venerdì 30 marzo 2018



1916


Traduzioni.


   Onorato di Balzac, I Celibi. II. Casa di scapolo di Onorato di Balzac, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1916 («Biblioteca Amena», N. 738), pp. 287.

  Cfr. 1908.


  Onorato Balzac, Cesare Birottò. Romanzo di Onorato Balzac. Traduzione italiana di Galeazzo Falconi, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1916 («Biblioteca Amena», N. 729), pp. XI-308.

  Cfr. 1907.


  Onorato de Balzac, Fisiologia del matrimonio o Meditazioni sulla felicità e la infelicità coniugale, Firenze, Adriano Salani, Editore, 1916 («Biblioteca Salani Illustrata», N. 20), pp. 255.

  Cfr. 1885; 1894; 1896; 1898; 1901; 1902; 1905; 1909.


  Balzac, Memorie di due giovani spose. Versione italiana di Laudomia Capineri Cipriani, Firenze, Adriano Salani Editore, 1916 («Biblioteca Salani Illustrata», N. 302), pp. 301.

  Cfr. 1906.


  Onorato Balzac, I Celibi. I. Pierina. Il Curato di Tours, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1916 («Biblioteca Amena», N. 737), pp. 260.

  Cfr. 1907.


Studî e riferimenti critici.


  La divoratrice, «La Stampa», Torino, Anno 50, Num. 113, 22 Aprile 1916, p. 5.

  [La cinematografia] Ha demolito Victor Hugo, ha scoperto Balzac, ha svaligiato Sardou, ha saccheggiato Ponson du Terrail, ha mutilato Dumas, ha diffamato Faubert, ha espurgato il Boccaccio, ha spolpato Walter Scott, ha spelacchiato Edgard Poe, ha deformato Conan Doyle, ha schiumato, raschiato, spremuto delle intere biblioteche.


  Piccola Posta, «Il Lavoratore. Organo della Federazione Socialista della Venezia Giulia», Trieste, Anno XXII, N. 349, 19 Settembre 1916, p. 2.

  Lettrice malata - Pisino. Eccovi alcuni ro­manzi dei tantissimi del titanico Onorato di Balzac: «Papa Goriot», «Eugenia Grandet», «La cugina Betta», «Il cugino Pons», ecc. Ma questi capilavori perdono molto nella traduzione italiana.


   Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 41, Num. 287, 15 Ottobre 1916, p. 2.

  Su: E. Mouton, L’art d’écrire un livre, de l’imprimer et de le publier (1896).

  Balzac, nella sua Fisiologia del sigaro, e anche altrove, consiglia di tenersene lontani [dal tabacco]. «L’abuso del sigaro – egli scrisse – fomentava la pigrizia di Lousteau. Il tabacco addormenta il dolore, ma distrugge immancabilmente l’energia». […].

  L’asserzione secondo la quale i poilus non sarebbero altro che gli artiglieri «sembra audace ad uno scrittore del Petit Parisien, il quale osserva che i pontieri avrebbero il diritto di reclamare, appoggiandosi su un passo del “Médecin de campagne” di Balzac, scritto fra il 1832 e il 1833, dove si legge quanto segue: “Il mio uomo è un pioniere della Beresina, che ha contribuito a costruire un ponte sul quale è passato l’esercito e per fissare i primi cavalletti è entrato nell’acqua fino alla vita. Il generale Eblé, comandante dei pontieri, non ha potuto trovarne che 42 abbastanza “poilus” da intraprendere un simile lavoro”. Peraltro, l’autore della “Commedia umana” era molto affezionato a questo vocabolo, ed in altri passi dei suoi romanzi lo usò per indicare un uomo forte, risoluto, valoroso”».


  Punti, appunti e puntini … Una conferenza di Giuseppe Gigli, «Corriere Meridionale», Lecce, Anno XXVII, N. 43, 7 Dicembre 1916, p. 1.

  Giuseppe Gigli, il nostro valoroso, dotto ed elegante scrittore e poeta, ora docente di Lettere italiane nel R. Liceo «G. B. Niccolini» di Livorno, inscritto tra gli oratori per il corso di Lettere e Conferenza in quella Università popolare col Momigliano, il Patrizi, il Lattesi, lo Stiattesi, il Lanzillotti, il Lazzareschi, ecc., ha tenuto, il 25 dello scorso novembre, dinanzi ad un uditorio folto ed eletto, una conferenza su Balzac.

  La vita e l’opera mirabile del grande scrit­tore francese, dell'autore di quella «Comme­dia umana», per cui Victor Hugo ebbe a dire «il Balzac lascierà incisa nella storia l’opera sua grandiosa che più che la commedia umana si potrebbe chiamare con una parola sola: la vita», è stata largamente tratteggiata, splen­didamente lumeggiata dall’egregio oratore, il quale ha avuto per iscopo principale, nel parlare del romanziere facondo ed acuto, di richiamare l’attenzione su l’opera balzacchiana e portare al Balzac, come merita, qualche let­tore di più.

  La bella conferenza, elegante, spigliata, fio­rita di giuste osservazioni e riboccante di sin­cera ammirazione per lo scrittore illustre, in­terrotta, più volte, nei punti salienti, da ap­plausi vivissimi, è stata coronata, in fine, da un applauso caldo, unanime, prolungato.


  Come nacquero i “Préludes” di Chopin, «Il Lavoratore. Edizione serale», Trieste, Anno XXII, N. 427, 21 Dicembre 1916, p. 2.

  Allora il romanticismo stava conqui­stando il mondo, e Chopin si trovò a posto, col suo temperamento romantico, nei ce­nacoli della nuova o rinnovellata scuola artistica. Egli frequentava i salotti più in voga, trovandosi spesso a tu per tu con i principi delle lettere e delle arti, con i pensatori come Lamennais, con i poeti co­me Hugo, Lamartine, de Musset, con altri esuli come Enrico Heine, con giganti del­l’arte come Onorato Balzac, con Liszt, con Gautier, con Giorgio Sand. Da quella so­cietà composita, che metteva vicinissimi repubblicani e legittimisti, sognatori del ri­torno dell’impero o dell’avvento della Congregazione e socialisti della prima aurora, Balzac poteva trarre i suoi tipi immortali, narrando sotto velati nomi un idillio di Lamartine, l’amore di Liszt per la contes­sa d’Agoult – dal quale nascerà Cosima Wagner – l’amore di Chopin per Aurora Dudevant, mascolinizzata in Giorgio Sand.


  Diego Angeli, I volti di Parigi, «L’Illustrazione Italiana», Milano, Anno XLIII, N. 37, 10 Settembre 1916, pp. 225-227.

 

  La vita estiva.

 

  p. 226. Debbo confessare che io ho una predilezione speciale per le grandi città nei giorni canicolari: riacquistano un poco del loro aspetto artificiale e cosmopolita, ridivengono quello che erano state un tempo o per lo meno quello che noi ci immaginavamo fossero state quando Delfina di Nucingen faceva la sua scarrozzata pomeridiana al Bois de Boulogne, e il bel Rubempré si sedeva spensieratamente d’innanzi un tavolino del Grand Véfour, o Rastignac inseguiva i suoi sogni di ricchezza e di gloria sotto gli alberi polverosi dei Boulevards.


  Bric-Brac, Sprizzi e sprazzi, «Il Lavoratore», Trieste, Anno XXII, N. 216, 6 Aprile 1916, p. 1. 

  Un motto ogni tanto.

  È di Balzac:

  La metà della società passa la vita ad osservare l’altra metà.


  Bric-Brac, Sprizzi e Sprazzi, «Il Lavoratore. Organo della Federazione Socialista della Venezia Giulia», Trieste, Anno XXII, N. 225, 17 Aprile 1916, p. 1.


Un motto ogni tanto.

  Di Onorato Balzac.

  A lungo andare succede d’una professione ciò che accade del matrimonio: non se ne avvertono che gli inconvenienti.


  [Albert Cim], L’Igiene del lavoro intellettuale, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Anno XXVI, Vol. XXXVI, N. 23, 1° dicembre 1916, pp. 1068-1070.


Gli effetti dell’alcool e del caffè.

  p. 1069. Nei suoi consigli ai letterati, Eugène Mouton loda anch’egli con entusiasmo le virtù del caffè: osserva, però, giustamente, che l’abuso n’è pericoloso come ogni altro, e che spinto oltre un certo limite produce gli stessi disordini nervosi, intellettuali e digestivi dell’alcoolismo. Infatti di Balzac, il quale ne beveva ogni notte chicchere innumerevoli e fortissime, si è potuto supporre che l’eccesso non sia stato ultima causa della sua morte, avvenuta a cinquanta anni e pochi mesi (sic). […].


Il tabacco.

  p. 1069. In quanto a Balzac, sebbene Lamartine affermi che «aveva i denti anneriti dal fumo del sigaro», è dubbio ch’egli abbia fumato molto, se pur mai; nelle sue opere egli condanna più volte il tabacco: «L’abuso del sigaro accresceva e manteneva la pigrizia di Lousteau. Se il tabacco addormenta il dolore, esso intorpidisce infallibilmente l’energia».


Buone abitudini.

  p. 1070. Stendhal racconta in una lettera a Balzac che, mentre componeva la «Certosa di Parma», leggeva ogni mattina due o tre pagine del Codice civile, per essere sempre naturale. […].

  La tonaca monacale, in cui si avvolgeva Balzac, è molto pratica, d’inverno; d’estate sarebbe meglio sostituirne il panno pesante con stoffa più leggiera.


  Luigi Einaudi, Il prezzo del carbone e le spese connesse col porto, «Corriere della Sera», Milano, Anno 41, Num. 16, 16 Gennaio 1916, p. 2.

  Sarebbero necessarie la competenza vissuta di un negoziante e la penna di un Balzac per compiere il quadro.


  Raffa Garzia, Matilde Serao, Rocca S. Casciano, Licinio Cappelli, Editore, 1916.

  p. 4. Prima di arrivare a Onorato Balzac i Francesi hanno avuto bisogno di due secoli di prove e di riprove, a cominciare da un altro Onorato, Onorato d’Urfé […]. […].

  pp. 20-22. Ma tornando allo ‘svolgimento’, poiché non ne fa parola il Morello, s’è costretti a rifugiarci nelle ipotesi; mi pare, tuttavia, che in cotale impiccio la fortuna sia dalla nostra; perché anche in Francia Gualtiero Scott fece furore; all’ap­parire de’ suoi romanzi tutti divennero scottiani, il De Vigny, il Mérimée, Vittore Hugo, Dumas padre; proprio nel 1827 Onorato Balzac incominciò a scrivere Les Chouans: il titolo dice tutto. Oh! Allora, vediamo lo ‘svolgimento nazionale ’ del romanzo in Francia. Lo conosciamo tutti; mettendo da parte Vittore Hugo che molti giustamente considerano un so­litario, si ha all’alba del 1830 (è di quest’anno la Fisiologia del matrimonio) l’arte realistica del Balzac, e contemporaneamente l’idealismo romantico di Giorgio Sand; quindi, lo spi­ritualismo del Feuillet, la formula verista del Flaubert, il naturalismo dello Zola, del Daudet e dei De Goncourt, il psicologismo del Bourget ..., e tralascio gli altri perché già fuori del mio studio. E in Italia? La stessa vicenda! […].

  Esagera­zioni; sentimmo l’efficacia della letteratura romanzesca d’ol­tralpe, ma non quanto si crede, e ad ogni modo presso i no­stri migliori scrittori con quella corretta indipendenza dai modelli che toglie di mezzo l’accusa di schiavitù dello stra­niero (esempio tipico, il romanzo naturalista che pe’ critici dilettanti è una provincia francese in Italia, e in realtà, per ciò che pare dia sostanza al giudizio, si restringe ad un nome, ed ha pure un suo gran vigoro questo!, come diremo). Ma non si pone mente ai fattori sociali e morali che favorirono il sorgere delle diverse formule, e però non si avverte che a mezzo l’Ottocento “le tendenze dell’arte narrativa erano le stesse in Francia, in Inghilterra, in Italia, quantunque negli effetti apparisse la diversa indole delle diverse letterature”; già, non si ricorda che il Romanticismo, il quale “rappre­sentò la coscienza dei tempi nuovi”, sorse contemporanea­mente tra le varie genti d’Europa, e che a parità di cause e di circostanze succede parità di effetti. Niente di strano nel successo che un autore può avere in una nazione, effetto di casuale consentimento di idee e di gusti; stranissimo che il succedersi di tendenze, di aspirazioni, di forme diverso, trovi sempre consenziente quell’altra nazione, eccetto che non si tratti d’una logica e naturale evoluzione, avvenuta per il co­spirare delle stesse ragioni (i germi che si contenevano nel Romanticismo) e aiutata da eguali circostanze (i fattori sociali e morali).

  - Per esempio: per balzacchiani che si sia, volere che la formula e il magistero dell’arte realistica ci sia stata data dalla Commedia umana, ... proprio a noi che l’una e l’altra avevamo già da secoli in un’altra Commedia, è un po’ troppo. Osservatore potente e descrittore della realtà (quantunque ristretta in determinati confini): creatore di tipi nei quali è bella e vigorosa impronta di umanità: analista acuto e spie­tato dei moti del cuore, non v’ha dubbio; ma anche, l’autore del Giglio nella valle, un romantico e dei più sentimentali, e d’una fantasia romanzesca che con lo studio della realtà e peggio ancóra con il titolo di Maestro e donno della loro scuola che gli conferirono i naturalisti, non sempre ha molto a che fare. Di gran lunga miglior pittore della realtà il nostro Manzoni; egli la seppe riprodurre con quella misura che non ne altera la nitidezza ed è immagine insieme di decoro e di compostezza; non ciò che cade sotto i sensi, solo, ma i rap­porti ideali che son tra le cose, la vita che queste hanno in se stesse e quella che assumono in noi, sempre con un giusto senso di verità che è poesia: critici insigni l’hanno dimostrato, e io non mi ci indugio. Domando solo: la vena di realismo che spiccia nell’Ottocento nei campi della nostra arte narra­tiva, viene proprio da qualche cortile dell’immane fabbrica balzacchiana — così poco ammirata tra noi, nonostante lo zelo dei feticisti ..., anche allora —, o non dobbiamo piuttosto cre­dere (se vogliamo trovarne la polla più prossima) che gema da quel Romanticismo dal quale provenne il Balzac quanto in Italia ne fu anima il Manzoni? La natura della nostra cosidetta rivoluzione che risalì alle origini dell’arte nazionale, tra l’altro accentuò in noi la tendenza a raffigurare vivamente il reale che di quell’arte fu sempre, fin dagli inizj della nostra letteratura, una delle norme più salde e sane. […].

  p. 25. Povero Mastriani! Che cosa gli è mancato per diventare lo Zola italiano? L’arte, certamente; ma anche la tradizione egli non aveva dietro alle sue spalle duecento anni di storia di romanzo, e, sintesi della storia del suo tempo, Onorato di Balzac”. Niente panettone o plum cake, egregio Morello; mancò a lui, come al Ranieri (migliore questi, nel raffronto, ma mediocre anch’e­gli!), al Dall’Ongaro, al Guglielmucci, proprio “l’educazione filosofica, letteraria, scientifica” che è necessaria allo scrittore […]. Li avevano pur costoro alle spalle duecento anni di storia; e dietro avevano anche una sintesi’, l’autor di un romanzetto dove si parla di pro­messi sposi, e che, a detta di Gaetano Negri, “sembrò prevenire il Balzac e lo Zola nel porre le grandi basi della let­teratura e dell’arte moderna”. […].

  p. 45. Conviene aggiunger sùbito che la Serao non usò più simile tono declamatorio (quello della chiusa di Palco borghese è alquanto smorzato); sì che ne ebbe un qualche bene il sentimentalismo che in lei avevano favorito, oltre la stessa natura femminile, la vita povera e grama, l’ambiente della Scuola Normale e, in fine, la consuetudine letteraria che s’era formata tra noi, e più propriamente a Milano, con l’opera romanzesca del Verga della prima maniera, cui arrideva allora la meglio fortuna. Ricorda il Morello di quegli anni: “Noi non avevamo letto ancóra Feuillet, non avevamo letto ancóra Dumas figlio: e leggevamo Verga. E attraverso i romanzi di Verga vedevamo la vita del teatro e la vita dei salotti: su quei romanzi noi apprendevamo l’arte di tutti gli scetticismi e di tutti gli amori: su quei dialoghi spezzati, inconcludenti, appassionati, noi modellavamo la nostra forma nel parlare e nel trattare. E per molto tempo ancóra avemmo nell’orecchio il colpo di pistola con cui si uccise, a piè del letto d’una morta, l’eroe di Eros; per molto tempo sentimmo ancóra nelle carni il colpo di spada con cui fu ucciso, in una fredda mattinata di febbraio, l’eroe di Èva”. Eran gli ultimi guizzi del romanticismo arteficiato che aveva tolto naturalezza e verità alla visione della vita e al concetto dell’arte, abbandonandosi agli eccessi della fantasia, nonostante che al realismo del Balzac fosse seguito il verismo del Flaubert, a che anche tra noi fossero stati chiari indizi di simile evoluzione: l’estremo pervertimento della cosidetta scuola romantica, smarritasi dapprima dietro i Promessi sposi, logoratasi dipoi nel riprendere gli elementi estranei al nostro genio artistico che il Manzoni appunto aveva ripudiato, fattasi in ultimo troppo povera di concetti morali per poter intendere ed esprimere i nuovi problemi della coscienza moderna. […].

  pp. 70-71. Giudicando aspramente, come si conveniva. Cuore infermo, il Nencioni [Cfr. Nuovi saggi critici di letterature straniere, 1909] si trattenne a osservare quali scrittori avessero avuto maggiore efficacia sulla Serao; ritrovò così a volta a volta nel romanzo tracce di Emilio Zola e dei De Goncourt, del Flaubert e del Daudet, del Balzac e di Giorgio Sand; mezza letteratura francese ... (tanto che per pareggiare le partite e le nazionalità le consigliò un altrettanto di letteratura inglese!). […].

  Certo la Serao molto lesse e ammirò il Balzac; già, bene detto, e credo dal Morello, che balzacchiano è il suo ingegno stesso; ma la maggiore sua simpatia fu allora per la Sand. […].

  p. 86. Dialogo sobrio [tratto da Cuore infermo], quasi tutto, e vibrato, che procede spedito alla conclusione sulla guida de’ due elementi onde l’ha com­posto l’autore: né in esso, se trionfa l’amante perde la donna altera, perché la vigoria della rappresentazione conferisce dignità al dolore dell’una e alla passione dell’altra. Qualcosa di particolare, dunque, che esclude — si pensi alla Sand o al Balzac — l’imitazione. […].

  p. 213, nota (3). Anche Paolo Bourget nella prefazione alla traduzione francese del Paese di cuccagna (Parigi, ed. Plon. 1899): «Elle est ... plus voisine de M. Emile Zola que de Balzac: et, en fait, le Pays de cocagne n’est-il pas un Assomoir (sic) napolitain? […]».

  pp. 240-242. Questa la legge, con le relative eccezioni, dell’amore-passione della Serao. L’abbiamo ricomposta tutta ne’ suoi varj elementi non per esaminarla al lume di una qualunque dot­trina etica, ma per mostrare come essa sia la creazione arte­ficiosa che avevamo detto, interamente personale, frutto non di molte e secure esperienze e meno ancora d’una meditazione severa sui fatti dello spirito, ma di fantasia esaltata da let­ture romanzesche, da quelle segnatamente del Balzac e della Sand.

  Non è difficile ritrovarvi ciò che è proprio di ciascuno di questi, specie se per il Balzac ci serviamo delle Memorie di due giovani spose, il romanzo in cui il grande autore della Commedia umana fece un’analisi attenta e fine delle tre forme dell’amore: l’amore-passione, il fisico e il sociale. In esso Luisa di Chaulieu incarna il primo aspetto; è la ragazza che ha passato gli anni della prima giovinezza in convento a so­gnare un “ mondo di maraviglie” …, “quei sorrisi che fan­no bella la natura, quelle parole affascinanti, quella feli­cità sempre data e sempre ricevuta, quelle tristezze prodotte dall’assenza, quelle gioie che la presenza dell’essere amato prodiga”, … “ quell’amore che fa battere un cuore quando si ode un passo, che si commuove profondamente al minimo suono della voce o quando uno sguardo infocato c’investe” … Luisa s’è inebriata del profumo di questi “ fiori dell’anima” e quando le raccontano la storia d’un povero diavolo di ca­meriere che si era fatto uccidere per un solo sguardo d’una regina di Spagna: – Egli non poteva che morire — risponde. Però è naturale che tra le qualità dell’uomo che solo potrà piacerle ponga anche queste: “Tutti i suoi pensieri devono essere d’un genere nobile, elevato, cavalleresco, senza alcun egoismo. Da tutte le sue azioni sarà sbandito assolutamente il calcolo o l’interesse ... Potrebbe anche darsi che passasse la sua vita senza amare davvero, dimostrando tutte le qualità che possono ispirare una passione profonda. Ma se troverà un giorno il suo ideale di donna, di quella intravveduta nei sogni che si fanno ad occhi aperti, ma se incontrerà un es­sere che lo comprenderà, che gl’invaderà l’anima e getterà nella sua vita un raggio di felicità, che brilli per lui come una stella fra le nubi di questo mondo così triste, così freddo, così gelido, che gli dia un’attrattiva nuova alla sua esistenza, e gli faccia vibrare delle corde fino allora rimaste sorde, credo inutile dire che saprà riconoscere ed apprezzare la sua feli­cità. E così la farà perfettamente felice”. In fine, come un vero credente, egli sarà prostrato sempre davanti alla divi­nità. È l’amore ideale, “più anima che sensi „, capace delle fiamme e delle vertigini, di “quei sublimi slanci che esclu­dono ogni egoismo„ (1), misterioso e fatale: un solo sguardo d’occhi “nei quali l’anima si disseti come ad una viva sor­gente d’amore„ e abbiamo incontrato l’essere a cui la na­tura ha dato il potere di farci felici (l’‘eletto’, quello ..., ché “non c’è che un uomo nel mondo perché egli solo sa­prà tener desta e alacre la fiamma della poesia del cuore, senza la quale “la vita non sarebbe che una triste real­tà„. Il Balzac a questo aspetto spirituale dell’amore con­trappose poi l’altro tutto sensuale e impulsivo, mostrando com’anch’esso sia elemento integrante e necessario della pas­sione che è durevole solo quando i suoi piaceri sodisfino insieme l’anima e la natura: si è allora tra i termini estremi dell’istinto dell’amore, al fatto sociale del matrimonio in cui cadono le nostre più alte aspirazioni e vengono meno quelle idealità cui nei giovani anni davamo impeti di fede e vampe d’entusiasmo. Logico il rimprovero di Luisa a Renata di Maucombe che gliene vanta le gioie: “tu mi hai imborghesita la vita„: e per restar fedele alla sua poesia, quando la tortura il sospetto che l’amato non l’ami più si uccide; morte eroica, quanto quella di altre eroine del Balzac, lo scrittore realista che nella passione dell’amore fu così romantico nell’arte e nella vita!

  (1) “L’amore che discute e fa delle frasi mi pare insopportabile” – dice Luisa.

  p. 254. In una novella, L’indifferente, l’autore ha soppresso anche il corpo; ed è bella trovata artistica, quantunque vetusta, farci conoscere la vita intima d’un assente traverso quella dei personaggi che sono sulla scena. Il racconto comincia an­che bene; lei in casa dell’amante si accorge di non avere con sé il biglietto col quale lui le aveva dato l’appuntamento: certo l’ha lasciato in casa: certo il marito l’ha letto ..., donde la disperazione messa abilmente in contrasto coll’egoismo del­l’amante che trova di cattivo gusto questo scherzo del de­stino. Ma ha poi letto il marito? La serva (tra parentesi, una copia dell’antipatica bizzocchera della Virtù di Checchina), che forse potrebbe schiarire il mistero, prova gusto a non fiatare. Ad ogni modo, egli che era indifferente prima (mira­bile la pagina in cui la moglie, ripensando al passanto (sic), sente per la prima volta tale indifferenza), continua ad avere il medesimo atteggiamento; tanto che lei, che non si faceva scrupolo di tradirlo, si duole di questo disprezzo nel suo amor proprio di donna capace di sedurre gli altri e non suo ma­rito: non pensa che, secondo un aforisma del Balzac nelle Memorie di due giovani spose, “l’uomo che ci parla è l’amante, quello che non ci parla più è il marito,, , e un bel giorno s’inna­mora forte dell’indifferente e abbandona l’ ‘altro’.

  p. 306. Chi riesce a vincere un moto di sorpresa nel riscontrare che la data della novella [Storia di due anime] è proprio il 1904? Pure è in me l’illusione che ciò non debba sentire il lettore di queste pa­gine, il quale nella Serao zoliana o burgetiana (sic) o mistica a seconda che la critica la volle, ritrovò sempre la Serao origi­nale fattasi alla scuola del Balzac, della Sand e del Flaubert, e quindi assertore anch’ella dell’impotenza dell’uomo nella lotta contro l’Ineluttabile, sostenitore in arte del principio pessimista.

  p. 328. Di questo merito la critica straniera non potè tener conto; ma degli altri più evidenti disse con abbondanza, spe­cie delle qualità realistiche della mente, la ricchezza e la perspicuità dell’osservazione, il giusto rilievo dato alle cose e alle persone, la vigoria del pennello e nel tempo stesso la prestanza del colore; e s’intende che per questo dovesse più piacerle il Paese di cuccagna e che il Bourget ne scrivesse con calore. E anche che, pur mettendo in seconda linea il Flaubert, di cui come ogni moderno scrittore di romanzi non potè non sentir l’influsso, e, insieme con lui ma con meno ragione, Giorgio Sand, si pensasse per lei particolarmente al Balzac. Certo ‘heritière (sic) de Balzac’ più di qualunque altro scrittore nostro, e più di quello che non abbia voluto: chè nella pittura della vita di provincia avrebbe potuto acco­starsi meglio all’immane statua bronzea dell’autore di Eugénie Grandet. Con quanta immediatezza e originalità ella ne avesse colto lo spirito lo vedemmo in Non più; il suo senti­mentalismo conservò sempre il carattere dei luoghi in cui fu primamente in boccio e che d’altra parte Napoli non potè attenuar di molto, un po’ provinciale dunque ..., vale a dire angusto e mediocre e troppo attaccato alle piccole cose, alla poesia delle case silenziose e tristi e delle ciarpe scolorite e tarlate nel cassetto donde esala un sentore di rose passe. Ma più sapore ancóra avrebbe avuto l’arte sua di piacevole narratore, di poca immaginazione ma ricco di fantasia, se non avesse raffrenato, e non so per qual ragione, l’attitudine spic­cata all’umorismo così rigogliosa nella gioventù.


  A.[ntonio] G.[ramsci], Armenia, «Il Grido del Popolo», Torino, Anno XXII, n. 607, 11 marzo 1916; successivamente, in Scritti giovanili. 1914-1918, Torino, Giulio Einaudi editore, 1975, pp. 29-30.

 

  Avviene sempre così. Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui spesso abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità. Nel Père Goriot, Balzac fa domandare a Rastignac: «Se tu sapessi che ogni volta che mangi un arancio, deve morire un cinese, smetteresti di mangiare aranci?», e Rastignac risponde press’a poco: «Gli aranci ed io siamo vicini e li conosco, e i cinesi sono così lontani, e non son certo neppure che esistano».

  La risposta cinica di Rastignac noi non la daremmo mai, è vero; ma tuttavia, quando abbiamo sentito che i turchi avevano massacrato centinaia di migliaia di armeni, abbiamo sentito quello strappo lancinante delle carni che proviamo ogni volta che i nostri occhi cadono su della povera carne martoriata e che abbiamo sentito spasimando subito dopo che i tedeschi avevano invaso il Belgio?


  Pier Enea Guarnerio, Gli Italiani e il Bel Paese. La Letteratura, Milano, Casa Editrice Dottor Francesco Vallardi, 1916.

  p. 754. Pontefice massimo della nuova scuola fu il francese Emilio Zola, italiano d’origine, il quale volle introdurre nell’arte i metodi delle scienze sperimentali, portando alle ultime conseguenze le teoriche di Onorato Balzac e di Gustavo Flaubert.


 P. L., Teatro Minerva. «Gabba la morte» di Balzac, «La Patria del Friuli», Udine, Anno XXXIX, N. 19, 19 Gennaio 1916, p. 3.


 Nato nel fango «Vautrin» o detto altrimenti Gabba la morte, passa attraverso la trafila d’infinite vicende, dal gabinetto di una principessa, al bagno, dalla bettola alla bisca; dal bordello al salone di qualche aristocratico. Non teme la giustizia, la gioca, egli ordisce intrighi innalzandosi fino al trono. E’ uno di quegli apostati gettati nel mondo dalla grande rivoluzione.

 Un giorno s’incontra in un lontano paese di Spagna con un giovinetto abbandonato; L’uomo vissuto nel terrore prova nel bambino l’affetto di padre, lo alleva e poi con l’audacia che non lo ferma nemmeno dinanzi all’impossibile, all’assurdo, lo lancia nel gran mondo, con un nome e beni principeschi. Il nome assunto dal giovane non esiste più, e per il seguito di complicate vicende, si scopre che questo giovanetto è il figlio legittimo del duca di Monserel.

«Gabba la morte» pensa alla perdita del suo amico, del suo figlio, l’egoismo e la pietà in lui si combattono, quest’ultima riesce vittoriosa, e il vecchio «Gabba la morte» si ritira nell’ombra col cuore infranto; forse lo attendono il fango e la galera. Ma ciò non è nulla. Ora è inutile ch’egli viva.

 C’è in questo lavoro di Balzac la pesantezza dei drammoni d’intreccio, ma non vi manca la modernità nella concessione ideale sommamente paradossale; non per questo manca di pregio, anzi considerando gli anni in cui questo lavoro fu concepito e scritto vi si riconosce la possente impronta del genio. Chi è «Gabba la morte»? Lo dice lui stesso: «nascono gli uomini nei secoli che se possono proseguire la loro via si chiamano Alessandro Magno, Cesare, Robespierre, Napoleone; se voi invece inceppate la strada si chiameranno Attila e Vautrin».

 Gabba la morte è uno di questi che sulla sua strada ha trovato tutte le ipocrisie sociali che s’erano messe contro di lui, ma senza scrupoli è giunto a piegarle, a domarle; che importa se dentro a lui è rimasto il sangue e l’infelicità?

 L’arte correttissima ed eccellente del cav. Renzi diede alla figura di «Gabba la morte» un magnifico e suggestivo rilievo.

 Squisita pure l’arte della gentile e valente Trofarelli e bene pure il Riva, il Garavaglia e gli altri attori tutti molto accorati.


  Andrea Maffei, [Lettera alla moglie Clara], in Cesare Olmo, Lettere del poeta trentino Andrea Maffei, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CLXXXIV – Della Raccolta CCLXVIII, Fascicolo 1070, 16 agosto 1916, pp. 397-398.

  Come segnalato da Raffaele de Cesare[1], questa lettera di Andrea alla moglie Clara dovrebbe essere stata inviata fra il 23 o 24 marzo e il 2 aprile 1837 durante il primo soggiorno milanese dello scrittore francese. Scrive, a questo proposito, Cesare Olmo: «Qui possiamo dare una lettera senza data, ma che certamente di poco ha preceduto la separazione, e che è notevole documento umano di gelosia e di dolore. Essa rivela le angoscie del poeta. Il Maffei aveva torto peraltro di preoccuparsi per la presenza in casa sua del Balzac, che certamente non aveva fatto breccia alcuna nel cuore di sua moglie».


  Cara Clarina,

  Io temo che mi sarà difficile l'allontanarmi dal Tribunale, tuttavia mi ingegnerò. Se alle due ore non mi vedi, va pure col signor di Balzac allo studio del nostro Hayez. La contrada è poco frequentata e passerai non ve­duta. Ora, mia cara Clarina, desidero che un poco m’ascolti e rifletta con ani­mo tranquillo alle mie parole come uscissero dalla bocca di tua madre. Tutti gli occhi sono conversi a questo celebre straniero; tutti sanno che egli passa in casa nostra molte ore del mattino e della sera trascurando le fa­miglie dove ha pur trovato inviti e cortesie senza fine, ciò che dalla nostra non ebbe. Nè l’esser io cultore degli studi è bastante coperta alle sue visite, giacché la mia riputazione è tutta italiana ed appoggiata quasi unicamente allo stile ed al verso, cose queste a lui sconosciute. Tu sola adunque ne sei l’oggetto; e se le visite del signor di Balzac si limitassero alle sole ore not­turne, io non uscirei dalla mia inerzia per inviarti questa lunga lettera, ed anzi mi sarebbe gratissimo che mia moglie sapesse trattenere un uomo di tanto grido. Ma nella condotta di questo signore parmi di riconoscere un ben altro fine e l'esperienza di trentasett’anni mi fa temere con fondamento ch’egli cerchi di abusare della tua buona fede e del tuo entusiasmo pe’ suoi scritti. Il suo breve soggiorno a Venezia che per la fantasia d’un poeta e d’un romanziere può dirsi un soggiorno d’incanti mi ha confermato in que­sto sospetto. Egli scorre rapidamente tanto meraviglie per riaffrettarsi non a Parigi ma a Milano senza che gli affari suoi già finiti l’abbiano richia­mato. Ed anche in mezzo alle distrazioni di quella città trova il modo di scriverti due lettere che se non sono del tutto galanti sono certamente insidiose e adulatrici. Tu che hai letto i suoi romanzi puoi giudicare quanto bene egli conosca la donna e l’arte finissima del sedurre e quali mezzi si debbano adoperare colla civetta e quali colla saggia ed educata giovane per abbatterne i buoni principi. Aggiungi che la dissoluta Parigi gli dà fama di libertino e d'immorale. Nè credere che la bruttezza del suo volto possa sal­varti dalla inesperienza e dalla opinione del pubblico. La stessa deformità sparisce dinnanzi all'ingegno ed alla forza irresistibile di chi sa svolgere a sua voglia tutte le pieghe del cuore e della mente. Pensa, mia Clarina, che tu sei l’amore di Milano e che ti credono migliore di me quantunque io sappia di non averti mai e poi mai offesa od insultata che per irriflessione o per indole troppo subita allo sdegno. Non perdere, per carità, quella bella ed invidiabile riputazione che ti sei acquistata colle amabili tue bontà. Non fare che questo straniero abbandoni Milano lasciandoti in braccio al dolore od al rimorso. Ora che la stagione migliora esci sovente di casa, vieni a prendermi all’ufficio e faremo delle lunghe passeggiate in compagnia del nostro amico. Vedrò così rinfiorarsi una salute che tanto mi è cara. In breve si riaprono i teatri, andremo qualche sera allo spettacolo e così pas­seranno questi dieci o dodici giorni che ancor si frappongono alla partenza del francese. Anche l’epigramma di quella sfacciata di. ... benché non ne faccia gran caso, non è cosa che mi piaccia, ma mi incresce assai più il si­lenzio della tua nuova conoscenza, di quell’angelo della Somaglia e della buona Taccioli. Quest’ultima non potrà dimenticarsi d’averlo veduto a To­rino in compagnia di una donna vestita da paggio. Insomma io mi terrò onorato se il signor di Balzac ti vegga cogli altri alla sera, ma non potrò sopportare senza rammarico che egli passi alcune ore della mattina da solo a sola con te. Io non so quale effetto faranno i miei consigli sull’animo tuo. Se il buon Lucchi fosse qui gli avresti dalla sua bocca, ne sono sicuro: ma non conoscendo io alcun amico che ti possa liberamente parlare la ve­rità, mi sono determinato a farlo io medesimo. Io ti amo con tutta l’anima e di giorno in giorno mi vieni più necessaria; chi dunque potrà biasimarmi s’io guardo con occhi vigilanti un tesoro, che se mi venisse rapito morrei di dolore?

Il tuo Andrea.


 

  Mario Mariani, Il ritorno di Machiavelli, Milano, Società Editoriale Italiana, 1916.

 

Parte I.

Machiavelli e la morale.

 

  p. 46. Balzac ha scritto che la morale è un bastone che serve per esser picchiato solamente sulle spalle del prossimo e spesso chi si serve della morale per abbattere un avversario politico non è che un emulo o un invidioso che adopera il più machiave1lico e il più in voga dei mezzi di lotta moderni.


  Nemi, Gli stimoli dell’ispirazione artistica, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Sesta Serie, Volume CLXXXV – Della Raccolta CCLXIX, Fascicolo 1076, 16 novembre 1916, pp. 261-264.

  pp. 262 e 263. In una lettera a Balzac, Stendhal racconta che componendo la Chartreuse de Parme, «pour prendre le ton», leggeva ogni mattina due o tre pagine del Codice civile, «afin d’être toujours naturel […]».

  I vestiti che gli artisti soglion portare quando lavorano sono in genere più abbondanti che miseri. Balzac indossava una cocolla da frate, e Diderot lavorava volentieri in veste da camera […]. […].

  Balzac preferiva lavorar di giorno ma con le persiane chiuse e al lume di due candele. Spesso però, dopo un pasto frugale, si coricava verso le sei o le sette, si faceva svegliare a mezzanotte, beveva del caffè nero, o piuttosto verdastro, straordinariamente forte, e scriveva fino a mezzogiorno.


  Alfredo Niceforo, Mito germanico e mito mediterraneo, «Rivista d’Italia», Roma, Anno XIX, Fasc. IV, 30 Aprile 1916, pp. 481-501.

 

  p. 493. Infine, — sempre a conforto di quel che avanzo, e procedendo insino ai nostri dì, — chi avesse pazienza tale da esaminare una a una le fisonomie delle eroine disegnate e colorite da chi fu gran dipintore sovra ogni altro, e cioè dal Balzac, a questa non aspettata conclusione verrebbe: il color dei capelli che più di soventi brilla intorno al capo della parigina; quel colore, cioè, che è di mezza tinta tra il chiaro e l’oscuro, di sì gradito aspetto da essere stato, a volte, perfino celebrato da poeti greci e latini, — quel colore, dico, sì frequente nella parigina, — non è mai ritratto dal Balzac, il quale, tuttavia, come si sa, pone cura grandissima nel descrivere, con forma che si avvicina a quella detta «naturalista», ogni oggetto. E le sue eroine sono: alcune poche biondissime, come Delfina, figlia del père Goriot; o nerissime di capelli le più volte. Anzi, sembra egli compiacersi nel tratteggiare le brunissime, come nell’ammirare le brune Madonne di Raffaello, e brunissime sono proprio le donne eroine da lui quasi santificate: quella Madame Jules, (in Ferragus) e quella Pauline (nella Peau de Chagrin) che vivono tutta una vita di volontario martirio, e che il Balzac si fermò a ricordare, quando ebbe a difendersi dall’accusa fattagli: non aver egli animato, del suo soffio divino, se non la creta di figure egoiste e immorali.


  Alfredo Niceforo, I caratteri descrittivi della fisionomia umana e la loro trattazione statistica, «Archivio di antropologia criminale, psichiatria e medicina legale», Torino, Fratelli Bocca, Editori, Volume XXXII della Serie IV, N. 6, 1916, pp. 561-603.

  pp. 568-576. [3]. La scuola naturalista; le descrizioni dei personaggi nell’opera del Balzac e i concetti fondamentali del Balzac sullo studio della fisonomia].

  Ma quale vero e proprio metodo di scuola, la minuzia nella descrizione si eleva quasi a canone con i naturalisti moderni, come dissi sopra. Dei quali, per questo punto della descrizione, può in certo senso vedersi il precursore in Walter Scott, che si indugia a descrivere minutamente i suoi personaggi, dalla punta del cimiero alle fibbie delle scarpe, come più tardi osserverà, criticando, il Sainte-Beuve a proposito del Flaubert (nei suoi Nouveaux Lundis, IV, p. 89). Verrà poi il Balzac, le cui descrizioni di fisonomia sono particolareggiatissime spesso, e sarà emulato, nella minuzia del descrivere, dal Flaubert e dallo Zola. Vale davvero la pena di arrestarsi un istante, a questo proposito, sul Balzac.

  Il Balzac, come si sa, con cura specialissima descrive per ognuno dei suoi personaggi ogni linea del volto, e gli occhi, e anche l'architettura del corpo, e le mani, e anche il piede: gli è che nella struttura fisica dell’uomo egli si compiaceva vedere, per così dire, l’impronta dello spi­rito, e sopra ogni cosa tale impronta vedeva nella fisonomia. Di qui gli viene quel suo particolare descrivere la fronte, l’occhio, le tempia, il naso, il colorito. E ciò gli viene anche dal suo metodo generale di ogni cosa osser­vare, e renderne conto, metodo che gli è dettato da un principio d’ordine generale, poiché per lui spirito e gesti dell’uomo sono derivati dalle cose, e cioè dal fisico dell’uomo e dall’ambiente: quelli non si comprendono senza questi. Per cui la necessità, per il Balzac, dell’«ispezio­nare», – mi si permetta l’immagine, – tutte le cose entro le quali il personaggio si muove, oltre che la struttura fisica di esso; – proprio come fa fare al giudice istruttore Popinot il Balzac stesso quando, entrato costui nel salotto della marchesa d’Espard, dall’osservazione dei gingilli e dei mobili spiega l’animo della marchesa stessa. « Il était parti – scrive il Balzac, – de l’éléphant doré qui soutenait la pendule, pour questionner ce luxe et venait de lire au fond du cœur de cette femme (L’Interdiction, p. 257 (1).

  Varrebbe certo la pena che qualche studioso di an­tropologia si fermasse a esaminare una a una le descrizioni di fisonomia e degli altri caratteri fisici che l’Autore della Commedia Umana ha fatto per i suoi personaggi. Qui baste­rà dire semplicemente qualche cosa dell’importanza che il Balzac poneva nella fisonomia, – e della sua maniera di descriverla. Più d’una volta enuncia il Balzac la sua convinzione sui rapporti che esistono tra il «fisico» e il «morale». – «Le leggi della fisonomia sono esatte non soltanto nelle loro applicazioni al carattere, ma anche relativamente alla fatalità dell’esistenza. Vi sono fisonomie profetiche. Se fosse possibile (e tale statistica vi­vente importa alla società) avere un disegno esatto di coloro che muojono sul patibolo, la scienza del Lavater e quella del Gall proverebbero inesorabilmente che esistono nel volto e nella testa di tutti costoro, segni strani (Une Ténébreuse Affaire, p. 3) (2).

  Non si dimentichi, d’altro canto, che il Balzac teneva a esprimere, ogni volta che potesse, la sua concezione, dirò così, scientifica, dei gesti umani che egli, ma spesso con una di quelle sue esuberanti contraddizioni tanto fre­quenti nella sua opera multiforme e gigante, attribuisce ora all’innato temperamento (vedi ad es. Splendeurs et Misères des Courtisanes, p. 189) ora all’ ambiente (vedi il profondo Avant-propos della Commedia Umana, in La Maison du Chat-qui-pelote, p. 1-16) nella quale, del resto, parla anche delle «belle ricerche del Gall, continuatore del Lavater ». Lo studio dell’uomo è, per il Balzac da condursi come una scienza naturale, e intendo anche studio dell’uomo spirituale; quante volte il Balzac si compiace di frequenti paragoni tolti di peso dalla fisiologia!

  Anche per questo tema, non sarebbe male si fermasse l’attenzione di colui che volesse studiare, da antropologo non solo il modo con cui il Balzac descriveva la fisonomia, nè soltanto il concetto che egli si faceva del significato psicologico di una fisonomia, ma anche l’idea che si era creato di una psicologia considerata come vera e propria scienza naturale. Si avrebbero gran sorprese, se ciò si facesse, come pure se ne avrebbero, – sia detto tra parentisi, – se si confrontasse la concezione sociologica delle lotte sociali quale fu sentita e veduta dal Balzac con quella che può oggi ritenersi come la più moderna creata dalle più recenti concezioni delle scienze sociali.

  Dal concetto fondamentale del Balzac, di una relazione, cioè, tra le linee della fisonomia e i caratteri psicologici, viene l’importanza che il Balzac stesso accorda a questo o a quel segno fisico che sia segno dirò così, rivelatore, o creduto tale, come la bocca (le buone labbra rosse del giudice Popinot, a mille pieghe, sinuose, nelle quali natura ha espresso dei sentimenti belli. (L’Interdiction, p. 212), – la statura: «È cosa rara che un uomo di alta statura sia dotato di eminenti facoltà» (?) (in Le Député d’ Arcis, p. 14), – il punto d' unione delle labbra (un observateur aurait pu voir dans la commissure de ses lèvres un retroussement habituel qui annonçait des penchants à l’ironie, (in Histoire des Treize, p. 173), – la sinuosità delle rughe e delle pieghe circolari disegnate sulle tempia dell’antiquario, (in La Peau de Chagrin, p. 28) che denota una scienza profonda delle cose della vita. – Più d’una volta, del resto, egli si compiace nel far notare che sa conoscere il viso umano: si legga quel che scrive ne La Bourse (p. 153). «Il viso femminile ha molte cose che imbarazzano l’osservatore volgare … ma l’uomo dotato di vista penetrante indovina le sfumature inafferrabili (dello spirito) che producono nel viso una linea più o meno curva, una fossetta più o meno profonda». Orbene, nel Balzac soprattutto, colui che conosce il metodo e le formule dell’attuale «ritratto parlato» trova espressioni, e modo di descrivere, che ricordano da vicino le indicazioni segna­letiche del moderno sistema di osservazione e di notazione della fisonomia e degli altri caratteri fisici.

  Del giudice Popinot, ad esempio, il Balzac dice: «grosse ginocchia, piedi grandi, mani larghe, occhi di colore mute­vole, faccia senza sangue, naso diritto e piatto, fronte senza protuberanze e depressa, orecchie grandissime e ripiegantesi» (L’Interdiction, p. 211-212). Di Ida (in Histoire des Treize, p. 72) il Balzac descrive gli occhi grigi, la fronte proeminente; ella sventurata sposa di Balthazar Claës: capelli spessi, fronte assai convessa, stretta alle tempia, giallastra, occhi neri, pelle di tono bruno; poco colorita, faccia di perfetta forma ovale, naso ricurvo e che, troppo convesso alla sua metà, sembrava internamente mal formato, ma finissimo; la parete separatrice delle narici sì sottile che la sua trasparenza permetteva alla luce di arrossarla fortemente; labbra larghe e piene di pieghe (La Recherche de l’Absolu, p. 15). E di Balthazar: alta statura, dorso ricur­vo, largo petto, busto quadrato, gambe sottili, capelli folti, fronte larga e piena di protuberanze, occhi azzurri, naso allungato, narici che sembrano aprirsi gradatamente di più in più per una involontaria tensione dei muscoli, zigomi molto sporgenti, guancie invecchiate e cave, bocca piena di grazia, serrata tra il naso e un mento corto, rialzantesi bruscamente; la forma della faccia più lunga che ovale». E poi descrive anche la pelle, le rughe, ancora la fronte, gli occhi, le mani «larghe e pelose», le unghie (Id., p. 19).

  Di un vecchio pittore: «fronte calva, convessa, proe­minente, ricadente a picco su un naso piccolo, schiacciato, e rialzato alla punta; bocca rugosa, mento corto c rialzato, occhi verdi... opachi... su fondo bianco madreperla, senza ciglia; poche sopracciglia, arcate frontali proeminenti (Le Chef d’oeuvre inconnu, p. 313). Del medico di campagna, dottore Benassis: «fronte leggermente ricurva, piena di prominenze più o meno, tutte, significative; naso concavo, tagliato alla punta, zigomi sporgenti, bocca sinuosa, labbra spesse e rosse, mento rialzantesi bruscamente, occhi bruni... capelli grigi, rughe profonde, sopracciglia bianche e grosse, naso bulboso e venato, colorito giallo e marmorizzato (Le Médecin de Campagne, p. 23). Di David Séchard, oltre il busto, il colorito, il collo, i capelli, le labbra, la fossetta del mento, ecco il «naso quadi tagliato da un appiattimento» (Illusione perdues I, p. 26). Assai particolareggiata la descrizione della fisonomia del nostro Dante: occhi profondamente cacciati sotto i grandi archi disegnati dalle sopracciglia, incastrati in palpebre così larghe e così orlate da un cerchio nero vivamente marcato sull’alto della guancia, che i loro globi sembra proeminenti (la descrizione dell’occhio continua per molte righe) ... viso magro e secco; e poi descrizione del naso, delle ossa della faccia, delle profonde rughe nasali, della bocca, della fronte. «Al di sopra dell’uragano dipinto su questo viso, la fronte tranquilla si innalzava con una specie d'ardire e lo coronava quasi cupola di marmo» (Les Proscrits, p. 144) (3).

  Di Esther, dopo aver descritto con assai particolari, la pelle e l’occhio, il Balzac descrive «il naso fino, con narici ovali, ben collocate, rialzate all’ orlo» (Splendeurs et Misères etc. p. 40). Del vecchio Mr. de Hauteserre: grande, secco, sanguigno, occhi bleu porcellana, mento in avanti, spazio smisurato tra il naso e la bocca ... fronte rugosa, piatta, naso aquilino, sopracciglia dense, nere, carnagione colorita» (Une Ténébreuse Affaire, p. 62) (4).

  Appunto per questa sua scrupolosa minuzia nell’osser­vare il volto umano e i caratteri fisici tutti degli uomini, – si ferma spesso il Balzac, con ricchezza di notazioni, su alcuni particolari caratteri fisici che sembrerebbero dover sfuggire a lunga analisi: il colore della pelle, ad esempio, che, per Onorina, è descritto insieme agli effetti del sangue «che corre in fili bluastri» (Honorine, pag. 50) – e che Seraphitüs (sic) è così accennato: come se un fluido fosforico fosse nei nervi, che sembravano rilucere sotto l’epidermide» (Séraphita, p. 191). Per Esther dice il B. essere la pelle «fina come la carta di seta della Cina, d’un colore caldo, d’ambra, soffuso da vene rosse, lucente senza essere secca, dolce senza umidità» (Splendeurs et Misères p. 38), – per Aquilina (La Peau de Chagrin, p. 71) bianco opaco; – per Marie de Verneuil si descrive lungamente la trasparenza della pelle ai raggi del sole (Les Chouans, p. 137).

  E spessissimo è descritto l’occhio. Si veda la descrizione dell’occhio del colonnello Chabert (Le Colonel Chabert, p. 108), del pittore Frenhofer (Le Chef d'oeuvre inconnu, p. 313), del dottore Benassis (Le Médecin de Campagne p. 23), quella, particolareggiata, per Coralie cui rammenta le palpebre, l’iride, le ciglia, lo sguardo, il cerchio olivastro, le sopracciglia (Illusions perdues I, p. 313), quella dello strozzino Samanon (Id., II, 82), – e quella, più particolareggiata di tutte, dell’occhio di Esther (Splendeurs et Misères etc. p. 38-39). – E anche quella di Foedora: «il colore arancio dei suoi occhi era cosparso di vene, come una pietra fiorentina» (La Peau de Chagrin, p. 121), – e quella dell’occhio di Raphaël (Id., p. 206).

  Anche la mano e il piede, non di soventi descritti dagli autori, fanno spesso esercitare al Balzac la doviziosa fraseologia del suo dizionario descrittivo. Di Madame Séverine ricorderà non solo «la graziosa e piccola mano, troppo grassa», ma un curioso e volgare particolare: «era così viva e sana che, al disopra delle sue scarpe, la carne, sebbene contenuta, formava un leggero rigonfiamento (Le Député d’Arcis, p. 53). Per la «fille aux yeux d’or» dirà: «aveva un piede ben attaccato, sottile, ricurvo ... (Hist. des Treize, p. 301), – noterà il piede di Pauline (La Peau de Chagrin. p. 109 e p. 112), – «la mano magnifica e il piede ben tagliato» di Anastasie (Le Père Goriot p. 38), e va dicendo. Per le mani vedansi quasi tutti i personaggi del Balzac: p. es. Butifer (Le Méd. de Campagne, p. 157), – Louis Lambert che avea mani «gra­ziose, ben affilate, quasi sempre umide (Louis Lambert, p. 62), – Laurence, dal «polso bianco e delicato, soffuso di vene azzurre, dalla mano nobile e fluida» (Une Ténébreuse Affaire, p. 54), – Raphaël, che ha mani femminili, di bianchezza molle e delicata (La Peau de Chagrin 206), – Vautrin – le cui mani sono spesse, quadrate, fortemente segnate, alle falangi, da ciuffi di pelo folto e d’un rosso ardente (Le Père Goriot, p. 17).

  La fisonomia, dunque, insieme agli altri caratteri fi­sici, ha trovato nel Balzac chi, meglio d’ogni altro, prosatore o poeta, la descrivesse, e con metodi e intuizioni che riavvicinano l’autore della Commedia Umana alle modernissime formule identificatrici del ritratto parlato. A questo proposito, anzi, v’è da notare che, quei partico­lari, precisamente, del volto sui quali meno sembra doversi fermare l’attenzione, sono messi da evidenza dal Balzac quando si tratti di compiere l’identificazione di un delin­quente, prova del valore che egli accordava a tali particolari. Quando l’agente Bibi-Lupin, infatti, cerca riconoscere l’ex-forzato Collin, trasformato, – «E’ la sua statura, dice, la sua corporatura ... Ah! sì, sei tu, Jacques Collin, riprende esaminando i suoi occhi, il taglio della fronte, e le orecchie. Vi sono cose che non possono tra­sformarsi» (Splendeurs et Misères etc. p. 351). Il profilo della fronte, e l’orecchio, non sono forse oggi, come si sa, tra i migliori indici rivelatori dell’identità?.


  Note. [La numerazione è nostra].

  (1) Cito, tutte le volte che ricorderò il Balzac, l’edizione del Centenario, Paris, Calman-Lévy (sic) editore.

  (2) Ricordo, anche : – « Nessun uomo ebbe mai, come Armando, la fisonomia del suo carattere » (Histoire des Treize, p. 172), - le riflessioni sul formarsi di una fisonomia speciale del parigino (la laideur normale de la physionomie parisienne (?) – Id., p. 286), – l'osservazione: «La sua larga fronte offriva quelle protuberanze nelle quali il Gall ha collocato i mondi della poesia» (La Recherche de l’Absolu, p. 18), – e la frase : «Il sistema scientifico che attribuisce ad ogni viso umano una rassomiglianza con la faccia di un animale, avrebbe trovato una prova di più nel viso di Balthazar che si sarebbe potuto confrontare a una testa di cavallo (Id., p. 19). E altrove: «Uomo prodigioso (Mesmer) a due passi da quel Lavater che fu il precursore del Gall». (Louis Lambert, p. 43). E ancora in Louis Lambert (p. 67) «Fatto singolare; in tutti i grandi uomini i cui ritratti hanno colpito la mia attenzione, il collo è corto». E più lunge: «Occorre un angolo facciale determinato, una certa quantità di pieghe cerebrali, per ottenere Colombo, Raffaello, Laplace o Bethowen (sic)» (Id., p. 82). Parlando del maestro della Sorbona, di cui Dante ascolta la lezione: «Diventando, a un tratto, fisiologo per istinto, egli spiegava le rassomiglianze animali iscritte sulle faccie umane» (Les Proscrits, 157). All’ ex-forzato Vautrin mette in bocca questa frase, diretta a una donna perduta: «Rimarrete quel che sarete; poiché a malgrado delle seducenti teorie degli allevatori, non si può diventare se non ciò che si è. L’ uomo delle bozze (Gall) ha ragione» (Splendeurs et Misères, etc. p. 63). Da riavvicinare a ciò che dice Raphaël in La Peau de Chagrin, p. 81: «Quando potremo fare una storia naturale dei cuori umani e classificarli in generi, sottogeneri, famiglie... allora sarà provalo che ne esistono alcuni teneri e delicati come fiori... ed altri, minerali, che non sono neppure sensibili». E altrove: «La fronte non costituisce forse ciò che si trova di più profetico nell’uomo?» (La Maison du Chat-qui-pelote, p. 22).

  (3) È singolare cosa notare come questa descrizione del Balzac costituisca per H. S. Chamberlain, una delle prove del tipo germanico dell'Alighieri! (in La Genèse du XIX Siècle, T. I° p. 680 e seg., Paris, s. d. (1913). Cito l’edizione francese che ho sotto la mano.

  (4) Si vedano anche le descrizioni del tipo fisico di Onorina (Honorine, p. 7 - 51), – del Conte Ottavio (statura media, magro e secco, faccia aspra, linee fini, bocca grande, fronte troppo grande, mento riavvicinato al labbro inferiore, occhi bleu, colorito giallo ... (Id., p. 16), – del pittore Pierre Grassou (Pierre Grassou, p. 299), – di Maxime (Le Député d' Arcis, p. 107), – della governante dell’artista Dorlange (Id., p. 153), della quale si descrivono anche le mani, – di Armando (Hist. des Treize p. 171-172), – della duchessa di Langeais (Id., p. 174), – di Emmanuel (La Recherche de l’Absolu, p. 106), – di Butifer (Le Méd. de Camp. 157), – di Lucien de Rubempré (Illusions perdues, I, 27), – di Louis Lambert, la descrizione della cui fisonomia occupa lo spazio di una intera pagina (Louis Lambert, 64-65), – di Séraphitüs (Séraphita, p. 191), – di Wilfrid (Id., p. 255), – del vecchio Grandet (Eugénie Grandet, 7), a proposito della fronte del quale torna il Balzac a parlare di «protuberanze significative», – dell’ex-forzato Vautrin (in Splendeurs et Misères etc., p. 29), – di Clotilde (Id., p. 89) «secca, sottile, alta quattro piedi e cinque pollici, mancante di pro­porzione; colorito bruno, capelli neri e duri, sopracciglia abbondanti, occhi ardenti e inquadrati nelle orbite, profilo arcuato, fronte proemi­nente, bocca molto rientrante», – del poliziotto Contenson (Id., p. 101) – dell’agente Corentin (Une Ténébreuse Affaire 20), – di Violette (Id., p. 24), – di Madame di Hauteserre (Id., p. 64) dal mento a punta e la faccia triangolare; – dell’antiquario (La Peau de Chagrin p. 28) – di Foedora, a proposito della quale il B. riafferma il rapporto tra sentimenti e fisonomia (La Peau de Chagrin, p. 121-122), – del giovane sconosciuto, della giovinetta, e del vecchio (nella Maison du Chat, etc. p. 22-23, 25), – di Emilie de Fontaine (Le Bal de Sceaux, p. 91) e dello sconosciuto, nel medesimo romanzo (p. 107), di cui si notano «il piede piccolo, ben calzato in una scarpa di pelle di Irlanda, e gli occhi ombreggiati da ciglia lunghe e ricurve», – di Ginevra (La Vendetta, p. 178), – dei vari personaggi della pensione Vauquer (Le Père Goriot, p. 1-22), – di Francine (Les Chouans, p. 88), – della straniera (Id., p. 104): «pelle splendente, sopracciglia arcate e ben fornite, capelli abbondanti, rughe leggerissime, occhi penetranti e un po’ velati ecc.».


  Giovanni Papini, Paradosso dello scrittore, «La Voce», Firenze, Anno VIII, Numero 9, 30 Settembre 1916, pp. 353-361.

  p. 354.

6.

  Dans ce moment-ci, c’est curieux, comme par tous les journaux court et se reproduit, avec amour, la thèse contre l’originalité en littérature. On déclare péremptoirement, que tout en littérature a été déjà fait par un autre, que rien n’est neuf, qu'il n’y a pas de trouveurs. Ils ne veulent pas, ces bons critiques, — et cela avec une colère enfan­tine, ils ne veulent pas de génies, d’esprits originaux. Ils sont tout prêts à déclarer que la Comédie de Balzac est un plagiat de l’Odyssée et que tous les mots de Chamfort ont dû être dits par Adam, dans le Paradis Terrestre.

(De Goncourt).


  G. L. Passerini, Il Vocabolario Carducciano. Con due appendici ai Vocabolari Dannunziani e Pascoliano dello stesso autore, Firenze, G. C. Sansoni Editore, 1916.

  p. 71. dòmo: e Duomo. Il Carducci spiega: “Dòmi azzurri ho detto le volte del cielo con metafora che nella lingua francese non è rara: Balzac: Le beau ciel d’Espagne étendait un dôme au dessus de sa tète (sic).


 Mario Pratesi, Il mondo di Dolcetta. Scena della vita toscana nel 1859. Nuova edizione corretta, Firenze, Rassegna Nazionale, 1916.

 

 p. 134. Cfr. 1894.


  Il raccoglitore, Di palo in frasca. Il caffè e il tè di Balzac, «Il Lavoratore. Edizione serale», Trieste, Anno XXII, N. 374, 18 Ottobre 1916, p. 1.

  Il grande romanziere, titanico lavoratore notturno, amava molto il caffè e il tè, alleati della veglia e dello spirito. Gli ospiti che venivano a trovare Balene nel suo «buon retiro» Les Jardies, centellinavano il suo caffè sulla terrazza con davanti il bel tacito giardino. Il caffè del grande scrittore era davvero portentoso. Nemmeno i sultani di Mille e una notte ne hanno potuto avere uno migliore! Che colore, che aroma! Il poeta lo preparava con le proprie mani, o almeno ne vigilava la preparazione. La sua ricetta era veramente a arcidotta, raffinata, divina – come lo spirito di Balzac!

  La miscela consisteva di tre qualità: Bour­bon. Martinicca, Mocca. Per trovare le qua­lità migliori, egli era capace di percorrere mezza Parigi. «Un buon caffè bisogna con­quistarlo», egli sentenziava. Ed aveva ra­gione: il suo caffè era insuperabile. E così pure il suo tè. Questo tè, morbido, odoroso, di color biondo, meritava davvero l'elogio che gli faceva Balzac ogni volta che lo offriva agli ospiti. Un preludio pieno di poesia. I profani nel giardino d'Epicuro non lo ri­cevevano mai, i più intimi solo in certe giornate – giornate di festa! Balzac stesso recava sotto il braccio la gran scatola di lacca che egli venerava come una reliquia. E ogni volta, con piacere suo e degli udi­tori, Balzac cominciava a narrare la storia di questo portentoso tè dorato.

  — Il sole lo indora e lo fa maturare – ve­ramente pel solo e unico monarca dell’Im­pero celeste. I mandarini del più alto rango gerarchico godono il privilegio di curare, vigilare e anaffiare i campi dove crescono i cespugli del tè – una distinzione immensa!

  Vergini biancovestite colgono le foglie innanzi il levar del sole e le portano, cantando inni, a Sua Maestà. Questa qualità meravi­gliosa prospera soltanto in una regione, uno dei paesaggi più bizzarri della terra. Questo angolo, in odore di santità, è proprietà pri­vata dell’Imperatore, e il tè colto ivi è de­stinato soltanto per lui e il principe eredi­tario. E solo per una degnazione speciale, quale segno di immensa benevolenza, l’Im­peratore della Cina invia qualche cassetto allo czar delle Russie a Mosca. Le cassette vengono portate da una carovana apposita. Io – diceva Balzac – ne ricevo una piccola quantità da parte di un mio amico, favorito dello czar. Questo tè che ora bevete è arri­vato nella vecchia capitale russa con difficoltà estrema. Sulle cassette del tè prezioso è colato sangue umano. Audaci assassini assalirono la carovana imperiale, mentre essa transitava per i deserti dell’altipiano asia­tico, sotto una tormenta di neve. La lotta fu violentissima. Si combatteva per la vita!

  Balzac coloriva e variava la storia del fa­moso tè con infiniti particolari. E aggiun­geva:

  – Chi beve tre tazze della bevanda do­rata, perde un occhio, chi arriva addirittu­ra a cinque latte, diventa cieco del tutto.

  Un ospite scettico avanzò i suoi riveriti dubbi.

  – Volete che vi convinca con una prova? – gridò il poeta indignato.

  – Un occhio, sì, lo rischio volentieri!


  Federico de Roberto, Luigi Capuana nei cimeli fotografici di Federico De Roberto, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de ‘La Tribuna’», Roma, Anno VI, Num. 1, Gennaio 1916, pp. 53-70.

  Cfr. Raffaele de Cesare, Capuana e Balzac … cit., pp. 112-114.

  pp. 61, 64 e 69. Il culto che egli portò ad un colosso dell'arte narrativa, al creatore del romanzo moder­no — non occorre nominare Onorato di Balzac — parve influenzare tutta la sua vita, la sua vita di uomo che quella di artista.

  All’immortale autore della Commedia umana egli aveva già dedicato qualcuno dei Saggi sulla letteratura contemporanea, ma quelle pagine gli erano parse troppo poca cosa, e del genio balzachiano egli si era proposto di comprendere la na­tura, di spiegare la formazione, di sviscerare i frutti. Col penetrantissimo senso critico che lo fece pro­feta — buon profeta, questa volta — dello svolgi­mento del genio di un altro grande romanziere francese, il Daudet, dando così argomento di stupore e di ammirazione ad un ottimo intenditore come Edoardo Rod, col suo acume infallibile e col suo intuito divinatorio è certo che Luigi Capuana avrebbe fatto opera mirabile e che avrebbe detto qualche cosa di nuovo anche dopo il Taine; senonchè per compiere degnamente quel proponimento egli voleva andare in Francia, vedere i luoghi dove il Balzac nacque, dove crebbe e visse e lavorò, cer­care le fonti della sua ispirazione, riscontrare i suoi manoscritti, studiare tutti i documenti della sua vita — e la vita sua propria, di Luigi Capuana, si svolse in modo che il sogno e può dirsi il bisogno di quella indagine non potè mai essere appagato. Qualche cosa del destino balzachiano pesò su lui: egli conobbe come il padre suo spirituale tutta la fatalità del contrasto fra le vaste aspirazioni della fantasia tumultuosa e le rigide leggi della realtà inesorabile; come il suo Autore, sciagurata­mente, egli conobbe la terribile pena di non poter comporre quasi mai liberamente, come l’estro det­tava quando l’estro dettava, di dovere invece scri­vere per forza, a data fissa, sotto l’assillo delle ne­cessità; come il Balzac egli sopportò rassegnatamente, eroicamente, la condanna dei lavori forzati letterari a vita.

  Nella stessa sua persona c’era alcunché di bal­zachiano. Ecco un altro suo ritratto nell’atteggia­mento che egli scherzosamente definì da macellaio letterario: muscoloso e nerboruto il nudo braccio, folte e nervosa la mano, ampio il torace, la fronte vastissima, esuberante di energia vitale l'espressio­ne ispirata del viso. Sotto un altro aspetto la sua faccia aveva qualche cosa di monastico, ed egli stesso cantò di sè:

  gonfia

  le monacali gote e la sonora

  epa distende, dondolando i fianchi,

  com’uom dell’alto suo valor sicuro.

  Il saio gli si sarebbe attagliato, come al Balzac che lo rivestiva nel mettersi al lavoro, e la vita claustrale e le dotte fatiche d’un benedettino non gli sarebbero riuscite né impossibili né ingrate: perché se fu romanziere, novelliere, commediografo, artista, egli fu anche, e forse prima, studioso, critico, ricer­catore.


  Alberto Savinio, La Realtà dorata. Arte e storia moderna – guerra – conseguenze, «La Voce», Firenze, Anno VIII, Numero 2, 29 Febbraio 1916, pp. 75-90.

  p. 84. Vogliamo pensare, come Balzac, che la forza umana troppo equa­mente spartita produce degli uomini stolti, e la mediocrità? No! che le opere quasi non valgono; vale lo spirito creativo che le informa. Lo spirito moderno non rischia di banalizzarsi: così forte, originale e ardente, perché naturale e vero.


  Alberto Savinio, Hermaphrodito. Miscroscopio – Telescopio. «Frara» città del Worbas, «La Voce», Firenze, Anno VIII, Numero 10, 31 Ottobre 1916, pp. 411-416.

  p. 413. Tutto, nella città, è pervaso dall’anima del terribile Worbas. Quei dolci metallici, compatti più dei libri di Balzac, non sono destinati ai mortali. Accompagnano le libazioni offerte alle di­vinità infernali della regione. Il rito mortuario vuole che, mo­rendo un ferrarese, vengano posti a fianco del cadavere un pan pepato e un pan di cedro, che faciliteran l’ingresso del morto nei regni sotterranei.


  Valentino Soldani, Fascino, «Cinegraf. Rivista bisettimanale del cinematografo», Milano, Anno I, N. 12, 9 luglio 1916, pp. 4-5.

  p. 5. Balzac dette nel segno quando disse: – Il paradiso è su questa terra ed è un bel palazzo con sale sfolgoranti di belle dame ingemmate, e con servi gallonati e carrozze alla porta.


  Stellio, È morto Ferruccio Benini, «Il Lavoratore. Organo della Federazione Socialista della Venezia Giulia», Trieste, Anno XXII, N. 193, 10 Marzo 1916, p. 2.

  Ah, quanto volte, io questi tempi di qua­si silenzio teatrale per noi, abbiamo rim­pianto la figuretta esile e la voce strana di Ferruccio Benini, che dal palcoscenico del teatro Fenice per moltissimi anni ci aveva riprodotto persone vive e palpi­tanti, che spesso sembravano essere bal­zate fuori da qualche romanzo di Onorato Balzac!


  Pasquale Villari, E. De Amicis e la letteratura sociale, in L’Italia e la civiltà. Pagine scelte e ordinate da Giovanni Brunacci, con un profilo di P. Villari per Ermenegildo Pistelli, Milano, Ulrico Hoepli Editore- Libraio della Real Casa, 1916, pp. 389-397.

  p. 390. Ma l’arte è creazione, e il De Amicis non ha una fantasia che crea. Nelle sue narrazioni non riesce mai a trovare un vero conflitto di passioni; i suoi personaggi sono ombre che camminano. Quale de’ suoi caratteri vive davvero nel mondo dell’arte, come quelli del Walter Scott, del Balzac, del Manzoni e di tanti altri? E quando descrive c’è mai nulla di simile alle Alpi, al mare del Byron, dello Shelley? Eppure anche queste sono descrizioni. Ci fa mai sentire la voce potente, misteriosa della natura? Ci conduce mai dal visibile all’ invisibile, dal reale all’ideale?


  Carlo Vossler, Giovanni Verga, in Letteratura italiana contemporanea dal Romanticismo al Futurismo. Traduzione dal tedesco di Tomaso Gnoli, Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1916, pp. 81-87.

  p. 81. Sulle orme di Balzac, di Dumas figlio, di Ottavio Feuillet, la sua fantasia meridionale percorreva allora studenti od artisti poveri, assetati d’amore e di piacere — e le squallide mura del chiostro, entro cui una fanciulla si consuma di passione non corrisposta (Storia d’una capinera), e le soffitte e le sale da ballo, dove povertà e lusso si abbracciano in voluttà delirante.



Filmografia.


  Quando la primavera ritornò [da Jeanne la pâle]. Regia di Ivo Illuminati. Fotografia: Alessandro Bona. Interpreti: Maria Jacobini (Giovanna), Amedeo Ciaffi (Tommaso Smith), Angelo Gallina (Tenente Jack Wilson), Alfonso Cassini (Krawlowsky, padre di Giovanna), Roma, Cines Film, 1916.


  [1] Cfr. Raffaele de Cesare, La prima fortuna … cit., vol. I, pp. 359-362, dove lo studioso riporta, nella sua versione integrale, il testo della missiva del Maffei.


Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento