venerdì 4 agosto 2017


1914

 

 

 

Traduzioni.

 

 

 

  Onorato Balzac, Babbo Goriot. Versione italiana di Nino Romano dal francese, Milano, Casa editrice di Anna Cervieri, Tip. A. Gorlini e C., 1914.


  Ne «La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia» (Roma, Numero 263 del 26 ottobre 1915, p. 6094), è segnalata questa traduzione (Deposito nella Prefettura di Milano il 23 marzo 1914) di Le Père Goriot, la quale, nostro malgrado, ci è risultata irreperibile.



  Onorato de Balzac, La Casa del gatto che gioca a palla e Il Ballo di Sceaux di Onorato de Balzac. Traduzione di A. Finamore, Lanciano, Carabba Editore, (gennaio) 1914 («Scrittori Italiani e Stranieri», 34), pp. XVI-160.



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  Struttura dell’opera:

 

  Prefazione a “La Commedia umana”, pp. I-XVI;

  All’insegna del gatto che giuoca a palla, pp.  1-80;

  Il ballo di Sceaux, pp. 81-160.

 

  La traduzione di questi tre testi balzachiani, nel complesso corretta, si fonda sul modello dell’edizione Furne de La Comédie humaine pubblicata nel 1842.

 

 

  Balzac, Il figlio maledetto. Gambara. - Massimilla Doni, Milano, Fratelli Treves Editori (Tip. Fratelli Treves), 1914 («Biblioteca Amena», N. 826), pp. 311.



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  Struttura dell’opera:

 

  Il figlio maledetto, pp. 1-127;

  Gambara, pp. 129-206;

  Massimilla Doni, pp. 207-310.

 

  Le traduzioni, nel complesso corrette, sono condotte sulla base dell’edizione Furne dei tre testi balzachiani, pubblicati tra il 1845 e il 1846.

 

 

  Onorato Balzac, La Lampada Fatata (La Dernière Fée), Napoli, Società Editrice Partenopea (Tip. G. Canone), s. d. [1914] («Il Libro d’oro della gioventù»), pp. 241, ill.



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  Cfr. 1910: L’Ultima Fata.



  Balzac, Luigi Lambert. Prima trad. italiana di A. Morosi, Milano, Casa Editrice Collezioni Esperia, 1914 (?) (“I Capolavori della letteratura amena di tutte le nazioni. Grandiosa Biblioteca diretta da Salvatore Farina. Romanzieri di Francia. Prima Serie”, 1).




Studî e riferimenti critici.

 

 

 

  Le pagine delle curiosità e notizie. La leggenda di Balzac, «Rivista di discipline carcerarie e correttive. Parte Seconda», Roma, Anno XXXIX, N. 1, 1° Gennaio 1914, pp. 32-33.

 

  Nessuno scrittore forse ebbe maggior copia di aneddoti riferiti sul suo conto come il grande Balzac.

  «I suoi biografi — osserva giustamente Frédéric Boulet in un suo articolo del Journal — pare che vogliano sempre esagerare, tanto è inverosimile quel che raccontano di lui. Egli apparve ai suoi contemporanei sotto gli aspetti più vari e più strani».

  Spesso fu visto nel suo abito bianco da monaco, coi capelli incolti e le mani macchiate d’inchiostro, alzarsi a mezzanotte — atleta del pensiero — e mettersi a tavolino per ore ed ore, nel silenzio della notte propizia, saturandosi di caffè.

  Altre volte partiva a piedi, solo, in pantofole, senza cappello, senza denaro e camminava per parecchi chilometri, quasi senza saperlo, immerso nella sua concezione, fino a che rinasceva all’esistenza esteriore se qualche vetturino — lo conoscevano tutti — non lo riconduceva a casa sua, a credito.

  I suoi amici lo descrivevano anche a tavola: con tre bottiglie di vino più vecchio davanti a sè, che vuotava tranquillamente, divorando enormi panieri di frutta, il suo nutrimento preferito; e rideva di un largo riso giovanile, finché alle sette, schiavo della disciplina che si era imposta, andava a dormire quattro o cinque ore per rialzarsi e riprendere il suo lavoro notturno, schiacciante, inesorabile.

  Egli era d’altronde il teorico della volontà e metteva in pratica inflessibilmente le sue teorie.

  Volle una volta farsi costruire una casa, a sua idea, senza chiedere né accettare consigli da alcuno: quando la casa fu compiuta, risultò che non si poteva salire alle stanze superiori perché si era dimenticata la scala.

  E quella casa per un pezzo ebbe nell’interno decorazioni di questo genere: iscrizioni col carbone sulle pareti bianche e nude: «Qui, un rivestimento di marmo di Paros», « Qui, una tappezzeria d’Aubusson», «Qui, un mobile di legno di cedro».

  Quando a quella casa suonava un creditore, ogni rumore cessava istantaneamente, e regnava là dentro un silenzio e una immobilità di morte fino a che il nemico, scoraggiato e stanco di picchiare invano, batteva in ritirata furioso.

  I suoi numerosi nemici lo calunniavano, ma altrettanto numerosi erano i suoi ammiratori. Le donne sopratutto avevano per il suo genio una vera devozione.



  Scomposizione d’idee, «La Voce», Firenze, anno VI, num. 3, 13 Febbraio 1914, pp. 34-39.

 

  p. 39. L’utilità dell’illusione nell’uomo di genio sta nell’appoggio che crede di sentire nel suo gruppo. Esso fa parte di quella «igiene» speciale che non si può prescrivere né razionalmente prevedere. Schiller aveva mele marcie nel suo tavolino senza di che non poteva scrivere. Baudelaire ricorreva all’oppio. Balzac al caffè. Alfieri alla sedia legata.

 

 

  La vita tranquilla, «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 57, 26 Febbraio 1914, p. 5.

 

  L’illustre critico francese Ferdinando Brunetière, in un suo studio analitico sull’opera complessa del più grande dei romanzieri moderni, Onorato Balzac, argutamente osserva, là dove esamina «la portata sociale» della «Comédie Humaine», come tutti i personaggi di questo gran mondo siano totalmente e continuamente preoccupati del modo migliore di conquistare, a seconda dei propri mezzi, la tranquillità finanziaria dell’esistenza.

  «L’umanità, infatti scrive il Brunetière, è preoccupata da gravi interessi che la sospingono, da gravi necessità di vita che fanno sentire tutto il loro peso là dove e quando esse non possono essere risolute». […].

 

 

  Notizie. La critica e Balzac, «Giornale della Libreria, della Tipografia e delle Arti e industrie affini», Milano, Anno XXVII, N. 8, 27 Febbraio 1914, p. 115.


  Nessun romanziere fu trattato dalla critica peggio di Balzac. G. Pelissier (sic) ha cercato di provarlo in un interessante articolo[1]Il celebre scrittore non doveva essere molto simpatico e il suo difetto principale, quello di vantarsi sempre, non gli procurò certamente molti amici. Forse però ciò che rese la critica ostile a Balzac fu, più che le sue vanterie, il romanzo Illusions perdues, dove sono svelate molte turpitudini del giornalismo. E più ancora che per questo romanzo i critici furono molto ostili allo scrittore perché non lo compresero. Infatti Balzac diede a quel genere frivolo e poco ostinato, che era stato fino allora il romanzo, il valore e l’importanza di una storia sociale. Ma per far questo, Balzac dovette introdurre nei suoi libri una moltitudine di particolari che parevano indegni della letteratura, particolari tecnici, circostanze meschine, piccoli fatti comuni, sordidi, che disgustarono e urtarono i critici del tempo.



  A colloquio con d’Annunzio, «Corriere della Sera», Milano, Anno 39, Num. 59, 28 Febbraio 1914, p. 3.

 

  Un critico disse di Balzac che era una forza della natura, e intendeva alludere anzi tutto alla mole eccezionale del suo lavoro; Gabriele d’Annunzio non offre un minore esempio di operosità infaticabile, ma la definizione gli potrebbe convenire in un senso più elevato […].

 

 

  Notizie, libri e recenti pubblicazioni. Francia, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLXX – Della Raccolta CCLIV, Fascicolo 1014, 16 marzo 1914, p. 371.

 

  La meravigliosa biblioteca legata all’Istituto di Francia dal visconte Spoelberch di Lovenjoul è stata or ora installata a Chantilly, nell’ex convento delle dame di San Giuseppe di Cluny. […] Tra i documenti originali riuniti dalla pazienza e dal buon fiuto del generoso legatario belga, si trovano 7,000 lettere dirette a Sainte-Beuve da vari scrittori contemporanei, e sopratutto delle cose inedite di Balzac, per il quale il visconte Spoelberch aveva un vero culto.



 Noterelle del giorno. Lo sfratto a Balzac, «La Tribuna», Roma, Anno XXXII, Num. 95, 6 Aprile 1914, p. 3.


 A Balzac, perseguitato dai creditori e dagli uscieri di tribunale, vita natural durante, capita oggi, nell’anno di grazia 1914, la più singolare delle avventure giudiziarie: quella di un postumo sfratto per mancato pagamento di pigione ...

 Ma la colpa non è sua È invece tutta quanta dei suoi connazionali che non hanno saputo evitare l’oltraggio di un’azione legale alle sue memorie, adunate a Parigi nel 1908, in una cosiddetta «Casa di Balzac».

 «La Casa di Balzac» non era che una specie di museo tardivamente costituito in quell’appartamento di via Raynouard n. 47, dove il Maestro passò gli ultimi anni della sua vita. E vi erano state raccolte le collezioni delle sue opere.

 Tutto questo nella mente dei fondatori doveva essere sufficiente ad attirare un discreto numero di visitatori – a un franco l’uno – il cui denaro – unito ai contributi dello Stato e della Società degli «Amici di Balzac» - bastasse a coprire le spese di pigione. Ma invece – proprio come nei bilanci innumerevoli in cui Balzac inquadrava le ipotetiche fantastiche speculazioni che dovevano servire a farlo milionario – le previsioni dei suoi ammiratori e discepoli sono state più rosee della realtà. – O che il governo francese abbia creduto di creare un precedente pericoloso coll’onorare uno scrittore morto pagandogli la pigione (non si sa mai ... ci sono anche gli scrittori vivi!); – o che gli «Amici di Balzac» siano stati troppo platonicamente amici; - o che una lira d’ingresso sia sembrata esagerata agli intellettuali, che sono avvezzi a vedere gratis i capolavori del Louvre; – o magari anche per tutte e tre le ragioni messe insieme ... sta di fatto che quest’anno non s’è trovato il denaro necessario a pagare il padrone di casa.

 La quale è una signora ottantenne, ed è una vecchia ammiratrice di Balzac: e, naturalmente non può spingere la sua ammirazione fino a rinunziare alle tremila lire annue di un appartamento di cui in fin dei conti, non è Balzac in carne ed ossa l’inquilino moroso ... Ma è il Balzac retorico, comodo prestanome di una delle tante istituzioni di tal genere che in Francia – come in Italia – servono d’assortimento ai passatempi di una invernata e poi tramontano come un tango qualsiasi.

 E è per questo che io non divido gli apprezzamenti poco simpatici che in Francia qualcuno ha espresso contro la rigida «propriétaire de l’immeuble». Piuttosto la trovo lodevole perché ha tutelato il buon nome di Balzac sfrattando i suoi ricordi ed il suo nome dall’appartamento in via Raynouard di i cui veri inquilini – i francesi intellettuali – non hanno saputo pagare la pigione.

 

 

  La morte della duchessa Litta nella sua villa a Vedano al Lambro, «Corriere della Sera», Milano, Anno 39, Num. 98, 8 Aprile 1914, p. 2.

 

[…]

 

Una profezia di Balzac.

 

  Ancora bambina, si era fatta notare da Onorato di Balzac, l’illustre romanziere francese, il quale, venuto a Milano, era stato ospitato dalla madre della futura duchessa in una casa di corso Venezia. Balzac fra il 1837 ed il ’38 scrisse il romanzo Une fille d’Eve, nella cui dedica, una lettera alla sua ospite milanese, si legge: «Vous avez une Eugénie, déjà belle, dont le spirituel sourire annonce qu’elle tiendra de vous les dons les plus précieux de la femme».

 

 

  La morte della Duchessa E. Litta Bolognini, «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 98, 4 Aprile 1914, p. 4.

 

  Onorato di Balzac, che fu ospite della madre della futura duchessa, scrisse allora fra il 1837 e il 1838, il romanzo «Une fille d’Eve» nella cui dedica, una lettera alla sua gentile ospite, è scritto: «Vous avez une Eugénie, déjà belle, dont le spirituel sourire annonce qu’elle tiendra de vous les dons les plus précieux de la femme».

 

 

  Corriere teatrale. […] Fossati. “Amore in maschera”. Operetta in tre atti di Zangarini e Darclé (sic), «Corriere della Sera», Milano, Anno 39, Num. 120, 1-2 Maggio 1914, p. 2.

 

  L’operetta è piaciuta. Cronaca rosea […].

  Lo Zangarini [l’autore del libretto] ha fornito del resto, al suo collaboratore [il De Hartulary-Darclée, autore delle musiche], un canovaccio assai adatto a ricamarvi col doppio filo della sentimentalità e della comicità. Amore in maschera non è altro, nel suo spunto, se non una novella poco nota – se non erriamo ignota del tutto fino a qualche tempo addietro, perché fu ritrovata e pubblicata solo recentemente – del Balzac (sic?): L’amour masquée (sic).

 

 

  Giornali e Riviste, «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 135, 17 Maggio 1914, p. 3.

 

  «Io disegno, io schizzo, i miei bravi uomini – diceva Gavarni al suo amico Balzac, – solamente quando mi parlano, e, conversando, rivelano un po’ della loro anima».

 

 

  Corriere teatrale […], «Corriere della Sera», Milano, Anno 39, Num. 171, 23 Giugno 1914, p. 6.

 

  Teatro del Popolo. Anche ieri sera [22 giugno] De Sanctis ed i suoi compagni raccolsero calorosi applausi nei Piccoli Borghesi [di M. Gorkij]. Questa sera una novità: Cesare Birotteau, commedia tratta da un romanzo di Balzac da E. Fabre.

 

 

  Ultime teatrali. Teatro del Popolo. “Cesare Birotteau”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 39, Num. 172, 24 Giugno 1914, p. 7.

 

  Alfredo De Sanctis ha portato, ieri sera, sulle scene del Teatro del Popolo, ed anche per la prima volta sulle scene italiane, i cinque atti che Emilio Fabre ha tratti dal Cesare Birotteau di Balzac. Il famoso romanzo è tutto intensamente drammatico, tutto violentemente chiaroscurato di contrasti. L’autore dei Ventri dorati vi potè vedere una ricca ed efficace materia teatrale; in verità il Birotteau contiene episodi magnifici, figure disegnate con la più vigorosa arte balzacchiana: né l’adattatore ebbe bisogno di aggiungervi del suo e di cambiar nulla all’originale, per trarne la copia scenica che udimmo ieri sera dalla Compagnia De Sanctis.

  Non occorre dunque – poiché la copia è fedele – ricordar le vicende del romanzo, che son troppo note.

  Ma convien dire che nella redazione del Fabre l’originale si rimpiccolisce, e pur essendo fedele nei particolari dei quali il Fabre s’è potuto valere e che ha potuti insaccare nei suoi cinque atti – troppo lunghi per una sola commedia, troppo brevi per isvolgere convenientemente, se non tutta, la miglior parte almeno del romanzo –, quella riduzione diventa in sostanza una deformazione. Gli avvenimenti vi s’inseguono, vi si affollano senza pausa e senza respiro; le necessità teatrali di tempo e di spazio obbligano il Fabre ai più bruschi trapassi ed a convenzionalismi che il teatro impone, ma che il romanzo ignora. Tutta la viva e la caratteristica folla di personaggi che il Balzac ha addensata nelle sue pagine e che, animandone e moltiplicandone le vicende, giovano al quadro d’ambiente, al quadro in cui il grande romanziere ha ritratto con tanta vigoria la vita borghese, affaristica e commerciale, tutta quella folla si restringe, si sbiadisce, e la figura stessa del protagonista perde, nella magrezza di questa riduzione drammatica, il suo rilievo: non è più, insomma, il Cesare Birotteau di Onorato Balzac.


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  La commedia del Fabre ha dunque tutti i difetti che son propri delle commedie tratte dai romanzi, e specialmente dai bei romanzi. La materia un po’ arida del Cesare Birotteau – arida in quanto la vita che vi si rappresenta è la vita affaristica, e il dramma del protagonista è un dramma tutto intessuto della più cruda e comune realtà – nel romanzo balzacchiano è, per così dire, aerata e riscaldata e mossa dalle descrizioni dei particolari pittoreschi, dagli episodi; nei cinque atti del Fabre tutto è ridotto all’indispensabile, all’essenziale, e l’aridità della vicenda è quasi messa in evidenza, è quasi ostentata. Ma, riconosciute le inevitabili difficoltà dell’adattamento, il Fabre ha certo fatto tutto quanto era possibile perché l’adattamento riuscisse; e in taluni punti, in quelli più traducibili dal romanzo alla scena, è senza dubbio riuscito.

  I suoi cinque atti piacquero, ad ogni modo, al pubblico del Teatro del Popolo, che l’applaudì con calore, applaudendo con essi, il De Sanctis, il quale diede un bel rilievo alla figura di Cesare Birotteau, e Alda Borelli.



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(Alfredo De Sanctis, 1866-1954)


  Note storiche. Una risata di Balzac, «Letture della Domenica. Settimanale illustrato», Milano, Anno 7, N. 4, 25 Gennaio 1914, 25 giugno 1914, p. 5.

 

  Quando il signor di Balzac venne in Italia raccontò una sera in casa M. il seguente aneddoto:

  «Una notte mi trovavo a letto, ma la stanchezza m’impediva di dormire. Odo un lieve rumore vicino al mio scrittoio e dopo un po’ di cigolio veggo che uno scellerato sta cavezzandone la serratura. Allora mi metto a ridere ad alta voce. Il ladro resta un momento esterrefatto: ed io di nuovo a ridere più sgangheratamente.

  «– Di che cosa ridete? – esclamò finalmente il ladro. – Di che cosa, oh bella! – risposi – siete un bel minchione a venire così di notte, col rischio della galera e con un grimaldello a cercare dei denari in un mobile nel quale non ne posso trovare io stesso che vi frugo di giorno e con tutta comodità!».


 

  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 39, Num. 324, 23 Novembre 1914, p. 3.

 

  Quando Balzac morì, è noto che un’onda di uscieri a Parigi invase il suo appartamento di via Fortunée. Fu una scena di sacrilegio barbaro. Cinque o sei casse colme di manoscritti autografi, note volanti, taccuini, furono buttate all’aria, malgrado l’intervento del visconte Spoelberch e del cameriere fedele. La stessa moglie di Balzac, a chi le domandò cosa dovesse farsi di una quantità di carte giacenti nel salottino, rispondeva: «Bruciate tutto». A quel saccheggio contribuirono molti degli ammiratori di Balzac, frettolosi d’impossessarsi di qualcosa di suo, e fu bene, afferma Myricae, perché così qualcosa venne conservato ed ora vengono a galla frammenti, pensieri e pagine inedite ricche di preziose indicazioni. Ecco qualcuna delle note più caratteristiche: «Le livre des douleurs è uno studio destinato a provare che esiste un punto di appoggio materiale nel pensiero per sopportare i più gravi dolori e che ciò non è un soccorso che venga dall’alto. Si osservi l’idea religiosa cristiana, e si prendano tre esemplari autentici: Beatrice Cenci, il sarto di Enrico II o un altro martire protestante, e un regicida: Chatel o Damiens». – Fra le molte note vi sono anche due progetti: «La fine del mondo» e «Le père», il primo non fu mai eseguito, il secondo fu abbandonato per il «Père Guyot (sic)». Ed ecco anche delle note di contratti: «Devo raccogliere 130.000 lire con gli (sic) Etudes de moeurs nel 1835. Per il mio affare ho una via d’uscita con un mirabile libro da fare, con Il medico di campagna. Devo aver fatto il «tal» libro per il 1833». – E tra le frasi staccate c’è questa: «Sono sulla strada di diventare un genio!».



  Maltusiani domenicali, «Almanacco Purgativo», Firenze, 1914, p. 23.


  Non è consigliabile, in linea generale, di ammazzare la moglie prima della seconda notte di matrimonio.

Balzac.

 

 

  Luigi Ambrosini, Cronache letterarie. Il nuovo romanzo di Carola Prosperi, «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 196, 18 Luglio 1914, p. 3.

 

  [Su: La nemica dei sogni, Milano, Fratelli Treves, 1914].

 

  […] ella [Carola Prosperi] è forse la più francese delle attuali scrittrici italiane. […] Lo stesso Balzac è qua e là risentito attraverso l’arte di questi due [Maupassant e Zola], specie in certi colori della vita provinciale e in certe figure aride e dure come quella del padre di Teresa.



  Silvio d’Amico, Gli Ulivi e le Ginestre. Poesie di Gustavo Brigante-Colonna, «Picenum. Rivista Marchigiana Illustrata Mensile», Roma, Anno XI, Fasc. III, Marzo 1914, pp. 92-95.


  pp. 94-95. Eppure, un amico glielo aveva raccomandato pubblicamente: non omettere le canzonette, anzi, non osare nemmeno di separarle dagli altri versi!

  Quello stesso amico si vendica ora qui, riportandone qualcuna indimenticata:

  Oppure, per un altro conoscente di villeggiatura:


  «Egli si firma White-Rose (sic!)

  E ha un po’ del Cyrano de Bergerac,

  Ha per le donne maritate un tic

  Come aveva Onorato di Balzac,

  Di barzellette ha sempre un grande stock

  E per figura pare un alpen-stock».

 

 

  Vincenzo de Angelis, La Francia giudicata da Nicolò Tommaseo, «Rivista d’Italia. Lettere, Scienza ed Arte», Roma, Anno XVII, Volume I, Fascicolo III, Marzo 1914, pp. 359-412.

 

  pp. 410-411. Non abbiamo prove dirette per assodare se la notoria irreligiosità di Stendhal e l’impopolarità de’ suoi scritti siano state buone ragioni per tenere il Tommaseo lontano da essi […]. Né per l’autore de La Chartreuse de Parme fu buona raccomandazione agli occhi del Tommaseo, l’articolo del Balzac nella Revue Parisienne del 25 settembre 1840 che lo rivelò al pubblico, poiché del Balzac fu egli fiero avversario. Nel ’36 scriveva al Cantù: «Fate un articolo alquanto severo sui romani del Jannin (sic), del Balzac e simili»2.

  Quando il Balzac si recò in Italia, il Tommaseo avendo risaputo delle accoglienze fattegli dalla società milanese e dalla stampa scriveva al medesimo Cantù:3 «Che il Balzac sia accarezzato costà me ne duole più che d’una nuova invasione di Barbari. Son queste le nostre piaghe; e di queste vivono i bachi che vo’ sapete. L’Azeglio non lo doveva presentare al Manzoni; ma l’Azeglio è un po’ su quel gusto. E a me disse spropositi degni d’un nobile piemontese. Dite del resto a codesta crassa galanteria milanese, che il Balzac è tenuto fino a Parigi per cosa ridicola e bassa; scrivente manierato senza la potenza di quei che si creano una maniera; pittore minuzioso della parte materiale di certe cose, ignorante del resto, sterile sì di fantasia, sì di affetto. È egli vero che a Torino aveva seco costui una donna e lasciava credere fosse la Sand? Di Milano dice bene ora che c’è: uscito la giudicherà tutta quanta dai quattro nobilucci scaglionati che avranno riso delle sue villanie (mi perdonino i villani questa ingiuriosa metafora)». Non disdegna suggerirgli pettegolezzi; di vantare ciò che in Milano è migliore di Parigi, e riprende: «Della Récamier e’ dice male perché la società di lei è più contenuta, e severa a’ suoi scritti; della Girardin dice bene perché lei scrisse un romanzo della sua razza (sic; lege: sulla sua mazza). Non già che dalla Récamier ci vada fior di gente: anche lì si sbadiglia. Io non ho mai curato d’andarvi e perché non ho tempo, e perché la natura non mi volle fare tanto ammirabondo quanto si richiede per non offendere la vanità di quegli illustrissimi».

 

  Note.


  2 Il primo esilio, pag. 81. [cfr. 1904].[2]

  3 Id. id., pagg. 113, 114. Per l’accoglienza della stampa al Balzac cfr. nell’op. cit., pag. 116, n. 2.[3]


  V. B., La Cronaca dei libri. Elogio della pazzia, «Corriere della Sera», Milano, Anno 39, Num. 197, 19 Luglio 1914, p. 3.

 

  [A proposito di una recente edizione di: Elogio della pazzia e di altri scritti erasmiani presso gli Editori Laterza].

 

  Il buon Camerini [il curatore dell’opera] […] disse che «Erasmo, in uno scorcio magistrale, fece quello che Balzac tentò invano nelle sue superbe tele della Commedia umana» […].

 

 

  P. C., Corriere parigino. Il titolo di un giornale. La rivoluzione in musica. Le disgrazie postume di Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 39, Num. 93, 3 Aprile 1914, p. 3.

 

  La fortuna letteraria non salva Balzac dalle beghe con gli uscieri giudiziari nemmeno tre quarti di secolo dopo la sua morte. E’ la iettatura postuma che lo perseguita? Or fanno sei anni, per iniziativa di un editore, l’ultimo appartamento abitato dal grande romanziere venne trasformato in un piccolo museo. Vi si conservano alcuni mobili che gli avevano appartenuto: il tavolo su cui aveva scritto innumerevoli fogli, una poltrona, una collezione delle sue opere. L’affitto di 3000 lire annue doveva essere pagato con un piccolo contributo dello Stato, con le offerte degli ammiratori e con la tassa d’ingresso, fissata a un franco per persona.

  Sgraziatamente l’ammirazione postuma è quasi sempre gratuita. L’anno scorso non più di 80 visitatori entrarono nel museo ed erano quasi tutti stranieri. Anche la proprietaria della casa che conobbe da fanciulla il romanziere, professa una grande ammirazione per la sua memoria; ma non può spingerla fino a trascurare l’affitto. Siccome nessuno più pensava a pagarla, così ella si è rivolta ai Tribunali. E il museo sarà espulso per via d’usciere. I mobili, che un perito giudiziario ha stimato alla somma ridicola di 200 franchi, saranno depositati in un magazzeno pubblico sotto sequestro. Balzac, che dovette sempre dibattersi fra debiti e uscieri, non poteva certo immaginare che il suo tavolo sarebbe stato sequestrato in pieno secolo ventesimo.

 

 

  A. Cagliano, Cronache torinesi, «La Cine-Foto. Rivista settimanale di Cinematografia», Napoli, Anno VIII, N. 276, 4 aprile 1914, pp. 51-52.

 

  p. 52. “Orsola Miruet (sic)” della Savoia al Cinema Meridiana merita grandi encomii considerato in rapporto alle altre riduzioni dei lavori del Balzac finora eseguiti, e per se stesso. Se noi si considera il lavoro come riduzione, ha vari difetti e pecca fortemente nella riproduzione dei caratteri.

  Le varie case estere, ed in modo speciale le francesi, tentarono di adattare alla Cinematografia varii lavori di questo prodigioso romanziere, ma nessuna riuscì a fare un lavoro che riproducesse anche solo in parte quello che costituisce il pregio maggiore delle opere del Balzac: la descrizione perfetta dei caratteri. Gli attori della Savoia invece, ed in modo speciale il Dillo Lombardi, riprodussero i personaggi del romanzo in modo encomiabile e certo meglio che non abbiano fatto gli artisti francesi stessi.

  Considerato in sé stesso, il lavoro è molto da lodarsi; l’intreccio, i costumi quasi perfetti, concorrono a renderlo tale e ad onorare grandemente la casa che lo ha riprodotto, sorpassando nell’esito tutte quante le riproduzioni eseguite finora.

  Si è però molto distanti dall’aver riprodotto bene i tipi del romanzo; siccome i tipi sono descritti dal Balzac con la massima perfezione, per rappresentarli occorrerebbe un attore degno di Balzac.

  Si è ancora molto lontani dai sentimenti finissimi dell’autore, dalla riproduzione perfetta della vita privata, dei costumi borghesi, delle volgari realtà della esistenza, dei combattimenti d’animo, che furono scolpiti dall’autore aiutato dalla sua poderosa facoltà di osservazione e dalla vasta sua memoria. I personaggi sono da lui modellati come se passassero mentre li descrive, vive della vita dei suoi personaggi e li anima come nessun altro scrittore ha saputo fare. Gli attori cinematografici hanno quindi un’ottima scuola ed un ottimo maestro in Balzac, ma non potranno mai uguagliarne la descrizione e riprodurne i lavori, essendo superiore alle forze di un uomo ordinario.



   Francesco Cazzamini Mussi, Alfred de Vigny, «Rassegna Nazionale», Firenze, Volume CXCVII, Anno XXXVI, Maggio-Giugno 1914, pp. 17-47.


   p. 27. Oggi di lui non sopravvive che il «Chatterton», qualunque ne sia stato il giudizio del Balzac, ma il Balzac e il Vigny non erano nati per intendersi. Temperamenti più che dissimili, contrari, l’autore de «La Comédie Humaine» non poteva ammettere l’arte dell’aristocratico campione del romanticismo nè questi sarebbe riuscito, anche animato dalla maggior simpatia, ad accettare il naturalismo del creatore del «Papà Goriot». Sono pure in arte termini antitetici ed irreducibili.

 

 

  Edgardo Ciappa, La parola del critico. Fior di passione, «La Vita Cinematografica. Settimanale internazionale illustrata», Torino, Anno V, N. 14, 15 Aprile 1914, p. 64.

 

  Mancia competente a chi sarà capace di ricostruire – una volta visto – il soggetto di questa (sic) film. Ma … e allora perché il manifesto ci grida: «grandioso ed interessante dramma passionale, tratto dal romanzo di H. De Balzac, Memorie di due giovani spose?». E chi lo sa? Forse l’intendimento di far ciò c’era, ma poi si è sperduto per via! Morale della favola: un lavoro composto di quadri mal connessi tra loro, tanto da sembrare parecchi pezzi di pellicole diverse ricuciti tra loro, poco curando un qualsiasi nesso logico fra le scene che si vogliono rappresentare.

  L’esecuzione artistica riflette perfettamente i difetti di tanta sconnessione … logica! Gli artisti sembrano, tutti o quasi, malsicuri della parte loro affidata. Discreta la fotografia e la messa in scena.

 

 

  Cini, Fra le quinte della Giustizia. La moglie brutta ma… (Dall’incartamento di una causa per separazione coniugale), «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 357, 27 Dicembre 1914, p. 4.

 

  L’irreparabile! In ogni matrimonio scocca l’ora fatale, ha detto …

  – Balzac.

  – Precisamente.



  Alfredo Comandini, All’Esposizione di Berna, «L’illustrazione Italiana», Milano, Anno XLI, N. 24, 14 giugno 1914, pp. 590-591.


  p. 590. Altro godimento: al ristorante una ragazza deliziosa; una di quelle creature piccole, tonde, allegre, ridenti con gli occhi, con la bocca, con le pieghe del collo, coi movimenti del capo — come descrive Balzac il tipo della ragazza da fidarsi; zurighese di origini, con sulle labbra un italiano così toscano, che alle poche parole che ebbi da rivolgerle durante la cena. rispose sempre ridendo, ridendo, ridendo e parafrasandomi con altre parole che erano la correzione toscana delle mie! ...


 

  Grazia Deledda, Nostalgie, Roma, Nuova Antologia, 1914. [1905].

 

  p. 263. Ma Caterina s’annuvolò, aggrottò terribilmente le sopracciglia d’oro, e fece uno sforzo per liberare il piedino: vi riuscì, ma la scarpina si slacciò e cadde. Allora il giovane padre si curvò, e non senza molte difficoltà rimise il piedino caldo e palpitante entro la scarpetta, rivolgendo alla bimba delle frasi che, direbbe Balzac, a leggerle sono ridicole, ma in bocca d’un padre sono sublimi. Caterina rispondeva a modo suo.

 

 

  Félix Duquesnel, La Banda degli Abiti neri. Romanzo di Félix Duquesnel. Appendice (20) de «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 170, 22 Giugno 1914, p. 8.



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  Tra i protagonisti di questo romanzo giudiziario, che furono testimoni delle imprese compiute dalla così detta “Bande des habits noirs” – un’associazione di «voleurs, d’une habileté singulière» [Avant-propos, p. 2], i quali, tra il 1835 e il 1845, misero a segno, a Parigi, una serie di clamorosi furti sfuggendo sempre alle ricerche della polizia – figura anche Balzac (insieme a A. D’Ennery, L. Gozlan, Laurent-Jan, F. Lemaître), più volte citato e descritto, sotto il profilo umano e letterario, da Dusquesnel nel corso del romanzo.

  L’entrata in scena dello scrittore, una sera del 1845, nel salotto di Mme de S…, «un dea plus courus du Faubourg Saint-Honoré» (p. 139), è descritta dall’A. con queste parole:


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  In quel momento l’usciere annunciò il signor Onorato Balzac, il quale era intimo di quella casa. Aveva allora 45 anni, ma sembrava più vecchio. Era di statura media, grassoccio, largo di spalle, un po’ curvo. Il suo collo taurino irrompeva dal bianco della camicia e dalla cravatta di seta, legata a fiocco. La sua testa era singolarmente forte; la sua faccia espressiva aveva dei tratti profondi. Il naso, ben disegnato, dalle narici larghe, aspirava l’aria pesantemente, mentre la sua bocca, dalle mascelle forti, si chiudeva in due labbra arcuate dalla smorfia ironica (come quella che la tradizione ci ha trasmessa di Rabelais); e la fronte era larga, gli occhi grandi, vivissimi, dallo sguardo incisivo e penetrante.

  Ma tutto quel volto portava il segno della fatica e già aveva qualche ruga e nella capigliatura abbondante, buttata all’indietro, si poteva distinguere qualche filo d’argento.

  Balzac era vestito quella sera (come sempre, del resto, quando andava in società) con un abito di drappo bleu, secondo la moda del giorno, dai bottoni dorati e cesellati.

  La cronaca, anzi, pretende che quei bottoni fossero addirittura di oro massiccio. Si racconta infatti che nei giorni di magra … ed erano frequenti … il romanziere staccava uno o più di quei bottoni, secondo il bisogno, li negoziava a peso e li sostituiva con bottoni simili, ma non più d’oro. Ora è difficile sapere se quella sera i bottoni erano i veri, i buoni, o se l’oro puro di questi non si era per caso cambiato, se non in piombo, in modestissimo rame … […].


 

  Félix Duquesnel, La Banda degli Abiti neri. Romanzo di Félix Duquesnel. Appendice (21) de «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 171, 23 Giugno 1914, p. 2.

 

 

  Félix Duquesnel, La Banda degli Abiti neri. Romanzo di Félix Duquesnel. Appendice (22) de «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 172, 24 Giugno 1914, p. 8.

 

 

  Félix Duquesnel, La Banda degli Abiti neri. Romanzo di Félix Duquesnel. Appendice (49) de «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 199, 21 Luglio 1914, p. 2.

 

 

  Félix Duquesnel, La Banda degli Abiti neri. Romanzo di Félix Duquesnel. Appendice (50) de «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 200, 22 Luglio 1914, p. 7.

 

 

  Félix Duquesnel, La Banda degli Abiti neri. Romanzo di Félix Duquesnel. Appendice (51) de «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 201, 23 Luglio 1914, p. 8.

 

 

  Félix Duquesnel, La Banda degli Abiti neri. Romanzo di Félix Duquesnel. Appendice (52) de «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 202, 24 Luglio 1914, p. 4.

 

 

  Filmino, Cronache napoletane, «La Cine-Fono. La rivista fono-cinematografica», Napoli, Anno VIII, N. 276, 4 aprile 1914, p. 10.

 

  Alla Sala Roma l’aristocratica sala di via Roma, si proiettano programmi di una signorilità squisita. La Gaumont vi figura in prima linea con “Il principe ereditario” riproduzione del notissimo romanzo di Balzac. Sono 2000 metri di due atti di film di un interesse eguale a quello del romanzo, interesse che non vien meno neppure quando l’opera cinematografica si discosta non poco da quella del poderoso scrittore francese.

 

 

  Antonio Fogazzaro, Un’opinione di Alessandro Manzoni, in Discorsi, Sesto San Giovanni, Casa Editrice Madella, 1914, pp. 37-60.

 

  Cfr. 1887 e 1912.

 

 

  Emanuele Gallo, Il valore sociale dell’abbigliamento, Torino, Fratelli Bocca, Editori, 1914 («Piccola Biblioteca di Scienze Moderne», 226).

  p. 26. Non ha forse scritto Buffon, che «l’habillement est une partie de nous mêmes» e Balzac che «la toilette est l’expression de la société»?[4]


 

  Giovanni Gambarin, Per la fortuna di alcuni scrittori stranieri nel Veneto nella prima metà dell’ottocento, «Nuovo Archivio Veneto», Venezia, Nuova serie, Anno XIV, Tomo XXVII, Parte I, 1914, pp. 134-157; A spese della R. Deputazione, 1914, pp. 3-26.

 

  pp. 8-9. Allorquando, dopo il ’30, la lotta contro le dottrine romantiche propriamente dette cominciò ad attenuarsi, parve che tutti i fulmini, che i classicisti avevano ancora in serbo, fossero rivolti contro gli scrittori francesi che cominciavano a goder tanta fortuna tra noi; ed in questa lotta i classicisti trovarono consenzienti non pochi romantici, i quali, mentre ammiravano le belle doti di quegli scrittori, non sapevano tollerare il realismo e, talvolta, la licenza di alcuni lavori dell’Hugo, del Dumas, del Balzac, della Sand. […]

  pp. 14-15. Un altro scrittore francese che godette larga fama, se non sempre benigna, fu il Balzac, “il primo novelliere della Francia” (2), tradotto e ritradotto nei giornali, nelle riviste, nelle collezioni di romanzi. Anche il Balzac andò incontro a numerose critiche, specialmente perché nei suoi scritti si sarebbe desiderata una maggiore castigatezza in fatto di moralità. Addirittura violenta è una lettera di certo Angelo Fava sul romanzo Les illusions perdues (sic). “Per questa ammirazione io professi all’ingegno del Balzac – confessava il critico – per quanta seduzione abbia altre volte esercitato il suo stile sulla mia immaginazione e sul mio cuore, io sono oggi intimamente convinto che un uomo, il quale in sì strana guisa abusa della sua intellettuale potenza a smuovere i cardini della morale sociale, non merita per verun conto gli applausi che gli sono prodigati”. E continuava rimproverando al Balzac le diagnosi troppo realistiche ch’egli faceva della donna, e raccomandando alle famiglie di non dare accesso ai libri del romanziere francese (3).

  Uno scritto più garbato sul Balzac, e che, nella sua brevità, ha l’aria di essere qualche cosa di completo, è un’appendice del Locatelli (4), in occasione della venuta a Venezia dello scrittore francese, nel 1837. Lo loda anzitutto per la cura che pone nella lima, ma più ancora per la fertilità della sua fantasia. “È una fantasia all’Ariosto, ricca, inesauribile, diversa; ma ben più che all’Ariosto a lui si potrebbe fare talor con ragione la celebre e storica interrogazione del cardinal d’Este”. Il suo stile è “concettoso, fiorito, ma in generale ei si compiace più del nuovo, del singolare, dello strano, che non del bello, del semplice, del naturale. Per questo ei dà spesso nell’esagerazione, bizzarre son talvolta le sue comparazioni, la fecondità degenera in lungheria e diffusione”. Giudizio che non risponde al vero, perché se c’è uno scrittore semplice che miri al massimo effetto con la massima semplicità e talvolta trascuratezza, questi è appunto il Balzac. Maggior ragione ha invece il Locatelli quando afferma che il celebre romanziere ha dei torti verso la morale, e quando riconosce che “nessuno penetrò mai più addentro nei segreti del cuore umano, né ritrasse con maggior evidenza a particolarità l’indole delle varie passioni”. Afferma però che col tempo i suoi romanzi non saranno più gustati; e in questo il Locatelli si mostrava profeta poco felice, giacchè, se c’è romanziere francese le cui opere siano assiduamente lette e fatte oggetto di studio, se c’è romanziere che, per consenso universale, superi ogni altro nello studio di tanti e sì diversi caratteri e nell’investigazione profonda e sapiente dell’uomo e della società, questi è appunto il Balzac.

 

  Note.

 

  (2) Il Vaglio, 1836, p. 79.

  (3) Il Vaglio, 1837, pp. 119-120.

  (4) Append. alla Gazz. di Venezia, 16 maggio 1837.

  (1) p. 15: Sul Balzac vedi anche il Vaglio, 1837, pp. 367-368; e il Gondoliere, 1839, p. 10, su Papà Goriot.



  Cipriano Giachetti, Scipio Sighele: il pensiero, il carattere. Conferenza detta alla “Pro Cultura” di Firenze nel trigesimo della morte. Col ritratto di Scipio Sighele, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1914.


  p. 22. L’esame del Sighele, del resto, non è pura critica: l’autore ricerca piuttosto nelle opere di scrittori antichi e moderni i tipi più notevoli che precedono o accompagnano le descrizioni delle scuole scientifiche attuali. I pittori, i romanzieri, i novellieri hanno descritto gli isterici, i nevrastenici, gli epilettici, i delinquenti, prima che Moreau de Tours o Lombroso o Gilles de la Tourrette si prendessero questa pena: il Balzac ci ha dato con Vautrin e Luciano di Rubempré il più bell’esempio di coppia criminale immaginabile […].

 

 

  Lorenzo Gigli, Il romanzo italiano da Manzoni a D’Annunzio, Bologna, Nicola Zanichelli Editore, 1914.

 

 

Capitolo secondo.

Il romanzo e la vita, pp. 27-68.

 

  pp. 28-30. […] pure imperando sui gusti e sulla moda letteraria il genere storico, si notava sin dagli anni più belli del romanticismo presso di noi, un sensibile movimento verso quelle correnti che da qualche tempo si erano formate in Francia e che avevano condotto alla Notre Dame de Paris dell’Hugo, passando attraverso la passione lirica e la sentimentalità di George Sand, al realismo del grande Balzac. […].

  Il Balzac cominciò presto a essere noto in Italia: fin troppo presto forse, poiché si temeva che il suo canone artistico, denso, in fondo, di scetticismo, avesse facile presa sulle anime dei nostri giovani: i quali, proprio allora, dovevano prepararsi in una poetica vigilia di sacri entusiasmi agli ardimenti del nostro riscatto che non erano più lontani. Ma, nonostante i giudizi e i consigli degli avversari, l’arte di Balzac si faceva strada presso di noi; e con lui sopraggiungeva una coorte di scrittori, nella quale il Sainte-Beuve, il Sue e il Flaubert occupavano i posti migliori. Nel 1840 usciva un romanzo di Nicolò Tommaseo, Fede e Bellezza: era un minuzioso lavoro d’analisi, del quale Carlo Cattaneo, che ne fu il primo critico, fece subito notare i difetti e le fonti. E queste, naturalmente, erano da ricercarsi nella contemporanea letteratura francese: anzitutto nel romanzo del Sainte-Beuve, Volupté, e poi, senza distinzione, nei libri della Sand, di Balzac e degli altri scrittori francesi. […] Più direttamente da Balzac derivano forse le novelle di Francesco Dall’Ongaro e del Thouar[5]; in esse infatti è evidente lo sforzo di rendere il contrasto che domina nella nostra società fra ricchi e poveri, e le ingiustizie e le miserie che ne sono documento d’ogni giorno. Ma che altro sono questi se non tentativi senza conseguenze che indicano piuttosto la vana ricerca che la valida affermazione? A questi nomi potremmo, se mai, aggiungere quelli del Brofferio, del Bersezio e di Cleto (sic) Arrighi; ma il genere che aveva dato in Francia dei capolavori non ha dato presso noi che piccoli frutti e forse esso non era ancora abbastanza elaborato e assimilato dalle menti dei nostri scrittori che si dibattevano tuttavia sotto le strette della gloriosa tradizione romantica dalla quale sorgeva allora la Patria libera.



Capitolo quarto.
Luci e penombre, pp. 127-161.

  pp. 141 e 143. Il Demetrio Pianelli è indubbiamente il suo romanzo più organico e più vitale e la figura del protagonista è degna di Balzac, un giudizio questo non sospetto, poiché fu dato da un altro romanziere, il Rovetta.[6] […].

  Fin l’aria di Milano si respira in queste mirabili pagine, così profonde di sentimento che hanno richiamato il Balzac, così vere nella pittura d’ambiente che sono state paragonate alle più felici pagine del Dikens (sic). […].


  pp. 155-157. [su G. Rovetta]. Infatti egli (che è stato definito da un critico francese[7] il «Balzac» italiano; e proprio in Francia si doveva affermare una simile enormità!) egli, dico, si accontenta di raccoglier i fatti e di metterli nel suo racconto, ma non va più in là; […] ma ciò non basta per essere definito il Balzac italiano.

  Il Rovetta si è dimenticato – o non ha saputo – cogliere i rapporti che passavano fra i suoi personaggi e il loro tempo, determinare gli influssi che sulle loro azioni ha esercitata la società che essi dovevano rappresentare, descrivere infine la società tutta intiera nella quale ci sono sì e Vautrin e Philippe Briveau (sic), ma ci sono anche il vecchio Goriot e Cesare Birotteau. Siamo ben lontani dalla Commedia umana! […].

  Egli […] non ha mai dato forma a delle creature vitali che, come quelle del Balzac, possano restare a testimoni di un’epoca e della sua vita civile.

      

 

Capitolo sesto.
L’ora presente, pp. 249-296.

  p. 292. Sono i caratteri della vita italiana dopo la disfatta di Adua che noi vorremmo fissati e analizzati da un nuovo Balzac. La vicenda della nostra borghesia, le lotte politiche interne che culminarono con le sanguinose giornate del 1898, i cozzi dei partiti, l’insincerità di tutta la vita presente, ecco la materia prima per una nuova commedia umana che attendiamo da anni senza sperare.



  Gli Altri, Ritagli e scampoli. Gerente responsabile, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXVIII, N.° 251, 10 Settembre 1914, p. 4.

 

  A proposito di gerenti responsabili, ce n’era una curiosissima specie nel giornalismo francese, intorno al 1830, quando cioè Balzac ritraeva, da par suo, nelle «Illusioni perdute», tipi ed usanze del mondo giornalistico. Balzac fu per tutta la vita punzecchiato, tartassato, in mille modi dai giornalisti e se ne vendicò spesso, ritraendoli al naturale nei suoi romanzi.

  Uno dei tipi più originali che Balzac abbia ritratto è quello del gerente responsabile spadaccino abbastanza comune allora nelle redazioni parigine. Chi non ricorda il gerente responsabile Girondeau (sic) vecchio soldataccio, che si consola come può di vivere in un tempo in cui trionfano i moscardini delicati e spiritosi? Quando una vittima del giornale s’arrabbia, ecco Girondeau che compare e dice «son qua!» con una cert’aria che fa subito abbassare il tono al cittadino che protesta. «Sono io che ho scritto l’articolo» dice Girondeau, mettendosi già in guardia. A meno che il bravo Girondeau non preferisca invece dire che l’autore dell’articolo «è Filippo Bridau, spadaccino emerito». Questo tipo — assicura la «Revue de Paris» in uno dei suoi numeri — non è stato affatto inventato da Balzac. Alfonso Karr ricorda di aver conosciuto un certo Desportes che faceva questo bel mestiere al «Figaro» verso il 1830 e che s’era fatto una tal fama nel genere che nessuno osava più neppure avvicinarsi alla redazione del giornale.

 

 

  Gino Gori, Il Mantello, in Il Mantello di Arlecchino, Roma, Tipografia Editrice Nazionale, 1914, pp. 3-124.

 

 p. 59. Gerolamo Rovetta appartiene a questa scuola, si trova su questo asse. La sua qualità precipua — l’ideofagia — ne fece un eclettico, ma di gran lunga inferiore al Capuana: cittadino d’un altro mondo ideale, assimilò da per tutto e battè ogni via. Fu naturalista con Zola, psicologo con Bourget, dipintore dell’amoralità con D’Annunzio. Percorrendo tutte le correnti del suo tempo, non ne studiò nessuna ardentemente e arditamente: e mancò, nella sua assai ridotta varietà balzachiana, d’unità, perciò di potenza.

 p. 60. Un’arte consumata invece e una stupefacente vigoria di costruzione psicologica è nella narrazione di Matilde Serao, scrittrice la cui natura, ardente appassionata originale, e, se non si trattasse di una donna, direi cavalleresca, risplende di là dalla perfetta trama di alcuni romanzi e li rende indimenticabili. Anch’ella procede tuttavia da Balzac, da Zola e da Verga.

 p. 65. […] Carlo Del Balzo, finemente osservatore di gusto balzachiano […].

 p. 84. Verga effettivamente, dotato di quell’attitudine tutta sua, e che lo Zola stesso non ebbe, ma ebbe soltanto Balzac, sa costringere coi suoi pugni di ferro quella sua umanità bestiale nella prigione di un atto drammatico, come è raro sappiano altri: scruta nel personaggio l’immutabile essere di passione di dolore di ferocia, e lo strappa all’involucro corporeo, nudo assiale ferreo, avventandolo nella furia di una tragedia che prorompe da lui stesso, dal personaggio, che travolge in furia il turbine delle passioni elementari.



  Arturo Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi. Saggi di Arturo Graf, Torino, Casa Editrice Ermanno Loescher, 1914. [cfr. 1898].

 

  Citiamo dall’edizione del 1920 pubblicata dalla Casa editrice Giovanni Chiantone di Torino.

 

 

Il Romanticismo del Manzoni.

 

  p. 56. I Promessi Sposi sono, tutto sommato, un romanzo realistico nel miglior senso della parola, e più di certi romanzi del Balzac, il quale tutti sanno come troppe volte siasi tuffato nel romanzesco, e in un romanzesco di pessima lega. […].

  pp. 60-61. Del resto, come un romanzo non diventa realistico per ciò solo che l’autore si tien nascosto dietro a’ suoi personaggi, così un romanzo non cessa di essere realistico per ciò solo che l’autore si lascia a quando a quando vedere tra essi. Provatevi a leggere un romanzo del Balzac, e vedete se vi riesce di scorrerne dieci pagine senza dar di petto nel Balzac. E si tratta di un pontefice massimo del realismo! […].

  Oltre di che è da dire che il Manzoni, nel formare i caratteri, riesce alquanto più realista (nientemeno!) del Balzac, il quale, di solito, forma i personaggi suoi tutti di un pezzo, e rimettendo in opera il vieto procedimento classico, segno di tante censure, li accende di una passione unica, che è il principio unico e la ragione unica di tutto quanto essi dicono e fanno; mentre il Manzoni forma complicatamente i suoi, e li mostra, il più delle volte quali sogliono essere in natura, composti di elementi discordi, combattuti da contrarie tendenze. […] Ora aggiungete a tutto ciò che i personaggi del Promessi Sposi mostrano d’avere fra loro quel collegamento, e gli uni sugli altri quel reciproco influsso, che lasciano pur vedere i personaggi del Balzac, nei migliori suoi romanzi.

 

Don Abbondio.

 

  p. 122, nota 1. Il Balzac fu studiosissimo dei nomi dei suoi personaggi, e dicono che il Flaubert andò in gloria il giorno in cui trovò quelli di Bouvard e Pécuchet. 

 

Estetica e arte di Giacomo Leopardi.

 

  p. 184. Il Balzac detestava la musica; il Gautier preferiva il silenzio; i De Goncourt e il Maupassant si confessavano sordi, ecc., ecc. 

 

Preraffaelliti, Simbolisti ed Esteti.

 

  pp. 345 e 347. Poesia simbolica è sempre stata nel mondo, e chi volesse andare in traccia del simbolo per entro nell’arte realistica, e agli stessi romanzi del Balzac e dello Zola, durerebbe poca fatica a trovarlo. […]

  Veramente non tutti i realisti furono disprezzatori della bellezza. […] E molto tempo innanzi il Balzac aveva scritto in uno dei suoi romanzi (Béatrix) queste testuali parole: «La beauté est le génie des choses».

 

 

  Ugo E. Imperatori, La Sardegna d’oggi. Il Capo di sotto, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLXX – Della Raccolta CCLIV, Fascicolo 1014, 16 marzo 1914, pp. 304-321.

 

 

Le miniere.

 

  p. 311. L’ingente ricchezza mineraria della Sardegna non fu mai ignota: in ogni tempo vennero nell’Iglesiente uomini attratti dalla ricchezza dello zinco e del ferro, del piombo e dell’argento, del manganese e dell’antimonio, del nichelio e del cobalto: nel 1835 (sic), alle scorie di Domusnovas venne anche Onorato di Balzac.

 

 

  Cesare Levi, Autori drammatici francesi: Emilio Fabre, «Rassegna Contemporanea», Roma, Anno VII, Serie II, Fasc. IX, 10 Maggio 1914, pp. 365-383.

 

  p. 367. […] il danaro è del resto la molla che fa agire quasi tutti i personaggi del Teatro di Fabre: è protagonista nel Bene degli altri, nella Rabouilleuse, nel Cesare Birotteau […].

  p. 373. Non grande creatore di caratteri il Fabre: […] quel Barone De Thau, ad esempio, il losco finanziere dei Ventri Dorati, pur derivando in linea diretta dal Turcaret di Lesage e dal Mercadet di Balzac, non ha la pienezza di vita di questi due caratteri immortali […].

  pp. 380-383. In due commedie, ridotte da Balzac, Emilio Fabre si rivela invece autore drammatico di gran linea e vero artista. Allorchè da un romanzo che ha già la sua forma artistica perfetta, e, per modo di dire, definitiva, quale è Un ménage de garçon o César Birotteau, un commediografo sa darci l’opera di teatro che vive a sé, e che della sua origine sa così ben nascondere gli elementi essenziali, bisogna concludere che fra u due scrittori v’è una tal quale affinità di carattere e di temperamento: l’aver assoggettato il proprio talento al più umile ufficio di riduttore dell’opera altrui è già un indice dell’ammirazione di Emilio Fabre per l’Opera di Balzac. E poiché una prima volta (nella Rabouilleuse) l’esperimento era riuscito al di là di ogni speranza, con maggior fiducia l’autore, già arrivato alla celebrità, poteva accingersi una seconda volta alla riduzione scenica di un romanzo di Balzac, già consacrato dalla fama.

  La Rabouilleuse, rappresentata all’«Odéon» l’11 marzo del 1903, è l’opera del Fabre più nota in Italia, per l’interpretazione magnifica che ne dà l’attore Alfredo de Sanctis: conviene però dire che il suo Colonnello Bridau non è La Rabouilleuse di Fabre, se non per il carattere del protagonista, che conserva tutto il sapore balzachiano […].

  Nella riduzione del Cesare Birotteau di Balzac, l’autore dei Ventri Dorati diede un’altra prova della sua grande probità artistica. Aveva già scritto una parte e tracciato le grandi linee di un dramma sui commercianti, quando per un caso gli venne fatto di leggere il romanzo di Balzac, che coincideva perfettamente con le sue idee […]. In questo lavoro di adattamento il Fabre era stato preceduto da Eugenio Cormon [cfr. César Birotteau rappresentato al teatro del «Panthéon» il 4 aprile 1838]. […].

  Il Fabre condensò in un solo atto la prima parte del romanzo, quella cioè che descrive «le grandezze» di Birotteau, e negli altri quattro ne rappresentò la «decadenza»: e questa è la parte più interessante. […]. Fabre si attenne al carattere di Balzac, che così ci appare nelle dense pagine del romanzo: il tipico piccolo commerciante francese, umile e un po’ vanaglorioso, ma probo, onesto e lavoratore tenacissimo.

  Il Cesare Birotteau di Fabre fu rappresentato al «Teatro Antoine» il 7 ottobre del 1910, con pieno successo.

 

 

  Giuseppe De’ Liguoro, La moda nei tempi attraverso il prisma cinematografico, «La Vita cinematografica. Settimanale internazionale illustrata», Torino, Anno V, N. 40-41, 30 Ottobre-7 Novembre 1914, pp. 51-55.

 

  p. 55. Mentre Balzac cerca difendere questa famosa donna [Caterina dei Medici] ed asserisce che la storia di Caterina dei Medici è tutta da rifarsi, Monsieur de Brantôme, il Boccaccio della corte di Francesco I, ci narra tutte le strane bizzarrie di cui faceva pompa nelle sue feste la crudele regina.

 

 

  G.[ian] P.[ietro] Lucini, Antidannunziana di G. P. Lucini. D’Annunzio al vaglio della critica, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1914.

 

  p. 298. «Fanciullone, eterno fanciullone! E dove dovrebbe mai vivere meglio un poeta se non a Parigi, dove fa stato la prosopopea di Honoré de Balzac?».

 

  p. 309. Nota (3). Là [a Ville d’Avray] confida a Pietro Croci, mentre infuria la bufera intorno alla Capponcina e gli appare satanica, a torto, tra le nuvole ed i lampi, la buona faccia di Mecenate deluso del Del Guzzo colono inesistente «che l’Ombra del grande Balzac deve fremere d’invidia per lui, in purgatorio, già che egli, D’Annunzio, ha assunto fin dalla nascita le inclinazioni ed i gusti di un principe del Rinascimento giammai fuor d’amore e fuor di debiti».



 Ettore Marroni (Bergeret), La fine d’Antoine. Articolo di Bergeret, «Noi e il Mondo. Rivista mensile de ‘La Tribuna’», Roma, Anno IV, Num. 7, Luglio 1914, pp. 25-32.

 p. 32. Io credo che noi dobbiamo la più grande opera romanzesca del secolo scorso, la Commedia Umana, alla irriducibile ostilità dei quaranta immortali contro Balzac. A coloro i quali edificano l’avvenire giova la presenza del passato.


  Martelletto, In punta di penna, «Il Ponte di Pisa. Giornale politico amministrativo della città e provincia», Pisa, Anno XXII, Num. 13, 29 Marzo 1914, pp. 1-2.

 

  p. 1. Il braccialetto per gli uomini. […] Metternich portava un braccialetto formato coi capelli di Carolina Murat: la scoperta fu fatta da Stendhal che la comunicò subito a Balzac.



  Ferdinando Martini, L’«Ermenegarda» e i canti di Giovanni Prati, in AA.VV., Antologia della critica e dell’erudizione coordinata allo studio della Storia letteraria italiana da Francesco Flamini. Seconda edizione accresciuta e corretta. Volume Secondo. Dall’Età classica ai giorni nostri, Napoli, Francesco Perrella, Società anonima editrice, 1914, pp. 583-586.


  p. 385. Cfr. 1892. 

 

 

  Lavinia Mazzucchetti, Sorelle, «La Lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera», Milano, Anno XIV, N. 4, Aprile 1914, pp. 347-354.

 

  p. 348. Come rievocare nella sua continuità ideale la serie numerosissime delle «sorelle» che veramente han meritato sopravvivere con questo nome? […].

  Tra queste la buona Laura Balzac, la paziente e lieta «petite soeur», fida a lui in tutte le lotte e in tutti i triboli […].



  Corrado Mezzana, Le recenti tendenze artistiche, «Giornale Arcadico. Rivista di scienze, lettere ed arti», Roma, Anno V, Fascicolo 7, Serie 8, 20 luglio 1914, pp. 193-205.

 

  p. 195. La riproduzione brutale e triviale della realtà, che trova il corrispondente letterario in Balzac e Zola, fu anzi il canone di molti veristi e fu clamorosamente proclamato da quel rivoluzionario Courbet che, fiero disprezzatore del sig. Raffaello e compagni, voleva che si chiudessero per venti anni tutte le gallerie, perché i pittori cominciassero a vedere coi loro occhi.

 

 

  Gennaro de Monaco, Le Pagine del Mistero (Donne, pensatori, scrittori, artisti) con prefazione di Matilde Serao, Rocca S. Casciano, Licinio Cappelli, Editore, 1914.

 

 

Madama di Pompadour, pp. 55-81.

 

  p. 73. Imperava, nobilissimo allora, […] il Classicismo.

  Imperava con le famose tre unità tragiche, con il canone della generalità delle figurazioni e delle espressioni, rigidamente mantenuto. Sarebbe allora sembrato un sacrilegio di barbaro, l’abitudine che Balzac aveva di correre per giornate intere, attraverso Parigi a leggervi le insegne delle botteghe, per poter poi, con realità d’osservatore, battezzare le creature dei suoi romanzi.

 

 

Ioris-Karl Huysmans.

II.

Da «Soeurs Vatard» ad «À rebours», pp. 111-128.

 

  p. 122. Gli autori che un tempo lo avevano entusiasmato, perdevano, a mano a mano, ogni incanto. […] Prima si stancò del gran Balzac, poi delle raffinatezze parnassiane di Lecomte de Lisle e di Teofilo Gauthier (sic). Sarebbe più a lungo rimasto nei meandri della casuistica psicologica di Stendhal, se non avesse respinto energicamente quello scrittore per la rozzezza dello stile, che gli sembrava quello d’un burocratico.

 

 

VI.

«L’Oblat», pp. 160-165.

 

  p. 162. […] io consigliavo all’autore, un sereno sguardo alle opere della vita; non disprezzi l’agitarsi di mille uomini alla stessa azione ed all’identico scopo; si ricordi di Balzac, che dettava non esser più volgare ciò che diventa universale; scacci da sé la malsana voglia dell’eccezione ad ogni costo e malgrado tutto.

 

 

Figure feministe.

II.

Giorgio Sand, pp. 177-188.

 

  pp. 179 e 180. Oh! allora, in quel punto culminante della sua vita artistica, Raimondo de Ramière può ben esulare dai libri della Sand e pigliar posto tra le umane creature di Onorato di Balzac e stendere la mano ai suoi lontani nipoti bourgettiani! […].

  Fu soltanto nel 1832, dopo tali fortunati esordii letterarii, che ella pubblicò finalmente Indiana. È un pasticcio alla Balzac! – (e credeva d’offenderla!) gridò Delatouche dopo averla letta, ma, poi, fece onorevole ammenda, le chiese perdono […].

  pp. 185 e 186. Infine, dopo le cronache romantiche di Alessandro Dumas, ella doveva essere una tigre, che bisognava trattare da tigre; e dopo la Peau de Chagrin di Balzac, doveva essere una misteriosa bellezza di cui ogni sguardo ed ogni parola celasse degli abissi profondi. […].

  Ella, insomma, voleva dipingere i contadini e gli operai, non quali erano realmente, ma quali nella sua visione dovevano essere. Al genio di Onorato di Balzac ella si inchinava, ma vedeva, giusta le sue confessioni, le cose umane, sotto un tutt’altro aspetto. «Voi fate, gli scriveva – la Commedia umana: il titolo è modesto; potreste meglio dire il dramma, la tragedia. Sì – di rimando il colosso ma voi non fate che l’epopea umana!» E la povera romantica non comprendendo l’ironia, si ringalluzziva del titolo, che le pareva troppo elevato e si trincerava nel suo desiderio di scriverne soltanto l’egloga, il poema, il romanzo.

p. 188. Sulle teoriche artificiose, le leggi sempiterne della natura piantarono le bandiere della vittoria e le fanfare intuonarono un inno. Chassez le naturel, appunto in quei tempi dettava Onorato di Balzac, il revient au galop! [8]



  Vincenzo Morello, Balzac e Napoleone, in L’albero del male di Rastignac, Roma, Bernardo Lux Libraio Editore di S. M. la Regina Madre, 1914, pp. 294-299.

 

  Cfr. 1910.

 

 

La catena, pp. 140-144.

 

  pp. 142-143. La catena lega tutti, egualmente, e tutti egualmente assicura al dolore ed alla morte. Eppure voi sentite, che la catena rende diverso suono, nelle prigioni che descrive Balzac, e in quelle che descrive Dostojevski. Guardate nell’Ultima incarnazione di Vautrin; e guardate nella Casa dei morti. Balzac vi mette a scoperto la galera, in quel terribile cortile delle prigioni, dove Vautrin, travestito ancora da prete spagnuolo, piomba fra i suoi a tentare la sua ultima avventura. Tutta quella popolazione di criminali si aggira curiosa nei primi momenti attorno al nuovo arrivato; finchè qualcuno dei più esperti non riconosce al passo l’antico galeotto. Le poid (sic) de la chêne est tel qu’il donne un vice de marche éternel au forçat. Ed è a questo vizio, che Fil-de-soie e la Pouraille riconoscono nel prete spagnolo il loro dâb, il loro signore, il Cromwell del bagno: Vautrin. Qui la catena vi pare un elemento costitutivo di quel mondo, di quella popolazione, in cui ogni senso morale e ogni sentimento umano è sparito nella lotta per il delitto.

 

 

Processi letterari, pp. 271-276.

 

  p. 274. Uno dei più fieri avversari di questi processi fu, al suo tempo, il Balzac, lo scrittore – stiano bene attenti i vari Procuratori del Re – lo scrittore legittimista, che si vantava di scrivere «alla luce di due lampade: la Religione e la Monarchia» (la Religione, non la libertà, e nemmeno il libero pensiero). «Le reproche d’immoralité – egli scriveva, protestando – n’a jamais failli à l’écrivain courageux. Si vous êtes vrai dans vos peintures et à force de travaux diurnes et nocturnes vous parvenez à écrire la langue la plus difficile du monde, on vous jette alors le mot immoral à la face. Quand on veut tuer quelqu’un, on le taxe d’immoralité. Cette manœuvre familière aux partis, est la honte de ceux que l’emploient». Il grande creatore della Commedia Umana conosceva la persecuzione, conosceva la honte dei suoi detrattori, diventata più velenosa che mai, contro quel capolavoro di lingua che sono Les contes drolatiques e quel capolavoro di osservazione ch’è la Phisiologie (sic) du mariage.



  Guido Muoni, Carlo Baudelaire, Genova, A. F. Formiggini Editore, 1914 («Profili», n. 35).

 

  pp. 15-16. Se il più importante fra i suoi scritti dell’anno 1846 è la critica del Salon […], ricorderemo tuttavia ancora, per qualche rispetto notevoli, la novella Le Jeune Enchanteur, ed un articolo polemico contro certi metodi di lavoro del grande Balzac: Come si pagano i propri debiti quando si ha del genio. […]

  Nell’articolo polemico è una testimonianza dell’alto concetto ch’egli aveva della probità artistica; vi attacca il pur da lui ammirato Balzac, perché, per far denari, era talora costretto a mandar fuori opere indegne del suo nome, servendosi di collaboratori ch’egli, Baudelaire, letteralmente riteneva dispregevoli.



  E. Murger, La Bohême o gli eroi della miseria, Firenze, Adriano Salani Editore, 1914.

 

  Giacomo faceva parte d'una società chiamata: i ‘Bevitori d'acqua’, che sembrava fondata per imitare il famoso cenacolo della via dei ‘Quattro Venti’, di cui si parla nel bel romanzo: ‘Un grand'uomo di provincia’. Però, esisteva una gran differenza tra gli eroi del cenacolo ed i bevitori d'acqua, i quali, come tutti gli imitatori, avevano esagerato il sistema che volevano mettere in applicazione. Tale differenza emerge da questo unico fatto, che nel libro di Balzac i membri del cenacolo finiscono col raggiungere la mèta che si sono proposta, e provano che ogni sistema è buono, se riesce; mentre invece, la società dei ‘Bevitori d'acqua’ dopo alcuni anni di esistenza, si sciolse naturalmente per la morte di tutti i suoi membri, senza che il nome di alcuno sia rimasto unito ad un’opera che attesti la loro esistenza.



  Laura Mutinelli, Les paysans dans la littérature française d’après Balzac et George Sand, Lodi, Tipografia Marinoni, 1914, pp. 39.



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  A. N., Le idee, i libri, le riviste. Il filosofo Luciano e un traduttore … verista, «Il Piccolo della sera», Trieste, Anno XXXIII, N. 11690, 17 Gennaio 1914, p. 2.


  Il Balzac non si era spaventato a pren­dere di botto tutto il linguaggio del marciapiede (così diverso da quello delle accademie) per trasportarlo nei suoi ro­manzi. Emilio Zola, un discepolo, seguì l’esempio. Ma per le traduzioni, si potreb­be seguire la medesima via?



 Carlo Nazzaro, … Che manca alla “Commedia Umana”. Episodio romantico di Carlo Nazzaro, «Varietas. Casa e Famiglia. Rivista mensile illustrata», Milano, Anno XI, N. 119, Marzo 1914, pp. 247-248.


  L’arrivo di quell’uomo grasso e senza collo aveva turbato, senza inquietare, l’acqua cheta della vita provinciale in quell’ignorato paesello di Linguadoca. Caso strano, il nuovo venuto riusciva simpatico a entrambi i sessi: agli uomini perché sotto l’adipe borghese del suo ventre mal si sarebbe celato lo stinco di don Giovanni; alle donne perché era di piacevole conversazione.

  Così nessuno fece caso alle circostanze piuttosto strane che avevano accompagnato il suo arrivo a X***; più strana, fra tutte, quella appunto di essere venuto in un paese ove non era giunto mai un forestiero, tanto meno un forestiero come lui che non era nè commesso viaggiatore, nè cavadenti, nè saltimbanco.

  Furono invece organizzate serate e ricevimenti in suo onore e le persone autorevoli del luogo, dal farmacista al giudice di pace, fecero a gara perché le feste riuscissero degne di tanto personaggio che, nel suo enorme cappotto abbottonato sino al collo, aveva tutta l’aria di un vecchio dragone della guardia colpito improvvisamente da pinguedine progressiva.

  Anzi, siccome lo sconosciuto aveva dichiarato di essere celibe, passò per la mente di ogni onesto genitore l’idea di imparentarsi con lui: quell’aria di mistero non era forse sintomatica? E se era un maresciallo che si rifugiava in provincia per sfuggire alle persecuzioni della Restaurazione? Del resto era parigino: si capiva dall’accento, dai modi, da un certo gusto originale nel vestire, e il matrimonio con l’uomo della città solleticava più di un padre e, diciamolo, più d’una figliuola.

  Il fortunato fu Maurizio Labouchère, speziale autorizzato di X*** il quale credette scorgere nello straniero e, non a torto, delle preferenze per sua figlia Pierina. E con tutto il cuore lo favorì.

  Il grosso signore senza collo fu invitato ogni giorno a pranzo, fu lasciato prudentemente solo con Pierina, fu fatto passeggiare insieme con lei in giardino, non senza suscitare una certa disapprovazione negli altri padri che non avevano potuto fare lo stesso. La figlia dello speziale non si mostrava eccessivamente entusiasta della scelta paterna ma, tutto sommato, lo sconosciuto non le dispiaceva. Anzitutto influiva su lei quell’indefinibile aria di mistero di cui egli involontariamente si circondava e che aveva già colpito gli altri; poi lo straniero parlava delle cose e degli uomini come ella non ne aveva mai udito nè da suo padre nè da suo cugino. Luigi Mercier, studente di diritto a Parigi, i soli rappresentanti dell’altro sesso con i quali Pierina s’era intrattenuta di più in vita sua. Una cosa non poteva perdonare allo straniero, ed era l’indifferenza, per non dire l’avversione, ch’egli dimostrava per la letteratura.

  Una volta che, non sapendo come dar principio a un discorso, la figlia dello speziale domandò al suo corteggiatore se si interessasse di letteratura, lo straniero parve dapprima sorpreso e sconcertato e poi balbettò un: — «No ... Perché?  che scon­certò a sua volta la provinciale.

  Pierina tuttavia tornò sull’argomento con la persistenza e la curiosità femminile che vuol cercare per forza una ragione in tutte le cose; ma finì per convincersi che il suo amico non s’intendeva affatto di romanzi e quindi non voleva farsi trascinare in un terreno non suo.

  Un bel giorno, inviato dal cugino Mercier, giunse a Pierina un grosso volume che, a detta dell’aspirante baccelliere, menava allora gran chiasso: L’Ebreo errante e la fanciulla tornò alla carica.

   — Volete leggerlo? — chiese all’amico. Ma l’altro lo rifiutò gentilmente, col pretesto ch’era troppo lungo.

   Quest’ultima dichiarazione rafforzò in Pierina la convinzione che lo sconosciuto fosse un uomo d’arme e quindi insensibile alle opere della fantasia; ma, d’altra parte, intiepidì in lei che aveva pianto sul Kenilworth e che aspettava da un giorno all’altro un Arciero Scozzese, la simpatia per lo straniero, fino al punto da rompere con lui ogni rapporto, con gran dolore di suo padre (il quale ad ogni costo avrebbe voluto imparentarsi col maresciallo — oramai lo speziale era sicuro che lo sconosciuto fosse un compagno di Napoleone), e di ripigliare l’idillio con suo cugino che, non ancora creato baccelliere, annunziava già un volume di novelle.

   Intanto le cose precipitarono. Non era passato un mese dal giorno dell’arrivo dell’ignoto signore che per una delle porte di X*** fece ingresso in paese un solenne usciere della Corte di giustizia con due agenti i quali si misero a frugare da per tutto, a far inchieste, a domandare ovunque dello strano personaggio: inutilmente perché l’ospite la notte precedente era sparito misteriosamente com’era venuto.

  Si seppe così che il preteso Maresciallo di Francia era un famoso imbroglione, un uomo fallito parecchie volte e condannato per debiti e che era venuto a X*** per sfuggire alla persecuzione dei creditori.

  In paese si parlò a lungo della cosa e Maurizio Labouchère si dolse non poco d’aver ammesso in casa un simile galantuomo. Ma, un anno dopo, quando Luigi Mercier, già baccelliere da una settimana, doveva sposare sua cugina Pierina, nessuno ricordava più la strana avventura.

  La casa della sposa era in subbuglio: giungevano doni e invitati d’ogni parte. Il procaccia era salito lassù almeno venti volte. Questa volta il pacco era ancora più grosso.

  – Il dono della zia Orsola — sentenziò compiaciuto Labouchère.

  E rimase male quando gli fecero osservare che il pacco veniva da Parigi e la zia Orsola stava a Tours.

  Fu aperto. Pierina, vedendo che conteneva una enorme pila di libri tutti ben rilegati, gittò le braccia al collo al fidanzato esclamando:

  — Grazie! È il più bel dono che potevi farmi. Hai compreso il mio pensiero!

  E poi, rivolta ai presenti:

   – Son le sue novelle!

  Il baccelliere rimase interdetto. Il dono, certo, era bello, ma non veniva da parte sua, per la semplice ragione che le sue novelle ... non erano ancora stampate. Ciò nonostante tolse dalla scatola il primo volume, lo aprì, lesse sul frontespizio una dedica, non capì nulla e lo passò a sua cugina.

  La dedica si ripeteva su tutti gli altri libri: A Pierina Labouchère perché ricordi il vecchio amico.

  Un volume portava innanzi il ritratto dell’autore: la grossa faccia dell’ignoto signore senza collo, i capelli spioventi e grigiastri divisi sull’ampia fronte dal lato destro, i baffi radi sul labbro enorme.

  Sotto v’era il nome, piccolo, tortuoso, quasi impercettibile: Onorato di Balzac.



  Federico Olivero, Studi sul romanticismo inglese, Bari, Giuseppe Laterza & Figli, Editori, 1914.

 

  p. 83. Il mondo di Balzac è un sogno, ma foggiato con elementi tratti dalla realtà e trasfigurati nell’anima dell’autore […].



  Papillon d’Or, La “Silhouette” 1914, «Gazzetta di Bergamo. Giornale Politico Quotidiano», Bergamo, Anno 54, N. 12, 16 Gennaio 1914, pp. 1-2.


  p. 2. Oggi invece, il primo quadro che vi offre un cinematografo quando vi vuole mettere sotto gli occhi la moda parigina ... è l’ultima moda in fatto di calzature e sullo schermo nitido è così proiettato il piede ... inguantato, ornato, tempestato di brillanti e di nastri, di una parigina. Anche il tempo — relativamente recente — delle belle signore in sciarpa e «crinoline» (la «crinoline» che nascondeva il piede) delle belle signore descritte nella «Commedia Umana» del Balzac, ha completamente mutato i suoi valori. Ancora a quel tempo, infatti, il piede femminile era qualche cosa di sacro e di invisibile, tanto che (rammentate?) Louis Lacubert (sic), uno degli eroi del Balzac, reputa cosa deliziosamente inaudita: «Il tuo piedino si scalzerà per me; — egli scrive — la gioia mi uccide!».



  Vilfredo Pareto, Il mito virtuista e la letteratura immorale, Roma, Bernardo Lux Editore, 1914.

 

  Citiamo dalla più recente edizione curata da Franco Debendetti per le edizioni Liberliber di Macerata (2011).

 

  pp. 42-43. Si è condannato in Inghilterra un editore per aver pubblicato Les Contes di Balzac, ed in Germania un libraio, per aver venduto il Decamerone di Boccaccio. Sono tuttavia delle opere letterarie. […]

  Quando si ebbe la condanna dei Contes di Balzac in inglese, si fece osservare che quanti volevano leggerli potevano ricorrere alle edizioni francesi.

  p. 69. Il giudice intelligente e assennato, che ha condannato l’editore di una traduzione inglese dei Contes di Balzac, dovrà a più forte ragione agire contro una traduzione inglese d’Aristofane. Vi è in questo autore ben altra oscenità che in Balzac!

  p. 82. Certo non v’è opinione che non possa sostenersi; ma ogni logica sembra assente da quella che giudica i racconti del Balzac più liberi di certi versi del Don Giovanni di lord Byron.



  Nello Quilici, Preparazione e genesi della “Comédie Humaine”. Tesi di laurea discussa presso la Regia Università di Bologna nel dicembre 1914.


  Giovanni Rabizzani, Bozzetti di letteratura italiana e straniera, Lanciano, R. Carabba, Editore, 1914.

 

 

Ristampa di Oriani, pp. 90-100.

 

  pp. 93-94. Per trattare dell’Oriani critico e moralista, come dell’Oriani storico e politico, dovremmo rifarci dalla storia della sua cultura, dalle sue predilezioni di studioso sia filosofiche, sia letterarie: Hegel, Vera, De Meis, Giuseppe Ferrari, Balzac, Carducci, Verga […].

 

 

L’indulgenza di Cervantes, pp. 327-336.

 

  p. 334. [su: Il geloso dell’Estremadura]. […] (la pittura delle duene è insuperabile nello scrittore spagnuolo come la pittura dei celibi in Balzac) […].

 

 

I Greci di Menandro, pp. 393-402.

 

  pp. 398-399. Menandro è così, perché è un saggio. […] Non è però scettico; infatti crede, almeno, ai propri consigli.

  Il tono delle sue riflessioni si comprende da qualche esempio. Ricordate Les parents pauvres di Balzac? Il succo di quella filosofia è già in Menandro:

 

 

È gran fatica ritrovar congiunti

d’un povero: nessuno riconosce

che gli è parente quegli ch’ha bisogno

d’aiuto; chè ne teme le richieste.

 

 

Le due innocenze.

Dal “Ciclope” di Euripide alle “Pastorali” di Longo, pp. 403-414.

 

  p. 413. Donde il miracolo della versione di P.-L. Courier [delle Pastorali], che, nel valutare l’importanza estetica dello «style vieilli», ebbe precursori insigni come il La Fontaine e il La Bruyère ed un epigono addirittura grande, il Balzac.



  Ernesto Ragazzoni, Il giro del mondo in compagnia di Paul Adam (Nostra corrispondenza particolare), «La Stampa», Torino, Anno XLVIII, Num. 44, 13 Febbraio 1914, p. 3.

 

  Con Tolstoi e con Flaubert, Paul Adam è il creatore di un genere che si può definire «il romanzo di sintesi sociale». Balzac ha trattato l’uomo più specialmente dal punto di vista delle passioni; Zola ha troppo esclusivamente studiato i caratteri dal punto di vista dell’istinto; Paul Adam, invece, procedendo per l’appunto da Tolstoi e da Flaubert, mette dinanzi al lettore il personaggio completo, l’individuo tipo, sintesi di tutti gli elementi sociali che collaborarono alla sua formazione […].



  Medardo Riccio, Francesco Crispi, la Sardegna e la Sicilia, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLXXI – Della Raccolta CCLV, Fascicolo 1020, 16 giugno 1914, pp. 676-692.

 

  p. 681. In Sardegna l’usura fu sempre l’ostacolo principale allo sviluppo dell’agricoltura […]. Ed infatti quando si sale al 100% e perfino al 200%, con forme di anticipazioni che sfuggono ai raffinati strozzini sul tipo di quelli creati da Shakespeare o da Balzac, si capisce come il 30 per cento possa ancora dirsi la più mite espressione del credito … agrario.



  Maurice Roques et Silvio Serafini, Précis d’histoire de la littérature française des origines jusqu’à nos jours par Maurice Roques et Silvio Serafini. Avec 68 illustrations, Città di Castello, Casa tip.-editrice S. Lapi; Milano-Roma-Napoli, Società editr. D. Alighieri, 1915.

 

 

Balzac.

 

1. Sa vie et son caractère.

 

  Honoré de Balzac. (1797 [sic]-1850), le plus grand romancier français du XIXe siècle, naquit à Tours, étudia à Vendôme et à Paris, fut clerc d’avoué et de notaire. Ayant obtenu à grand peine de son père la permission de tenter la carrière des lettres, il vécut a Paris d’une maigre pension, et mangea, comme on dit familièrement, de la vache enragée. Il fit d’abord quelques romans pour se former la main. Il s’avisa ensuite de s’établir fondeur en caractères et imprimeur et fit de mauvaises affaires. Alors, sans se décourager, il reprit la plume pour vivre et pour payer ses créanciers. Le Dernier Chouan (1829) tat son premier succès. Désormais ses romans se succèdent avec rapidité et avec une vogue toujours croissante. Néanmoins toujours endetté, dépensant beaucoup en meu­bles, tableaux, curiosités, voyages lointains en Allemagne, en Russie, et toujours hanté du désir de s’enrichir rapidement il se livre à des entreprises ruineuses, comme l’exploitation des anciennes mines de Sardaigne. Enfin il revient définitivement aux lettres, et, pendant quinze ans, il écrit avec acharnement, dans sa petite maison de Passy, vêtu d’une robe de moine et se soutenant, dans son travail nocturne, à force de café. Dès 1833 il a conçu la vaste pensée de faire entrer tous ses romans dans un cadre unique: ce sera la Comédie humaine, dont certaines parties resteront inachevées. Il voyage beaucoup en France pour y étudier ses modèles provinciaux aussi curieusement qu’il a étudié la société parisienne. Entre temps, il a essayé du journalisme et du théâtre. Sa meilleure pièce, Mercadet, le faiseur d’affaires, n’est jouée, avec succès, qu’après sa mort (1851). En 1850, déjà atteint d’une maladie de cœur, il épouse à Berdytcheff en Ukraine, sa chère Mme Hanska, avec laquelle il entretenait une correspondance depuis 1840, et il revient mourir à Paris le 18 août 1850.

 

  L’homme a ses bons et ses mauvais côtés. Son extérieur est à la fois vulgaire et prétentieux. Il est d’une jovialité grossière, d’une humeur souvent violente et emportée. Ses opinions aristocratiques sont en étrange con­traste avec ses manières et ses instincts plébéiens. Il aime l’argent, l’idée du gain l’obsède ; mais il est honnête et même naïf et dupe en affaires. Bon, généreux et franc, à certains moments, il reste absolument indifférent dans son égoïsme d’auteur à tout ce qui n’est pas son œuvre, et il n’est pas exempt de jalousie envers ses rivaux. C’est lui cependant qui a le premier rendu hommage au talent de Stendhal. Ce n’est pas une nature morale d’élite; mais c’est un «admirable ouvrier de lettres» probe, consciencieux, laborieux, domptant par la force de la volonté un esprit rebelle, et c’est bien là le trait distinctif de son caractère. Il a aimé passionnément la gloire et son labeur a obtenu sa récompense.

 

 

2. Son œuvre.

 

  Les œuvres du génie, dit F. Brunetière, auquel nous emprunterons beaucoup dans cette étude, se reconnais-sent à ce signe que chaque génération y découvre quelque chose de nouveau, dont l’auteur lui-même n’a peut-être pas eu conscience. Ainsi s’est dégagée après un demi-siècle la valeur historique, sociologique, et, en quelque mesure, scientifique, de la «Comédie humaine».

 

  Les Romans de Balzac ont une valeur historique, en ce qu’ils nous donnent limpression, la sensation vraie de certaines époques, comme les guerres de la Révolution, le Consulat, ou de certaines catégories de personnes, comme les officiers en demi-solde de la Restauration, la bourgeoisie du temps de Louis-Philippe. Ils décrivent aussi, par le menu, les aspects extérieurs de la vie aux époques où se place l’action du roman, costumes, mobilier, bref le décor exact et complet, tout ce qui se voit et imprime à un temps sa physionomie spéciale, et par là, ils sont, comme on dira plus tard, réalistes. Ils le sont encore davantage et d’une manière plus intéressante par l’exactitude des descriptions locales fondées sur des souvenirs personnels et des voyages d’étude, par le relief des physionomies individuelles, la vision nette du dehors et du dedans des personnages observés, peut-être même trop complaisamment, jusque dans leurs grimaces, leurs tics, leurs manies, comme dans leurs plus intimes manières de sen­tir et de penser, dans les plis particuliers qu’impose à chacun sa condition, sa profession ou son métier. Le lecteur se sent transporté parmi des êtres réels vivant d’une vie concrète.

 

  L’amour, qui est le sujet habituel des romans, a sa place ici comme dans la vie, ni plus ni moins; mais Balzac ne lui sacrifie pas la peinture des autres passions et des autres intérêts, l’amour-propre sous toutes ses formes, la politique, l’ambition, la chasse à l’argent surtout, parce que la possession de la richesse est devenue (il l’a bien compris, lui le débiteur acculé à la faillite, l’homme aux projets colossaux) le levier tout-puissant de la société moderne. Hommes d’affaires, notaires, avoués, huissiers, banquiers, usuriers, avec leurs occupations et leur langage, deviennent des personnages de roman, avec une foule de gens, hommes et femmes de tout âge, de tonte condition, dont on ferait tout un dictionnaire biographique. «Une génération, dit-il, est un drame à quatre ou cinq mille personnages». C’est ce drame qui constitue la Comédie humaine. Et cependant elle a de grosses lacunes: les ouvriers, les gens à gages, le monde judiciaire, le monde religieux et enseignant, le monde militaire en sont à peu près absents. Mais quel homme a jamais pu observer et peindre la société tout entière et quel ouvrage pourrait la contenir? Celui-ci est, du moins, le plus vaste recueil de documents qu’aucun auteur ait (sic) jamais rassemblé sur notre espèce et notre nature.

 

  Notons ce trait, qui distingue Balzac des romantiques; c’est qu’ayant des idées très arrêtées, sinon très justes, en religion, en philosophie, en politique, en littérature, il a su rester en dehors de son œuvre et que ses héros ne sont ni ses interprètes, ni faits à son image. La Comédie humaine est nettement objective. Ce qui n’empêche pas, d’ailleurs, l’auteur d’intervenir dans ses récits par des réflexions telles qu’en pourrait faire un lecteur qui penserait comme lui.

 

  Enfin on a pu dire que son œuvre présente certains caractères scientifiques. Balzac, qui n’est pas étranger aux sciences de son temps, paraît bien avoir voulu montrer que la société, comme la nature, a ses variétés différenciées par les milieux. Il a voulu faire du roman l’histoire naturelle de l’homme civilisé en France au XIXe siècle.1

 

  1 «La société ne fait-elle pas de l’homme, suivant les milieux où son action se déplace, autant d’hommes différents qu’il y a des variétés en zoolo­gie ?Il a donc existé, il existera de .tout temps des espèces sociales, comme il y a des espèces zoologiques». (Préface).

 

  Il convient d’ailleurs de ne pas prendre à la lettre cette comparaison qui est plutôt métaphorique. Un homme passe, suivant les circonstances, d’une variété sociale dans une autre, et un animal ou une plante ne change pas d’espèce. Et, en outre, peut-on affirmer que tout l’homme soit gouverné par les lois de la nature physique ?

 

  En somme, le grand et doublé mérite de Balzac, c’est la faculté d’observation à qui rien n’échappe, et cette force d’imagination créatrice qui communique une vie plus que réelle aux êtres d’imagination engagés dans la lutte pour la vie, dont elle combine les péripéties de la manière la plus dramatique. Mais cet observateur réaliste, ce créateur de personnages vrais, se laisse entrainer souvent, soit par manque de goût, soit pour complaire à son public, à tous les excès de l’imagination romantique, soit qu’il complique à dessein les intrigues les plus invraisemblables, soit, comme il l’avouait à George Sand, qu'il idéalise au rebours ses personnages, dans leur laideur ou leur bêtise. Cela ne veut pas dire que le monstrueux et le grotesque n’existent pas dans la réalité et que la passion ou le vice effrénés n’aboutissent à une sorte de folie pathologique que le romancier est en droit d’étudier. Mais on sent bien à quel moment il s’écarte de la vérité.

 

  Ce qu’il y a de défectueux chez lui, c’est la composition: débuts trop longs, dénouements trop brusques, descriptions interminables et non mêlées adroitement au récit, de manière à faire corps avec lui, abus des digressions souvent déplacées et pédantesques qui coupent mal à propos le récit. Quant à son style, on a souvent reproché à Balzac d’écrire mal, et, sans excès de délicatesse et de purisme, on peut bien être choqué des défauts de ce style incorrect, impropre, pénible et embarrassé, tantôt plat et bouffon, tantôt prétentieux et guindé, de ses trivialités et de ses vulgarités, sensibles surtout dans la façon pitoyable dont il fait parler les gens du monde. Non, certes, Balzac ne passera jamais pour un modèle de l’art d’écrire en français, ni pour un observateur délicat des convenances du style; mais, enfin, il faut bien lui reconnaître, conformément à ce que nous avons dit plus haut, un don qu’aucune qualité académique ne saurait remplacer, don que possédait Molière, dont les puristes ont condamné le jargon, et le fougueux et désordonné Saint-Simon; son style, dans les meilleures parties de son œuvre, est vivant; il reproduit le mouvement, le relief, la couleur et aussi le désordre, le trouble, la confusion et l’irrégularité de la vie.

 

  Par la même raison, Balzac est au- dessus du reproche d’immoralité. Il est bien vrai qu’il traite avec complaisance certains sujets répugnants qu’il peint avec une âpre vérité, sans déguisement ni ménagement, certaines laideurs morales ; mais qui l’accusera de rendre le vice séduisant? Or c’est à ce signe qu’on reconnaît l’immoralité d’un romancier. Du reste la vertu n’est pas absente de son œuvre, comme elle l’est des romans naturalistes. Il y a, mêlées à ses monstres, des figures très belles et très pures, en petit nombre, il est vrai. Enfin la démonstration qui ressort si fortement de ses peintures, c’est que la passion déchaînée conduit l’homme, à travers le malheur et la honte, à la folie et à la mort, et c’est une assez bonne leçon morale.

 

  L’influence de Balzac a été tout de suite très grande, et dure encore. Il a puissamment contribué à déconsidérer le roman romantique voué au culte du moi ; il a singulièrement élargi le domaine du roman moderne dont toutes les formes relèvent de lui. Flaubert, Goncourt, Daudet, Zola sont ses débiteurs. On pourrait, sans paradoxe, signaler son action sur la critique. Taine, qui a si bien parie de lui dans ses Essais de Critique, a certainement subi son influence. Le théâtre d’Augier et de Dumas, et plus encore celui de leurs successeurs n’eut pas été possible avant lui. Enfin, il se pourrait bien qu’il ait agi aussi sur les mœurs et que certains de ses héros, gens énergiques et sans scrupules, aient suscité des imitateurs, et, s’il fallait lui faire porter cette responsabilité, c’est alors qu’il serait démoralisateur; mais il est également possible que, par une sorte de divination, fruit de l’expérience, il ait imaginé les prototypes d’une fâcheuse espèce qui devait se multiplier plus tard dans une société où la lutte des appétits et des intérêts est arrivée à son paroxysme. D’ailleurs on peut prendre chez lui des leçons de volonté, sans renoncer pour cela aux scrupules de l’honnête homme.[1][1]

 

  1 La Comédie humaine forme, dans l’édition la plus commune, 40 volumes subdivisés ainsi qu’il suit :

 

  Scènes de la vie privée, (La maison du Chat qui pelote, Albert Savarus, Modeste Mignon, le Colonel Chabert).

 

  Scènes de la vie de province, (Eugénie Grandet, le Lys dans la Vallée, Ursule Mirouet, Illusions perdues).

 

  Scènes de la vie Parisienne, (Splendeur et misère (sic) des Courtisanes, le Père Goriot, la dernière incarnation de Vautrin, César Birotteau, la Cousine Bette et le Cousin Pons).

 

  Scènes de la vie politique, (Une ténébreuse affaire, le Député d’Arcis).

 

  Scènes de la vie militaire, (Les chouans).

 

  Scènes de la vie de Campagne, (Le médecin de Campagne, le Curé de Village, les Paysans).

 

  Etudes philosophiques (la Peau de chagrin, la Recherche de l’absolu).

 

  Etudes analytiques, (la Physiologie du mariage).

 

  Les Contes drôlatiques colligés ès abbayes de Touraine sont un curieux pastiche de la langue des nouvellistes du XVIe siècle et celle de Rabelais et rappellent, par la nature des sujets, les Cent nouvelles nouvelles.

 

  Le Théâtre de Balzac comprend : Vautrin, les Ressources de Quinola, la Marâtre, Mercadet ou le faiseur.

 

  On a publié récemment une partie de sa Correspondance.



  Filippo Salveraglio, Vocabolario Italiano Illustrato con le nuove voci anche straniere attinenti a scienze, lettere, arti, commercio, industria, politica, vita pratica, arte marina, militare, tutti gli sports, locuzioni latine e italiane, ecc. Quarta Edizione riveduta ed ampliata, con raggiunta di nomi storici geografici e mitologici, biografie, ecc. Numerose e ricche incisioni. Carte geografiche dalle regioni italiane in cromolitografia, grandi tavole a colori ecc., Milano, Casa Editrice Bietti, 1914.


  p. 144. Balzac (Onorato di), celebre romanziere francese (1799-1850), n. Angoulème (sic). Suoi principali romanzi: La ricerca dell’assoluto, Il Medico di campagna, Eugenio Grande (sic), I genitori poveri.



  Lo scalpellino, Schegge. Alla ricerca d’un nome, «La Capitanata. Periodico settimanale», Foggia, Anno I, Num. 41, 15 Novembre 1914, pp. 1-2.

 

  p. 2. L'un delle più gravi preoccupazioni dello scrittore è la ricerca dei suoi personaggi. Di rado quei nomi vengono spontanei alla mente o cadono sotto la penna che scrive: bisogna per solito cercarli a lungo e studiarvi sopra.

  La Commedia umana di Balzac ha richiesto, sotto questo aspetto, delle cure speciali e lunghe tanto vero, chè alcuni di quei nomi sono così rispondenti al tipo, da rimanere classici nella letteratura e nell’uso. Uno dei molti episodi riguardanti la nomenclatura dei personaggi balzachiani, riguarda Marcas. Per trovare questo nome Balzac, aiutato dal suo collega ed amico Gozlan, intraprese delle ricerche addirittura ostinate. La stagione era invernale e pioveva a torrenti: malgrado ciò i due amici – uno, lungo un marciapiede, l’altro lungo l’opposto – percorrevano le vie di Parigi, guardando tutte le insegne, tenendo conto di tutte le minime indicazioni. La cosa minacciava di durare a tango e Gozlan, stanco di un peregrinare così poco divertente si accingeva a lasciar l’amico nelle piste: ma questi tanto insistè finchè lo costrinse a riprendere la (sic) strano incarico, malgrado la stagione inclemente. Alfine Balzac gettò un grido di Eureka: egli aveva letto il nome fatidico.

  — Marcas! Ecco il nome del mio eroe! Vi è d'ogni cosa in questo nome: del filosofo, dello scrittore, dell’uomo di stato, del poeta incom­preso. Marcas, simboleggia tutto ciò!

  Veramente l'individuo che portava un nome così simbolico, non era che un volgare sarto ma Balzac non si perdè di animo per ciò. Egli pensò che l’uomo è spesso maltrattato dalla sorte e che il sarto ne meritava una migliore di quella toccatagli. E fece di tutto per renderlo immortale.



  Matilde Serao, Fantasia, Firenze, A. Salani, Editore, 1914.

 

  Cfr. 1885.

 

 

  Sfinge, La madre di Mazzini, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLXXIV – Della Raccolta CCLVIII, Fascicolo 1030, 16 dicembre 1914, pp. 540-559.


  p. 549. I Ruffini attribuivano grandi ricchezze ai genitori di Mazzini, che erano agiati, non ricchi! Da una lettera di Agostino Ruffini alla madre, risulta che Maria Mazzini aveva loro prestato del denaro. Era l’odio dei debitori, dunque!? Del resto è triste a vedersi, i Ruffini dicevano male del mondo intero! Per loro Leopardi è un mediocre poeta (sic), Tommaseo è antipatico, di Carlyle non se ne parla! Balzac pare un maiale grasso.[9]  



  Scipio Sighele, Letteratura e Sociologia. Saggi postumi di Scipio Sighele. Prefazione di Gualtiero Castellini, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1914.

 

 

Un letterato reazionario: Paolo Bourget, pp. 75-126.

 

  p. 123. Quando dalle frasi il Bourget vuol passare agli argomenti, egli li va raggranellando nelle opere di alcuni vecchi autori la cui sociologia sta alla sociologia contemporanea come la diligenza all’automobile, o nelle opere di un Taine, di un Comte, di un Renan, di un Balzac, i quali pur essendo stati al loro tempo delle aquile non possono pretendere di stendere il loro volo indisturbato anche nel cielo delle civiltà contemporanea, e ai quali inoltre egli fa dire assai più cose di quelle ch’essi abbiano detto.

 

 

Oratori e scrittori, pp. 171-212.

 

  p. 203. Oratores fiunt, poetae nascuntur è una vecchia farse ma non è un assioma. L’uomo, secondo la profonda intuizione di Balzac, non può divenire se non quello che è.

 

 

L’avvenire della donna, pp. 237-264.

 

  p. 263. Uomini politici o letterati son tutti antifeministi: primissimo per il genio e per la ferocia misogina Balzac, che scriveva da buon reazionario: «emancipare la donna vuol dire corromperla» […].



  Spectator, Corriere. […]. La duchessa Litta, «L’Illustrazione Italiana», Milano, Anno XLI, N. 15, 12 Aprile 1914, pp. 344-346.

  p. 345. Essa era figlia di Giovati Giacomo Attendolo Bolognini, duca di Sant'Angelo, e di una nobile Eugenia Vimercati. Aveva appena dieci anni ed abitava con la madre in una casa di corso Porta Orientale (oggi Venezia) all’angolo di via Vivaio — casa da quattro anni demolita per dar posto a quelle terribili costruzioni indo-siriache apocalittiche, che mettono addosso un mistico terrore! ... In quella casa fu ospite settanta anni sono Onorato di Balzac, l’immortale romanziere psicologo, e scrisse allora Une fille d’Ève, dedicato alla sua nobile ospite con una lettera, recante anche queste parole:
  «Vouz (sic) avez une Eugénie, déjà belle, dont le spirituel sourire annonce qu’elle tiendra de vous les dons les plus précieux de la femme ! ...».
  Balzac fu profeta! ... Non sappiamo cosa pensasse Vincenzo Vela, che, modellando, pochi anni dopo, per commissione del munifico duca Litta. la statua preghiera del muffino, una bambina inginocchiata in atto di pregare coperta della sola camicia immacolata, ebbe a modello la oramai diciassettenne Eugenia che a Balzac inspirò quella profezia! ...


  Raffaele Zagarella, I grandi scrittori. Onorato di Balzac, «La Settimana Illustrata», Milano, Anno V, N. 24, 11 Giugno 1914, p. 11.


Sett illustr A V n 24, 11 giu 1914-1


  Onorato di Balzac nacque a Tours il 20 maggio 1799: indole vivace di artista, di natura robusta ed esuberante, fu prima giovanissimo scrivano di notai, ed in quegli ambienti curiosi e caratteristici ideò molti dei suoi romanzi.
  Divenuto poi socio di un tipografo facendo pessimi affari, cominciò allora a scrivere i primi romanzi che pubblicò sotto gli pseudonimi di R’hoone e Horace di Saint-Autin (sic). Altro suo pseudonimo fu quello di Viellerglé. Pubblicò l’un dopo l’altro I due Ettori, il Centenario, il Vicario delle Ardenne, Carlo Poitel (sic) [cfr. Charles Pointel ou Mon cousin de la main gauche (1821), opera a cui, forse, Balzac collaborò], l’Ereditiera di Birague, il Tartaro [cfr. Le Tartare ou le Retour de l’exilé (1822), opera di dubbia paternità balzachiana], Clotilde di Lusignano e l'Ultima fata.
  Siccome era diventato già alquanto noto, così ai libri premise il suo nome, cominciando dall’Ultimo Scioano, ricordi della Vandea, pubblicato nel 1829.
  Lavoratore instancabile, condusse vita assai disordinata. Il più delle volte, ravvolto nella bianca tonaca fratesca, coi lunghi capelli scarmigliati e le dita macchiate d’inchiostro, Onorato di Balzac si mostrava sotto l’aspetto di un pingue trappista della letteratura, chè si alzava a mezzanotte per installarsi fino al mattino al suo tavolo di lavoro, dove regolarmente riempiva cartelle e vuotava tazze di caffè.
  Altre volte, invece, lo si vedeva partire di casa come uno smemorato, senza cappello, senza un soldo in tasca. magari in pantofole, per camminare ore ed ore assorto ne’ suoi pensieri; fino al momento in cui un cocchiere, che conosceva come tutti i suoi colleghi lo caricava nella sua vettura per ricondurlo alle Jardies.
  Teorico entusiasta della volontà, egli metteva splendidamente in pratica le sue teorie. Era anche un fervente individualista che cercava in ogni cosa l’affermazione della personalità.
  Questi principii lo trassero più di una volta ad impreveduti risultati. Come, ad esempio, quando si mise in capo di fabbricare alle Jardies, senza aiuto di ingegneri, nè consiglio di capomastri; e ne nacque la stranissima casa, che, una volta finita, risultò inaccessibile nel piano superiore per essere semplicemente ... senza scala.
  La storia delle Jardies è un po’ quella della lotta di Balzac coi suoi creditori. Appena uno di essi, uno dei tanti, suonava il campanello, subito si produceva nel palazzo un altissimo silenzio, il quale non veniva in alcun modo interrotto sino a quando il nemico, stanco di bussare invano, non aveva battuto in ritirata verso Parigi.
  I debiti di Balzac! Furono il tormento di tutta la sua vita, e derivarono in gran parte da speculazioni sbagliate, come quella della stamperia e fonderia editoriale che lo scrittore aveva per sua disgrazia voluto fondare in gioventù. I creditori non gli davano mai pace, gli facevano aguzzare il cervello per trovare il modo di guadagnare i danari da gettare in quelle fauci, che l’accumularsi degli interessi sui capitali teneva sempre aperte. Per far quattrini e liberarsi da quella camicia di Nesso, Onorato di Balzac, ideava ogni sorta d'impresa. Un giorno leggeva Tacito: trova che i Romani estraevano l’argento dalle miniere della Sardegna, e senz’altro esclamò: «Ecco la fortuna! I Romani non conoscevano i mezzi chimici dei quali noi possiamo disporre: chi sa quanto argento si trova ancora in fondo a quelle miniere abbandonate: io sono ricco!» E senza perdere tempo va da un amico, si fa prestare 500 lire; s’imbarca su di un vapore che faceva vela per la Sardegna e lungo il viaggio racconta il suo progetto al capitano.
  Sbarca in Sardegna, prende alcuni pezzi di minerale li porta seco in Francia. Si fa l’analisi e si trova che contengono una buona quantità d’argento.
  Allora Balzac, convinto di essere già ricco, domanda al governo sardo il privilegio di scavare le miniere. Oh, disillusione amara, il capitano, al quale si era confidato, lo aveva prevenuto!
  Questo tiro non gli fa perdere la voglia degli affari. E pensa d’impiantare una splendida drogheria, con Giorgio Sand al posto di cassiera, e per commessi i più noti letterati.
  «Vedrete — diceva ai suoi colleghi — come correranno i clienti filistei! Sarà un affare da guadagnarci dei milioni».
  «Ah sì? — gli ribatte il Gauthier (sic), sentendosi offrire il posto di primo commesso. — Allora anticipami cinque franchi». Le mille storie autentiche o meno, che circolavano sul suo conto, circondavano lo scrittore d’un'aureola di stranezza e di mistero che unitamente al fascino che gli conferiva la sua opera letteraria dava alla sua personalità un carattere veramente leggendario.
  Un giorno, durante un viaggio in Russia, egli dovette chiedere ospitalità, per ripararsi dal mal tempo, in un castello di cui gli erano del tutto sconosciuti i proprietari.
  Appena una giovane dama di compagnia, sentendolo nominare da uno dei viaggiatori che erano con lui, comprese che era in presenza dell’illustre romanziere, si lasciò fuggir di mano, per l’emozione, un vassoio carico di chicchere da the.
  «Nessun elogio mi ha mai tanto lusingato» diceva poi il Balzac, riferendo il caso. Era un elogio un po’ costoso ... per la padrona di casa. Morì l’8 agosto (sic) del 1850, a soli 50 anni. E da due anni pativa la fame!
  Deriva da lui la scuola naturalista che ha per capo Flaubert e per campione gagliardo Emilio Zola.


  Emilio Zola, Balzac, in Ritratti letterari. Balzac - Flaubert, Stendhal - Daudet. Prima ed unica traduzione italiana di Edmondo Corradi, Bari, Casa editrice Humanitas, 1914, pp. 7-91.

  Si tratta della traduzione integrale del denso studio che Émile Zola dedicò a Balzac in Les Romanciers naturalistes. [10]




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Adattamenti teatrali.


  Cesare Birotteau, commedia in 5 atti di Emilio Fabre (dal romanzo di Balzac), Compagnia Alfredo De Sanctis; interpreti: Alfredo De Sanctis, Alda Borelli. Cfr. supra gli articoli del «Corriere della Sera» (23 e 24 giugno).


  Il Colonnello Chabert, dramma in 4 atti di Angelo Maria Tirabassi. Compagnia drammatica di Achille Majeroni, 1914.

  Notizia tratta da Annali del teatro. Volume Primo 1901-1920, Milano, Casa editrice “L’Eclettica”, 1921, p. 157. Altri riferimenti a questo adattamento del l’opera balzachiana:

 Punti, appunti e puntini ..., «Corriere Meridionale», Lecce, Anno XXV, Numero 34, 10 settembre 1914, p. 1.

 Appunti d’Arte e Letteratura.

 Il Colonnello Chabert di A. M. Tirabassi.

 Al Teatro del Casino Municipale di Alassio, gremito di tutta l’aristocratica, cosmopolita colonia villeggiante, la Compagnia Majeroni ha rappresentato il novissimo dramma in 4 atti Il Colonnello Chabert di Angelo Maria Tirabassi, il forte poeta e l’acclamato autore de La Vergine dell’Antella e de L’Artiglio spezzato. Si tratta di un lavoro vasto e possente, felicissimo per la ricostruzione d’una superba figura di soldato — un sopravvissuto — intorno al quale vive e si agita tutto un mondo di bontà, di livori, di miserie, in un seguito di scene magnifiche e frementi, tutte vive di patria carità.
 Il lavoro che si appresta a girare trionfalmente per l’Italia, ha conseguito un pieno, entusiastico successo; e Achille Majeroni, protagonista superbo, e tutti gli altri interpreti efficacissimi sono stati chiamati al proscenio moltissime volte.
 Congratulazioni vivissime all’ottimo amico Tirabassi, forte e squisita tempra di drammaturgo e di poeta, e augurii fervidi di nuove e maggiori vittorie d’arte.


 Le prime rappresentazioni: Alassio. — TEATRO CASINO: Comp. dramm. di Achille Majeroni: Il Colonnello Chabert, dramma in 4 atti di Angelo Maria Tirabassi: 20 agosto: succ., «Rivista Teatrale Italiana. Pubblicazione bimestrale di Letteratura, Arte, Storia e Critica Teatrale», Firenze, Anno XIII, Vol. 18, Fasc. 5, 25 Dicembre 1914, pp. 314-315.

 L’eroe napoleonico, rievocato in pagine immortali da Onorato di Balzac, rivive qui in quattro atti, ricchi di effetti drammatici. Il Colonnello Chabert, che era stato creduto morto alla battaglia di Eylau, ritorna dalla moglie, la quale nel frattempo ha preso un altro marito e non vuol credere al vero esser suo. Patrocinato dall’avvocato Derville, Chabert riesce a provare la propria identità; ma la moglie vuol disfarsi di lui, offrendogli una parte del suo patrimonio. Chabert non accetta, ma, per non turbare la felicità di lei che sempre ama, acconsente a scomparire di nuovo; ospite del suo antico sergente Vergniaud, si decide poi ad entrare all’Ospedale degli Invalidi, nascondendo una volta per sempre il tuo vero nome.

  Nel «Bollettino della proprietà intellettuale» del 1927 (Anno XXVI, Fascicolo 1° e 2°, p. 42), l’opera del Tirabassi è trascritta con il titolo di: Colonello Chabert (Giacinto), dramma in tre atti. È in nostro possesso il copione dattiloscritto originale (dove sono presenti correzioni manoscritte) di questo dramma con firma, nel frontespizio, dell’autore (A. M. Tirabassi, Roma, via Cavour 340): l’opera porta, come titolo: Giacinto. Azione romantica in tre atti. Inspirata al “Colonnello Chabert” di Balzac ed è senza data. È forse da presumere (ma si tratta unicamente di una ipotesi tutt’altro che certa) che si tratti, almeno per quel che riguarda il titolo, di una prima versione o di una versione provvisoria del dramma, nel quale i personaggi hanno tutti un nome italiano: Giacinto, il colonnello; Parisi, l’avvocato; Ernesto Turro, il sostituto; Simone, il fattorino; la contessa Flora de Castro; Nino e Peppino suoi figli; Gaglieri, il procuratore, ecc.
  Segnaliamo, infine, che, nel 1920, la Compagnia di Giovanni Grasso ha reso questo dramma del Tirabassi in lingua siciliana con il titolo: Chiddu ca torna!


Filmografia.[11]



  Fior di passione, Berfilm, 1914; regia di Romolo Bacchini. Interpreti: Romolo Bacchini, Ruffo Geri, Bianca Lorenzoni. Cfr. supra articolo di E. Ciappa in «La Vita cinematografica».


  Orsola Mirouet. Interpreti: Adriana Costamagna, Dillo Lombardi, Torino, Savoia Film, 1914. Cfr. supra l’articolo di A. Cagliano in «La Cine-Fono».


  Una Donna, Celio Film, 1914; regia di Ivo Illuminati. Interpreti: Francesca Bertini, Enzo Boccacci, Ivo Illuminati, Angelo Gallina, Fulvia Perini, Mary Cleo Tarlarini.



  
[1] Cfr. G. Pellissier, Balzac et la critique, «La Revue», 1906.

[2] Lettera del 5 luglio 1836.

[3] Lettera del 7 aprile 1837.

[4] Citazione tratta dal Traité de la vie élégante.

[5] Replica, a questo proposito, L. A. a p. 4 del quotidiano «La Stampa» del 14 Maggio (Num. 132): «A proposito delle novelle del Dall’Ongaro e del Thouar, parlare di una diretta derivazione dal Balzac, ci pare assurdo» (cfr. Frontespizi).

[6] In un articolo della Perseveranza del 30 aprile 1890, ora raccolto nel volume postumo Cinque minuti di riposo … edito a Milano da Baldini e Castoldi (1912) per cura di Paolo Arcari. [N. d. A.].

[7] Fu Paul Hazard, in uno studio pubblicato sulla Revue des deux mondes qualche anno fa. [N. d. A.].

[8] Citazione tratta da La Recherche de l’Absolu.

[9] La lettera in questione, scritta, da Parigi, alla madre non da Agostino, ma da Giovanni Ruffini, è datata 10 novembre 1841. In essa, il Ruffini definisce Balzac «quel barilotto panciuto, senza espressione altra che quella del majale per eccellenza epicureo!». (Cfr. R. de Cesare, La prima fortuna … cit. vol. II, p. 739).

[10] Cfr. E. Zola, Balzac, in Les Romanciers naturalistes, Paris, Charpentier, 1893, pp. 3-73.

[11] Un accurato repertorio degli adattamenti cinematografici dei racconti e dei romanzi balzachiani è presente in: Anne-Marie Baron, Filmographie de Balzac, «L’Année balzacienne», 2005, Troisième série 6, Paris, Presses Universitaires de France, 2005, pp. 395-409.

Marco Stupazzoni

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