giovedì 7 gennaio 2021



1994

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, L’elixir de longue vie suivi de Le Requisitionnaire, Milano, La Spiga-Meravigli, 1994 («Améliore ton français»), pp. 80.

 

 

 

 

Edizioni bilingue.

 

 

  Honoré de Balzac, Adieu/Addio. Traduzione di Renato Mucci. Introduzione di Eileen Romano, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (marzo) 1994 («Oscar Paralleli/Parallèles»), pp. 125 (con audiocassetta).

 

  Struttura dell’opera:

 

  Eileen Romano, Introduzione pp. 5-15. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Adieu/Addio, pp. 16-125.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, L’Albergo rosso. Traduzione di Daria Pozzi, Roma, «l’Unità»-Theoria, 1994 («I libri dell’«Unità». Illusioni e fantasmi», 3), pp. 75; supplemento al n. 169 de «l’Unità» del 20 luglio 1994.

 

  Cfr. 1984.

 

 

  Honoré de Balzac, Béatrix. Traduzione di Silvia Tagliaferri, Firenze, Ponte alle Grazie, (luglio) 1994 («Letture»), pp. 278.

 

 

  Honoré de Balzac, La borsa, a cura di Valeria Gianolio, Genova, Il Melangolo, (gennaio)  1994 («nugae», 47), pp. 89.


  Struttura dell’opera:

 

  Valeria Gianolio, Introduzione, pp. 7-17. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La borsa, pp. 19-89.

 

 

  Honoré de Balzac, Casa di scapolo. Traduzione dal francese di Maria Grazia Bottai. Introduzione di Alberto Castoldi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, (aprile) 1994 («I Classici della BUR», 976), pp. 338.


  Struttura dell’opera:


  Alberto Castoldi, Introduzione, pp. 1-11. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Casa di scapolo [La Rabouilleuse], pp. 12-335.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert e Un episodio ai tempi del Terrore. Traduzione di Irma Zorzi. Introduzione di Paolo Tortonese, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1994 («BUR Superclassici», 122), pp. 128.

 

  Per quel che riguarda le traduzioni, cfr. 1959.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Prefazione di Paul Morand. Traduzione di Luisa Coeta, Milano, Rosellina Archinto, (settembre) 1994 («Romanzi»), pp. XV-105.


  Struttura dell’opera:

 

  Paul Morand, Prefazione, pp. V-XV. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Il colonnello Chabert, pp. 1-104.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. A cura di Roberto Bonchio. Edizione integrale, Roma, Newton Compton Editori, (ottobre) 1994 («Tascabili Economici Newton 100 pagine 1000 lire», 198), pp. 95.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Roberto Bonchio, Prefazione, pp. 7-19. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Nota biobibliografica, pp. 20-24;

  Il colonnello Chabert, pp. 25-94.

 

  Come dichiara il curatore nella sua prefazione al testo di Balzac, la «presente edizione ha ripreso la suddivisione in tre parti e segue il testo delle Oeuvres complètes pubblicato da Michel et Calmann-Lévy dal 1869 al 1876».

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Trad. di Irma Zorzi, Firenze, Passigli, 1994 («Biblioteca del viaggiatore», 63), pp. 104.

 

  Per la traduzione, cfr. 1959.

 

 

  Honoré de Balzac, La Commedia umana. Scelta a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzioni di Giuseppe Guglielmi, Giancarlo Buzzi, Clara Lusignoli, Claude Fusco Karmann, Attilio Bertolucci; note a cura di Claudia Moro. Volume primo, tomi I e II, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, (ottobre) 1994 («I Meridiani»), pp. 1826.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. IX-L. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Pierfranco Minsenti, Cronologia, pp. LI-XCIV;

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Nota al testo, pp. XCV-XCVIII;

  La falsa amante (dalle Scene della vita privata). Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzione di Giuseppe Guglielmi, pp. 3-71;

  Béatrix (dalle Scene della vita privata). Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzione di Giancarlo Buzzi, pp. 73-438;

  Papà Goriot (dalle Scene della vita privata). Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzione di Giancarlo Buzzi, pp. 439-730;

  Eugénie Grandet (dalle Scene della vita di provincia). Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzione di Giancarlo Buzzi, pp. 731-936;

  La musa del dipartimento (dalle Scene della vita di provincia). Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzione di Giancarlo Buzzi, pp. 937-1145;

  I Tredici (dalle Scene della vita parigina). Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini (pp. 1149-1173). Prefazione, pp. 1177-1183. I. Ferragus, capo dei «Dévorants». Traduzione di Clara Lusignoli, pp. 1185-1315; Postfazione, p. 1316;

  II. La duchessa di Langeais. Traduzione di Claude Fusco Karmann, pp. 1317-1473;

  III. La ragazza dagli occhi d’oro. Traduzione di Attilio Bertolucci, pp. 1475-1553;

  I segreti della principessa di Cadignan (dalle Scene della vita parigina). Introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini. Traduzione di Giuseppe Guglielmi, pp. 1555-1628;

  Claudia Moro (a cura di), Note, pp. 1629-1821.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Francesco De Simone, Milano, Garzanti Editore, 1994 («I grandi libri», 3), pp. XXI-438.

 

  Cfr. 1983; 1988.

 

 

  Honoré de Balzac, La donna di trent’anni. Traduzione di Gianna Tornabuoni, Novara-Milano, Mondadori-De Agostini, 1994 («Gli indimenticabili». Grandi Romanzi d’Amore), pp. 227.


  Per la traduzione, cfr. 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, L’elisir di lunga vita. A cura di Paola Fontana, Latina, L’Argonauta, 1994 («Collana di letteratura», 17), pp. 83.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet nella traduzione di Grazia Deledda. Introduzione di Riccardo Reim. Edizione integrale, Roma, Newton Compton Editori, (dicembre) 1994 («Biblioteca Economica Newton. Classici», 21), pp. 160.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Riccardo Reim, Introduzione, pp. 7-10. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Nota biobibliografica, pp. 11-18;

  Eugénie Grandet, pp. 19-159.

 

  Per la traduzione, cfr. 1930 e successive riedizioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Garzanti Editore, 1994 («I grandi libri», 25), pp. LXI-175.

 

  Cfr. 1984 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Il medico di campagna. Introduzione di Ferdinando Camon. Traduzione di Andrea Zanzotto, Milano, Garzanti Editore, 1994, nuova edizione («I grandi libri», 354), pp. XXII-229.

 

  Cfr. 1977 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, La messa dell’ateo, in Guy de Maupassant, Honoré de Balzac, Viaggiatori, medici e pazienti a fin de siècle, Vigevano, Diakronia, 1994, pp. 27-47.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli. Introduzione di Maurice Bardèche con una nota di Michel Butor, Milano, Oscar Mondadori, (marzo) 1994 («Oscar classici», 510), pp. XLVI-322.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Maurice Bardèche, Introduzione [da Balzac, Paris, Julliard, 1975, traduzione di Raffaele Donnarumma], pp. V-XXXI. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Cronologia della vita e delle opere principali, pp. XXXII-XXXVIII;

  Bibliografia essenziale, pp. XXXIX-XLVI;

  Papà Goriot, pp. 1-283;

  Appendice. Prefazione alla prima edizione, pp. 285-297;

  Prefazione aggiunta alla seconda edizione Werdet, pp. 298-300;

  Michel Butor, Postfazione. Balzac e la realtà [da Répertoire I, Paris Les Éditions de Minuit, 1960, traduzione di Raffaele Donnarumma], pp. 301-322. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1994 («Leggere i Classici»), pp. XVI-283.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Honoré de Balzac, pp. V-XII;

  Bibliografia, pp. XIII-XVI;

  Papà Goriot, pp. 1-283.

 

  Cfr. 1985.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Luigi Martin, Milano, Fabbri Editori, 1994 («La grande biblioteca»), pp. 295.

 

  Cfr. 1968 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti Editore, 1994 («I grandi libri», 90), pp. LXIII-245.

 

  Cfr. 1990.

 

 

  Honoré de Balzac, Pene d’amore di una gatta inglese. Peines de coeur d’une chatte anglaise. Traduzione di F. Rossi, illustrazioni di Gavarni, Milano, Felinamente & C., 1994 («Ex-libris. La Feliniana di Publigold»), pp. 48, ill.

 

 

  Honoré de Balzac, Teoria del camminare, Carnago, Sugarco, 1994 («Tasco. Letteratura»), pp. 83.

 

  Cfr. 1993.

 

 

  Honoré de Balzac, Tutto il teatro. La scuola delle famiglie. Vautrin. Le risorse di Quinola. Pamela Giraud. La matrigna. L’affarista. Introduzione di Giovanni Antonucci. Cura e traduzione di Stefano Doglio. Edizione integrale, Roma, Newton Compton Editori, (agosto) 1994 («I grandi tascabili economici», 278), pp. 457.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Giovanni Antonucci, Introduzione, pp. 7-17. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Nota biobibliografica, pp. 18-24;

  La scuola delle famiglie (L’école des ménages). Tragedia borghese in cinque atti (1839). Premessa di Stefano Doglio, pp. 25-100;

  Vautrin (Vautrin). Dramma in cinque atti (1840). Premessa di Stefano Doglio, pp. 101-172;

  Le risorse di Quinola (Les ressources de Quinola). Commedia in un prologo e cinque atti (1842). Premessa di Stefano Doglio, pp. 173-250;

  Paméla Giraud (Paméla Giraud). Commedia in cinque atti (1843). Premessa di Stefano Doglio, pp. 251-299;

  La matrigna (La marâtre). Dramma intimo in cinque atti (1848). Premessa di Stefano Doglio, pp. 301-372;

  L’affarista (Le faiseur). Commedia in cinque atti (1848). Premessa di Stefano Doglio, pp. 373-455.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Metti Balzac sotto l’albero, «l’Unità 2», Roma, 17 dicembre 1994, p. 4.

 

  Alfonso Berardinelli. Tre segnalazioni. I primi due volumi delle opere di Balzac usciti nei Meridiani Mondadori: non solo per il grande Balzac, ma per l’eccezionale apparato di introduzioni e note a cura di Mariolina Bertini e Claudia Moro.

 

  Bruno Gambarotta. Per chi ama tuffarsi nelle letture sterminate, consiglio il primo tomo in due volumi de La Commedia umana di Balzac, testé uscito nei Meridiani di Mondadori (lire 130.000) perché contiene almeno due capolavori assoluti, come Papà Goriot, Eugénie Grandet, senza contare i tre episodi della Storia dei tredici, perché le traduzioni sono le migliori di cui si disponga, perché il volume è stato curato con competenza e amore da Mariolina Bongiovanni Bertini, perché Balzac è un grande visionario.

 

  Franco Rella. A chi ha ancora il gusto della lettura come una straordinaria avventura consiglio il primo volume della Commedia umana di Balzac (in due tomi, ne “I Meridiani”, Mondadori, lire 100.000) curato con la consueta attenzione e intelligenza da Mariolina Bertini.

 

 

  Giorgio Agamben, Frenhofer e il suo doppio, in L’uomo senza contenuto, Macerata, Quodlibet, 1994, pp. 19-24.

 

  [...]. Il pittore Frenhofer, nel Capolavoro sconosciuto di Balzac, è il tipo perfetto del Terrorista. Frenhofer ha cercato per dieci anni di creare sulla sua tela qualcosa che non fosse soltanto un’opera d’arte, sia pure di genio; come Pigmalione, egli ha cancellato l’arte con l’arte per fare della sua Bagnante non un insieme di segni e di colori, ma la realtà vivente del suo pensiero e della sua immaginazione. “La mia pittura” egli dice ai suoi due visitatori “non è una pittura, è un sentimento, una passione! Nata nel mio studio deve restarvi vergine e non uscirne che coperta ... Siete davanti a una donna, e cercate un quadro. Vi è tanta profondità su questa tela, la sua arte è così vera, che non potete distinguerla dall’aria che vi circonda. Dov’è l’arte? Perduta, scomparsa!” Ma, in questa ricerca di un senso assoluto, Frenhofer è riuscito soltanto a oscurare la sua idea e a cancellare dalla tela ogni forma umana, sfigurandola in un caos di colori, di toni, di sfumature indecise, “qualcosa come una nebbia senza forma”. Davanti a questa assurda muraglia di pittura, il grido del giovane Poussin: “ma presto o tardi dovrà accorgersi che non c’è niente sulla sua tela!”, suona come un segnale d’allarme di fronte alla minaccia che il Terrore comincia a far pesare sull’arte occidentale.

  Ma osserviamo meglio il quadro di Frenhofer. Sulla tela vi sono soltanto dei colori confusamente ammassati e contenuti da una ridda di lince indecifrabili. Ogni senso si è dissolto, ogni contenuto è sparito, ad eccezione della punta di un piede che si stacca dal resto della tela “come il torso di una Venere scolpita in marmo di Paro che sorgesse fra le rovine di una città incendiata”. La ricerca di un significato assoluto ha divorato ogni significato per lasciar sopravvivere soltanto dei segni, delle forme prive di senso. Ma, allora, il capolavoro sconosciuto non è, piuttosto, il capolavoro della Retorica? È il senso che ha cancellato il segno, o è il segno che ha abolito il senso? Ed ecco il Terrorista messo a confronto col paradosso dell’errore. Per uscire dal mondo evanescente delle forme, egli non ha altro mezzo che la forma stessa; e quanto più vuole cancellarla, tanto più deve concentrarsi su di essa per renderla permeabile all’indicibile che vuole esprimere. Ma, in questo tentativo, egli finisce per trovarsi in mano soltanto dei segni che sono, sì, passati attraverso il limbo del non-senso, ma che non sono, per questo, meno estranei al senso che egli perseguiva. La fuga dalla Retorica lo ha portato al Terrore, ma il Terrore lo riconduce al suo opposto, cioè ancora alla Retorica. Così la misologia deve rovesciarsi nella filologia, e segno c senso si inseguono in un perpetuo circolo vizioso. [...].

  Che cosa e accaduto a Frenhofer? Fino a quando nessun occhio estraneo ha contemplato il suo capolavoro egli non ha dubitato un solo istante della sua riuscita; ma è bastato che per un attimo abbia guardato la tela con gli occhi dei due spettatori perché sia costretto a far sua l’opinione di Porbus e di Poussin: “Nulla! Nulla! E aver lavorato dieci anni”.

  Frenhofer si è sdoppiato. Egli è passato dal punto di vista dell’artista a quello dello spettatore, dall’interessata promesse de bonheur all’esteticità disinteressata. In questo passaggio, l’integrità della sua opera si è dissolta. Non è, infatti, soltanto Frenhofer che si è sdoppiato, bensì anche la sua opera: come in certe combinazioni di figure geometriche che, osservate a lungo, acquistano una disposizione differente, dalla quale non si può tornare alla precedente se non chiudendo gli occhi, così essa presenta alternativamente due facce, che non è possibile ricomporre in unità: la faccia rivolta verso l’artista è la realtà vivente in cui egli legge la sua promessa di felicità; ma l’altra faccia, quella rivolta verso lo spettatore, è un insieme di elementi senza vita che può soltanto specchiarsi nell’immagine che ne rimanda il giudizio estetico.

  Questo sdoppiamento tra l’arte qual è vissuta dallo spettatore e l’arte qual è vissuta dall’artista è, appunto, il Terrore, e l’opposizione fra il Terrore e la Retorica ci riconduce così all’opposizione fra artisti e spettatori da cui abbiamo preso le mosse. L’estetica non sarebbe allora semplicemente la determinazione dell’opera d’arte a partire [...] dall’apprendimento sensibile dello spettatore; ma, in essa, è presente fin dall’inizio una considerazione dell’opera d’arte come opus di un particolare e irriducibile operari, l’operari artistico. Questa dualità di principi, per cui l'opera è determinata insieme a partire dall’attività creatrice dell’artista e dall’apprendimento sensibile dello spettatore, attraversa tutta la storia dell’estetica, ed è in essa che vanno probabilmente cercati il suo centro speculativo e la sua contraddizione vitale. E siamo forse ora in grado di chiederci che cosa Nietzsche intendesse dire parlando di un’arte per artisti. Si tratta, cioè, semplicemente di uno spostamento del punto di vista tradizionale sull’arte, o non siamo, piuttosto, in presenza di un mutamento nello statuto essenziale dell’opera d’arte che potrebbe darci ragione del suo attuale destino?

 

 

  Giovanni Antonucci, Introduzione, in Honoré de Balzac, Tutto il teatro ... cit., pp. 7-17.

 

  Il teatro attraversa tutta la vita e tutta l’opera di Balzac. Dal giovanile Cromwell, scritto a vent’anni in una squallida mansarda di Parigi, a L’affarista, che egli non ebbe la fortuna di vedere in scena perché fu rappresentato un anno dopo la sua morte, Balzac coltivò, come tanti altri grandi narratori dell’Ottocento francese (basti pensare, primi fra tutti, a Stendhal e a Flaubert), l’ambizione di diventare un autore drammatico, applaudito dal pubblico e apprezzato dalla critica. Un’ambizione che non si realizzò e che si concluse in uno scacco. Quando morì, molti rimpiansero il grande narratore dei romanzi raccolti nella Comédie humaine, nessuno il drammaturgo.

  Il paradosso di Balzac è costituito dalla passione che egli dimostrò verso il palcoscenico fin da giovane e, insieme, dalla disinvoltura e perfino dall’improvvisazione, se così possiamo chiamarla, con cui scrisse le sue commedie, stese – con l’eccezione de L’affarista – di getto, in tempi incredibilmente brevi, con un atteggiamento che contrastava completamente con il rigore e la severità con cui componeva i suoi romanzi. È come se Balzac considerasse la sua attività di autore teatrale qualcosa di artigianale o comunque di secondario, che non metteva in discussione il suo talento di scrittore: circostanza contraddittoria rispetto al suo interesse per il palcoscenico. Più di un critico ha insistito sul fatto che per Balzac il teatro era un’occasione sperata di lucrare sostanziosi guadagni, che avrebbero potuto tamponare la sua sempre disastrosa condizione finanziaria, ma, se questa circostanza è indubbiamente vera, essa non basta a spiegare la sua attività drammaturgica. Un’attività che non deve essere considerata solo in rapporto alle sue sei pièces, ma anche a tutta la messe di testi giovanili e di progetti mai realizzati che sono stati pubblicati alla metà degli anni Trenta di questo secolo. Un’opera, quella teatrale, che, tuttavia, con il passare degli anni ha cominciato ad essere analizzata con maggiore attenzione e con minori pregiudizi, non per sopravvalutarla acriticamente, ma per darle il posto che merita nel teatro francese dell’Ottocento, un posto non secondario e anticipatore per alcuni versi della drammaturgia naturalista della seconda metà del secolo. Una commedia come L’affarista, ad esempio, è una stupefacente anticipazione di temi e situazioni del teatro di Henry Becque. Insomma, si tratta di rileggere il Balzac drammaturgo con occhi nuovi e spregiudicati, senza forzature e senza eccessivi paragoni con i suoi capolavori narrativi, con la consapevolezza che si tratta di un’esperienza per nulla occasionale, un’esperienza sfortunata (e forse non poteva essere diversamente nella scena del tempo) ma tutt’altro che priva di risultati.

  La vocazione teatrale di Balzac è, d’altra parte, un fenomeno che va al di là dei suoi testi strettamente teatrali, è qualcosa di intimamente connesso al suo modo di affrontare la realtà. Carlo Terron ha notato che «un’autentica drammaticità, per non dire una vera e propria teatralità, è già implicita nella visione del romanziere: nel suo stagliare i personaggi sviluppandone a oltranza il carattere fino a rasentare il tipo, per cui ogni suo ritratto è un uomo e, insieme, una passione universale, un individuo e un vizio comune, urta singola creatura umana e un’astrazione; nel suo spiccare naturalmente il dialogo dalla narrazione; nel suo collocare persone, fatti e cose in un ambiente inconfondibile, e condizionarli a un costume che fa corpo con essi medesimi, rilevandoli in una terza dimensione; nel suo racconto, insomma, che è, prima di tutto e innanzi tutto, rappresentazione». Ma questa «teatralità» che è propria di quell’affresco imponente e insieme sottilissimo che è costituito dai romanzi della Comédie humaine, si disperde o si contrae quando Balzac affronta il teatro. È come se il creatore del romanzo moderno (insieme a Stendhal) accettasse un concetto di teatro, quello di Eugène Scribe, che era lontano da quella realtà che egli aveva mirabilmente descritto nei suoi capolavori narrativi, senza, peraltro, avere la brillantezza e la prodigiosa abilità tecnica dello stesso Scribe. In questo senso ha pienamente ragione ancora Terron quando sottolinea che «Balzac si limitò ad accettare gli schemi, le prospettive e le convenzioni dell’epoca cercando di adeguarle ad un’originalità di contenuti che le respingeva a priori. Il problema critico di Balzac commediografo è tutto qui. Scribe e Labiche avevano fissato la formula meccanica perfetta, solido sostegno di un teatro dove i “ruoli” sì erano sostituiti ai personaggi, le situazioni alla realtà, l’intrigo all’umanità, la convenzione al vero e il colpo di scena all’illuminazione psicologica. È una formula che condizionerà il teatro francese per tre quarti di secolo». Balzac, insomma, non riuscì quasi mai, a differenza di ciò che aveva fatto nella narrativa, a superare i limiti e le convenzioni della drammaturgia della sua epoca, una drammaturgia caratterizzata da «una paralisi relativa della produzione drammatica. Dovrà entrare in definitiva crisi il dramma romantico e subentrare la commedia di Ponsard e di Augier (oltre che mutare l’evoluzione sociale) perché nasca una commedia nuova, più dura, più consistente, forse più pesante». Non è difficile immaginare quanto il mondo di confida morali, sociali, economia di Balzac, ricco di colori e di contrasti, fosse estraneo a un teatro così stretto nelle sue convenzioni e nei suoi tecnicismi scenici.

  Un altro elemento, che spiega le difficoltà che Balzac trovò nel suo cammino di autore teatrale, è rappresentato da quello che costituisce, invece, uno dei suoi meriti maggiori di autore della Comédie humaine: la capacità di costruire un mondo ampio e armonico di personaggi e di situazioni «dove ogni romanzo è un episodio, e ogni particolare si organizza in una visione unitaria, stabilisce raccordi e corrispondenze; e che si propone non come lo specchio della realtà – e di una realtà necessariamente frammentaria – ma come un quadro completo, e l’interpretazione storico-sociale di un’intera generazione» [Colesanti, 1974]. Nei suoi testi teatrali Balzac tende talvolta a fare lo stesso tipo di operazione, dimenticando che il teatro è sintesi. D’altra parte, quando si rende conto dell’impossibilità di fare sul palcoscenico ciò che fa nel romanzo, finisce coll’accettare – come si è già notato – gli schemi e i moduli della drammaturgia del suo tempo, anche se essi sono temperati dall’influenza di Molière che Balzac considerò sempre un punto di riferimento della sua attività di scrittore di costume e di «moralista». Egli rimase in una posizione contraddittoria, nella sua concezione teatrale, che gli impedì di essere, anche nella drammaturgia, quel rinnovatore che fu nella narrativa. Balzac aveva molto più talento di Augier, di Dumas figlio e perfino di Becque, che gli devono moltissimo e che sono per tanti versi inconcepibili senza di lui, ma non riuscì a trovare, con l’eccezione de L’affarista, la forma e la dimensione drammaturgica che gli erano necessarie. È difficile dire se ciò fu per colpa del suo approccio troppo frettoloso al palcoscenico o, più probabilmente, per un talento e una creatività stupefacenti che solo nei ritmi ampi e nelle sinfonie dei romanzi potevano esprimersi compiutamente.

  Le contraddizioni e i limiti del teatro di Balzac non devono, tuttavia, impedirci di coglierne i meriti, che sono maggiori di quanto la critica ha detto, i tesori spesso nascosti e le singolari anticipazioni di una drammaturgia più fortunata della sua. Autori della statura di Balzac, anche se il teatro non è il loro terreno più congeniale, non possono non lasciare una traccia visibile.

  I suoi sei testi teatrali senza accennare ai drammi giovanili e ai tanti progetti non realizzati che hanno un interesse quasi esclusivamente storico e biografico, si inseriscono nell’ultimo decennio della sua attività di scrittore e, quindi, nascono nella sua piena maturità, quando egli ha ormai scritto capolavori indiscussi e sta per iniziare la pubblicazione delle sue opere narrative con il titolo La Comédie humaine. È un teatro che non avrà fortuna sulle scene di Parigi, abituate in quegli anni a prodotti teatrali meglio confezionati anche se più convenzionali, ma al quale egli si dedica con una certa continuità. Le date non ammettono dubbi a questo riguardo: La scuola delle famiglie (L’école des ménages) è del 1839 (ma andrà in scena per la prima volta solo nel 1910 per merito di André Antoine); Vautrin è del 1840; Le risorse di Quinola (Les ressources de Quinola) sono rappresentate nel 1842; Paméla Giraud va in scena nel 1843; La matrigna (La marâtre) ha successo nel 1848, lo stesso anno in cui Balzac finisce di scrivere L’affarista (Le faiseur) che, accettato dalla Comédie française, non sarà più realizzato, vivo l’autore, perché egli è lontano da Parigi, in Ucraina, insieme alla donna. Eva Hanska, che sposerà l’anno successivo, cinque mesi prima di morire. Sei opere teatrali in dieci anni non sono certamente il frutto delle circostanze o della sete di denaro, che pure è una componente della sua febbrile attività creativa. La verità è che Balzac si affaccia al palcoscenico quando intuisce, da una parte, che il dramma romantico di Hugo e di Dumas padre dopo essere giunto al suo culmine (Ruy Blas è del 1838, Kean del 1836) ha iniziato la parabola discendente; dall’altra, che lo stesso Scribe, le cui commedie «sembrano voler ridimensionare o dissacrare la declamazione altisonante del dramma» [Colesanti], ha cristallizzato il suo talento drammaturgico in una forma scenica esemplare, ma anche un poco ripetitiva, oltre che convenzionale. Sono due intuizioni assai acute, ma, soprattutto la seconda, che restano a livello teorico. Così se, ad esempio, Balzac scrive con La scuola delle famiglie «una tragedia borghese» e non un dramma romantico, lo stesso non riesce a fare nelle commedie dove, nonostante le influenze della grande tradizione comica francese, il punto di riferimento resta, volente o nolente, il teatro di Scribe, non certo per i contenuti, che hanno in Balzac ben altro risentimento morale, ma per la struttura scenica e per la tecnica. Saranno quest’ultime così a sminuire la forza e l’originalità del discorso di Balzac, «l’unico dei grandi scrittori dell’epoca – come ha notato Curtius con la consueta acutezza – che non si sia mai dato anima e corpo al movimento romantico».

  La scuola delle famiglie, il testo più intriso di romanticismo nel finale, è lontano dagli schemi del teatro romantico, e non solo perché l’autore l’ha definito «tragedia borghese». Esso ha le sue radici, infatti, in quel mondo dominato dal denaro, frutto delle attività commerciali, che costituisce uno dei più potenti campi d’osservazione del narratore Balzac. La scuola delle famiglie, nonostante appunto il finale scopertamente romantico e del tutto inconsueto in Balzac, non è la storia di un amore «impossibile» e destinato a condurre alla rovina i suoi due protagonisti, ma quella, meno evidente e che pure sostiene tutto il testo, di una relazione nata in un ambiente dove l’ipocrisia e gli interessi economici finiscono per soffocare o addirittura schiacciare i sentimenti. A Balzac non interessa tanto la passione e l’amore di Gérard, proprietario di un’importante ditta di moda, per la giovane e bella Adrienne, premiata da commessa a direttrice della ditta («una seconda padrona», come sostiene il cassiere), quanto l’atmosfera in cui si svolge una relazione destinata a condurre i due protagonisti alla rovina e addirittura alla loro interdizione. L’atmosfera è quella di una Parigi dove il denaro e gli interessi materiali hanno la meglio su tutto e dove l’amore non può sopravvivere in una società in cui esso è prigioniero delle convenzioni sociali e di un moralismo profondamente immorale. Balzac era partito, in questa «tragedia borghese», dalla letteratura classica e in particolare da Molière, come dimostra anche il titolo che, secondo Curtius si rifà a L’école des femmes e a L’école des maris, da quel Molière che ha avuto un’influenza notevole sull’opera di Balzac e che appare in una breve notizia biografica (contenuta in un’edizione di Molière stampata dallo stesso Balzac nel 1826) come «il sublime legislatore che avrebbe potuto portare la società a una perfezione ideale se fosse possibile correggere gli uomini con la rappresentazione dei loro vizi». Balzac voleva rappresentare la storia di un «Tartufo in gonnella», ma Eva Hanska lo convinse a non farlo in maniera diretta. Secondo il curatore [Gianni Nicoletti, 1961] della prima edizione italiana di Tutto il teatro di Balzac, questo intervento della Hanska avrebbe finito col trasformare «un dramma dell’ipocrisia in un dramma dell’umore». In realtà non è così, come abbiamo già visto, ma il testo soffre di una qualche ambiguità, quasi che Balzac non fosse riuscito a mettere a fuoco il tema che gli stava più a cuore. Eppure, anche con questo limite, si tratta di un’opera coinvolgente, dura, amara, che i nostri teatranti, che si dichiarano perennemente alla ricerca di testi, potrebbero realizzare. Un’opera – occorre aggiungere – che piacque a scrittori di gusti per nulla facili come Stendhal, Gautier e Nerval.

  Vautrin, secondo dramma di Balzac, arrivò al palcoscenico ma cadde la sera del 14 marzo 1840 al Teatro della Porte-Saint-Martin, nonostante fosse recitato dal più applaudito attore dell’epoca; Frédérick Lemaître. Fu, poi, quest’ultimo, presentandosi in una scena con una parrucca che lo faceva rassomigliare al re Luigi Filippo, a far scattare il divieto dello spettacolo per le repliche. Vautrin è, forse, il testo più improvvisato di Balzac, se dobbiamo dar credito a Théophile Gautier che ha parlato di una stesura collettiva, fatta dall’autore, con la collaborazione dello stesso Gautier, di Aurliac, di Laurent-Jean e di De Belloy, nello spazio di una notte e di un giorno. Il racconto di Gautier è da prendere con molta cautela, ma Vautrin dà, in più di un momento, l’impressione di essere stato concepito senza un progetto preciso, in un fervore creativo che mirava più a concludere il testo che a approfondirne i contenuti, i personaggi e le situazioni. C’è, a rileggerlo oggi, un senso di sciattezza e di scarso rigore scenico che non si trova negli altri testi teatrali. Eppure, nonostante ciò, è tutto fuorché, come ha scritto recentemente uno studioso italiano di Balzac [Francesco Fiorentino], «un melodramma noioso, senza alcun ritmo ed efficacia». In realtà, questo dramma ricco di temi e motivi da feuilleton, pieno di colpi di scena, di figli persi e ritrovati, di vendette private, di amori impossibili, vive esclusivamente sul personaggio di Vautrin e sul suo rapporto con Raoul de Frescas, il giovane mendicante senza famiglia che Vautrin ha adottato per fame un uomo ricco e felice. In una battuta del III atto c’è la chiave del testo e il suo senso profondo, quando Vautrin dichiara: «Raoul de Frescas è un giovane che s’è saputo mantenere puro in mezzo a questo fango; è la nostra coscienza; e poi, l’ho creato io; sono suo padre e sua madre, e voglio essere anche la sua provvidenza. Mi piace far felici gli altri, io che non lo posso più essere. Respiro con la sua bocca, vivo della sua vita; le sue passioni sono le mie, non posso provare sentimenti nobili e puri se non attraverso il cuore di quell’essere che nessun crimine ha contaminato (...) In cambio dell’infamia con cui la società mi ha marchiato, io le rendo un uomo d’onore, mi metto in lotta col destino». Siamo qui al centro dell’opera di Balzac e a un personaggio, Vautrin, che egli stesso considerava una delle figure più forti e più riuscite dell’intera Comédie humaine: un personaggio di stupefacente finezza psicologica, oltre che di indiscutibile emblematicità sociale, in cui l’autore ha confessato il suo anarchismo e il suo spirito di rivolta. Vautrin, galeotto due volte evaso, ma finito in galera per un atto di generosità, «rappresenta l’eterno ribelle, che acquista una tragica grandezza nel suo duello con la società (...) Ma la linea di condotta della sua attività ribelle ha qualcosa d'insolito: non è la sete di denaro, né la gioia di fare del male, ma la necessità di appagare il proprio desiderio di potenza: “amo il potere per il potere, io!”» [Curtius]. Un ribelle che, da una parte, ha fatto sua la lezione di Machiavelli, dall’altra ha qualcosa di mitico, che ricorda «la rivolta di Prometeo contro gli dei, di Lucifero contro il creatore dell’universo». Un ribelle, Vautrin, che ha rinunciato all’amore delle donne per non avere un ostacolo alla sua volontà di potenza, ma che non ha potuto rinunciare all’amicizia virile, destinata anche a medicare la sua irrimediabile solitudine. Un’amicizia e un affetto che si tingono, in Splendori e miserie delle cortigiane, di una sorta di identificazione fra Vautrin e Lucien de Rubempré, il giovane poeta da lui protetto [...]. Lo stesso avviene, nel dramma, fra Vautrin e Raoul de Frescas, e questo rapporto dà al testo teatrale una suggestione e un fascino che la frettolosità della stesura non riescono a sminuire. È vero che in Vautrin il finale è tutto in positivo per Raoul de Frescas, a differenza di Lucien che muore nel romanzo, ma il ribelle ex galeotto ci lascia, con la sua cattura da parte dell’autorità di sicurezza, un senso di amarezza e quasi di angoscia. Questo angelo del male è un personaggio che ci coinvolge nel profondo, frutto com’è non solo del talento di un grande scrittore, ma di una singolare identificazione in esso dello stesso Balzac che «riassume tutto ciò che lo appassiona in questa figura di ribelle, di esteta morale, di uomo luciferico».

  L’insuccesso di Vautrin e il suo divieto non frenarono l’interesse di Balzac per il palcoscenico, un interesse che Le risorse di Quinola rivelano per nulla occasionale. Anzi questa commedia, che il 19 marzo 1842 fu accolta all’Odéon da «versi di animale e da mele marce» di un pubblico nel quale Balzac aveva eliminato la claque, è sorprendente nella sua ariosità, nelle sue invenzioni comiche e nel suo linguaggio drammaturgico ben lontano dalle improvvisazioni del Vautrin. Non stupisce assolutamente che piacesse molto a Victor Hugo, che per protesta contro le reazioni del pubblico della «prima» ritornò a vederla la seconda sera, e a Alphonse Lamartine. È una pièce che, da una parte, si ispira al teatro spagnolo del Siglo de oro e a quello francese di Molière e di Beaumarchais, altro autore caro a Balzac, dall’altra, si situa pienamente nell’alveo della Comédie humaine, con un protagonista, l’inventore del battello a vapore nella Spagna della metà del Cinquecento, che ricorda assai da vicino il David Séchard dell’ultima parte delle Illusioni perdute. Le risorse di Quinola è, a parte – s’intende – L’affarista, forse la commedia più interessante di tutto il teatro di Balzac perché coniuga temi e motivi che apparentemente sono lontani l’uno dall’altro e che, invece, trovano una singolare unità. Sotto questo aspetto siamo di fronte a una sorta di collage dei gusti letterari di Balzac: c’è, prima di tutto, il senso del comico, l’arma che l’autore riteneva necessaria per opporsi al sentimentalismo e al moralismo protestatario del romanticismo. Per Balzac il comico, come dimostra tutta la tradizione – da Rabelais a Molière, da Voltaire a Diderot –, è l’essenza della cultura francese e solo il comico può costituire un argine al soggettivismo e al lirismo del romanticismo. Questo senso del comico, non disgiunto da un’ironia assai volterriana nel descrivere una Spagna d’invenzione, attraversa tutta la commedia e trova in Quinola un personaggio ben individuato, un servo che è insieme lo Scapin di Molière e il Figaro di Beaumarchais, una sintesi (e contemporaneamente un’invenzione autonoma) del ruolo fondamentale del servitore come simbolo di una tradizione letteraria, ma anche di una concezione del mondo. Ma accanto a questo senso del comico, tipico del teatro e della letteratura del Seicento e del Settecento, sono evidenti in questa pièce le suggestioni di quel romanzo popolare, un vero e proprio genere letterario, «creato fra il 1793 e il 1800 da Pigault-Lebrun e Ducray-Duminil sull’esempio di Restif de la Bretonne, genere che corrispondeva ai gusti della classe emancipatasi con la rivoluzione». Insomma, ne Le risorse di Quinola, c’è anche il Balzac degli esordi, che si diverte a intrecciare, peraltro con inconsueta abilità drammaturgica, i mille fili di un intrigo da feuilleton. Tuttavia, il senso ultimo della commedia è nel personaggio dello scienziato Fontanares, un idealista il quale – solo dopo che è morta Maria, la donna che ha amato perdutamente, e solo dopo che gli è stata sottratta con l’inganno la sua invenzione della macchina a vapore –, scopre la realtà dura e impietosa che lo circonda. Sarà Faustina, l’avventuriera veneziana che si è innamorata di lui, a fargli capire il mondo: «Tu mi hai insegnato – le dice nell’ultima scena – che cos’è il mondo! Mondo degli interessi, dell’astuzia, della politica e della perfidia, a noi due ora!». Una conclusione e un programma di vita che ricorda assai da vicino la sfida di altri protagonisti balzachiani: Eugène de Rastignac, Lucien Rubempré e David Séchard.

  Paméla Giraud, scritta l’anno successivo e rappresentata senza successo il 26 settembre 1843 al Théâtre de la Gaîté – assente questa volta l’autore sempre più attratto da Eva Hanska e quindi con lei in Russia – è una pièce che la critica considera, un po’ convenzionalmente, meglio costruita e architettata delle commedie precedenti, quasi che una tecnica più matura e scaltra possa da sola dar vita a un buon testo. In realtà, Paméla Giraud è l’opera teatrale più fragile di Balzac, tanto che è stata avanzata l’ipotesi che si trattasse di un testo giovanile poi rielaborato per la messinscena da Balzac e da due suoi collaboratori: ipotesi suffragata dall’esilità della vicenda, dalla sua convenzionalità e dall’atmosfera poco balzachiana in cui si svolge. Questa fioraia che salva, a spese del suo onore, un cospiratore politico di cui si è innamorata fino a diventare sua moglie, nonostante la differenza di condizione sociale, è un personaggio di maniera, anche se – alla lontana – può ricordarci gli «atti di abnegazione totale» [Silvio D’Amico] che percorrono l’intera Comédie humaine. In questa commedia manca il Balzac dei testi teatrali precedenti con tutti i suoi difetti ma anche con i suoi meriti, mentre vi domina un autore che aspira alla pièce bien faite con tutti i limiti (ma anche le sicurezze) che essa comporta. Ciò non significa, peraltro, che il vero Balzac non faccia, episodicamente, la sua comparsa fra il sentimentalismo delle situazioni e le facili battute da vaudeville affidate al corteggiatore sfortunato di Paméla. Questo avviene non tanto nelle situazioni sempre prevedibili quanto in certi momenti drammatici e soprattutto nella figura di Dupré, l’avvocato del giovane cospiratore, che acquista, in qualche momento, i tratti di un personaggio inquietante. In una battuta del II atto egli confessa: «Non stimo abbastanza gli uomini per poterli odiare, visto che non ho mai incontrato nessuno che potessi amare ... Mi contento di studiare i miei simili: e vedo che, più o meno perfettamente, tutti quanti recitano la commedia. Non mi faccio illusioni su nulla, è vero; ma rido come uno spettatore in platea quando si diverte ... Solo che non fischio, non ho abbastanza passione per farlo». Una confessione che avrebbe potuto dare al personaggio risvolti e prospettive di qualche interesse, ma che, invece, è rimasta solo una battuta felice.

  Il teatro, tuttavia, nonostante gli insuccessi, resta un’ambizione a cui Balzac non vuole rinunciare, oltre che una sperata (e mai realizzata) fonte di guadagno. È noto che egli pensò di portare in scena una riduzione teatrale dell’intera Comédie humaine: un’impresa evidentemente impossibile. Ma non rinunciò, invece, a scrivere le sue due ultime commedie:

  La matrigna e soprattutto L’affarista, che oggi ci appare non solo uno lei capolavori del teatro francese dell’Ottocento, ma un’opera degna di essere posta ai vertici dell’arte di Balzac. La matrigna, «dramma intimo», come lo definisce l’autore, è l’espressione di un drammaturgo che sa il fatto suo e che ha fatto tesoro degli errori del passato. Scritta in breve tempo, a differenza de L’affarista che lo aveva impegnato per diversi anni e che egli finirà alcuni mesi dopo, La matrigna ha una solidità drammatica e un vigore espressivo che Balzac mai aveva raggiunto prima, quasi che finalmente egli abbia trovato anche a teatro la forma congeniale alle sue intenzioni. Questa volta Balzac coniuga la pièce bien faite con il ritratto di costume, amaro e forte, di una famiglia che ha in sé i tratti di un’intera società. Il successo de La matrigna al Théâtre Historique, il primo e l’unico di Balzac, fu condizionato dagli eventi politici del 1848 e così lo spettacolo, nonostante i consensi del pubblico e della critica, ebbe vita breve. Ma l’autore si rese conto, forse per la prima volta, che il teatro doveva rappresentare per lui non più un aspetto marginale della sua creatività, ma addirittura l’obiettivo principale. Non è così assolutamente casuale il progetto, tre mesi dopo il successo de La matrigna, di scrivere addirittura diciassette testi teatrali: un progetto frustrato dalle condizioni di salute di Balzac che lo condurranno presto alla morte. Il rimpianto, espresso da qualche critico, per ciò che egli avrebbe potuto dare al teatro francese se fosse vissuto, non deve impedirci di sottolineare ciò che Balzac ci ha effettivamente lasciato. La matrigna non è un capolavoro dell’originalità di L’affarista, ma un dramma importante per ragioni che vanno assai al di là della «tecnica» e degli «effetti», di cui ha parlato Silvio D’Amico. La tecnica e la sapienza drammaturgica sono, infatti, al servizio di una visione amara e angosciata della condizione umana, una visione che affonda le sue radici nel prediletto Molière, se, come sembra, è attribuibile a La matrigna la frase di Balzac: «Nella casa di Orgone la vita diventerà impossibile dopo la cacciata di Tartufo, poiché è l’ipocrisia il vero legame sociale. Ho tentato di dimostrarlo in una suite. Ah, che forza la scena!». Ma il riferimento molieriano è solo il punto di partenza verso una drammaturgia che è molto in anticipo sul suo tempo e che ci fa pensare al naturalismo non tanto di Zola quanto «al pessimismo moralistico di Henry Becque» Il Balzac de La matrigna, nonostante resti ancora legato a certi schemi drammaturgici della pièce bien faite, è già proiettato, nelle scene e nelle situazioni più importanti, verso un teatro di forte risentimento morale in cui la realtà conta assai più della teatralità.

  L’affarista è il capolavoro non occasionale, ma anzi lungamente rincorso per tutti gli anni Quaranta: un capolavoro di cui non solo Balzac non vide il trionfo (settantatré repliche) ma che, per un secolo e oltre, fu conosciuto attraverso l’adattamento riduttivo che ne aveva fatto, per la prima messinscena del 1851, l’autore de Le due orfanelle, Adolphe Dennery: un adattamento, peraltro, che non era riuscito sostanzialmente a sottrarre forza e risalto alla pièce di Balzac e al suo protagonista, l’irresistibile Mercadet. Mercadet è, infatti, uno di quei personaggi che da soli, con la loro prorompente vitalità e con la loro trascinante personalità, riescono a far vivere qualsiasi testo e a contrassegnare definitivamente l’arte di un drammaturgo. Chi, poi, lo ha visto impersonato in maniera memorabile da Tino Buazzelli, che con il suo fisico corpulento ricordava in maniera stupefacente Balzac, non può non essere d’accordo con Carlo Terron, quando ha scritto che Mercadet è «un personaggio, si può ben dire, per la cui genesi Rabelais ha dato la mano a Molière». Ma solo per la genesi ché tutto il resto appartiene al Balzac maggiore, quello che ci ha lasciato, nella Comédie humaine, personaggi indimenticabili di affaristi e di imbroglioni, simboli di quel mondo dominato dal denaro e dagli interessi che è al centro della narrativa di Balzac e che preannuncia tutto un filone del teatro francese dell’ultima parte del secolo. Uno storico del teatro [G. Lerminier] ha notato che con L’affarista il denaro comincia a ispirare numerose opere drammatiche nelle quali «gli autori si rivelano, con maggiore o minore intenzione, moralisti e insieme realisti È il preannuncio de I corvi (1882) di Becque, de Il denaro (1895) di Fabre e di Gli affari sono affari (1903) di Mirbeau». Balzac, assai più dello stesso Augier le cui Leonesse povere sono del 1858, anticipa problematiche e temi di quarant’anni dopo, dandone peraltro una rappresentazione infinitamente più coinvolgente. L’unico autore che gli può stare vicino è Becque, ma i suoi Corvi, testo di grande respiro, hanno qualcosa di eccessivamente impietoso che L’affarista non ha, pur nella satira grafitante. La verità è che Balzac in Mercadet raffigurò non un personaggio negativo, ma un irresistibile impasto di calcolo e di generosità, di gagliofferia e di fantasia, di astuzia e di ingenuità. L’autobiografismo di Mercadet, nel quale la critica ha visto il Balzac degli affari regolarmente andati a male, ha dato al personaggio quei risvolti e quelle sfumature che costituiscono il suo fascino maggiore. Mercadet è, poi, un grande personaggio perché, come il suo modello Napoleone (non a caso egli si proclama «il Napoleone degli affari»), ha una sua grandezza negli imbrogli che lo rende del tutto estraneo a quel mondo di «mediocri ambiziosi» che «come tali pretendono tutto senza avere obiettivamente le qualità per il successo», in cui lo ha incautamente inserito il curatore [Icilio Ripamonti] di un’edizione italiana de L’affarista. Per di più, è il prodotto della società del suo tempo, ma contemporaneamente un carattere eterno, degno dei grandi personaggi di Molière, in quel suo vivere l’affare non per i vantaggi reali che ne può avere, ma per il piacere e il gusto che ne prova di per sé: «non è tanto il denaro in sé che l’attrae, anche se ne ha tanto bisogno; sono gli imbrogli, le invenzioni, le cabale per procurarselo che lo entusiasmano: è il gioco allo stato puro che lo eccita e lo esalta veramente» [C. Terron]. Un gioco che Mercadet conduce fino all’estremo nell’invenzione prodigiosa di quel Godeau, mitico socio destinato a salvarlo e che, alla fine, arriva veramente, tanto da fargli dire, proprio nell’ultima battuta, con irresistibile malizia: «Ho fatto vedere Godeau agli altri tante di quelle volte, che avrò ben diritto di vederlo una volta anch’io. Andiamo a trovare Godeau». Godeau rappresenta non solo quel che c’è di visionario in Mercadet, ma anche in Balzac, scrittore sempre in grado di coniugare il realismo e l’immaginazione più spinta, la verità e la finzione più audace. Non deve così stupire che il maggiore scrittore del secondo Novecento, Samuel Beckett, si sia, probabilmente, espirato a Godeau per il suo Godot che ha finito col diventare il simbolo stesso della nostra condizione umana. [...].  Anche questo riferimento di un classico del teatro del Novecento come Aspettando Godot conferma la straordinaria modernità de L’affarista, una commedia che oggi possiamo considerare, senza alcuna forzatura, degna dei capolavori di Balzac, da Eugénie Grandet a Papà Goriot, da Cesare Birotteau a Le (sic) illusioni perdute, da Splendori e miserie delle cortigiane a Il cugino Pons.

  Questa edizione di Tutto il teatro di Balzac, che esce a oltre trent’anni dalla prima traduzione italiana, non è, però, costituita da un capolavoro accompagnato da cinque testi poco fortunati, ma vuole avere l’ambizione di fare scoprire ai lettori e, possibilmente, anche ai teatranti, tutte e sei le commedie di un grandissimo romanziere che al palcoscenico si è dedicato con risultati superiori a quelli di autori teatrali più fortunati di lui. In realtà, anche a teatro, Balzac ha lasciato un repertorio che merita di essere rivalutato e, nel caso de L’affarista, gustato con l’entusiasmo che conviene alle opere che hanno segnato un’epoca e che pure sono straordinariamente moderne.

 

 

  Giovanni Antonucci, Balzac fra teatro e romanzi. Una commedia in una notte, «il Giornale – Lettere e Arti», Milano, 11 novembre 1994.

 

  Versione ‘ridotta’ dello studio segnalato nella scheda precedente.

 

 

  Maurice Bardèche, Introduzione, in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., pp. V-XXXI.

 

  [...]. Castex ha ragione a sostenere che papà Goriot, come indica il titolo del romanzo, è la figura centrale «sulla cui testa un pittore, così come lo storico, avrebbe fatto piovere tutta la luce». Ma, se si può arrischiare questa similitudine, i testimoni hanno preso un posto tale che l’affresco di Balzac non è più un ritratto e diventa una sorta di Ultima Cena. E, come nell’insieme della Cena, il pittore concentra in effetti tutta la luce sulla figura di Cristo, che pure è solo uno dei personaggi del gruppo la cui comunione e la cui unità sono il vero «soggetto» del quadro, come lo sviluppo della novella che Balzac aveva ideato, simile a quello di un negativo, ha cambiato le proporzioni e il senso dell’insieme: Goriot è certo colui «alla cui memoria» Rastignac lancia la sua sfida alla società, ma alla fine la sfida di Rastignac è diventata tanto importante quanto l’agonia dello stesso papà Goriot.

  La scelta di questo quadro spiega così come il racconto, in ragione dei vari personaggi e delle varie azioni che vi si incroceranno, non possa più essere adatto a una «novella», ma esige gli sviluppi di un romanzo. Il passaggio dalla novella al romanzo si ha per caso, e non per premeditazione: è il soggetto a imporlo.

  La pensione Vauquer in cui papà Goriot abita sarà dunque all’inizio una delle strane taverne di una Parigi sconosciuta, mal osservata e poco descritta, una tana invisibile nascosta sotto vecchie pietre: si solleva la pietra, e gli insetti pullulano. Destini sconosciuti, specie sociali che le lettrici eleganti non vedono mai alla luce del sole. Ci sono declassati, pensionati, impiegati, studenti; e il vecchio Goriot, buon uomo che vive delle sue rendite modeste in una pensione economica. Il lettore ha una guida per esplorarla: uno studente di diritto, Eugène de Rastignac, che, con pochi quattrini e con un nome di antica nobiltà, è venuto a cercare fortuna a Parigi. Impara a vivere osservando. Il suo apprendistato illumina il lettore: in ogni momento del libro, la vita parigina gli dà una lezione, contiene una morale in atto. E perché questa lezione sia chiara, Balzac ha posto accanto a lui un personaggio strano, enigmatico, uno degli ospiti di madame Vauquer che per autorità, esperienza, cinismo contrasta con il conformismo e le piccole manie dei figuranti messi in scena: è l’energico Vautrin, che prende in simpatia il giovane Rastignac e si incarica di spiegargli «come va il mondo». Grazie a lui, Rastignac leggerà il breviario del cinismo e della rivolta; e al tempo stesso il destino del vecchio Goriot, il suo amore e la sua devozione per le figlie, l’ingratitudine e l’egoismo di queste quando il vecchio padre in agonia le chiama al letto di morte sono una terribile conferma agli implacabili insegnamenti di Vautrin.

  Fattura e abilità sono straordinarie. Grazie alle due figlie di Goriot che si sono sposate una con un aristocratico, l’altra con un banchiere, e grazie a una parente di Rastignac il cui nome gli apre i salotti del faubourg Saint-Germain, Balzac stabilisce una comunicazione fra la sordida pensione Vauquer e gli ambienti più eleganti della vita parigina. Il contrasto permette antitesi e giochi di luce, e Balzac lo inca-stona splendidamente nel suo racconto. Si sente la pensione Vauquer, si percepisce il suo risveglio, l’odore del caffelatte preparato la mattina per gli ospiti, con il rumore di fondo del chiacchiericcio dei domestici, si ascoltano le conversazioni e gli scherzi a tavola; e contemporaneamente i più piccoli eventi della vita di Rastignac, come un filo di trama sempre diversa ma sempre presente, ricordano in ogni momento l’esistenza dell’altro mondo, quello in cui vivono i ricchi, facendone intuire le leggi impietose. La pensione, in virtù di misteri che vengono scoperti poco a poco, è collegata a universi diversissimi, di fronte ai quali essa appare per quello che è: un luogo di passaggio, un ripostiglio in cui si ammassano le cose vecchie. Ma il vero spettacolo è Parigi, scoperta come una terra sconosciuta e da esplorare. Qui si impara che i sentimenti veri, l’amore sincero, il disinteresse non hanno posto nella sfilata mondana: sono spezzati, schiacciati, sfruttati da coloro che calcolano e per i quali sono un puro trampolino di lancio. [...].

  Questa lezione che Rastignac riceve da una donna dell’alta società sarà riassunta dal terribile Vautrin più brutalmente, ma in fondo negli stessi termini, quando gli rivelerà le leggi della giungla che permettono di scoprire le strade più corte per il successo. [...].

  Il destino di papà Goriot, l’altro aspetto, l’aspetto umano, l’aspetto doloroso del romanzo è purtroppo un esempio vivente delle due lezioni che Rastignac riceve. La sua paternità sublime e cieca, la sua devozione di vecchio cane fedele sino alla morte, il suo amore quasi demente per le figlie non solo saranno ricompensati con l’ingratitudine e l’abbandono, ma fanno di lui una vittima e una preda. Perché l’atrocità del suo destino è che il suo martirio è un crimine per procura. Egli non si priva di tutto e non muore per le figlie, ma per quelli che le fanno agire e lo privano di tutto attraverso loro, grazie al suo affetto per loro: l’amante di una, il marito dell’altra. Quando una delle due figlie lo supplica, sconvolgendolo con i suoi pianti e la sua angoscia e provocando la crisi per la quale morirà, lo fa perché vuole salvare il cavaliere d’industria di cui è perdutamente innamorata e che le ha recitato la commedia della rovina e del suicidio. E quando l’altra gli fa pagare i propri debiti, spremendolo in ogni modo, è perché la sua dote serve a coprire le operazioni fraudolente sulle quali il banchiere Nucingen fonda le sue fortune. Questo furto atroce, questo «crimine commesso abilmente» che Rastignac comprende quando accompagna al cimitero di Père-Lachaise il carro funebre dei poveri, decide la sua rivolta e gli fa pronunciare, mentre guarda Parigi ai suoi piedi, la celebre sfida alla società con cui il romanzo si conclude: «A noi due, ora».

  La morale cinica di Vautrin contiene la morale del romanzo? È il giudizio che Balzac ci invita a formulare? Non dimentichiamo che è messo in bocca a un avventuriero, a un uomo in rivolta contro la società che parla secondo il proprio carattere e la propria morale di uomo in rivolta. Eppure non possiamo nasconderci che questo cinismo, anche se è la voce di un personaggio determinato e non di Balzac, ritorna costantemente nelle Scene della vita parigina. Non è la morale che Balzac vuole si tragga dalla sua opera: è solo quella che si applica a questa fauna speciale delle capitali, attirata dal denaro e dai successi rapidi, ammassata presso i punti in cui affiorano la ricchezza e le perversioni che l’accompagnano. I «giovani lupi» che Vautrin chiama «cacciatori di milioni», «filibustieri», «corsari in guanti gialli» occupano nella mitologia sociale di Balzac un posto simbolico. Sono quelli che hanno rifiutato l’alienazione a cui la società mercantile dell’Ottocento condanna coloro che salgono a fatica i gradini di una carriera onesta. Vogliono sfuggire a questo meccanismo stritolante, alle scadenze che mandano in rovina, ai servilismi che snaturano, per raggiungere subito la cima di una società distruttiva e restarci, una volta che un matrimonio o qualche combinazione favorevole abbiano dato loro la necessaria stabilità. È il problema dell’arrivismo: è, insomma, quello che Vautrin spiega a Rastignac. E quando Rastignac, dall’alto del Père-Lachaise, lancia la sua sfida alla società parigina, si mette al fianco di questi «corsari in guanti gialli» che navigano pericolosamente nel mare parigino, cercando nel gioco, nei debiti, negli affari, nelle donne i mezzi per sostener e un brillante tenore di vita e, alla fine, per arrivare.

  Non è detto che questi carnivori della savana parigina non ci diano, alla fine, un’immagine piuttosto deformata della società della Restaurazione. L’idea che possiamo farci sugli ambienti aristocratici di quest’epoca grazie a Il rosso e il nero, per esempio, si accorda abbastanza male con il ruolo attribuito da Balzac a queste brillanti meteore del successo. I destini evocati nella Commedia umana ci lasciano altrettanto scettici. In che modo Rastignac, semplice protetto di Madame de Nucingen e tutt’al più uomo di paglia del banchiere suo marito, può concludere la sua carriera sul banco dei ministri in uno dei gabinetti parlamentari del regime di Luglio? È un miracolo sul quale Balzac dà poche spiegazioni. Di un altro di questi «corsari in guanti gialli», il seducente efebo della Ragazza dagli occhi d’oro, che inizia la sua esistenza a vent’anni con un bel crimine passionale, del resto inutile alla sua carriera, Balzac ci informa un po’ più tardi che è diventato Presidente del Consiglio sempre sotto il regime di Luigi Filippo. Le rivoluzioni sono fertili di prodigi e di ascese sorprendenti: quella del 1830 basta a spiegare parabole così bizzarre?

  L’irrealismo che si è costretti a riconoscere in Balzac impregna più o meno la maggior parte delle Scene della vita parigina. A volte è presente allo stato puro nelle stravaganze della Storia dei Tredici, a volte è più camuffato, e risulta appena percepibile nel Papà Goriot, romanzo apparentemente «realistico», ma in realtà pseudorealistico, che permette a Balzac di illustrare o più esattamente di mascherare una drammaturgia, al fondo, piuttosto semplicistica. Ed è per questo che Papà Goriot è un’opera chiave della drammaturgia sociale balzachiana.

  L’immagine del successo che, come sappiamo, può essere vera in certi casi (ma con altri metodi più difficili da drammatizzare), per romanzesca e deformata che sia in Balzac, ha comunque una parte di verità sociale. L’interferenza fra verità e drammaturgia ci rivela un elemento tipico dell’invenzione in Balzac: la sua arte di romanziere esige l’esagerazione drammatica. Egli sottolinea e carica le tinte come un pittore perché bisogna caricare le tinte per dare rilievo. Accentua i caratteri e le situazioni perché c’è bisogno di questo per far risaltare una verità sociale. L’esagerazione drammatica è così straordinariamente fusa nell’intreccio che ce ne si accorge solo riflettendo sulla struttura stessa del romanzo, cioè sui mezzi usati dal romanziere. Perché solo meditando sul soggetto di Papà Goriot ci si accorge che Vautrin non serve a niente. È il «ragionatore» della commedia, ma il dramma è altrove: la lezione che il destino del vecchio Goriot dà a Rastignac è sufficiente: sono i fatti a sviluppare la morale. Ma bisogna calcare, bisogna che il lettore capisca, bisogna soprattutto che tragga le conseguenze e le prospettive. E grazie a questa esagerazione che è, in sostanza, una deformazione drammatica della realtà, si ottiene un rilievo che dà valore a un’immagine esatta della realtà sociale: esatta nel suo lumeggiamento e nella sua morale, e al tempo stesso fallace per l'architettura che la rende sensibile. Perché i successi sociali ingiustificati seguono altre vie più complesse, più nascoste, meno eclatanti: ma la società è così e le carriere brillanti poggiano tutte, più o meno, sul cinismo di Vautrin.

  L’immagine che Balzac vuole che si conservi da Papà Goriot è un’altra, più difficile da afferrare. Balzac stesso l’ha spiegata nella prefazione che ha scritto per la seconda edizione del libro. Ma la sola lettura del romanzo la suggerisce a sufficienza. Perché i personaggi che restano nel ricordo del lettore sono non solo il ragionatore che spiega, ma colui che apprende e comprende con terrore sgomento è Rastignac, e il vecchio Goriot, che insegna con il suo esempio e la sua sofferenza.

  Quello che colpisce in Rastignac (ed è una parte del fascino di Papà Goriot) è appunto il fatto che egli cerca di sfuggire alla degradazione del successo e all’egoismo degli arrivisti e che la sua generosità si rivolta contro questo mondo di cui ha finito per decifrane le leggi. In tutto il romanzo, Rastignac conserva un privilegio straordinario: gode di una specie di stato di grazia che gli viene dalla giovinezza e dalla generosità. [...].

  Rastignac è una creatura giovane e bella che la vita non riesce a guastare. E forse per questa caparbietà della giovinezza nel restare se stessa, per questo stato di grazia della giovinezza davanti alla vita, Rastignac occupa fra i personaggi di Balzac un posto privilegiato ed è circondato da una specie di aura poetica.

  Quanto al vecchio Goriot, ciò che commuove nella sua vicenda è la lotta impari fra i moti di una grande passione e i calcoli dettati dall’egoismo e dall’avidità della vita moderna. L’amore paterno, in Goriot, è un transfert, è la delega della felicità à qualcun altro, la sostituzione della felicità: cosa vera, in fondo, per tutte le passioni e perfino – con significativa analogia – per l’amore. Goriot esprime questo transfert anche in un linguaggio rozzo e ingenuo, che potrebbe essere quello di un uomo per la sua amante o di una cortigiana per il suo amante. [...].

  Goriot diventa così un involucro corporeo, i cui sentimenti e la cui vita sono altrove. Sta qui il segreto del suo affetto per Rastignac. Ama Rastignac non perché sia buono con lui, né perché gli porti notizie delle figlie. Lo ama perché lo ama Delphine. «Quanto vi amerei, mio caro signore, se voi le piaceste». Ed è anche il segreto della sua perpetua «storditezza». Il gesto meccanico con cui annusa il suo pane e i suoi atteggiamenti ebeti sono la livrea di tutte le grandi passioni. La continua distrazione di Goriot è la distrazione di Claës, il cercatore di «assoluto». Vive nella sua mansarda come Claës nella sua soffitta. È privato di tutto, ma niente conta, perché la sua passione l’accompagna dappertutto.

  La delega della felicità è anche uno dei peripli dell’immaginazione. È la potenza dell’immaginazione che dà a Goriot «un’altra vita nella sua vita»; come a Balzac. Nella misura in cui è sincero con madame Hanska, l’amore vissuto a distanza e la felicità che Balzac si fabbrica e che è la sua vera vita gli fanno capire che ogni passione è un transfert di felicità su un oggetto. Questo progresso non di tecnica ma di conoscenza dà a Balzac la chiave di molte altre passioni, tutte simili nelle loro fantasmagorie. [...].

  La grande lezione che Balzac ci invita a trarre quando ci mostra ovunque gli effetti distruttiva, le «devastazioni» provocate da ogni idea fissa o da ogni passione, Goriot ce la dà come tutti gli altri «monomani» di Balzac. Il suo calvario, le sue cadute, i suoi piami strazianti nel supplizio dell’agonia possono certo risvegliare nel lettore le simpatie più nobili; ma sono le sofferenze e le torture che Goriot stesso si è preparato andando verso la catastrofe come un cieco e un incosciente, con il passo stravolto degli allucinati. Balzac vuole ricordare solo la sua via crucis quando vede in lui «il Cristo della paternità»? O forse è anche la «redenzione» attraverso la sofferenza di quello che c’era di troppo eccessivo nel suo amore? [...].

  Fare la storia della società significa raccontare il trionfo dei forti e l’eliminazione dei deboli. Una generazione è l’insieme di quelli che ce l’hanno fatta e la folla di quelli che sono in ascesa, di quelli che lottano, di quelli che soccombono. Questo vortice di energie e di desideri provoca un dramma quando deve affrontare o infrangere un’energia pari, quella di una passione o di un’idea cui si tiene quanto alla vita. Lo scontro contro-corrente della marea sociale con una di queste passioni sarà il dramma tipico del romanzo balzachiano.

  Papà Goriot non è solo una messa a punto della drammaturgia sociale di Balzac. Fu anche l’occasione di un’improvvisa illuminazione del romanziere, che avrebbe dato un carattere originale a tutta la sua opera. [...].

  La riapparizione dei personaggi comincia infatti con Papà Goriot. Sino ad allora, i racconti e i romanzi di Balzac non avevano alcun rapporto fra di loro, e se oggi questa particolarità ci sfugge è perché Balzac ha sostituito, nell’edizione della Commedia umana che noi leggiamo, i nomi che aveva dato all’inizio con altri che sono quelli dei personaggi che conosciamo da altre narrazioni.

  Di fatto, l’idea nuova non era, propriamente, la «riapparizione» dei personaggi già presenti, ma il progetto di inventare una società in miniatura la cui storia sarebbe stata raccontata dai suoi diversi romanzi. Balzac si innalzava così a storiografo dell’immaginario, ma per essere credibile era necessario che le leggi sociali che governavano la società reale fossero anche le leggi di questo mondo immaginario. L’ambizione sociologica non era dunque minore dell’ebbrezza del romanziere. [...].

  In compenso, Balzac ha saputo trarre dal ritorno sistematico dei personaggi effetti di ottica drammatica stupefacenti e fecondi. A dire il vero, la profondità del campo narrativo e le sovraimpressioni ottenute dal romanziere non sono il frutto della riapparizione dei personaggi in sé: è piuttosto la sovrapposizione di vari negativi a dare un rilievo stereoscopico alla narrazione dei fatti. La riapparizione dei personaggi porta solo un passato già noto al lettore: appartiene all’ordine delle informazioni e abbrevia le spiegazioni. Può anche essere, ed è già meglio, luce poetica: madame de Beauséant nella serata di Papà Goriot in cui tiene coraggiosamente testa a tutta la Parigi che conta e che sfila da lei la sera del suo disastro è una figura più commovente per chi, avendo letto La donna abbandonata, conosce la solitudine che l’attende. Spesso questi svolgimenti futuri già noti, o all’inverso i presentimenti sinistri, danno al personaggio balzachiano un’altra vita, un’altra profondità: chi non trema riconoscendo il poliziotto moscardino, il Corentin degli Sciuani, alle prese con Laurence de Cinq-Cygne? Altre volte, ed è ancora più interessante, non è il personaggio, ma un altro dramma a fare parte di un passato che ci è noto e a dare uno spessore doppio all'azione narrata in quel momento. Così il dramma del matrimonio della contessa di Restaud, figlia maggiore di papà Goriot, raccontato in Gobseck, si frappone come una filigrana sempre più visibile sino a gettare la sua ombra sul martirio del vecchio Goriot, diventandone un elemento implicito se non esplicito. In questo punto i due racconti si mescolano e l’osmosi crea un fondo drammatico, sensibile come un sottofondo sonoro, che dà ai personaggi e agli eventi non tanto una coloritura poetica, quanto qualcosa di più acuto e atroce.

  Allora, questa porta aperta su una scena di cui percepiamo solo dei frammenti, questo pezzo di destino enigmatico per le sue lacune e tuttavia significativo ci danno una singolare impressione di realtà. Per il lettore di Balzac, i Restaud sono persone conosciute e la cui intimità viene scoperta come vengono scoperte sempre le vite private: un po’ alla volta, con qualcosa di incompleto e incoerente. Porte che si aprono e si chiudono, repliche simili alle basi di un dramma, bagliori improvvisi e intermittenti: ecco tutto quello che indoviniamo e ci sarà dato. Sono veri effetti prospettici, sensibili quasi quanto i trucchi di un diorama. Perché Balzac ci arriva così, iniziando con il suggerirci che la storia dei Restaud raccontata in Gobseck non è una storia morta o un’avventura chiusa nel passato, ma un dramma ancora vivo, indipendente dalla stessa novella. È questo il primo effetto di realtà che poggia sul racconto medesimo. Ma, allo stesso tempo, i Restaud che ci incuriosiscono e il cui dramma, come quello di una coppia di amici, ci arriva interrotto, a ondate, non sono quasi più dei personaggi immaginari: da questo dramma a eclissi, da dove ci arriva una luce intermittente, guadagnano un’esistenza supplementare. L’effetto di realtà poggia questa volta sui personaggi, delineando le vicende di cui diventiamo testimoni.

  Così alcuni personaggi possono essere scorti in tutta la loro ampiezza solo nei vuoti della Commedia umana. De Marsay, per esempio, è compreso solo imperfettamente in ciascuna delle immagini che Balzac ci dà di lui. È solo un avventuriero parigino nella Ragazza dagli occhi d’oro, diventa il più delicato e il più generoso degli amici nel Contratto di matrimonio; conduce con stupefacente profondità la rottura raccontata nell’Altro studio di donna: ma sia che giudichi dall’alto la logica parigina dell’ambizione, sia che spieghi la vita all’amico Paul de Manerville, resta incompleto. Al contrario, certi suoi tratti citati in seguito fanno apparire un personaggio insospettato: discorsi da uomo di Stato, gesti da gran signore, un affettuoso cameralismo nel pagare con un sorriso i debiti di d’Esgrignon e abbastanza profondità per capire che questo aiuto trascina il suo rivale verso la rovina, un atteggiamento politico realistico e brutale, una notevole intelligenza degli interessi del paese e delle debolezze del regime, un buon senso che stupisce Corentin, uno dei capi della polizia, una larghezza di vedute politiche tale da eguagliare Marcas che, da solo nella sua soffitta, costruisce il regime del futuro. Quale ritratto di Henry de Marsay ci mostra insieme tutti questi aspetti che lo rendono in effetti degno di essere il Primo ministro, il domatore degli ambiziosi della Commedia umana? Balzac non ce lo dà da nessuna parte: solo confronti incrociati, accostamenti. bagliori fuggitivi testimoniano la straordinaria importanza accordata a questo personaggio. In fondo, questo enigmatico trionfatore che non è ritratto da nessuna parte esiste solo negli intervalli fra le opere, nella Commedia umana considerata come opera. [...].

  La presenza di questa società immaginaria, la capacità di concezione, di classificazione e di visione che bisogna avere per mettere le mani senza esitazioni su questo enorme schedario e per dominare, governare e coordinare i destini di questo libro magico è sicuramente il dono più prodigioso di Balzac, nel senso più pieno della parola: è il dono che fa di lui un mostro. Ma la nostra meraviglia è del tutto giustificata? Siamo sicuri di non essere vittime di un'illusione ottica? Non ci si è mai chiesti se questa presenza ha delle intermittenze; e sarebbe interessante saperlo e controllare se c’è una focalizzazione di questa attenzione (cosa che non mi stupirebbe) su certe zone privilegiate dal calendario di lavoro di Balzac. [...]. Che il nostro desiderio di ammirare Balzac non ci faccia dare giudizi avventati! Non c’è fretta di decidere se aveva, come diceva, una «società nella sua testa» o se la Commedia umana è un enorme reportage sulla società del suo tempo.

 

 

  Edouard Bertholet, La credenza nelle vite successive nei letterati, nei poeti e negli artisti moderni, in La Reincarnazione. La reincarnazione nel mondo moderno. Traduzione dal francese di Livia Pierantoni, Roma, Edizioni Mediterranee, 1994, pp. 111-236.

 

  pp. 126-131. Uno scrittore di grande talento e acuto psicologo, Balzac (1799- 1850), fu sostenitore della dottrina reincarnazionista. Ne La pelle di zigrino, egli fa dire ad uno dei suoi personaggi: “Mosè, Scilla, Luigi XI, Richelieu, Robespierre e Napoleone sono, forse, lo stesso uomo che riappare nel corso delle civiltà, come una cometa nel cielo”, rispose un ballanchiste.” È soprattutto nel suo romanzo-poema Séraphita che Balzac ha esposto le sue opinioni originali e profonde sulle diverse trasmigrazioni delle anime, sui loro stati successivi, i loro esistere, per riprendere la sua espressione immaginosa. Queste vite ripetute sono necessarie all’anima per imparare la lezione della materia e per purificarsene in modo da giungere, infine, alle sfere di luce. All’insegnamento degli Spiriti dei mondi spirituali, come lo riferisce Swedenborg nelle sue numerose opere mistiche, Balzac aggiungerà la nozione di reincarnazioni o vite successive. Nella prefazione al suo libro, egli paragona la serie delle nostre vite a “una di quelle balaustre scolpite da qualche artista pieno di fede, sulle quali i pellegrini si appoggiano per meditare sulla fine dell’uomo contemplando il coro di una bella chiesa”. Questo confronto caratterizza perfettamente lo sforzo spiritualista tentato da Balzac in quest’opera che vuole portare un po’ di luce spirituale agli uomini perduti nell’oscura foresta della materia e delle sue gioie sensuali fittizie. L’autore ci dice anche che “Séraphita, bianca e pura espressione del misticismo, non avrebbe saputo avere sulla matematica le opinioni dell’Accademia delle scienze; ella sarebbe potuta diventare qualunque cosa, tranne che membro dell’Istituto; se lei conosce l’infinito, le misure del finito devono sembrarle meschine”. All’inizio del suo libro, Balzac fa questa bella professione di fede: “Qui, l’autore, protesta il suo rispetto per i grandi geni occupati ad ampliare i confini della scienza umana, ... egli crede, se si ammette l’esistenza dei mondi spirituali, che i teoremi più geniali non siano di alcuna utilità su questi mondi, che tutti i calcoli relativi al finito siano caduchi nell'infinito”. Egli aspira a conciliare la scienza e il misticismo di uno Swedenborg con l’occultismo e la filosofia esoterica e mistica di un Saint-Martin; Balzac constata che troppo pochi uomini del suo tempo “s’interessano ai lontani bagliori del misticismo”; oggi, purtroppo, le cose non sono affatto cambiate! Gli uomini hanno il torto di definire soprannaturali fatti di cui ignorano le cause; il senso del loro limite nel finito dovrebbe ricondurli ad una maggiore umiltà; essi dovrebbero impegnare al massimo la loro facoltà intuitiva per riuscire ad individuare le grandi leggi della natura che sono nascoste ai materialisti, ed in particolare il principio giusto e sublime di reincarnazione. Un saggio consiglio che darà lo Spirito Séraphitus-Séraphita a coloro che desiderano evolvere rapidamente nel corso delle loro incarnazioni successive, va ricordato e su di esso è bene meditare: “Ebbene, Minna, un desiderio costante è una promessa che ci fa l’avvenire. Spera! Ma, se vuoi essere pura, unisci sempre l’idea dell’Onnipotente ai dolori terreni, allora amerai tutte le creature, e il tuo cuore andrà molto in alto”.

  Quando si chiedeva a Séraphita come potesse sapere tante cose senza averle mai imparate nella sua vita presente, lei rispondeva semplicemente: “Io ricordo”. Balzac riprende la lezione di Swedenborg riguardo a ciò che egli chiama lo stato angelico che l’uomo può raggiungere nel corso di purificazioni successive: “Ognuno di questi esistere”, egli dice, “è dunque un cerchio entro il quale si avvolgono le ricchezze celesti dello stato precedente. La grande perfezione degli spiriti angelici viene da questa misteriosa progressione attraverso la quale nulla si perde delle qualità progressivamente acquisite per giungere alla loro gloriosa incarnazione; perché, ad ogni trasformazione, essi si sbarazzano impercettibilmente della carne e dei suoi errori”. Sfortunatamente, la maggior parte degli uomini non si sforza di progredire sulla via spirituale, accontentandosi di godere della vita materiale, del proprio esistere.

  La certezza dell’immortalità dell’anima e delle sue migrazioni in vite successive dà una magnifica serenità di fronte alla morte, che non è più considerata una fine, un annientamento, ma un passaggio che permette nuove evoluzioni, il corpo dei defunti, privato dell’anima, è visto solo deceduti, questa iniziata rispose. “Morti? No, essi sono in me per sempre. Questo non è niente, aggiunse ella indicando senza alcuna emozione i corpi che venivano portati via”. Ad un pastore che le chiedeva se la morte la spaventasse, rispose: “No, caro pastore. Vi sono due modi di morire: per alcuni la morte è una vittoria, per altri è una sconfitta”. Tocca a noi fare in modo che la nostra morte non sia una sconfitta! Séraphita aggiunge che la sofferenza è utile per accelerare l'evoluzione dell’uomo, anzi, è perfino “necessaria per uscire dalla vita” terrena, dal ciclo della nascita, della morte e della rinascita. La virtù suprema è comprendere la vita con tutte le sue vicissitudini felici e infelici che abbiamo ordito con il nostro comportamento sulla tela della nostra vita. “Lamentarsi significherebbe scadere. La rassegnazione è un frutto che matura alle porte del cielo. Come sono belli e potenti il sorriso calmo e la fronte pura della creatura rassegnata! Radiosa è la luce che le illumina la fronte! Il suo sguardo penetra, commuove”.

  “Se volete abituare i vostri piedi a procedere sul cammino che conduce al cielo, sappiate che i primi passi sono difficili. Dio vuole essere cercato per se stesso. In questo senso, egli è geloso, vi vuole completamente; ma, quando vi siete dati a lui, egli non vi abbandona più”. Per evolvere, “dovete spogliarvi dei sentimenti e delle cose a cui tengono gli uomini; se non lo farete, non potrete dedicarvi completamente alla vostra missione”.

  Questo romanzo-poema di Balzac va letto per intero perché contiene utili considerazioni sulla vita, sull’anima e sul suo divenire. [...].

 

 

  Mariolina Bertini, Recensioni. Roger Pierrot, “Honoré de Balzac”, Paris, Fayard, 1994, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XI, N, 8, Settembre 1994, p. 43.

 

  La vita di Balzac ha molto sollecitato il lavoro dei biografi: non sono mancate le bellissime narrazioni letterarie — da Théophilc Gautier, a Stefan Zweig, ad André Maurois — né gli studi fondati, come quello di Maurice Bardèche del 1980, su un parallelo approfondimento della biografia e dell’opera. Roger Pierrot, massimo esperto ed editore della corrispondenza balzachiana, ha scelto una via differente: ha optato per una rigorosa ricostruzione storica dell’esistenza del romanziere, documentata anche nei minimi particolari. L’opera di Balzac non è qui oggetto di analisi; entra in scena perché è il cuore stesso della vita dello scrittore, il centro di tutte le sue preoccupazioni materiali e morali. Non è privo di significato che questo lavoro così solido e attendibile compaia proprio ora, mentre le Oeuvres diverses della Pléiade (di cui è apparso finora un volume eccellentemente curato da René Guise e Roland Chollet) ci permettono finalmente di fare il punto sulla produzione del romanziere esterna alla Comédie humaine.

 

 

  Marco Biraghi, Figure del collezionismo: Novalis, Balzac, Verne, Benjamin, Marburg, «ANAΓKH8. Cultura storia e tecniche della conservazione», Milano, Numero 8, Dicembre 1994, pp. 8-14.

 

 

  Carlo Bo, Manzoni e il romanzo europeo, in Letteratura come vita, a cura di Sergio Pautasso. Prefazione di Jean Starobinski. Testimonianza di Giancarlo Vigorelli, Milano, Rizzoli Editore, 1994, pp. 283-295.

 

  Cfr. 1973.

 

 

  Giovanni Bogliolo, La provincia e Parigi viste da Balzac, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, Anno XIX, N. 935, 17 Dicembre 1994, p. 3.

 

  Come bisogna leggere Balzac? Romanzo per romanzo, magari limitandosi ai più conosciuti capolavori, oppure nella sua globalità, seguendo fedelmente il piano della Commedia umana – 137 titoli, 26 tomi, 15.600 pagine – che aveva progettato e ha per buona parte realizzato? L’ideale sarebbe conciliare questi due diversi regimi di lettura, apprezzare ogni romanzo balzachiano tanto nella sua individualità quanto nel gioco delle risonanze che acquista nel suo naturale contesto e percepire come un tutto organico quell'opera che lo scrittore voleva più vasta della cattedrale di Bourges. Nella realtà la cosa è quasi impossibile. Benché incompiuta, la cattedrale ha dimensioni proibitive e quella della conoscenza per assaggi isolati è, più che una scelta, una necessità. O almeno lo era fino ad oggi. L’edizione della Commedia umana che Mariolina Bongiovanni Bertini ha curato per i «Meridiani» offre una soluzione di compromesso: una selezione drastica ma oculata, operata in modo da «documentare l’estrema varietà del genio balzachiano, il suo spaziare dal realismo provinciale alla fantasmagoria parigina, dal registro mondano a quello filosofico e mistico, dalla più lucida ironia al più appassionato lirismo». Per esempio, nel primo volume che vede ora la luce (Honoré de Balzac, La commedia umana, Mondadori, 2 tomi di pp. XCVIII-1826, L. 100.000), nove romanzi – alcuni celeberrimi come Papà Goriot ed Eugénie Grandet, altri abbastanza noti come La ragazza dagli occhi d’oro, altri quasi sconosciuti come Béatrix e La falsa amante – stanno a rappresentare tutte le «Scene della vita privata» e gran parte delle «Scene della vita di provincia» e di quelle della vita parigina: quanto dovrebbe bastare per trasformarsi da lettori di romanzi di Balzac in lettori della Commedia umana.

 

 

  Roberto Bonchio, Prefazione, in Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert ... cit., pp. 7-19.

 

  Quando nel 1832 Balzac scrive Il colonnello Chabert non ha ancora trentatré anni. Ha già alle spalle un nutrito passato di esperienze diverse e difficili con le quali si sono misurate la sua leggendaria energia e l’esuberante vitalità del suo ingegno: il tirocinio presso un avvocato prima e presso un notaio poi, la sua relazione con madame de Berny, la «Dilecta», che, oltre a dargli la propria passione di donna matura, ha per prima creduto in lui, i disastri finanziari, frutto delle sue fallimentari iniziative imprenditoriali come tipografo e come editore. Sono anche terminatigli anni dell’apprendistato letterario. Ha abbandonato i romanzi popolari di intrigo a grandi tinte che, cosciente della propria debolezza artistica, ha pubblicato con gli pseudonimi di Lord R’honne (sic) e Horace Saint-Aubin. Seguiranno alcune opere, ancora infarcite di romanticismo, ma più meditate, come Les Chouans (1830), romanzo storico alla Walter Scott sulla rivolta lealista nella Bretagna del 1800 e La pelle di zigrino (1831) alla maniera di Hoffmann col suo alternarsi tra realtà e magia. Le Scene della vita privata, apparse nell’aprile del 1830, gli hanno già conquistato il successo in Francia e all’estero e con La donna di trent’anni (la vita di una donna in una serie di quadri staccati, uscito nel 1831) si è accattivato le simpatie del pubblico femminile.

  Non vi è periodico, rivista o giornale dove non compaia il nome di Balzac.

  Il suo ritratto fisico in quegli anni ci è dato da madame de Pommereul, moglie di un vecchio generale che aveva combattuto contro gli Chouans e al quale Balzac si era rivolto per le sue ricerche: «Era un uomo piccolo, dalla figura tarchiata, resa ancor più tozza da abiti mal tagliati, e portava un cappello molto brutto, ma appena se lo tolse tutto ciò sparì: non guardai che la sua testa ... Una grande fronte con un riflesso luminoso e occhi bruni pieni d’oro che esprimevano ogni cosa con la stessa carezza della parola. Il naso grosso e quadrato, la bocca enorme che rideva sempre, nonostante i denti guasti. Aveva i baffi folti e capelli lunghi e ricacciati sulle spalle ...».

  La vocazione balzachiana, dichiarata senza complessi, per la gloria e il potere («presto o tardi la letteratura, la politica, il giornalismo, un matrimonio o un grande affare mi daranno la ricchezza», scriverà alla madre) si concretizzerà all’inizio degli anni Trenta nella scelta letteraria: ha ormai compreso che l’éra del dilettantismo e del facile eclettismo è terminata.

  La volontà di potenza, così caratteristica in lui, l’aiuta a sprigionare tutta la sua enorme energia produttiva. La massa dei racconti, dei saggi, dei romanzi scritti tra il 1830 e il 1831 non ha uguali nella storia letteraria. Solo in questi due anni realizza 135 pubblicazioni documentate: si calcola che abbia scritto un sedicesimo al giorno.

  Con il 1832 il nuovo rigore che Balzac ha impresso alla propria produzione artistica comincia a dare i suoi frutti. Ed è proprio con Il colonnello Chabert, scritto con la consueta rapidità tra il febbraio e il marzo, che Balzac diviene il vero Balzac, più asciutto e determinato nel rendere arte il suo profondo intuito psicologico, la sua potente capacità di rappresentazione delle cose e degli uomini.

  Le «Scene della vita privata», prima sezione della Commedia umana nella quale è compreso Il colonnello Chabert, dovevano nell’intento di Balzac comprendere trentadue volumi: in realtà ne uscirono ventotto. Quattro – Les enfants, Un pensionnat des demoiselles, Intérieur de collège, Gendres et belles-mères – non furono mai scritti. È in questa stessa sezione che il romanziere collocherà Papà Goriot, uscito tre anni dopo Il colonnello Chabert e considerato il capolavoro del realismo balzachiano.

  È proprio in questi primi intensissimi anni Trenta – già famoso e frequentatore dei grandi salotti letterari (sarà la sua amica, la duchessa d’Abrantès, ad introdurlo nel salotto di madame de Récamier, autentica Borsa dei «titoli» letterari) – che Balzac concepisce l’idea della Commedia umana, l’idea cioè di collegare i suoi già numerosi racconti e romanzi in un’opera unica nella quale, possano apparire più volte gli stessi personaggi passando di volta in volta dal ruolo di comparse a quello di protagonisti o viceversa.

  L’ambizione è di offrire un quadro completo, brulicante di vita – in un’ottica psicologica, storica e sociologica – delle idee e dei sentimenti della Francia dal primo Impero alla Restaurazione sino alla monarchia di Luigi Filippo. L’occasione per concretizzarla gli è data, nel 1841, dalla prima edizione delle sue opere in sedici volumi. Scriverà Balzac in un famoso preambolo a questa edizione: «La prima idea della Commedia umana nacque come un sogno, uno tra quei tanti progetti impossibili che s’accarezzano e poi si lasciano volar via: una chimera che sorride, rivela il suo volto di donna e apre immediatamente le ali sollevandosi nel cielo della fantasia. Ma questa chimera, come tante chimere, si trasforma ora in realtà imponendo ordini e una sua tirannia alla quale non ci si può sottrarre. Quest’idea è nata da un confronto tra l’Umanità e l’Animalità ...». Nello stesso Avant-propos – sedici fogli che, confessa alla donna amata, madame Hanska, gli hanno comportato più fatica della costruzione di un romanzo – Balzac espone il suo «sistema» paragonandolo a quelli del naturalista Buffon e di Geoffroy Saint-Hilaire, uno dei fondatori dell’anatomia comparata, che sosteneva la tesi della modificazione degli organismi sotto l’impulso degli ambienti esterni.

  Come nella natura le specie animali si sviluppano in modo differenziato a seconda dell’ambiente, non diversamente accade agli uomini all’interno della società. Bisogna studiare un impiegato, un soldato, un banchiere, un mendicante, ecc., allo stesso modo in cui uno scienziato, uno zoologo studiano un lupo, un leone, un corvo, indagando sui caratteri relativi alle condizioni ambientali e sociali. Cercare cioè di catalogare l’umanità secondo i suoi vari gradi di sviluppo sociale, fame tante classi distinte. «Il caso», continua Balzac, «è il più grande romanziere del mondo: per creare basta studiarlo. La società francese deve essere il vero storiografo, e io non voglio che fungerle da segretario. Nel fare l’inventario delle virtù e dei vizi sceglievo gli eventi sociali più notevoli, costruivo personaggi fondendo insieme parecchi individui di carattere affine. Potei così, forse, riuscire a scrivere la storia dei costumi da tanti storici dimenticata».

  Ma l’artista non deve limitarsi a descrivere meccanicamente la realtà, deve anche mettere in evidenza le fondamentali energie che muovono la società e cercare di esprimere attraverso la sua capacità di rappresentazione l’esigenza di un mondo diverso e migliore.

  Nel 1845 Balzac pianifica un altro riordinamento della propria opera che, entro certi limiti, può considerarsi definitivo. Il nuovo piano comprende i titoli di 135 romanzi dei quali 85 finiti (ad essi si aggiungeranno poi altri sei realizzati in seguito) e 50 o appena abbozzati o rimasti sulla carta. La prima parte del nuovo piano della Commedia abbracciagli «Studi dei costumi del XIX secolo» che, a loro volta, comprendono «Scene della vita privata» dove – come abbiamo detto – si trova tra i suoi titoli Il colonnello Chabert; le «Scene della vita di provincia» che intendono descrivere «l’età delle passioni, dei calcoli, degli interessi e delle ambizioni»; le «Scene della vita parigina», quadro dei gusti, dei vizi e di tutte le sfrenatezze «che eccitano i costumi particolari nelle grandi città dove si incontrano insieme il bene estremo e l’estremo male»; le «Scene della vita politica», dove lo scrittore vuole rappresentare delle esistenze-simbolo che riassumono gli interessi di molti o di tutti e che sono in qualche modo fuori della legge comune; le «Scene della vita militare» che rimarranno largamente incompiute e che si propongono di mostrare la società nel suo stadio più violento; e, infine, le «Scene della vita di campagna», fitte di drammi sociali, dove troviamo, dice Balzac, «i caratteri più puri e l’attuazione dei grandi princìpi d’ordine, di politica e di moralità».

  Segue una seconda parte, gli «Studi filosofici», dal più forte contenuto ideologico, che hanno l’obiettivo di spiegare quasi fisiologicamente il comportamento sociale dell’individuo («Balzac», dirà Sainte-Beuve, «si piccava di essere un fisiologo, e lo era certamente, benché con meno rigore ed esattezza di quanto pensasse»). Il piano termina con una terza parte dedicata agli «Studi analitici» che avrebbe dovuto concludere, sotto il profilo storico ed etico, la sua grandiosa indagine sull’esistenza umana condotta su una quantità infinita di persone di ogni categoria sociale con le loro sofferenze, le loro gioie, le loro passioni.

  L’immensità di questo disegno – tanto ambizioso da rifarsi nella sua definizione al poema dantesco – abbraccia al tempo stesso la storia e la critica della società, l’analisi dei suoi mali e la messa in discussione dei suoi princìpi. Pittore e interprete della società del suo tempo, Balzac ne evidenzia lo stato di conflitto permanente tra i diversi gruppi sociali che, già avvertibile durante la Grande Rivoluzione, è divenuto particolarmente acuto durante e dopo la Restaurazione. Prima di lui Saint-Simon, che concepiva i rapporti sociali come «fenomeni fisiologici», aveva identificato la società con le classi economiche. Balzac, pienamente immerso in una realtà umana di affari e politica, ne è consapevole, più di quanto non appaia dalle sue confuse teorie, e coglie l’accelerazione della storia. La gerarchia dei valori umani proposta dai filosofi del XIX secolo e dal romanticismo va ormai sparendo così come l’honnête homme, le sensibilità morbose, l’eroe romantico. Il vero talento, la nobiltà d’animo, i servizi resi al paese (si pensi al nostro Chabert!) hanno cessato di essere segni di distinzione sociale. Si è andati ben oltre e Balzac, che è nel pieno della corrente della vita, con i suoi romanzi elevati a interpretazione filosofica della storia, ci dimostra come nella nuova società emergente la lotta per il denaro e per il successo sia divenuta una condizione determinante per l’essere sociale. «L’unico Dio nel quale si crede è Mammona.»

  Questa lotta senza esclusione di colpi finirà per costituire il destino dei tempi moderni: nella nuova idolatria del denaro tutti saranno coinvolti e in questa terribile gara senza regole varrà solo chi riuscirà ad imporsi. È l’ascesa della borghesia, l’avvento della moderna éra industriale che se non ci faranno rimpiangere il feudalesimo, per tanti aspetti non meno cruento, apriranno però, nel quadro di una coscienza più diffusa, una fase di contraddizioni violente e laceranti nella condizione umana. Sarà questo fenomeno della società moderna – che nell’Europa continentale si manifesterà per primo in Francia – a trovare in Balzac il suo analista più appassionato e nella Commedia umana la sua più alta espressione letteraria.

  Quando Balzac nel 1832 scrive Il colonnello Chabert si respira ancora in Francia l’aria avvelenata e corruttrice della Restaurazione, già politicamente sconfitta. Alla vampata delle tre «gloriose giornate» del luglio di due anni prima, che hanno visto la sollevazione parigina e la cacciata dei Borboni, è seguita un’ondata di cocenti delusioni. Tra gli aristocratici vinti e una gran parte della nuova borghesia degli affari si è creata una sorta di osmosi. La nuova classe dirigente, spaventata dall’esplosione popolare, ha finito per adottare una linea di governo che tradisce di fatto gli ideali della rivolta di luglio. Alla guida del paese sono i banchieri. [...]. Tutta la Francia è percorsa – e lo sarà fino al 1848 – da un’autentica febbre rivoluzionaria dalla quale anche la borghesia più illuminata, malgrado la sua diffidenza per ogni forma di giacobinismo, è largamente contagiata.

  Balzac non è estraneo a questo clima. Già nei giorni appena precedenti alla rivoluzione di luglio aveva denunciato la nuova aristocrazia del denaro con la sua corte di ruffiani ed imbroglioni (esemplare è la figura di Delbecq ne Il colonnello Chabert) e stigmatizzato l’anarchia delle mode, dei costumi e delle idee. La Francia – aveva detto – ha indossato un costume di Arlecchino, dove ciascuno scorge unicamente il proprio colore e lo scambia per quello dominante. Ma le sue radici ideali sono ancora nel passato. Borghese, figlio di borghesi, aspira sin da giovane ad entrare nel mondo dell’aristocrazia. Nel 1831 si appropria con molta disinvoltura della particella nobiliare «de». Per fare effetto sulla «buona società», vuole valletti e carrozze con il suo nuovo stemma, preziose tappezzerie persiane e mobili antichi o creduti tali. Si circonda di un lusso superfluo che lo fa sommergere dai debiti. Nel 1832 cerca, senza fortuna, di candidarsi nel partito legittimista. Invano la più vera e spirituale delle sue donne, Zulma Carraud, tenterà di metterlo in guardia contro queste tentazioni da parvenu. Per entrare nei salotti aristocratici si dà un tono di ricercatezza nel vestire, indossa abiti costosi ma, come dirà lui stesso, «il lusso costa meno dell’eleganza» e non dà gli stessi frutti. Il suo fisico un po’volgare, tipicamente plebeo, finisce per tradirlo. [...].

  Vi è tuttavia in Balzac una sorta di autoironia, di consapevolezza critica che lo riscatta. Non a caso la sua analisi di artista e di sociologo contraddice il suo costume di vita e tutte le sue premesse ideologiche che fanno della monarchia e del cattolicesimo le basi spirituali e morali della società.

  Lo vedrà lucidamente Engels che, in una famosa lettera del 1888 alla scrittrice inglese Margaret Harkness [...].

  In effetti il legittimismo di Balzac è ben strana cosa. «La politica di Balzac è tutta un romanzo», dirà Taine. A leggere certe sue affermazioni si resta colpiti dall’estremo conservatorismo che contrasta con le analisi sociali dei suoi romanzi. Nelle sue Lettres sur Paris, pubblicate anonime sul Voleur tra il settembre 1830 e il marzo 1831, Balzac afferma: «Il grande principio che le moderne istituzioni debbono favorire è quello di tenere a bada le classi povere dando però la possibilità di farsi strada alle intelligenze superiori che vi si trovano, ma insieme quello di assicurare la tranquillità delle classi agiate». Tuttavia il conservatorismo di Balzac ha dietro di sé una concezione complessa, anche se non priva di ingenuità e confusioni, in cui confluiscono varie motivazioni spesso tutt’altro che reazionarie: in primo luogo il suo pensiero «energetico» nel quale crede ciecamente e che lo fa «simpatizzare con la rivoluzione: con quella del 1789, del 1793 e anche del 1830», come scrive il grande storico tedesco Curtius nella sua acuta monografia su Balzac. Lo scrittore di Tours, pur non essendo un democratico e diffidando degli «immortali princìpi» dell’89, ammirava in effetti la condensazione di energie insita nell’azione rivoluzionaria. Dinanzi a un «dispotismo spirituale che fiacca le energie vitali di una nazione la rivoluzione può significare un ’esplosione di energie salutare». E, a proposito di un suo viaggio nel meridione d’Italia (che dal 1815 ha visto la restaurazione dei Borboni), parlando dell’orrenda «piaga della vita napoletana» Balzac lancia la sua invettiva contro «la superstizione e il dispotismo». Il benessere delle masse costituisce – per lo scrittore – «il fondamento stesso della vita politica» (e a suo avviso può essere ottenuto solo con la concentrazione del potere, sia esso di destra o di sinistra). E altre motivazioni si susseguono in questa direzione: la costante attenzione verso gli elementi produttivi della società, in particolare verso i giovani, la reazione a un parlamentarismo parolaio, un sincero cattolicesimo sociale mutuato da Lamennais, una comprensione totale per tutti gli «umiliati e offesi» della società.

  Uno degli «umiliati e offesi» è il protagonista de Il colonnello Chabert. Questo romanzo, ambientato nei primi decenni del secolo, può ben definirsi il romanzo della seconda Restaurazione, quella successiva al disastro di Waterloo e alla seconda abdicazione di Napoleone Bonaparte. L’ancien régime sta rialzando la testa. [...].

  L’analisi di Balzac è spietata: la contessa Ferraud, l’ex moglie del colonnello Chabert, ci rivela tutta la rozzezza d’animo, la miseria morale di un’intera società. Le grandes dames della nuova Francia non sono più ormai le madame de Staël o le madame Récamier, ma donne senza scrupoli spesso al centro di intrighi e di macchinazioni per cupidigia di denaro e smania di potere. Nella nuova aristocrazia non vi è nemmeno una briciola di pietà, la legge ferrea del denaro non lascia spazio ai sentimenti e a un minimo di umanità.

  «Sono stato sepolto in mezzo ai morti», dirà Chabert, «ma oggi sono sepolto in mezzo ai vivi, sepolto da atti, circostanze dell’intera società che vorrebbe rispedirmi sotto terra». L’amore per la sua donna finisce insieme con il crollo dei vecchi valori della società quale la conosceva prima della sua morte apparente. Chabert è di fatto un disadattato, il frutto delle contraddizioni della transizione. È lontano dalle vere, grandi passioni degli eroi balzachiani. Gli indizi sempre più evidenti della fondamentale meschinità della moglie, accumulandosi, lo distruggono lentamente, e a poco a poco Chabert comprende che nel mondo moderno la realtà dell’amore è soggetta alla fatalità economica. Nemmeno l’amore-caritas gli è permesso. Alla fine ogni forma di egoismo è sparita – compresa la volontà di possesso della donna amata – ed egli, che nel suo laicismo non ha nemmeno il conforto della fede, finisce per votarsi al proprio annientamento.

  Vi è ancora, in Balzac, anche in questo romanzo, qualche eco della stagione romantica che l’ha preceduto: la sua tendenza a fare di Chabert un santo laico e demonizzare la contessa Ferraud corrisponde al suo temperamento passionale, fervido e a volte acritico. Sarebbe d’altronde assurda una contrapposizione meccanica tra le due correnti letterarie, il romanticismo e il realismo. In effetti il romanticismo ha anch’esso scoperto il mondo concreto, ha frugato nell’anima di individui eccezionali e, alla fin fine, è alle radici del realismo. Ma se il romanticismo abbraccia il reale soggettivamente, il realismo balzachiano che gli succede antepone l’analisi alla sintesi, l’indagine minuziosa all’intuizione globale. [...].

  Grande ritrattista, Balzac con la sua arte di narratore essenziale e consumato fa vivere i personaggi del suo romanzo dall’interno, nei loro pensieri e nei loro sentimenti, anche facendo ricorso alla manifestazione diretta delle loro riflessioni. Egli costruisce via via i tratti fondamentali dei suoi protagonisti con la stessa precisione con la quale illumina tutto ciò che intorno a oro e tipico sia dal punto di vista della loro classe sociale, sia da quello, più generale, della transizione storica. Persino in personaggi così diversi tra loro (come Chabert, la signora Ferraud, l’avvocato) Balzac riesce a rendere evidente, attraverso la finezza dell’analisi psicologica, l’intima unità del processo di sviluppo sociale.

  La descrizione dei luoghi, delle fisionomie, dell’abbigliamento induce in Balzac ad una rappresentazione unitaria ed organica. Si veda l’efficacia della presentazione della figura di Chabert al suo apparire nello studio dell’avvocato Derville, col suo malandato pastrano, o le note sui suoi tratti fisici in occasione del primo colloquio o ancora la creazione di un’atmosfera angosciosa attraverso lo scenario degli squallidi sobborghi parigini.

  Nell’epoca scientista e positivista in cui si afferma, il romanzo può giustificare la sua esistenza e la sua importanza solo sacrificando la fantasia all’osservazione. E Balzac, che questa qualità, insieme a quella della tecnica romanzesca, ha acquisito nel suo apprendistato letterario, come osservatore è certamente insuperabile.

  In un suo scritto sull’Esposizione Universale del 1855, Baudelaire ricorda a questo proposito un curioso aneddoto sull’autore di Papà Goriot: «Si racconta che Balzac ..., trovandosi un giorno di fronte a un bel quadro, un paesaggio invernale malinconico e tutto ghiacciato, sparso qua e là di capanne e di contadini sparuti – dopo aver guardato a lungo una casupola da cui saliva un esile fumo – esclamasse: “Che bello! Ma che fanno nella capanna? A che pensano? E quali sono i loro affanni? È stato buono il raccolto? Hanno davvero scadenze da pagare?”».

  Se il racconto di Chabert a Derville ha l’evidenza e l’incisività di una grande sequenza cinematografica, non meno efficace è nel romanzo la descrizione del mondo giudiziario del tempo. Quel piccolo, pungente affresco dello studio d’avvocato che apre il racconto è di una straordinaria potenza e modernità. Così come la rappresentazione di quelle disastrate aule di tribunale dove si trascina un’umanità dolente, quella parte della società parigina che sembra non avere alcun diritto civile e che ha visto segnato il proprio drammatico destino fin dalla nascita.

  La conclusione del romanzo, moraleggiante come spesso accade a Balzac, è tutto in un’amara considerazione che l’avvocato Derville, ormai invecchiato e ansioso di fuggire i miasmi di una Parigi inquinata materialmente e moralmente, fa al suo ex scrivano: «Esistono nella nostra società tre tipi di persone, il prete, il medico e l’uomo di legge, che non possono stimare il mondo. Vanno vestiti di nero forse perché portano il lutto di tutte le virtù e di tutte le illusioni».

  Con Il colonnello Chabert Balzac abbandona definitivamente la ricerca del romanzesco nel romantico che aveva portato avanti fino ad allora inseguendo soggetti storici (Les Chouans) o facendo uso del fantastico e del mistico (La pelle di zigrino). Il suo racconto è asciutto e incisivo. [...].

  In questo senso, il lungo racconto del 1832 è un punto di passaggio importante e avvierà per Balzac lo sviluppo delle grandi prospettive della Commedia umana. [...].

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione [1. La “Comédie humaine” fra illusione e realtà; 2. Da un frammento all’altro: Frenhofer e Cuvier; 3. Lucciole e geroglifici: la lezione di Lavater; 4. Il visibile e l’invisibile], in Honoré de Balzac, La Commedia umana ... cit., pp. XI-L.

 

  L’A. espone i fondamenti teorici e i riflessi programmatici e narrativi della complessa poetica del romanzo balzachiano, alla luce di una significativa dicotomia tra frammento e tutto. Se nel geniale Frenhofer del Chef-d’oeuvre inconnu la volontà troppo violenta di perfezione rappresenta «soltanto uno degli esiti possibili della tentazione di ricreare la natura», il metodo di Cuvier, fondatore dell’anatomia comparata, rappresenta agli occhi di Balzac «la più felice metafora e al tempo stesso il più utile modello per il lavoro del romanziere» (p. XXI). Il particolare che, sublimato nello slancio visionario di Frenhofer, decretava la morte dell’arte, viene reintegrato, attraverso Cuvier, in un sistema unitario e «cessa di essere isolato, insignificante, fine a se stesso, per divenire un gradino verso la comprensione e la rappresentazione del tutto» (p. XXIII). Allo stesso modo sarà, in un secondo momento, la lezione di Lavater ad assumere, nell’opera di Balzac, forme e significati particolarmente rilevanti, perché segnati da un’onnipresenza di segni e di decifrazioni che «condiziona il destino dei personaggi, innerva ogni descrizione di oggetti e di luoghi, e infine trionfa nel lavoro stesso del romanziere, strenua fatica d’interprete chino sul geroglifico immenso della vita contemporanea» (p. XXXI), perennemente segnato dalla duplice influenza del visibile e dell’invisibile.

 

  Avrete visto, a volte, un grosso bruco dalle

molteplici zampe, dalle fauci infaticabili,

addormentarsi e trasformarsi dentro lo

spesso involucro che si è tessuto; ne vien

fuori a fatica una farfalla pesante, che s’impiglia

nei resti della sua crisalide e se ne nutre,

e che le ali magnifiche ed enormi sollevano

altissima nell’aria. Così è Balzac ...

Hippolyte Taine

 

1. La «Comédie humaine» fra illusione e realtà.

 

  Il 18 giugno 1852, a quasi due anni dalla morte di Balzac, un quotidiano parigino, «Le Constitutionnel», ospitò un breve racconto che era un omaggio semiserio al romanziere scomparso e s’intitolava La centesima rappresentazione di «Mercadet». L’autore, Albéric Second, era un letterato trentacinquenne destinato a una lunga carriera di commediografo mediocre, di insipido narratore e di giornalista benpensante; il momento più glorioso della sua vita risaliva a quando, sedicenne, nella natia Angoulême, aveva accompagnato Balzac in una rapida visita della città, a caccia di immagini e sfondi per la prima parte di Illusions perdues. Mercadet – la commedia che Balzac aveva vanamente cercato di far portare sulle scene nel 1840 e nel 1848, con il titolo Le faiseur (L’affarista) – conosceva nel 1852 uno strepitoso trionfo postumo: dalla prima rappresentazione, avvenuta al Gymnase il 23 agosto 1851, l’entusiasmo del pubblico non accennava a declinare, come testimoniava anche il moltiplicarsi delle edizioni del testo, avviato ormai a diventare un classico.

  Second raccontava dunque di essersi installato in una poltrona del Gymnase prima dell'inizio dello spettacolo e di esser stato colpito dal comportamento bizzarro del suo vicino, un cinquantenne di grande eleganza, la cui fisionomia gli era vagamente familiare. Il distinto signore puntava il binocolo ora su un palco, ora su una poltrona, e accennava gesti di saluto, sempre rivolgendosi, però, verso poltrone vuote, verso palchi bui e privi di spettatori. Quando l’eccentrico individuo gli porse il suo biglietto da visita, Second vi lesse un nome che accrebbe ancora il suo sbalordimento: «Il conte Eugène de Rastignac». Con un rapido gesto da illusionista, Rastignac gli sfiorò allora la fronte; egli avvertì una forte scossa e uno straordinario potenziamento delle proprie facoltà visive. Da quel momento anche ai suoi occhi i palchi deserti e le poltrone vuote non furono più tali; si rivelarono occupati da dandies pieni di fascino e dame abbigliate con una ricchezza da Mille e una notte. «Ci sono quasi tutti» gli disse l’antico ospite della pensione Vauquer. «I principali personaggi della Comédie humaine hanno fatto come lei e me; hanno tenuto ad assistere alla centesima rappresentazione di Mercadet». Sfilarono così davanti a Second e al suo nuovo amico la gelida seduttrice Béatrix e l’ex ballerina Tullia; si pavoneggiava il «principe della Bohème», la Palférine, che indossava per l’occasione un «gilè fantasmagorico». I presenti erano numerosi, ma Rastignac risultava al corrente anche del destino degli assenti. «Ci sono notizie» gli chiese Second «di quella Eugénie Turquet, detta Malaga, di cui Balzac ha disegnato, nella Fausse maîtresse, un ritratto abbagliante?» «È in California, dove sgranocchia lingotti d’oro come a Parigi sgranocchiava pralines. Quando si hanno denti come i suoi!».

  Il finale era quello di tante narrazioni analoghe: richiamato alla realtà da un conoscente, il giovane scrittore si accorgeva di essere stato vittima di un colpo di sonno e di aver sognato. Intorno a lui, invece dell’aristocratico Rastignac e delle altre silhouettes balzachiane, scorgeva deluso «facce insignificanti» e «tipi comuni», volti privi di rilievo come medaglie consunte; l’umanità vigorosa e colorita della sua visione aveva lasciato il posto a una folla anonima e spenta.

  Ho voluto ricordare questo ingegnoso raccontino, tutto intessuto di complici ammiccamenti ai frequentatori fedeli della Comédie humaine, perché mi pare realizzi, nel modo più esplicito e immediato, una fantasia ricorrente tra i lettori di Balzac, dall’Ottocento ai nostri giorni. È la fantasia di veder scomparire, almeno per un istante, i confini tra realtà e finzione; il sogno di veder assumere al romanzo la pienezza corposa, indiscussa e tangibile della verità storica.

  Per i lettori del secolo passato, abbandonarsi a questa fantasia, trasformarla in un gioco più o meno letterario, non era troppo difficile. Paul Bourget, maestro del roman d’analyse negli anni ʼ80 del XIX secolo, ci ha lasciato l’evocazione di un curioso personaggio che di questo gioco aveva fatto una delle sue ragioni di vita, il suo amico Anatole Cerfberr. Dopo anni e anni di lavoro, Cerfberr aveva pubblicato, insieme a Jules Christophe, nel 1887, il primo dizionario biografico dei personaggi, storici e immaginari, della Comédie humaine. Era un coscienzioso e integerrimo funzionario delle ferrovie del Nord; ma la passione balzachiana, che sapeva condivisa da Bourget, lo induceva a comportamenti eccentrici. Quando aveva appuntamento con l’amico romanziere, spesso faceva la sua comparsa guardandosi intorno con aria circospetta, come braccato dalla polizia. Con il volto seminascosto dal bavero rialzato, parlando sottovoce, trascinava Bourget verso un fiacre sordido e malridotto, fermo a un angolo della strada Lo faceva salire e dopo un po’, all’ingresso di un oscuro passage, scendeva precipitosamente e scompariva sussurrandogli con una strizzatina d’occhio. «Oggi sono Ferragus, capo dei Dévorants». Quando gravemente ammalato, si sentì vicino alla fine, fece a Bourget un’ultima visita: «Credo di avere una delle tre malattie misteriose descritte da Balzac» gli disse, «questo mi consola di morire». Più sofisticato e sottile del candido Cerfberr, anche Oscar Wilde manifestava un’analoga predilezione per il mondo balzachiano contrapposto al mondo reale. «Una regolare frequentazione di Balzac» leggiamo in The decay of lying, del 1891, «riduce i nostri amici vivi a ombre, e i nostri conoscenti a ombre di ombre. I suoi personaggi hanno una sorta di fervida esistenza dai colori di fiamma. Ci dominano, e sfidano lo scetticismo. Una delle più grandi tragedie della mia vita è la morte di Lucien de Rubempré».

  Se dagli anni ʼ50 agli anni ’90 dell’Ottocento il filo ben riconoscibile di un’illusione comune collega Albéric Second, Anatole Cerfberr e Oscar Wilde, il sognatore svagato, il fanatico compilatore e l’esteta, tutti egualmente desiderosi di penetrare nella Comédie humaine come Alice entra nel mondo che sta dall’altra parte dello specchio, in seguito la fascinazione dei lettori davanti alla prodigiosa concretezza dell’universo balzachiano viene assumendo forme meno ingenue e fantasiose. Man mano che il trascorrere degli anni trasforma in materia di storia le società dell’Impero, della Restaurazione e dell’età di Luigi Filippo, descritte nella Comédie humaine, l’ammirazione dei lettori e degli esegeti si va concentrando proprio sul valore storico della testimonianza balzachiana. Prendendo spunto dal monumentale repertorio di Cerfberr e Christophe, Anatole France elogia su «Le Temps» del 29 maggio 1887 Balzac, «storico perspicace della società del suo tempo» ed aggiunge, soffermandosi sulle doti pittoriche del romanziere: «Per il rilievo e la profondità, Balzac non può essere paragonato a nessuno. Ha, più di chiunque altro, l’istinto della vita». Gli fa eco Gustave Lanson, nella sua Histoire de la littérature française del 1896, destinata a dettar legge per mezzo secolo nelle scuole. Ai suoi occhi, pur con mille macchie e imperfezioni la Comédie humaine è «un mondo che dà la sensazione della vita». Il lettore cui accada di sfogliare il repertorio di Cerfberr e Christophe, nota Lanson compiaciuto, è costretto ad uno sforzo per distinguere i personaggi immaginari dagli individui storici che ad essi si alternano; la «potenza d’illusione» del romanzo balzachiano è tale da abolire il sottile diaframma che lo separa dalla storia.

  Con questa notazione di Lanson, il mito della Comédie humaine come sublime contraffazione del mondo reale, che offre a chi l’accosta un’inebriante, perfetta e momentanea confusione tra finzione e verità, cessava di essere appannaggio dei balzachiani appassionati e degli artisti per divenire patrimonio del senso comune, idée reçue universalmente accettata. Non se ne sarebbe discostato Brunetière affermando, nella sua monografia del 1906, la necessità, per il critico, di subordinare tutte le qualità accessorie del romanzo balzachiano alla sua qualità «prima e fondamentale»: «la ressemblance avec la vie»? Nel frattempo, però, uno storico vero e proprio, Albert Sorel, grande specialista di storia diplomatica, si era spinto ancora più avanti nella stessa direzione: aveva proclamato la finzione balzachiana non solo indiscernibile dalla realtà storica, ma più vera della verità stessa. Recensendo un lavoro di un altro storico, Georges Lenôtre, Sorel aveva rievocato su «Le Temps» del 1 ottobre 1901 un fosco dramma dei tempi del primo Impero. Due gentildonne normanne, madre e figlia, avevano partecipato nel 1807 ad un complotto antibonapartista e si erano trovate coinvolte in una sanguinosa rapina, destinata a finanziare la cospirazione. Tradite da un complice, erano poi state processate e condannate. Il loro destino, ampiamente ritoccato, aveva fornito a Balzac la materia per uno dei suoi ultimi romanzi, L’envers de l’histoire contemporaine. Sorel poneva a confronto documenti autentici sull'episodio, riprodotti da Lenôtre, e la rielaborazione balzachiana, sottolineando diligentemente le libertà che il romanziere si era prese nei confronti della storia. Dalla sua analisi emergeva una conclusione sorprendente: il racconto balzachiano era più vero della nuda realtà dei fatti. Come esempio, Sorel prendeva la lista degli imputati al processo, corredata dei loro soprannomi e di una succinta esposizione dei misfatti compiuti. «La lista autentica» notava «è solo una lista di nomi insignificanti. Che sapore, invece, che forza di suggestione in quella di Balzac; e in quella prigione di provincia, quanti spiragli aperti sulla storia del tempo!» Riscritta da Balzac, anche la requisitoria del pubblico ministero diveniva tutt’altra cosa. «Com’e più interessante» esclamava Sorel entusiasta, confrontandola con l’originale, «e più vera, nello stesso tempo! Com’è stile Impero!» I confini tra finzione balzachiana e realtà svanivano ancora una volta; ora, a cancellarli, era lo sguardo complice dello storico affascinato Una cinquantina d’anni dopo, uno storico in tutto diverso da Albert Sorel, Louis Chevalier, avrebbe constatato il perdurare di quella fascinazione e l’avrebbe attentamente descritta, senza cercare di dissiparne l’incantesimo.

  «Gli storici» scriverà Chevalier nel 1964 «si fidano di Balzac, spontaneamente, perché molte delle descrizioni della Comédie humaine somigliano, tanto da indurre in errore, a quei documenti d’archivio ai quali sono abituati. Nella forma e nel contenuto. Dei documenti d’archivio hanno spesso la precisione e l’incompiutezza, lo scrupolo meticoloso del particolare e l’indifferenza alle contraddizioni, infine la scrittura rapida, le imperfezioni formali, le distrazioni, le goffaggini, la volgarità, la rugosità. Del sasso che il mare ha gettato sulla spiaggia e ch’egli trova sotto i suoi passi, Paul Valéry ammira che imiti l’opera d’arte. Con Balzac, è l’opera d’arte che imita la natura. Di qui nasce la tentazione per lo storico di ravvisare in quest’opera, come nel più umile dei documenti sui quali lavora, la traccia di quel che è stato e non il risultato di un’invenzione».

  È d’altronde a Balzac stesso che dobbiamo risalire se vogliamo trovare, nella sua forma originaria, l’immagine della Comédie humaine come duplicato del mondo reale perfetto sino al trompe-l’-oeil. Non soltanto egli ama discorrere dei propri personaggi come fossero creature in carne ed ossa, ma nulla gli sta a cuore quanto assicurare ai posteri che, grazie alle sue descrizioni, potranno farsi un’idea precisa e fedele di luoghi e cose in via di sparizione: vecchie botteghe e quartieri demoliti, carrozze di foggia desueta e soprabiti fuori moda, mobili antiquati e romanzi dell’Impero. Nell’Avant-propos del 1842 il suo sguardo accarezza con soddisfazione l’immagine del reale compatta, esaustiva, senza lacune che gli sta davanti: «La mia opera ha la sua geografia, come ha la sua genealogia e le sue famiglie, i suoi luoghi e le sue cose, le sue persone e i suoi fatti; come ha il suo armoriale, i suoi nobili e i suoi borghesi, i suoi artigiani e i suoi contadini, i suoi politici e i suoi dandies, il suo esercito, insomma tutto il suo mondo!».

  In queste righe compiaciute Balzac celebra la realtà a tutto tondo della Comédie humaine; la realtà dotala di quel relief che offre al lettore il brivido dell’illusione, il miraggio dell’ambiguità tra vero e falso, lo stupore davanti alla riuscita perfetta dell’imitazione. A differenza però di molti dei suoi critici, su questo relief, su questa apparenza ingannevole di pienezza e di vita che l’artista conferisce alla propria creazione, Balzac si è anche interrogato a fondo. La sede di questa interrogazione è uno dei racconti più suggestivi della Comédie humaine, Le chef-d’oeuvre inconnu, ed il suo protagonista, il pittore Frenhofer, è tra le figure d’artista create da Balzac una delle più ricche di insegnamenti sulla complessità della sua poetica. [...].

 

 

  Michel Butor, Balzac e la realtà [trad. di Raffaele Donnarumma], in Honoré de Balzac, Papà Goriot ... cit., pp. 303-322.

 

  Cfr., con altra traduzione, 1961.

 

 

  Ferdinando Camon, Introduzione, in Honoré de Balzac, Il medico di campagna ... cit., pp. VII-XX.

 

  Cfr. 1977.

 

 

  Luigi Capuana, Per l’arte, a cura di Riccardo Scrivano, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994 («Letteratura, Testi», 1).

 

  Cfr. 1885.

 

 

  Luciano Carcereri, Editoria e critica balzacchiana in Italia (1851 1875), «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia», Bari, Università degli Studi, XXXV-XXXVI, 1992-1993, Cacucci, 1994, pp. 487-548.

 

  Lo studio si articola in due momenti fondamentali: il primo, dedicato alle edizioni italiane delle opere e il secondo a citazioni, riferimenti e saggi critici su Balzac e sulla sua produzione narrativa, la cui descrizione bibliografica si fonda rigorosamente sull’«esame direttamente effettuato sugli esemplari» (p. 504).

  Nell’introduzione che precede la rassegna, Carcereri riflette sulla presenza e sull’influenza di Balzac nella cultura italiana della seconda metà dell'Ottocento, rilevando la scarsa diffusione delle opere dello scrittore attraverso i canali della traduzione, nonostante le trasformazioni prodottesi all’interno dei circuiti del mercato editoriale italiano, particolarmente attento alla diffusione della cosiddetta letteratura popolare. Orientandosi maggiormente verso autori più “à la mode” come Dumas, Sue o Paul de Kock, l’editoria, in Italia, almeno fino al 1880, non riconosce a Balzac le qualità di un «autore della letteratura maggiore» (p. 493), né tantomeno l’efficacia e l’opportunità di una sua promozione come scrittore di romanzi d’appendice. Scarsa risulta quindi la rilevanza commerciale ed editoriale di Balzac e delle sue opere: le traduzioni dalla Comédie humaine «non rientrano, se non marginalmente, nel mercato librario di questo periodo e forse proprio per questo sono altrettanto scadenti e solo raramente redatte sull'ultima versione delle opere» (p. 495), complice anche il fatto che ci si riferisca alle famigerate edizioni belghe che propongono quasi sempre il testo nella sua edizione preoriginale o al massimo nella sua prima edizione originale. Per quanto riguarda le allusioni a Balzac presenti nei riferimenti critici citati e, in molti casi, opportunamente trascritti, esse rendono conto del perdurare di una ostilità da parte degli intellettuali romantici e risorgimentali nei confronti del romanziere e di censure moralistiche che si attenueranno solamente durante il periodo verista.

 

 

  Carlo Carlino, Quelle case da libro di Proust e Balzac, «l’Unità», Roma, 9 luglio 1994, p. 10.

 

  Su: Giuseppe Scaraffia, Torri d’avorio.

 

  Quel «monumento in versi» fu l’apice dell’ostentazione, con il salone che ospitava una preziosa collezione di armi esotiche e gli oggetti raccolti nei suoi innumerevoli viaggi, e la fantasmagoria della camera moresca. «La bomboniera più regale che esista», sentenziò l’invidioso Balzac. Il quale era capace di saltare un pasto piuttosto che rinunciare al superfluo. E nei suoi miseri alloggi, avvolto in un lungo cappotto, perseguitato dai creditori, si accaniva sui fogli con accanto la caffettiera di porcellana bianca decorata in blu con le cifre dell’usurpata corona nobiliare, e fiero delle sue posate d’argento. Il successo giunse con La pelle di zigrino. E allora diede sfogo a tutti i suoi sogni, arredando il suo «nido» di bianco, rosso e oro, con tele attribuite a Giorgione, a Palma il Vecchio, tappeti persiani, cuscini variopinti, pendole, porcellane cinesi del XII secolo.

 

 

  Alberto Castoldi, Cento anni di scambi culturali, in AA.VV., Francesi in Italia. A cura di Carlo Berselli, Milano, Libri Scheiwiller, 1994, pp. 105-118.

 

  [...]. Nel corso dell’Ottocento questo quadro si va ulteriormente precisando, istituendo sempre più una divaricazione fra grandiosità del passato e miseria del presente, connotando l’Italia in un’atmosfera di decadenza che è all’origine sia di un atteggiamento di superiorità da parte della cultura francese, sia di una certa curiosità che sconfina con la fascinazione, per la possibilità che le è offerta di assistere all’agonia di una civiltà.

  Balzac in uno dei suoi racconti più suggestivi, Massimilla Doni, ci testimonia di questa atmosfera, ambientandola nella città che da allora diventa l’emblema stesso della decadenza, vale a dire Venezia [...].

  Più oltre, sempre nello stesso racconto, Balzac, prendendo spunto dall’esistenza che i suoi protagonisti conducono a Venezia, esprime un giudizio complessivo sul modello di vita degli italiani, che sarebbe caratterizzato dal «dolce far niente» e che per la sua singolarità richiede un certo studio per essere compreso [...].

  L’atmosfera descritta da Balzac sembra avere un carattere inaugurale, dato che resterà costante fino alla fine del secolo nel giudizio degli intellettuali francesi sull’Italia [...].

 

 

  Alberto Castoldi, Introduzione, in Honoré de Balzac, Casa di scapolo ... cit., pp. 1-11.

 

  La redazione di Casa di scapolo, 1841-1842, coincide per Balzac con il momento di più intensa meditazione sulla natura dell’opera letteraria e sull’organizzazione interna del proprio lavoro creativo. Nel periodo compreso fra il luglio e il settembre del 1840 aveva pubblicato i tre numeri della «Revue parisienne» da lui quasi interamente redatta, in cui era apparso il celebre saggio sulla Chartreuse de Parme di Stendhal. Qui Balzac aveva avuto modo di disegnare una prima, vasta, prospettiva sulla letteratura del secolo, segnalandone con grande consapevolezza le novità e le varie componenti, distinguendo in particolare fra una Littérature des images, legata ai modelli di Rousseau e Chateaubriand, essenzialmente lirico-contemplativa, e una Littérature des idées, generata dalla cultura illuminista e caratterizzata dall’intensità drammatica. Personalmente Balzac si collocava insieme a Walter Scott e George Sand in una situazione intermedia, che tendeva, ancor più che a conciliare, a prendere le distanze dalla contrapposizione, sentita ormai come superata, fra classici e romantici. [...].

  La corrispondenza intrattenuta per circa un ventennio con Mme Hanska, dapprima ammiratrice, poi interlocutore privilegiato e infine moglie dello scrittore, è lì a documentare la straordinaria operosità balzachiana e le sofferenze che comportava. Le lettere, e in particolare quelle del periodo attinente alla composizione di Casa di scapolo sono assai spesso dei veri e propri elenchi di impegni lavorativi, in sequenze vertiginose [...].

  Con Balzac la scrittura si tramuta da esperienza variamente gratificante in un universo concentrazionario, dominato dalla sofferenza e dalla fatica, inaugurando così un mito che sarà poi coltivato fino alla fine dell’Ottocento, ma dislocandosi sempre più sul versante del tormento creativo (Flaubert, Mallarmé): «Lavorando giorno e notte, e impegnandomi ancora per 6 mesi in lavori da Ercole letterario, ho pagato centomila franchi». Ma le difficoltà economiche e il logoramento fisico causato da un lavoro estenuante non sono l’unico dramma di un’esistenza dilapidata in infinite iniziative d’ogni genere, acquisti, vendite, rapporti con l’ambiente politico e letterario, quegli «impegni enormi, il cui peso finirà con il travolgermi» come egli stesso dichiara nel 1841 a Mme Hanska: è reduce da un inverosimile tentativo di sfruttare delle miniere in Sardegna e afflitto da innumerevoli debiti, per cui è costretto a lasciare la villetta che s’è fatto costruire a Les Jardies. Hanno un’incidenza notevole anche gli infelici legami affettivi di Balzac con la propria interlocutrice [...]e soprattutto con la madre. [...].

  Nel corso del 1842 le lamentele nei confronti della madre sono particolarmente frequenti, le rimprovera d’essere la causa di tutti i suoi mali, di trovargli moglie ogni quindici giorni, di calunniarlo, di averlo rovinato, ma soprattutto di non averlo amato: «Non ho avuto né madre, né infanzia» (20 dicembre 1842). Tocchiamo qui un punto fondamentale dell’amore-odio di Balzac per la madre, costituito dalla sua gelosia nei confronti del fratello Henry, il figlio prediletto che aveva sposato nell’isola di Mauritius una donna da lui ritenuta a torto molto ricca: «Finalmente, se tutto va bene, ecco uno dei tuoi figli sistemato meglio degli altri due!», aveva commentato l’evento Balzac nel 1832. Ma di fatto le cose volgeranno al peggio ed egli potrà scrivere nel 1841 a Mme Hanska: «D’altra parte mia madre s’è rovinata per mio fratello Henry, che è nelle colonie, mentre lei è con me». Questa gelosia gli farà rispondere polemicamente ancora nel 1849 alla madre: «Non ti chiedo certo di fingere dei sentimenti che non provi, perché tu e Dio sapete bene che non mi hai soffocato di carezze né di tenerezza da quando sono al mondo; e hai fatto bene, perché se tu mi avessi amato come hai amato Henry, sarei senza dubbio là dove è lui». Egli si sentirà insomma, costantemente, come un estraneo nella propria famiglia, di fronte a una madre-chioccia che «ha covato l’uovo di un volatile estraneo al pollaio».

  È da questa consapevolezza che trae palesemente spunto La Rabouilleuse, il cui titolo, per quanto particolarmente felice (è il soprannome della protagonista femminile, Flore Brazier, il cui mestiere da bambina era quello di agitare l’acqua dei fossi, rabouiller, per indurre i gamberetti a venire a galla e facilitarne così la pesca), è da intendersi verosimilmente adottato in funzione dell’occultamento di quanto risultava fin troppo evidente nella prima titolazione adottata: Les deux frères. Il romanzo è da annoverare fra quelli più autobiografici di Balzac, anche se gli eventi narrati non sono strettamente attinenti alla vita dello scrittore, purché si consideri la sua complessa strutturazione come il luogo mentale in cui l’autore regola i propri conflitti interiori. [...].

  Agathe riproduce, esasperandole, le contraddizioni che Balzac andava rinvenendo nella propria madre: da una parte un’abnegazione che sconfina nella santità, e dall’altra una cecità assoluta nei confronti di chi veramente dimostrava di amarla. Di qui la possibilità per lo scrittore di vagheggiare un riequilibrio in ambito romanzesco di questa dissonanza, attraverso l’intervento di un sacerdote che esorta la donna morente, con tutta l’autorevolezza del suo ruolo e con la gravità che impone la circostanza, a rivolgere finalmente il suo affetto a chi effettivamente lo merita [...].

  Mentre Agathe campeggia nella prima parte del romanzo, nella seconda è Flore Brazier, la Rabouilleuse, il personaggio femminile più rilevante. [...].

  L’enfatizzazione dei personaggi femminili in ruoli dominanti (Agathe, Flore), non è però destinata soltanto a evidenziare la figura materna, ma denuncia anche un’assenza, quella maschile, e paterna in particolare, sottolineata fm dalla dedica a Nodier [...]. Nell’equivalenza proposta fra autorità paterna e regale, la decadenza della prima, o addirittura la mancanza come in Casa di scapolo determina una sorta di castrazione generalizzata, che fa dei personaggi maschili i relitti di un naufragio epocale, quello conseguente al regicidio e alla morte dell’imperatore. Gli ideali del passato si ripropongono in chiave degradata e parodica: Philippe Bridau e Maxence Gilet si scontrano per la conquista di un’eredità e di una posizione sociale, non per gli ideali che avevano praticato e che avrebbero dovuto accomunarli, e di fatto essi sono essenzialmente identici, fatta eccezione per il carattere più tenebroso del primo e più ironico del secondo. La mancanza di un’autorità sociale li condanna però a essere entrambi alla deriva, e le loro qualità guerresche possono esercitarsi soltanto lontano da Parigi, in una provincia da cui è espunta l’aristocrazia, e tutta consegnata alla mentalità borghese.

  È significativo al riguardo che la fallimentarità di Philippe a Parigi, dove precipita nella miseria più assoluta, si risolva in un facile successo in provincia, al punto che la ricchezza acquisita a Issoudun gli consente di tornare nella capitale in posizione privilegiata e di riuscire addirittura ad aggregarsi alla nobiltà con il titolo di conte di Brambourg. Ma al successo sociale non corrisponde un reale mutamento in Philippe, che ripropone nel suo comportamento devastante le conseguenze di quello che costituisce una sorta di suo «manque» originario, la castrazione paterna. Il suo disprezzo per il mondo femminile [...] lo induce a lasciar morire con assoluto cinismo tutti i personaggi femminili che gravitano attorno a lui: la madre, la moglie, l’amante, mentre rifiuterà di aiutare il fratello Joseph che, in quanto artista, è assimilato all’ambito del femminile. [...].

  Il costituirsi della prima parte del romanzo come ritratto dei rapporti dell’autore con la propria famiglia e con se stesso determina sia la sua dilatazione rispetto al progetto iniziale, sia il ripensamento della seconda, che infatti richiederà un intervallo di quasi due anni per essere affrontata. Questa interruzione però ha la sua ragion d’essere anche nel ripensamento complessivo del proprio progetto di scrittura che troverà la sua espressione nella Comédie humaine. In particolare s’imporrà la necessità di tessere un legame preciso fra i vari romanzi, secondo un’economia narrativa incentrata sui personaggi che ritornano, facendosi ogni volta portatori di tutte quelle caratteristiche che via via li avevano definiti in altre opere. Di qui la necessità di tracciare all’esordio di Casa di scapolo un complesso quadro di riferimento sociale a tutte le vicende narrate, poiché in esse confluiscono personaggi delineati altrove, e a loro volta annunciano protagonisti che troveranno piena definizione soltanto in opere successive.

  La seconda parte del romanzo è ambientata a Issoudun, «una delle più antiche città di Francia», assunta da Balzac a simbolo di quanto la provincia ha di più meschino: chiusa, isolata, ripiegata su se stessa, divora chi vi penetra. [...].

  È questo uno degli aspetti più interessanti del quadro delineato da Balzac, e che rispetta una delle caratteristiche più singolari del romanzo ottocentesco: la sua «incapacità» di affrontare i grandi eventi storici per descriverne invece i margini, i momenti preparatori o quelli immediatamente successivi. In questo caso è il naufragio di una generazione a essere colto nelle figure di alcuni militari a paga ridotta, relitti sparsi fra la città e la provincia. [...].

  La mancanza di una nobiltà, vale a dire di figure in grado di interpretare il ruolo regale, comporta nell’ottica balzachiana la perdita dei valori sociali, poiché essa svolge una funzione regolatrice all’interno della comunità, paragonabile a quello della figura paterna in seno alla famiglia. In questo senso il dramma della famiglia Bridau nella prima parte trova la sua naturale amplificazione nella piccola comunità di Issoudun, a sua volta emblematica della sorte riservata all’intera nazione: la morte prematura di Bridau lascia i familiari in gravi difficoltà economiche, consegnandoli al disordine. La stabilità economica della famiglia, che coincide con la solidità della figura paterna, genera la stabilità sociale; per contro una solidità economica non ancorata alla famiglia, è il caso del celibe, diventa facile preda del mondo esterno, ed è quindi intrinsecamente debole, oltre che potenziale fonte di disordine [...].

  Balzac ritiene che la soppressione del diritto di primogenitura abbia gravemente indebolito l’organizzazione sociale comportando una frammentazione eccessiva dell’eredità paterna, per cui a ogni generazione si deve ricominciare tutto da capo, ciò che porta alla proliferazione degli egoismi. Casa di scapolo costituisce allora anche una delle riflessioni più complesse dello scrittore sulla società del proprio tempo, e in particolare trova qui la sua esplicitazione forse più esasperata la consapevolezza di un universo ormai tutto consegnato alla finanza, che ha fagocitato anche gli ultimi brandelli di un mondo fondato sui valori aristocratici: i militari. Il denaro è presentato come una forza che può richiedere sacrifici e fatiche immense per essere acquisita, ma che è poi in grado di alimentarsi e riprodursi indefinitamente senza lavoro, semplicemente tramite speculazioni in Borsa. In questo senso è esemplare la minuziosa descrizione dell’atto fondatore della vicenda narrativa stessa, vale a dire l’acquisizione delle ricchezze dei Descoings all’esordio del romanzo, che passano moltiplicandosi al dottor Rouget e diventeranno l’oggetto di un’aspra contesa fra Flore Brazier, Philippe e Maxence Gilet. Balzac non si limita a dare al denaro in ambito romanzesco il ruolo che occupa effettivamente nella realtà, ma fa sì che i suoi protagonisti si interroghino sui grandi problemi dell’economia e della finanza, sulla produzione, la distribuzione, il credito. Conosciamo gli eroi e le loro famiglie non tanto dai loro ritratti psicologici, quanto dalle loro risorse economiche, dal loro modo di impiegarle, dalle loro attese in merito, e le vicende che li occupano sono segnate dai percorsi stessi dei flussi di denaro, e non solo nell’ambito delle classi agiate, ma anche fra le persone più umili, sia pure con procedimenti illusori, come la lotteria, di cui l’autore riesce a cogliere il fascino con straordinario acume [...].

  L’epifania del denaro, polo di tutti i desideri, consente a Balzac di tracciare nel romanzo la storia di una generazione, la propria, che ha potuto ormai constatare sulla propria pelle come la Rivoluzione francese non sia stata la rivoluzione della libertà universale, ma la rivoluzione del denaro, in una società che avendo perso ogni criterio regolatore e dominata, mossa e giustificata solo dal denaro. L’eroe balzachiano lungi dal costituirsi come ricompositivo delle contraddizioni è problematico e contraddittorio, interprete di una realtà a sua volta contraddittoria e complessa, di una storia ormai sterile, ma che egli non intende ancora subire, come avverrà all’eroe flaubertiano. Di qui il carattere tutto sommato epico di questo romanzo, in grado di esprimere ciò che l’ideologia e l’analisi psicologica non erano ancora in grado di enunciare, di fornire un ritratto della società come totalità vettoriale, di dare voce alle sue tensioni e lacerazioni: la scelta drammatica fra espansione e catastrofe o prudenza e deperimento. [...].

 

 

  Giulio Cattaneo, Interni d’artista, «la Repubblica», Roma, 16 giugno 1994.

 

  Nel suo “ritratto” di Balzac, Théophile Gautier dà un particolare rilievo alle case che lo scrittore abitò, a cominciare dalla mansarda della Rue Lesdiguières che si affacciava su cortili attraversati da lunghe pertiche cariche di bucato, dai muri “gialli e sporchi”, che “sapeva di miseria” e destinata quindi a uno studioso, a un artista. Balzac descrisse nella Fille aux yeux d’or il salone nella Rue de Batailles, dal soffitto con la lumiera in argento dorato opaco e il tappeto simile a uno scialle orientale. In altri casi le magnificenze restarono “allo stato di sogno” come nei Jardies, la “casetta un po’ cottage, un po’ chalet che sorgeva in mezzo a un terreno in pendio e in apparenza argilloso”. Sulle pareti nude era scritto a carbone “intarsiato di palissandro”, “tappezzeria Gobelin”, “specchio di Venezia”, “quadri di Raffaello”. Le parole d’ordine. La casa come diletto, come rifugio e protezione da visitatori sgraditi, soprattutto creditori, da penetrarvi grazie soltanto a segrete, mutevoli parole d’ordine, è uno dei temi dominanti della vita di Balzac al quale è dedicato il capitolo più lungo di Torri d’avorio di Giuseppe Scaraffia che vi utilizza largamente Gautier con varie altre fonti (Sellerio, pagg. 380, lire 25.000). [...].

 

 

  Raffaele de Cesare, Un corrispondente siciliano di Balzac: il marchese Vincenzo Salvo, «Aevum», Milano, Anno LXVIII, fascicolo 3, settembre-dicembre 1994, pp. 699-712.

 

  Sui rapporti di amicizia o di occasionale conoscenza che hanno legato per qualche tempo il grande romanziere francese al marchese siciliano Vincenzo Salvo, singolare personaggio dalla sfuggente ed in gran parte sospetta attività pubblica, autore di novelle e di numerosi scritti di circostanza di carattere critico-letterario, storico, politico, sociale, memorialistico, non abbiamo purtroppo oggi che le più scarse e frammentarie testimonianze.

  Ciò che rimane di esse si riduce infatti a ben poco; un accenno del pittore Auguste Borget nel poscritto di una lettera di Zulma Carraud indirizzata a Balzac il 9 giugno 1834, e due lettere del Salvo a Balzac: l’una, da Napoli, il 27 gennaio 1835; l’altra, da Parigi, senza data, ma certamente posteriore alla prima e collocabile, con ogni probabilità, cinque anni dopo, nel 1840.

  Di lettere dello scrittore francese al Salvo, che pur non dovettero mancare, sia che fossero missive di semplice cortesia, sia che contenessero più calde attestazioni di simpatia, nessuna traccia è stata fino ad oggi rinvenuta né negli archivi pubblici e privati di Palermo e di Napoli, né in quelli di Parigi dove il Salvo trascorse lunghi periodi della sua vita fra il 1814 ed il 1849 e, quasi ininterrottamente, l’ultimo decennio della sua esistenza (1851-1860).

  Allo stato attuale delle ricerche, tutto lascia supporre che le carte personali di Vincenzo Salvo siano andate disperse o distrutte dopo la morte del loro proprietario e, con esse, la corrispondenza a lui diretta.

  Eppure, dalle poche notizie che sono giunte fino a noi, è lecito congetturare che il legame fra Balzac ed il Salvo non si sia limitato allo scambio di quelle cortesie formali che accompagnano di solito una presentazione in società, ma abbia coinvolto in qualche modo sentimenti umani più intensi e più prolungati nel tempo.

  La richiesta di Borget a Balzac di sollecitare una lettera di raccomandazione per il Salvo a Napoli non avrebbe avuto senso se il pittore-viaggiatore non fosse stato al corrente dell’esistenza di un rapporto abbastanza confidenziale fra lo scrittore francese ed il sedicente diplomatico siciliano. D’altra parte, l’accenno a visite in rue Cassini, che il Salvo fa in una delle sue due lettere a Balzac, presuppone almeno un incontro con lui nel suo domicilio, ed è noto che la remota casa dell’Observatoire non era un luogo d’accoglienza aperto a tutti.

  Infine, il tono familiare delle lettere del Salvo è quello di chi si rivolge ad un corrispondente, ammirato e frequentato da tempo, che si può trattare senza eccessive cerimonie e con il quale ci si può anche abbandonare a confidenze personali. [...].

  In procinto di partire per l’Italia, Auguste Borget, come si diceva, aggiunge ad una lettera indirizzata a Balzac dalla comune amica Zulma Carraud, da Frapesle, il 9 giugno 1834, il seguente poscritto:

 

  Je vais partir bientôt [per l’Italia), Honoré; veuillez penser au marquis de Salvo, si toutefois le marquis veut donner des lettres de recommandation à qui ne l’est pas.

 

  Balzac accondiscende alla preghiera e, poiché il Salvo è in procinto di partire per il Regno delle Due Sicilie (o vi è già giunto da poco) scrive direttamente a lui per raccomandargli Borget o affida a questi una lettera commendatizia da presentare al marchese siciliano al suo arrivo a Napoli.

  In un caso o nell’altro accade che Borget, quando, nel novembre 1834, dopo aver attraversato tutta la Penisola, da Milano a Venezia ed a Roma, arriva nella capitale del Regno delle Due Sicilie, vi trova il Salvo ed è da lui ricevuto.

  Il 27 gennaio 1835, Vincenzo Salvo invia a Balzac la lettera [...] in cui gli parla appunto dell’accoglienza fatta a Borget, e lo intrattiene del proprio stato di stato, fisico e morale, della propria nostalgia di Parigi, manifestandogli altresì il piacere che avrebbe avuto nel ricevere a Napoli lo scrittore stesso, la cui fama — aggiunge — è largamente nota alla migliore società del Regno. [...].

  Successivamente, ad una data non precisata, ma che riteniamo di poter individuare nell’anno 1840, Vincenzo Salvo informa Balzac di un contrattempo improvviso che gli impedisce di essere in casa il giorno in cui aveva invitato a cena lo scrittore e (se la nostra lettura è esatta) il giornalista Taxile Delord; e sposta l’invito ad un altro giorno della settimana, sperando che Balzac non abbia difficoltà di accettarlo.

  Non è, questo, che un semplice biglietto di partecipazione; ma formulato in modo che, ancora una volta, e più che per l’addietro, rivela un tono di cordialità e, quasi, di intimità: indizio, ci sembra, del fatto che i rapporti fra i due corrispondenti non si sono interrotti nel 1835, ma che, da allora in poi, sono stati ripresi e sono continuati su di un piano di confidenza reciproca. [...].

 

 

  Lucia Fantozzi, Balzac: “La peau de chagrin”, tra fantastico e realismo. Tesi di Laurea. Relatore: prof.ssa Alessandra Pecchioli Temperani, Firenze, Università degli Studi, Facoltà di Magistero, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, 1994.

 

 

  Francesco Fiorentino, Dalla pensione Vauquer al condominio: un topos del romanzo realista, in AA.VV., Modalità della restituzione spazio-temporale nella letteratura francese Otto e Novecentesca (Convegno internazionale, Università di Pavia, 7-8 ottobre 1992), a cura di Elisa Biancardi e Giorgetto Giorgi, «Il Confronto letterario. Supplemento al numero 20», Pavia, 1994, pp. 27-35.

 

  L’A. evidenzia quattro prerogative dello spazio-Vauquer descritto nel Père Goriot, considerate come prefigurazioni di risorse narrative e ideologiche di uno tra i topoi della narrativa realista ottocentesca: il condominio borghese. Le prime due prerogative individuate svolgono una funzione eminentemente formale, essendo principî organizzatori del racconto: la pensione come spazio interno, ma non l’atmosfera della pensione incide concretamente sui personaggi che la abitano e sui loro destini; dall’altro lo spazio della pensione annuncia l’ingresso, nel romanzo moderno, dell’«ambientazione piccolo-borghese urbana, percepita in tutta la sua angustia» (pp. 10-31) e nel suo carattere degradante.

 

  In questo mio intervento non intendo considerarla [la pensione Vauquer] né come un campione della descrizione realista, né come esempio della concezione balzachiana del rapporto ambiente-personaggio. E neppure intendo analizzarla in relazione al romanzo che la comprende.

  Vorrei infatti provare ad avanzare l’ipotesi [...] che essa costituisca il primo, seppur imperfetto, esempio di uno dei maggiori topoi dello spazio nel romanzo realista ottocentesco.

  Consideriamo alcune prerogative dello spazio Vauquer:

 

  1) La pensione Vauquer è un interno che non si oppone a un esterno.

 

  Come scopre Rastignac, nella pensione Vauquer si può penetrare a qualsiasi ora della notte e non c’è una stanza al riparo dall’indiscrezione altrui. La soglia che separa l’interno dall’esterno ha perso ogni valore. Non altrettanto avviene nell’aristocratica casa Restaud la cui porta per il giovane ‘gaffeur’ resterà inesorabilmente sbarrata. Per le case aristocratiche, e più in generale per la dimora come è tradizionalmente concepita, vige una nozione di privato che non vale per la pensione Vauquer.

  Questa ambiguità dello statuto della pensione – un interno che non è privato –, si rivela molto fruttuosa per la narrazione. Consente l’operazione indispensabile per ogni narratore realista di circoscrivere lo spazio del suo racconto. I limiti angustamente borghesi della pensione Vauquer svolgono una funzione analoga a quella che altrove svolge l’ambientazione provinciale permettono: di ritagliare il «piccolo orizzonte ermetico ed immaginario» di cui parla Ortega y Gasset [Sul romanzo]. [...].

  Se però in quanto interno la pensione Vauquer è uno spazio limitato, in quanto non privato è abitato da una popolazione dai caratteri compositi (non da una sola famiglia, né tanto meno da un individuo). È un luogo d’incontro come l’albergo o l’osteria, luoghi che tanta fortuna hanno avuto nella storia del romanzo, da quello picaresco a quello di Pigault-Lebrun. A differenza di questi suoi antecedenti però, nella pensione Vauquer c’è, seppur temporaneamente, una stabilità abitativa, e vige quindi un intreccio di regole e abitudini, che per definizione nell’albergo sono sospese. [...].

 

  2) La pensione Vauquer è fonte di romanzesco e di mistero.

 

  [...]. I destini dei personaggi della pensione Vauquer mutano solo perché essi si trovano per qualche tempo a convivere sotto il medesimo tetto. [...]. L’incrocio dei loro destini costituisce il romanzesco della storia. [...].

 

  3) La pensione Vauquer costituisce un’atmosfera.

 

  [...]. Mi pare dunque che la pensione Vauquer incida concretamente sui suoi pensionanti. [...].

  C’è un influsso nefasto di quest’atmosfera che appare davvero demoniaca, come suggeriva Auerbach.

 

  4) La pensione Vauquer rappresenta uno spazio piccolo borghese urbano.

 

  [...]. Le quattro prerogative individuate nello spazio Vauquer mi sembra possano raggrupparsi per la loro natura in due coppie. Le prime due (restringimento dello spazio e espediente romanzesco) svolgono una funzione più spiccatamente formale: sono principi organizzatori del racconto. Le altre due [atmosfera deprimente; connotazione piccolo borghese] attribuiscono invece una ambientazione e una connotazione ideologica alla storia. Tutte e quattro combinate assieme prefigurano nella pensione Vauquer le risorse narrative e ideologiche di quello che sarà uno dei luoghi deputati della narrazione realista ottocentesca: il condominio borghese. [...].

  Quello che comunque mi pare che in tutte le diverse occorrenze citate resti, e si può forse ipotizzare che il topos letterario, seppure in diverse misure, comunque comporti, è un carattere negativo del condominio che può oscillare tra il sinistro e il deprimente. Sinistri sono i condomini di Sue e di Hugo, deprimenti-sinistri quelli di Balzac e di Zola. Il topos realista sembrerebbe ereditare alcuni connotati del topos del romanzo gotico [...].

 

 

  Pico Floridi, Balzac e Stendhal, che vita, «la Repubblica», Roma, 6 luglio 1994, p. 34.

 

  Sono uscite in Inghilterra due nuove importanti biografie di due autori classici francesi: Balzac e Stendhal. Due libri seri, impeccabilmente documentati, frutto del lavoro di eruditi che sono anche capaci di alleggerire il loro sapere con aneddoti giusti ed amenità ricercate. Sia il Balzac di Graham Robbe (Picador, sterline 20) che lo Stendhal di Jonathan Keates (Sinclair-Stevenson, sterline 20) interpretano le ultime tendenze in auge fra gli studiosi delle vite altrui. La prima è che il buon biografo non dev’essere più distaccato dal suo soggetto, non deve più fingere disinteresse, leggero fastidio o disapprovazione in nome dell’obbiettività. Il biografo odierno può appassionarsi alla propria materia, innamorarsi del personaggio prescelto senza timore di perdere credibilità. La seconda tendenza è che il biografo non mette più il suo soggetto sul lettino dello psicanalista. Racconta le difficoltà infantili, come l’amarezza di Balzac nei confronti di sua madre o l’odio di Stendhal per suo padre, con grande dettaglio ma senza gravarle del peso cui ci avevano abituato le interpretazioni del passato.

  Sono atteggiamenti giusti questi, del buon biografo che rispetta in questa maniera il suo soggetto – del quale non compie autopsie psicologiche – ed il suo lettore: dichiarandogli il suo amore per il personaggio prescelto egli giustifica altresì le lunghissime ricerche – Graham Robbe ha studiato Balzac per diciassette anni – necessarie ormai per migliorare le opere esistenti. E allora perché sia Robbe che Keates insinuano che Balzac e Stendhal avevano anche un penchant omosessuale? Si tratta di insinuazioni in entrambi i casi, dato che i due personaggi erano ben conosciuti per le loro passioni amorose nei confronti delle donne. Nel caso di Balzac l’alea dell’omosessualità viene suggerita a commento di un periodo in cui egli visse con un altro scrittore. Nel caso di Stendhal invece l’affermazione è più perentoria e basata su una sua descrizione ammirativa nei confronti di un bell’uomo incontrato ad una cena. Troppo poco, nei due casi.

 

 

  Silvia Frattini, Le traduzioni italiane del “Curé de Tours” di Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: prof. Aurelio Principato, Milano, I.U.L.M., Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, Anno accademico: 1993-1994.



  Valeria Gianolio, Introduzione, in Honoré de Balzac, La borsa ... cit., pp. 7-17.

 

  La stesura della Bourse data 1832 e questo testo è stato ideato per completare il primo dei due volumi che componevano la seconda edizione delle Scènes de la vie privée. La novella non rappresenta però una semplice zeppa narrativa ma suggerisce linee comuni e continue con La Vendetta e La Maison du chat-qui-pelote, costruendo quasi un trittico che rimarrà ancora unito nelle sequenze d’apertura dell’edizione definitiva della Comédie humaine.

  In quel periodo, Honoré de Balzac si era già da quasi più di tre anni riscattato dall’anonimato e il suo vero nome, impreziosito da un «de» nobiliare, era emerso dalla massa di pseudonimi che avevano contraddistinto le sue fatiche di scrittore. La sua fama era legata in gran parte al successo riscosso presso il pubblico e i critici dalla Peau de Chagrin (1831). Anche la sua vita sentimentale che sembrava ruotare attorno alla figura di Madame de Castries, inseguita per mezza Europa da questo infaticabile viaggiatore ma anche dimenticata in piacevoli intermezzi e diversivi da questo inesauribile amante, è solcata proprio nel corso del 1832 da un avvenimento che si pone subito sotto il segno dell’irreversibilità. Verso il mese di marzo di quello stesso anno una nobile polacca, la contessa Ève Hanska, meglio conosciuta poi con l’appellativo di «L’Étrangère», fa impostare ad Odessa una lettera indirizzata allo scrittore dando inizio a una serrata corrispondenza e a un legame che riuscirà a soddisfare appieno il suo gusto per il mistero, l’intrigo e gli amori titolati.

  Questo periodo fortunato sembra essere racchiuso nell’idilliaco medaglione che incornicia le figure di Hippolyte Schinner e di Adélaïde Leseigneur de Rouville, i due giovani protagonisti della Bourse. Come in molte altre occasioni, Balzac congegna la loro vicenda prendendo come spunto un impasto di fatti reali che, in questo caso, ci viene suggerite da Jacques Borel il quale, in Personnages et destins balzaciens (1958), presenta i primi lavori dello scrittore. Il critico ipotizza per primo una certa somiglianza di accadimenti tra alcuni aspetti dell’esistenza dell’eroina della Bourse e quelli occorsi alla sorella di Amaury Duval. Rimasta vedova ancora in giovane età dell’ufficiale Chasseriau morto in America dove si era recato in cerca di fortuna, Emma si guadagna stentatamente la vita impartendo lezioni di musica e fabbricando borse da sera di sua invenzione. In particolare, una di queste, preziosa per la sua rete di seta adorna di perline d’oro, fu acquistata per la bella somma dì cento franchi dalla duchessa di Orléans. Questo aneddoto è contenuto nei Souvenirs di Amaury Duval, pubblicati soltanto nel 1885, ma i due fratelli frequentavano verso il 1830 il salotto letterario che Nodier teneva nella Biblioteca dell’Arsenale, dove potevano aver incontrato Balzac e renderlo partecipe di questi avvenimenti. La diluizione fittizia degli elementi reali e la loro differente attribuzione a vari protagonisti dell’intrigo conserva un altro risvolto interessante poiché non viene trascurato neanche il particolare biografico della parentela che legava il marito di Emma Chasseriau con un cugino, giovane pittore di talento che diventerà famoso.

  Al nucleo veridico, chiaramente un pretesto, subentra il congegno del narrato che si avvale della perfetta concisione del racconto. Infatti, La Bourse non risente minimamente della sua origine di riempitivo editoriale ma, al contrario, si affranca dalla stretta giugulazione del limite delle pagine, presentando tutti gli aspetti più interessanti e convincenti di una narrazione breve.

  La sincronia degli episodi descritti agisce scandita da un orologio narrativo che sembra determinarla a tal punto da indurci a pensare anche alla rigorosa messa in scena di un evento teatrale. Le progressive tappe di un amore sono raggiunte per mezzo di «quadri», compiuti e quasi a sé stanti [...]. E il bisticcio linguistico, per fortuna simile tra le due lingue, ci aiuta a passare dal «tableau» teatrale ai quadri, alle raffigurazioni pittoriche fino a raggiungere Hippolyte Schinner che ne è insieme artefice e metafora.

  Hippolyte Schinner, appena nella figura — ma in fondo questa è caratteristica comune a tutti i personaggi principali della Bourse i quali vengono definiti per le loro dominanti morali più che per la descrizione dettagliata del loro fisico — rappresenta nel testo il ruolo di pittore, giovane ma già moho famoso. Egli continuerà la sua scalata, sarà nominato barone e, grazie alla sua arte, guadagnerà somme ingenti in una prosecuzione di eventi quasi tutti positivi in altri libri della Comédie humaine. La sua prerogativa però non è solo quella di assolvere al compito di personaggio seriale più riuscito di altri ma assume anche la valenza di uno specchio per lo stesso narratore/autore. E proprio in questa novella, ne riusciamo a vedere meglio i contorni e gli intenti speculari. La voluta e insistita, ma sempre ambigua, commistione tra «peintre» di quadri e pittore di costumi ci porta a far intersecare e coesistere le regole dell’arte figurativa della creatura di carta con i dettami che pervadono la narrazione della saga ideata sugli umani costumi dal suo creatore. Il dare l’illusione veridica della vita, con il pennello o con la penna poco importa, ai personaggi e agli scenari, adornare le tipologie con i contrasti e il chiaroscuro dei sentimenti è ancora compito comune ai due che rivaleggiano nel portare a termine questa faticosa e, a volte rischiosa, bisogna. Ma Hippolyte è anche il doppio sfolgorante di Balzac, bello nel corpo e seducente nei modi, fine nei sentimenti e prodigiosamente ricco, grazie al riconoscimento tributato al suo lavoro, e quando la sorte gli imporrà di perdere al gioco, sarà soltanto per rispettare il proverbio e diventare «fortunato, e quanto, in amore».

  Adelaïde Leseigneur de Rouville, appena tratteggiata fisicamente nella narrazione e sempre per un contrasto che oppone la dolce freschezza della sua prima gioventù alle pieghe sofferte e vissute del volto della madre, è anch’essa la consegnataria di un compito ben preciso e non facile. Le allusioni storiche inserite dal testo ci inducono a situare le vicende dei due innamorati verso il 1819 [...]. Ad indicare però che esistono legami sotterranei che ricollegano anche i più traumatici scossoni sociali e politici troviamo l’aristocratica giovinetta, caduta in disgrazia e ricca solo della sua virtù, che porge e affida per sempre la sua mano a Hippolyte Schinner, nato da un innesto bastardo tra la razza dei proprietari e quella dei servi, nobiluomo solo per talento e sentimenti. [...].

  La composta e, a volte, quasi plastica in apparenza storia d’amore, che conosce però sconvolgimenti interiori dei protagonisti anche molto intensi, si snoda su questo scenario polveroso e antiquato. Anche in questo caso, i gusti e le mode riescono a convivere e tutte quelle anticaglie ormai senza valore sono rese attuali agli occhi di Hippolyte dalla presenza vivificatrice della giovane Adélaïde.

  Un ruolo determinante deve essere riconosciuto all’oggetto che definisce buona parte della vicenda e, in special modo, il suo epilogo. La borsa, oltre a servire scenicamente come scatenamento attanziale, simile in questa sua funzione al fazzoletto di Desdemona o a qualsiasi altro simulacro atto a suscitare sospetto e gelosia nell’amante che si crede tradito, ritorna come segno di riconoscimento in altri episodi della Comédie humaine. Si tratta quasi sempre di storie sfortunate come quella da Modeste Mignon, la quale ricama una borsa preziosa per un fidanzato rivelatosi indegno, credendo «in quella specie di legami, così forti per le anime belle». Mentre Pauline Gaudin offre a Raphaël, il tormentato protagonista della lotta impari condotta con la magica e perversa presenza della Peau de Chagrin, una borsa che è stata confezionata espressamente per lui. E ancora, annodando la finzione alla biografia reale, lo stesso Balzac, nel gennaio 1844 — ricordiamo che l’edizione definitiva della Bourse è del 1842 — redige un biglietto indirizzato a Madame Hanska dove si esprime in questi termini: «mille teneri baci su quelle dolci manine che hanno fatto la borsa che mi avete inviata».

  La ripetitiva presenza di questo complemento dell’abbigliamento non può essere soltanto un doveroso omaggio tributato alla moda o ai dolci ricordi ma assume il carattere più simbolico di una metafora seriale che si irradia dalla costellazione dei sentimenti. Il morbido oggetto, adorno di ricche rifiniture, apre invitante i suoi lacci per contenere il peso imperioso delle sonanti monete d’oro. Una delicata ma intensa allusione alla sfera sessuale che nella Bourse sembra sortire i suoi effetti, annodando nei suoi complici cordoni di seta, l’esistenza della giovane coppia. [...].

 

 

  Lidija Ginzburg, Problemi del romanzo psicologico, in La prosa psicologica. Traduzione di Francesca Gori, Bologna, Il Mulino, 1994 («Collezione di testi e studi-Linguistica-Critica letteraria»), pp. 275-292.

 

 

  Daniela Gradilone, La tecnica dei personaggi “reparaissants” nella “Comédie humaine” di Honoré de Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: Prof. Mario Iazzolino, Università degli Studi della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno accademico 1993-1994.

 

 

  Giuliano Gramigna, Emile Zola: se valesse la pena di rileggerlo?, «Corriere della Sera», Milano, 5 marzo 1994, p. 28.

 

  Balzac ha fatto molto più presto a recuperare presso di noi tutto il suo prestigio. Ma Balzac non fa nessuna fatica a essere il Balzac che leggiamo noi oggi; anzi, è sempre qualcosa in più che ci supera.



  Aldous Huxley, Volgarità e letteratura, in La volgarità in letteratura. Traduzione di Stefano Manferlotti, Bologna, Il Mulino, 1994 («Intersezioni», 136), pp. 29-74.

 

  pp. 59-67. Séraphita è l’opera più considerevole di quella parte della Commedia umana dedicata alla religione in generale e in particolare (perché Balzac coltivò un interesse speciale per il misticismo) alla religione mistica. [...]. «Misticismo? Vuol dire ... misto a scisma» [...]. La letteratura mistica, infatti, che è letteratura dell’ineffabile, è nella grandissima parte dei casi nebbia pura, nebbia londinese, ma di colore rosa. [...].

  Balzac possedeva ogni qualità, tranne due: il dono della scrittura accurata e quello del misticismo, intendendo quest’ultimo nel senso che prima abbiamo indicato. Il secondo è anche il più grave, visto che scelse di fare lo scrittore di professione e di dare nelle sue opere molto spazio al misticismo.

  Tutte le volte in cui affronta argomenti di cui possiede una conoscenza diretta e autentica, i difetti della prosa di Balzac passano inosservati. La sua è anzi una prosa senza mende. È solo quando non sa, letteralmente, di che cosa sta parlando che i suoi limiti stilistici emergono e si fanno dolorosamente manifesti, perché in questi casi proclama a gran voce la sua sincerità, con esiti nefasti. Come quasi tutti i grandi scrittori, penso, Balzac non fu affatto un mistico naturale. Possedeva una conoscenza intuitiva davvero prodigiosa dell’uomo come animale sociale, visto nelle sue relazioni mondane con gli altri suoi simili, ma aveva una scarsissima nozione personale e diretta dell’uomo immerso nella solitudine, dei suoi rapporti con l’universo, dei misteriosi abissi della sua anima. Ricordo che un giorno dissi qualcosa del genere a D. H. Lawrence, che annuì e sintetizzò l’intera questione osservando che Balzac era «un nano gigantesco». Un nano gigantesco: gigantesco per la sua capacità di comprendere e riprodurre a tinte vivaci qualsiasi attività umana concepibile, con tutti i pensieri e i sentimenti che il mondo può far germinare in una mente umana; ma nano quando si tratta di descrivere con arte quei moti interiori che agitano la mente quando l’uomo vive in solitudine o stabilisce, in quanto nuda individualità, relazioni di tipo non mondano con la nuda individualità di altri esseri umani. [...].

  Spinto dall’ambizione di rendere completa la sua Commedia, Balzac nella sua opera concesse ampio spazio alle une e alle altre. Possedeva, oltre tutto, il senso pienamente romantico del chiaroscuro: amava accostare, in pittoresca opposizione, questo mondo terreno al cielo dell’idealismo, gli angeli agli abominevoli Du Tilly e Nucingen, l’ambizioso Rustignac (sic) a sapienti pieni di altruismo, ad artisti e santi. In verità, se non fosse esistito quello che chiamiamo misticismo, Balzac avrebbe dovuto inventarlo. La statua colossale di Mammona che s’erge nel suo pantheon chiedeva con forza di avere come contraltare una statua dell’Idealismo altrettanto immane, che andasse a riempire la nicchia vuota sul lato opposto della navata. Sventuratamente per la reputazione di Balzac come scrittore religioso, il misticismo esiste, e con esso una messe considerevole di letteratura mistica, buona, cattiva e mediocre. Se giudichiamo con simili criteri opere come Séraphita e Louis Lambert, il misticismo di Balzac emerge come ben povera cosa e nello stesso tempo (anzi proprio per questo) come qualcosa di pretenzioso al massimo grado. «Quelle froide plaisanterie!»: così, definendolo una freddura, il suo Don Giovanni sintetizzò il significato dell’universo, e credo che questa fosse anche l’opinione, frutto tanto di natura che di intuizione, dello scrittore francese. Magari lui, che aveva un temperamento più sanguigno di quello di Don Giovanni, avrebbe giudicato questa plaisanterie più calda che fredda. Ma a prescindere dalla temperatura, si trattava pur sempre di una burla, di una burla enorme, cattiva, malvagia anziché no. Su questo cinismo naturale Balzac innestò, con metodo e perché ne sortivano per riflesso una serie di ideali, la religione, gli angeli, Swedenborg e oggetti di ogni risma. È significativo, però, che tutte le volte che scrisse di queste cose, lo fece, come osservò Blake di Milton quando parlava di Dio, «in catene» (ma in catene elastiche, che gli consentivano di scalciare e di garantirsi i movimenti più sfrenati), e che tutte le volte in cui si espresse su un tema che gli consentiva di liberare il suo fiero cinismo naturale, esibì una gran disinvoltura e uno stile relativamente pregevole.

  Oltre alla filosofia e all’ambizione di raggiungere l’universalità, anche la moda fece la sua parte nello spingere Balzac, a dispetto del suo temperamento, in direzione del misticismo. Visse in un periodo di bizzarra reazione cattolica, quando i giovanotti di mondo e d’ingegno studiavano il catechismo dall’Abbé Dupanloup e quando, per usare l’espressione di Joseph de Maistre, l’irreligiosità era canaille. Facendo della necessità politica un piacere oltre che una virtù, i contemporanei di Balzac usavano la religione così restaurata come fonte di eccitazione emotiva. Non credendo seriamente (era difficile credere seriamente all’inizio del XIX secolo), andavano in chiesa per amore dei brividi estetici e «numinosi» che essa poteva trasmettere. Volendo fare ricorso al nostro gergo filosofico, nutrivano interesse per l’esperienza religiosa ma non per i dogmi, di cui si servivano solo per procurarsi le piacevoli sensazioni di cui si diceva prima (la fede intellettuale nell’esistenza di un Dio ora amorevole ora adirato può, per esempio, trasmettere deliziosi fremiti di sicurezza al-ternata a terrore). Balzac era parte di questo «movimento», ma si muoveva, come era il suo solito, molto più velocemente e impetuosamente della corrente che lo portava. Spirito fieramente cinico e scettico per natura (plus il vit, plus il doute, «più si vive, più si dubita»), sapeva trasformarsi all’occasione e per purissima finzione in un distinto praticante e in un ancora più distinto seguace di Swedenborg. In ciò lo assisteva la superstizione comune a tutti gli scettici: per uno scettico tutto è possibile. Come quasi tutti grandi uomini, poi, era un po’ ciarlatano, gli piaceva impressionare i lettori, fornirgli la risposta al Gran Quesito dell’universo, attingendo direttamente alla fonte (un allibratore filosofico dà sempre Swedenborg e Boehme vincenti). Balzac, infine, possedeva quell’interesse per la scienza tipico del letterato intelligente; l’interesse, cioè, del tutto irresponsabile di chi non ha mai studiato scienza, non ne ha mai utilizzato in campo pratico i princìpi e che pertanto vede nella scienza un’arte magica come le altre ma più rispettabile, come garantiscono i suoi stregoni, che hanno ricevuto il titolo di cavaliere e la coccarda della Legion d’Onore. Il letterato intelligente, inoltre, non fa grandi differenze fra uno scienziato e l’altro. Le sue uniche preferenze vanno a quegli scienziati che egli riesce a capire e che si occupano di argomenti che si prestano ad una trattazione letteraria. Tutto ciò, in pratica, significa che le sue preferenze vanno ai cattivi scienziati. All’epoca di Balzac, i favori dell’uomo di lettere non andavano a un Laplace o a un Faraday, ma a Mesmer, così come oggi vanno ai freudiani selvaggi, piuttosto che ad Einstein e Pavlov. La scienza (quella, si intende, del letterato intelligente) sembra confermare le dottrine nebulose e scismatiche del misticismo. Tutto questo offriva a Balzac, ammesso che ce ne fosse bisogno, un’ulteriore giustificazione per sentire o cercare di sentire o dire che era possibile sentire le medesime emozioni mistiche che tutte le persone di qualità, dall’arciduchessa coi suoi six cent mille livres de rent (sic) fino al più umile santo del calendario, provavano o avevano provato.

  Mi sono dilungato tanto su Balzac perché credo che il suo sia un caso tipico e molto istruttivo. Egli si assunse il compito di far rivivere nel romanziere quell’uomo dal sapere universale, quel vero e proprio factotum che aveva fatto la gloria del Rinascimento. Ebbe l’ambizione di sapere tutto, sia del mondo esterno che di quello interiore, di sapere tutto e di essere tutti, proprio così: mistico e mondano, idealista e cinico, contemplatore e uomo d’azione. Il fatto che abbia realizzato anche soltanto una parte di quest’ambizione immensa e impossibile prova a sufficienza la sua straordinaria potenza. I suoi problemi sono gli stessi del romanziere contemporaneo, che non aspira all’universalità (al giorno d’oggi solo un pazzo o un vero superuomo potrebbero accarezzare una simile idea) ma, più modestamente, all’intelligenza delle cose, alla coscienza della contemporaneità e di se stessi, alla veridicità, alla integrità artistica. E le tentazioni che assediarono Balzac, i pericoli che lo minacciarono e i disastri artistici che lo sopraffecero, sono le medesime tentazioni, gli stessi pericoli e disastri in mezzo ai quali il romanziere contemporaneo deve, se ha un minimo d’ambizione, aprirsi la strada.

  In Séraphita rinveniamo un esempio micidiale della catastrofe che aspetta lo scrittore che cede alla tentazione di rivendicare a gran voce la propria competenza in materie di cui sa ben poco (utilizzo qui la parola «sa» per indicare la conoscenza immediata, diretta, che nasce dalla sensazione). Balzac aveva una considerevole conoscenza astratta del misticismo, ma commise l’errore di averne anche una nozione intuitiva, emotiva, intima; unita a questa, la mancanza o la perdita di quella perizia formale che gli avrebbe consentito di rendere convincente la sua simulazione. E dico «perdita» perché, come ho già avuto modo di osservare, Balzac sapeva parlare, forse non in maniera eccelsa ma comunque adeguata e abbastanza vigorosa, di quel suo amato Mondo, così come Milton sapeva essere naturalmente sublime quando parlava della Carne (il suo racconto delle nozze fra Adamo ed Eva splende di un bagliore di sensualità quasi soprannaturale) e di quell’indomabile Diavolo il cui amor proprio era basato, come quello di Milton, su ciò che è «giusto e retto». Tutte le volte che Balzac si trovò di fronte alla necessità di rivendicare la sua competenza in questioni che non possedeva intimamente, la sua scrittura perse in qualità per cadere (o, se si vuole, per sollevarsi) nel magniloquente.

  Séraphita è caratterizzato da una peculiare volgarità emotiva. Nel tentativo di esprimere quelle emozioni mistiche mai esperite personalmente, Balzac è costretto ad un’esagerazione continua, che non riguarda solo i personaggi (tutti connotati da toni francamente eccessivi), ma anche i simboli di cui l’autore li circonda. Non sarebbe difficile sostenere con citazioni estese la mia opinione su Séraphita. Mi mancano, però, il tempo e lo spazio, e debbo contentarmi di citare una sola frase, in cui Balzac ha amorevolmente compresso esempi di quasi tutti i vizi che accompagnano la sua scrittura mistica: «E sollevando un dito, quest’essere singolare le mostrò l’azzurra aureola che le nuvole, lasciando uno spazio libero sul loro capo, avevano tracciato nel cielo e nel quale le stelle potevano scorgersi nella luce diurna, in virtù di leggi atmosferiche a tutt’oggi inspiegabili». In queste poche righe Balzac ha ceduto a tre diverse tentazioni. Innanzitutto, nella sua ansia di impressionarci con le qualità mistiche della sua Séraphita, l’ha chiamata «essere singolare» (nel corso della narrazione le attribuisce molti altri titoli onorifici dello stesso tenore, come «unica», «ineffabile», ecc.). L’aggettivo è ridondante in un aspetto che toccava al solo racconto di chiarire, senza alcuna chiosa esplicativa da parte dell’autore.

  Si noti, poi, l’aureola di cielo azzuro (sic) che a mo’ di cane celeste segue Séraphita in tutte le sue escursioni, anche quando è nuvolo. Si tratta di un simbolo così ovviamente poetico, così sonoramente evocativo di Cose Elevate, che non ci impressiona ma ci ... sconvolge, come quegli anelli con diamante esibiti come simbolo di opulenza levantina. Le stelle sono i gemelli da polso, anch’essi con diamante, che s’intonano con gli anelli. Quelle leggi atmosferiche a tutt’oggi inspiegabili, in virtù delle quali le stelle sono visibili nella luce del giorno, ci offrono invece un nuovissimo modello di volgarità, stavolta di tipo intellettuale. È Balzac il ciarlatano, Balzac l’allibratore filosofico, che ci fornisce in anteprima e in via confidenziale delle informazioni scientifiche attinte direttamente alla fonte. Ora, è ben possibile parlare con aria saputa, in un romanzo, una poesia o in una qualsiasi opera letteraria, di «leggi atmosferiche a tutt’oggi inspiegabili» senza per questo risultare volgari, ma il tutto dev’essere fatto con prudenza e tempestività assolute. [...]. Nella sua ciarlataneria, Balzac era troppo serio, troppo ambizioso, troppo energico per essere un padrone di casa fornito di tatto intellettuale: malgrado tutta la sua ricchezza, non sapeva ricevere. Pertanto, nel caso in questione è caduto nella volgarità, perché non ha resistito alla tentazione di fare il saputo in un momento quanto mai inopportuno. Quella notizia fresca sulle leggi atmosferiche è stata infilata in maniera incongrua ed assurda nel bel mezzo di un simbolo poetico (anche se, come abbiamo visto, fin troppo poetico), il che rende l’incongruenza ancora più macroscopica. Le aureole azzurre fanno parte della uniforme degli angeli, sono de rigueur, come i cappelli a cilindro ai ricevimenti a corte. Le leggi atmosferiche «a tutt’oggi inspiegabili» non hanno niente a che spartire con gli angeli, e mettendo le une e gli altri così illogicamente insieme, Balzac richiama l’attenzione del lettore sulla volgarità di una saccenteria che insiste a palesarsi, ad ogni costo e in ogni circostanza.

 

 

  Ulisse Jacomuzzi, Pubblicata una nuova edizione del capolavoro dello scrittore francese. Quando la vita diventa Comédie, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 330, 4 Dicembre 1994, p. 28; 1 ill.

 

  La vertigine suscitata da un realismo più vero e dettagliato del vero.

 

  Nel V capitolo di Bouvard e Pécuchet, i due scrivani flaubertiani sono alle prese con la lettura dei romanzi storici; Dumas, Walter Scott, George Sand per arrivare a sbattere nel corpulento Balzac: «Ha scritto un romanzo sulla chimica, un altro sulla banca, un altro sulle macchine da stampa ... Avremo romanzi su tutti i mestieri e tutte le province, poi su tutte le città e sui piani di ogni casa e su ogni individuo, e questa non sarà più letteratura, ma statistica o etnografia». Visione apocalittica di un romanzo tentacolare asservito alla microanalisi scientifica, e iperbolica condanna dell’onnivoro scrittore che voleva fare concorrenza allo stato civile da parte del quintessenziale Flaubert, il quale trovava francamente seccante dover spingere penosamente avanti una storia per fare della letteratura, che egli voleva come nient’altro che una misurata, calcolata sequenza di frasi. Antitesi, meglio discordanza, che ben si può cogliere con divertimento nei Pastiches proustiani, dove al brano à la manière di Balzac, farcito di nomi e di storia, preciso di note e incroci mondani, fa da riscontro la levigata e penosa pagina che mima il ritmo flaubertiano.

  Ma è pur vero, come già annotava Giovanni Macchia in un suo scritto del 1966, che nei momenti di crisi del romanzo, attossicato dell’autoreferenzialità, prosciugato da esperimenti tesi a mettere in mora la macchina romanzesca nelle sue componenti di storia, di trama, di invenzione di eventi e “come va a finire”, Balzac e il gran corpaccione della Comédie humaine vengono spesso invocati come una salvezza: terra solida e feconda su cui risiedere e divertirsi; robusto ricostituente, bicchier di vino rosso senza controindicazioni.

  Come si sa, la Comédie balzachiana ha una sua unità fittizia, après coup; non certo disegno architettonico, se con ciò si intende opera pensata pezzo a pezzo in vista di una costruzione ideata a priori nei suoi equilibri e nei suoi dettagli, ma suddivisione tematica dei volumi che si accumulano, tanto da giustificare edizioni che, pur infedeli alle intenzioni autorali, seguono un ordine puramente cronologico; nulla a che vedere, ad esempio, con il ciclo dei Rougon-Macquart di Zola e men che mai con la Recherche. Tuttavia qualcosa di prezioso va perduto nel mettere tra parentesi questa sistemazione complessiva, nell’avvicinarsi a Balzac come a un autore di singole opere, nel limitarsi a essere lettori di Eugénie Grandet o di Séraphita. Da un lato, ovviamente, questo significa rinunciare agli effetti di quella che Proust definiva l’admirable invention di Balzac, e cioè il ritorno degli stessi personaggi in opere diverse, tanto spregiato dal severo Sainte-Beuve, ma che è trovata di genio, capace di spalancare porte nuovissime all’arte del racconto (come resistere alla golosa promessa di avventure contenuta nella celebre frase che, nell’ultima pagina del Père Goriot, Rastignac pronuncia come una sfida alla fumigante Parigi che si stende ai suoi piedi “A noi due, ora”, e fine del libro o, diremmo noi, della puntata).

  Ma c’è inoltre, che la Comédie manifesta una tensione, un progetto unificante proprio sulla sua massa complessiva, nella sua dismisura di universo enormemente dilatato e nei fili con cui l’autore mette in rapporto i punti isolati di tanta abbondanza di mondo. E’ l’opera balzachiana nel suo complesso, nella sua amplificazione, nella sua distesa, minuziosa geografia, che mira non a diventare calco del reale ma a guadagnarsi una propria autonomia rispetto ad esso; quella che poteva sembrare forse una civetteria di Balzac, il quale volendo citare dei grandi medici o artisti mescolava persone reali e personaggi dei suoi romanzi (“aveva il genio dei Claude Bernard, dei Bichat, dei Depleins, dei Bianchon”) disvela proprio questo progetto titanico di globale ricreazione e di “autarchia” disegno “totalitario” e straordinario, sotteso a queste mille e mille e mille pagine, di attirare il lettore verso un inedito, compiuto universo autosufficiente che ha corpo e sangue proprio, rendendogli inospitale quello reale, “di impedirgli ogni via d’uscita perché non possa più immaginare un altro modo di vivere che quello della Comédie humaine”.

  Nell’introduzione al primo dei tre volumi previsti dalla Commedia umana, che esce ora per la sua ottima cura (ed è dagli anni Cinquanta, e cioè dai Capolavori della Commedia umana pubblicati da Casini che mancava un’edizione italiana in cui si raccogliesse un’ampia scelta dei testi balzachiani), Mariolina Bongiovanni Bertini usa un’immagine felicissima per parlare del fascino che l’opera di Balzac suscitò nei lettori dell’Ottocento “tutti egualmente desiderosi di penetrare nella Comédie humaine come Alice entra nel mondo che sta dall’altra parte dello specchio”. Immagine felice anche nel suo riproporre implicitamente quello che è in fondo l’equivoco consolidato del realismo balzachiano, dove l’assillo della precisione e del dettaglio, l’ossessione del vero e della contraffazione della vita giungono a determinare un cortocircuito che sbalza il lettore nella vertigine prospettica di un trompe-l’oeil in cui, come per eccesso di verità, l’opera realissima, con le sue genealogie, le sue leggi, i suoi arredi, si sostituisce, vuole sostituirsi al mondo.

  Non è forse singolare prova quell’Anatole Cerfberr, compilatore del primo dizionario biografico dei personaggi della Comédie, il quale nella sua mania balzachiana amava travestirsi e agire come gli eroi dei suoi amati romanzi? Giunto alla fine dei suoi giorni, confessava: “Credo di avere una delle tre malattie misteriose descritte da Balzac. Questo mi consola di morire”; così, grazie al mondo nuovo di Honoré de Balzac, un uomo in carne ed ossa poteva felicemente morire in un romanzo.

  Honoré de Balzac, «La Commedia umana», scelta a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, note di Claudia Moro, Milano, Meridiani Mondadori, 1994, vol. 1 in due tomi di complessive pagg. 1910, L. 100.000.

  Honoré de Balzac, «Tutto il teatro», cura e traduzione di Stefano Doglio, Roma, Newton Compton, pagg. 458, L. 9.000.

 

 

  Giovanni Macchia, Quella sera in via Morone, in Manzoni e la via del romanzo, Milano, Adelphi edizioni, 1994 («Piccola biblioteca Adelphi», 326), pp. 184-195.

 

  Cfr. 1976; 1984.

 

 

  Giovanni Macchia, Da “Il mito di Parigi”, in AA.VV., Le più belle pagine della letteratura su Parigi, Roma, Edizioni e/o, 1994 («Libri dei Nomi»), pp. 69-76.

 

 

  Giuseppe Marchetti, Nei Meridiani di Mondadori due poderosi volumi del genio del primo Ottocento. Balzac, titano della commedia umana, «Il Giorno», Milano, 27 novembre 1994, p. 19; 1 ill.

 

  L’esperienza dello scrittore pieno di debiti e sempre cotto di donne sbagliate.

 

  Nella collana dei Meridiani Mondadori è giunta l’ora di Honoré de Balzac. Arriva adesso in libreria, infatti, il primo volume, diviso in due tomi, della Commedia umana, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini. Letto, pubblicato abbondantemente in tutto il mondo, analizzato, studiato e anatomizzato in mille modi da un secolo e mezzo, Balzac appare ancora quel gigante che è, lo scrittore in grado di saper narrare – talvolta persino in maniera disordinata, ripetitiva e confusa – veramente la commedia umana che siamo e che interpretiamo.

  Questa edizione mondadoriana preparata dalla Bongiovanni Bertini comprende l’introduzione e la nota al testo della Bertini stessa, la cronologia di Pierfrancesco Minsenti, e poi La falsa amante e I segreti della principessa di Cadignan, tradotti da Giuseppe Guglielmi, Béatrix, Papà Goriot, Eugénie Grandet e La Musa del Dipartimento, tradotti da Giancarlo Buzzi, la Storia dei Tredici nelle traduzioni di Clara Lusignoli, Claude Fusco Karmann e Attilio Bertolucci, e infine le note curate da Claudia Moro. S’inaugura così una riproposizione della Commedia umana che può mettere a nostra disposizione uno dei momenti più solidi e ricchi dell’invenzione romanzesca moderna, là dove l’istinto della realtà si confonde con quello delle possibilità, oppure dove lo scetticismo del vero diventa il vero, oppure ancora dove il mondo balzachiano – come scriveva il Lanson – dà autenticamente «la sensazione della vita». Ma quale vita?

  Mariolina Bongiovanni Bertini osserva che «è dal frammento decifrato e integrato in una visione unitaria che nasce infatti l’immensa rappresentazione della Comédie humaine in cui nulla è privo di significato: né la caffettiera antiquata di Eugénie Grandet, né gli stivaletti lucidissimi di Maxime de Trailles, né il lapsus della gran dama che pronuncia un nome per un altro, né il colore dello scialle con cui l’opaca zitella si trasforma in una “bruna piccante”, né gli esatti termini del prospetto commerciale di un profumiere, né la composizione precisa del mazzo di fiori destinato a esprimere un’ardente e contenuta passione». È dunque il frammento – cioè l’osservazione minuta, la parola appena pronunciata, la luce breve, il sospetto, il caso – quel nucleo primigenio attorno al quale il narratore lavora, tesse e costruisce; il nucleo non solo della memoria, ma della realtà, del presente, dell’immaginazione immersa nella natura e nella società.

  Del resto, la storia di Honoré de Balzac uomo e scrittore (dalla nascita a Tours nel maggio del 1799 alla morte avvenuta nell’agosto del 1850 a Parigi) è una storia di infinite speranze, infinite acrobazie per sfuggire ai creditori e infinite suggestioni materiali e morali che sfioriranno in fretta lasciando lo scrittore pari pari come tanti suoi personaggi, avvilito, deluso e amareggiato, e nonostante ciò sempre aggressivo e tenace. Dai romanzi, dagli appunti, dalle lettere e dai progetti – quelli realizzati e quelli soltanto abbozzati – si ricava l’immagine di un lavoratore potente e possente che in sé avverte principalmente il bisogno di scrivere per poter dominare il gran fiume della realtà che sfugge, che rotola verso il buio del passato, che segna la società dei suoi tempi e che gli consente di vivere, di guadagnare, di essere in certi anni ricco addirittura, nonostante i tracolli finanziari e gli investimenti a cuor leggero. Anche questo è Balzac. E probabilmente non avremmo La Commedia umana con i suoi mille personaggi se Balzac non fosse stato così, se non fosse stato perennemente innamorato della donna sbagliata, o amico del potente di turno che avrebbe dovuto soccorrerlo e finanziarlo, o affascinato dagli aristocratici perdigiorno, o corroso dalla gelosia per un tale ricco mercante o un talaltro fortunato amante di madame Hanska.

  Eppure, ecco che il genio – se c’è – purifica tutto. E il genio di Balzac riuscì a depurare le felicità e le infelicità sue a tal punto da farle diventare commedia e tragedia della vita, e anche pensiero e conoscenza, come sosteneva il Curtius: una filosofia, insomma, dove «gli affari sono affari» e la poesia aiuta a capire «le buone azioni» e la «corruzione del mondo».

 

 

  Vincenzo Marelli, Musica e musicisti in Honoré de Balzac. Tesi di Laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, 1994, pp. 516.

 

 

  Giovanni Mariotti, Nell’antro esotico dello scrittore, «Corriere della Sera», Milano, 6 settembre 1994, p. 26.

 

  Su: Giuseppe Scaraffia, Torri d’avorio.

 

  Se, dopo aver detto al portinaio: «E’ arrivata la stagione delle prugne», il visitatore dichiarava al domestico che gli veniva incontro scendendo le scale: «Porto trine dal Belgio», al cameriere in attesa sulla porta: «Madame: Bertrand sta bene», è probabile che venisse introdotto nell’appartamento di Balzac (purché le parole d’ordine non fossero nel frattempo cambiate).

  Agli ospiti Balzac era solito mostrare con entusiasmo contagioso i suoi Watteau, i suoi Giorgione, i suoi Raffaello (in mezzo a quei nomi quasi tutti trascuravano il piccolo Greuze, forse il solo pezzo autentico della raccolta). A seconda dei suoi gusti, il visitatore poteva credere di trovarsi in un «nido creato da una bacchetta magica» (così sembrò all’editore Werdet) oppure nell’alloggio di una puttana (così sembrò ai fratelli Goncourt).

 

 

  Andrea Martini, «Il colonnello Chabert», con uno strepitoso Depardieu, entusiasma la Francia. Tutti in fila per Balzac, «l’Unità2», Roma, 23 settembre 1994, p. 9.

 

  È diventato, in Francia, il caso cinematografico della stagione. Il colonnello Chabert, dal romanzo di Balzac, ha unito pubblico e critica, suscitando ammirazione e entusiasmo. «Balzac si sarebbe dichiarato entusiasta», scrivono i quotidiani. [...].

 

  [...]. Si dirà che Honoré de Balzac come soggettista può fare miracoli. L’avventura del colonnello Chabert, così come l’ha immaginata Balzac, è il frutto di un perfetto incastro di commedia umana nel dramma storico. L’ufficiale che scompare, gravemente ferito, sotto una pila di cadaveri alla battaglia di Eylau, da tutti creduto morto, e che riappare molti anni dopo per rivendicare il suo nome, la propria moglie e la fortuna economica è un fantasma da grande letteratura. Un eroe dell’Impero che risbuca in piena Restaurazione; una scheggia del vecchio mondo che nella nuova Parigi degli affari politici e sentimentali non può trovare pace.

  Yves Angelo affronta il testo nel solo modo possibile: frontalmente. In effetti la forza e l’estrema modernità delle cento pagine balzacchiane sono tali da scoraggiare qualsiasi lettura o posizione che non siano di totale fascinazione. [...].

  È proprio perché si tiene alla larga dall’epica e dalla lirica da grande schermo che Il colonnello Chabert non ha il sapore stantio e il gusto polveroso di altri film in costume. Qui, fortunatamente, non si rivisita la Storia, si insegue casomai il rapido passaggio dei denari, il confronto degli egoismi, il dissolversi delle illusioni. Logico quindi che la chiave di volta del film risieda nel gioco degli attori, nella eventuale descrizione degli ambienti. Angelo riesce a controllare gli uni e gli altri. Fabrice Luchini, per esempio, l’avvocato che per primo crede alla storia di Chabert e si incarica di trovare per lui un onorevole compromesso, è il re di una «bottega» dove sedimentano le immondizie del cuore umano. Trattenuto quanto basta per far combaciare felicemente l’insensibilità quotidiana con la naturale curiosità professionale.

  Per non parlare di Fanny Ardant, l’ex contessa Chabert risposata a un Dussolier cinico e arrivista, finalmente a proprio agio nella descrizione di una avidità smodata quanto assolutamente necessaria. Attori celebri per essere «deboli» che divengono «forti» come lo sono in genere tutti, anche i più piccoli, personaggi di Balzac. [...].

 

 

  Gabriella Mezzanotte, Progetto unitario nell’opera di Balzac, «Letture», Milano, Anno 49°, Quaderno 511, novembre 1994, p. 92.

 

  Da questo volume che inaugura il progetto di offrire al lettore italiano una scelta davvero significativa della Commedia umana, Balzac esce proprio come «un grosso bruco» che si è trasformato «dentro lo spesso involucro che si è tessuto; ne vien fuori a fatica una farfalla pesante, che s’impiglia nei resti della sua crisalide e se ne nutre, e che le sue ali magnifiche ed enormi sollevano altissima nell’aria».

  Questa l’epigrafe di Taine con cui la curatrice Mariolina Bongiovanni Bertini apre l’introduzione. E infatti, senza prescindere dai capolavori, qui si dimostra come il genio di Balzac si riveli anche in testi meno conosciuti, ma non meno ricchi e di non meno sapiente narratività. I romanzi pubblicati provengono dalle diverse sezioni dell’opera di Balzac e confermano l’unitarietà del progetto dello scrittore.

  Dalle scene della vita privata (La falsa amante, Béatrix, Papà Goriot), a quelle della vita di provincia (Eugénie Grandet, La musa del dipartimento), a quelle infine della vita parigina (Ferragus, La duchessa di Langeais, La ragazza dagli occhi d’oro e I segreti della principessa di Cadignan) si intrecciano e si confondono le poche e ostentate virtù e i vizi molteplici e segreti della vita intima e di quella sociale, del mondo dorato e scintillante del faubourg Saint-Germain, nonché di quello chiuso e tetro delle cittadine di provincia. Qui la grigia monotonia della vita e la sotterranea grettezza delle relazioni umane sono riscattate da panorami e personaggi splendenti di luce, come nella prima parte di Béatrix, dove il fascino della Bretagna, delle sue campagne e delle sue coste, la nobile purezza del giovane Calyste e di sua madre Fanny incorniciano una triste storia di ipocrisie e di finzioni, che finirà con lo svilupparsi a suo agio, nella seconda parte del romanzo, in una Parigi superficiale e leggera, dove invece quanto riluce è falso.

  Abilissimo narratore e attento testimone della sua epoca, Balzac vi immerge senza scampo il suo lettore, lo coinvolge in intrighi sapientemente condotti dai personaggi più diversi, tutti indimenticabili: la figura dolorosa del vecchio pastaio Goriot, che l’amore paterno sprofonda in una sofferenza senza limite e senza consolazione; quella arida e dura del vignaiolo Grandet, parente non troppo lontano del verghiano Mastro don Gesualdo, che tutto e tutti – persino la sua unica figlia – inganna e sacrifica alla sua passione per l’oro; le frivole ma intelligenti gran dame parigine in cui solo lo sbocciare tardivo di una grande passione d’amore sa vincere, e non fino in fondo, le tortuose arti seduttrici.

  Questa immersione così totale nella Francia dell’Ottocento è agevolata da descrizioni precise fino al dettaglio: novello Cuvier della letteratura, Balzac se ne serve per indurre alla ricostruzione di un mondo intero esteriore o intimo, conclamato o segreto, che andrebbe altrimenti perduto.

 

 

  Lia Mintrone, Beatrice perfida dea, «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 24 dicembre 1994.

 

 

  Marco Modenesi, Ennui et fin de siècle: decadentismo e naturalismo a confronto, in AA.VV., Sotto il segno di Saturno. Malinconia, spleen e nevrosi nella letteratura dell'Ottocento. Atti del seminario di studio di Malcesine, 7-9 maggio 1992. A cura di Elio Mosele, Fasano, Schena editore, 1994 («Università degli Studi di Verona. Facoltà di lingue e letterature straniere. Istituto di lingua e letteratura francese»), pp. 253-278.



  Paul Morand, Prefazione, in Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert ...cit., pp. V-XV.

 

  Da: Mon Plaisir ... en Littérature, 1967.

 

  [...]. Il paria, emblema della miseria e della sporcizia, è il colonnello Chabert, conte dell’Impero, grand’ufficiale della Legione d’onore, a suo tempo milionario. Se fosse veramente morto a Eylau, se non fosse stato sepolto vivo, se non fosse riuscito a riemergere da sotto un mucchio di cadaveri, sarebbe passato alla Storia, sarebbe sfilato sotto l’Arco di Trionfo. Caduto al livello più basso, ha viceversa raggiunto una diversa immortalità, quella della Commedia umana.

  A forza di sincerità e di dettagli precisi, Chabert riesce a fare ammettere all’avvocato la verosimiglianza della sua inverosimile avventura. Il racconto, magnifico e insieme straziante, va letto nel contesto dell’opera di Balzac. Le coincidenze fortuite, che riportano alla luce del sole perfino morti risuscitati importuni, non sono un’eccezione dopo un’ecatombe. Anche Chabert torna e rivendica nome, capitali, rango, ma soprattutto la moglie. [...].

  Dall’inizio alla fine della novella è sempre un morto che parla.

  Nessuno, prima di Derville, ha udito quella voce d’oltretomba.

  Anche la fiducia del colonnello nell’avvocato è totale ed è per l’appunto questa fiducia che lo induce ad accettare una transazione, la cui sola parola lo aveva fatto finora rabbrividire: in via amichevole il colonnello avrebbe concesso il divorzio alla contessa in cambio del riconoscimento legale della propria esistenza e della propria identità, nonché di una rendita vitalizia di ventiquattromila franchi. Chabert, inoltre, si impegnava a non avanzare nessun danno nei confronti della ex moglie. [...].

  Il colonnello Chabert, divenuto “ragionevole”, accetterà di firmare, ma la contessa Ferraud come si comporterà? Terrificata dalle argomentazioni dell’avvocato e dal timore di uno scandalo, esita. Ma, all’improvviso, un tratto inequivocabile della superiore giustizia di Balzac rimette per così dire le cose a posto: vince l’avarizia. Ventiquattromila franchi sono troppi, e la signora si domanda se non può ottenere gli stessi vantaggi non sborsando nulla.

  E difatti eccola lì che spia il colonnello all’uscita dallo studio di Derville: la sua graziosa testolina, sporgendosi dalla carrozza, gli fa un cenno, gli sorride e lo invita a salire. [...].

  Per sentirsi a suo agio un momento, salì di sopra nella sua stanza, si sedette alla scrivania e depose la maschera della tranquillità ... come l’attrice che, rientrando affaticata nel proprio camerino dopo un quinto atto faticoso, si accascia semimorta e lascia in teatro un’immagine di sé alla quale non assomiglia più ...

  A che gli servono ora il suo rango, il titolo nobiliare, le decorazioni, i soldi, la moglie? Così come, con una spallata, si lascia cadere a terra un fardello inutile, Chabert getta via ciò per cui ha lottato e il sacrificio che intendeva compiere per amore lo compirà per disprezzo. [...].

  Chabert non arriva al suicidio, bensì opta per l’abdicazione di se stesso, sceglie l’obnubilamento che il suo quasi contemporaneo, Schopenhauer, considera l’unico rimedio alla malattia di esistere. [...].

Chabert ha un proprio posto in tutti i ricordi a fianco di Pons, di papà Goriot e si colloca sul medesimo piano. È l’indimenticabile storia di uno spettro.

 

 

  Claudia Moro, Letteratura francese. Lorenzo Caracciolo, Giovanna Sagona, “Lo spirito della città nella Parigi di Balzac”, Sellerio, Palermo, 1993, pp. 339. Lit. 50.000, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XI, N, 3, Marzo 1994, p. 18/II.

 

  Nella critica balzachiana la ricognizione di luogo è un Leitmotiv che dagli anni venti arriva sino al recente Balzac archéologue de Paris (1986) di Jeannine Guichardet e oltre. Qui si misura con le competenze urbanistiche di due architetti, Lorenzo Caracciolo e Giovanna Sagona, che per la collana “La pietra vissuta” di Sellerio hanno ricostruito in mosaico la Parigi della Comédie humaine [...].

  È più facile ora il colpo d’occhio su un orizzonte — quello parigino —- che Balzac restituì in immagini estreme, come vuole il concetto stesso di modernità. Mutevole e ubiquo, lo “spirito della città” si manifesta con uguale familiarità nella cupa desolazione dei vicoli e nell’opulenza sfavillante dei boulevard, aleggiando negli interni da vero genius loci. Dai silenzi claustrali della Cité, che risuona ancora dei passi di Abelardo, all’infamia notturna che striscia alle spalle del vecchio Louvre, dai palazzi del Faubourg Saint-Germain e del Faubourg Saint-Honoré, dove i resti dell’aristocrazia si tramandano la scienza dell’abitare, all’eleganza insolente della Chaussée d’Antin, popolata di cortigiane, tutto convive, si intreccia equivocamente, resiste alle bonifiche. E nulla ha un solo aspetto, la miseria può mostrare il volto sordido della capacità usuraria, o assumere il contegno eccentrico dell’arte, Anche l’indugio sugli arredi sfugge in Balzac a una pura finalità descrittiva: lo coglie bene Ejzenštejn, che nella magistrale lezione di regia sull’allestimento del Père Goriot, posta dagli autori in chiusura del volume, affida alla forma di un tavolo la rappresentazione di un clima sociale.

 

 

  Claudia Moro, Letteratura francese. Honoré de Balzac, “Il deputato di Arcis”, a cura di Maurizio Brioni, prefaz. di Gianfranco Pasquino, Diabasis, Reggio Emilia, 1993, pp. 142, Lit. 20.000, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XI, N, 7, Luglio 1994, p. 19/III.

 

  L’anonimato di rigore, le fattezze indistinguibili sotto l’ampio pastrano, uno stemma comitale sul calesse, la complicità di uno sfrontatissimo domestico che porta con malizia di adulto i suoi nove anni e mezzo, un’ostentata familiarità con due casate aristocratiche rivali insignorite nelle vicinanze, i Gondreville e i Cinq-Cygne: quanto basta perché tra i borghesi di Arcis-sur-Aube si offici prestamente un rito abusato in provincia, la Cabala dello Sconosciuto. Siamo poco oltre la metà di questo romanzo elettorale, e prima di lasciarlo incompiuto Balzac ci svela, alle spalle dei notabili delusi della Champagne, identità e scopi del misterioso personaggio. È Maxime de Trailles, notissimo ai lettori della Comédie humaine come uno degli elegantoni che dominano Parigi, senza rivali nel divorare al gioco le fortune di amanti altolocate, nel manovrare destini, nell’onorare patti occulti e burlarsi di intese simulate. Un’eccellenza scellerata, la sua, che a quarantotto anni ancora tracotanti — nonostante un accenno d’epa che lo affilia alla congrega dei gastrofori — comincia a dare segni di usura; rimangono spendibili solo il celibato e la carriera politica, entrambi lontano dalla capitale. Durante le difficili elezioni del 1839 Maxime deve crearsi benemerenze nel partito filippardo al potere: non sapremo mai se facendosi avanti in prima persona o cercando qualcuno capace di contrastare l’ascesa del giovane avviato liberale, il mediocre Simon Giguet, a cui la morte in guerra del candidato governativo Charles Keller, nipote del vecchio Gondreville, sembra spianare la strada. La scelta potrebbe cadere su quel Philéas Beauvisage che il censo, un’ottima disposizione agli affari (ha la “protuberanza che i frenologi chiamano l’acquisività”) e l’inconsistenza d’intelletto (conversa, da vera “luna giuliva’’, con “un diluvio di luoghi comuni piacevolmente sciorinati”) raccomandano come deputato ideale. Sua figlia è l’ereditiera di Arcis, destinata dal nonno materno, antico alleato dei Gondreville, allo splendore della capitale, ed è facile immaginare che, uscito di scena Keller, sarà proprio il parigino a impalmare la diciannovenne Cécile.

  Storia monca che pullula di figuranti, non lesina ragguagli su industria e costumanze locali, si concede il brio di qualche titoletto arguto, ma che l’assenza di passioni rende come vuota e percorribile à rebours. Il tempo delle elezioni è un tempo sospensivo, di leggi naturali ed equilibri sociali, di codici sentimentali e perfino di assetti domestici: le alleanze formano “prodotti politico-chimici nei quali le leggi dell’affinità vengono ribaltate’’, i maneggi dotali predeterminano le unioni, si spostano i mobili per far luogo ai comitati. Unico elemento di resistenza a vacuità e cicaleggio è forse la tempra dei pochi vegliardi, rari come le pietre da costruzione in questa plaga di Francia dove abbondano i legni dipinti a fingere la muratura. Non serve un finale al Deputato di Arcis. Ma nell’attesa che qualche guastatore di Balzac, implacabilmente, vi si cimenti, possiamo almeno azzardare una piccola morale, secondo la clausola esopica. La sollecitano, se non il romanzo in sé, gli intenti di questa traduzione italiana, data alle stampe alla fine dello scorso anno come “ironico viatico” (M. Brioni) per apprendisti candidati, e in una veste semi-militante e insieme culta, che fa convivere in relativa pace le numerose disinvolture tipografiche, le incisioni di Hogarth e la civetteria del colophon. Allora, cosa dimostra la storia di questi possibili candidati dell’Aube? Forse solo che l’etimologia è beffarda, e che nessuna attività umana è più remota dal candore evocato dalla parola. Centocinquantacinque anni dopo Balzac, e un’elezione più tardi, nessuno l’ha ancora smentito.

 

 

  Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura ... cit. [1993]. Seconda edizione riveduta e ampliata, Torino, Giulio Einaudi editore, («Paperbacks. Letteratura», 236).

 

 

  Graziella Pagliano, L’immagine del giornalismo nel romanzo dell’Ottocento: Balzac, Maupassant, Serao, James, in AA.VV., Terza pagina, a cura di Ada Neiger, Trento, Edizioni QM, 1994, pp. 31-44.

 

 

  Alberto Papuzzi, Chi è volgare? L’esibizionista dei sentimenti, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, Anno XIX, N. 925, Ottobre 1994, p. 1.

 

  Giovanni Macchia, Flaubert e Balzac non lo sono: non tradiscono la realtà.

 

  La volgarità in letteratura è tutto ciò che non si traduce in resa espressiva della realtà. Perché la realtà non è mai volgare. La volgarità subentra quando si vuole sovrappone alla realtà qualcosa in più. Sono d’accordo con quanto Huxley [La volgarità in letteratura, Il Mulino] dice di Flaubert: non è mai volgare, pur avendo scritto pagine al limite della volgarità. Pensiamo alla scena di Madame Bovary in cui il povero medico di provincia s'adatta a fare quella terribile operazione chirurgica. E Huxley non fa l’esempio di Balzac? Lo fa? Lo immaginavo. Poiché Balzac è sceso molto in basso per raccontare la Commedia umana: pensiamo a quanto appare volgare Papà Goriot. Ma neppure Balzac, come Flaubert, tradisce la realtà. Perciò neppure Balzac è volgare. Soltanto gli scrittori mediocri sono veramente volgari. La volgarità è la mediocrità della rappresentazione letteraria. [...].

 

 

  Paola Pittalis, Lo sguardo straniero, in AA.VV., La Sardegna a cura di Manlio Brigaglia con la collaborazione di Antonello Mattone e Guido Melis. 3. Aggiornamenti, cronologie e indici generali, Sassari, Edizioni della Torre, 1994, pp. 144-169.

 

  p. 161. Nel 1837 Balzac, deluso nella ricerca di un suo personale Eldorado — i giacimenti di piombo ed argento abbandonati dai romani – traccia un ritratto impietoso dell’isola. «Ho attraversato foreste vergini, piegato al collo del cavallo a rischio della vita [...] ho visto cose tali come si raccontano della Polinesia. Un intero regno desertico, veri selvaggi, nessuna coltivazione [...] uomini e donne vanno nudi con un brandello di tela [...] per coprire il sesso» (Lettere a Madame Hanska).

 

 

  Silvia Poletti, Leoncavallo fa danzare Balzac, «Danza & Danza», Anno IX, n. 86, novembre 1994, p. 10.

 

 

  Manuela Prada, Il linguaggio meta fonologico nell’opera narrativa di Honoré de Balzac (Un début dans la vie; Albert Savarus; Autre étude de femme: Mémoires de deux jeunes mariées; La Rabouilleuse ; L’Envers de l'histoire contemporaine). Tesi di laurea, Milano, università cattolica del Sacro Cuore, 1994.

 

 

  Riccardo Reim, Introduzione, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet ... cit., pp. 7-10.

 

  Quando appare Eugénie Grandet, nel 1833, Balzac ha trentaquattro anni: è nato il 20 maggio 1799 e morirà il 18 agosto 1850; mezzo secolo di vita che coincide esattamente con l’affermarsi e il consolidarsi del dominio borghese in Francia. Ha dunque ragione Pietro Paolo Trompeo quando osserva che a proposito di questo «Omero» della borghesia egoista e affarista «la Cronologia, che nel teatro della storia ha tutt’al più la parte del buttafuori e che in certi casi sembra sbadata e inopportuna, nel caso di Balzac è stata puntualissima e quasi geniale»: cos’è infatti la Comédie humaine, questo labirinto in cui il lettore rischia di sperdersi, questo «grande archivio di polizia» nella cui fitta rete «le esistenze si stemperano, si esaltano e si distruggono, ognuna legata all’altra come l’ostrica alla sua valva», se non l’epopea al negativo di quella borghesia avida e meschina che lo scrittore disprezzava e detestava ritraendola con aristocratica crudeltà? Balzac, potremmo dire, trascina la sua platea in palcoscenico elevandola a protagonista, offrendole un’immensa galleria di specchi deformanti ma rivelatori in cui riflettersi: «tutti sono sottoposti a un rapido processo di semplificazione e classificazione», ogni personaggio è una sorta di «voce» che va man mano a comporre una nuova enciclopedia dove l’umanità è allo stato di animalità, dove la psicologia parte dalla fisiologia, dove non esistono barriere tra il materiale e l’immateriale. «Un cas pathologique», come ipotizzava Émile Zola? Balzac parte dall’occhio, dall’esperienza: vede, ha una mostruosa capacità di vedere, e nel suo stesso sconfinato, allucinato «realismo» (e «realismo» per Balzac, si noti bene, non è affatto antitetico a «romanticismo») si innesta la forza del visionario. Se ne accorse Baudelaire, e prima di lui se ne accorsero Philarète Chasles e Théophile Gautier. Come osserva Giovanni Macchia, è «la “visionarietà” del reale [...] rivelata col massimo di precisione. Vedere: l’ossessione dell’occhio, dello sguardo, che raggiunge la profondità e il “cuore romantico delle cose’’, su cui i nostri moderni romanzieri nutrono non ingiustificati sospetti». Ed è sempre Giovanni Macchia a citare, a proposito di Balzac, la frase «di un romanziere che gli sta tanto lontano», Robbe-Grillet: «Rien n’est plus fantastiche que la précision». Nulla è più fantastico della precisione. Balzac doveva pensarla allo stesso modo.

  Prima di giungere alla «preoccupazione estrema della rappresentazione esatta» e a interessarsi di «ce qui se passe partout» (la vera svolta avviene nel 1829 con Le Dernier Chouan, il primo romanzo firmato con il suo vero nome e la prima opera a essere inclusa, successivamente, nel piano della Comédie humaine), Balzac, come nota ancora Zola, «si era smarrito per lungo tempo nelle più stravaganti fantasie, ricercando false mostruosità e false grandezze» I suoi inizi di scrittore (all’insegna degli altisonanti pseudonimi di Horace de Saint-Aubin, Lord R’Hoone, A. de Villerglé) sono infatti oscuri, vili, quasi umilianti: libri come L’Héritière de Birague, Le Vicaire des Ardennes, Clotilde ou le beau Juif, Le Centenaire ou les deux Béringheld, con i quali tenta, senza successo, la carta del romanzo popolare, sono dei brutti pasticci in cui galleggiano alla rinfusa ricordi e cascami di Scott, Byron, Nodier, nonché dei romanzi gotici della Radcliffe e del Melmoth di Charles Robert Maturin, infarciti di pallide vergini, spietati persecutori, eroi satanici, segreti inconfessabili, delitti raccapriccianti, efferati delitti e luminose redenzioni. «Cochonneries littéraires», insomma, come lo stesso autore non esiterà ad ammettere alcuni anni dopo, ma dove già, sia pure rozzamente, risultano bene evidenti pregi e difetti di Balzac, come il suo vigore nel delineare in poche righe personaggi e luoghi ma anche «la sua maniera rozza, incredibile di sviluppare vicende romanzesche», ricorrendo senza esitazione a «trucchi da mestierante e sdolcinature intollerabili», al punto da farsi tacciare da più di un critico (da Taine a Zweig) con gli attributi di grossier e vulgaire. Anche per il Balzac più maturo, dunque, torna giusta l’osservazione di Pietro Paolo Trompeo: «Credo si possa affermare con sicurezza che in Balzac l’ambientista, il ritrattista e lo storico si lasciano addietro di gran lunga il narratore-inventore: quanto questi è maldestro o arruffone, tanto quelli sono vigorosi, intelligenti e profondi. Quel che Balzac ha da dirci, la sua grande parola, Balzac ce la dice nella rappresentazione degli ambienti in cui i suoi personaggi vivono e nella descrizione della fisionomia di questi: ambienti e fisionomie si rispondono come la terra e la pianta, e in essi è la preparazione e la rivelazione dei caratteri. [...] Il fascino di quelle descrizioni e di quei ritratti ci prende e non ci lascia, e poco importa se il racconto che segue ci appare come un corollario, inutile e magari sbagliato, con cui il moralista crede di perfezionare la rivelazione che aveva da farci». Balzac osserva, studia, classifica, semplifica. Un moralista, allora – nel senso di «osservatore dei costumi umani» – come è nella grande tradizione della letteratura francese? Un ritrattista? («Chi meglio di lui ha dipinto i vecchi e le belle dell’Impero, le duchesse e le viscontesse vissute alla fine della Restaurazione, e la classe borghese che trionfò sotto la dinastia di Luglio?», si chiedeva Sainte-Beuve in un lundi del 1850, poco dopo la morte dello scrittore. Ma un ritrattista, certamente, vicino a Daumier, non a Daguerre. Un realista suo malgrado, come afferma Engels, o uno scrittore nel quale progetto ed esecuzione, pensatore e uomo politico si trovano in costante contraddizione, come osserva Lukàcs? O forse una sorta di ricercatore mistico di un’ipotetica «terza via»? Un Balzac contro-realista, dunque, latore al tempo stesso di messaggi sia «palesi» che «occulti», uno scrittore, come conclude Ferdinando Camon, «contro la realtà» perché «contro la storia», che scorgeva perfettamente, con sguardo impietoso, «la salutare necessità della fine dell’aristocrazia, ma nello stesso tempo ne descriveva l’agonia e la scomparsa con un’abbondante dose di nostalgia», ricercatore insoddisfatto di nuove, introvabili verità che il suo tempo non poteva offrirgli: «Balzac, sì, sconfinava nell’utopia. Ma l'utopia non era il suo scopo, né costituiva il suo appagamento: era il suo dramma».

  Eugénie Grandet (concepito in origine come una novella da inserire nelle Scènes de la vie de province) viene pubblicato nel dicembre 1833, subito accolto da una critica entusiasta che lo saluta quasi unanimemente come un capolavoro. Romanzo fondamentale nell’opera di Balzac (è, in effetti, il suo primo grande libro), questa storia in grisaille dà inizio al vero e proprio «genere balzachiano», «con i suoi caratteri “eccessivi ”, le passioni dominanti e lo sfondo sociale che lo scrittore d’ora in poi metterà a fuoco crudamente nella sua epica in negativo: quello del capitalismo nascente, di una borghesia intraprendente e avida, che deriva il suo potere non più dalla tesaurizzazione e dal risparmio, ma dalla compravendita e dalla speculazione». Ambientato nella torpida, malinconica cittadina di Saumur, il romanzo – di una linearità insolita che esalta le esemplari figure dei due protagonisti, il vecchio Grandet e sua figlia Eugénie, alle quali si affianca quella di Charles, il cugino senza scrupoli – contrappone «l’amore dell’oro» all’«amore», la smania di «possedere» alla volontà di «dare». Ogni pagina è permeata dal «senso del denaro che urge sotto la vita degli uomini e delle cose, mutando volti e aspetti»: sarà proprio questa «urgenza» ad annientare Eugénie, vittima dell'avarizia e del cinismo, questa spietata mistica dell’oro incarnata dal grandioso personaggio di papà Grandet, vero «monumento di monomania cui soccorre incessantemente un estenuante bisogno di dominio», moderno Harpagon (ma il personaggio di Molière è tutt’altra cosa, e il paragone – del quale lo stesso Balzac si gloriava – è valido soltanto sensu lato) per il quale «la vita è un affare», capostipite di tutta una serie di figure sinistre e deformi che troveranno posto in quell’«universo altro» che è la Comédie humaine.

 

 

  Laura Rinaldi, Il patto col diavolo: varianti di un motivo in Byron, Fouqué e Balzac. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1994.

 

 

  Jacqueline Risset, La fortuna di Dante in Francia, in AA.VV., Francesi in Italia ... cit., 257-262.

 

  Tra gli incontri più significativi ed emblematici nell’Ottocento, vi è naturalmente Balzac. Il titolo dato all’insieme dell’opera, La Comédie Humaine, è di per sé un segno di omaggio totale. Ma Dante è anche un personaggio balzacchiano: è lui il misterioso straniero senza nome del racconto Les Proscrits, esiliato da Firenze e venuto a sentire i filosofi della Sorbonne, in particolare il famoso averroista Sigieri di Brabante. Un discepolo lo accompagna, giovane, bello, intelligente, ma che non riesce a seguire il maestro nelle altezze mistiche nelle quali si spinge. Il discepolo si chiama Godefroy («Dio freddo»); rappresenta la Ragione naturale nella sua limitazione: è Virgilio, che Balzac fa passare dalla posizione di maestro a quella di discepolo. Un dettaglio del racconto rivela l’intensità del coinvolgimento di Balzac: lo straniero racconta i suoi misteriosi viaggi nell’aldilà. Racconta in particolare di un giovane fiorentino innamorato di una bella dama, che muore giovanissima. Per raggiungerla, l’innamorato si dà la morte. Purtroppo, non conosceva la legge irrevocabile, secondo la quale i suicidi vanno in inferno (mentre l’amata, naturalmente, è volata in paradiso). Egli sarà quindi per l’eternità separato dalla sua donna. A questo punto si rivela l’identificazione di Balzac, il suo desiderio di essere in persona all’interno del testo di Dante: quando viene chiesto allo straniero il nome dell’infelice giovane, egli risponde: «Honoré». Così Honoré de Balzac ha fatto di Dante un personaggio della Comédie Humaine, e di se stesso un personaggio della Divina Commedia.

  Ma il senso più profondo del racconto Les Proscrits consiste nello spingere l’immagine di Dante verso la «mystique libre», che è per Balzac molto superiore alle forme religiose legate alla Chiesa.

 

 

  Eileen Romano, Introduzione, in Honoré de Balzac, Adieu/Addio ... cit., pp. 5-15.

 

  [...]. Le opere.

 

  In una straordinaria lettera alla sorella Laure, Balzac racconta come raccoglie il materiale per i suoi libri: “Vado a osservare i costumi dei faubourgs, gli abitanti e i loro caratteri. Vestito male come gli operai, indifferente al decoro, faccio in modo che non si accorgano di me; posso unirmi ai loro gruppi, vederli concludere trattative, litigare nell’ora in cui smettono di lavorare [...]. Quando incontro un operaio e sua moglie che tornano dall’Ambigu Comique, mi diverto a seguirli dal boulevard du Pont-aux-Choux fino al boulevard Beaumarchais. Quella brava gente comincia a parlare della commedia che ha visto; poi, di argomento in argomento, arrivano ai loro problemi; la madre trascina il figlio per la mano senza ascoltare i suoi lamenti o le sue richieste; marito e moglie contano già i soldi che verranno pagati loro l’indomani, li spendono in venti modi diversi [...]. Nell’ascoltare quella gente, posso sposare la loro vita, mi sento i loro stracci sulla schiena, cammino con i piedi nelle loro scarpe bucate, i loro desideri, le loro necessità, tutto passa nella mia anima e la mia anima passa nella loro [...].

  “In me l’osservazione è già diventata intuitiva: penetra l’anima senza omettere il corpo: o meglio coglie così bene i dettagli esterni che va immediatamente al di là; mi dà la facoltà di vivere della vita dell’individuo sulla quale si esercita, permettendomi di sostituirmi a lui così come il derviscio delle Mille e una notte prende il corpo e l’anima delle persone sopra le quali pronuncia certe parole”.

  Anche se [...] la prima idea della Comédie humaine nasce nel 1834, per poi venire di-chiarata pubblicamente nella prefazione (Avant-propos) del 1842, non va dimenticato che Balzac, fin dal 1826, quando ancora tentava la strada dell’editore, pubblica – alcuni dicono sia un’opera sua, altri la attribuiscono a un certo Brismontier – un “Piccolo dizionario critico e aneddotico delle insegne di Parigi viste da un vagabondo”. Alla base della sua opera monumentale esiste il (sic) “tentative d’épuisement” (per dirla alla Perec) di un paese in un momento dato della propria storia: e non tanto la catalogazione delle diverse classi sociali e delle passioni individuali, quanto un affresco completo ed esauriente della società, diviso in più parti disposte secondo un ordine piramidale. Alla base, gli Studi di costumi del XIX secolo (che comprende le Scene della vita privata, le Scene della vita di provincia, le Scene della vita parigina), cui si aggiungono le Scene della vita politica, le Scene della vita militare (di cui fa parte il racconto che qui presentiamo), le Scene della vita di campagna. Infine gli Studi filosofici e gli Studi analitici; quest’ultima parte Balzac non fece in tempo a scriverla, ed è in queste opere che avrebbe dovuto trarre le conclusioni filosofico-politiche della sua visione globale dell’uomo e della società. Nacquero, con la Comédie humaine, oltre 2300 personaggi che passeranno da un libro all’altro, sposandosi, uccidendosi, attraversando vicende intrecciate tra loro, richiamandosi ciascuno alla propria memoria. Vale qui citare l’orazione funebre di Victor Hugo, quando a proposito dell’opera di Balzac disse: “Tutti i suoi libri formano un libro solo, un libro vivente, luminoso, profondo, dove vediamo andare e venire e marciare e muoversi, con un non so che di turbato e di tremendo misto al reale, tutta la nostra civilità (sic) moderna”.

  Indicative sono tuttavia le reazioni, opposte, di due suoi contemporanei. La prima è di Sainte-Beuve che, in chiave progressista e moderna, nel 1840 (cioè un anno dopo che fu depositato il brevetto del dagherrotipo) scrive in un articolo intitolato Dix ans après en littérature: “Balzac ha fotografato la società in un quarto d’ora di deshabillé galante e di sorpresa: le turbolenze della piazza avevano dischiuso la via dell’alcova, ed egli vi si è insinuato”. L’altra reazione, di visionarietà magica, è della moglie del famoso giornalista Émile de Girardin, che nel 1836 scrive un romanzo intitolato La canne de Monsieur de Balzac. Il protagonista, Tancrède, una sera a teatro scopre che Balzac possiede un aiutante magico, simile al ramo d’oro di Roberto il Diavolo o all’anello di Gige: è il suo bastone che, se tenuto nella mano destra, è un semplice bastone da passeggio ma, se impugnato con la mano sinistra, lo rende invisibile. “Ecco finalmente spiegato” scrive la signora Girardin “il suo talento; ora sappiamo come abbia fatto a leggere l’anima dei suoi eroi: di Eugénie Grandet, di Louis Lambert, della signora de Beauséant, di Papà Goriot, e di tante altre anime di cui ha raccontato le sofferenze con una verità così palpitante. [...] Il signor de Balzac, come quei principi popolari delle Mille e una notte che si travestono per visitare la capanna del povero o i palazzi di quei ricchi che vogliono mettere alla prova, il signor de Balzac, dicevo, si nasconde per osservare; guarda, guarda persone che si credono sole, che pensano come mai sono state viste pensare; osserva dei geni sorprendendoli appena scesi dal letto, sentimenti in vestaglia, vanità in cuffia da notte, passioni in pantofole, ire col berretto, disperazioni in canottiera, e poi mette tutto questo in un libro! ...”.

 

  Il linguaggio.

 

  È curiosa in Balzac la bipolarità per cui fu definito da un lato il “padre del realismo”, dall’altro un allievo di Swedenborg, il teosofo visionario svedese (a tale influenza sarebbero da attribuire soprattutto opere come Louis Lambert). La stessa critica del suo tempo, lo abbiamo visto, usa due griglie opposte per interpretare i suoi romanzi, riconducendo la sua prolificità e la sua capacità di descrizione o allo spirito della rappresentazione “documentaria” più moderna e tecnologica, come nella neonata fotografia, o a un “dono” nemmeno più naturale, ma spiegabile quasi soltanto in termini magici, come appunto in un racconto fiabesco da Mille e una notte.

  Certo è che la scrittura “continua” di Balzac rumina e digerisce, o per meglio dire accoglie in sé e sistematizza, ogni aspetto della propria epoca, dalle sfumature dell’animo di quel “cliente nuovo” che è il borghese inurbato nella nascente metropoli, ai canoni dell’architettura, ai caratteri tipografici, alle usanze, ai costumi, ai commerci; il tutto in modo talmente circostanziato e complessivo da far pensare, appunto, a un archivio da tramandare a futura memoria, come se il mondo dopo Balzac dovesse sparire (e come fece qualche anno dopo il fotografo Eugène Atget, fotografando a tappeto le strade, i viali e i monumenti di Parigi).

  Eppure, nei confronti della fotografia, egli ebbe delle reazioni quasi da essere primitivo. Temeva di essere fotografato — infatti esistono pochissimi suoi ritratti — e Nadar ricorda in Quando ero un fotografo: Balzac si sentì a disagio davanti al nuovo prodigio: non poteva evitare una certa apprensione per l’operazione daguerriana ... Secondo Balzac, dunque, ogni corpo, in natura, è composto da varie serie di spettri, in strati sovrapposti all’infinito, stratificati in membrane infinitesimali, in tutte le direzioni in cui si attua la percezione ottica. Non essendo consentito all’uomo di creare – cioè di infondere la concretezza di una cosa solida partendo da un’apparizione e dall’impalpabile, ossia dal nulla fare una cosa – ogni operazione daguerriana interveniva a rivelare, distaccava e tratteneva, annettendolo a sé, uno degli strati del corpo fotografato. Ne derivava per detto corpo, e a ogni operazione ripetuta, l’evidente perdita di uno dei suoi spettri, ossia di una parte fondamentale della sua essenza costitutiva”.

  Ebbene, tale immagine non è poi così lontana dalla struttura lamellare, sovrapposta, stratificata e onnidirezionale della Comédie humaine. Balzac, frugando in tutte le classi sociali, entrando di soppiatto in tutti gli hôtels particuliers, nelle mansarde, nei mezzanini dei portinai posti sopra i grandi portoni degli ingressi principali, rivoltando come un guanto le anime umane dalle più semplici alle più complesse, “passando nelle loro anime come la loro passa nella mia” (secondo la sua stessa definizione), si trovò a far fronte a un materiale incommensurabilmente vasto, disorganico e diversificato. Forse risiede qui il motivo per cui alcuni suoi contemporanei, come Sainte-Beuve, gli rimproverarono “una scrittura estremamente irregolare”, “uno stile scorretto, impuro, casuale”. Forse è lo stile che la realtà stessa portava con sé in quel momento e imponeva per lasciarsi decifrare, o l’unico stile con cui la si poteva ritrarre in modo così vasto, anche a costo di asperità o diseguaglianze di scrittura. O forse, ancora, era lo stile di uno scrittore assillato tanto da un desiderio esaustivo di rappresentazione quanto dalle condizioni in cui scriveva, ossessionato dai debiti, dalle scadenze, malato e sostenuto dai litri di caffè bevuti giorno e notte.

 

 

  Ivanna Rosi, La torture par l’espérance: metamorfosi di uno scenario in tre autori ottocenteschi: Maturin, Balzac, Villiers de l’Isle-Adam, in AA.VV., Riscrittura, intertestualità, transcodificazioni. Personaggi e scenari. Seminario di studi, Pisa, febbraio-marzo 1993, Facoltà di lingue e letterature straniere. Atti a cura di Emanuela Scarano e Donatella Dramaro, Pisa, Tipografia editrice pisana, 1994, pp. 141-168.

 

 

  Corrado Rosso, Per una nuova interpretazione della “Peau de chagrin”, in AA.VV., George Sand et son temps. I. Hommage à Annarosa Poli. Textes recueillis par Elio Mosele, Genève-Moncalieri, Slatkine-C.I.R.V.I., 1994 («Dimensioni del viaggio», 3), pp. 193-204.

 

  La rilettura dell’opera balzachiana condotta da Rosso considera la coesistenza, nel testo, della dimensione fantastica e di quella razionale, le quali, richiamandosi continuamente, determinano uno spessore straordinario della materia narrata. In particolare, l’A. svela un modello teoretico che rinvia alle filosofie più barocche e paradossali del razionalismo secentesco e legge in filigrana «la storia di una paranoia il cui modo di funzionamento richiama alla mente la procedura occasionalistica dei filosofi post-cartesiani del Seicento» (pp. 194-195). Se la paranoia di Raphaël e il suo schema di funzionamento nell’opera richiamano modelli metafisici secenteschi, essi riflettono contemporaneamente lo stato psicologico precario e contraddittorio dell’uomo (dell’eroe) romantico nei suoi rapporti con il mondo. Il messaggio etico de La peau de chagrin non può quindi separare lo stato paranoico di Raphaël ed il suo viscerale pessimismo, mal compensato dall’autoesaltazione e dai poteri che la pelle di zigrino gli conferisce.

 

 

  Corrado Rosso, Balzac e l’orologeria paranoica, in Trasgressioni e paradossi. Saggi francesi, Bologna, Editrice Clueb, 1994, pp. 105-116. 

 

  Si tratta del medesimo studio segnalato nella scheda precedente.



  Dionigi Scano, Una fallita intrapresa mineraria in Sardegna, «Argentaria. Rivista dell’Associazione Culturale “Lao Silesu», Iglesias, Nuova Serie, N. 4, Dicembre 1994, pp. 103-108.

 

  Si tratta della riproduzione parziale dell’articolo pubblicato sulla rivista «Mediterranea» di Cagliari nel gennaio 1927.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, La caffettiera di Balzac, in Torri d’avorio. Interni di scrittori francesi nel XIX secolo, Palermo, Sellerio editore, 1994 («La diagonale», 78), pp. 91-121.

 

  Scaraffia ricostruisce il percorso biografico ed artistico di Balzac attraverso l’analisi delle dimore e degli ambienti entro cui lo scrittore scandì le tappe della sua fecondità creativa, dalla stanza al numero nove di Rue Lesdiguières allo sfarzoso rifugio di Rue Fortunée. Benché la passione di Balzac per gli oggetti d’arte non fosse sostenuta da un’effettiva competenza, egli, così austero e rigoroso nei lunghi momenti di lavoro notturno, mostrò un’ossessiva attrazione per il lusso, anche quando le sue condizioni economiche non lo favorivano. Questa atmosfera «eternamente sospesa tra la fantasticheria e la vita», quest'ambizione di creare uno «schermo di squisitezze frapposto tra la brutale nullità del reale e la debole potenza del sogno» (p. 114) dominarono la fantasia di Balzac soprattutto negli anni della sua convivenza con Mme Hanska: lo spirito che io animava nella ricerca del bric-à-brac non era soltanto dovuto al desiderio di porsi sullo stesso piano della sua nobile amante, ma rappresentava parimenti l’estremo tentativo di strappare se stesso alla transitorietà del presente, per una definitiva ed eterna redenzione nel coro dei personaggi immortali della Comédie humaine.

 

  Cfr. anche 1989.

 

 

  Aldo Tassone, Benvenuto all’inferno Colonnello Chabert, «la Repubblica», Roma, 24 settembre 1994.

 

  Paesaggio dopo la battaglia. E’ la sera dell’8 febbraio 1807. Sui campi di Eylau un nugolo di corvi – i “monatti” – si aggira tra i cadaveri semiassiderati; dopo averli spogliati con cura di ogni avere (abiti, stivali, oggetti, armi), li ammucchiano in grandi fosse comuni. Malgrado i controlli, rischiano di finire nella fossa anche chi morto non è. E infatti ecco che qualcosa si muove in quel “letamaio umano”: annaspando tra i cadaveri – si serve di un braccio mozzato come di una leva – un ferito riesce ad aprirsi un varco, a risalire verso la vita. E’ il colonnello Chabert; ha fatto tutte le campagne dell’Empereur cui deve la sua fortuna; a Eylau comandava un reggimento di cavalleria che ha travolto le linee russe. Soccorso da una contadina, Chabert (smemorato a causa della profonda ferita alla testa, e dato per morto sugli atti ufficiali) vaga per anni da un ospedale prussiano ad un altro. Dieci anni dopo (è il 1817) ricuperata in parte la memoria fa ritorno a Parigi. Nella capitale c’è stato un terremoto politico senza precedenti: eclissatosi il “sole” di Napoleone, i nuovi dirigenti (la nascente classe borghese che ha sostituito la nobiltà) venerano un altro sole, il dio denaro. Tutto ciò che ricorda il passato va rimosso. (Soltanto dopo il 1825 si tornerà a parlare de l’Empereur). Il sopravvissuto di Eylau Il sopravvissuto di Eylau non poteva scegliere un tempo peggiore per ritornare in patria a esigere i suoi diritti. La moglie, convolata a nuove nozze con un futuro “Pari” di Francia, lo fa cacciare via come un impostore; ed è un miracolo se Chabert non finisce nel manicomio di Charenton. Nemmeno i buoni uffici e le minacce di un illuminato notaio che si interessa ai casi umani (è affascinato dalla “nobile fierezza” di quell’uomo fuori del comune che si è presentato dicendo “Sono colui che è morto, un fantasma”) riusciranno a convincere “Madame Ferraud” a firmare una “transazione”. Disgustato dalla crudeltà di quella donna avida e intrigante (per indurlo a rinunciare alla sua identità sociale, Madame finge di volergli ancora bene), Chabert decide di “suicidarsi” socialmente. “Dissotterrato dai morti, non accetta di finire “sotterrato sotto i vivi, sotto i loro giochi, le loro cartacce”. A convincere il debuttante Yves Angelo (operatore di chiara fama: ha firmato la fotografia degli ultimi film di Corneau e Sautet) a portare sullo schermo l’affascinante romanzo breve di Balzac – Le colonel Chabert, è del 1832 ma sembra scritto da Pirandello – è stato Gérard Depardieu. “Conosceva la mia passione per Balzac” ricorda Angelo “e il film è quindi il frutto di una duplice passione. Pur non essendo un regista “epico”, ci tenevo a iniziare il film con una grande sequenza di battaglia, per introdurre lo spettatore nel cuore della vicenda: un uomo che esce dal regno dei morti e alla fine vi ritorna. Quanto a Balzac, era affascinato dalle battaglie, aveva iniziato un romanzo sulle battaglie di Napoleone”. [...]. “La cosa più difficile è stata adattare Balzac: mettere in luce quello che sta dietro le sue storie; le storie sono spesso di una semplicità solare, ma nei rapporti tra i personaggi c’è una complessità, un’ambiguità, una crudeltà insospettata. Prendiamo Chabert: c’è un morto che ritorna, la moglie (una ex prostituta che gli deve la sua fortuna) non lo vuol riconoscere perché non vuol perdere i suoi privilegi (la “roba”, il secondo marito nobile) ... Personaggi ambigui. La cosa difficile è scavare in questi due personaggi, mostrare la loro ambiguità, le zone d’ombre (non ci sono bianchi e neri nel film, solo varie gamme di grigi), le segrete debolezze: Madame Ferraud ad esempio non è solo fredda e crudele, ha delle fragilità interne. La cosa più difficile nel mio lavoro è stato sviluppare e approfondire – all’interno della storia – i personaggi, mostrare la complessità delle loro relazioni. A ben guardare, sotto un intrigo romantico, il libro presenta una problematica eternamente attuale come la natura umana: l’ambiguità del comportamento umano e sociale, la dialettica verità-menzogna, il gioco delle parti caro a Pirandello (qui è invitato a nozze), la contraddizione tra maschera sociale (atteggiarsi, mentire) e aspirazioni profonde. Chabert alla fine getta la maschera per entrare nel mondo del silenzio, dove non si mente più perché non si gioca più al gioco delle maschere ... Depardieu, Ardant e gli altri mi hanno splendidamente sostenuto in questo gioco”.

 

 

  Laura Terenghi, Il linguaggio meta fonologico nell'opera narrativa di Honoré de Balzac del 1840/41. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1994.

 

 

  Giovanni Tesio, Usura & Castigo, «La Stampa Tuttolibri», Torino, Anno XIX, N. 921, settembre 1994, p. 1.

 

  Certamente imprescindibile il ritratto del balzacchiano Gobseck, un esteta del danaro dato ad usura, vero garante del suo nome (gober vale inghiottire, sec asciutto), capace di formulare in proposito pensieri sublimi: «Mi piace infangare i tappeti dei ricchi, non per meschinità, ma perché essi sentano l’artiglio della Necessità». «Il mio sguardo è come quello di Dio», dichiara Gobseck al quasi-amico Derville e un’altra volta, addirittura con allegria: «Ego sum papa!».

  Papa, non papà come Goriot, più avaro che usuraio. Ma se i confini non sono sempre nitidi, come non annettere alla mobile progenie il grande e patriarcale speculatore Gundermann nel romanzo di Zola, Il danaro?

 

 

  Roberto Valeriani, Stanze d’artista, «il Giornale», Milano, 21 giugno 1994.

 

  Su: G. Scaraffia, Torri d’avorio.

 

 

  Jacques Viard, Balzac et le socialisme «PierreLerouxico-Sandique», in AA.VV., George Sand et son temps ... cit., II, pp. 663-685.

 

 

  Alberto Vigevani, Così invecchia la pelle della sapienza, «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 3 agosto 1994.

 

  [...]. Sebbene la fabbricazione della carta abbia preso alla fine una strada diversa, per quello che riguarda la materia prima, quella intravista in origine da Réaumur. Balzac fu profeta. Lo straccio, che allora entrava come materia prima per il novanta per cento, oggi è utilizzato solo per carte di altissimo costo, prodotte manualmente o con macchine «in tondo», destinate a libri di grande pregio o a incisioni d’artista. [...].

  La storia accennata, conduce, in piena rivoluzione industriale, a uno tra i più bei romanzi di Balzac che, lui stesso stampatore ed editore, forse anche influenzato dall’eco che ebbero le manovre speculative del finanziere Ouvrard che, prevedendo l’enorme sviluppo del consumo di carta nell’imminenza della rivoluzione francese, acquistò numerose cartiere, soprattutto nella regione della Loira, in cui abbondava l’acqua, arricchendosi rapidamente.

  Balzac senti per primo e descrisse la poesia delle macchine in movimento e, sempre nella Comédie humaine, raffigurò l’intera vita sociale del suo tempo Ancora per primo, rappresentò in particolare il mondo del commercio e dell’industria, che sotto i suoi occhi fiorivano a un ritmo frenetico. Nelle Illusions perdues, scriverà il dramma di un inventore. David Séchard. destinato a rovinarsi nella ricerca. alla fine riuscita ma a profitto d’ignobili speculatori, di una nuova tecnica, con materiali nuovi, di fabbricazione della carta.

  Così scrive, nel 1842. Balzac: «Impiegherò le ortiche, i cardi: perché, per mantenere a buon mercato la materia prima, bisogna indirizzarsi verso sostanze vegetali a basso costo ...».



Marco Stupazzoni

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