mercoledì 1 gennaio 2014


1882




Traduzioni.

  Onorato de Balzac, Mercadet l’affarista. Commedia in cinque atti. Il Lutto. Commedia in un atto di Onorato di Balzac (sic), Milano, Edoardo Sonzogno, Editore, 1882 («Biblioteca Universale», N.° 13), pp. 8-73. [1]
  Un volume in 16°. In copertina, il nome dell’Autore è indicato con: O. di Balzac. Edizione segnalata da Pagliaini, da G. Gigli (che indica l’anno di pubblicazione in 1887) e da CLIO. Pagliaini e CLIO indicano una riedizione della stessa opera nel 1892, la quale ci è rimasta introvabile (una ristampa di questa edizione sarà nel 1904).

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  Come indicato precedentemente, il testo di Mercadet l’affarista si trova alle pp. 8-73; per quel che riguarda Il Lutto (pp. 75-91), esso, nonostante la paternità attribuita a Balzac, è la traduzione di Les Regrets, atto unico composto verosimilmente da Charles Rabou e tratto dai Contes bruns. Questa nuova edizione della pièce balzachiana risulta essere molto aderente alla versione fornita da Felice Uda nel 1876 – il che potrebbe far pensare che questo anonimo compilatore redazionale della Casa editrice Sonzogno possa avere redatto il testo della traduzione dell’opera sul modello della versione precedente – nonostante essa si presenti, da un confronto tra i due testi, maggiormente piatta e lineare. Il testo balzachiano è preceduto da una nota introduttiva anonima (Balzac, pp. 3-6) di cui forniremo la trascrizione integrale nella sezione dedicata agli studî critici.

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Studî e riferimenti critici.


  Balzac, in Onorato de Balzac, Mercadet l’affarista … cit., pp. 3-6.
  Un giorno del 1820 in Parigi, un giovane si trovava ritto in piedi, davanti a’ suoi genitori.
  – Figlio mio, diceva il padre, fra poco avrai ventun’anni. Hai studiato legge: devi scegliere una carriera. Quale preferisci?
  – Ho pensato a lungo, rispondeva il giovane, ed ho scelto. Voglio diventare un letterato.
  – Vuoi morire di fame! esclamava la madre. Accetta il nostro consiglio: metti da banda queste fantasie: diventa notajo e ti farai ricco.
  – Non sai, gridava il padre, che nelle lettere è necessario esser re, per non essere l’infimo.
  – Ed io sarò re!
  Chi faceva questa fiera risposta era Onorato di Balzac. E re fu veramente fra la turba dei romanzieri, perché, con sagacità meravigliosa, notomizzò l’uomo nelle sue più riposte passioni, e fu il capostipite di quelli che, senza avere il suo genio, cercano oggi di seguirne le orme, fondando una scuola che chiamano dei naturalisti.
  Balzac nacque in Tours il 20 maggio 1799. Suo padre era stato segretario del Gran consiglio sotto Luigi XV. Il fanciullo divorava tutti i libri che gli cadevano nelle mani, senza criterio di scelta, arso dalla febbre di sapere: nel collegio di Vendôme, dove fece i primi studj, continuò quella vita a sé, assorto dalle letture continue. Quando a quattordici anni tornò in seno alla famiglia, era sì distratto da impensierire i genitori. “Fu dato il nome d’idiotismo (scrive un suo biografo), alla inevitabile sonnolenza cagionata, se m’è permesso di esprimermi così, dal penoso lavoro della sua mente nel riordinare le idee. Aveva assorbito una intera biblioteca e la digestione facevasi penosamente”. Nel 1813 il padre si recò a Parigi con tutta la famiglia: e il giovane fu costretto a recarsi in uno studio da legale, dove si trovò insieme a Scribe, che, a contraggenio del pari, studiava la nojosa procedura.
  Quando i suoi genitori udirono della sua risoluzione, si ritirarono in campagna, lasciando il giovane Onorato a corto di quattrini. Speravano in tal modo di fiaccare il suo orgoglio e costringerlo ad arrendersi a discrezione. Ma egli, senza perdersi di coraggio si chiuse in una stanzuccia e s’abbandonò tutto quanto alle inspirazioni delle muse. Sulle prime pensò di diventare un grande tragico. Scrisse un Cromwell in cinque atti e si recò a leggerlo alla sua famiglia. Il padre aveva convocato alcuni suoi amici, gravi professori, perché fossero i giudici del suo figliuolo. Balzac lesse trepidante il suo Cromwell: e un professore del Collegio di Francia sentenziò:
  – Questa tragedia non dà indizio alcuno d’ingegno in colui che l’ha scritta.
  Disperato Balzac corre a rifuggirsi di nuovo nella sua stanzuccia di Parigi, aperta a tutti i venti. Lasciò la tragedia e s’appigliò al romanzo. Modestamente compose coll’Honoré l’anagramma R’hoone, e sotto questo pubblicò i primi lavori. Altri suoi pseudonimi furono Orazio di Sant’Auben (sic) e Viellerglé. Pubblicò l’un dopo l’altro I Due Ettori, il Centenario, il Vicario delle Ardenne, Carlo Poitet (sic), l’Ereditiera di Birague, il Tartaro, Clotilde di Lusignano e l’Ultima fata. Con questi romanzi a stento guadagnando tanto da vivere miseramente, gli sembrò di poter far fortuna colle speculazioni librarie, e fattosi prestare una somma da un amico, stampò in un sol volume tutte le opere di Molière e in un altro quelle di La Fontaine, premettendovi uno studio suo. I librai fecero la guerra al nuovo concorrente: l’edizione non fu stimata come meritava, e Balzac vi perdette tutto il danaro prestatogli. Ma coll’ostinazione ch’eragli propria, pensa di comperare una tipografia per riavere quanto aveva perduto. Suo padre, sperando che diventasse un industriale, gli diede trentamila lire. Ed ecco il romanziere ordinare torchi, stabilire una fonderia di caratteri, vivere tutto il giorno nell’operosa officina. Ma non era sua la colpa se aveva le qualità negative dell’industriale: poco dopo dovette cedere la tipografia e ritirarsi pieno di debiti.
  Siccome era diventato già alquanto noto, così ai libri premise il suo nome, cominciando dall’Ultimo Scioano, ricordi della Vandea, e pubblicato nel 1829.
  Ma il pubblico si accorse di lui quando pubblicò la Fisiologia del matrimonio, nella quale si rivelavano ad un tempo l’originalità mordace, il brio e la profondità dell’osservazione. Si può dire che fosse allora giunto alla maturanza del suo ingegno: e pieno d’ardore per la fortuna che sembrava coronasse finalmente la sua costanza, si propose per iscopo di erigere colla penna un monumento letterario che fosse nientemeno che il quadro completo della civiltà de’ suoi tempi. Sotto il titolo di Commedia Umana egli volle unire in un unico piano una sequela di lavori, il cui numero e la cui importanza avrebbero spezzato un’altra energia che non fosse stata la sua. Di là derivò quella folla di opere che dovevano disegnarsi in Scene della vita privata, della vita di provincia, della vita militare, della vita di campagna, della vita politica, in Studi filosofici e in Studi analitici. Lavorava senza posa, con una vera crudeltà verso sé stesso. Le notti intere passava scrivendo, e se il sonno gli chiudeva gli occhi o gli intorpidiva la mente, beveva un sorso di caffè e tirava innanzi più sveglio, più nervoso di prima. In sei anni pubblicò più di venti romanzi, vale a dire sessanta volumi. Si aggiunga che egli non ebbe mai collaboratori come Dumas. Lavorava solo, faceva tutto da sé. Vennero in questo modo pubblicati i Gobseck, il Medico di campagna, Eugenia Grandet, Papà Goriot, la Ricerca dell’assoluto, il Giglio della (sic) valle, il Curato del villaggio.
  Nel 1837 prese a viaggiare. Venne in Italia e si fermò a lungo in Milano, ospite del principe Porcia; ma intanto, mentre qui riceveva la più festosa accoglienza, scriveva dell’Italia cose sconvenienti e false. Un antico ufficiale, il signor Antonio Lissoni, lo rintuzzò in un opuscolo[2]. Balzac ritornò tosto a Parigi.
  Un giorno fu ripreso dalla smania degli affari. I creditori che non gli davano mai pace, gli facevano aguzzare il cervello, per trovare il modo di guadagnare i danari da gettare in quelle fauci, che l’accumularsi degli interessi sui capitali teneva sempre aperte. Un giorno leggeva Tacito: trova che i Romani estraevano l’argento dalle miniere della Sardegna, e senz’altro esclamò: “Ecco la fortuna! i Romani non conoscevano i mezzi chimici dei quali noi possiamo disporre: chi sa quanto argento si trova ancora in fondo a quelle miniere abbandonate: io sono ricco!”
  Corre da un amico e si fa dare cinquecento lire in prestito: s’imbarca a Marsiglia e lungo il viaggio racconta il suo progetto al capitano. – Sbarca in Sardegna, prende alcuni pezzi nelle miniere e poi li porta seco a Parigi. Si fa l’analisi e si trova che contiene una buona quantità d’argento. Allora, tutto festoso, Balzac domanda al governo sardo il privilegio di scavare le miniere. Oh, disillusione amara! il capitano marsigliese, al quale s’era confidato, lo aveva prevenuto.
  Questo tiro non gli fa perdere la voglia degli affari. Un giorno vuole generalizzare la coltivazione dell’ananas: un altro quella dell’oppio in Corsica: poi cerca di applicare la matematica al giuoco e vuol far saltare le banche di Baden-Baden e di Omburgo … e i debiti crescevano. «Questo infaticabile scrittore, scrisse Victor Hugo, questo filosofo, questo pensatore, questo poeta, visse fra noi una vita tempestosa, piena di lotte, di querele e di corrucci».
  Alla fine si sarebbe detto che la sorte era stanza di perseguitarlo. Nel 1835 pubblicò il Medico di campagna e una donna di alto ingegno, la contessa Evelina di Hanska, gli scrisse da Ginevra una lettera di ammirazione. Balzac le rispose; e una corrispondenza intima s’avviò fra i due. La contessa possedeva estese terre in Polonia: il poeta si recò a visitarla. Alla fine ella divenne vedova, ed egli la sposò. Il 18 agosto 1850, quattro mesi dopo le nozze, il povero Balzac morì. E Hugo nel salutarne la salma esclamava: «Dopo una vita di lotte e di stenti, abbandona gli odj e le contese per entrare, nell’ora istessa, nella gloria e nel sepolcro».
  Ai giovani smaniosi di pubblicare quanto passa loro per la mente, e che sdegnano la correzione come un inciampo del genio, può tornar utile sapere in qual modo Balzac lavorava. Quando nella sua mente aveva disposto il piano di un romanzo, lo scriveva su trenta o quaranta foglietti al più: poi lo consegnava alla tipografia. Quando riceveva le bozze di stampa, correggeva, mutava, aumentava: le quaranta pagine diventavano cento colle sue aggiunte. Il dì dopo riceveva di nuovo le bozze e replicava le correzioni e le aggiunte: e il racconto si aumentava a poco a poco in un romanzo voluminoso. Uno de’ suoi romanzi, Pierrette, fu corretto da lui ventisette volte!


  Libri nuovi, «Rivista Minima di scienze, lettere ed arti», Milano, A. Brigola & C., Editori, Anno XII, Fascicolo 4.°, 1882, pp. 316-317.
  p. 316. Mater Dolorosa, del signor Rovetta, è un romanzo troppo lungo, nel quale vi sono molti pregi e molti difetti. Dei pregi s’è parlato moltissimo, ed i difetti sono di quel genere che non esclude un raro ingegno nell’autore, e la fiducia d’avere da lui lavori migliori. La tela del romanzo è semplice. Una donna maritata s’innamora d’un giovinotto; lotta colla propria passione, la nasconde, si ritira in campagna, e, dopo quindici anni dà in moglie la propria figlia all’uomo segretamente amato. Più tardi la figlia tradisce il marito per un amante, e la madre, per salvarla, si fa credere colpevole lei stessa. La figura di questa Mater Dolorosa, è prossima parente di quell’altra creata dal Balzac nel suo: Le lys dans la vallée. Ma nel romanzo del Balzac quell’amore, persistente fino alla morte, è giustificato dall’amore dell’uomo, e da una continua corrispondenza fra la donna e lui. Qui invece, dobbiamo credere ad un amore che nasce dal nulla, si alimenta di nulla per anni ed anni, e tuttavia conserva sempre tanta potenza da uccidere quella povera donna. Un difetto comune al Lys dans la vallée, ed alla Mater Dolorosa è che la protagonista, dalla prima all’ultima pagina, è sempre un’eroina da romanzo, esente da ogni debolezza umana, infallibile come il papa. La prima però interessa per la violenza della lotta che sostiene, per gli spasimi della passione, e par vera. La seconda ci sembra piuttosto afflitta da un’idea fissa che da un amore.


  Notizie diverse. Teatri e concerti, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», Roma, Num. 200, Anno 1882, p. 3707.
  Anche le recite della Compagnia Emanuel, all’Anfiteatro Umberto, volgono al loro termine; in questi ultimi giorni non è stata data nessuna novità, ma vanno notate le rappresentazioni dell’Arduino d’Ivrea, del compianto Morelli, e del Mercadet, di Balzac, in cui Emanuel ha avuto campo di dar prova del suo talento eccezionale.


  Comedia umana. Balzac, «L’Euganeo. Giornale politico-quotidiano», Padova, Anno I, N. 75, 16 Marzo 1882, p. 2.

  I giornali francesi portano questa notizia malinconica: «La vendita degli oggetti appartenenti alla signora di Balzac è cominciata al castello di Beauregard».

  La maggior parte di quegli oggetti appartenne, mentre fu vivo, al gran romanziere. Egli aveva il gusto e il bisogno dei mobili preziosi, delle stoffe antiche e rare, dei quadri, delle statue, dei ninnoli. Per ottenerli, si privò spesso delle cose più necessarie e visse di privazioni, in mezzo al lusso che lo circondava.

  Adunò a poco a poco i suoi tesori artistici. Le prime cose di valore che ebbe furono certe belle tappezzerie di seta; e, quanto le mise a posto, invitò gli amici perché le ammirassero. Più di una volta gli av­venne di mobiliarsi, con la fantasia un palazzo splendido. Il suo piccolo villino delle Jardies, che ora appar­tiene a Gambetta, non fu addobbato in maniera diversa, per parecchi anni. Balzac scriveva col carbone, sulle pa­reti nude:

  «Qui ci sarà un rivestimento di marmo parto;

  «Qui uno stilobate in legno di cedro;

  «Qui un soffitto dipinto da Eugenia Delacroix;

  «Qui una tappezzeria di Aubosson;

  «Qui un caminetto di marmo cipol­lino;

  «Qui delle porte come quelle di Trianon;

  «Qui un pavimento a mosaico da farsi con tutti i legni rari delle isole».

  Alcuni dei suoi desideri furono sod­disfatti più tardi. Negli ultimi anni della sua vita, egli era riuscito a mettere insieme una specie di piccolo museo che descrisse, magnificandolo, in uno dei suoi migliori romanzi: Le cousin Pons. Le cose più belle che avesse erano alcuni quadri di Palma il vecchio, di Annibale Carracci, di Sebastiano Del Piombo, di Canaletto, di Greuze, di Van Dick, di Van Huysum. Aveva due statuette di Benve­nuto, delle tappezzerie maravigliose, lo stipetto incrostato di Maria de’ Me­dici, la scrivania di Enrico IV, un servizio di porcellana dipinto da Watteau, un trionfo per tavola di Palissv e il letto della marchesa di Pompadour.

  A udirlo, egli possedeva ancora quadri di Raffaello, di Rembrandt, del Domenichino, di altri; però nessuno li ha mai visti. Un giorno raccontava di avere ricevuto due vasi mirifici, direttamente, dal palazzo Imperiale di Pechino. Un altro giorno mostrava agli amici l’anello di Maometto, che il Gran Mogol avrebbe pagato tonnellate d’oro. La sua vesta da camera era fatta col termolama prezioso che possedeva soltanto lo scià di Persia. Il pomo della sua mazza era un talismano già appartenuto a Salomone!

  È la mazza celebre che dava il dono della invisibilità, e sulla quale la signora de Girardin scrisse il romanzo La canne de monsieur de Balzac.

  E tutte queste ricchezze vere e false: tutte queste cose che furono tanta parte della vita di un grande uomo, ora sono messe all'asta per pagare i debiti del genero di sua moglie!

  La notizia è davvero malinconica.


  In giro al mondo. Balzac, «L’Indipendente. Organo per gl’interessi di Trieste, del Goriziano e dell’Istria», Trieste, Anno VI, N. 1731, 18 Marzo 1882, p. 2.

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  Cfr. scheda precedente.

  In giro al mondo. La morte di S. Lorenzo, «L’Indipendente. Organo per gl’interessi di Trieste, del Goriziano e dell’Istria», Trieste, Anno VI, N. 1743, 30 Marzo 1882, p. 1.

  E’ morto nel manicomio di Clermont un pazzo cui toccò un’avventura come quella raccontata in una delle più interessanti no­velle di Balzac.

  Il pazzo si chiamava Leprince. Egli era falegname ed aveva una bella moglie, che lo tradiva con un giovane signore. […].


  Decessi, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», Roma, Num. 89, Anno 1882, 14 Aprile, p. 1611.

 

  — Ieri, scrive il Journal des Débats del 12, la vedova di Onorato Balzac moriva nel palazzo in cui morì l’autore della Commedia umana. Madama di Balzac, nata Rzewuski, aveva sposato in primo nozze il conte Hanska (sic), e da quella unione nacque una figlia, che sposò poi il conte Giorgio di Muiszech (sic). Fu nel 1848 (sic) che la contesta di Hanska sposò Onorato di Balzac.



  In giro al mondo. La vedova di Balzac, «L’Indipendente. Organo per gl’interessi di Trieste, del Goriziano e dell’Istria», Trieste, Anno VI, N. 1758, 15 Aprile 1882, p. 2.

  È morta a Parigi la vedova di Balzac, quasi ot­tuagenaria. Era una Rzeswuky e quando sposò il grande romanziere era già vedova del conte di Hanska (sic).


  I flagelli del popolo. Lo strozzino del povero … a Parigi, «L’Illustrazione Popolare», Milano, Vol. XIX, N. 16, 16 Aprile 1882, p. 247.

 

  Gli strozzini del popolo si distinguono altresì nel loro esteriore dagli strozzini dei zerbinotti. Mentre questi ultimi incedono rozzi, sani e robusti, anzi non di rado dimostrano una certa sia pur triviale bonarietà, l’usuraio del proletariato invece si riconosce alla sua ciera da spione, alla cascante andatura, all’incertezza di tutta la persona Di tutte le differenti specie di galantuomini di tal risma, egli è quello che si accosta di più alla pittura che ce ne offre Balzac.


  Balzac, «L’Indipendente. Organo per gl’interessi di Trieste, del Goriziano e dell’Istria», Trieste, Anno VI, N. 1760, 17 Aprile 1882, p. 3.

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  La morte della vedova Balzac ci ha fatto risovvenire l’uomo eminente di cui portava il nome.
  Uno studio su Balzac richiederebbe un volume. L’analisi delle sue opere sarebbe forse altrettanto difficile quanto le opere stesse.
  Non è quindi il caso di analizzarle con una frase: egli ha cambiato il senso della parola romanzo.
  Fuvvi un tempo che questa parola significava invenzione, violenza di passioni, idee esaltate ed altro ancora. E fuvvi un tempo in cui una fanciulla romantica spaventava forse più che una fanciulla beghina.
  Quando un giovanotto aveva lo spirito romantico, alcuni applaudivano, altri fischiavano. Ma e gli uni e gli altri constatavano come egli non partecipasse più di quello spirito pratico e calcolatore che faceva l’orgoglio dei vecchi e formava la disperazione dei giovani.
  Gli spiriti caldi credevano non vivere della vita se in essa non si agitava un romanzo. Il romanzo era l’ideale, era la poesia. Era insomma lo spirito generoso o pazzo che sacrificava la materia allo spirito, l’interesse alla passione.
  Il romanzo era l’amore, era l’odio, era tutto ciò che sapeva di straordinario.
  Balzac comparve.
  Il romanzo sparì e prese il suo posto il verismo.
  Morì il romanzo o, se piace meglio, nacque il romanzo. Il nuovo romanzo non ha coll’antico alcun punto di contatto. Il romanzo di Balzac, non colpisce l’ideale ma il reale. In luogo di trasportare il lettore in luoghi sconosciuti, di farlo spaziare oltre ignoti orizzonti, lo fa vivere in quella vita che trascina pur troppo in realtà.
  Il vecchio romanzo aveva per legge l’inverosimile; il romanzo d’oggi ha per guida il verosimile.
  Il vecchio romanzo era un sogno e faceva percorrere ai suoi personaggi tutte le fasi della vita fantastica, mentre il nuovo li colloca in posizione tale da farli passare per tutte le circostanze di una esistenza con tutte le indegnità, con tutte le miserie della vita.
  L’antico romanzo aveva costumi proprî, nati nella fantasia di chi le scriveva; il nuovo invece studia i costumi che noi abbiamo continuamente sott’occhi e che guidano noi stessi.
  Il romanzo di una volta era una pittura ideale, una tela senza cornice, i di cui personaggi spogli di ogni veste, seguendo i capricci dell’autore, non dipendevano da nessuna abitudine, da nessuna di quelle necessità che sono innate dell’uomo; ma gli eroi del romanzo moderno sono coperti di quella veste che loro viene imposta dalla società né possono spogliarsi da essa, giacchè se questo non fosse i lettori griderebbero allo scandalo.
  Gli eroi degli antichi romanzi ignoravano la plutomania e si limitavano a viver d’etere, di rugiada, d’amore. Quanto ai nuovi eroi, sarebbe ben curioso quel romanziere che non introducesse in qualche capitolo una tirata sui fondi pubblici o sulle azioni ferroviarie.
  Alle invasioni romantiche, nella fantasia del romanziere, furono sostituite le combinazioni finanziarie, i giuochi di Borsa. I notai, i banchieri, occupano nel romanzo moderno un posto importante.
  Achille trascinando il cadavere di Ettore girava intorno alle mura di Troia. Il romanzo moderno trascina i cadaveri dei suoi eroi intorno alle mura delle Borse. Il giovanotto cui oggi spetterebbe il nome di romantico – se si volesse dare a questa parola l’etimologia che il nuovo romanzo gli assegna – sarebbe il più assiduo nelle ricerche delle speculazioni veramente utili.
  Quanto alla fanciulla romantica, i di lei parenti possono tranquillamente dormire, poiché essa nel carnet della festa da ballo inscriverà il peso specifico in linea finanziaria di coloro che solleciteranno da essa il favore di un valzer o di una polca.
  Ciò è quanto dire insomma che Balzac se non ha da solo operato questa grande rivoluzione, l’ha iniziata e condotta a buon punto. Il suo grande talento, il suo spirito critico che lo distingueva, hanno introdotto a forza nei suoi racconti queste idee che gli si affollavano nel cervello.
  Il suo sistema era appunto il realismo. Il grande scrittore passa, ma il sistema – s’è vero – rimane. Quando il pittore richiama Balzac, la pittura non è mai sola. Essa viene seguita e perfezionata, ma l’idea fondamentale non fugge più.
  L’arte s’impone a Balzac perché Balzac è artista; ma la fotografia sta alla porta aspettando il momento d’entrare.
  Balzac generò Flaubert.
  Flaubert generò Zola.
  La critica di questi nomi ci trascinerebbe al di là dei limiti assegnati ad un semplice articolo. A noi sembra aver caratterizzato l’azione esercitata dai libri di Balzac, la loro enorme influenza, la più grande forse fra le influenze letterarie del secolo XIX.


  In giro al mondo. L’eredità di Balzac, «L’Indipendente. Organo per gl’interessi di Trieste, del Goriziano e dell’Istria», Trieste, Anno VI, N. 1763, 20 Aprile 1882, p. 2.

  In seguito alla morte della vedova di Balzac fra pochi giorni verrà tenuta a Parigi una asta pubblica di oggetti d’arte, quadri, libri e manoscritti già appartenenti al­l’illustre scrittore.


  Lo spirito degli altri, «L’Euganeo. Giornale politico-quotidiano», Padova, Anno I, N. 117, 28 Aprile 1882, p. 2.

  Balzac aveva per vicino il principe Y*** e spesso la mattina si recava in abiti di­messi a fargli visita e a passeggiare con lui nel giardino.

  Un giorno Balzac trovò in casa del prin­cipe una nipote di questo, e volle scu­sarsi di essere venuto vestito a quel modo.

  Signore – gli rispose spiritosamente la giovane – quand’ io ho letto i libri vostri, non mi sono mai curata della rilegatura.

(Dal Voltaire)


  Note romane. Un nuovo romanziere [Luigi Arnaldo Vassallo], «L’Indipendente. Organo per gl’interessi di Trieste, del Goriziano e dell’Istria», Trieste, Anno VI, N. 1777, 4 Maggio 1882, p. 1.

  Donna Paola Flaminj è un racconto curioso. Non è fatto con un pre­concetto qualunque, o secondo le norme d’un sistema prestabilito. Non è un romanzo manzoniano, nè un romanzo naturalista; eppure è un romanzo vero, il romanzo più vero che sia stato scrit­to dopo il Balzac.


  Corriere Teatrale, «Corriere della Sera», Milano, Anno VII, Num. 129, 11-12 Maggio 1882, p. 3.

  Dopo qualche altra replica del Mondo della noia, l’Emanuel ci darà al Manzoni la riproduzione del Mercadet di Balzac, un tipo che pur troppo si va moltiplicando nella nostra Società, sempre più affari­sta. La parte del protagonista verrà sostenuta dall’Emanuel.


  Il Correttore Tipografico, «L’Arte della Stampa. Rivista tecnica mensuale», Firenze, Anno XII, Num. 64, 16 Maggio 1882, pp. 505-506.

 

  p. 505. E Balzac lavorava talmente sulle bozze e il tipografo doveva rimandargliene tante volte che l’editore delle sue opere finì col fallire per le eccessive spese da lui incontrate per tali correzioni. Il giornale professionale parigino L’Imprimerie ha pubblicato il fac-simile assai curioso d'una pagina di stampa corretta da Balzac.


  Corriere Teatrale, «Corriere della Sera», Milano, Anno VII, Num. 134, 16-17 Maggio 1882, p. 3.

  Mercadet di Onorato di Balzac fa rappresen­tato per la prima volta al teatro del Gymnase il 9 settembre 1851, un anno dopo la morte dell’autore. È il più riuscito dei tentativi fatti dall’illustre romanziere per diventare autore drammatico. In Italia questa commedia non si rappresenta spesso e l’Emanuel ha fatto bene a metterla in scena al Manzoni: avrebbe fatto meglio però se avesse cercato di ottenere una esecuzione un po’ più accurata. Come in tutti i lavori drammatici ne’ quali un tipo giganteggia su tutte le altre figure del quadro, nel Mercadet occorre che le parti secondario sieno messe in rilievo dalla esecuzione. Ciò non è accaduto ieri sera al teatro Manzoni e se il pubblico ha molto applaudito alla fine d’ogni atto, gli applausi erano diretti all’Emanuel ... ed a Balzac. Il tipo di Mercadet, come tutte le grandi creazioni del­l’arte, rimane e rimarrà un tipo eterno, sempre più nuovo. La commedia pare scritta ieri per mettere in caricatura le cattive tendenze del 1882, mentre riproduce quelle del periodo corso dal 1831 al 1848. Si direbbe magari che Mercadet è il prodotto naturale della società con­temporanea italiana, mentre è quello della so­cietà francese dei tempi nei quali il signor Guizot ed il signor Thiers preparavano, con la miglior volontà del mondo, il 1848 e tutto quanto è capitato dopo alla Francia. C’è da studiar molto in questa somiglianza di situazioni e di tipi.


  Corriere della settimana, «La Valigia. Giornale illustrato del giovedì», Milano, N. 173, 25 Maggio 1882, p. 240.

 

  Nei numeri scorsi parlammo del Mondo della noja, una satira fine bene applicata: nella resurrezione del Mercadet, commedia di Balzac, si tratta di ritrarre il vero tipo dell’Affarista. Ambedue le commedie, sebbene scritte in epoche differenti, non perdono nulla della loro bellezza, perché si fondano sullo studio del vero.

 

  In giro al mondo. I manoscritti di Balzac, «L’Indipendente. Organo per gli interessi di Trieste, del Goriziano e dell’Istria», Trieste, Anno VI, N. 1830, 26 Giugno 1882, p. 2.

  Nel trasporto del mobigliare dalla casa della vedova Balzac al locale dove il mede­simo doveva esser messo all’asta, molte carte appartenenti specialmente alla corrispondenza di Balzac vennero involate, nè fino ad ora si è potuto sco­prire come ed in qual modo i pre­ziosi manoscritti abbiano preso il volo.


  In giro al mondo. I manoscritti di Balzac, «L’Indipendente. Organo per gl’interessi di Trieste, del Goriziano e dell’Istria», Trieste, Anno VI, N. 1847, 13 Luglio 1882, p. 2.

  A Parigi all’Hôtel Drouot incominciò la vendita dei libri e dai manoscritti dell’eredità Balzac.

  Ecco alcuni prezzi:

  manoscritto dei Contes drolatiques, due volumi in 4°, s’è venduto 1440 fr.; quello di Eugenia Grandet, 2000 fr.; la Storia dei Tredici, 650 fr.; Cesare Birotteau, 520 fr.; il Giglio della (sic) Valle, 1520 fr.; la Ricerca dell’assoluto, 860 fr.; il Medico di campagna, 1620 fr.; e finalmente il ma­noscritto delle Illusioni perdute, 2050 franchi.


  «Meta Holdenis» (Il nostro nuovo romanzo), «Corriere della Sera», Milano, Anno VII, Num. 260, 21-22 Settembre 1882, p. 2.

  Benché svizzero di nascita, Cherbuliez, divenuto cittadino francese, è stato quest’anno eletto a far parte dei quaranta dell’Accademia francese, — onore altissimo, che non fu ac­cordato nè a Balzac, nè a Dumas, nè a Gautier.


  Appendice del Corriere dell’Arno. La toletta della mia vicina, «Corriere dell’Arno. Giornale politico amministrativo», Pisa, Anno X, Num. 75, 5 Novembre 1882, pp. 2-3.
  p. 2. Non saprei dirvi se la mia vicina fosse bruna o bionda, pallida o rubiconda. Ella non era precisamente giovane: aveva quella età incerta che hanno le eroine dei romanzi di Balzac.


  Estero. Lettere Francesi. La ferita di Gambetta, «Gazzetta Piemontese», Torino, Anno XVI, N. 330. 30 Novembre 1882, p. 2.
  Gambetta era partito sabato sera, come al solito, per Ville d’Avray, dove possiede una assai bella villeggiatura, antica proprietà di Balzac, situata in luogo denominato la Ferme des Jardies.

  Notizie drammatiche, «Scaramuccia. Agenzia teatrale», Firenze, Anno XV, Serie 3a, N. 10, 12 Dicembre 1882, p. 3.

 

  Al Brunetti di Bologna il Mercadet d’Onorato Balzac ebbe un magnifico successo, specialmente per l’interpretazione degna ed elevata che l’Emanuel dette alla parte del protagonista.



  L.[ucio?] d’A.[mbra?], La donna, «Il Tramway. Giornale popolare semi-serio», Trieste, Anno VI, N. 18, 22 Settembre 1882, pp. 3-4.

 

  p. 3. Sebbene il compianto di tutti coloro che sentono addentro nelle lettere accompagnasse al luogo di estremo riposo la salma di Onorato di Balzac, romanziere, filosofo e ristoratore della lingua patria, manca alla gloria della letteratura francese, pure la parte gentile del genere umano, le donne, anzichè posare una lagrima, scagliavano l’anatema sulla tomba di lui. E davvero quel valoroso ingegno che tanta coscienza di vero mise nel dipingere la società, alloraquando dovette presentare il tipo d’una donna, più che l’ideale della poesia o la schiettezza del filosofo adoprò lo scalpello dell’anatomista, col quale scevenando l’involucro dell’apparenza, mise a nudo il cuore di lei; e fu caposcuola di pessimismo. Ma io che non agogno mica a quest’ultima gloria dell’illustre scrittore, voglio battere la via opposta: e se avverso destino vuole che una maledizione posi ancora sul mio capo, sia quella degli uomini soltanto!



  Raffaello Barbiera, Le Prime al Teatro Manzoni, «Rivista Minima di scienze, lettere ed arti», Milano, A. Brigola & C., Editori, Anno XII, Fascicolo 6.°, 1882, pp. 460-469.
  p. 460. Nel mese scorso, abbiamo visto passare sulle scene del teatro Manzoni una serie di commedie in parte vecchie che, come il Mercadet del Balzac parevano nuove, e in parte nuove che, come la Crisi di Ottavio Feuillet, erano vecchie. […].
  pp. 464-465. Il Mercadet del Balzac, nuovo pel teatro Manzoni, non andò a’ versi del pubblico, già avvezzo alle commedie bene architettate, ricche di sorprese e curate anche nei particolari. Il lavoro drammatico del Balzac è un capolavoro che non morrà; ma, pel pubblico, è del vecchio stampo. Il Balzac, il profondo psicologo, curò solamente e sommamente il carattere del suo protagonista, ch’era quello che gli premeva; e trascurò tutto il resto. Che importava a lui degli altri personaggi secondari? Gli bastava sbozzarli, farne delle macchiette. Qual valore aveva per quell’alta severa mente d’artista l’effetto scenico? Gli sarebbe parsa volgarità il ricercarlo. Il Balzac gettò sulla scena vivo, vero, il cosidetto affarista. Lo mostrò in tutti i suoi lati, ne svolse tutte le pieghe, ne palesò i pensieri più reconditi, ne seguì i più obliqui svolgimenti del cervello. Il suo Mercadet è una creazione al modo del Misantropo del Molière, pure rappresentato nei giorni scorsi sulle stesse scene; ma è una creazione isolata, è una figura, una grande figura, artisticamente parlando; e il pubblico moderno non sa che farne delle grandi figure solitarie, preferendo le figurette, i figurini, purchè agiscano tutti, purchè ballino magari tutti insieme, come gli automi dei suonatori girovaghi. […].
  p. 468. La compagnia Emanuel mise molto amore nell’interpretazione di varî lavori, anche noti, che venne rappresentando in poco più d’un mese. […] Giovanni Emanuel vola come aquila sui suoi compagni d’arte: egli è veramente quello che si chiama spesso con umoristica facilità, un grande artista. Lo abbiamo salutato grande nel Mercadet, nell’Odette, e nella più antipatica produzione, che siasi mai vista: nel Bastardo.


  Vittorio Bersezio, Le prime armi, in AA.VV., Il Primo passo. Note autobiografiche di A. D’Ancona – A. Bartoli – V. Bersezio – G. Carducci – G. Chiarini – G. Costetti – F. Filippi – O. Guerrini – P. Lioy – P. Mantegazza – F. Martini – G. Massari – E. Nencioni – E. Panzacchi – M. Rapisardi – F. de Renzis – G. Rigutini – R. de Zerbi, Firenze, Tip. e Lit. Carnesecchi, 1882, pp. 21-34.[3]
  p. 30. Però per un poco fui tutto ingolfato di tele di romanzi, in descrizioni di uomini e di cose, in istudii psicologici di sentimenti e di passioni, tentennando fra il Balzac e il Manzoni, fra il Dumas e il Guerrazzi, fra il Sue e l’Azeglio, e certe volte volendo tutti gli elementi dell’arte così diversa di costoro comprendere in un eccletismo impossibile.


  E. Blackwell M. D., L’Educazione morale della gioventù considerata nei suoi rapporti col sesso dall’inglese di E. Blackwell M. D., Rimini, Tipografia Albertini e comp., 1882.

Parte Seconda.
  p. 81. Uno degli scrittori moderni, fornito di non comune ingegno, Onorato di Balzac, (i cui scritti furono considerati perniciosi appunto perché segnalavano con eccezionale maestria tutte le conseguenze della più turpe fra le piaghe sociali) fu un uomo di singolare castità, alla quale egli attribuiva la sua forza intellettuale. Educato dal padre con rigorosa austerità, la forza del volere non gli venne mai meno: conservò sempre un profondo rispetto per la donna, ed ebbe fede nelle più nobili influenze dell’amore. Uno de’ suoi più intimi amici scrive di lui: «Sopra ogni altra cosa egli insisteva sulla necessità dell’assoluta continenza, quale la chiesa la prescrive ai preti. Ciò, diceva egli, contribuisce a dar il massimo incremento alle facoltà intellettuali, e infonde in tutti coloro che la praticano una potenza ignota ai più. In quanto a me, accettai tutte le condizioni dell’ascetismo, necessarie ad una seria operosità. Una sola passione mi spinse fuori delle mie abitudini studiose: la passione di osservare e studiare attentamente, ne’ loro effetti visibili, i costumi e le consuetudini del sobborgo nel quale abitavamo».


  Bob., Cinquant’anni di vita letteraria, «Corriere della Sera», Milano, Anno VII, Num. 230, 22-23 Agosto 1882, p. 2.

  [Su: Mary-Lafont, Cinquante ans de vie littéraire, Paris, Calmann-Lévy].

  Ogni mese esce a Parigi un qualche libro di ricordi, che racconta storielle su’ debiti Balzac, sulla prodigalità di Dumas, su’ capricci di Giorgio Sand, sugli amori di Musset […].


  Giovanni Boglietti, Scrittori francesi contemporanei. Vittorio Cherbuliez, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della Nuova Antologia, Seconda Serie, Volume Trentesimosesto Della Raccolta, Volume LXVI, Fascicolo XXIII, 1 Dicembre 1882, pp. 430-547.
  p. 440. Ernesto Feydeau diceva che il romanzo è il documento storico per eccellenza e che quindi per scrivere a dovere la storia, poniamo di Luigi Filippo, sarà necessario in avvenire di consultare Balzac. Credo che questo si possa dire con molta più ragione di Vittorio Cherbuliez.


  Felice Cameroni, Rivista delle novità letterarie italiane e francesi. XI. Le Opere dei fratelli De Goncourt e “La Faustin”, «La Nuova Farfalla», Milano, Tipografia degli editori, Anno I, N. 13, 30 Luglio 1882, pp. 101-102.
  p. 101. Provarono assai prima dell’Assommoir, che le «larmes qu’on pleure en bas peuvent faire pleurer comme comme celles qu’on pleure en haut». È per iniziativa di Stendhal, Balzac, Flaubert, e dei De Goncourt, che il romanzo cessò dall’essere un semplice divertimento ad uso dei lettori frivoli, per divenire uno studio sperimentale.


  Felice Cameroni, Letteratura italiana e straniera. Edmondo e Giulio De Goncourt: “Germinia Lacerteux” con prefazione di Emilio Zola – Edoardo Rod: “Palmira Veulard” – E. Panzacchi: “Al rezzo” – L. A. Vassallo: “La regina Margherita” – G. Corona: “Aria di Monti” – Gli articoli dell’”Homme masqué” – “Au bonheur des dames” – “Souvenirs littéraires”, di Maxime Du Camp, «La Farfalla», Milano, Emilio Quadrio editore, Anno VIII, N. 24, 24 Settembre 1882, pp. 188-190.
  p. 189. Eccezion fatta per le mummie della razza dei Brunetière, tutti oggi riconoscono nei De Goncourt una splendida illustrazione della letteratura moderna, cominciando da Zola e da Daudet, i quali li considerano come i loro maestri, assieme a Balzac ed a Flaubert.


  Felice Cameroni, Letteratura italiana e straniera. “Contes grotesques” di Poë, tradotti da Emilio Hennequin (Paris, éditeur Ollendorff) – Paradossi nel “Panurge”, di Guglielmo Livet – Un nuovo sonetto della Sarah Bernhardt – Victor Hugo alla Sara Bernhardt – “Les bêtises vraies” di Chavette – Maxime du Camp e Wolff – Studio di Massarani su Virgilio – Il nuovissimo volume dello Zola – “Proverbi latini illustrati” da Atto Vannucci, «La Farfalla», Milano, Emilio Quadrio editore, Anno VIII, N. 32, 19 Novembre 1882, pp. 260-263.
  p. 261. Fiutando gli acri profumi dei (sic) Fleurs du mal si capisce benissimo, come il più eccentrico fra i poeti francesi dovesse innamorarsi di Poë. Che abbia affinità di sensazioni cerebrali con Poë e con Baudelaire, anche l’Emilio Hennequin?
  A proposito di patologiche manifestazioni dei centri nervosi, quale amarezza ed esagerazione nei paradossi da manicomio di Guglielmo Livet, un altro dei giovani collaboratori del Panurge! «A cosa serve, essere stato un genio come Shakespeare, come Corneille, come Voltaire, come Balzac, come tu vuoi? In questi tempi di monumentomania, ci accorgiamo aver esistito tanti geni, da perdere la tramontana. Tutti son morti, eppoi? Son morti e la loro carne, le loro ossa si trasformarono in idrati, azotati, fosfati, antimunculi, vibrioni ed in miasmi, forse apportatori di malattie.


  Felice Cameroni, Letteratura italiana e straniera. Paul Alexis, “Un collage” (Bruxelles, éditeur Kistemaekers) – Curiosità giornalistiche della “Plèbe”, del “Figaro”, del “Gil-Blas”, «La Farfalla», Milano, Emilio Quadrio editore, Anno VIII, N. 37, 24 Dicembre 1882, pp. 303-304.
  p. 303. Se un amico mi domandasse quali sieno i romanzi ch’egli dovrebbe leggere, per formarsi un criterio preciso su ciascuno fra i giovani novellieri francesi, che meglio rappresentano, nelle svariatissime sue manifestazioni, l’indirizzo naturalista di Stendhal, Balzac, Flaubert, dei De Goncourt, di H. Monnier, Droz, Zola, Daudet, Vallès, risponderei con questo elenco condensato dai loro lavori più caratteristici:
  Per Guy de Maupassant, la Boule de suif, la Maison Tellier ed En famille.
  Per Huysmans, Sac au dos, le Sœur Vatard (sic), ed En ménage.
  Per Hennique, la Dévouée.
  Per Rod, la Palmyre Veulard e Côte-à-Côte.
  Per Céard, la Saignée ed Une belle journée.
  Per Aléxis, (il biografo di Zola) la Fin de Lucie Pellegrin, L’infortune de M. Fraque ed il volume pochi giorni or sono edito dal Kistemaekers di Bruxelles col titolo Le collage.

  Cesare Cantù, I Promessi Sposi, in Alessandro Manzoni. Reminiscenze di Cesare Cantù. Volume Primo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1882, pp. 145-191.
  p. 152. Così creò tanti tipi quanti personaggi pose in iscena, non violenti contraposti ma gradazioni, ciascuno vive innanzi a noi come una antica conoscenza, con fisionomia netta e reale che più non si dimentica. Che se altri creò il Pantagruele, il cavaliere della Mancia, il Lovelace, il Pére (sic) Goriot, il Robert Macaire, il Giovannin Bongié, il Monsù Travet, il Picknick (sic), il Rabagas, il Prudhomme … ideali più vivi che reali, quelli del Manzoni son tutti veri e naturali in ogni parola, in ogni minimo gesto: non contadini di convenzione; non arcadi o pezzenti; non attori in profilo come ombre cinesi, ma tali che divennero e rimarranno tipi […].
  p. 179. Alle immagini di Atala, di Corinna, di Elvira sottentravano Lelia, Indiana, Valentina, Lavinia della Sand, o la marchesa d’Espard, la duchessa di Maufrigneuse di Balzac, e la società vivente di denaro e di lascivie, e dipinta come chi sorprendesse una donna nell’alcova; con ritratti fotografici, descrizioni da rigattiere, fisiologia da anatomista, e una miscela di illuminismo e di materialismo, con cui strappare le speranze come le illusioni, la fede come i pregiudizi, la divinità come i fantocci, diseccando le fonti dell’ideale e preparando molto da processare ai giudici, da pianger alle madri. […].
  Eppure Zola ebbe il coraggio di scrivere: “Walter Scott fece più fanciulle traviate e mogli adultere che non Balzac”.

  Cesare Cantù, Amici e conoscenti, in Alessandro Manzoni. Reminiscenze di Cesare Cantù. Volume Secondo, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1882, pp. 1-97[4]. [cap. X].
  pp. 94-96. Il San Tommaso [cav. Felice Carrone marchese di San Tommaso], qualvolta tornasse a Milano, capitava da Manzoni; e una sera vi condusse Balzac, il famoso romanziere, che alcuni giorni s’era fermato in questa città1, stupendo di vedere sulle botteghe i cognomi dei gran signori che gli davano pranzo e palchetto a teatro.
  Gran corpo, gran naso, vasta fronte, collo toroso, attorniato da un poco più che nastro; occhio da domator di fiere; chioma folta gettata indietro, soverchiata da un gran cappello floscio, era una testa potente con vedute non comuni: avido di denari e infangato nei debiti, infatuato di sé2, voleva apparire eccentrico in tutto per far parlare di sé. La sua notorietà di dentro si trasformò presto in celebrità di fuori, sicchè era letto da per tutto; il Cesare Birotteau gli fu pagato 20 mila lire, e disse all’Azeglio che l’editore della traduzione dell’Ettore Fieramosca avea speso in annunzj, più che l’autore non avesse ricavato dal suo manoscritto.
  Sempre fantasticando qualche fortuna colossale, come quelle de’ suoi personaggi, pensava allora arricchirsi mediante contratti con libraj italiani: disilluso ben presto, meditava scavi in Sicilia (sic), per ritrarne l’oro che i Romani vi avevano lasciato per inesperienza.
  Dichiarava dovere a Walter Scott i primi secreti sull’arte di dipingere i costumi. Agli eroi del medioevo, ai paladini, ai trobadori, alle castellane egli sostituiva impiegati, capi d’ufficio, agenti di cambio, usuraj, poliziotti, chimici, e fu il vero antesignano dell’odierno verismo. Il Medico di Campagna, il Giglio nella valle, la Messa dell’Ateo, il Curato del villaggio erano romanzi che poteano esser letti anche da persone oneste; e Manzoni conosceva certamente Eugenia Grandet, forse il migliore di tutti.
  Io mi persuasi che Balzac non avesse letto i Promessi Sposi; tanto ne distonavano i discorsi che tenne: non parlò che di sé, d’un romanzo nuovo che scriveva, La ricerca dell’assoluto; d’una commedia, che farebbe furore sulle scene; de’ suoi Juvenilia che raccoglieva; dissertò su quel vago suo panteismo e sulla cranioscopia; né mai mostrò un’idea di reale umanità.
  Il pittore di Lucia non poteva seguitar nel discorrere di donne quello, in cui non si incontra una fanciulla, in cui è concupiscenza fin l’amore di sposa, né incontaminata alcuna virtù se non fino al momento della tentazione.
  Eppure nella prefazione alla Comédie humaine poneva: “J’écris à la lueur de deux vérités éternelles, la religion et la monarchie”.
  Come a Manzoni, gli mancava la spontaneità della forma, correndo un abisso tra questa e il pensiero: e poiché si preoccupava dello stile, rifaceva sin tre o quattro volte i suoi componimenti, ma sugli stamponi.
  Balzac disse che, al veder Manzoni, gli era parso vedere Chateaubriand; e Manzoni soggiunse, che lo stesso era parso a me3; però l’illustre Francese avea modi più risoluti del Nostro, e nella alta persuasione di sé stesso davasi aria d’importanza e oracoleggiava.
  Se Balzac accora, inquieta, pervertisce, sofistico ragionatore, depravatore in letteratura, consigliere pericoloso, d’oscene allusioni, di scene ubbriacanti, di raffinato libertinaggio, di reconditi veleni, Alessandro Manzoni diverte, stupisce, trascina; […].
  1 Gli fu rubato l’oriuolo: e il governatore si piccò di riconsegnarglielo. Questa prova di abilità nel ricuperar un oggetto rubato accusava la negligenza di lasciarne perdere tant’altri.
  2 Balzac, sul fodero d’una statuetta di Napoleone, aveva scritto: “Ciò che egli non potè compiere colla spada, lo compirò io colla penna”.
  3 Quando, nell’agosto 1832, vidi Chateaubriand a Lugano, dove avea preso a fitto la villa Terzi. Lo rividi poi più volte nella conversazione di Madame Récamier alla Abaye des Bois a Parigi, ove quotidianamente tornava con passo lento e una giannettina alla mano, capello grigio come le uose, panciotto bianco, abito blu, calzoni di nankin.

La Famiglia, pp. 98-144. [cap. XI].
  Cfr. 1881.
  p. 138, nota 1. Tommaseo mi scriveva da Parigi il 7 agosto 1837.
  “Il Manzoni scriv’egli al Montalembert? E questi dov’è? Che il Balzac sia accarezzato costà, me ne duole più che d’una nuova invasione di Barbari. Son queste, mio caro, le nostre piaghe, e di queste vivono i bachi che voi sapete. L’Azeglio non lo doveva presentare al Manzoni; ma l’Azeglio è un po’ su quel gusto. E a me disse spropositi degni d’un nobile piemontese. Dite del resto a codesta crassa galanteria milanese, che il Balzac è tenuto fino a Parigi per cosa ridicola e bassa; scrivente manierato, senza la potenza di que’ che si creano una maniera: pittore minuzioso della parte materiale di certe cose, ignorante del resto, e sterile sì di fantasia sì d’affetto.
  Godo che il Manzoni s’apparecchi a stampare. S’egli sapesse quanto bene e quanto piacere fanno le cose sue, aprirebbe le ali delle mani con men ritegno”. [cfr. 1881].

La Fine, pp. 319-340. [cap. XVI].
  p. 338. Dopo che l’arte, liberata d’ogni impaccio, nella baldanzosa smania del nuovo perdette dignità, pulitezza, il bisogno di rispettar sé e gli altri, divenne fanfarona o forsennata, confonde i principj coi pregiudizi, e crede ipotetiche tutte le credenze, se fra noi non giunse la perversità dell’intelligenza alle audaci immoralità di quei libri che, dopo letti (diceva Ampère) si sente il bisogno di lavarsi le mani e spazzolarsi gli abiti; e se altrove se ne accusano Balzac, Giorgio Sand, Vittor Hugo, lasciateci credere sia dovuto all’influenza di Manzoni l’avere arrestato o ritardato la depravazione nella patria letteratura; conservato il buon senso e il buon gusto, qualità dei tempi regolari; fatto vergogna di sciorinare i panni sudici rimpetto all’ermellino di questa musa; non opposto l’egoismo d’una sterile vecchiaja alla generosità virile; non alla fede lo scetticismo peggiore, lo scientifico.

  Capitan Fracassa, Ciarle e scarabocchi, «capitan Fracassa», Roma, Anno III, N. 116, 28 Aprile 1882, p. 1.
  Il più grande esercitatore della pazienza dei tipografi, dopo Leandro, è stato Balzac. Le due storielle, del romanzo le cui spese di stampa superarono di cinquecento lire o più il prodotto della vendita, e del patto dei compositori, che entrando in una stamperia facevano il patto di non comporre manoscritti di Balzac, almeno alla tariffa ordinaria, servono a dimostrare, con la loro stessa esagerazione, che razza di supplizio infliggesse agli operai l’autore della Comédie humaine.
  Fra qualche giorno si venderanno a Parigi dodici, così detti, manoscritti di Balzac. Appartenevano a sua moglie morta una ventina di giorni fa. La collezione è importantissima, è piena di curiosità. Ogni bozza, oltre una irragionevole quantità di cancellature e correzioni ha un’appendice manoscritta, incollata al margine e spessissimo un’appendice di appendice. Il manoscritto delle Illusions perdues è il tipo più completo di questa maniera di scrivere del Balzac.
***
  I manoscritti del Lys dans la vallée e di Pierrette sono i più leggibili. Il manoscritto di César Birotteau è di novantasei fogli, sul primo dei quali l’autore ha disegnato il tipo di Birotteau, come lo aveva concepito. L’illustre profumiere è disegnato di profilo, voltato a sinistra, col naso rincagnato, l’occhio semichiuso, il mento sfuggente e i capelli arruffati.
  Il manoscritto di Seraphitus-Seraphita ha una nota nel margine, con la quale avverte di aver ritrovato gli abbozzi informi di quel lavoro concepito e cominciato a diciotto o venti anni.
  Nel manoscritto del primo dei Contes drolatiques sono molti disegni, diciotto pagine cancellate accuratamente e una pagina bianca su cui il Balzac aveva scritto questo altro titolo: Comptes mélancoliques, in testa a una serie di cifre, anche cancellate. Erano le cifre dei suoi debiti, delle quali rabescava sovente il testo dei suoi romanzi. Così nel manoscritto della Béatrix, alla prima pagina, c’è l’addizione dei suoi debiti: 12,705.
  Al manoscritto d’Eugénie Grandet è allegato il piano della casa père Grandet, il Médecin de champagne (sic) incomincia col disegno di una croce con questa iscrizione: D.O.M. ci gît, le bon M. Benassi (sic), notre père à tous.
  I disegni più strani ornano il Bilboquet: una farfalla, uccelli, un albero, un succhiello, una data: Heidelberg, 30 maggio 1848, teste di mandarini, un gran vaso chiuso da una testa di cinese, e in mezzo alle linee di questa simbolica stravaganza, le prime linee del testo.
  Chi sa dove andranno a finire queste prime prove dei lavori del più grande romanziere francese!
  Chi sa dove andrei a finire io, se incominciassi una serie di rifritture sulle sventure postume degli uomini di genio!

  Luigi Capuana, Onorato di Balzac, in Studii sulla letteratura contemporanea. Seconda serie, Catania, Niccolò Giannotta, Librajo-Editore, 1882, pp. 73-99.
  Cfr. 1880 e 1881.

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  Riccardo Castelvecchio [Giorgio Pullè], La Donna romantica ed il medico omeopatico. Commedia parodia in 5 atti ed in versi di Riccardo Castelvecchio, Milano, Libreria Editrice, 1882 («Florilegio drammatico», Fasc. 507-508), pp. 5-7.
  Cfr. 1869; 1873.

  Eugenio Checchi, La vecchia amica, «Fanfulla della Domenica», Roma, Anno IV, Num. 43, 22 ottobre 1882, pp. 3-4.
  p. 3. Arrivai sull’imbrunire. Non so perché, ma il cuore mi batteva forte forte, e di questi battiti mi meravigliavo non poco.
  Dov’è un Balzac che abbia fatta mai l’analisi del cuore in quel preciso momento psicologico, quando l’anima umana dilata, per così dire, i suoi pori, onde vi penetri il sentimento qualsiasi che intorno a lei svolazzava? […].
  Ma il Balzac è morto, e la mia descrizione psicologica non ha forse neppure la bonaria apparenza del senso comune.

  Chiquita, Arcobaleno; Giallo, «capitan Fracassa», Roma, Anno III, N. 164, 15 Giugno 1882, p. 1.
  Ma niuno potrà mai guarire le visioni gialle degli artisti, poiché il giallo è largo, è ondeggiante, è acuto nell’arte, poiché vi può esser intensità di spasimo anche nel senso vago e infinito. I rayons jaunes, di cui Sainte-Beuve era innamorato, Balzac li ha messi nello sguardo voluttuoso della sua Fille aux yeux d’or, racconto misterioso, straziante e umano, che turba le coscienze dei lettori.


  Arturo Colautti, Nelle Viscere. Romanzo-fisiologia, «L’Euganeo. Giornale politico-quotidiano», Padova, Anno I, N. 161, 11 Giugno 1882; N. 199, 19 Luglio 1882, p. 1.; 7 Agosto; N. 245, 3 Settembre 1882, p. 1.; 14 Settembre 1882, p. 1.

  N. 161, 11 Giugno:

  Mi annoio, come ti dicevo ... cor­dialmente!

  Ma è la malattia universale, buon dio! Gli altri si annoiano in modo di­verso: ecco tutto. Bisognerebbe sop­primere la vita per guarirne.

  Dunque anche tu?

  Un poco. Paroletti è geloso. Tu sei una sposa troppo recente per com­prendere questo. Figurati che mio ma­rito sa a memoria la Physiologie du mqriage. E mi perseguita di afori­smi. Sono al punto di dover esecrare Balzac! Fortunatamente, mi procuro qualche distrazione ...

  Vanda tossì leggermente.


  N. 199, 19 Luglio 1882.

  A questo punto Mario credette op­portuno di soccorrere l’infelice.

  — La lettura di Balzac ti ha gua­sto! - diss’egli paternamente - Chi ti assicura che questo capello appar­tenga proprio al sottoprefetto? Non ci sono altre persone bionde al Belvedere? […].

  – Eh, mio caro, la moglie è per il marito quella che il marito la fa – declamò l’avvocato.

  – E sei tu che affermi questo? - disse Speraldi con un sorriso di com­passione.

  – No, è Balzac.

  Il dottore si strinse nelle spalle.

  – Un burlone di genio! – mormorò.

  – Hai un bel sorridere – ribadì Paroletti ferito nel suo culto per il romanziere-filosofo – la Physiologie non resta meno per questo il breviario dei mariti.

  – Dei celibi, dovresti dire. Essa non mostra che i difetti e i pericoli del matrimonio ... La sua lettura in­coraggia a passare nella solitudine il resto dei propri giorni.

  – Ma se è trattato di strategia coniu­gale! – rimbeccò Ulisse convintissimo.

  – Il quale ha il difetto di servire egregiamente anche agli avversari dell’istituzione. Balzac, credimi, non è, in fondo, che un apologista del di­vorzio. Il tuo messale, mio caro, ap­partiene alla biblioteca dell’adulte­rio ... Tant’è vero che non ti di­spensa di essere geloso ... […].

  – Fortunatamente – interruppe Mario con un sorriso egoista – qualunque emozione illegittima equivarrebbe per lei a un suicidio. La tisi non ischerza, anche quando si ritira. Ed ella lo sa!

  — In tal caso - soggiunse Paroletti, prendendo definitivamente il cappello – tu sei sicuro di non essere minotaurizzato, non è vero? Che felicità, se anche Lea fosse un po’ tubercolosa! Dormirei tra due guanciali, senza dover consultare Balzac.


  7 Agosto:

  — Mio marito è una bestia! La lettura di Balzac lo abbrutisce ...


N. 245, 3 Settembre:

— È facile per te! - gemette il discepolo di Balzac. - Ah, se Lea avesse anche lei un polmone di meno!


  14 Settembre:

  La donna non è un essere logico. Il suo cervello è fuori delle regole. Essa non si com­pleta che a furia di contrazioni. La fisiologia non la possiede che per metà: l’altra metà appartiene al ca­priccio. Povero Paroletti! Questa volta aveva proprio indovinato. Ma la sua vigilanza non aveva impedito nulla. Balzac non lo avrebbe salvato.


  Luigi Della Scorziana, Intermezzi noiosi, in Intermezzi drammatici, Milano, Tipografia Alessandro Gattinoni, 1882, pp. 13-15.

 

  p. 15. Zola ha descritto Dikens (sic):

  «Un Balzac annacquato in due secoli di protestantismo».


  Augusto Franchetti, Giovanni Ruffini, «La Domenica Letteraria», Roma, Anno I, Num. 30, 27 agosto 1882, pp. 1-2.
  p. 2. Vengono tenute in gran pregio dai critici britannici la lingua e lo stile del Ruffini, il quale meritatamente va posto a lato ai loro più lodati romanzieri. […] Le persone da lui osservate e fatte rivivere, reggono alla prova del tempo, che è la gran pietra di paragone. Antonio, Lucy, sir John Davenau, Paolo, Salvatore, Lavinia, Rosa, Onofrio, Vincenzo, i Del Palmetto e tanti altri, tornano alla mente anche dopo molti anni colla loro fisonomia, alla pari delle simpatiche figure del David Copperfield, di Bleak House o di Vanity Fear (sic). Ed in ciò non fa nulla la diversità di scuola; un lettore di gusto avrà sempre presenti, per esempio, Eugène Grandet (sic), Madame Bovari (sic), Iack, mentre non gli rimarrà, io credo, se non un’immagine superficiale e annebbiata dei Lantier, delle Généviève, delle Nana e di tutti i Rougon Macar (sic) …

  P. Gio.[vanni] Giuseppe Franco, La letteratura di Corinna, in Gli Spiriti delle tenebre. Racconto storico delle pratiche dell’odierno spiritismo pel P. Gio. Giuseppe Franco D. C. D. G. Seconda edizione ricavata dalla Civiltà Cattolica ed accresciuta dall’autore. Volume I, Prato, Tipografia Giachetti, Figlio e C., 1882, pp. 191-198. [1881]
  p. 194. – E poi, dimmi un poco, o che i giovani, che hanno la nostra età, non se li pasteggiano, senza farsene coscienza?
  – Che dubbio? Mio padre ne ha gli scaffali pieni: ci ha Giorgio Sand, il Sue, il Dumas, il vecchio Balzac, Federico Soulié, Paolo di Kock, il Zola, e via via.
  – Hai ragione da vendere e da serbare. Pensiamo! gli uomini ci vengono a cantare che noi donne si fa peccato a leggerli … Perché li leggono essi? o che eglino hanno il cintolino rosso? –
  Protetto ed assicurato da così solide argomentazioni, il commercio librario da mano a mano fioriva mirabilmente, senza che niuno se ne accorgesse, tranne per avventura qualche madre isolata, che ne sospettava, nello scorgere al mattino la sua cara bambina cogli occhi rossi, colle guance livide, col sorriso intorbidato; perché la infelice aveva vegliato tutta la notte, trepidando sopra pagine passionate e invereconde: l’inferno divampante nella fantasia, e i precipizii del cuore, Dio solo li conosceva.


  R. Garofalo, L’assassinio nelle Romagne, «Archivio di Psichiatria per servire allo studio dell’uomo alienato e delinquente», Torino, Ermanno Loescher, Volume Terzo, 1882, pp. 99-106.

 

  pp. 105-106. I ministri del culto sono oggi inabili a predicare la morale e ad ispirare il puro sentimento religioso secondo lo spirito di quel sistema completo di repressione di tutti gl’istinti depravati che, come disse un grande scrittore (1), è il cristianesimo.

 

  (1) De Balzac, Physiologie du mariage.


  Antonio Ghislanzoni, Libro bizzarro, Milano, A. Brigola e C., Editori, 1882.
  Non ho io ricordato con ammirazione, nelle mie riviste critiche, parecchie centinaia di romanzi stranieri che appena pubblicati invasero le nostre biblioteche, i nostri gabineti (sic?) di lettura, i nostri salotti, le nostre camere da letto, obbligandoci a vegliare le lunghe notti nelle illusioni di un mondo ideale e fantastico? Balzac, i due Dumas, Eugenio Sue, Giorgio Sand, Alfonso Karr, Victor Hugo, Gauthier (sic), Dikens (sic), Féval … Quanti nomi di romanzieri, di drammaturgi, di poeti, i cui volumi a mala pena si conterebbero nel vasto salotto dove io sto scrivendo!
  Più di cento produzioni drammatiche che (e dico poco) scesero dalle Alpi in questo breve periodo di tempo a fanatizzare le nostre platee. Per tutte ebbi parole di ammirazione entusiastica; e questa ammirazione, più che un risultato delle analisi, era il riflesso delle impressioni immediate. Ma ciò non ha impedito che in ogni rassegna teatrale io mi sia permesso di ripetere il sempre applaudito ritornello delle melensaggini e delle mostruosità d’oltremonte.

  Antonio Ghislanzoni, In Chiave di baritono (Storia di Milano dal 1836 al 1848), Milano, A. Brigola e C., 1882.
  p. 152. Balzac soggiornava per alcun tempo a Milano, e durante quella breve dimora, notava che le figlie delle nostre portinaie avevano l’aspetto d’altrettante regine. Il celebre romanziere veniva derubato di una preziosa tabacchiera che ben tosto gli era restituita per cura dell’imperiale regio direttore di polizia.

  Angelo de Gubernatis, Rassegna delle letterature straniere. “Due romanzi”, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Roma, Direzione della Nuova Antologia, Seconda Serie, Volume Trentesimoquinto Della Raccolta, Volume LXV, Fascicolo XVIII, 15 Settembre 1882, pp. 371-390.
  p. 389. Alcuni anni sono, ebbi occasione di parlare con molta ammirazione di un bel romanzo di Claude Vignon, intitolato Château-Gaillard, una pittura vivace e fedele de’ costumi del secondo impero; lo stesso Autore dopo quel tempo pubblicò alcuni altri romanzi intitolati: Les Drames ignorés; Elisabeth Verdier; Une femme romanesque; Un naufrage parisien; Révoltée; ora viene ad aggiungersi alla serie un nuovo romanzo, pubblicato da Calmann Lévy, sotto il titolo: Une Parisienne, étude de femme. «Les romanciers, scrive il Vignon, qui daignent seulement s’occuper des grands drames et des types d’exception ; qui se plaisent aujourd’hui à nous peindre tantôt les rebuts sociaux, tantôt des excentriques affolés dont les copies n’existeraient point dans la vie si les romans ne fornissaient (sic) des modèles; qui fouillent la fange où nous conduisent, à la suite d’hommes de débauche et de femmes de joie, dans les cercles infernaux, les romanciers ont trop négligé de nous introduire dans le milieu moyen qui est le milieu caractéristique des sociétés et des nations. La femme cosmopolite, nous la connaissons; la vrai Française, nous l’ignorons encore. Allons donc la chercher au cœur même de la nation et de la capitale; ni sur les sommets, ni dans les basse-fonds, ni dans les cercles interlopes ; mais dans ces régions centrales, où gisent les forces vives du pays». Questa critica del Vignon conviene al romanzo odierno, ma non potrebbe estendersi al romanzo de’ predecessori, del Balzac, per esempio, e di Paul de Kock che avevano specialmente inteso a riprodurre ne’ loro romanzi la vita borghese.

  F.[rancesco] D.[omenico] Guerrazzi, Lettera a L.[uigi] Zini – Genova, 30 Settembre 1858, in Luigi Zini, Scritti letterari editi ed inediti con aggiunte alcune Lettere di F. D. Guerrazzi all’autore, Modena, Paolo Toschi e C. – Editori, 1882, pp. 42-46.
  Cfr. 1858.

  Il Fanfulla della Domenica [Luigi Capuana], Da una domenica all’altra, «Fanfulla della Domenica», Roma, Anno IV, Num. 33, 13 agosto 1882, p. 1.
  Sul realismo nel vero e largo senso della parola – e sulla verità dei caratteri nel romanzo moderno, troviamo giustissime e veramente notevoli queste parole della Bibliothèque universelle a proposito di G. Eliot: – L’anima umana non è stata mai studiata con più cura che da George Eliot. Egli ha creato il vero romanzo realista – non già quello che si acclama oggi col nome di realista e naturalista, e che non prende dalla realtà che il puro lato esteriore – ma quello che studia l’uomo tutto intiero con la sua natura così complessa, così contraddittoria, così ondeggiante, e perciò appunto così difficile a riprodursi e dipingersi. La superiorità straordinaria di George Eliot consiste precisamente in questa maravigliosa comprensione dell’essere umano. Per convincersene, basta paragonare i caratteri ond’egli ha arricchito la letteratura moderna con quelli descritti dai romanzieri analitici i più giustamente famosi. Balzac potrà servirci di punto di paragone. Chi non conosce i suoi tipi immortali dell’avaro, dell’usuraio, della cortigiana? Ma sono essi concepiti dietro una paziente osservazione della natura, o creazioni uscite di getto dal suo cervello? Per dipingere Grandet, Balzac ha riunito tutte le caratteristiche che formano il tipo astratto dell’avaro: gli ha dato quella potenza di vita e di colorito di cui egli aveva il segreto, talchè il lettore ha l’illusione della realtà. Ma non è che una illusione, perché noi abbiamo dinanzi agli occhi un essere ridotto a una semplificazione estrema, e il proprio del carattere umano è la complessità. Grandet è come Gosbeck, e come quasi tutti i personaggi della Commedia umana, un tipo eccezionale. Certo ogni romanziere ha il diritto di presentarci dei tipi eccezionali; ma ciò facendo si allontana dalla verità, più del romanziere che ci rappresenta la natura umana tal quale la riscontriamo ogni giorno in noi, e attorno a noi.

  Il Fanfulla della Domenica [Luigi Capuana?], Giornali e Riviste, «Fanfulla della Domenica», Roma, Anno IV, Num. 35, 27 agosto 1882, p. 2.
  E prima di chiudere, un calcolo curioso. Dal 1832 al 1845 negli anni in cui la Francia ha prodotto i suoi migliori romanzi, allorchè vivevano Balzac, George Sand, Sue, Souliè, Musset, Dumas padre e il popolarissimo Paul de Koch (sic), a Parigi si stampavano in media venticinque romanzi l’anno. Ora che quei romanzieri che hanno avuto tanta influenza sul mondo, da destare in ogni scrittore il desiderio d’imitarli e hanno ridotto le altre letterature in genere una scimiottatura di quella francese sono tutti morti, si pubblicano a Parigi ogni anno trecento romanzi. Queste cifre ci fanno gridare: Evviva la carestia!

  Il Fanfulla della Domenica [Luigi Capuana], Bricciche, «Fanfulla della Domenica», Roma, Anno IV, Num. 48, 26 novembre 1882, p. 2.
  Nella sua qualità di legittimista, d’idealista, di cattolico, il Pontmartin ha una grande antipatia per il Balzac e una grandissima per lo Zola.

  Il Figlio del Suggeritore, Letteratura. Una questione d’arte, «capitan Fracassa», Roma, Anno III, N. 312, 12 Novembre 1882, p. 1.
  E finitela e finiamola un po’ col classicismo, romanticismo, idealismo, naturalismo, verismo, nullismo e tutto questo isterismo dell’arte passata, presente e futura. Contentiamo pure Zola, che è pur molto difficile a contentarsi, e andiamo magari con le mani e coi piedi a festeggiare la grande ombra di Balzac, ma si faccia altrettanto per Vittor Hugo. […]
  Riassumendo: concludo che, a far bene, tutto è difficile; le parti piccole e le grandi, le buffe e le serie, le belle e le brutte, Shakespeare e Molière, Alfieri e Goldoni e soprattutto il n’y a pas des mauvais rôles pour les bons acteurs … come dice Balzac.


 Io Fanfulla, Giorno per giorno, «Fanfulla», Roma, Anno XIII, N. 63, 13 Marzo 1882, p. 1.

 

 I giornali francesi portano questa notizia malinconica: «La vendita degli oggetti appartenenti alla signora di Balzac è cominciata al castello di Beauregard».

 La maggior parte di quegli oggetti appartenne, mentre fu vivo, al gran romanziere. Egli aveva il gusto e il bisogno dei mobili preziosi, delle stoffe antiche e rare, dei quadri, delle statue, dei ninnoli. Per ottenerli, si privò spesso delle cose più necessarie, e visse di privazioni, in mezzo al lusso che lo circondava.

 Adunò a poco a poco i suoi tesori artistici. Le prime cose di valore che ebbe, furono certe belle tappezzerie di seta: e, quando le mise a posto, invitò gli amici perché le ammirassero. Più di una volta gli avvenne di mobiliarsi, con la fantasia, un palazzo splendido. Il suo piccolo villino delle Jardies, che ora appartiene a Gambetta, non fu addobbato in maniera diversa, per parecchi anni. Balzac scriveva col carbone, sulle pareti nude:

 «Qui ci sarà un rivestimento di marmo pario;

 «Qui uno stilobato in legno di cedro;

  «Qui un soffitto dipinto da Eugenio Delacroix;

 «Qui una tappezzeria di Aubusson;

  «Qui un caminetto di marmo cipollino;

 «Qui delle porte come quelle di Trianon;

  «Qui un pavimento a mosaico da farsi con tutti i legni rari delle isole».

 

*

 

 Alcuni dei suoi desideri furono soddisfatti più tardi. Negli ultimi anni della sua vita, egli era riuscito a mettere insieme una specie di piccolo museo che descrisse, magnificandolo, in uno dei suoi migliori romanzi: Le cousin Pons. Le cose più belle che avesse erano alcuni quadri di Palma il Vecchio, di Annibale Carracci, di Sebastiano Del Piombo, di Canaletto, di Greuze, di Van Dick, di Van Huysum. Aveva due statuette di Benvenuto, delle tappezzerie maravigliose, lo stipetto incrostato di Maria de’ Medici, la scrivania di Enrico IV, un servizio di porcellana dipinto da Watteau, un trionfo per tavola di Palissy e il letto della marchesa di Pompadour.

 A udirlo, egli possedeva ancora quadri di Raffaello, di Rembrandt, del Domenichino, di altri; però nessuno li ha mai visti. Un giorno raccontava di avere ricevuto due vasi mirifici, direttamente, dal palazzo imperiale di Pechino. Un altro giorno mostrava agli amici l’anello di Maometto, che il Gran Mogol avrebbe pagato tonnellate d’oro. La sua veste da camera era fatta col termolama prezioso che possedeva soltanto lo scià di Persia. Il pomo della sua mazza era un talismano già appartenuto a Salomone! ...

 È la mazza celebre che dava il dono della invisibilità, e sulla quale la signora de Girardin scrisse il romanzo La canne de Monsieur de Balzac.

 E tutte queste ricchezze vere e false, tutte queste cose che furono tanta parte della vita di un grand’uomo, ora sono messe all’asta per pagare i debiti del genero di sua moglie!

 La notizia è davvero malinconica.


 Io Fanfulla, Giorno per giorno, «Fanfulla», Roma, Anno XIII, Num. 98, 13 Aprile 1882, pp. 1-2.

 

 p. 1. Ieri, Folchetto mi annunziò per telegrafo la morta della vedova di Balzac.

 Era una signora polacca; apparteneva ad una famiglia di nobiltà antica e si chiamava Evelina Rzewuska.

 Balzac la conobbe verso il 1835, mentre era moglie del conte Hanska (sic).

 Ella esercitò una grande influenza sulla vita dell’illustre romanziere. Per lungo tempo si amarono platonicamente da lontano, stando egli a Parigi ed ella a Vierzschovina, un castello sontuoso e malinconico, perduto in mezzo alle solitudini dell’Ucrania.

  Di tanto in tanto si riunivano a Parigi, a Pietroburgo, altrove, o facevano qualche viaggio insieme.

 Egli le scriveva delle lettere lunghissime, le narrava tutte le sue miserie di grand’uomo, la consultava sui propri lavori e le dedicò Séraphîta. Ella gli fornì molti particolari per diversi romanzi, gli suggerì il piano e l’intreccio di Modeste Mignon.

 Era bella. Una miniatura del pittore viennese Daffinger, la mostra bionda, sorridente, cogli occhi celesti e con la carnagione pallida. [...].

 Sebbene il suo primo marito fosse morto nel 1842, ella non si sposò con Balzac che nel marzo 1850.

 La morte del grande romanziere avvenne nell’agosto successivo.



  Achille Loria, La Legge di popolazione ed il sistema sociale di Achille Loria. Prelezione al Corso di Economia politica nella R. Università di Siena letta il 9 dicembre 1881, Siena, Tipografia Sordo-muti di L. Lazzeri, 1882.

  p. 49. E per vero, signori, sia che leggiate l’Aulularia di Plauto, o scorriate le pagine di Balzac, sia che ammiriate le tele, nelle quali Alberto Dürer eternò la cupida avarizia de’ borghesi dell’età di mezzo, o che vi commovano i drammi, ne’ quali Shakespeare tratteggiò co’ più possenti colori le furie dell’avidità di ricchezza, vi apparirà sempre che nelle diverse età della storia la parte più numerosa dell’umanità intervenne nel fenomeno sociale sotto gli impulsi di quella febbre dell’oro, che ne prefiniva le azioni.

  E.[milio] de Marchi, Caratteri umani e caratteri artistici, «Rivista Minima di scienze, lettere ed arti», Milano, Anno XII, Fascicolo 6.°, 1882, pp. 447-459.
  p. 449. Io non so, ma non mi lusingo, che nell’avvenire sia per nascere mai una mente di così vasta estensione, di sì robusta comprensione, di così olimpica chiaroveggenza, che possa guardare nell’universo dei vivi, come Dante, per esempio, ha potuto vedere a fondo nell’universo della sua imaginazione. Se mai nascerà, bisogna supporla qualche cosa di diverso dalla mente troppo elevata di Platone, e da quella ancor più elevata di Kant; dovrebbe essere più vicina a quella di Aristotile e di Newton, nei quali il genio fece lume all’esperienza e la pazienza fu grande come il genio.
  La Commedia umana di Balzac a confronto di questo gran libro resterebbe allora come un minimo tentativo.

  Ferdinando Martini, La “Faustin” di Edmondo De Goncourt, «La Domenica Letteraria», Roma, Anno I, Nro. 3, 19 febbraio 1882, pp. 1-2.
  p. 2. Voi cercate le sources de Balzac, voi volete sapere e dire où en est le mouvement que l’auteur de la Comédie humaine a déterminé dans la littérature. Ma egli ha solamente messo al mondo, il Balzac, Madame Marneffe e Vautrin? E Orsola Mirouet, e la Fosseuse e Eugenia Grandet e Renée de Maucombe, e Mademoiselle d’Esgrignon, e il curato Bonnet e Minoret, e Giuseppe Le Bas e Benassis e i due Birotteau? Cito i primi che mi tornano alla memoria. Il Balzac ha tentato gli abissi d’ogni corruzione nella Recherche de l’absolu, è salito fino in troppo alte regioni col Lys dans la vallée: e il capitolo più vasto e più vero della commedia umana, Les parents pauvres, è anche il capitolo più vario.
  Triste anch’egli, lo so; Shakespeare e Molière furono tristi del pari; sunt lacrymae rerum; non è gaio il mondo, né possono essere allegri gl’istoriografi della natura e della società: ma i libri loro si depongono mal volentieri e colle lacrime agli occhi, i vostri si buttan via schifati e sdegnosi.

  F.[erdinando] Martini, “Maria di Magdala”. Dramma in 5 atti di Piero Calvi. Rappresentato per la prima volta dalla compagnia Morelli al Teatro Costanzi in Roma la sera del 17 luglio 1882, «La Domenica Letteraria», Roma, Anno I, Num. 25, 23 Luglio 1882, pp. 1-2.
  p. 1. Maddalena? Cortigiana è sentimentale come una donna di Balzac, seguace di Cristo impreca, vitupera, rimpiange i vezzi perduti nella solitudine e nella penitenza.


  Carlo Massa, Il danaro nella commedia francese, «La Rivista Europea. Rivista internazionale», Firenze, Volume XXVII, 1882, pp. 209-243.

 

  pp. 227-230. Come al disotto dei fermiers généraux e dei pubblicani di prima sfera , vi furono i Turcaret che tosavano di seconda o di terza mano, così, più in giù dell’alta banca, ma non tanto che il salirvi o il discenderne fosse molto difficile, vi erano i parasiti del credito e gli avventurieri della Borsa, antiche o future conoscenze dei tribunali correzionali, gente che un affare arrischiato poteva condurre in carcere, ma a cui un paio di milioni guadagnati abilmente e senza troppi scandali, davano un posto nella buona società, un nastro all’occhiello e, forse, anche un seggio nella Camera dei Pari.

  Mercadet è il tipo dei secondi, come Turcaret lo fu dei primi.

  «L’égalité dice Mercadet – ne sera jamais qu’un mot! nous serons toujours divisés en deux castes, les débiteurs et les créanciers»). E la commedia, in fondo, non è che una lotta fra quelle due caste, una corsa scapigliata dietro il danaro.

  Mercadet è un faiseur, un uomo di affari che ne fa d’ogni sorta e, pel momento, più di cattivi che di buoni. Ieri aveva una piccola fortuna e domani, forse, sarà milionario; ma oggi non ha un soldo e ricorre a ogni sorta di espedienti per non essere costretto a dichiarare il suo fallimento, per non essere espulso dalla Borsa dove spera di acquistare quel danaro che gli manca.

  Le lotte di ogni giorno e di ogni ora, le manovre che producendo, per pochi minuti, il rialzo o il ribasso possono fare o disfare una fortuna, gli stratagemmi, le menzogne, gli inganni nati e morti tra l’apertura e la chiusura della Borsa sono necessarii alla sua esistenza.

  Il giorno in cui avesse trentamila franchi di rendita, sarebbe un uomo rovinato.

  E quando, salvato dalla rovina per uno di quei miracoli tanto frequenti sul teatro, consente a ritirarsi in campagna, dice che l’agricoltura formerà la sua occupazione e vuole studiare cette industrie-là. Il vecchio uomo non è morto; e un giorno o l’altro uscirà dalla cascina dove si è ritirato e speculerà sulle terre, o metterà in azioni i vigneti e i campi di grano.

  Chassez le naturel, il revient au galop, diceva, ossia traduceva Boileau.

  Ecco, se non mi inganno, un altro tipo dell’uomo di affari, quello che al danaro e agli effetti di questo, preferisce la lotta per averlo, e s’inebbria del rumore della stessa e dello spettacolo del campo di battaglia anche a costo di lasciarvi una gamba o un braccio, e magari la pelle.

  Turcaret non era onesto, e non lo è neppure Mercadet. Dei personaggi che circondano quest’ultimo, non ce n’è che tre di onesti: sua figlia che, brutta come è, cerca un uomo che ami l’ideale; un buon giovanotto che è dispostissimo a trovare che essa è una bellezza ideale; e la signora Mercadet la quale, se per qualche tempo è complice di suo marito col silenzio e col genere di vita che mena, alla fine, però, fa di tutto perché i suoi imbrogli non abbiano a diventare troppo grossi. Gli altri personaggi della commedia, occupati come sono a far passare il danaro altrui nelle loro tasche, non guardano tanto pel sottile se quel che fanno è onesto o disonesto. Tutti si lasciano burlare da Mercadet, tranne uno: papà Violette che, lamentandosi di morir di fame, finisce sempre collo strappargli un poco di danaro col quale poi fa l’usuraio.

  Per tornare a galla, Mercadet ne inventa di tutti i colori e di tutte le specie.

  In quel fitto tessuto di bugie, ognuna delle quali è la smentita di un’altra, essi non sanno raccapezzarcisi. «Il ment comme un prospectus; mais , en affaires, cela se fait» dice uno dei suoi creditori; e un altro aggiunge: «sans cela le commerce serait bien malade»)

  Altro che ammalato, quel genere di affari lì sarebbe morto non ci fosse la menzogna.

  Ognuno dei suoi creditori, benchè sia stato burlato tante volte, si domanda sempre: e se questa volta dice la verità? e se, non credendoci, corro il rischio di non ricuperare più i miei quattrini? E casca, a capofitto, nella rete tesa dall’abile faiseur e si fa ingannar da lui, salvo poi a ingannar gli altri.

  Il mezzo con cui Mercadet cerca di sfuggire una volta per sempre alle persecuzioni dei suoi creditori, e che Balzac ha tolto di sana pianta da una scena del Légataire universel di Regnard, è degno della vecchia commedia, e potrebbe prender posto nel numero delle furberie di Scapin; ma è tutt’altro che possibile, e se lo fosse condurrebbe diritto in galera chi volesse servirsene.

  Eppure quell’uomo, quello speculatore posto colle spalle al muro e che, solo, lotta contro tutti senza perdere mai il suo coraggio e il suo spirito, interessa lo spettatore o il lettore della commedia che, se non altro, finisce coll’averne compassione.

  È una figura che rassomiglia a tante altre create da Balzac o che spopolano la sua Comédie humaine.

  Miscuglio di vero e di fantastico, Mercadet è un personaggio creato dalla fantasia e a cui l’autore cercò poi di dare un’apparenza di verità, o è un personaggio vero che Balzac osservò con quella lente di ingrandimento che era la sua immaginazione e che, tante volte, gli fece dipingere un elefante per un moscerino?

 

  pp. 238-239. Lo stesso deve dirsi per Mercadet, il migliore tra i lavori drammatici di un forte ingegno che non seppe quasi mai piegarsi ai bisogni e alle esigenze della scena. E lo spettatore anche oggi non è tanto affascinato dallo spirito del dialogo, quanto da quella figura di speculatore, che, collo spalle al muro, lotta coraggiosamente sino all’ultimo momento e contro tutti.

  Quella figura, benchè sia un po’ ingrandita, è del nostro tempo ed è una delle più vere fra le create dalla potente fantasia di Balzac, fra quella turba di usurai, di speculatori, di sognatori, di nature energiche, incalzate dallo spettro della fame o cogli occhi rivolti al lontano ideale di una grande ricchezza.

  Dicono che Alessandro Dumas figlio, ed egli lo lascia dire volentieri, non abbia modelli, non studii i suoi predecessori.

  Eppure tra questi ve n’è uno che ha studiato lungamente ed accuratamente, che è stato il suo modello: Balzac.

  Intendiamoci però: studiare non vuol dire copiare, e se ha imitato Balzac lo ha fatto con prudenza e, quel che è più, con discernimento.

  Balzac aveva detto che l’arte, la sua almeno, quella del romanziere e dell’autore drammatico, dovesse consistere nell’osservare e nel riprodurre specialmente ciò che per tanto tempo non era stato creduto degno di essere osservato e riprodotto.

  Aveva detto che l’autore drammatico doveva dare ai suoi personaggi il linguaggio che avevano nella vita reale, e s’era provato a farlo. Ma ci era poco o punto riuscito, e li aveva fatti parlare in una lingua che non era loro ma sua, tutta sua, come lo rivela l’andamento del periodo, il giro della frase, l’abbondanza dei motti, dei frizzi, felici, scoppiettanti, ma non sempre a posto, non sempre spontanei. [...].


  Memini [Contessa Ines Benaglio Castellani Fantoni], Fra quadri e statue. Impressioni e chiacchiere, Bergamo, Stabilimento Gaffuri e Gatti, 1882.

 

  p. 202. Un altro inverno, un altro sentiero che scende, un’altra coppia che si fa avanti, seguita questa volta da un piccolo stuolo di parenti e d’amici: Le nozze d’oro, del Prati. Due vecchietti, uomo e donna, giunti assieme, attraverso alla vita, sino a quel punto che, come ce ne avverte Balzac, segna il cessare definitivo delle piccole miserie della vita coniugale!


  Orlando Mitraglia, Prefazione [1 gennaio 1882]. XXXVI, in Lettere critiche al Fanfulla della Domenica … cit., 1884, pp. 112-115.
  pp. 112-113. Detto per questa guisa qual valore abbiano a mio avviso i principali novellisti e romanzieri italiani della giornata, ma cosa però mi preme d’affermare e che cioè, secondo me, di tutti questi scrittori che ho esaminato, non uno solo può rivaleggiare coi più noti romanzieri e novellisti d’oltralpe, con Gualtiero Scott, con Chateaubriand, con Dickens, con Victor Hugo, con Balzac, con Sue, con Dumas e con tanti altri. Sia pure che a taluno dei nostri romanzieri si possa attribuire il vanto di tendere a fare, e di fare anche qualche volta un’arte vera e di essere per tal guisa, come suol dirsi, della propria epoca. Io parlo di potenza d’ingegno, d’altezza d’ispirazione, astraendo assolutamente dal genere della letteratura narrativa; io esamino il romanzo il racconto contemporaneo italiano, e trovo che noi, in questo ramo di letteratura, manchiamo decisamente di veri capilavori, che sottostiamo, ripeto, agli stranieri.

  Enrico Nencioni, Maud, «La Domenica Letteraria», Roma, Anno I, Num. 7, 19 Marzo 1882, pp. 1-2.
  p. 2. Eppure anche oggi, e anche da noi, si senton fare da certi critici domande ai nostri scrittori: come se fosse essenziale natura dell’arte di dare lezioni; come se la evidenza del precetto, o anche del consiglio, non distruggesse anzi ogni impressione estetica; come se la vera ammirazione non fosse sempre disinteressata; come se la natura non dispiegasse le sue magnificenze spesso senza scopo palese, e con una prodigalità da far rizzare i capelli a tutti i Gobseck della Critica.

  Enrico Nencioni, Niccolò Tommaseo, «Fanfulla della Domenica», Roma, Anno IV, Num. 35, 27 agosto 1882, pp. 1-2.
  p. 1. Quando la critica tornerà ad essere ciò che non dovrebbe mai cessare di essere, cioè interprete e giudice di tutte le espressioni dell’Arte; – quando si tornerà alla sana, comprensiva, imparziale e feconda critica dei Goethe, dei Macaulay, dei Saint-Beuve (sic); – quando si capirà che il critico vero deve sapere intendere e apprezzare con la stessa equanimità (pur non celando le sue simpatie) Shakespeare e Racine, Rembrandt e il Correggio, Ingres e Delacroix, Rossini e Wagner, Hugo e Lamartine, Balzac e la Sand, Manzoni e Leopardi, Wordsworth e Heine, I promessi Sposi e Madame Bovary; – allora, e solamente allora, i Limbi letterari saranno chiusi, e saranno accettate, intese, e ammirate tutte le espressioni dell’ingegno e dell’Arte, e concesso all’artista di tutto osservare nella natura e nell’umanità, e tutto esprimere fino all’oscenità esclusiva.

  Enrico Nencioni, Folk-lore, «Fanfulla della Domenica», Roma, Anno IV, Num. 48, 26 novembre 1882, pp. 1-2.
  p. 1. Quando seppi che Luigi Capuana, artista obiettivo, osservatore e analizzatore impassibile, descrittore naturalista delle più scabre realtà della vita, stava scrivendo un libro per i bambini, dissi fra me, lo confesso: - Dio ce la mandi buona! […] E mi tornava in mente Balzac quando si mise a scrivere sul giansenismo.

  E.[ugène] Nus e R.[aoul] Bayard (sic; lege: Bravard], Leggete Balzac! Commedia in un atto dei signori E. Nus e R. Bayard tradotta da Cav. Domenico Bassi, Milano, Libreria Editrice (Tip. A. Guerra), 1882 (“Miscellanea Teatrale”, Num. 110), pp. 27.


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(Fonte: Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna).


  L’Opera fu rappresentata il 20 gennaio 1865 al Teatro Odéon di Parigi.

  Questa commedia di E. Nus e R. Bavard in un atto e dieci scene vede come protagonisti due giovani sposi (Dumont e Clara), due vere “perle d’amore” che, a causa dell’imprevista visita di Delpèche, amico di Dumont, un cinico vedovo denigratore della vita matrimoniale e fervente seguace delle dottrine balzachiane relative alla filosofia coniugale, vedono improvvisamente minata la loro armoniosa e felice convivenza dai sospetti e dalle diaboliche insinuazioni di Delpèche sulla presunta infedeltà di Clara.

  Trascriviamo integralmente i passi della commedia in cui gli autori fanno esplicito riferimento alla Physiologie du mariage di Balzac.

 

Scena III.

  pp. 12-15.

  DEL. Tua moglie ti tradisce! […]

  DUM. Diavolo, diavolo! Mi dici cose da far andare all’aria i campanili. Mio nipote [Giulio] sarebbe innamorato di mia moglie?

  DEL. Ma sicuro.

  DUM. E mia moglie?

  DEL. Eh! così vuol la regola! È valuta intesa! è articolo di legge!

  DUM. Come la regola? Cosa c’entra la legge?

  DEL. Consulta gli autori (con importanza). Non hai mai letto Balzac?

  DUM. Balzac? Ha scritto dei romanzi. Ho letto poco del suo!

  DEL. Non parlo dei suoi romanzi, parlo della sua opera famosa, la sua storia degli infortunii coniugali …

  DUM. Ah!

  DEL. Ecco un uomo che le conosceva a fondo!

  DUM. Chi?

  DEL. Le donne, la mia, la tua …

  DUM. Come? Balzac conosceva mia moglie? mi sorprende! Non mi ha mai parlato di lui.

  DEL. Tu non mi capisci; Vuo’ dire che le conosceva tutte in teoria … tutte le donne sono sempre la stessa donna, sempre ghiotte del frutto proibito, sempre pronte ad ascoltare il serpente.

  DUM. Che cosa mi vien fuori col serpente?

  DEL. Il mio serpente, era mio … cioè suo cugino. In quanto al frutto proibito … esso è …

  DUM. Un pomo. Tutti lo sanno!

  DEL. Sì, un pomo, a cui tutte le donne danno un morsetto, tranne quelle che non han più denti. (cava un libro) Così sta scritto. È sul libro …

  DUM. Ah! quel libro …

  DEL. Lo so a mente, ma non monta, lo leggo sempre. Senti, ascolta un po’. (legge) «L’infedeltà della donna risale ai tempi più reconditi della società!»

  DUM. Diamine! L’infedeltà data di lontano!

  DEL. Sì, noi datiamo da lontano! «Spremete ben bene il matrimonio: non né (sic) uscirà altro che piacere per li scapoli e non per gli ammogliati».

  DUM. Ma il tuo autore non ammette dunque che ci siano mogli oneste?

  DEL. To! … ecco qui appunto la risposta della tua domanda.

  DUM. Vediamo un po’.

  DEL. «La quistione non è tanto di sapere quante mogli virtuose vi sono, come se una donna onesta può rimaner moglie virtuosa».

  DUM. Ebbene?

  DEL. Ebbene, Balzac prova, lampante come il sole, che la è una cosa impossibile.

  DUM. Eh via!

  DEL. (le [sic] dà il libro) Prendi, studia, medita … te lo confido. Non lo perdere … è il mio breviario. Illuminati … istruisciti e sii uomo. Via, via! il nostro è un malanno di cui non si muore, se il dolore avesse ucciso tutti i mariti affetti da tale malattia epidemica, il mondo sarebbe popolato solamente di vedove. Vedrai anzi come vi sieno compensi quasi consolanti. […].

 

Scena IV.

Dumond solo.


  p. 16.

  DUM. Che cosa vuole che io studii, ch’io mediti? (legge) «Fisiologia del matrimonio o Meditazioni di filosofia eccletica». Eccletica? Che cosa diamine voglia dire? «Sulla felicità e sugli infortunii coniugali», To, to! ma e’ deve essere interessante questo libro! (porta vanti una poltrona e siede leggendo qua e là) «Un uomo non può ammogliarsi senza aver studiato l’anatomia e aver disseccato almeno una donna». (s’alza) Come? Disseccato? Ma è una stupidaggine, non mi sorprende che Delpèsche (sic) abbia la testa fuor di sesto, se legge simili libri! Disseccare una donna prima di ammogliarsi? Dico io se le son cose da … Povero Delpèsce! … Tuttavia quel che mi ha detto, mi trotta nel cervello … Che cosa può mai essere quel biglietto che Giulio insinuava a mia moglie? E perché ambidue si guarderebbero ch’io lo sapessi? Vorrei un po’ sapere se il famoso libro può trarmi dalle mie perplessità. (legge) «Una donna ha sempre un debole pei nipoti di suo marito. È una malattia a cui la scienza non ha trovato rimedio». To, to! È strano! (Clara viene in scena) Questo aforismo risponde al mio pensiero. Questo libro mi fa paura! […]

 

Scena VII.


    p. 19.

  DUM. (agitato) Delpèsce, quanto ti costò il tuo libro?

  DEL. Non mi rammento … mi pare 3 franchi e 50 …

  DUM. (le dà il denaro) Eccoteli; tengo il libro per me. Tu te ne procurerai un altro esemplare.

  DEL. Ah, ah! Ti interessa al vivo …

  DUM. Mi urta i nervi … m’irrita … m’indigna … ma vuo’ andare sino alla fine. Ho le mie ragioni … per leggerlo tutto. […].

 

Scena ultima.

 

  p. 25.

  DUM. Vieni qua, tu … Il tuo libro è incompleto. Non ha registrato tutto … Vi sono dei casi che ha dimenticati … Scommetto che il tuo autore non giungerebbe mai a inventare quel che accade ora a me.

  DEL. È possibile … Nessun uomo è universale. […].

  p. 27.

  DEL. Vado … ma tornerò fra un anno.

  DUM. Non tornar mai più. Basta una volta e mi ricorderò un pezzo della tua visita (da [sic] il libro a Del.) Giulio … vedi questo libro? Quando sarai ammogliato non lo legger mai.

  DEL. Anzi, leggete Balzac, giovinotto, è la scienza!

  DUM. In fatto di felicità coniugale, non è la scienza, che salva: è la fede.



  p. 162. Nondimeno l’ultimo giorno di carnovale fu ricreato da un bellissimo tempo; ond’è che i Parigini trassero a calca lungo le vie per le quali dovea passare le père Goriot. Questo père Goriot è il bue grasso: un’Eminenza che viene accompagnata dalle guardie municipali e da splendida processione di maschere a piedi, a cavallo ed in cocchio.


  Giorgio Pallavicino Trivulzio, Lettera XII. All’Abate B. – Codogno. Parigi, 12 febbraio 1845, in Memorie pubblicate per cura della moglie. Volume primo dal 1796 al 1848, Torino, Ermanno Loescher, 1882, pp. 161-163.

 

  p. 162. Nondimeno l’ultimo giorno di carnovale fu ricreato da un bellissimo tempo; ond’è che i Parigini trassero a calca lungo le vie per le quali dovea passare le père Goriot. Questo père Goriot è il bue grasso: un’Eminenza che viene accompagnata dalle guardie municipali e da splendida processione di maschere a piedi, a cavallo ed in cocchio.


  Panurge [Edoardo Scarfoglio], Per un pantagruelista italiano [Giuseppe Martinozzi]. Contro due giornali domenicali, «Cronaca Bizantina», Roma, Anno II, vol. II, n. 7, 1 aprile 1882, pp. 6-7.
  p. 7. La Domenica letteraria non vuole che si lavori di seconda mano: per questo essa tradusse dal Times poche notizie biografiche sull’Auerbach, che il corrispondente del Times aveva tradotte dal dizionario del Vapereau; per questo essa rispolvera, per bocca dell’on. Martini, le vecchie armi che già assaltarono, e ora assaltano di nuovo il naturalismo fra gli intercolunnii dell’Événement, con l’aggiunta di qualche sproposito fresco. Per esempio, nell’articolo sulla Faustin del Goncourt, l’on. Martini parla della Recherche de l’absolu del Balzac, come d’un romanzo sociale e naturalista, mentre tutti sanno che è una fanfaluca mezzo fantastica mezzo metafisica, e molto noiosa, che ha per protagonista un ricercatore della pietra filosofale.

  Enrico Panzacchi, Malombra, in Al Rezzo. Soliloqui artistici, Roma, Casa editrice A. Sommaruga, 1882. pp. 209-220.
  Cfr. 1881.

  Enrico Panzacchi, Cappella Sistina(1), «Cronaca Bizantina», Roma, Anno II, vol. III, n. 2, 1 luglio 1882, pp. 10-11.
  (1) Dal volume All’Ombra d’imminente pubblicazione.
  p. 10. Sì, quella voce eccezionale e quasi sorvolante agli orizzonti della vita è fatta per esprimere slanci di preghiere e rapimenti di estasi religiosa, non è fatta per disposarsi alle torbide passioni del dramma umano, né per concorrere, profanandosi, al divertimento scenico. Nella scena essa doveva perdere il suo prestigio mistico senza acquistare il vigore, la pieghevolezza e la verità del dramma, e questo forse spiega perché il vero dramma musicale moderno comincia e coincide col bando dei veri soprani dalle nostre scene melodrammatiche. E se comprendo l’ammirazione dei nostri nonni elevata al più alto grado, trovo impossibile e ridicola la passione. L’amore di Sarazine (sic) per Zambinella e la sanguinosa avventura a cui riesce, per quanto magistralmente narrati da Balzac, mi lasciano freddo ed incredulo. Meglio comprendo gli epigrammi scritti dal popolo napoletano sulla casa costrutta da Cafariello …

  Penna d’Acciaio, Goccie d’Inchiostro, «capitan Fracassa», Roma, Anno III, N. 284, 15 Ottobre 1882, p. 1.
  Non chiedete all’autore [Verga] quante volte corresse, limò, rinnovò, rifece il suo lavoro. Verga confessa che ci sono dei giorni in cui egli non è buono a scrivere qualche cosa che lo soddisfi, e questi giorni sono quelli ch’egli chiama le sue «giornate bianche».
  Giornate bianche, di cui tutti gli artisti hanno sofferto e soffrono. E mettete in prima linea il più grande romanziere della Francia: Onorato Balzac.
  Basta guardare i suoi manoscritti e le sue prove di stampa, piene di cancellature, di aggiunzioni, di sgorbi, per averne un’idea.

  Vittorio Pica, Edmondo e Giulio De Goncourt, «Fanfulla della Domenica», Roma, Anno IV, Num. 45, 5 novembre 1882, p. 4-5.
  p. 4. Edmondo e Giulio De Goncourt son fra i più ferventi e costanti sostenitori del verismo ed, insieme a Gustavo Flaubert, rappresentano gli anelli di congiunzione tra Onorato Balzac (questo, titano della moderna letteratura francese, che, sollevando il romanzo ad altezze, non mai forse raggiunte prima di lui, ne ha fatto la più importante forma letteraria del nostro secolo) ed Emilio Zola; ma essi molto più che il Balzac sono prossimi allo Zola, col quale hanno moltissimi punti di contatto e del quale sono, nell’evoluzione dell’arte verso il naturalismo, i predecessori immediati. […].
  Questi due drammi [Henriette Maréchale; La Patrie en danger] sono preceduti da una curiosa prefazione di Edmondo de Goncourt, nella quale egli si dichiara di non essere verista nel teatro, e di essere quindi su questo punto in completo disaccordo con lo Zola ed i suoi fidi seguaci, essendo convinto che il Naturalismo nel teatro è assurdo, e perché sulla scena sono impossibili dei profondi ed intimi studi di costume e perché la natura stessa del teatro è essenzialmente convenzionale, in modo che su di esso l’avarizia buffa dell’Avare di Molière arriva al punto giusto di ottica, mentre l’avarizia umana di un Grandet, questa avarizia così bellamente studiata, non vi farebbe certo l’effetto dell’altra.

  G. L. Piccardi, Scienze, Lettere ed Arti. Rassegna drammatica. Teatro Valle. Drammatica Compagnia Marini. – “Marascò”, commedia in cinque atti, in prosa, del signor Achille Ugo Del Giudice, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», Roma, Anno 1882, Num. 43, 20 Febbraio, pp. 777-779.

  p. 778. – Marascò non è certo un modello di perfezione; non è né un Vincenzo De Paoli, né un Luigi Gonzaga; ma che cosa avverrebbe, domando io, dell’arte rappresentativa se essa non dovesse ritrarre che dei modelli di perfezione? Chi ha mai rimproverato a Balzac di averci dato Grandet, Smollet, Hulow (sic), queste tre grandi mostruosità umane, che sono anco le sue tre più grandi creazioni? […] Del resto, l’avventuriero è un prodotto di tutti i tempi e di tutte le società. […]. La Francia di Luigi Filippo ha i Maxime de Trailles e i Martignac (sic). La commedia umana di Balzac è piena di avventurieri, e fra i tanti personaggi a cui la fantasia del gran romanziere ha dato vita, quello di Massimo di Trailles è così ben organizzato che, trasferito in più moderni ambienti, potrebbe ancora fornire largo materiale al romanzo ed alla commedia.

  G. L. Piccardi, Scienze, Lettere ed Arti. Rassegna drammatica. Ancora a proposito dei primi tre volumi di una “Storia universale della letteratura” del prof. Angelo De Gubernatis – Vol. I. “Storia del teatro drammatico” – Vol. II e III. “Florilegio drammatico” (Milano, Enrico Hoepli, 1883). Poscritto: La Compagnia Monti al teatro Valle, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», Roma, Anno 1882, Num. 260, 7 Novembre, pp. 4833-4835.

  pp. 4833-4834. Per ciò che riguarda la storia del teatro francese, il professore De Gubernatis si è limitato per la più spiccia a darci un compendio di notiziario. […] egli arriva a questa conclusione: “Per tacere dunque delle commedie isolate dello stesso Musset e dei suoi proverbi, di Federigo Soulié, di Onorato Balzac, ecc., ecc. […], dobbiamo ora considerare come veri signori della scena contemporanea francese, Alessandro Dumas, figlio, Emilio Augier, Vittoriano Sardou […]”.
  Corneille, Molière, Racine, Victor-Hugo, Alessandro Dumas padre, Scribe, De Musset, De Vigny, Giorgio Sand, Balzac, per quanto abbiano scritto i loro drammi e le loro commedie in francese, tuttavia non sono bastati a creare il vero teatro nazionale: […] sappiamo da lui [De Gubernatis] che l’Augier, idealista elegante e fantastico quando scrive in versi, diventa un flagellatore inesorabile e giusto di vizi sociali e quasi realista quando scrive in prosa. […]. Ad ogni modo se s’ha da ritenere che il flagellare inesorabilmente i vizi sociali e l’essere realista – o quasi – basti ad un autore drammatico per entrare fra i campioni del teatro nazionale, il Balzac che ha scritto il Mercadet, il Feuillet che ha scritto il Montjoie, il Barrère che ha dato alle scene I falsi galantuomini vi hanno per lo meno altrettanto diritto quanto l’Augier.

  Pifagna [Ugo Fleres], La Signora De Balzac, «capitan Fracassa», Roma, Anno III, N. 103, 15 Aprile 1882, p. 2.

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  La vedova del grande romanziere francese è morta lunedì. Il telegrafo già ce lo ha fatto sapere; ma vi è qualche particolarità che merita di essere notata.
  Tutti sanno che Balzac fu il secondo marito della contessa polacca. Rzewuska sposata in prime nozze al conte Hanska (sic). Prima di essere la moglie dell’illustre scrittore, n’era stata gran tempo l’amante. Balzac n’era entusiasta: non trovava donna che le potesse stare al paragone, salvo la figlia, oggi contessa Mniszech.
  Ella è il diamante della Polonia – scriveva a sua sorella; - è il gioiello di questa antica e illustre famiglia Rzevuski.
  Da oltre un anno, la signora era inchiodata a letto da una dolorosa malattia. La scorsa settimana, i medici disperarono. La sorella e il cognato andavano a vederla; e l’inferma, che era in pieno possesso delle sue facoltà, parlava a loro degli affari di famiglia e di ciò che dovevano fare alla sua morte.
  Non voleva però che si risapesse la gravità del suo stato: aveva paura delle indiscrezioni dei giornali, e agli amici che si recavano a prendere notizie di lei, i servi le davano sempre buone, aggiungendo che una leggiera indisposizione impediva alla signora di riceverli … Ma era cosa da nulla, un malessere passeggiero.
  L’annuncio della morte è giunto quindi inaspettato a tutti: e anche quando la nuova se ne sparse, i domestici, obbedendo all’ultima volontà della padrona, si schernivano dalle inchieste delle persone che chiedevano ragguagli.
***
  La vedova di Balzac è morta nella stessa casa dove finì i suoi giorni l’autore della Comédie humaine. È stato descritto già troppe volte questo edifizio tarlato e rovinato dal tempo, perché sia necessario ripetere ciò che se ne sa. Ma per la vecchia signora, e specialmente il gabinetto del marito, erano un prezioso santuario. Non voleva che fossero toccate le suppellettili e le antichità, conservate gelosamente nello stesso ordine nel quale lo aveva lasciato il marito. Prima di ammalarsi, curava ella stessa la nettezza del gabinetto, che rimase preda della polvere quando ella infermò, perché non aveva voluto permettere a nessuno di mettere le mani su quei tavolini, su quegli scaffali venerati.
  Pochi giorni prima di morire, la vedova, disobbedendo al severo divieto del medico, si era fatta condurre in mezzo a quegli adorati ricordi. Chiese di essere lasciata sola per qualche tempo. Quando i domestici si recarono a riprenderla, la trovarono col capo chino e con gli occhi fissi in quella contemplazione.
  – È l’ultima volta! – disse e non aggiunse altro.
***
  La casa di Balzac è stata comprata dalla signora de Rothschild, per ingrandire la sua proprietà contigua e in breve crollerà sotto il piccone dei demolitori.

  Carlo Giuseppe Roberti, Dante Alighieri. Discorso di Carlo Giuseppe Roberti, «Atti della Accademia Dante Alighieri in Catania», Catania, coi tipi C. Galàtola, Anno I e II, 1882, pp. 46-59.
  p. 46. Egli è vezzo d’una gran parte di nostra gioventù il dedicarsi a frivoli (sic) occupazioni, trarre i giorni nell’ozio, nella infingardaggine, anziché consacrare alcun tempo allo studio delle scienze. Per molti nemici giurati di ogni bella lettura, è supremo vanto aver letto il Balzac, il Casti ed altri, cui scopo precipuo si è la rovina del cuore, l’abbiettezza dello spirito, la rinnegazione di ogni eletto pensare. E mentre sarebbe per loro un’onta il non conoscere tutte le foggie; in cui madama moda riveste i suoi più stretti seguaci, non si vergognano di avere lo intelletto piccino piccino, come quello che per lungo disuso va perdendo i doni fornitigli dalla Provvidenza.

  G. Robustelli, Scienze, Lettere ed Arti. Bibliografia. “Il conte Lucio”, romanzo di G. Marcotti (Milano, Treves, 1882). “Il signor Io”, racconto di La Farina (Torino, Roux e Favale, 1882). “Fra le corde d’un contrabasso”, racconto di Salvatore Farina (Milano, A. Brigola, 1882). “Un consulto medico”, di G. Faldella (Torino, Roux e Favale, 1882). “Fra i monti”, di G. Bianchi (Milano, Dumolard, 1882), «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», Anno 1882, Num. 262, 9 Novembre, pp. 4866-4867.

  p. 4867. Al Farina, costituito oramai in solida e meritata rinomanza, non può spiacere si dica che a torto da taluni si vorrebbe paragonarlo a Dickens. Né darebbe giudizio meno risibile chi, leggendo l’Oro nascosto del Farina, che l’intitola: “Scene della vita borghese”, argomentasse di poter stabilire molti punti di contatto fra il nostro autore e chi scrisse il Lis (sic) dans la vallée, la Seraphita (sic), il Louis Lambert, l’Eugénie Grandet, il Médecin de campagne. Si lasci al Dickens la potente nazionalità e genialità arguta, il filosofico riso profondo, la scienza ed esperienza degli affetti del mondo, del cuore umano, delle sofferenze popolari, dei vizi del suo paese natale. Si lasci al Balzac la descrizione viva e vera della vita borghese, il merito d’un’osservazione cittadinesca, fiamminga, particolareggiata, mirabilmente minuziosa, piacente anche quando è eccessiva, piccante anche laddove fan capolino il misticismo e la metafisica.
  Il Farina non perde nulla, eliminando anche questi arditi e lusinghieri paragoni.

  Giulio Salvadori, La vil prosa. Lettera a Chiquita del “Capitan Fracassa”, «Cronaca Bizantina», Roma, Anno II, vol. III, n. 4, 1 agosto 1882, pp. 29-30.
  p. 29. Di voi, gentile Chiquita, ho letto e sentito dire più volte che non avete mai scritto né vi degnate di scrivere versi. Nulla di male, fin qui. Anche Balzac, dicono, non ne scriveva, e non poteva perdonare agli amici suoi, per esempio a Gautier, la debolezza di scriverne. […].
  Badate, però, che voi prendete le mosse da un punto dove siete, probabilmente sicura. Io non ho letto i Monstres parisiens, ma conosco Catulle Mendès e la sua scuola, e ho paura che di lui sia proprio vero quello che voi dite, e per me non è vero, di tutti. […].
  Ora l’arte intesa e adoperata così (non occorre esser aquila per vederlo) abitua male la mente, e la guasta. Piuttosto che ad abbracciare e a rendere con larga schiettezza la natura e la vita, conduce ad un esercizio, non saprei se di ricamo o d’anatomia, a un lavoro d’ago inteso a sviscerar le fibre delle cose e a rilevarne qualche segreto mal noto. […].
  Per essa, non è la vita che si offre agli occhi dell’artista, la vita piena e semplice; ma certi angoli misteriosi e bui, certi ripostigli paurosi che nessuno conosce. Come volete che un artista abituato a quella scuola d’estenuazione, possa avere la facoltà di osservare larga e sicura, l’occhio serenamente abbracciatore dei grandi, del Boccaccio e di Shakespeare, di Balzac e di Goethe?

  Edoardo Scarfoglio, Novelle nuove, «Cronaca Bizantina», Roma, Anno II, vol. III, n. 5, 16 agosto 1882, pp. 33-34.
  […] e tutti i novellatori che ebbero fama in Francia dovettero alimentarsi di quell’antica polpa nutriente: cito, ad esempio, i due nomi maggiori: il Lafontaine e il Balzac. Il primo rifece in versi le migliori novelle italiane, l’altro rifece in vecchia prosa i migliori racconti francesi, che derivavano da fonte italiana. […].
  E bene, che cosa ha fatto il Verga prima dei Malavoglia?
  Quale altra cosa ha fatto se non rimpastare in quattro o cinque o sei romanzi la Signora delle Camelie? E si accorse egli che in Francia fosse esistito un Onorato di Balzac, che in Francia esistesse un Emilio Zola prima che il plauso della folla gli gittasse sotto il naso l’Assommoir? E la signorina Serao non gitta ella nelle sue novelle e ne’ suoi romanzi, senza misura e senza pietà, come uno scolaretto che ha fatto troppe e troppo mal digeste letture, il realismo nervoso del Daudet, e quello plastico e colorito del Flaubert, e quello solido e meccanico dello Zola, insieme al romanticismo convalescente del Dumas figlio e al romanticismo tisico di Ottavio Feuillet?

  Edoardo Scarfoglio, Demi-Monde, «Cronaca Bizantina», Roma, Anno II, vol. III, n. 11, 16 novembre 1882, pp. 81-82.
  p. 82. Dopo di che, io non rimetterò in campo la vecchia ed oziosa questione, se la forma drammatica prevalente oggi sia compatibile coi criteri universali ed eterni dell’arte. Non la rimetterò in campo, perché mi pare che dall’esame del Demi-monde risultino evidenti ed innegabili questi due fatti: che il Dumas non ha saputo rappresentare quella classe di persone che si proponeva di rappresentare; che il Dumas non ha saputo cogliere la nota vera ed efficace di quella parte di vita che si proponeva di rifare sul palcoscenico.
  Questi due vizi originali, che scomparsi dal romanzo col Balzac durano tuttavia nella produzione dramatica del popolo francese, sono una velenosa eredità del romanticismo e procedono da una falsa interpretazione del concetto della vita e del concetto di drama.

  Edoardo Scarfoglio, C’era una volta…(1), «Cronaca Bizantina», Roma, Anno II, vol. III, n. 13, 16 dicembre 1882, pp. 99-100.
  (1) L. Capuana, C’era una voltaFiabe, Milano, Treves, 1882.
  p. 99. Ecco: da qualche tempo l’arte sente il bisogno di tuffarsi alle fonti della vita; e dal Balzac in poi il romanzo ha deviato dalla sua antica forma narrativa per diventare un vero e pieno studio fisiologico e psicologico dell’uomo. A questa deviazione della prosa narrativa il Balzac conferì più di tutti studiando i segni esteriori e gli effetti visibili dei sentimenti interni, la Sand analizzando con una sottigliezza femminile tutte quante le crespe e gli avvolgimenti dello spirito, gli ultimi romanzieri naturalisti proseguendo certe leggi della vita appurate dalla scienza.
  Tutte queste vie menano, più o meno brevemente, alla verità; ma non alla verità assoluta: ci è sempre come una piccola nuvola vaporosa, che offusca l’evidenza della rappresentazione. Nel Balzac è lo stile troppo martoriato e qua e là gonfio o colorito soverchiamente o contorto; nella Sand è la tabe sentimentale che s’appiglia e corrode l’analisi più sottile; nello Zola è il rigore della tesi scientifica e il calore eccessivo dello stile. Manca a tutti quella serenità plastica e semplice della concezione e dello stile, che il Flaubert ebbe per un momento in Madame Bovary, e che tutta quanta la letteratura popolare possiede naturalmente.

  Matilde Serao, Cuore infermo. Racconto. Seconda edizione, Torino, F. Casanova, Libraio-Editore, 1882.
  p. 20. Cfr. 1880.  

  Matilde Serao, La Femme de Claude, «capitan Fracassa», Roma, Anno III, N. 291, 22 Ottobre 1882, pp. 1-2.
  I libri morali si fanno per le persone corrotte: un pubblico depravato e volgare ha bisogno di assistere al trionfo della virtù e dell’eroismo; le orecchie corrotte sono sempre caste; le anime piccole sentono l’inclinazione ad applaudire l’assurdità che pare sublime. Fra Ruy-Blas che è un’incoerenza quasi puerile, e il Mercadet di Balzac, il primo entusiasma una platea di droghieri e il secondo la indigna.

  Pietro Siciliani, Della psicogenia moderna in servigio degli studi biologici, storici e sociali. Terza edizione ampliata con ritratto dell’autore e prefazione di Jules Soury, Bologna, Nicola Zanichelli, 1882.

  p. 214, nota 1. Nella prefazione alla Commedia umana il Balzac an­nunzia il disegno di scrivere la storia naturale delluomo. Ved. il Taine ne' suoi Nouveaux essai de Critique et d'Hist., 2a ed., 1866.


  Paolo Spada, Manoscritti bruciati, «capitan Fracassa», Roma, Anno III, N. 174, 25 Giugno 1882, pp. 1-2.


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  La cosa è andata così. Tempo fa i giornali hanno annunziata la vendita del castello di Beauregard, di Balzac, coi mobili e libri; poco dopo la vedova di Balzac, dell’uomo che ella aveva teneramente amato, la signora de Hanska, moriva a Parigi nel suo palazzo della via Beaujon.
  Dopo la morte del romanziere, la vedova era vissuta in un grande isolamento, con sua figlia, la signora di Mnisek, in quel vecchio palazzo dove Balzac aveva accumulato gli oggetti d’arte, i mobili scolpiti, le porcellane, una ricchezza.
  La signora di Mnisek pare avesse ereditato dal suo padrigno questa rovinosa passione per la collezione, che egli ha descritto così vivamente nel Cousin Pons, poiché, comprando, vendendo, cambiando, barattando, facendo una quantità di compre stravaganti e di vendite infelici, era giunta a rimetterci tutta la sua fortuna e a caricarsi di debiti fortissimi. I creditori, che la opprimevano con la carta bollata, i sequestri, le minaccie dell’asta pubblica, le accordarono una piccola dilazione durante la malattia della vedova di Balzac: e la povera madre potette morire in pace, fra le cose che suo marito aveva amato, quattro giorni prima che la dilazione spirasse. Ma al termine, una turba di creditori ha invasa la casa e ha portato via tutto, facendo un inventario ridicolo, derisorio, apprezzando a un valore miserabile quanto era costato somme grandi. Cinque casse chiuse furono sfondate, credendo contenessero oggetti di valore: erano carte. Due furono portate via: le altre tre vuotate sul pavimento. Appena usciti gli uscieri, una folla di sfaccendati entrò nei saloni e non potendo prendere altro, prese via molte carte, a titolo di curiosità.
  Poi la signora di Mnisek diede ordine ai domestici che si bruciasse il resto.
***
  Ora gli appassionati di letteratura, di collezioni, di autografi sono arrivati a ricuperare qualche cosa dai due cassoni sequestrati, a ricuperare qualche altro scartafaccio – con pagamento in denaro – da coloro che li avevano portati dal salone. Ma è pochissimo di fronte all’immensa quantità di manoscritti abbruciati o dispersi. E dapertutto è un grande lamentìo, un piagnisteo su questo rogo maledetto, un furore represso contro questo vandalismo. Mi aspetto di leggere un grande articolo di Emilio Zola, sul sacrilegio con cui è stata insultata la memoria del Messia moderno.
  Ebbene, sia permesso a un ignoto qualunque, di questa oscura classe di romanzieri inediti, di esprimere la sua profonda ammirazione per Balzac e per conseguenza la sua grande soddisfazione per questa distruzione di manoscritti. Questo rogo acceso in un appartamento deserto, donde sono usciti gli uscieri, questo annullamento della vita privata di Balzac, questa strage ha qualche cosa di poetico e di felice. Di là, forse si sente qualche cosa di questo mondo rabbioso dove viviamo: e forse Balzac sorride nella larga faccia che lo faceva rassomigliare a un imperatore romano.
  Tutti i piccini, i mediocri, i satelliti di qui piangono, le loro lagrime ipocrite, deplorando la fine di una esistenza. Sembra quasi che Balzac sia morto per la seconda volta.
***
  Invece, trova che vi sia motivo di conforto per questa casa di Torquemada.
  Bruciato l’epistolario: tanto meglio, poiché nessuno ci crede più agli epistolari che si pubblicano – è già stato detto in questo giornale.
  Vi erano in queste lettere apprezzamenti vivacissimi sugli uomini e sui libri e sui fatti? Tanto meglio dunque, se il fuoco ha divorato tutto questo. Queste lettere non potevano essere né buone, né piacevoli.
  Balzac medesimo non poteva essere buono. Niuna esistenza di grande scrittore è stata più amareggiata dagli uomini e dalle cose, come la sua. Niuna esistenza fu più abbeverata di fiele dalla critica, tormentata dagli inaccessibili ideali artistici, riarsa dalla sete di danaro, sospinta dal debito, irritata dalla indifferenza del pubblico, combattente con sé stessa e con gli altri.
  Quel robusto uomo, dal viso congestionato, dal collo taurino, dal ventre che gonfiava il panciotto bianco, dalla parola clamorosa e precipitosa, che affogava di sangue, di progetti e d’idee, che si proclamava un grande romanziere da sé, poiché nessuno voleva dirlo, era in fondo un essere infelice.
  Guai se la sua fantasia, lasciandolo nell’esagerazione del sogno, non gli avesse creata una vita fittizia! La vita d’ogni giorno doveva essere troppo dura, troppo febbrile perché le sue lettere non risentano di questa influenza.
  I suoi giudizi su letterati e critici? Ahimè! lasciamo che il vento disperda queste ceneri di lettere dove era certamente deposto il segreto della più grande ingiustizia del secolo. Balzac fu destinato a non essere capito dai suoi colleghi e contemporanei.
  Sainte-Beuve, il critico biografo, ha disprezzato Balzac il quale gli ha reso il ricambio; Jules Janin, il temuto principe della critica, ha parlato dei libri di Balzac volgarmente, come un criticuzzo di provincia, e Balzac l’odiava per questo disprezzo inflitto all’opera propria; Vittor Hugo ha sempre avuto un segreto disdegno per lo stile di Balzac, che egli chiamava pesante, indigesto, e invano il povero romanziere a cui questo eterno paragone veniva sempre inflitto, ha cercato la preziosità di stile nel Lys dan (sic) la vallée, invano; il paragone con Hugo lo ha contristato per tutta la sua vita. Gavarni, il grande artista non ha capito Balzac – e Balzac non ha capito Gavarni; tutto il giornalismo del tempo si è creduto offeso nelle figure di Rubempré e di Lousteau del romanziere e lo ha violentemente attaccato: lui ha reso il contraccambio. E dopo questo, il fuoco ha fatto un’opera buona, abbruciando questi risentimenti e queste collere, purificando questi pettegolezzi e queste antipatie letterarie.
***
  Le prime bozze dei romanzi, i piani delle opere, la ricostruzione del metodo con cui Balzac componeva? Tutte queste curiosità letterarie hanno le conseguenze più melanconiche. È triste senza dubbio vedere quanta fatica ha costato al cervello creatore quella creazione; come nacque informe l’idea; come nacque affogata dal convenzionalismo e dalla rettorica; con quanta pena ha dovuto raggiungere la sua efficacia artistica. Sono disillusioni gravi. Leggete una poesia di Giusti e provate il più vivo senso di diletto a quella scioltezza elegante, a quella fluidità semplice: ma non cercate mai una bozza di Giusti, dove è una tortura di cassature, di ripetizioni, di sforzi, di ostinazioni, qualche cosa che vi stringe il cuore. E poi, per gli sciocchi, per i mediocri, questo metodo arduo di costruzione è una speranza, è un conforto, è uno sprone, per la continuazione delle loro sciocchezze.
  Dicono essi: io limo come Manzoni limava – io fo le figurine che Byron disegnava – io veggo il fantasma dell’idea, come Giorgio Sand lo vedeva – io raccolgo i documenti umani come Emilio Zola – io scrivo la novella come Poe ha scritto il suo Corvo. E seguitano a contristare l’umanità, persuasi di essere simili a Shakespeare perché scrivono sulle ginocchia e di rassomigliare a Dumas padre perché usano la carta azzurra rigata.
***
  I manoscritti inediti? Un’altra grande illusione anche quella. Da che esiste una letteratura, i manoscritti inediti e postdatati hanno avuto sempre un mediocrissimo valore e un mediocrissimo successo. […]. Perché? non si sa. Forse perché l’opera non era destinata a essere pubblicata, forse perché era un tentativo incompleto, forse perché l’autore è morto. Ma per esempi più recenti qualche lirica ritrovata di Manzoni, qualche lirica ritrovata di Leopardi, il romanzo Bouvard et Pécuchet di Flaubert, il Duca d’Alba di Donizetti, certe favole di Lafontaine hanno avuto tutte la stessa sorte: disattenzione, silenzio rispettoso o critica oltraggiosa. Sull’autenticità, per quanto garantita, tutti dubitano. E del loro merito si parla poco o si parla male. A che dunque cercare se il fuoco ha distrutto di Balzac Soeur Marie des Anges e les héritiers de Boirouge? Se son bruciati, bene sta. Egli ha scritto La Commedia umana. E gli basta.

  N. Taccone-Gallucci, Ideale e Verismo (Continuazione e fine), «La Rassegna Italiana. Periodico mensile», Roma, dalla Tipografia della Pace, Anno II, Vol. I, 1882, pp. 535-551.

 

  p. 538. Il dono della ragione e della libertà simbolo di divina origine divenne sorgente del male. Tutti i delitti possibili si accumularono sul suo capo e l’essere intrinsecamente maligno fu preso a tipo dell’umanità. La donna idolatrata da tutti i poeti e da tutti gli artisti come il più bel fiore della vita e l’angiolo delle gioie e delle consolazioni fu assimilata all’armento, condannata ad essere sedotta o seduttrice, traviata o prostituta. In tal maniera l’arte creava i tipi scettici di Faust, i tipi maligni del Mefistofile, i tipi suicidi del Werter, e del Iacopo Ortis, i tipi degradati e degradanti del Don Juan, la lirica sconfortante del Leopardi, i romanzi immorali e corruttori del Sue e del Balzac, le invettive demagogiche di Victor Ugo (sic) e di Guerrazzi.


  Felice Tribolati, Pietro Giordani, «Fanfulla della Domenica», Roma, Anno IV, Num. 53, 31 dicembre 1882, p. 4.
  Non siamo pedanti noi, benché suoi devoti, perché gustiamo e liberamente lodiamo le imitazioni stilistiche dall’antico del romanziere Balzac, nei suoi Contes drolatiques. Ma il Giordani non ridusse all’italiano antico i vestiti, i colori, le passioni degli Straccioni lucchesi del Beverini, non che l’Alicarnasso del Mai, gareggiando collo storico greco come il Davanzati collo storico latino?


  A. Vespucci, Conversazioni in famiglia, «Giornale delle donne», Torino, Anno XIV, N. 24, 19 Dicembre 1882, pp. 571-572.

 

  p. 572. Signora Loc ... Amalia, Roma. — Mi spiace che la tirannia dello spazio mi vieti di pubblicar intera la lettera che ella mi inviò sul compianto Duca di Sermoneta, una delle più spiccato figure del patriziato romano. Ne tolgo il brano che contiene la più bella prova dell’ingegno del nobile Duca, voglio dire la lettera con cui Balzac gli accompagnò la dedica di un suo lavoro:

  «Allievo del De Rossi, celebre commediografo e letterato e di Emilio Sarti, profondamente dotto nelle letterature greca e latina, il Caetani rivolse sino da giovane l’acuto suo ingegno agli studi letterarii, in cui maggiormente ebbe poi a distinguerai. Dante fu il più forte e costante amore della sua vita; e pochi quanto lui penetrarono il vasto concepimento dell’Alighieri.

  «Ed a questo proposito Onorato di Balzac, principe dei romanzieri moderni, così scriveva al Caetani, allora principe di Teano, dedicandogli Les parents pauvres:

  «Non è al principe romano, nè all’erede dell’illustre casa dei Caetani che diede dei papi alla cristianità, è al sapiente commentatore di Dante che io dedico questo frammento di una lunga storia.

  «Voi mi avete fatto scorgere la meravigliosa ossatura di idee sulla quale il più grande poeta italiano costruì il suo poema, il solo che i moderni possano opporre a quelle di Omero. Sino a quando io vi ebbi inteso, la Divina Commedia mi sembrava un immenso enigma, di cui la spiegazione non era stata mai trovata da alcuno, e meno che da tutti, dai commentatori. Comprendere come voi Dante, è essere grande come lui, tutte le grandezze vi sono famigliari.

  «Un erudito francese si farebbe una riputazione, avrebbe una cattedra e molte croci pubblicando in un volume dogmatico l’improvvisazione con cui voi avete dato un’incantevole attraenza ad una di quelle serate in cui ci ai riposa dall’aver vista Roma ... Io avrei potuto, derubandovi, diventare un uomo dotto della forza di tre Schlegel».

  E la dedica si chiude:

  «Che il vostro spirito, signore, e la poesia che è in voi proteggano i due episodi dei Parenti poveri».

  Questa lettera ch’ella ha voluto gentilmente trascrivermi val meglio di una lunga biografia — ed ella mi potrà facilmente perdonare di non aver pubblicato integralmente il suo lavoro.


  Z., Novelle dei nostri teatri, «Cosmorama Pittorico. Giornale Letterario, Artistico, Teatrale Illustrato», Milano, Anno XLVII, N. 20 e 21, 17 Maggio 1882, p. 1.

  La medesima fortuna non arrise al Mercadet di Balzac, risuscitato jersera con poco accorgimento, poiché è lavoro di soverchio invecchiato ed oggimai impossibile per la scena. Vero è che, all’infuori di Emmanuel (sic), la recitazione fu un vero strazio.


  Luigi Zini, Giugno 1858, in Scritti letterari editi ed inediti … cit., pp. 260-280.
  [Su: La moneta parlante, scene sociali del Dott. Antonio Mangini, Livorno, 1858, Tip. F. Vigo].
  pp. 264-267. Cfr. 1858.


   [1] Le oltre novanta Biblioteche italiane in cui questa pubblicazione è presente fanno di questa edizione una delle più diffuse, se non la più diffusa, tra le opere di Balzac su tutto il territorio della nostra Penisola. Un prospetto analitico della presenza di questa traduzione nelle Biblioteche d’Italia è presente in Marco Stupazzoni, Balzac nelle biblioteche italiane: le traduzioni dell’Ottocento (1830-1899), in AA.VV., Riflessi europei sull’Italia romantica, a cura di Annarosa Poli e Emauele Kanceff, Moncalieri, C.I.R.V.I., 2000, pp. 651-654.
   [2] Il compilatore fa riferimento al curioso pamphlet anti-balzachiano redatto da Antonio Lissoni in Difesa dell’onore dell’armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac nelle sue Scene della vita parigina e confutazione di molti errori della storia militare della guerra di Spagna fatta dagli Italiani, Milano, dalla Tipografia Pogliani; dalla Tipografia e Libreria di Felice Rusconi, 1837.


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  [3] Questa reminiscenza del Bersezio relativa al proprio apprendistato letterario potrebbe risalire al 1848: cfr. R. de Cesare, La prima fortuna di Balzac … cit., Vol. II, pp. 1038-1039.
   [4] La prima redazione di queste note sull’incontro fra Balzac e Manzoni, avvenuto a Milano il giorno 1 marzo 1837, risalirebbe, secondo Raffaele de Cesare, ad un testo del marzo (?) 1837, in cui il Cantù trascrive quasi di getto le sue impressioni recentissime provocate da quell’incontro (cfr. Cesare Cantù, <Note>, Milano, 1 marzo (?) 1837, in R. de Cesare, La prima fortuna di Balzac … cit., Vol. I, pp. 318-319).

Marco Stupazzoni

1 commento:

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