison de Balzac, «Le Petit Journal», Paris, 3 Février 1924, p. 1.

[2] Cfr. Henry Prior, Balzac à Turin, «Revue de Paris», II, Janvier 1924, pp. 360-404 e «Intemédiaire des Chercheurs et des Curieux», 10, 20, 30 Septembre 1919.

[3] Cfr. Marcel Bouteron, Le culte de Balzac, «Revue des Deux Mondes», Quatre-vingt-quatorzième année, 15 Mai 1924, pp. 440-456.

[4] Cfr. Henry Bidou, Les Livres. André Bellessort. «Balzac et ses œuvres», «Les Annales politiques et littéraires», Paris, N° 2149, 31 Août 1924, pp. 225-226.

[5] Cfr. Louis Hosotte, Un ami de Balzac: Charles de Bernard, romancier méconnu, «La Revue hebdomadaire», Trente-troisième Année, Vol. IX, 6 Septembre 1924, pp. 88-100.

[6] Cfr. Camille Bellaigue, Balzac et la musique, «Revue des Deux Mondes», Vol. XXIII, 1er Octobre 1924, pp. 682-697.

[7] Cfr. J.-W. Bienstock, Dostoiewski et Balzac, «Mercure de France», Vol. CLXXVI, 1er Décembre 1924, pp. 418-425.

[8] Cfr. André Bellesort, Dix conférences de la «Société des Conférences», sur Balzac, «Revue hebdomadaire», XXXIII Année, Volumes II, III, IV, 2 Février-19 Avril 1924.

[9] Cfr. Henry Prior, Balzac à Turin, «Revue de Paris», 31e année, N. 2, 15 Janvier 1924, pp. 360-404.


Marco Stupazzoni

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