sabato 2 gennaio 2021



1993

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Etude de femme. Texte intégral exploité par Dominique Collet [con audiocassetta], Napoli, Morano editore, 1993 («Classiques vivants»), pp. 80.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il ballo di Sceaux. Traduzione di Nanda Colombo, Firenze, Passigli editore, 1993 («Biblioteca del viaggiatore», 55), pp. 78.

 

  Per la traduzione, cfr. 1960.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, tradotto e curato da Rocco Carbone, disegni di Antonio Capaccio, Roma, Empirìa e Florida, 1993 («Il ponte di corda»), pp. 80.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Traduzione di M. N. Croci e M. Dardari, Ripatransone (AP), Maroni, 1993 («Frammenti di scena»), pp. 101.

 

 

  Honoré de Balzac, Il Deputato di Arcis a cura di Maurizio Brini. Prefazione di Gianfranco Pasquino, Reggio Emilia, Diabasis, (dicembre) 1993 («Extravagantia»), pp. 142; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Gianfranco Pasquino, Prefazione, pp. 9-11. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Maurizio Brioni, Introduzione, pp. 13-16. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Il Deputato di Arcis, pp. 17-134;

  Note, pp. 134-137;

  Appendice, pp. 138-139.

 

  L’edizione sulla quale è stata condotta la traduzione, scrive M. Brioni (p. 16) è quella, magnifica sotto tutti i punti di vista, della Bibliothèque de la Pléiade delle edizioni Gallimard (1977).

 

 

  Honoré de Balzac, L’elisir di lunga vita. El Verdugo. Traduzione di Mirella Corvaja, Vimercate (MI), La Spiga-Meravigli, 1993 («Libri di una sera»), pp. 48.

 

  Struttura dell’opera:

 

  L’elisir di lunga vita, pp. 3-33;

  El Verdugo, pp. 34-47.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet, a cura di Paola Brancaccio e Anna Crisi. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Principato, (gennaio) 1993 («Leggere Narrativa Straniera»), pp. XXXIV-188, ill.


  Struttura dell’opera:

 

  Paola Brancaccio, Anna Crisi, Introduzione, pp. V-XXVIII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Bibliografia essenziale, pp. XXIX-XXXIV;

  Eugénie Grandet, pp. 1-144;

  Integrazione 1, pp. 145-148;

  Integrazione 2, pp. 149-151;

  Integrazione 3, pp. 152-154;

  Integrazione 4, pp. 155-158;

  Integrazione 5, pp. 159-160;

  Integrazione 6, pp. 161-162;

  Integrazione 7, pp. 163-165;

  Integrazione 8, pp. 166-167;

  Integrazione 9, pp. 168-170;

  Ipotesi di lavoro, pp. 171-174;

  Appendice, pp. 175-180. Sono proposte, in traduzione italiana, alcuni estratti di lettere inviate da Balzac a Mme Hanska e a Zulma Carraud tra il settembre 1833 e il febbraio 1834.

 

  Il romanzo è suddiviso in sei capitoli secondo il modello dell’edizione originale Béchet del 1833-34; questa suddivisione sarà soppressa da Balzac a partire dall’edizione Charpentier del 1839.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Renato Mucci, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1993 («I tesori della narrativa universale»), pp. 173.

 

  Per la traduzione, cfr. 1950. Precedenti edizioni: 1983; 1987; 1988.

 

 

  Honoré de Balzac, La fanciulla dagli occhi d’oro. Traduzione di Attilio Bertolucci, Milano, Sperling Paperback, 1993 («I sensi»), pp. 125.

 

  Per la traduzione, cfr. 1946.

 

 

  Honoré de Balzac, La Fille aux yeux d’or. La ragazza dagli occhi d’oro. Traduzione di Paola Masino. A cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino, Giulio Einaudi editore, (marzo) 1993 («Einaudi tascabili. Serie bilingue», 134), pp. XXVII-205.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, pp. V-XXVII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La Fille aux yeux d’or. La ragazza dagli occhi d’oro, pp. 1-177;

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Appendice prima. Metafore e paragoni nel prologo de «La Fille aux yeux d’or», pp. 179-185. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Appendice seconda. Hofmannsthal e Béguin lettori de «La Fille aux yeux d’or», pp. 187-202:

  Hugo von Hofmannsthal, «La fanciulla dagli occhi d’oro», pp. 189-191. Traduzione di Leone Traverso, cfr. 1958;

  Albert Béguin, «Un’immersione nel mistero delle cose», pp. 193-202. Da Balzac visionnaire, traduzione di Pierfranco Minsenti. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

 

 

  Honoré de Balzac, La fisiologia dell’impiegato, a cura di Marco Diani, Catanzaro, Abramo editore, 1993 («I cammelli», 6), pp. 136.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Gemma Rusconi Di Como, Milano, Rusconi editore, 1993, pp. 240.

 

  Cfr. 1968.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot e Un tenebroso affare. Traduzioni di Renato Mucci e di Maria Ortiz, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1993(«I tesori della narrativa»), pp. 396.

 

  Papà Goriot, pp. 21-226;

  Un tenebroso affare, pp. 229-394.

 

  Cfr. 1982; per le traduzioni, cfr. 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, Sarrasine. Traduzione di Rosanna Farinazzo con uno scritto di Jean Reboul, Milano, ES, (gennaio) 1993 («Piccola biblioteca Erotica», 3), pp. 71.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Sarrasine, pp. 9-58;

  Jean Reboul, Sarrasine ovvero la castrazione personificata, pp. 59-71. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

 

 

  Honoré de Balzac, Teoria del camminare. Traduzione di Stefano Viviani, Carnago, SugarCo, 1993 («Tasco», 218), pp. 87.

 

 

  Honoré de Balzac, Trattato sugli eccitanti moderni seguito da Fisiologia della Toilette e da Fisiologia gastronomica. Traduzione di Rita Zaffarami Berlenghini, Roma-Napoli, Edizioni Theoria, (gennaio) 1993 («Riflessi», 89), pp. 95.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Trattato sugli eccitanti moderni, pp. 7-57;

  Fisiologia della Toilette, pp. 59-79;

  Fisiologia gastronomica, pp. 81-92;

  Note, pp. 93-94.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac (Honoré de), in Dizionario enciclopedico della letteratura universale Rizzoli/Larousse. I. AAF-BOURDE, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 327-333.


  [S]crittore francese (Tours 1799-Parigi 1850). L’autore della Commedia umana è uno degli iniziatori del realismo in letteratura in epoca romantica. L’ambiguità della sua opera impedisce tuttavia di rinchiuderlo in questa categoria che, dopo di lui, è venuta gradatamente fossilizzandosi per l’intervento degli scrittori naturalisti nonché di una critica apertamente ispirata al materialismo storico (Lukács). Il complesso della produzione narrativa di Balzac costituisce di fatto un eccellente punto di partenza per riesaminare i rapporti fra letteratura e realtà. Il tono rovente delle dispute sorte intorno a questo autore, specie nel periodo 1950-1970, ne dimostra l’importanza strategica nel momento stesso in cui, tra le forme narrative messe al bando dal nouveau roman, quella illustrata da Balzac figurava in prima linea.

  La letteratura fu soltanto uno degli interessi di Balzac. Come la maggior parte dei suoi contemporanei, egli voleva innanzitutto il potere, sotto qualsiasi forma; politica, matrimonio, giornalismo, impresa industriale o commerciale (in rapporto diretto con la letteratura, come la direzione di una rivista, o completamente estranea a essa, come le antiche miniere sarde d’argento che fantasticò di riaprire): la letteratura non rappresentava in tutto questo che uno strumento, un accessorio o un ripiego. A differenza di quanto accadrà alla generazione di Flaubert e di Baudelaire, e più tardi a quella di Mallarmé, mai nelle ambizioni di Balzac trovò posto un magistero esclusivamente letterario. La ragione è facile da individuare: si era ancora vicinissimi alle origini del volontarismo borghese e la Storia appariva ancora aperta, mentre presto sarebbe stata compromessa, svuotata di ogni attesa. Quando il giovane Honoré Balzac (figlio di Bernard François, funzionario imperiale) fece il suo ingresso nella vita, fu sospinto dall’onda ancora fortemente ascendente degli strati sociali borghesi non definitivamente assestatisi. Macroscopica, sotto questo aspetto, la differenza con Stendhal, uscito invece dalle fila di una borghesia già consolidata, conservatrice, cui egli avrebbe appunto contrapposto con tanto ardore la Rivoluzione. Balzac, quindi, voleva diventare qualcuno, poiché la felicità, per lui, era esclusivamente legata all’affermazione di sé e non, come per Stendhal, al piacere e alla gioia. Il padre lo educò all’ottimismo, all’anticlericalismo, alla fede nella cultura. Da parte della madre, al contrario, ebbe ben presto le stimmate della vita privata, la solitudine dell’infanzia, l’esempio di un’esistenza rovinata da un matrimonio precoce e dalle illusioni dell’adulterio. Il mondo narrativo di Balzac doveva nascere prima di tutto dallo spettacolo di questa famiglia esemplare, divisa fra i ricordi del XVIII secolo e le fatalità del XIX.

  Balzac trascorse l’infanzia lontano dall’ambiente familiare: studiò sei anni nel collegio oratoriano di Vendôme, dove non si mostrò un allievo brillante e come il protagonista di uno dei suoi romanzi (Luigi Lambert) passò gran tempo a leggere e a sognare, certamente cominciò a riflettere e a scrivere su problemi filosofici: oggi si sa che il Trattato [o la Teoria] della volontà, di cui si parla nella Pelle di zigrino (1831) e in Luigi Lambert (1832), non è una semplice invenzione del romanziere. Questi tentativi proseguirono anche dopo il 1814, quando Honoré seguì la famiglia a Parigi, dove, dopo essersi laureato in legge, nel 1819 ottenne dalla famiglia il permesso di rinchiudersi nella mansarda di rue Lesdiguières (rievocata in Facino Cane) per mettere alla prova le sue qualità di scrittore. Nella prefazione alla prima edizione della Pelle di zigrino Balzac farà dell’osservazione e dell’espressione i due elementi costitutivi dell’arte di scrivere, «una vista e un tatto letterari»: il possesso congiunto di queste due facoltà crea «l’uomo completo», ma non il genio, appannaggio degli scrittori «realmente filosofi», che devono possedere «una sorta di seconda vista che consenta loro di intuire la verità in tutte le situazioni possibili». Il vecchio materialismo di Locke e la scoperta delle mistiche moderne condussero così Balzac a una filosofia insieme fortemente deterministica e aperta ai problemi dei fatti di coscienza e del complesso dinamismo della vita psichica e sociale. Non bisogna mai dimenticare che proprio qui risiedette il primo sforzo intellettuale di Balzac: intorno ai vent’anni Cousin e Cuvier vennero a rinsaldare la già profonda influenza di Locke e a imprimervi un nuovo slancio. Nell’intento di affermarsi in quella che allora era definita «letteratura» (poesia lirica, storia, filosofia, teatro), Balzac intraprese la stesura della tragedia Cromwell, destinata a rivelarsi un fallimento. Egli si dedicò quindi alla narrativa e in tre anni, con gli pseudonimi di lord R’Hoone e di Horace de Saint-Aubin, pubblicò alcuni romanzi di scarso valore letterario. In questa produzione giovanile Balzac sfruttò la tradizione ironica del romanzo brillante e della satira parodistica (L’erede di Birague e Jean Louis, 1822), ma affrontò anche i temi della vita privata e creò le sue prime figure di ragazze e giovani donne: Annetta e il malfattore (1823, ristampato nel 1836 con il più noto titolo di Argow il pirata) e soprattutto Wann Chlore, iniziato nel 1822 e pubblicato solo nel 1825, direttamente ispirato alle figure della madre e della sorella Laurence. Il vicario delle Ardenne e Il centenario (fine 1822) si richiamano invece al romanzo filosofico e a quello sentimentale. Questi romanzi, battezzati dallo stesso autore «porcherie letterarie», rappresentano in realtà un serio apprendistato e come tali vanno oggi presi in considerazione. Inoltre Balzac vi tratteggia, nelle prefazioni, la vita immaginaria del loro autore, Horace de Saint-Aubin, che ne diventa così l’imprevedibile protagonista comune, l’antenato di Lambert e di Rubempré (personaggio centrale delle Illusioni perdute). Poiché la fortuna tardava ad arrivare, Balzac, dopo il 1825, si lanciò negli affari, diventando editore e creando una tipografia e una fonderia di caratteri. Trovò un sostegno finanziario in Laure de Berny (da lui chiamata la Dilecta), che lo iniziò all’amore e alla mondanità. Essendosi fortemente indebitato in seguito al fallimento delle sue attività commerciali, decise di tentare nuovamente la fortuna in ambito letterario e scrisse un romanzo sulle guerre civili nella Francia occidentale, L’ultimo degli Sciuani (titolo poi sostituito da Gli Sciuani, 1829), la prima opera narrativa firmata con il proprio nome. Il modello è Walter Scott, ma Balzac, a quell’epoca profondamente liberale e inoltre fresco ammiratore dei sansimonisti, arricchisce il suo romanzo storico di nuove tematiche: quella della vita privata (la donna abbandonata, la donna nella Rivoluzione) quella della critica antiliberale (il romanzo capovolge le teorie liberali correnti circa la natura guerre dell’Ovest). Il successo fu assai mediocre, ma da quel momento Balzac non abbandono più la letteratura, accostandosi inoltre con maggior serietà agli ambienti del giornalismo e dell’editoria. In quegli anni, conobbe senza dubbio Stendhal (del cui trattato Dellamore si proclamò grande ammiratore). La sua attività si sviluppò in due direzioni distinte: in campo giornalistico, collaborò a diversi giornali e riviste (esperienza più tardi revocata attraverso le vicende di Lucien de Rubempré nelle Illusioni perdute); in campo letterario, iniziò a scrivere nel 1825 il saggio Fisiologia del matrimonio (pubblicato nel 1830) e concepì le Scene della vita privata, una serie di novelle la cui prima raccolta vide la luce nel 1830. Nel febbraio di quello stesso anno Balzac utilizzò per la prima volta, in una pubblicazione su rivista, la particella de davanti al suo cognome. Cominciò allora a frequentare alcuni prestigiosi salotti, come quello di Madame Récamier, l’Abbaye-aux-Bois.

  Alla vigilia delle giornate di Luglio del 1830 Balzac è dunque, innanzitutto, lo scrittore interessato al tema del matrimonio e della donna. La Fisiologia affronta audacemente il problema in termini statistici (l’adulterio è il prodotto delle strutture sociali), rifiutando recisamente una lettura tradizionale di tipo moralistico. Il trattato Dell’amore di Stendhal è spesso presente sullo sfondo, con il suo gusto dell’analisi e dell’aforisma, con il suo scientismo elegantemente provocatorio, ma Balzac si spinge assai più lontano, essendo maggiormente portato alla sistematizzazione in una prospettiva sociologica. Il libro fece scandalo e fu generalmente frainteso. Non si riuscì a scorgere, al di là dei sarcasmi e delle statistiche, la comprensione diretta di un fenomeno nella sua dimensione autentica, né il tentativo di unire a una riflessione teorica di portata generale l’analisi di casi particolari. Insomma la Fisiologia (cui le Scene della vita privata dovevano nelle intenzioni dell’autore fungere da illustrazione) preannunciava già il progetto di un’opera narrativa saldamente imperniata sulla teorizzazione filosofica. Ma Balzac arrivava troppo presto sul mercato letterario: a quel tempo l’interesse dei Francesi si concentrava sulla «battaglia» scatenatasi intorno all’Ernani di Victor Hugo e sulla lotta contro il ministro Polignac (la cui violazione della Costituzione con le ordinanze del 1830 provocò una sollevazione parigina [giornate di Luglio] in seguito alla quale Carlo X dovette abdicare e recarsi in esilio, mentre Luigi Filippo d’Orléans viene proclamato re dei Francesi). Questo insuccesso spiega almeno in parte il nuovo mutamento di rotta dello scrittore.

  Nel luglio 1830 Balzac era in Turenna con Madame de Berny. Rientrato a Parigi in settembre, cominciò a tenere sulle pagine del Voleur, pubblicazione di Girardin, una cronaca regolare degli avvenimenti politici: si trattava delle Lettres sur Paris che, settimana dopo settimana, analizzarono lo spegnersi dell’entusiasmo e i primi segni di reazione dopo la caduta di Carlo X. Pur restando politicamente allineato a sinistra, Balzac stigmatizzò con ferocia l’illusionismo del partito democratico e la retorica del linguaggio politico, auspicando nel contempo che la Rivoluzione procedesse fino alle estreme conseguenze (in particolare muovendo guerra all’Europa reazionaria). Nello stesso tempo consolidò la sua posizione nella società parigina firmando un vantaggioso contratto con la Revue de Paris, per la quale scrisse un consistente numero di racconti. Divenne quindi un personaggio significativo della vita un po’ folle della capitale, specie dopo il folgorante successo, nell’agosto del 1831, della Pelle di zigrino. Questo racconto fantastico, che è insieme, in modo inestricabile, un bilancio ideologico del periodo successivo alla rivoluzione di Luglio, venne scritto fra l’autunno del 1830 e l’estate del 1831. Balzac vi riversò tutti i suoi ricordi di giovane intellettuale povero, nobilitando però (nella figura di Raphaël de Valentin) la propria contrapposizione a un mondo che aveva nel denaro il suo re; vi fustigò una società che, sotto la Restaurazione, appariva già quale si sarebbe rivelata appieno sotto la nuova monarchia; mise in scena, infine, due personaggi-chiave: Foedora, «la donna senza cuore», incarnazione della società, e Rastignac, che non è per il momento nulla più che un gaudente e un prosseneta letterario, ma che nel 1835, in Papà Goriot, permetterà a Balzac di porre le basi di uno dei miti-guida dell’opera ormai sul punto di trovare la sua strada. La pelle di zigrino ha inoltre l’ambizione di strutturarsi intorno a una teoria centrale, quella del logorio vitale: l’individuo, come la società, dispone di una quantità limitata di energia e deve necessariamente trovare il sistema di regolazione in grado di conciliare espansione e durata; l’assenza di tale equilibrio porta alla morte, o per immobilità e insufficienza vitale o al contrario per folle dissipazione e autodistruzione. Dietro queste idee vi sono le argomentazioni del filosofo Pierre Hyacinthe Azaïs (autore di una teoria delle compensazioni) e le ricadute involontarie e incontrollate della termodinamica. Viene così consolidandosi la tendenza a creare un’opera di finzione narrativa in grado di elaborare e insieme di illustrare una seria teorizzazione. Inoltre, in quanto opera di attualità, La pelle di zigrino era destinata a conquistare il pubblico per la sintesi tra il genere giornalistico e le più nobili ambizioni culturali.

  Da quel momento, Balzac cominciò a guadagnare denaro e a spenderlo follemente. Parallelamente, per ragioni teoriche (si allontanava sempre più dal liberalismo, pur rifiutando di lasciarsi sedurre dalle nostalgie repubblicane) e pratiche (era alla ricerca di una base sociale, di un ambiente che lo sostenesse), la sua posizione politica si accostò al legittimismo. I suoi trascorsi di simpatizzante sansimonista (autorità, centralismo, integrazione, condanna del disordine e del laisser-faire affaristico) lo condussero a un curioso approdo neomonarchico che Balzac illustrò in articoli pedanti, ma precisi. Era questo, a suo parere, il modo più efficace di rifiutare l’opportunismo di una borghesia che si stava ormai facendo repressiva, pur restando orgogliosa della «sua» rivoluzione. Risale a questo periodo l’ingresso di Balzac negli ambienti aristocratici, dove si pose a fianco dei più ardenti legittimisti, come il duca di Fitz-James. Conobbe allora la marchesa di Castries, che divenne oggetto del suo amore e gli ispirò in seguito La duchessa di Langeais (1834).

  L’estate del 1832 coincise con una delle crisi più profonde della vita di Balzac. Sull’orlo del collasso nervoso, partì per il suo rifugio di Saché (ospite di Monsieur de Margonne, un ex amante di sua madre), dove nel giro di qualche notte scrisse Luigi Lambert. Quindi si recò in Savoia, dove lo aspettava la marchesa di Castries. Per procurarsi il denaro per il viaggio vendette all’editore Mame un romanzo ancora da scrivere, Il medico di campagna, imperniato su due elementi contraddittori: la salvezza di un uomo, che la passione aveva rischiato di distruggere, grazie all’opera sociale di trasformazione di un villaggio delle Alpi; la confessione del medico di campagna, ispirata alla sua tormentata storia con la marchesa di Castries (a Aix la donna aveva opposto a Balzac il suo definitivo rifiuto). Il medico di campagna viene così a costituire un seguito e un prolungamento di Luigi Lambert: Lambert muore pazzo, ucciso dalle idee, ucciso dal desiderio, ma il dottor Benassis si sottrae a un simile inferno grazie all’ideazione e all’organizzazione di un’utopia. Non è difficile comprendere che genere di psicodramma rappresentasse tutto questo per Balzac. Desiderare o creare, sposare il desiderio alla creazione, oltrepassare il «romanticismo» con l’azione. Ma scoprire, anche, che l’azione non può mai risolvere tutto, che tutto è in ogni momento precario, che la follia e la morte sono sempre presenti, in agguato, quand’anche si potesse cambiare il mondo e questo cambiamento comportasse l’elaborazione di rigorosissime tecniche economiche e una riorganizzazione non liberale della società. Universo del fare e vertigine dell’io, colonizzazione di un altrove per altri fini, affermazione di un linguaggio capace di vincere la passione come simbolo e prova del valore e, insieme, della pericolosità della vita: Balzac non ha ancora scritto Eugenia GrandetPapà Goriot, né alcuno dei libri tipicamente «balzachiani», e tuttavia ecco che già si delinea un’impressionante cosmogonia, vicinissima a quella dei «romantici». Si leggano le Foglie d’autunno di Hugo (pubblicate nello stesso anno della Pelle di zigrino) e ci si troverà di fronte all’identico interrogativo («Quel che si ode sulla montagna» è l’angosciosa domanda «se sia meglio essere o vivere»), all’identica vertigine davanti a una modernità che è una trappola ma che è anche, inevitabilmente, il terreno d’azione dell’uomo. Nel momento in cui Michelet (Introduzione alla storia universale, marzo 1831) vede la modernità, dopo la rivoluzione di Luglio, come una trasparente promessa, il testo di Balzac ne denuncia invece il carattere profondamente problematico e ambiguo. Se a tutto questo si aggiunge che, parallelamente alla sua carriera di scrittore fantastico e filosofico, Balzac aveva ripreso a lavorare a Scene della vita privata (nel 1832 uscì una nuova serie di racconti, imperniati su una duplice figura ormai chiaramente definita: la donna abbandonata, la donna di trent’anni), innestando così la sua scrittura dell’intenso su un’egregia padronanza dell’intimismo realistico, è facile allora comprendere come ci si trovi ormai alle soglie di un’impresa capitale. Nel 1833 Balzac elaborò l’idea degli Studi di costume, subito seguita da quella degli Studi filosofici: il poligrafo brillante e patetico si tramutò così in organizzatore della propria scrittura e della propria visione del mondo. Clamorose prefazioni (opera di Félix Davin e Philarète Chasles) sottolinearono l’ambizione dell’impresa, il segnale, sul limitare dell’epoca decisiva che stava per aprirsi, un autentico «romanzo-crocevia», La ricerca dell’assoluto, studio filosofico e nel contempo scena della vita privata, azione devastante della passione nel quotidiano, visione dell’unità ascendente e ammaliante del reale. Fra Claës, che porta alla rovina la famiglia per l’Assoluto, e sua figlia, che pretende di vivere e di far vivere la vita, nessuno ha ragione o torto. Inoltre, le descrizioni di palazzi e di interni si impongono come elementi determinanti di un nuovo tipo di narrazione. Alla fine di quell’anno (1834) si produsse l’avvenimento decisivo, la grande cristallizzazione.

  Balzac scrisse, per la Revue de Paris, Papà Goriot, scena della vita privata, scena della vita parigina romanzo di formazione, romanzo di quel che si potrebbe definire il folclore di una modernità dimenticata dalla letteratura elegante. L’autore, nelle prime pagine, provoca la «lettrice dalla mano bianca» che si aspetta il divertimento. Ma «all is true» (tutto è vero), e questo libro rappresenta un atto: vuol essere pedagogico e di rottura; pone al centro della realtà parigina lo straordinario personaggio di Vautrin, l’uomo che conosce i segreti del mondo e che sa cucire insieme due idee; dipinge un vecchio e ricco trafficante destinato a divenire il martire di una paternità non tanto «morale» quanto sociale: Goriot pretende che le sue figlie portino a compimento il successo del quale egli aveva gettato le basi; ne morirà, come sembra che debbano morirne tutti coloro che si lanciano nella corsa al potere e al denaro; unica a sopravvivere è la sobria figura di Bianchon, personaggio il cui significato non può ancora essere pienamente colto dal lettore, l’uomo di scienza non compromesso, il testimone «di scorta» di una intera Commedia umana ancora da scrivere. E, per confezionare il tutto, Balzac applica qui per la prima volta un sistema destinato a diventare celebre, quello del ritorno dei personaggi: ricompare il Rastignac della Pelle di zigrino, ma a vent’anni, al momento del suo arrivo a Parigi. Grazie a questo espediente tecnico l’autore scopre il mezzo per dare unità all’opera già scritta: basterà ormai ribattezzare qualche personaggio, correggere qualche data (si tratterà molto spesso di un lavoro un po’ abborracciato, e le incongruenze non scompariranno mai del tutto) perché i singoli racconti escano dal proprio isolamento e tendano a divenire i frammenti di un affresco. Suprema delle conquiste, grazie a questo sistema ci può infine sottrarre al famoso vincolo del dénouement (lo scioglimento finale), eredità del teatro di buona fattura, e Rastignac può concludere con il suo «A noi due, adesso!»: si aspetta il seguito, che del resto è già parzialmente noto, perché c’è già La pelle di zigrino ad anticiparlo. Con Papà Goriot romanzo balzachiano era nato veramente, non per miracolo o per generazione spontanea, ma nel procedere di un lavoro, di una ricerca infinitamente più innovatrice delle microrivoluzioni del dramma romantico. Il 1834 rappresentò quindi l’anno-cerniera, l’anno di svolta in cui Balzac concluse finalmente il suo tirocinio.

  Due anni dopo sarebbe morta Laure de Berny che peraltro era stata sostituita fin dal 1832, nelle cure di Balzac, dalla contessa polacca Ewelina (sic) Hanska (1800-1882), la quale in quell’anno gli aveva scritto una lettera d’ammirazione firmata «la Straniera» (le lettere dell’autore alla Straniera pubblicate alla fine del secolo, furono per diverso tempo uno dei più famosi testi romanzeschi di Balzac). Nel 1836 Il giglio nella valle, con il suo protagonista conteso ed esitante fra due donne (l’iniziatrice degli esordi e la vulcanica straniera) espresse egregiamente la difficile emancipazione dell’autore. Quando Madame de Berny morì, alla fine del 1836, Balzac era davvero uscito dalla sua lunga giovinezza. Proprio in quell’anno ristampò, nell’ambito di una vantaggiosa operazione commerciale, i romanzi di Horace de Saint-Aubin, facendoli precedere da una lunga prefazione-biografia dell’autore immaginario, la cui stesura fu affidata a Jules Sandeau. Tale testo stabilisce un rapporto molto intenso con le imminenti Illusioni perdute; ma, soprattutto, Balzac sembra con ciò archiviare con un gesto di sicura consapevolezza le sue prove di gioventù. Dal 1833, egli era assurto al rango di scrittore di valore, autore di un «classico» quale Eugenia Grandet e disponeva ormai di un’incontestabile maestria letteraria, pur se a questa non corrispondevano pari abilità e fortuna sociale (fallimento della Chronique de Paris, rivista letteraria e politica che lo rovinò finanziariamente). Nel 1836 si assistette infine alla nascita del romanzo d’appendice, che offrì a Balzac un nuovo punto d’appoggio, uno strumento di stupefacente moltiplicazione di sé (pubblicazione iniziale a puntate, seguita da quella in volume indipendente e dalla ripresa in pubblicazioni collettive), permettendogli di raggiungere un nuovo pubblico: la «lettrice dalla mano bianca» di Papà Goriot affondava nel passato contemporaneamente alla Dilecta.

  Balzac, ormai padrone della sua arte, non lo era ancora minimamente della sua vita, pur essendo capace di farne letteratura; la prova di ciò è data, dopo l’estenuante processo che lo contrappose a Buloz (redattore capo della Revue des Deux Mondes) per una controversa pubblicazione del Giglio nella valle, dalla fuga a Saché e dalla composizione della prima parte di Illusioni perdute. Per la prima volta il mestiere di scrittore, nella sua dimensione più prosaica (non si tratta più del vertiginoso confronto dell’intellettuale con l’assoluto, come nella Pelle di zigrino o in Luigi Lambert), diventa senza mediazioni argomento di un libro dello scrittore stesso. Lucien sognava di divenire un poeta: deve invece imparare il mestiere di tipografo. Il romanzo presenta, è vero, tutta una parte di folclore sul periodo della Restaurazione (i piccoli giornali del 1821, la situazione dei partiti politici e letterari, gli intrighi e le ambizioni che si mescolano al ritorno dell’aristocrazia) che si rivolge al pubblico più vasto. Ma l’essenziale è racchiuso nella serrata analisi di ciò che il fenomeno letterario rappresenta nel mondo moderno: commercializzazione, industrializzazione, intrecci di influenze, potere dei giornali. Tutto quel che avevano sognato e intravide il XVIII secolo e il primissimo romanticismo (Madame de Bargeton) come potere dello spirito si degradato strada facendo, gli autentici ingegni sono condannati alla scomparsa o al silenzio. La Parigi della cultura è dunque un cimitero dei sogni e, in questo quadro complessivo, la «debolezza» del protagonista, Lucien de Rubempré, diviene un dato del tutto secondario. Balzac sovrappone con tutta evidenza ai ricordi del 1821 le esperienze del 1836 (stampa a buon mercato, romanzi d’appendice, edizioni a grandi tirature, giornali popolari che hanno sostituito la stampa di più elevato livello della Restaurazione) per dare una nuova lettura delle sue passate ambizioni di filosofo, di poeta, di teorico della storia, e mette qualcosa di se stesso in vari personaggi: colui che spera e si arrende (Lucien), colui che cerca di restare fedele e che istruisce gli altri (d’Arthez), colui che si abbandona alla degradazione (Lousteau, una specie di Lorenzaccio della letteratura). La tragedia moderna porta a compimento la propria messa in opera, la propria legittimazione, e appare di capitale importanza il fatto che non sia più dominata da un «A noi due, adesso!» come nel 1834-1835. I cambiamenti sono prodotti rapidamente e il mondo comincia a divorare coloro che pretendevano di conquistarlo. Così, da Eugenia Grandet (dramma bianco nel silenzio della provincia) a Papà Goriot (l’iniziazione, ma non paralizzante, lo slancio) o al Giglio nella valle (al bivio fra passata giovinezza e nuovi desideri): dove sarebbero, in tutto questo, le «piattezze» di un realismo descrittivo, le mediocrità di un intimismo semplicemente familiare? A poderosi colpi di scalpello, per un pubblico ancora educato alla lettura dei generi «nobili», Balzac indirizza il romanzo verso quella che non era mai stata la sua autentica mèta: la conoscenza del reale e la sua spiegazione. Intorno a questo periodo Balzac rinunciò al racconto filosofico. Ora, è vero che il romanzo d’appendice condannava questo genere per certi aspetti elitario e faceva piuttosto ricorso all’intreccio, se non addirittura al melodramma, privilegiando le ambientazioni parigine, i bassifondi, e così via. Ma è anche vero che in Balzac la filosofia si fondeva ormai con la rappresentazione delle storie vere che venivano raccontate e non aveva più realmente bisogno di manifestarsi in discorsi espliciti. Il tempo della Commedia umana era arrivato. Fatto strano, fu proprio il romanzo d’appendice a consentire, nei suoi spazi quotidiani a piè di pagina, sulla sua carta sudicia, questa esplosione e questa diffusione: Gli impiegati e Cesare Birotteau (1837), La banca Nucingen (1838), Una figlia d’Eva (1838-1839), Il curato del villaggio (1839-1841), Beatrice (1839), Pierrette (1840), Un tenebroso affare, Casa di scapolo, Orsola Mirouet (1841) sono luoghi d’incontro e d’intreccio di personaggi balzachiani, ma sono anche altrettanti mezzi di diffusione delle vecchie teorie ora incarnate e quindi in grado di avanzare con la loro forza e la loro individualità personali. Il miglior esempio è senz’altro rappresentato da Cesare Birotteau, progettato inizialmente come racconto filosofico sui pericoli dell’ambizione e delle velleità (tema ripreso dalla Pelle di zigrino) e trasformatosi in un minuzioso affresco del commercio parigino, che descrive i meccanismi di un fallimento ma ne diluisce l’astratta dimostrazione in una storia che stimola l’immaginazione e cattura l’interesse. Il tono pomposo del sottotitolo, Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau, strizzando l’occhio a Montesquieu, conferisce ulteriore rilievo e risonanza al progetto. Ma l’essenziale sta proprio nel fatto che Balzac ha ormai calato il suo progetto filosofico nella pratica del romanzo. Taluni lettori di romanzi di appendice vi hanno visto, o vi hanno voluto vedere, soltanto narrazioni più o meno ben condotte e in ogni caso sempre «esagerate»: è per questo che si renderà necessaria una rilettura integrale perché il testo balzachiano possa un giorno vivere in tutta la sua pienezza.

  «Il più fecondo dei nostri romanzieri», come lo definì allora con calcolata perfidia Sainte-Beuve, l’autore che Stendhal e il giovane Flaubert lessero non senza irritazione, si apprestava a compiere nel 1840 un passo decisivo. In quell’anno egli assistette al fallimento di una sua nuova impresa editoriale, la Revue parisienne (dalle cui pagine ebbe se non altro il tempo di salutare in termini sorprendenti La certosa di Parma), ma diede anche il via alla Commedia umana, titolo attribuito alla raccolta dei suoi romanzi.

  La Commedia umana fu innanzitutto un’impresa editoriale e commerciale (edizione compatta, soppressione delle prefazioni, dei capoversi, dei capitoli, vendita per abbonamento), nonché un’impresa di unificazione esteriore ai testi: molti dei romanzi ristampati vennero rimaneggiati in modo da farli rientrare nel sistema di «ricomparsa» dei personaggi. I più vecchi, come Gli Sciuani o La pelle di zigrino, subirono le modifiche più rilevanti, uscendone talvolta sfigurati in modo riprovevole. Ma il fatto di maggiore importanza consistette evidentemente nella nascita di uno spazio biografico immaginario, dove nessun personaggio poteva essere conosciuto nell’arco di un solo romanzo e dove, soprattutto, i periodi più remoti della sua vita venivano offerti al lettore solo dopo i periodi più recenti (è il caso per esempio di Rastignac, il cui passato più remoto compare in Papà Goriot, gli anni intorno al 1830 sono narrati nella Pelle di zigrino, la fase intermedia nella Banca Nucingen e nell’Interdizione e il definitivo approdo politico si trova descritto in Attori senza saperlo). La Commedia umana rappresentò soprattutto per Balzac l’occasione di classificare i suoi romanzi e di «presentarli» in termini filosofici nel celebre Avant-propos, premessa generale all’opera. Finalmente egli poteva ritornare, apertamente e in un piccolo gruppo di pagine che nessun redattore capo avrebbe respinto, alle sue antiche, e sempre così vive, preoccupazioni teoriche, mostrando quale fosse la grande ambizione della sua intera produzione narrativa. Una classificazione ascensionale che dalla vita privata conduceva agli studi analitici e rifiutava (fatto notevole) le comode facilitazioni della cronologia degli intrecci. L’Avant-propos infliggeva al lettore in buona fede una vera e propria teoria della letteratura e della società, a giustificazione e insieme a promozione del romanzo. Il contratto fu firmato nel 1841 e i primi volumi apparvero nel 1842: sarebbero stati in tutto diciassette, l’ultimo dei quali pubblicato nel 1848.

  Ma molto restava ancora da fare: la grande opera era piena di lacune. Inoltre, Balzac continuava a correr dietro al denaro. Dapprima vi fu il tentativo teatrale: la rappresentazione del dramma Vautrin venne proibita nel 1840; seguì nel 1842 il fiasco delle Risorse di Quinola. Ma, soprattutto, egli intraprese allora una specie di terza carriera di romanziere: Alberto Savarus (1842), Onorina e La musa di provincia (1843), Modesta Mignon (1844), Splendori e miserie delle cortigiane (1847), Il rovescio della storia contemporanea (fino al 1848), I contadini, Il deputato d’Arcis, risalgono tutti a questo periodo. Nel 1846-1847 vide la luce un’opera di capitale importanza, I parenti poveri (Il cugino Pons, La cugina Betta), che riesce nella prodezza di portare a termine la rincorsa del tempo: la data dell’intreccio è la stessa della stesura. Il tempo è riacciuffato nel momento in cui regnano i nuovi padroni dei quali il lettore conosceva già il passato: quel Camusot, per esempio, ministro del Commercio che aveva fatto la sua apparizione come commesso di Birotteau. Parallelamente, la nuova borghesia si corrompe a cominciare dai vertici: gli scandali di Hulot nella Cugina Betta sono gli stessi scandali della fine della monarchia di Luglio. È forse un caso allora se l’arte un’ultima, imperdonabile volta, diventa merce e se il tesoro artistico di Pons va a dar lustro al salotto della famiglia Camusot? Nei Contadini, è vero, sembrano ridestarsi forze popolari che preoccupano l’uomo Balzac (la legge agraria in Europa avrebbe privato dei suoi beni Madame Hanska), ma che eccitano l’intellettuale. In un articolo del 1840, Sur les ouvriers, egli aveva salutato negli operai «l’avanguardia dei barbari». Durante le giornate di giugno del 1848 Balzac, rovinato dalla rivoluzione (aveva puntato tutto su una nuova avventura teatrale), invocò la morte, almeno nelle lettere a Ewelina. Nel 1850, riuscito infine a sposare la contessa, morì poco dopo di sfinimento, salutato ben due volte da Victor Hugo: sul letto di morte (si veda il celebre testo di Cose viste) e al cimitero del Père-Lachaise (dove fu pronunciata la non meno celebre frase sulla «forte razza degli scrittori rivoluzionari», cui Balzac, «che lo volesse o meno», era appartenuto). Dopo la sua morte la vedova ne pagò i debiti e fece pubblicare o portare a termine i manoscritti disponibili. Balzac aveva corretto di propria mano una copia della Commedia umana; su di essa si sarebbero basate le successive edizioni.

  È molto difficile arrivare a un bilancio conclusivo su Balzac. Si può soltanto fare il punto su di un’opera che è al tempo stesso strutturata e interrotta, ben diversa dai tanti romanzi-fiume del suo secolo e di quello successivo. Solo tardivamente Balzac è accettato come romanziere. È interessante osservare che anch’egli, analogamente a Stendhal, è arrivato al romanzo come a un linguaggio necessario e, insieme, come a un’attività possibile. Ma si è spinto più lontano di Stendhal nella sua impresa di sistematizzazione. La base del suo «sistema» può essere considerata duplice: da una parte, Balzac crede che il reale sia conoscibile e che proprio in questa pedagogia possa consistere la funzione dello scrittore; dall’altra è però convinto che il reale sia tragico, che ci sfugga da ogni parte, che il destino umano non sia interamente iscritto nell’impresa liberale, né nell’ottimismo ufficiale della borghesia. Questultima, del resto, è votata a sua volta a sinistri pericoli («se ha dalla sua parte i fucili, avrà contro di sé coloro che li fabbricano»). La borghesia rappresenta certamente lavvenire del mondo (Balzac si allinea perfettamente, in questo, Chateaubriand e a Stendhal), ma c’è ben poco esaltare: perché a governare saranno Nucingen e la Banca, oppure si solleveranno forze rivoluzionarie, incapaci di un’opera di creazione e di fondazione. Il sorprendente mondo romanzesco che ne risulta è popolato da un’umanità che è stata lunga intensamente «costruita» ma che, lungi dall’esser finita o destinata a un fine come pretenderebbe l’ottimismo borghese, è ancora in una fase di travagliata elaborazione, senza che si possa prevederne la direzione e lo scopo. L’universo narrativo di Balzac liquida insomma l’idea di fine della storia che sta a fondamento dell’ottimismo pedagogico borghese e della chimera del progressismo repubblicano. Balzac non è né il realista volgare, piatto o violento (a scelta), così spesso stigmatizzato dalla critica benpensante, convinta di poterlo liquidare accusandolo di scrivere «male», né, a dispetto delle doti di «specialista» che si attribuiva, l’unico «visionario», inventore di un’umanità statisticamente improbabile. I marxisti, dopo parecchi fraintendimenti (Lukács ha sperato di veder scaturire da Balzac un realismo socialista finalmente sicuro dei propri fini e dei propri mezzi), hanno riconosciuto in lui un materialista che, in certe condizioni ben definite e concrete, aveva saputo dischiudere nuove strade (lo stesso Lukács ha sottolineato come, attraverso il singolo, Balzac avesse raccontato la storia). Si sono dunque prese le distanze dalle prime scoperte della fine del XIX secolo: Balzac non è il primo dei naturalisti, e si è pur dovuto fare i conti con Luigi Lambert; egli non è nemmeno il paziente e minuzioso osservatore delle passioni e delle apparenze che un classicismo scolastico aveva voluto un tempo salutare. Grandet non è — non è più — Arpagone. Balzac è uno scrittore che, in particolarissime condizioni (apertura-chiusura della storia liberale), ha saputo tra i primi, come dirà Aragon in differente contesto, «mentire il vero». Spesso egli ha posto all’inizio dei suoi itinerari romanzeschi, che sono itinerari verso una presa di coscienza, il bambino, quel bambino che vive (e, occorre aggiungere, «percepisce», per poi «esprimere») l’universale sull’esempio e nella forma del particolare. I problemi di tecnica appaiono, ancora una volta, strettamente dipendenti dai problemi di visione del mondo. Champfleury ha parlato, a proposito di Balzac, del «suo nemico lo stile», Sainte-Beuve gli ha rimproverato di non ricercare «la sola espressione che sia quella giusta», Stendhal pensava che Balzac scrivesse i suoi romanzi in due fasi, «dapprima ragionevolmente» e in un secondo tempo abbigliandoli «in bello stile neologico». Ma Balzac ha raramente corretto il suo stile. Come ha saputo capire Pierre Abraham, «se Balzac corregge qualcosa, è il suo romanzo», cioè un fatto, un episodio: «Lo stile — dirà Proust — è a tal punto il segno della trasformazione che il pensiero fa subire a realtà, che in Balzac non c’è, in senso proprio, uno stile». C’è la realtà, tutta intera.

 

 

  Balzac Honoré de, in La Nuova enciclopedia della letteratura Garzanti, Milano, Garzanti, 1993, pp. 80-83.

 

  Cfr. 1985.



  Scrittori: curiosità. Balzac, gran moralista alla corte del tè, «il Piccolo», Trieste, 24 gennaio 1993, p. 3.


  Moralista? Più che altro, comico. E’ così che ci appare Balzac attraverso le righe di un simpatico libro ristampato da Theoria: «Trattato sugli eccitanti moderni» (pagg. 128, lire 10 mila). Secondo lo scrittore, il governo inglese avrebbe fatto all’inizi0 dell’800 un singolare esperimento, permettendo di disporre della vita di tre condannati a morte, ai quali fu offerto di optare tra l’essere impiccati o il vivere esclusivamente l’uno di tè, l’altro di caffè, l’altro ancora di cioccolata Risultato: il primo morì dopo tre anni di «consunzione», il secondo dopo due anni, «bruciato come se il fuoco di Gomorra lo avesse carbonizzato», il terzo dopo solo otto mesi «in uno spaventoso stato di imputridimento, divorato dai vermi».

  La morale balzachiana è che «il destino di un popolo dipende dall’alimentazione», e che quindi quello dell’uso di sostanze tanto deleterie, come zucchero, caffè, alcol e tabacco sia in primo luogo un problema etico e politico. Ma le parole dello scrittore appaiono appunto più divertenti che «morali», oggi, specie quando si legge che, dopo aver bevuto diciassette bottiglie di vino, diede la colpa del proprio stato ai due sigari che poi fu «obbligato a fumare».

  «Il tabacco ebbe un’azione — racconta – di cui mi resi conto quando scesi le scale. Mi sembrò che i gradini fossero composti di materia molle; ma salii gloriosamente in carrozza». Segue la straordinaria descrizione di un concerto visto con gli occhi di un Balzac completamente ubriaco: «L’orchestra mi appariva come un enorme strumento entro il quale si faceva un lavoro qualsiasi di cui non potevo afferrare né il movimento, né il meccanismo,

non vedendovi che, molto confusamente, i manici dei bassi, gli archetti che si agitavano, le curve dorate dei tromboni, i clarinetti, le luci».

  Così ogni capitoletto dedicato a uno dei quattro eccitanti diventa per il grande autore lo spunto per un quadretto di costume, un frammento di «Commedia umana»: per esempio, osservando i mendicanti (nel capitolo dedicato all’acquavite, scrive che «non si sa dove finisce lo straccio e dove comincia la pelle». In conclusione, la morale di Balzac è che l’uomo non deve sprecare le sue preziose energie in tali inutili eccessi».

 

 

  Ma più nudi non si può, «la Repubblica», Roma, 27 luglio 1993.

 

  Tutto un metti e togli, copri e scopri, che è andato di pari passo con gli ondeggiamenti del "comune senso del pudore": nessuna donna che si rispetti mostra il ginocchio, della coscia non si osa nemmeno parlare, nei romanzi del secolo scorso, ma il giovane Félix de Vandenesse, protagonista di Il giglio della (sic) valle di Balzac può con ogni agio ammirare le bianche spalle rotonde e i “globi azzurrini e perfettamente rotondi mollemente poggiati sui merletti” della pudica Madame de Mortsauf che come vuole la moda nasconde la caviglia ma esibisce il busto senza rossori.

 

 

  Dimmi come cammini e ti dirò chi sei, «Secolo d’Italia», Roma, 17 agosto 1993, p. 9; ill.

 

  Riproposto un trattato tra il serio e il faceto di Honoré De Balzac. “Teoria del camminare” è un invito alia compostezza e alla riscoperta del ritmo naturale del movimento in un tempo che cominciava già ad esaltare la velocità.

 

  Teoria del camminare esce per la prima volta nel 1833, anno in cui viene pubblicato il primo vero capolavoro di Honoré De Balzac: Eugenia Grandet. Il legame tra le due opere si scorge nella posizione assunta dall’autore: nel caso del romanzo è l’osservatore attento e distaccato della classe borghese emergente, nel secondo caso è sempre un osservatore che vuole però trasformare i suoi studi in teoria, prendendo in esame i movimenti del corpo umano, da quel punto in cui «la scienza rasenta la follia».

  Dal realismo e dalla consequenzialità delle sue ricerche emerge che «la camminata è la fisionomia del corpo ... è più che la parola, è il pensiero in azione». I dodici capitoletti in cui è suddiviso il libro, riproposto dalla SugarCo (pp. 81, £. 12.000), sono introdotti da un principio, enunciato come regola, che viene subito spiegato e supportato da un esempio in forma di aneddoto, che serve a dimostrare la verità dell’affermazione, a dissipare i dubbi dei più increduli. L’argomento offre la possibilità di spaziare ed ampliare il campo delle osservazioni e dei commenti, soprattutto nel settore femminile. Si parla della camminata delle donne, della «grazia» che predilige le forme arrotondate a quelle spigolose, dell’abito, fonte di civetteria e di passioni, che dona un fascino particolare. E poi ancora di tutto il movimento, dell’andature e se si può, e di quanto, sollevare l’orlo della gonna. Balzac, maestro delle descrizioni, tratteggia con maestria ed ironia i personaggi tipici del suo tempo: una «signorina che ... assomigliava a una gallina alla quale avessero tagliato le ali e che si ostinava a tentare di spiccare il volo», o un uomo che «aveva l’aria di essere formato da due scompartimenti». L’indagine invade il campo sociologico e nessuno ne rimane escluso, dal diplomatico al garzone, dall’uomo indaffarato, al marinaio, al sovrano.

  Oltrepassato lo stadio dell’osservazione esterna, ci si trova a contatto col messaggio fondamentale del libro, col presupposto scientifico che Balzac vuole dimostrare, ossia l’inevitabile connessione mente-corpo; il pensiero determina, spesso in maniera non cosciente, un movimento, per questo ogni gesto è una sua manifestazione esplicita. Movimenti spontanei, ripetuti, tic, sono alla base di una parte della psicanalisi moderna. Determinati atteggiamenti del corpo umano sembrano talmente naturali ed ovvi da passare inosservati, ma Balzac li evidenzia e tenta di darne una spiegazione, anche se a volte questa risulta limitata.

  Lo stile del trattato è semplice e lineare, arricchito da richiami e citazioni, vivificato da una prima persona che apostrofa i lettori di continuo, invitandoli a verificare il suo pensiero nell’esperienza quotidiana. Il risultato è una lettura scorrevole ed un’attenzione, un coinvolgimento, più intensi.

  Per comprendere questo tipo di impostazione stilistica bisogna pensare anche che il pubblico di allora era una borghesia in fermento, pronta a credere, desiderosa di conoscere, avida di ogni scienza. Balzac lo sapeva e quindi, in linea con la sua avanguardistica concezione dello scrittore come uomo di successo anche commerciale, si adegua, almeno in parte, alle esigenze ed al gusto dei suoi acquirenti. Per questo il libro non manca di essere didattico, nell’ultimo capitolo, con sottile ironia, vengono annotati i suggerimenti per camminare bene: «stare dritto senza essere rigido, applicarsi nel dirigere le sue due gambe su una stessa linea ...» proprio come faceva Luigi XIV.

  Non bisogna però dimenticare che per lo scrittore ogni movimento è un’espressione che proviene dall’anima, ed è per questo motivo che alcuni individui, nonostante gli sforzi, continueranno a camminare male.



  Daniela De Agostini, La ricezione della leggenda tristaniana in Francia, in AA.VV., Tristano e Isotta. La fortuna di un mito europeo, a cura di Michael Gottlieb Dallapiazza, Trieste, Parnaso, 2003, pp. 237-275.

 

  [...]. Honoré de Balzac inscrive il suo lungo racconto, o breve romanzo, Honorine (scritto in tre giorni, dal 25 al 28 dicembre del 1842), in una cornice che pone al centro della vicenda un enigma, oggetto del dibattito che dà origine alla narrazione del protagonista, e già oggetto della sua attenzione nella prima fase della sua creazione letteraria: è possibile la fedeltà in amore? Esiste un amore eterno, “fino alla fine dei giorni”? può une femme honnête rimanere “virtuosa” e riscattarsi dalla colpa che la destinerebbe al silenzio del chiostro o al vilipendio della società? [...].

  Se il racconto balzachiano può dirsi di ispirazione tristaniana [...], è perché, come già Proust osservava, solo in una ‘illuminazione retrospettiva’ egli stesso [Balzac] apportava sui manoscritti preparatori alle bozze per la pubblicazione nel primo degli ottanta volumi che nel 1842 daranno avvio alla Comédie humaine, quelle modifiche che ne muteranno profondamente il senso: devoluta al secondo narratore, il Console Maurice de l’Hostal la presentazione della vicenda, essa ne cambierà poi il destino. Nella versione primitiva infatti il lieto fine dei due sposi riconciliati e felicemente riuniti chiudeva il romanzo» e Octave così scriveva a Maurice: «J’espère que Dieu, dans sa clémence, aura fait deux femmes semblables et que vous saurez trouver la seconde». Onorina dunque “nasceva” nelle correzioni del manoscritto ed è in quella occasione (all’incirca dunque nel febbraio del 1843) che Balzac apportava quegli accostamenti con la leggenda di Tristan e Yseut e mutava il finale del romanzo, facendo di Maurice non tanto il messaggero poco coinvolto nella vicenda, ma un personaggio il cui ruolo, più approfondito e più equilibrato, lo vedeva innamorarsi di Honorine e poi legarsi a una seconda “Yseut” incapace di leggere l’amore che la prima gli avrebbe offerto. E Camille Maupin a rivelarlo a Claude Vignon, dicendo che egli non ha «devine qu’Honorine l’aurait aimé».

  Nella seconda versione infatti, sposato alla ricca ereditiera Onorina, lo vediamo fare egli stesso fortuna all’indomani della Rivoluzione di luglio (per la precisione sei mesi dopo) nella quale molti degli eroi balzachiani sono cresciuti in denaro e potere, mentre Honorine, ritornata dal marito, e avuto da questi un figlio, si lascerà morire, non tanto per il ricordo dell’amante cui è rimasta fedele, e neppure per amore di quel Tristan che avrebbe potuto deviare il corso della sua esistenza, ma perché, immolando la propria libertà alla schiavitù di un matrimonio privo di passione e desiderio, non potrà reggerne il peso. «Pour moi, la coupé du bonheur n’est ni vidée, ni vide, rien ne peut plus la remplir, elle est brisée», esclama Honorine quando confessa a Maurice di aver più amato per diciotto mesi l’amante che non per diciotto anni il marito.

  Octave, un Re Marco che, non solo per le «blanches mains» cui il testo allude, è analogo alla seconda Yseut, si aggirerà quindi in una Parigi e in una Francia capaci di racchiudere il tesoro della «femme la plus rare» che si possa immaginare, quale un ‘relitto’, la cui distruzione sembra ricadere sulla sua incapacità, già roussouviana, di non confondere i tempi e il loro scorrere, di volere cioè eternare il passato nel presente.

 

***

 

  Il romanzo balzachiano non è però solo di ispirazione tristaniana. L’autore ha voluto inserire in Honorine anche le sue riflessioni sull’amore già oggetto di meditazione nel romando-saggio dello studio analitico Physiologie du mariage e trama principale di tante Scènes de la vie privée. Ha voluto anche [...] immettere nella vicenda le sue personali reazioni e la sua cifra autobiografica a quanto la morte del marito di Mme Hanska, nel novembre del 1841, ha apportato alla sua vita. Libero di sposare il ‘fiore celeste’ (così chiamava la futura moglie nelle lettere e così è ricordata Honorine da Maurice de l’Hostal), vorrebbe scrivere dapprima un romanzo dal titolo La Séparation sulle disavventure cui è soggetto il matrimonio, e sulle «taquineries de l’intérieur domestique» e poi Albert Savarus: si dedicherà invece a Honorine che è come il pendant di quest’ultimo scritto alcuni mesi dopo, dove è una donna, non un uomo, a vivere il conflitto tra la passione e l’amore coniugale. Gli anni trascorsi, e le date che costellano il romanzo, fanno anche riferimento a quanto è avvenuto tra lui e Ève, alla vicenda che li ha separati per sette anni (Balzac non ha visto Mme Hanska dal 1835 al 1842). Vuole anche farle sapere, con Honorine e con Octave, che per tutti quegli anni le è stato fedele, che la separazione gli è pesante, che la vuole rivedere.

  Ma in questo romanzo c’è anche, più nascosto, e più sommesso, l’ambivalente legame con la madre, e quello con il fratello nato dall’adulterio di lei, che Balzac non cesserà di raccontare e che trovava nel 1837 nella Grande Bretèche ou les trois vengeances la sua più compiuta narrazione. La Femme de trente ans, come Honorine, non è solo tragedia della femminilità e nuovo mito dei tempi moderni, è anche la donna che vede minacciata la sua identità [...].

 

 

  Maurice Agulhon, Il circolo in provincia, in Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810-1848). A cura di Maria Malatesta, Roma, Donzelli editore, 1993 («Saggi. Storia e scienze sociali»), pp. 41-50.

 

  pp. 48-50. Questa era la Francia profonda, terriera e provinciale, remota e passatista. Per creare un «brillante» contrasto con la Francia dei grandi porti pieni di vita che Stendhal amava e glorificava, potremmo dire che questa è la Francia di Balzac. Nessun’opera offre più suggestioni della Comédie humaine. La provincia di Balzac brulica di «società», a carattere esclusivamente informale, dove un padrone o una padrona di casa ricevono, in base a regole ferree anche se tacite, gli amici maschi e femmine per conversare, giocare al whist e alla tombola; a Saumur ci si riunisce da Eugenia Grandet a Soulanges da Madame Soudry, ad Arcis-sur-Aube a casa del colonnello Giguet. È un mondo di origine perfettamente borghese, ma la fortuna dei personaggi di Balzac ha ricreato in ognuno di questi casi quel tratto aristocratico che la povertà aveva cancellato dai costumi dei signorotti di Hennebont: la «società» si riunisce presso un ospite che – per forza di cose – spende per gli altri, trasformandoli così in debitori. [...].

  Quando i Giguet danno avvio ad Arcis-sur-Aube alla campagna elettorale per candidarsi al Parlamento, tengono la prima riunione nel loro salotto sono forma di una serata eccezionale, facendo totale affidamento sulla fedeltà di quella che a ragione può essere chiamata la loro clientela. [...]. Questa è la vita di provincia diffusa tra molti strati della borghesia la cui sociabilità è ancora basata su mentalità di tipo tradizionale; essa può essere bene espressa dalla parola «salotto», che richiama l’idea di intimità domestica, di saper vivere, di famiglie complete e spesso di gerarchia.

  Ad un gradino più basso della scala sociale c’è una borghesia più povera (e per questo sprovvista di case ben fornite), sposata più modestamente (dunque priva di mogli presentabili in società), di gusti meno raffinati, ma non per questo meno borghese. Il Frélaut di cui parla Jules Simon [Le député d’Arcis] è un «signore». sempre ben vestito, col cappello a cilindro, la redingote e le scarpe, mentre la moglie resta una massaia in zoccoli; egli ha una non ben precisata occupazione intellettuale («impiegato al comune») e soprattutto molto tempo libero. Dopo che ha passato la maggior parte della giornata a leggere il giornale, va a «giocare la sua partita a bocce con gli altri borghesi di Larmor». Il legame tra questi borghesi è di natura informale, ma esclusivamente maschile; la vita da caffè non è lontana, e neppure quella da circolo; è dunque all’interno di questo strato della bassa borghesia che si trova una clientela per quella sociabilità moderna che si diffonderà in tutta la Francia, fino a toccare ben presto i ceti popolari. Balzac non ha ignorato neppure questo tipo di uomini. Nel romanzo I contadini, che contiene il maggior numero di descrizioni relative a strati sociali e strutture di sociabilità, esso è rappresentato dal sinistro Rigout, borghese istruito e affarista, lettore di giornali e amante della politica. Rigout è un uomo senza donne: sua moglie è relegata in casa, come un’autentica domestica, mentre le sue vere compagne sono le cameriere, che diventano tutte sue concubine. Va da sé che un personaggio del genere non può essere ricevuto in un salotto; il suo universo sociale è il caffè. Aggiungiamo, a buona memoria, che più in basso ancora c’è il vero popolo contadino e la sordida bettola del Grand I Vert. I contadini di Balzac, famoso soprattutto come romanzo della lotta di classe rurale, meriterebbe di esserlo ancor di più come romanzo della sociabilità provinciale durante la Restaurazione.

 

 

  Nello Ajello, Dove sta Balzac? O Madonna mia ..., «la Repubblica», Roma, 24 febbraio 1993.

 

  Sembra il ritornello di una canzonetta napoletana assai in voga negli anni Cinquanta: “Dove sta Balzac?”. Mentre scriviamo, la ricerca dell’autore della Comédie humaine (o meglio, di un suo tardo emulo o successore fra i giornalisti e gli scrittori italiani) si è fatta spasmodica. Questa caccia all’uomo, lanciata sabato scorso da Mirella Appiotti su Tuttolibri, supplemento culturale della Stampa, rischia di sconvolgere la vita di tanta gente. Alla domanda perentoria con cui si apriva quell' articolo (“Chi è il Balzac di fine millennio?”) i primi indiziati hanno risposto schermendosi e nascondendo, ciascuno a suo modo, il proprio disagio. Giorgio Bocca ha dichiarato: “Sono io”. Ma non è il caso di credergli: troppo provocatorio per essere vero. Pansa sostiene, invece, che la nostra letteratura giornalistica è troppo “rasoterra” per avvalorare simili paragoni. Biagi ha emesso una diagnosi desolata: “Oggi il dramma è grande, ma gli uomini sono piccoli”. Gli uomini sono piccoli, d’accordo. Ma le donne? Non si potrebbe allargare la ricerca in campo femminile? La scoperta di una signora Balzac sarebbe tutt’altro che disprezzabile in termini pubblicitari. La prescelta diventerebbe una griffe di sicuro effetto: sciarpe alla Honoré, profumo “Lady Balzac”, orecchini “Illusions perdues”. Si potrebbe pensare a un concorso-referendum intitolato “Vuoi diventare madame Balzac?” e proporlo alle spettatrici del Festival di Sanremo. La siglia (sic) canora – “Dove sta Balzac, madonna mia” – è, come accennavamo, già pronta. [...]. Insomma, non partiamo proprio da zero. Balzac, quello vero, deve sentirsi malfermo sul trono. E poi, chi crede di essere? “Grande, terribile, complesso”, scrisse di lui Baudelaire, “raffigura il mostro di una civiltà con tutte le sue lotte, le sue ambizioni e i suoi furori”. Mai identikit fu più somigliante: se io fossi Marina Ripa di Meana mi metterei subito al lavoro.

 

 

  Mirella Appiotti, Dov’è il Balzac delle tangenti?, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, Anno XVIII, n. 842, 20 luglio 1993, p. 1.

 

  Chi sa raccontare la realtà d’oggi? Il giornalista o il romanziere?

 

  Chi è il Balzac di fine millennio? [...].

 

 

  Albert Béguin, «Un’immersione nel mistero delle cose», in Honoré de Balzac, La Fille aux yeux d’or. La ragazza dagli occhi d’oro ... cit., pp. 193-202.

 

  La Fille aux yeux d’or (La ragazza dagli occhi d’oro), terzo episodio dell’Histoire des Treize (Storia dei Tredici), occupa un posto privilegiato nel complesso dell’opera di Balzac. Mentre nei primi due episodi, Ferragus e La Duchesse de Langeais (La Duchessa di Langeais), dedicati a Hector Berlioz e a Franz Liszt, la musica accompagna e scandisce l’azione romanzesca, la Fille aux yeux d’or è dedicata espressamente «a Eugène Dclacroix, pittore». Scrivendo questa singolare vicenda, Balzac si proponeva di competere con la pittura e di esprimere con il linguaggio quello che i pittori esprimono normalmente con gli effetti di colore. Se non considerassimo con la dovuta attenzione questi propositi, rischieremmo di non comprendere affatto le singolari avventure di Paquita, di Henri de Marsay e della marchesa di San-Réal, in cui tanti eccellenti critici non hanno saputo vedere altro che un racconto melodrammatico, pieno di inverosimiglianze, partorito da una fantasia sfrenata o teatrale. Così come tanti hanno invece insistito troppo sull’audace rappresentazione dell’amore fra due donne: un tema diventato ormai di moda, intorno al 1835, grazie a Théophile Gautier e Henri de Latouche, ben prima quindi delle Femmes damnées (Donne dannate) di Baudelaire o delle fanciulle di Proust.

  Indubbiamente tutto ciò è ben presente nella Fille aux yeux d’or. Il gusto tipicamente teatrale dell’eccesso e la curiosità che suscitano le passioni fuori dalla norma, entrano in larga misura nella composizione di quest’opera singolare. Ma prima di ogni altra cosa Balzac si è chiaramente proposto di imitare Delacroix e avvicinarsi al segreto del simbolismo dei colori.

  Lo scrittore ammirava molto Delacroix, che, come è noto, servì da modello per il personaggio di Joseph Bridau ne La Rabouilleuse, ma che da parte sua, stando al Journal (Diario), provava per Balzac solo una tiepida stima. Questo non impedì al romanziere di prestare una particolare attenzione ai discorsi e alle teorie del pittore: il Chef-d’oeuvre inconnu (Il capolavoro sconosciuto), per esempio, conserva sicuramente l’eco delle loro conversazioni. Certo, esisteva tra di loro una grande differenza di temperamento: il classicismo aristocratico di Delacroix, la sua cautela, l’interesse per le esigenze tecniche e per una rigorosa professionalità, correggevano e dominavano la sua fantasia romantica; mentre, in Balzac, l’intelligenza finisce sempre per farsi superare dallo slancio visionario. Eppure non sarebbe difficile trovare numerosi punti di contatto che uniscono i due artisti ad una medesima matrice intellettuale e ad alcune fra le più diffuse tendenze del loro tempo.

  La Fille aux yeux d’or può bastare da sola a dimostrare che Balzac possedeva, sull’arte e le intenzioni di Delacroix, idee superficiali e profonde al tempo stesso: superficiali nella misura in cui si riducono ad alcune definizioni studiate e banali; profonde, quando si affida ad una conoscenza intuitiva, ad una comprensione per affinità. Il racconto «pittorico» di Balzac appare schematico e inadeguato finché lo scrittore tenta di riprodurre con i propri mezzi quella che gli sembra la particolare atmosfera dei quadri di Delacroix. Ma, al contrario, è molto vicino ai segreti del pittore quando il romanziere si affida alle proprie capacità creative, e a quanto pensava di sapere dell’influenza occulta dei colori sulla vita degli uomini, o del loro ineffabile «significato». [...].

  Nella descrizione della popolazione parigina che costituisce lo splendido prologo del racconto, e che appare anch’esso di tono già baudelairiano, il livido grigiore in cui è immersa la vita delle classi povere fa posto progressivamente a colori sempre più squillanti, riservati agli strati superiori della società. Vediamo i commercianti borghesi tendere «la mano sull’Oriente» e prendervi «gli scialli disdegnati da turchi e da russi»; gli uomini d’affari entusiasmarsi per le fantasmagorie orientali dell’Opera; gli artisti nelle loro soffitte evocare le stesse fantasie esotiche; e tutta la piramide sociale esistere solo per permettere alle donne, alle «piccole tribù felici» delle cortigiane, di vivere in maniera splendida, «all’orientale». Allusioni di questo genere si moltiplicano nel corso del racconto. Nel momento di più ardente passione, Marsay e Paquita sognano di andare a vivere in Asia, e la loro prima notte di voluttà, nel salottino bianco, rosso e oro – lo stesso salottino in cui Balzac scriveva La Fille aux yeux d’or, – gli appare come «un poema orientale». Agli occhi di Balzac, la scena sanguinosa dell’epilogo, in cui la marchesa strazia il corpo di Paquita, macchiando di rosso i rivestimenti di seta, doveva possedere la stessa intensità drammatica della Desdemona di Delacroix, e il lusso tragico di una Venezia che guarda verso le coste dell’Oriente.

  Ma sin qui si tratta pur sempre del bric-à-brac balzachiano, di un’immaginazione tanto meravigliosamente feconda quanto lontana da ogni severa selezione, e che spinge il romanziere verso il rischio di una pericolosa vicinanza con il melodramma e il cattivo gusto. Solo che, come accade sempre a questo formidabile genio, il movimento drammatico e il precipitare degli eventi verso l’inevitabile catastrofe, travolgono questo grossolano armamentario, conferendogli un vigore tale che il lettore, privo di difese e ormai senza fiato, non pensa più a giudicare la qualità dei dettagli. E tuttavia il segreto di questo sortilegio è legato a motivi più profondi. Sotto il dramma esteriore, dramma della passione e della morte, Balzac in parte nasconde, e in parte rivela un altro dramma: quello di una ricerca, di un’indagine, di un’immersione nel mistero delle cose. Qui, nella Fille aux yeux d’or, l’esplorazione del mistero è ossessionata dal gioco dei significati simbolici dei colori.

  Secondo una lettera a Mme Hanska, il titolo primitivo dell’opera doveva essere La Femme aux yeux rouges (La donna dagli occhi rossi). Nel corso della redazione – che, come quella di tutti i migliori romanzi balzachiani, fu tormentata, portata avanti con accanimento, frutto di unaspra lotta, – gli occhi di Paquita persero il loro colore sanguigno per disseminarsi di pagliuzze dorate. Con la stessa obbedienza istintiva che Balzac dimostrò sempre verso le necessità interne del processo creativo, il romanziere faceva così passare la sua eroina dal campo rosso della passione amorosa, al campo dell’oro, che è al tempo stesso quello di una certa luce spirituale e quello dell’ambizione. (Infatti, per lui, non esisteva una grande differenza tra la sete di conoscenza e l’avidità del possesso, tra le intuizioni fulminee e l’ebbrezza del potere; e il personaggio di Gobseck ne è il migliore esempio).

  Per tutto il corso del racconto, i due colori più importanti, che spiccano su di uno sfondo cangiante, bianco e di diversi altri colori, si affrontano in una lotta mortale. L’oro e il rosso sono già presenti nelle prime righe, nelle due metafore della mèsse falciata e del vulcano incandescente, che rappresentano di volta in volta la popolazione parigina, assetata di ricchezze o di piacere. Sarebbe necessaria un’analisi minuziosa per seguire le vicende di questa lotta, attraverso i momenti del piacere e della passione, fino all’esplosione sanguinaria del delitto finale. In ogni pagina, il fuoco e il sangue, l’oro e la luce vengono mescolati fra di loro o insieme a tutte le sfumature dell’arcobaleno, in maniera diversa. Ma questo persistente simbolismo, e non lo si sottolineerà mai abbastanza, è svincolato da qualsiasi sistema di corrispondenze immutabili. Balzac, che credeva fermamente nella fisiognomica, nell’importanza delle forme corporee, o nella predestinazione insita nei nomi di luogo e di persona, come non si è mai affidato ad una tavola di analogie che gli avrebbe permesso di decifrare automaticamente quei preziosi indizi – così, allo stesso modo, ha saputo evitare lo scoglio costituito da una simbologia dei colori predeterminata sin dall’inizio. La stessa sillaba, lo stesso gesto, gli stessi lineamenti del viso acquistano, nelle sue creazioni, significati di volta in volta diversi, e lo stesso può dirsi del significato che attribuisce, passando da un’opera all’altra, al rosso, all’oro, all’azzurro e al bianco. E non solo da un’opera all’altra, ma anche da una pagina all’altra del medesimo romanzo.

  Questo simbolismo rimane straordinariamente vitale e mutevole dando così l’impressione che venga continuamente riscoperto, reinventato, che tutto nasca, viva e si trasformi nell’atto stesso della scrittura. Uno dei segreti del potere di suggestione che Balzac esercita, più di ogni altro romanziere, sulla mente dei suoi lettori, consiste proprio in questa continua vittoria dell’immaginazione sull’astrazione, che distrugge tutti i suoi schemi mentali, e tutti i suoi pregiudizi. Un’onestà innata gli impone di accettare ciò che gli insegnano, a dispetto delle sue intenzioni iniziali, il destino imprevedibile dei suoi personaggi, le scoperte fatte strada facendo, sui loro moventi o i loro abissi interiori, il significato sempre diverso degli aspetti e delle metamorfosi della vita.

  Commetteremmo dunque un grave errore se leggessimo La Fille aux yeux d’or traducendo in nozioni chiare e univoche colori ricchi di significati continuamente rinnovati e lentamente avviluppati, in maniera inestricabile, in un intreccio dalle molteplici valenze. Certo Balzac ripete spesso che il rosso corrisponde alla passione amorosa, e oro al possesso delle ricchezze materiali. Ma questa è solo una delle tante teorie che professava ad ogni occasione, per esempio esponendo sulla società dottrine prese a prestito dai teorici dell’ordine, della tradizione e dell’autorità, mentre i suoi migliori personaggi sono dei fuorilegge, criminali, uomini di genio, avventurieri di ogni genere, che attraversano come bolidi livelli e gerarchie. Analogamente, seguendo le tesi degli occultisti o le sue personali convinzioni artistiche, Balzac pensava che ogni colore della tavolozza possedesse un significato immutabile. Ma eccolo invece scrivere il suo racconto «pittorico», e man mano che vede i colori animarsi, combinarsi, scontrarsi, mescolarsi completamente al destino e ai sogni degli esseri umani, i contrasti si fanno meno netti, meno espliciti. Al posto di un dizionario simbolico dei colori, ora è la loro stessa vita a stargli davanti, vita mutevole, imprevedibile, dove ognuno di essi rappresenta, a seconda dei momenti e della prossimità con altri colori, una certa realtà interiore con cui non sembrava avere alcun rapporto. Essi cercano di interscambiarsi all’infinito, proprio come nel cuore dei protagonisti si confondono, si intrecciano, si scontrano le diverse passioni, le molteplici manifestazioni di un’unica energia. E se il mondo delle apparenze e delle sensazioni corrisponde alle profondità del cuore e della mente, non è pero paragonabile ad un’immagine immutabile che rappresenti una realtà altrettanto immutabile. Al contrario, è proprio per la sua mobilità, per il turbinio delle sue incessanti metamorfosi, che il mondo sensibile assomiglia, innanzitutto, alla vita segreta dell’universo e della mente, la cui natura è movimento, perpetua trasformazione, tensione di innumerevoli forze.

  Meraviglioso Balzac! Raggiunge il culmine dell’arte solo a prezzo della sconfitta delle sue precedenti intenzioni. Quest’uomo, al quale la forza esaltante della sua potenza creativa ispirava un orgoglio apparentemente illimitato, si è dimostrato straordinariamente umile davanti alla verità che gli appariva all’improvviso attraverso le sue stesse invenzioni, e gli svelava la complessità delle cose, tanto più grande di quanto non avesse immaginato. Un’accoglienza così generosa era possibile solo ad un romanziere che si identificasse interamente con la realtà dei suoi personaggi e si immedesimasse con essi al punto di accettare le loro sconfitte, quand’anche li avesse destinati al trionfo. Ed egli accettava così tutta la realtà, non soltanto, come si pensa troppo sovente, la realtà esteriore, visibile, tangibile, ma la stessa realtà del mistero. È verso di essa che procede ininterrottamente, giacché egli resta sempre, anche nei racconti più «realistici», la stessa persona che ha scritto il Livre mystique (Libro mistico): un uomo che aveva come scopo principale la totale spiritualizzazione della materia e il prolungamento dello slancio vitale sino ai più lontani confini oltre i quali avrebbe raggiunto la pura luce dell’eternità beata.

  L’attenzione che dimostra per il simbolismo dei colori è strettamente legata al vasto disegno dell’intera opera. Di cos’altro si tratta, infatti, se non di considerare gli aspetti del mondo sensibile come altrettante manifestazioni dell’invisibile, forse solo parzialmente decifrabili? E insieme, di volgere con la mente l’intera molteplicità verso una trasfigurazione che la trasformi nel linguaggio, nel discorso infinito attraverso il quale si comunica l’Uno, il Divino, nella sua incomunicabile essenza? Solo gli spiriti mistici – Novalis, Nerval, Baudelaire – sono disposti ad ammettere che i colori siano segretamente destinati non solo a tradurre la nostra vita interiore, ma anche a farci accedere alla comprensione dell’universo. Balzac appartiene alla famiglia degli spiriti assetati di conoscenza, e La Fille aux yeux d’or, dietro le apparenze di romanzo patetico, e grazie alla sua struttura pittorica, è una delle opere in cui ha più audacemente tentato di rubare il segreto degli dèi. «Ladro del fuoco», come diceva Rimbaud.

  Ma, attenzione: se è possibile leggere il racconto seguendo il gioco di colori che si combinano in mille modi diversi e che ne determinano effettivamente la struttura segreta, questo non significa che le avventure dei personaggi, le loro passioni, la fatalità dei loro destini siano prive d’importanza. Certo, l’idea che domina tutta l’opera è proprio questo sorprendente proposito di abbandonarsi alle suggestioni dei colori, e di adeguare le scene o gli eventi alla stessa legge misteriosa propria di una composizione pittorica. In un certo senso, si può dire che la marchesa deve massacrare Paquita proprio per celebrare l’irruzione e la vittoria del rosso. Il pittore Balzac ha bisogno per quest’epilogo, solo apparentemente delirante, di spargere una gran quantità di rosso sulla sua tela, e per questo gli occorre tutto il sangue di un corpo dilaniato. Ma cedendo così alle esigenze della sua tavolozza, Balzac non agisce diversamente da un pittore che con l’armonia o il contrasto dei colori scelti con occhio esperto, suggerisce una profonda verità umana, spesso senza averlo neppure consapevolmente previsto. In effetti, è solo perché i colori possano esplodere trionfalmente che la storia tragica di Marsay e di Paquita si svolge in una sfera in cui tutto è straordinario, innalzato al di sopra della vita di tutti i giorni, e dominato da una verosimiglianza diversa da quella ordinaria. Ma non per questo la loro storia è meno vera: i conflitti tra il rosso, l’oro e il bianco, il passaggio dal rosso porpora della passione a quello della fatalità e del sangue, hanno chiaramente guidato Balzac verso una conoscenza visionaria che illumina di colpo, per lui come per i suoi lettori, certi aspetti molto profondi del cuore e del destino degli uomini.

  Questo profondo legame tra le forme e ciò che devono manifestare, è essenziale per un pensiero ed un’arte veramente simbolici. Entrambi, il simbolo e il suo significato, i colori e i segreti dell’anima che vi si associano o vi si manifestano, sono inseparabili per Balzac. E qui sfioriamo una delle sue glorie. Al suo desiderio di spiritualizzazione della vita terrena, che, in Séraphîta, per esempio, lo porta verso un tentativo di disincarnazione, l’esperienza ha risposto dapprima con una sorta di richiamo all’ordine, di cui si avverte l’eco ansioso in molti passi della sua opera: nelle ultime pagine del romanzo dell’androgino, nel Lys dans la vallée (Il giglio della (sic) valle), ed ogni volta che la condizione terrena fa sentire la sua legge o i suoi limiti invalicabili. Ma è proprio a questo punto che Balzac, rifiutando di lasciarsi abbattere, di cedere alla paura di cui parla così spesso nelle sue lettere, le contrappone l’atto con cui inventa il suo universo romanzesco. Se il tentativo angelico di spiritualizzazione conduce alle soglie proibite della follia e si scontra con una minaccia terribile, rimane una possibilità di salvezza priva della tristezza di una rassegnazione o di una sconfitta. Gli resta da voltarsi verso la vita, verso gli uomini, immaginando la loro esistenza, anche quella più duramente oppressa dal peso della materialità, a partire da ciò che malgrado tutto la esalta. Nessuno potrebbe arrivare a possedere l’amore puro o la conoscenza assoluta, ma è possibile scoprirne i riflessi, i segni, la dolorosa, tormentata sopravvivenza, nell’imperfezione della vita. Il racconto di Balzac è ricco di questa tensione tra la coscienza dell’insuccesso e un’ostinata volontà di ascensione. La conoscenza—e, quindi, nel caso della Fille aux yeux d’or, il significato segreto dei colori – invece di rimanere l’obbiettivo di un’intelligenza slegata dal corpo, è incarnata nei visi, nelle passioni e nei destini degli uomini. È per questo che quei destini, quelle passioni e quei visi, vivono in maniera così intensa: sono animati e divorati dalla stessa fiamma mistica di Balzac.

 

 

  Giovanni M. Bertin, Il dandismo nella Francia della prima metà del secolo XIX e in Balzac, «Siculorum Gymnasium. Rassegna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania», Catania, N. S., anno XLVI, n. 1-2, Gennaio-Dicembre 1993, pp. 605-621.

 

  pp. 609-610. Sotto Luigi Filippo si ebbe infatti una grossa affermazione della stampa, dovuta anche all’intraprendenza di Émile de Girardin che fondò tre riviste (Le Voleur nel 1828, La Silhouette umoristica ed illustrata da vignette, e La Mode, entrambe fondate nel 1829) ed acquistò anche nel 1836 La Presse. La più nota delle riviste fu per l’appunto La Mode in cui Balzac farà apparire a puntate il suo Traité (pp. 161-186).

  Ad opera anche di giornalisti, “vivaci, eccentrici e pieni di talento”, nonché di grandi scrittori ed artisti, si formò così in Francia “un gruppo incomparabile” delle più diverse tendenze, “a metà cammino, per modi di vita e per professione di fede, tra il mondo dandy del Jockey Club e il mondo bohémien delle lettere”. I suoi membri interessati al dandismo, tanto nella sua versione inglese quanto in quella francese, crearono e portarono alla perfezione la tecnica di saggi caricaturali (acuti, minuziosi, pseudo-scientifici) spesso chiamati physiologies, illustrati con vignette disegnate da due celebri caricaturisti dell’epoca: Gavarni e Daumier.

  Personaggi appartenenti a questo gruppo vennero ritratti quali dandies nella Comédie humaine di Balzac. Tra essi, il dottor Véron, fondatore della Revue de Paris; Latour-Mezeray, collaboratore de La Mode e Le Voleur (“il cui abbigliamento e lo splendido calèche affascinarono Balzac”) e, più dandy di tutti, Roger de Beauvoir, “dalla personalità brillante e raffinata, che insegnò a Baudelaire e a Barbey d’Aurevilly quel che sapevano sulle arti del dandismo pratico”. [...].

 

  Balzac: il dandismo ed il suo superamento in saggi di carattere satirico-sociale, pp. 611-617.

 

  Col 1830 Balzac aveva incominciato a scrivere articoli di cronaca mondana sulle riviste alla moda, cercando di imitare, “con molta tenacia ma scarsi risultati, il dandismo così personale dell’amico Latour-Mézeray”, incoraggiato dal successo che aveva incontrato il suo romanzo Les derniers Chouans (sic). E. Moers ricorda, tra i suoi contributi nel genere dandy: Étude de moeurs par les gants, Physiologie de la toilette, Nouvelle théorie du déjeuner, Des mots à la mode, Physiologie gastronomique, Physiologie du cigare, ecc.

  Secondo Prévost Balzac seppe in tal modo divenire “le peintre à la fois le plus amusant et le plus pénétrant de l’époque. Dans la Nouvelle théorie du déjeuner, la Physiologie de la toilette et le Traité de la vie élégante, nous trouvons, sous forme d’aphorismes, des plaisanteries qui expriment toute l’impertinence de ce travers: “le déjeuner est le critérium, c’est le prodrome de votre perfection personnelle”; “la cravate c’est l'homme”; “l’esprit d'un homme se devine à la manière dont il porte sa canne”. [...].

  Del Dandy Balzac mette in evidenza nella Comédie soprattutto “sa mise et sa tournure ..., de cannes merveilleuses, une charmante lorgnette, des boutons de diamants”; e come sue occupazioni principali: “lorgner impertinemment les gens, parier sur l’identité d’une jeune fille masquée”, ecc. Il Prévost in proposito muove qualche critica a Balzac (a mio parere troppo severa), perché, “au lieu de les peindre …, il ne fait trop souvent que citer les habitudes des dandys ... Maxime de Trailles à part, il est impossible de se fier à Balzac si l’on veut suivre dans la Comédie humaine une existence de dandy”.

  E tuttavia, anche se non può essere considerato effettivamente come lo storico del dandismo (“lorsqu’il en écrit l’histoire, la fausse”), Balzac segnala con i personaggi dei suoi romanzi quanto la vita del dandy – ridotta tutta ad una monotona successione “de dîners, de jeux de cartes, de promenades à cheval, de bals, de fêtes et de spectacles” – fosse non soltanto vuota e sciocca, ma anche socialmente venefica. A tutti i livelli della società, infatti, Balzac “a vu les coeurs et les esprits aveuglés par la vanité et la fatuité”, di cui furono perniciosi portatori per l’appunto i dandies. […].

  Aggiungiamo qui un cenno ad altri scritti di Balzac (di ampiezza e di valore disuguale), non soltanto perché essi trattano di argomenti (il passeggiare, il fumare, il conversare, ma anche il trattare con il coniuge) che, rientrando a pieno diritto nel territorio di una vita che voglia essere élégante, interessano direttamente il dandy, ma anche perché sono caratterizzati da una tonalità semiseria (badine) in cui il serio eccede notevolmente sullo scherzoso, facendo valere, sia pure con spunti umoristici, una componente pedagogica indubbiamente avversa (e in tal modo correttiva) alla futilità dandy.

  Essi sono Physiologie du Mariage, Théorie de la démarche, Traité des excitants, De la conversation.

  La Physiologie du mariage (1829) è la più importante, sia per le idee fatte valere in essa nei riguardi del matrimonio, notevolmente avanzate rispetto ai tempi, sia per il fatto che essa venne pensata dallo stesso Balzac come collegata col Traité de la vie, in un progetto di lavoro più generale che testimonia del suo interesse per la problematica educativa. Ma anche per la notorietà che essa diede al giovane autore.

  Diciamo dunque innanzi tutto di essa.

  Nell’introduzione alla Physiologie du Mariage, ou méditation de philosophie éclectique sur le bonheur et le malheur conjugal par un jeune célibataire […], l’autore si presenterebbe dandy […].

  Per nulla dandies sono nell’opera, ad esempio, le affermazioni critiche nei riguardi dell’educazione femminile del suo tempo e la tesi circa la parità della donna all’uomo.

  L’educazione femminile era allora infatti affidata a conventi o a pensionati o soltanto ad inette governanti. [...]. La donna deve ricevere un’educazione pari a quella dell’uomo, poiché soltanto questa può promuovere in lei “les facultés les plus brillantes, et les plus fertiles en bonheur pour elle et son mari” [...].

  Pertanto, tutt’altro che dandy e per nulla cinica come si è creduto, l’opera è, nella sua rappresentazione della realtà sociale del tempo, “simplemente (sic) cruelle, et, dans ses aspects positifs, révolutionnaire. Pour que l’homme retrouve sa dignité et le goût du bonheur”, in un mondo che attualmente è “un combat perpétuel entre les riches et les pauvres ..., il est indispensable de refondre toutes nos institutions”, e perciò anche il matrimonio.

  Questo è l’autentico messaggio politico della Physiologie du Mariage di Balzac […].

  Gli altri tre scritti, posteriori al Traité de la vie élégante, fanno parte, dichiara l’autore, delle tematiche concernenti la Pathologie de la vie sociale [...]. Evidentemente tutti e tre, per la natura del loro argomento – la démarche, les excitants, la conversation – riguardano la vie élégante e pertanto anche l'espressione di essa sperimentata dal dandismo. [...].

  Tipicamente dandy per l'argomento (la démarche è traducibile in italiano come andatura, passo, portamento), ma non per la trattazione, nonostante la tonalità umoristica che vi compare, la teoria balzachiana della démarche [...] si svolge, dopo ampia premessa, in dodici aforismi [...].

  Potenzialmente dandy per l’oggetto (gli stimolanti), in realtà oltremodo serio nella trattazione – che conclude nel dare rilievo alla gravità sociale del problema della pubblica alimentazione – il Traité des excitants modernes [...] fu pubblicato una prima volta nel 1838 come seguito della Physiologie du goût di Brillat-Savarin, ed una seconda nel 1855 dopo la morte dell'autore.

  [...] si tratta della natura e degli effetti fisiologici e psicologici causati dall’uso e dall’abuso di cinque sostanze eccitanti, ricordando innanzi tutto il periodo in cui si verificò la loro diffusione in Francia. L’autore mette in guardia soprattutto dall’ubriachezza. [...].

  Dandy per l’argomento e satirico del costume mondano nella sostanza è il breve articolo De la conversation (578-584), pubblicato in La Mode il 22 maggio 1830. [...]. È dedicato “aux mots à la mode”. Sono quelli che danno prestigio mondano a chi li usa, assicurandogli successo in società. [...].

 

 

  Giovanni Maria Bertin, Il traité de la vie élégante di H. de Balzac: proposta etico-pedagogica, «Atti della Accademia delle scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di scienze morali. Rendiconti», Bologna, Anno 86, vol. 801, 1991-1992, Tip. Compositori, 1993, pp. 38-66.

 

  I biografi di Balzac danno rilievo, nel ricostruirne la vita, all’esistenza di forti contraddizioni nel suo orientamento personale di fronte a se stesso e agli altri, alle cose del quotidiano e ai grandi eventi del suo tempo. Dominante tra esse vi sarebbe, ad esempio secondo G. Picon (Balzac par lui-même [...], 1956), la contrapposizione – psicologico-esistenziale – tra un atteggiamento di debolezza (che si esprime nel bisogno di essere amato e di essere ammirato) e la volontà di combattere e vincere – anche solo contro tutti – in una vita che è un incessante progetto per realizzare sempre nuove e grandi prospettive. Ma il medesimo autore scopre – al fondo di queste e di altre contraddizioni – il persistere del dualismo (in realtà è «masque du créateur») tra un Balzac apparent e un Balzac profond. Il primo si muove nella società del suo tempo comportandosi da «mystificateur jovial», avido di ricchezza e di successo (che arriva ad essere addirittura «défenseur de l’ordre»); il secondo vive invece in un universo notturno, violento e tragico, che ha anche dimensioni mistiche. Dalla tensione tra i due mondi nascerebbe la creazione balzachiana della Comédie Humaine. [...].

  Nell’ambito di queste contraddizioni va considerato, per quanto riguarda l’argomento della vie élégante, il manifestarsi di una discrepanza, indubbiamente trascurabile se messa in rap-porto alla grandezza dell’opera letteraria da lui realizzata, ma non irrilevante nei riguardi della comprensione della sua umanità. Si tratta di una discordanza, abbastanza vistosa, tra il «buon gusto» di cui egli dà prova nel suo Traité in fatto di principi generali della vie élégante e dei precetti conseguenti; ed il «cattivo gusto» che egli invece manifesta nell’acconciare la sua persona, nell’arredare la sua casa, nel praticare in genere la vita di società (in cui, nonostante tutto, va notato, seppe imporsi pienamente). Alla base di siffatto cattivo gusto c’era indubbiamente il suo amore per l’appariscente e lo sfarzoso, e perciò anche per il lussuoso ed il costoso, alimentato anche dallo sforzo di essere all’altezza di scrittori ed artisti amici, ricchi e frequentatori dei salotti alla moda come E. Sue e Latour-Mézeray. [...].

 

 

  Osservazioni conclusive.

 

  Concludiamo questa sommaria esposizione del Traité di Balzac dando rilievo a tre tipi di giudizi, variamente significativi dell’atteggiamento dell’autore nei riguardi delle componenti etiche del suo ideale di uomo elegante.

  Per il primo citiamo giudizi che meritano riserve di carattere etico e pedagogico, poiché esprimono indubbi pregiudizi di classe. […].

  Il secondo gruppo definisce nettamente la posizione negativa di Balzac nei riguardi del dandismo (anche se sappiamo che egli non è stato del tutto immune da dandismo; ma altro è affettare talvolta pose dandies, altro è assumerle come stile di vita). […]

  Il terzo, decisamente il più interessante in prospettiva pedagogica, riguarda il profilo ideale di un uomo elegante in cui la presenza del «buon gusto» viene assunta come una componente apprezzabile ed importante, ma non preminente ed esclusiva, nel quadro di una vita personale risultante da quel processo di formazione «completa» cui aderisce il nostro autore.

  Nel delineare questo tipo Balzac ricupera – scherzosamente – ma senza intenzioni irrispettose – la terminologia teologica per stabilire un ordine gerarchico fra tre tipi di uomo elegante. [...].

  Nel terzo tipo di uomo elegante da lui vagheggiato, or ora ricordato, è chiaramente esclusa ogni identificazione della vie élégante non soltanto con quella ridicolizzata nella figura del dandy, ma anche con quella del viveur e del gaudente di cui il dandy rappresenta piuttosto una diversione ed una caricatura. [...].

  Al di là dell’eventuale influenza di Schiller o di altri autori sulla concezione balzachiana della belle âme, va però riconosciuto che questa è stata esaltata da Balzac in una prospettiva decisamente originale, balzachiana per l’appunto (e francese, mi permetterei di aggiungere, e perciò certamente spoglia dalle complicazioni trascendentali della coeva filosofia tedesca), anche se condizionata, per quanto riguarda la sua formulazione concettuale, dal carattere tutt’altro che dottrinario (semiserio, si ricordi) del Traité. [...].

  Possiamo perciò concludere il nostro discorso affermando, in rapporto alla discordanza – cui abbiamo accennato nella prima parte del nostro discorso (con intenzione anch’essa semiseria) – tra l’esigenza di raffinatezza e di eleganza fatta valere dal Traité e le svariate accuse di «cattivo gusto» mosse dai contemporanei nei riguardi del suo illustre autore, che un rilievo esagerato di quella è non soltanto meschina, ma addirittura ridicola se confrontata, come è doveroso, non soltanto con la grandezza dell’opera letteraria balzachiana, ma soprattutto con la profondità e l’ampiezza del sentimento di umanità che trabocca dai suoi scritti, e specialmente dalla Comédie Humaine. Ci permettiamo inoltre di aggiungere, anche se potrà sembrare un fatto secondario e un po’ futile, che tale discordanza non doveva poi essere apparsa tanto grave, se di essa non tennero gran conto personaggi femminili che di «gusto» se ne intendevano, perché si trattava di donne belle, colte ed intelligenti (di gran classe insomma). Ma soprattutto che essa fu decisamente superata dalla concezione di una vie élégante (intesa ben al di là di una sua limitazione all’abbigliamento e alle «maniere» di moda) elaborata in una proposta di alto valore etico e pedagogico. Siffatta proposta abbiamo voluto ricostruire attingendo ad un’opera non rifinita (e pertanto forse «minore») che Balzac scrisse trentenne (con intenzioni semiserie, ma in cui il serio, come abbiamo messo in evidenza, gli ha preso fortunatamente la mano), in un’epoca di dandismo trionfante, negli anni in cui egli raggiungeva, come scrittore e come uomo, la piena coscienza della elevata significazione culturale e civile della sua opera letteraria.

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione, in Honoré de Balzac, La Fille aux yeux d’or. La ragazza dagli occhi d’oro ... cit., pp. V-XXVI.

 

  [...]. Sotto il segno della chimera: un racconto composito.

 

  Figura mostruosa dalla testa di leone, dal corpo di capra e dalla coda di drago, la chimera non costituisce soltanto il trait d’union tra Fragoletta e La Fille aux yeux d’or: nel testo balzachiano è una presenza ricorrente e densa di significato. Ad essa si paragona de Marsay, mentre spia l’arrivo di Paquita alle Tuileries: «Eccomi qui in attesa della fanciulla di cui sono la chimera». In un contesto più inquietante, è l’orribile madre di Paquita, presente al primo convegno segreto dei due innamorati, ad essere paragonata alla chimera. La vecchia incarna, con la sua decadenza fisica e la sua insondabile corruzione, il lato tenebroso del destino che attende la radiosa Paquita [...].

  Se poi consideriamo il senso traslato del termine «chimera» che in francese, come nelle principali lingue europee, equivale, sin dal Cinquecento, a «miraggio, fantasma, sogno, illusione», i rapporti tra de Marsay e Paquita s’illuminano di nuova luce. De Marsay, ci suggerisce il testo, è la chimera di Paquita, il sogno che alimenta la sua vita intensa e breve; ma anche Paquita è la chimera di de Marsay, il fantasma eternamente in fuga del piacere assoluto, dell’«infinito reso palpabile e tradotto nelle gioie più eccessive della creatura». A ciascuno la sua chimera, sarà il titolo di un poème en prose di Baudelaire; potrebbe essere egualmente un titolo appropriato per La Fille aux yeux d’or, in cui non c’è personaggio che non persegua un sogno assoluto e distruttivo. Ad una prima lettura, soltanto il sogno di Paquita sembra trascinarla verso una consapevole autodistruzione; ma Balzac ha introdotto nel suo testo un piccolo rimando letterario che mene in luce la componente autodistruttiva presente anche in de Marsay È un rimando che ha tutta l’apparenza di una divagazione gratuita: descrivendo lo stato d’animo di de Marsay saturo di piacere, distratto e svagato dopo la prima notte trascorsa con Paquita, Balzac suggerisce che proprio la riflessione su quel tipo di stato d’animo abbia ispirato a Rousseau il racconto degli Amori di lord Edouard Bomston, collocati in appendice alla Nouvelle Héloïse. A prima vista il rimando balzachiano stupisce, perché dello stato d’animo disincantato di de Marsay negli Amori del virtuoso eroe rousseauiano non c’è traccia: lord Bomston rifiuta l’amore di una marchesa adultera e perversa – benché la desideri intensamente – e viene poi a sua volta respinte da una giovanissima cortigiana, che per amor suo si redime, ma, proprio perché redenta, preferisce la castità di un convento ad un’unione peccaminosa con lui. Lord Edouard non ha dunque occasione di conoscere quella nausea, quella smagata freddezza, quell’impazienza opacamente maschile che in de Marsay succedono all’appagamento dei sensi. In realtà, se Balzac ha pensato a lui, è perché la sua situazione psicologica, alla fine del testo citato, è diametralmente opposta a quella di de Marsay; la illustra e contrario. De Marsay si è gettato avidamente nell’inferno parigino, a caccia di sensazioni d’ogni sorta; lord Bomston, grazie alla realizzazione mancata dei suoi problematici amori, ha risparmiato energia vitale, si è astenuto dal consumare la propria vita. Questo concetto, così prossimo ai problemi ch’egli stesso aveva affrontato nella Peau de chagrin, Balzac lo trovava espresso, alla fine degli Amori di lord Bomston, dallo stesso Rousseau [...].

  Non è soltanto tra Latouche e Balzac, dunque, che la chimera costituisce un significativo trait d’union. D’altronde, come abbiamo già accennato, la sua presenza pervade in modo ossessivo La Fille aux yeux d’or, in tutte le zone della narrazione.

  I parigini, ritratti nel prologo, inseguono l’oro e il piacere ma, trascinati in un turbine perpetuo, ignorano la quiete dell’appagamento. Ogni classe, credendo di protendersi verso la sua chimera, corre in realtà verso la morte: il proletariato soccombe alla degradazione della miseria; la piccola borghesia si distrugge in un’implacabile frenesia di ascesa sociale; i ceti elevati sono intimamente corrosi dalla vanità, dall’invidia e dal tedio. Paul de Manerville, scialbo dandy mancato, aspira ad eguagliare il suo modello, de Marsay; la marchesa di San-Réal coltiva il sogno di un possesso tirannico, irrealizzabile e nefasto; la madre stessa di Paquita è vittima di una chimera che la domina, il demone del gioco. Per questo è disposta a tutto per denaro, anche a far scomparire il cadavere della figlia assassinata.

  Immagine di seduzione, d’irrealtà e d’orrore, la chimera è dunque l’emblema che meglio riassume La Fille aux yeux d’or, un emblema che non esprime soltanto il contenuto del racconto, ma ne riproduce la principale caratteristica formale. Ciò che distingue la chimera è la sua natura composita e mostruosamente discorde; anche La Fille aux yeux d’or è il più ibrido degli organismi narrativi. Sul prologo d’impianto realistico, s’innesta una narrazione che ha l’andamento di un lungo sogno; alla Parigi moderna degli operai e delle folle succede una Parigi mitica di impenetrabili rifugi e di splendori orientali, più prossima alla Baghdad dei Califfi o agli harem descritti da Byron che non a una prosaica e fangosa metropoli del secolo diciannovesimo.

  Attorno a questa discontinuità macroscopica, altri elementi contribuiscono a disintegrare il racconto: il Balzac giornalista, ad esempio, sovrappone di tanto in tanto la sua voce al Balzac narratore. È quanto avviene, nel prologo, quando l’autore vi rifonde un breve testo della sua produzione giornalistica precedente, il ritratto del merciaio diviso tra mille pittoreschi mestieri. Più avanti, è La rapida monografia sulla gioventù elegante di Parigi a costituire una sorta di corpo estraneo che rallenta il racconto. Sarebbe ingenuo considerare un difetto la disomogeneità che caratterizza la struttura, mostruosamente composita, della Fille aux yeux d’or. In questa discontinuità una lettura critica recente, condotta da Chantal Massol-Bedoin sulle tracce di Lucien Dällenbach, ha visto un tratto fondamentale della scrittura balzachiana: la tensione verso un «savoir absolu» che si rivela irraggiungibile Questa tensione apre dei vuoti nel testo, disegna incrinature nella sua presunta pienezza: manda in pezzi lo stereotipo del romanzo balzachiano come « romanzo tradizionale», sorta di tranquillizzante double a tutto tondo di una realtà compiutamente rappresentabile.

  Ma le brusche transizioni, le oscurità e le scene eteriche e irrelate dalla Fille aux yeux d’or hanno anche un’altra spiegazione, che Geneviève Delattre ha illustrato in un saggio avvincente. Non dobbiamo dimenticare che la stesura della Fille aux yeux d’or s’intreccia strettamente a quella di Séraphîta: Balzac lavora alternamente al demoniaco destino di de Marsay e all’ascesa di Séraphîta, la creatura purificata che trascende l’egoismo umano e si libera dalla schiavitù del desiderio. In un’ottica che tenga conto della genesi pressoché simultanea dei due testi, la calcolata disarmonia della Fille aux yeux d’or assume un significato ben preciso: rappresenta il contraltare infernale al mondo celeste di Séraphîta. In Séraphîta, i contrari conciliati che l’androgino racchiude e simboleggia, riposano in un preannuncio della quiete divina; nella Fille aux yeux d’or una realtà caotica e distruttiva non può che presentarsi dilaniata, lacerata dall’eterno conflitto tra i sessi e tra i contrapposti egoismi. [...].

 

 

  Mariolina Bongiovanni Bertini, Metafore e paragoni nel prologo de «La Fille aux yeux d’or», Ibid., pp. 181-185.

 

  Nel prologo della Fille aux yeux d’or dedicato a Parigi [...] Balzac persegue un disegno ambizioso: percorrere, dal basso verso l’alto, tutti i «gironi» dell’inferno metropolitano, riplasmato dalla sua immaginazione sul modello [...] dell’inferno dantesco.

  Già in un racconto del 1831, Les Proscrits (I Proscritti), Balzac si era ispirato alla Divina Commedia; il misterioso soggiorno parigino di Dante gli aveva fornito lo spunto per mettere in scena il poeta e fargli raccontare, in pagine suggestive, le sue visioni. L’inferno non vi era lungamente descritto; fungeva da sfondo, in una breve narrazione, allo strazio di due anime amanti separate nell’al di là dal castigo divino. [...].

  Sarebbe difficile trovare una descrizione che meglio si adatti di queste righe dei Proscrits all’inferno parigino della Fille aux yeux d’or: inferno non privo di una sua armonia (lo illustreranno immagini di sinistra bellezza), ma di un’armonia certamente terribile, in cui milioni d’anime sofferenti intrecciano i loro destini sacrificati e i loro sotterranei dolori. È attraverso un tessuto fittissimo di metafore e paragoni che Balzac persegue, nel prologo della Fille aux yeux d’or, la resa di questa terrible harmonie della Parigi infernale; tessuto che vuol essere certamente un omaggio alla ricchezza metaforica del modello dantesco, già virtuosisticamente riprodotta nei Proscrits, ma che vuole anche mimare la varietà inesauribile dello spettacolo urbano, il suo carattere proteiforme.

  Già nel primo capoverso [...] ci troviamo di fronte a un’immagine molteplice, che tende a trasformarsi sotto i nostri occhi: Parigi è un vasto campo di messi umane, sconvolto al tempo stesso dalla tempesta degli interessi e dalla falce implacabile della morte. Sotto questa falce non cadono teste, bensì maschere le cui espressioni, infinitamente varie, recano tutte il segno incancellabile dell’avidità. Lucienne Frappier-Mazur [cfr. L’expression métaphorique dans la «Comédie humaine», 1976] ha sottolineato quanto spesso le metafore balzachiane abbiano un carattere ramificato e proliferante; questo campo variamente agitato, le cui messi umane s’irrigidiscono in maschere, è un esempio efficace del tipo di metafora da lei studiato, in cui intorno ad un nucleo originario (il «vasto campo») si affolla una sarabanda di elementi eterocliti – la tempesta degli interessi, la falce della morte, i volti-maschere – da cui risulta un effetto di imprevedibile dinamismo.

  Un’analoga impressione di dinamismo emerge, poche righe dopo, [...] dal paragone tra «natura sodale» e natura tout-court: sulla caducità che le accomuna, Balzac non posa uno sguardo di sobria melanconia, ma uno sguardo affascinato e soggiogato dalle forze della distruzione, ben rappresentate dall’immagine finale del vulcano [...].

  Le due immagini che incontriamo successivamente [...] hanno un carattere meno dinamico: la città è definita «cette grande cage de plâtre, cette ruche à ruisseaux noirs».

  Benché non si tratti d’immagini nuove, quel che è nuovo è l’effetto prodotto dalla loro combinazione. Entrambe rimandano al carattere costrittivo della metropoli: i parigini sono prigionieri come belve in gabbia, ma la loro condizione non è d’immobilità, bensì di forzata operosità, come quella delle api. Il loro alveare ha però rivoli neri, non dorati come il miele: è il luogo di quella perenne agitazione distruttiva, cupa, che nel primo capo verso era adombrata dal campo falciato dalla morte.

  Non potendo intraprendere un esame esaustivo delle immagini presenti nel prologo della Fille aux yeux d’or, vorrei ora isolarne una serie omogenea: quella delle metafore animali che definiscono gli strati gerarchizzati della popolazione parigina. Gli operai, nella loro alacrità coatta, hanno caratteristiche scimmiesche: a loro Balzac si riferisce [...] come a ces quadrumanes. La loro somiglianza, sottolineata più avanti, con il meno attraente degli dèi olimpici, il deforme Vulcano, li confina in un mondo di bruttezza irrimediabile e minacciosa, ben poco umana. Accanto a loro la piccola borghesia, ingegnosa e versatile, evoca la leggerezza dei volatili: il merciaio dai mille mestieri [...] vola per la città, è irrequieto come una rondine e svolge le sue funzioni di piccolo burocrate appollaiato come un pappagallo sul trespolo. Nel superiore «girone» della borghesia affaristica compariranno volatili ben più inquietanti: gli uomini d’affari o di legge che, nerovestiti, hanno figura di corvi [...]. L’immagine sottolinea il loro legame con la corruzione e la morte, già anticipato dalla precedente definizione metaforica del mondo delle professioni «liberali»: espèce de ventre parisien, luogo claustrofobico e pestilenziale, in cui i miasmi della corruzione materiale si confondono con quelli della corruzione morale.

  Soltanto la sfera degli artisti e quella degli aristocratici sfuggono ad una caratterizzazione zoologica e vengono definite senza far ricorso a metafore o paragoni animali. La sofferenza degli artisti – portatori, in una società che tende al livellamento, di una scandalosa «differenza», come ha notato Serge Gaubert – è specificamente umana; il tedio venato di risentimento delle classi superiori non si presta invece ad accostamenti con l’animalità perché evoca l’ottusità dell’inanimato. I visages de carton degli aristocratici, privi del lume dell’intelligenza e accesi soltanto del riflesso dell’oro, rappresentano, ai vertici della società, un’umanità non meno disumanizzata di quella delle classi inferiori, abbrutite dal lavoro manuale, dall’alcool, dalla ferrea legge della necessità.

  Il capoverso su cui si chiude [...] il prologo dedicato a Parigi, presenta significativamente la stessa densità metaforica che abbiamo riscontrato nelle frasi iniziali: è come se Balzac volesse racchiudere in una cornice particolarmente ricca, elaborata e immaginosa il suo quadro, fosco e sublime, della moderna città dolente.

  Le metafore che si succedono con vertiginosa rapidità, forniscono immagini contraddittorie, giustapposte senza mediazioni; costringono il lettore, nello spazio di poche righe, ad identificare successivamente Parigi con una reine (...) toujours grosse, con la tête du globe e un cerveau qui rêve de génie, con un artiste incessamment créateur e con un politique à seconde vue. Le rapidissime metamorfosi di questo caleidoscopio metaforico non hanno nulla di casuale: vogliono suggerirci la compresenza, nella realtà della metropoli, di elementi dissonanti e inconciliabili, accomunati da una sorta di turbine che incessantemente li investe e li coinvolge, quello stesso turbine che nella prefazione di Eugénie Grandet Balzac ha defunto un simoun qui enlève les fortunes et brise les coeurs (un simun che porta via i patrimoni e spezza i cuori). Il successivo paragone con la chaudière motrice di un piroscafo procede nella stessa direzione: ci presenta, con una forte accentuazione dinamica, un’inestricabile mescolanza di bruttezza e di splendore, di prosaica sporcizia e di sublime energia. Di questo piroscafo, introdotto per giustificare l’utile bruttezza della chaudière motrice, la metafora che segue – introdotta dallo stemma, raffigurante un veliero, della città di Parigi — sembra in qualche modo una sorta di trasfigurazione nobilitante: siamo di fronte alla capitale della Francia come sublime vaisseau, carico di ricchezze intellettuali, di splendori artistici e d’inesauribile energia, che solca e domina l’oceano delia civiltà mondiale. La lunga ed elaborata metafora del «sublime vascello», in cui le varie classi sociali, paragonate, nella varietà dei loro ruoli, all’equipaggio e ai passeggeri, sembrano trovare ognuna un proprio assetto «naturale» e provvidenziale, chiude su un registro euforico il prologo della Fille aux yeux d’or, la bellezza aggressiva e la debordante vitalità di Parigi relegano nell’ombra di una reticenza discreta quei risvolti tenebrosi e crudeli della grandeur metropolitana, che pure tanto spazio hanno occupato nelle pagine precedenti. Spetterà alla vicenda di de Marsay e Paquita ricordare al lettore che, al di là della trionfante allegoria marinaresca, con la sua enfasi oratoria e la sua parvenza impeccabilmente ordinata, la città terrena fondata sull’oro e sul piacere non conosce altra armonia se non quella, terribile, des innombrables millions d’âmes souffrantes.

 

 

  Ettore Bonora, «Leti discrimina». Goriot e don Gesualdo, in AA.VV., Da Malebolge alla Senna. Studi letterari in onore di Giorgio Santangelo, Palermo, Palumbo, 1993, pp. 57-62.

 

  Se, come e sembrato a più d’uno, i romanzi dell’Ottocento avevano d’obbligo la conclusione a lieto fine di un matrimonio o quella triste di una morte, alla regola, invero non perfettamente dimostrabile con statistiche rigorose, non si sottraggono né Le père GoriotMastro-don Gesualdo. Ed è giusto. Goriot e Gesualdo Motta hanno costruito pezzo su pezzo due grandi fortune; del denaro hanno fatto a lungo lo scopo della loro vita, e dalla smania del potere che ne dà il possesso sono stati dominati come da una passione. La loro fine non può essere lieta.

  A ogni epoca il mito che, in parte almeno, la caratterizza. Si era avuto quello dello stato come opera d’arte nel momento delle prime grandi conquiste della classe borghese moderna; nel momento di maturità che mette in crisi un intero ciclo storico, l’Ottocento ha sacrificato il sacrificabile al mito dell’imprenditoria industriale, bancaria e finanziaria come opera d'arte. Perciò Le père Goriot e Mastro-don Gesualdo sono tra i libri più rappresentativi del secolo, ma, grazie al filtro della poesia, sono libri che denunciano e dimostrano — nel modo in cui un’opera di poesia può dimostrare — il fondo tragico di una società.

  Impuro fin che si vuole, come genere onnivoro, il romanzo; ma proprio per la sua impurezza, mentre illustra valori, ideali, errori, delusioni della società di cui si dà a narrare la storia, anche più del teatro può comprendere il senso drammatico, addirittura l’essenza tragica dei personaggi che mette in scena. Purché gli autori siano, oltre che osservatori e psicologi profondi, dei visionari appassionati, quale era Balzac secondo Baudelaire, e quale, fatti i dovuti aggiustamenti di misura, può dirsi anche Verga. L’uno e l’altro dunque, come osservatori e psicologi, ma sopra tutto come visionari appassionati videro che nei loro personaggi la volontà di costruire fortune dal niente era stata una passione che non poteva non portare alla tragedia, era un errore che attendeva inevitabilmente la propria condanna. Le morti squallide di Goriot e di Gesualdo la delusione amara che chiude le loro esistenze sono l’ultima scena dell’ultimo atto della loro tragedia. Anche se fosse vero che i romanzi, quando non potevano avere la lieta fine di un matrimonio, dovevano avere quella funesta della morte, ci sarebbe dunque da obiettare che le motivazioni del modo in cui finiscono Le père Goriot e Mastro-don Gesualdo vengono da ragioni che non stanno in rapporto con le regole del genere romanzo; sono più profonde e necessarie di qualsiasi norma letteraria. [...].

  Di père Goriot è stato detto e ridetto che è una reincarnazione in età borghese di re Lear: la sua disfatta consiste nell’avere dato tutto per le due figlie, le quali dopo il matrimonio sono state prese dalle ambizioni e dalle invidie tipiche di due parigine salite nell’alta società. Il tempo breve nel quale è contenuta l’azione del romanzo di Balzac non consentirebbe di seguire passo passo la carriera del pastaio, che si era fatta una ricchezza con speculazioni non pulite negli anni della Convenzione e del Direttorio. La sua storia di costruttore di un patrimonio e il concentrarsi dei suoi sentimenti buoni nell’amore per la moglie, che muore giovane, e poi nell’adorazione per le sue due bambine è fatta conoscere riassuntivamente, ma non per questo meno incisivamente. Certo Goriot è stato uno speculatore senza scrupoli, ma nel romanzo vive per l’idolatria verso le due figlie, e a lungo non gli è importato di venire corrisposto dalle sue creature. Perciò è spietatamente giusto il destino che non vuole che a confortarlo nell’ora estrema ci sia una persona del suo stesso sangue. Il posto che Cordelia tiene presso re Lear Balzac lo fa prendere presso Goriot da Rastignac e, in certa misura, da Bianchon, lo studente di medicina che, con Rastignac, cura e assiste il vecchio nella camera della pensione Vauquer.

  Il Père Goriot comincia, si può dire, al quarto atto della tragedia, che l’agonia del vecchio chiude come una potente scena melodrammatica. Dico melodrammatica non in senso negativo, ma nel senso in cui è lecito dire che anche in Re Lear e in altri suoi capolavori Shakespeare ha usato genialmente toni e linguaggio melodrammatici. L’agonia in effetti è un lungo delirio, nel quale Goriot alterna invettive e minacce contro le figlie ingrate a invocazioni ancora colme di tenerezza e di delicata gentilezza rivolte alle due giovani donne per le quali ha distrutto il suo patrimonio e ha rovinato la sua stessa esistenza. Nel suo farneticare arriva a un certo momento a paragonarsi al buon pellicano, e riconosce che, nonostante la loro ingratitudine, che riesce a vedere con lucidità, avrebbe fatto per loro ben più che aprirsi le viscere: se gli avessero chiesto di strapparsi gli occhi se li sarebbe strappati [...].

  Goriot è il protagonista in quanto che intorno ai suoi ultimi mesi di vita s’incentra tutto il romanzo, ma protagonista al modo in cui un narratore epico della forza di Balzac poteva coagulare in un personaggio una storia che coinvolge la Parigi squallida della pensione Vauquer e la Parigi elegante del Faubourg Saint-Germain, e porta in primo piano il galeotto Vautrin e il giovane aristocratico squattrinato Eugène de Rastignac. Per essere l’eroe eponimo però Goriot parla poco e usa quasi esclusivamente le parole tenere che gli fa pronunciare il suo dissennato amore paterno. Se proviamo a immaginarcelo, non possiamo fare a meno di vederlo come lo ritrasse Daumier: lungo, allampanato, seduto su una povera seggiola impagliata, con la schiena incurvata, l’occhio e il volto inebetiti. Quello che dice passerebbe via come acqua senza sapore, se non pronunciasse i suoi discorsi di dedizione e di adorazione per le due figlie, nei quali il linguaggio è quello di un uomo fisso in un’idea, melodrammatico in fondo per l’esagerazione e la declamazione del suo sentimento. L’uomo reso taciturno nella sua vita perché il solo sentimento che lo può fare parlare è l’amore per le sue Anastasia e Delfina, esplode durante l’agonia nel grande delirio dell’esaltazione contraddittoria eppure tenace del suo amore paterno. Balzac che, da grande creatore, non temeva i toni alti e drammatici, aveva addirittura esasperato il fiotto d’eloquenza di Goriot sul letto di morte, e nell’edizione definitiva, del 1843, sentì il bisogno di ridurre e quasi eliminare gli eccessi cui aveva spinto il discorso del moribondo: fece cadere le parentesi con le quali commentava i rantoli e le grida che spezzavano la voce del vecchio [...].

  La lunga storia di don Gesualdo è costantemente accompagnata dalle amarezze che gli procurano tutti indistintamente i suoi famigliari, e che il matrimonio con Bianca Trao non viene affatto ad addolcire, non solo per l’incolmabile distanza che c’è tra lui e la moglie, ma per il dubbio assillante che la figlia nata dal matrimonio non sia sua. Gesualdo comunque non ha tempo per lunghi sfoghi, tanto meno per enfatiche celebrazioni di sentimenti che non conosce. Non agisce soltanto; parla sì, ma le sue parole sono sempre battute di dialogo. Se il tempo per lui è denaro, anche la parola è danaro. Persino nello stupendo idillio con Diodata la sera di luna sull’aia alla Canziria non entra il pur minimo elemento melodrammatico, e la ricostruzione nella memoria della sua vita difficile, della tenacia che non ha mai ceduto, fatta da Gesualdo per mezzo del discorso indiretto libero, ha un’asciuttezza tutta cose, non arida certamente, ma contenuta nel pathos, come si addice a un personaggio tutto vólto all’azione economica. Alla «tenerezza dei ricordi» del dialogo con Diodata fa poi ancora da sottofondo il tema della roba, che, non fosse altro, frena ogni possibile cedimento al melodrammatico.

  Ora a me sembra che la chiusa bellissima del Mastro-don Gesualdo sia stata sorretta nella sua complessa elaborazione appunto dalla lucidità con la quale Verga vide che, coerentemente a tutta la storia del suo uomo, la pur minima concessione al melodrammatico doveva essere rifiutata. Il rifiuto non fu facile, né era obbligatorio in assoluto; anzi, fu atto voluto da un artista ben dotato di spirito critico. Il melodramma infatti non fu solo una delle espressioni più congeniali alla sensibilità romantica, tanto congeniale da durare vittorioso anche quando più decisamente trionfò il realismo; il melodramma nell’Ottocento influenzò ogni espressione artistica, tanto era radicato nella sensibilità del secolo. E lo stesso Balzac sta a dimostrarlo; ma non lui solo. [...].

 

 

  Gabriella Bosco, Brucio d’amore e voglio scriverti, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, N. 861, 3 Luglio 1993, p. I.

 

  Un volume [Paris, Marabout] raccoglie le più belle lettere […].

 

  Honoré de Balzac vince la palma per i teneri appellativi con cui si rivolge per lettera alla contessa polacca che sposerà solo dopo lunghissimo amore a distanza «Mio fiore del cielo», «Tesoro di gioia», «Angelo caro», «Mia eloquente e graziosissima stella», «Mio respiro», «Mille fiori d'amore per te» scrive. Dopo tanta attesa, il matrimonio sarà breve, infelice e fatale per Balzac.

 

 

  Margherita Botto, Du roman noir aux “Contes bruns”: la production balzacienne des années 1830-1832, in AA.VV., Il “Roman noir”. Forme e significato. Antecedenti e posterità, a cura di Barbara Wojciechowska Bianco. Atti del XVIII Convegno della Società Universitaria per gli Studi di Lingua e Letteratura Francese. Lecce, 16-19 maggio 1991, Genève-Moncalieri, Editions Slatkine-C.I.R.V.I., 1993 («Università degli Studi di Lecce. Dipartimento di Lingue e Letterature straniere»), pp. 179-207.

 

  Après le succès des traductions des romans gothiques anglais et des mélodrames, à la fin du XVIIIe siècle, la vogue du roman noir reprend son élan pendant les premières années de la Restauration. La critique a établi depuis longtemps dans quelle mesure le jeune Balzac a participé à ce nouvel essor du roman noir en France, malgré les jugements très sévères que presque tous les balzaciens ont portés, jusqu’à une époque assez récente, non seulement sur ses romans de jeunesse, mais sur toute trace de frénétique ou de mélodrame dans La Comédie humaine. […].

  En revanche, je voudrais m’arrêter ici sur la période qui suit immédiatement celle des romans de jeunesse, entre 1829 et 1834, de La Physiologie du mariage à la veille du Père Goriot. Et à l’intérieur de cette période, qui pour Bardèche [cfr. Balzac romancier, 1967] correspond à «la formation de l’art du roman chez Balzac», isoler les années 1830-1832, qui sont celles de son succès de “conteur”. En effet, au début des années 1830 la production balzacienne semble dominée par le choix d’une forme de récit spécifique, définissable non seulement par des critères extérieurs (ce sont tous des textes brefs, destinés d’abord à des revues ou des recueils collectifs), mais par des traits plus intrinsèques.

  Pour les définir, on a évoqué, à côté de la notion de “texte- laboratoire”, empruntée à Bardèche, celle de “réservoir” de matériaux narratifs destinés à étoffer, par la suite, de longs romans assez hétéroclites (notamment, Autre étude de femme et La Muse du département. Ce qui m’amène à préciser un autre aspect de mon approche. Le corpus qui fait l’objet de cette analyse constitue une sorte de couche diachronique: chaque texte sera donc considéré dans la forme qu’il avait lors de sa publication préoriginale, indépendamment de l’utilisation que Balzac a faite, par la suite, de quelques-uns d’entre eux. L’approche habituelle, éminemment “synchronique”, de La Comédie humaine, a fait presque passer sous silence cette phase de la création balzacienne, dont les résultats sont dispersés dans plusieurs sections, et parfois ont même été exclus de l’édition Furne, comme c’est le cas d’Echantillon de causerie française, qui regroupe les épisodes d’Une Conversation entre onze heures et minuit non utilisés dans d’autres romans. En fait, la plupart des études consacrées aux influences du roman noir sur la production balzacienne se bornent à ses romans de jeunesse ou portent sur l’ensemble de La Comédie humaine, qui […] est fortement marquée par des procédés “mélodramatiques”.

  Les textes qui composent notre corpus renvoient à deux projets de recueils qu’en fait Balzac n’a jamais réalisés. Le premier est celui des Souvenirs soldatesques, datant de 1830, auquel appartiennent Souvenir soldatesque. El Verdugo. Guerre d’Espagne (1809) (“La Mode”, janvier 1830) et Souvenirs soldatesques: Adieu (“La Mode”, mai-juin 1830).

  En 1831 Balzac commence à envisager un autre projet, qui va se préciser avec son apport aux Contes bruns, recueil collectif réalisé en collaboration avec Charles Rabou et Philarète Chasles et publié sans nom d’auteur en février 1832. Entre ces deux projets de recueils on peut situer deux contes qui exploitent, du moins partiellement, les mêmes thèmes et les mêmes procédés narratifs: Le Réquisitionnaire («Revue de Paris», février 1831) et L’Auberge rouge («Revue de Paris», août 1831 ).

  L’apport de Balzac aux Contes bruns est représenté par Une Conversation entre onze heures et minuit (douze petits récits assumés par une série de narrateurs différents dans le cadre d’une conversation de salon) et Le Grand d’Espagne, auxquels on peut ajouter La Grande Bretèche, conçu d’abord pour les Contes Bruns.

  A la frontière chronologique de notre corpus se situent deux romans brefs publiés en 1832 et 1833, qui greffent une “scène de la vie privée” sur un noyau typiquement noir, selon un procède analogue à celui qui avait déjà permis à Balzac d’agencer l’élément fantastique à l’élément réaliste dans La Peau de chagrin: ce sont La Transaction (Le Colonel Chabert), publié dans «L’Artiste» en février-mars 1832 et, ensuite, dans Le Salmigondis, contes de toutes les couleurs, mais destiné d’abord aux Causeries du soir, recueil jamais réalisé; et Les Marana, publié en décembre 1832 et janvier 1833 dans la «Revue de Paris».

  Vers 1832 Balzac conçoit donc un projet qui, au cours du temps, sera indiqué par des titres différents – Causeries du soir, Echantillons de causerie française – à partir du noyau premier d’Une Conversation entre onze heures et minuit (qui, à son tour, a plusieurs traits communs avec les Souvenirs soldatesques).

  Le choix de cc corpus nous a amené à réfléchir sur les critères de définition du roman noir. Les études, d’ailleurs peu nombreuses, consacrées à cette variété du roman, que l’on hésite à appeler “genre”, proposent plusieurs définitions, qui semblent privilégier, chaque fois, tel ou tel trait. […].

  […] nous essaierons d’approcher ses contes des années 1830-32 à l’aide des deux critères de définition […]: la présence d’un chronotope fortement marque par l’histoire; la présence du motif-effet de la peur. Comme le suggèrent, d’ailleurs, deux des nombreuses dénominations du “genre”: roman gothique et roman terrifiant. […].

  Notre hypothèse de travail sera donc que ccs contes sont bâtis sur l’enchâssement de deux chronotopes, celui de l’espace-temps où a lieu l’énonciation, et celui de l’espace-temps où se situe l’histoire racontée. Ainsi, la description de la peur dans le récit second vise essentiellement à susciter la peur chez un auditoire, soit représenté soit évoqué soit présupposé par le texte. […].



  Paola Brancaccio, Anna Crisi, Introduzione, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet ... cit., pp. V-XXVIII.

 

  pp. XXII-XXVIII (Anna Crisi).

 

  Figure e destini.

 

  Nonostante il titolo, l’impressione che il lettore può ricavare dalla lettura è che il reale protagonista del romanzo sia Grandet, il quale soprattutto nella prima parte domina tra le persone che vivono con gli occhi fissi su di lui: la moglie timorosa che dà segni impercettibili intuisce le tempeste; il notaio e il presidente che cercano di indovinare il contenuto della lettera di Guillaume Grandet attraverso i suoi impercettibili movimenti del viso; la gente di Saumur che lo mostra a dito bisbigliando quando chiude in camera sua la figlia. Anche su Eugénie il padre sembra esercitare un’autorità che mostra tutto il suo carattere dispotico quando la giovane comincia ad avvertirlo come tale, in una parola quando inizia ad avere un suo modo di pensare e a contrapporsi a quello del padre. In questa contrapposizione, che solo dopo molte pagine, e pochi mesi, diviene ribellione dichiarata, prendono vita e assumono uguale importanza i due personaggi: Grandet non potrebbe esistere senza sua figlia e i comportamenti di Eugénie hanno un senso solo in rapporto a un simile padre. E la contrapposizione tra Eugénie e suo padre nasce da una loro caratteristica comune: la loro passione maniacale, diversa nelle cause e nell’oggetto, ma simile nelle conseguenze ossessive e devastatrici.

  In Eugénie Grandet, per la prima volta nell’opera di Balzac, due personaggi preda di una passione esclusiva non sono descritti solo come “tipi” dominati da un’idea, ma sono inseriti in una realtà storica precisa, in un ambiente, un milieu, che li ha formati, e che permette anche a loro di cambiare e di trasformarsi, secondo la visione della società a cui Balzac si era ispirato e che aveva fatta propria.

  Grandet, tozzo, rozzo, dai lineamenti impenetrabili, non è solo un avaro che conta il suo denaro e raziona lo zucchero e il pane: è l’uomo che ha iniziato a sua fortuna grazie alla vendita dei beni ecclesiastici, che sa speculare (come Goriot) nei tempi difficili, è l’uomo venuto dal nulla che sta scoprendo le nuove regole del mondo. Proprio per questo è profondamente diverso dall’avaro di Molière: non è la personificazione dell’avarizia, è un avaro che vive nella provincia francese agli inizi del XIX secolo.

  Il Grandet dai modi prudenti, che si aiuta con la pretesa sordità e la finta balbuzie per nascondere le sue vere intenzioni, che parla per modi di dire e che mostra delle emozioni vere solo di fronte al rischio di perdere il suo denaro, è un esempio di totale indifferenza morale. L’unico divertimento degli ultimi anni della sua vita è la possibilità di imbrogliare i Parigini, l’unica passione è il possesso dell’oro. Anche nei confronti della figlia il suo non è amore, è senso di possesso. Eugénie è, all’inizio dell’avventura, uno degli strumenti con cui Grandet vuole dominare gli altri, e quando questo strumento sembra sfuggirgli, più che dolore prova rammarico e rabbia. Alla fine della sua vita la figlia ritorna in parte in suo possesso, egli la abitua a tutte le sue avarizie e riesce a plasmarla, in molte cose, a sua immagine e somiglianza.

  Eugénie è immersa nel gelo e nella ripetitività della sua vita, in cui gli eventi delle giornate e degli anni sono le visite dei pochi ammessi a frequentare la casa e i riti scanditi dal cambiare delle stagioni; le uscite sono per la messa della domenica. Charles è il principe azzurro, forse non consapevolmente atteso, ma di cui è inevitabile innamorarsi, come sarebbe accaduto a qualsiasi altra giovane donna vissuta come lei nel vuoto desolato di una piccola città di provincia. Come molte figlie, in nome dell’amore si contrappone al padre, ma la sua ribellione resta sterile, non può nemmeno tentare di agire positivamente, né prima della morte del padre, a causa della partenza di Charles, né dopo, a causa del suo abbandono.

  Il carattere di Eugénie si trasforma sotto il peso dei sentimenti, delle emozioni e degli eventi. La giovane ingenua e ignorante che, all’arrivo di Charles, gli invidia le mani piccole, l’incarnato, la freschezza e la delicatezza dei tratti, acquista ben presto quella consapevolezza del proprio aspetto che sino a quel momento aveva ignorato. Grazie ad un sentimento che ancora non conosce, inizia a considerare aspetti del mondo a cui fino allora era stata estranea, riflette sul valore del denaro e sull’uso che se ne può fare, prova per il cugino infelice dei sentimenti che inizialmente si configurano come pietà, poi come generosità, poi finalmente come amore. Si tratta di un amore che, appena nato, viene privato del suo oggetto reale; Eugénie non ama Charles ma l’immagine che si è creata di lui, e questa immagine ha un suo simbolo concreto: il nécessaire che ella difende dal padre, minacciando il suicidio. La timida fanciulla delle prime pagine del libro è ormai quasi pronta a dimostrare la gelida aridità necessaria a stabilire le regole del suo contratto matrimoniale con il presidente Cruchot. La durezza che spesso dimostra negli ultimi anni del racconto, e che la fa considerare da Mme des Grassins simile a suo padre, si accorda male con la generosità che Balzac le attribuisce e che fa sì che ella si avvii verso il cielo accompagnata da un corteo di buone azioni. Esistono delle discrepanze nel personaggio, che Balzac vuole considerare nel novero dei personaggi positivi e puri di cuore, e per questo sconfitti nella vita, insieme a sua madre e a Nanon, ma al quale vuole anche attribuire un carattere non solo passivo come quello di sua madre. Eugénie non si limita a subire la sua personale sconfitta, ma cerca, in un qualche confuso modo, di trovare una vendetta nei confronti dell’avarizia del padre e dell’egoismo di Charles. Balzac però non vuole lasciare nemmeno una traccia di speranza di vita alla sua eroina, tanto che cancella la prima ipotesi di finale, che prevedeva un secondo matrimonio di Eugénie e il suo trasferimento a Parigi.

  Questi personaggi sono rappresentati da un autore onnisciente, che li descrive e li fa vivere nella memoria del lettore, grazie ad un piccolo tratto caratteristico che li rende unici o ad una descrizione minuziosa, dettagliata, precisa. Non esiste infatti solo la verruca di Grandet: esistono anche la statura e la bruttezza di Nanon, il colorito giallino e il mento a ciabatta di Mme Grandet la rassomiglianza con le creature del genere tacchino del presidente Cruchot, che già col suo nome ricordava un’oca, ed altri ancora. Di molti personaggi il lettore conosce la statura precisa (Grandet uno e sessantacinque, Nanon un metro e ottantaquattro) e il colore dei capelli (castani sia per Charles che per Eugénie). Di Eugénie sa anche che il vaiolo le aveva lasciato dei segni sul viso.

  Balzac non vuole lasciare nessun dubbio, nessuna ambiguità; i suoi personaggi sono ritratti a tutto tondo e non con pochi cenni rapidi come quelli di Stendhal o di Flaubert, e raramente la sua voce è sostituita da quella di altri personaggi o dalle parole della gente di Saumur, che pure a volte costituisce un coro narrante. Soprattutto però la descrizione è sempre oggettiva; diversi elementi e più punti di vista contribuiscono in alcuni casi a completare il quadro, ma si capisce bene che il pittore, in fondo, è sempre l’autore, che concede pochissima autonomia ai suoi personaggi. [...].

 

 

  Maurizio Brioni, Introduzione, in Honoré de Balzac, Le Député d’Arcis ... cit., pp. 13-16.

 

  Non è ovviamente un caso se [...] la lettura di Balzac produce un effetto di «contemporaneità»: non solo quando si occupa di politica più direttamente, ma anche più in generale, quando descrive situazioni private o che si svolgono in altri ambiti della vita sociale.

  Questo effetto non è solo una conseguenza della grande qualità letteraria o, comunque, di mestiere, della sua opera, anche perché non sempre Balzac scrive dei capolavori. E non è del resto esclusivamente ascrivibile al suo «realismo» nella accezione in particolare di Lukacs. Infatti l’opera di Balzac è stata apprezzata sin dall’inizio, per alcuni soprattutto, per il suo lato «hoffmaniano», tenebroso, fantastico: basti ricordare lo stupore di Théophile Gautier di fronte ai giudizi di naturalismo che venivano dati sulla sua opera, oppure lo splendido libro di E. R. Curtius. [...].

  [...] queste brevi note servono forse a spiegare quell’effetto di «contemporaneità» del romanzo balzachiano, proprio in quanto rappresenta uno degli strumenti conoscitivi più raffinati e potenti, in quanto cerca di cogliere un aspetto della realtà non secondo procedure e protocolli metodologici rigorosamente definiti, ma ricorrendo alla letteratura e cercando di descrivere l’intreccio tra individui e società, tra passioni e interessi, nel momento dell’azione, del loro divenire realtà solo interagendo: «Se sapeste come è difficile fare opere come il Deputato di Arcis, dove manca l’elemento della passione, rendere drammatico e interessante il gioco degli interessi» scriveva Balzac alla Hanska il 21 novembre 1842. [...].

  F. Moretti [...] parla del realismo balzachiano come «simbiosi di penetrazione intellettuale e indifferenza etica. Esso si propone come la cultura di un mondo dove valori e significati sono davvero e sempre relativi, poiché hanno come unico fondamento le relazioni di forza tra le parti». [cfr. La letteratura Europea, in Storia d’Europa, vol. I, 1993]. [...].

 

 

  Giovanni Cacciavillani, Curiosità letterarie. Parigi vista da dentro, «Il Piccolo», Trieste, 15 novembre 1993, p. 9.

 

  Percorsi sulle orme di Balzac, vorace nell’osservare e descrivere.

 

  Su: Lorenzo Caracciolo, Giovanna Sagona, Lo spirito della città nella Parigi di Balzac.

 

  Se «Parigi è una festa per la vita» (Hemingway), per Balzac — autore della sterminata «Commedia umana» — essa è mondo, mondo plurimo, storia e storie, teatro mentale che s’incarna in personaggi e luoghi, odori, colori, suoni, e grandi passioni, evidenti e nascoste insieme. [...].

  «Balzac si muove nel Parigi, città allora alla sua alba di metropoli: camminiamo accanto a lui — scrivono gli autori — guardiamo quel mondo con il suo occhio dagli assommati mestieri e competenze, raccontiamoci e ritroviamo una Parigi dai cento attori e dalle cento scene per spezzare icone consolidate e ricomporre immagini fresche e nuove, per ridare vita e suono alle pietre e luce all’eclisse dello spazio che ci è intorno». [...].

  Non si capirebbe la modernità dell’approccio balzacchiano a Parigi — via Inferno, Purgatorio e Paradiso —, se non si ha ben chiaro il suo modo di procedere nell’arte della descrizione/rappresentazione. Lo sguardo onnisciente del narratore procede dal macroscopico al microscopico, dall’esterno all’interno, dall’inanimato all’animato e all’umano. Importanti sono «le cose», nella loro funzione «segnaletica» e simbolica. «Tout se tient», tutto è in stretta relazione, ci si sposta, attraverso slittamenti progressivi, da una realtà a un'altra, da una dimensione alla sua vicina.

  In tal modo, l’uomo è detronizzato, poiché esso è sempre «presentato» da ciò che non è umano. Ma, in un altro senso, solo Proust saprà recuperare quell’intuizione balzacchiana sulla possente unità fra uomo e ambiente, fra il soggetto e il suo habitat, sicché l’uno è ricostruibile a partire dall’altro, e viceversa Si rammenti la «pension Vauquer» nel «Père Goriot»: l’ambiente è penetrantemente colto attraverso i suoi sentori, attraverso le sue qualità sensoriali elementari: «Odor di pensione», «atmosfere catarrali», «mobilia marcia, corrosa, tremante, invalida spirante», «la miseria senza poesia». Ed è perciò che, entrando in scena la laida signora Vauquer, l’autore può affermare che, come la galera non cammina senza l’aguzzino, così «tutta la sua persona “esplica” la pensione a quel modo che la pensione implica la sua persona».

  Così, aldilà della famosa battuta di Engels che, riferendosi alla storia della società francese, dichiarava di aver appreso da Balzac «più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statistici di professione di questo periodo messi insieme», la Parigi del grande romanziere — dinamica, drammatica, demoniaca — diventa la testimonianza vivente di un modo radicalmente nuovo di concepire la storia.

  Il sentimento acuto della trasformazione — e, pur dentro i cambiamenti, un nucleo d’identità inalterabile —, della dialettica fra spazio e tempo, dell’unità profonda tra spirito e materia, tra umano lavoro e modificazione dei rapporti e delle strutture, la considerazione dell’inscindibilità fra istanza soggettiva e «ambiente», collocano Balzac tra gli «inventori» della modernità, quella modernità che noi abbiamo forse ormai stravolto, ma che resta pur sempre il certificato di nascita della nostra intima storia.

 

 

  Bruno Cagli, Da Carpani a Balzac: un itinerario estetico rossiniano, in AA.VV., Raffaello, Rossini e il bello stile, Urbino, Accademia Raffaello – Pesaro, Fondazione Rossini, Banca popolare pescarese e ravennate, 1993, pp. 15-33.

 

  Ce génie frère de Raphaël, pp. 23-33.

 

  I rapporti tra Rossini e Balzac costituiscono un capitolo affascinante che è rimasto a lungo inesplorato per una serie di equivoci e anche per quegli steccati che, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del nostro, sono perdurati tra mondo della musica e mondo delle lettere. I due si incrociarono all’inizio degli anni ’30, quando entrò nella vita di Rossini Olympe Pélissier, antica fiamma dello scrittore e non solo di Balzac. [...]. Antesignana di una serie di donne fatali che ebbero ai loro piedi intere collezioni di geni (e dunque delle varie Lou Salomé e Alma Mahler) Olympe, prima di approdare con dedizione assoluta alle cure di Rossini (di cui fu infermiera e madre, oltre che amante e moglie), riuscì a mettere insieme un carnet maschile di tutto rispetto. Tra i letterati, oltre a Balzac, vi figura Eugène Sue, tra i pittori Horace Vernet che la immortalò, oltre che in un ritratto, nel volto dell’eroina del famoso Giuditta e Oloferne [...]. Al di là di questo “amoroso intreccio”, l’epistolario di Balzac ha frequenti richiami ad incontri con Rossini e perfino alla possibilità che egli musicasse alcuni suoi versi. Nel novembre del ’33, mentre stava cercando di ottenere un piccolo autografo di Rossini per conto del marito della sua amante, Ève Hanska, lo scrittore dovette coltivare questa speranza, foriera di grandi vantaggi per lui. In una lettera alla Hanska, vergata tra il 20 e il 24 novembre 1833, scrive:


 Au milieu de tous ces tracas j’ai fait les paroles d’une romance pour Rossini. S’il me donne sa composition, je te la réserve:

 

  Rive chérie […]

  Sais-tu ce que cela veut dire?”

 

  Tra la produzione di Rossini non c’è traccia di qualsivoglia utilizzazione di questi versi [...]. Né sappiamo se Rossini avesse, e fino a che punto, incoraggiato Balzac in questa impresa. Il quale non cessò negli anni di ammirare il compositore che onorò, tra l’altro, della dedica di uno dei suoi romanzi, Le Contrat de mariage, pubblicato nel 1842. Non fu questo né l’unico, né il più significativo omaggio che Balzac dedicò a Rossini ne La Comédie humaine dalla quale si evince una ben precisa visione critica della rossiniana e nella quale il Pesarese entra come grande protagonista essendovi in assoluto il musicista più citato.

  Il ventaglio delle citazioni va dai momenti in cui i personaggi parlano del nuovo “astro” della musica, ad altri, assai più frequenti, in cui la musica di Rossini commenta o evoca un particolare atteggiamento amoroso. Nel Bal de Sceaux, ad esempio, essa si collega all’emergere dei teneri sentimenti dell’amore adolescente [...].

  Altrove si precisa meglio il rapporto tra Rossini e il bello ideale del quale, anche per Balzac, Rossini finisce per costituire, con il suo genio e la sua opera, una delle ultime incarnazioni Così ne La Rabouilleuse troviamo Rossini inserito nel seguente curioso elenco:


  Il aimait, lui, le beau idéal en tout; il aimait la poésie de Byron, la peinture de Géricault, la musique de Rossini, les romans de Walter Scott.


  Il richiamo, se si vuole, è ancora generico e la compagnia quanto meno insolita. Ma se passiamo a La Cousine Bette, il confronto Rossini-Raffaello è evocato insieme con un tema che affascinò e turbò Balzac, quello del destino e della sorte del genio in rapporto all’indigenza da un lato, al benessere alla ricchezza dall’altro [...].

  È evidente [...] che Balzac ebbe modo di interrogarsi sul ritiro di Rossini e su quello che a lui dovette sembrare il precoce inaridirsi di una vena creativa che tanto si era espansa nella prima fase della carriera. Nel che entrava un elemento autobiografico persino ossessivo. Per un artista come Balzac, costretto al perenne inseguimento del denaro e ad uno sforzo creativo continuo per far fronte alle necessità, l’immagine di un Rossini ormai ricco e a riposo doveva costituire un confronto lacerante. In Balzac d’altra parte alla necessità di far fronte al quotidiano si aggiungeva il miraggio, sempre inseguito e mai neppure sfiorato, di una «rente viagère» che gli consentisse di condurre una vita agiata in una casa adeguata (che non cessa di disegnare, nella mente e sulla carta). Miraggio che accanto a lui Rossini ostentava, del tutto involontariamente s’intende, di aver pienamente conseguito.

  Da questo sofferto confronto Balzac giunge ad una doppia interpretazione di Rossini e del suo destino. Da un lato egli è il genio nativo, che fiorisce senza sforzo nell’indigenza, dall’altro ci sono in agguato la ricchezza e: il successo per distruggere quel genio. Siamo, con La Cousine Bette, al 1846, e Balzac interpreta quello che sarà il punto chiave della biografia rossiniana, il problema del cosiddetto «silenzio», con l’inaridimento dovuto al denaro e al benessere. Ma forse vi era in lui, come già in Stendhal, la coscienza che i tempi non fossero più adatti al fiorire di quel sublime dell’arte di cui Rossini era stato l’ultima espressione. Il caso Rossini, in ultima analisi, non rappresenta che uno dei tanti aspetti della distruzione della civiltà che si stava perpetuando con l’avvento del regno dei banchieri, dell’industria, della borghesia, distruzione di cui Balzac è il più lucido e consequenziale profeta che la letteratura abbia prodotto.

  Il confronto tra se stesso e Rossini diventa quasi ossessivo negli anni quaranta, [...] sotto il pungolo di una situazione sempre più incalzante [...]

  È assai probabile che Balzac avesse una visione alquanto distorta delle sofferenze del giovane Rossini, certo fornitagli dallo stesso compositore. Sappiamo, infatti come questi, durante il ritiro, amasse colorire il racconto propria giovinezza, accentuandone le difficoltà e invocando l’esigenza di far fronte, come usava dire, alle necessità «dei poveri parenti» per “giustificare” il gran numero delle opere composte e i famosi autoimprestiti. Resta l’interesse per un tema destinato a divenire centrale nelle riflessioni della sociologia della musica a venire.

  Quando pubblicava La Cousine Bette Balzac aveva peraltro già innalzato, nel romanzo Massimilla Doni, il suo monumento alla musica rossiniana come espressione del «bello ideale» e al connubio Raffaello-Rossini. All’origine di questo singolare lavoro vi furono certamente le suggestioni musicali vissute al Théâtre Italien, di cui Balzac era stato frequentatore assiduo. Il 15 dicembre 1834 aveva scritto a Madame Hanska:

 

  Nous avons ici Mosé, la Sémiramide, montés et exécutés comme ces opéras ne le seront jamais, et, chaque fois que l’on donne ou l’un ou l’autre, j’y vais. Ce sont mes seuls plaisirs.

 

  Mosé e Semiramide dunque, la prima nella versione napoletana (Mosé in Egitto) che, ad onta del rifacimento in repertorio all’Opéra, si seguitava a dare aux Italiens. Saranno proprio queste due opere, ascoltate e riascoltate, ad ispirare il futuro romanzo. L’avvio concreto derivò dall’invito dell’editore Maurice Schlesinger a scrivere un racconto sulla musica sulla falsariga di quelli di E. T. Hoffmann. Nell’autunno del 1836 Balzac aveva sottoscritto un preciso impegno in merito con la Revue et Gazette musicale e il racconto aveva già anche il titolo, Gambara. Scopo di Schlesinger non era solo quello di fornire ai lettori della sua rivista alcuni pezzi di narrativa, ma di contribuire ad innalzare l’immagine di uno dei suoi compositori, Meyerbeer. I ritardi dello scrittore, varie vicissitudini editoriali e perfino un incendio, complicarono la vicenda creativa di Gambara. Ma non furono solo eventi esterni a mutare profondamente il piano prestabilito. Suggestioni ed impulsi determinanti vennero allo scrittore nel corso del viaggio in Italia del 1837 quando, a Firenze, egli ammirò profondamente il ritratto raffaellesco di Maddalena Doni (da lui chiamata erroneamente Margherita). Dell’impressione che ricevette dal quadro informò ancora la Hanska in una lettera vergata tra il 10 e il 13 aprile [...].

  Poco dopo, passando per Bologna, Balzac andò a far visita a Rossini e alla Pélissier e, rientrato in Francia, ne dava notizia in un’ampia lettera indirizzata all’editore Maurice Schlesinger, ma destinata in realtà ai lettori della Revue et Gazette musicale. In essa, riferendosi alla sua tappa a Bologna, faceva un primo scherzoso accostamento tra Rossini e Raffaello [...].

  Che il volto dell’antica amante, Olympe, gli rievocasse tratti raffaelleschi può essere nulla più che uno scherzo, ma non sembra scherzo questo insistere nel collocare Rossini in aura raffaellesca [...].

  Balzac non manca di svelare il reale influsso che avevano avuto su di lui le letture di Hoffmann che stesso Schlesinger gli aveva consigliato [...].

  Fatto sta che proprio nei frenetici giorni seguenti al suo ritorno dall’Italia, Balzac, rinviata Gambara, aveva concluso la prima stesura di un nuovo racconto. Cosicché dal vecchio progetto e dal nuovo si svilupparono di fatto due diversi romanzi: Massimilla Doni, la cui prima stesura nel mese di maggio era stata già ultimata e consegnata, e Gambara ripreso subito dopo e pubblicato dalla Revue tra luglio e agosto Ma il nuovo romanzo era ben lontano dall’aver trovato la sua veste definitiva. Il suo completamento sarebbe infatti avvenuto soltanto ne 1839, quando, nel mese di agosto, la France Musicale ne pubblicava un primo ampio frammento intitolato Une représentation du Mosé de Rossini, à Venise. L’opera intera usciva il mese dopo accoppiata con Une fille d’Eve. Soltanto nel giugno 1840 il romanzo appariva finalmente, in una nuova edizione, unito a Gambara del quale costituisce un vero e proprio gemello e con la cui genesi si era così profondamente intrecciato.

  Romanzo, è il caso di dire, di amore e musica, di amore e ideale, di musica e ideale, Massimilla Doni si rifà a Raffaello già nel titolo, ispirato al ritratto che tanto aveva colpito Balzac nella sua visita a Pitti. Rende poi omaggio a Rossini, in primo luogo con l’analisi del Mosé in Egitto che la protagonista fa, ad uso degli ospiti del suo palco, nel corso di una rappresentazione alla Fenice. Ma siamo soltanto al primo livello. Un omaggio a Raffaello e a Rossini vi è anche nell’ambientazione, quella di Venezia, la cui cornice fornisce un surplus di idealizzazione, e nella vicenda. Questa è centrata sul patrizio veneziano Emilio Memmi, il quale ama Massimilla Doni, duchessa Cattaneo, ma viene preso nella rete della cantante Clara Tinti che si esibisce alla Fenice. Si può rilevare subito che, mentre il riferimento di Massimilla è la bellezza astratta del personaggio di Raffaello, nel nome di Clara Tinti, si può cogliere un’allusione a Laure Cinti, la grande cantante che, all’Opéra di Parigi, era stata interprete favorita delle opere di Rossini e aveva creato, tra l’altro, i ruoli della Comtesse nel Comte Ory e di Mathilde nel Guillaume Tell. In senso più lato si può dire che le due donne nel romanzo incarnino i due tipi opposti dell’amor sacro e dell’amor profano, tra i quali Emilio non riesce a scegliere. Da un lato infatti è desideroso, ma incapace di realizzare fisicamente il suo amore per Massimilla, dall’altro tenta invano di resistere alle arti seduttrici della Tinti, con la quale finisce, trovandosela in casa a propria insaputa, per trascorrere una fiammeggiante notte d’amore. Un inganno, degno del più puro mélo, scioglierà la vicenda quando finalmente Emilio riuscirà a possedere anche Massimilla travestitasi con gli abiti della sua rivale.

  Fin qui l’intreccio amoroso, ma alla coppia delle due donne Balzac ne associa, in parallelo, una di appassionati di musica. Si tratta del Marchese Capraja e del Duca Cattaneo. Il primo è amante delle «roulades», del bel canto, astratto, tecnicamente perfetto. Il secondo ama «l’accordo» e dunque si compiace delle trovate dell’armonia, del contrappunto, della musica drammaticamente coinvolgente. Tra i due mondi, così come nei due amori di Emilio, non sembrano possibili conciliazioni. È agevole vedere in questi personaggi il tentativo di rifarsi alle polemiche tra i difensori delle due scuole, italiana e tedesca. Il vecchio dualismo melodia-armonia che tanto agitava la critica di quegli anni, viene però differenziato ed aggiornato da Balzac, che contrappone piuttosto il bel canto all’armonia, la musica pura a quella drammatica. Dunque non la melodia italiana è l’espressione del bello ideale alla Raffaello, ma piuttosto il suono della voce umana con i suoi mirabolanti, e tuttavia purissimi artifici. La sostituzione è sagace e pregnante nel momento stesso in cui Balzac desiderava col romanzo rendere omaggio a Rossini, al quale certo non si conveniva tanto l’etichetta di melodista, bensì quella di artefice delle più audaci moderne creazioni nel campo belcantistico. Ma non solo di quelle.

  La prima stesura del romanzo ci illumina sulle scelte operate da Balzac e sul cammino da lui percorso per giungere ad una completa definizione del suo piano. Nella sua idea primitiva l’opera di Rossini da collocare al centro del romanzo era stata Semiramide, quella che più di ogni altra poteva simboleggiare il bel canto, l’opera restauratrice (nel senso più alto del termine) della tradizione e che dunque della tradizione costituiva la celebrazione massima e il punto massimo di sviluppo. E tuttavia nella stesura definitiva Balzac sostituì Semiramide con l’altra opera di Rossini che tanto aveva amato nelle sue serate trascorse al Théâtre Italien, Mosé in Egitto. La ragione è presto detta: Balzac, proprio per il suo culto per la classicità e per il bello ideale, avvertiva pienamente la rivoluzione che si stava creando nel teatro musicale a favore del «dramma» venuto in auge col romanticismo. Il conflitto tra Capraja e Cattaneo altro non era in definitiva che il conflitto tra un modo di concepire il teatro musicale e un altro. Scegliendo Semiramide e facendola commentare nei suoi singoli numeri nel corso di una rappresentazione Balzac avrebbe avuto, per così dire sotto mano, soltanto uno dei due modi di concepire il teatro. Il Mosé in Egitto, rappresentava invece uno dei compromessi di Rossini tra i due mondi. Da un lato l’opera conserva in tanti passi il suo versante belcantistico astratto, dall’altra, e con pagine possenti, si apre al dramma musicale più coinvolgente e profondo. In parole povere ce n’era sia per Capraja che per Cattaneo! La scelta peraltro è anche più sottile. Balzac scriveva il canto d’addio alla bellezza ideale e il finale del romanzo lo intonerà in modo scanzonato. Ma anche Rossini si era reso conto della via intrapresa dalla musica e dall’arte in generale e il suo Mosé aveva vissuto in pieno, prima e forse anche più profondamente del Tell, la frattura col vecchio mondo. Senza contare la chance in più che offriva l’opera biblica per calarla nella realtà dell’Italia che si ribellava allo straniero, elemento ulteriore abilmente sfruttato nella narrazione. Balzac finì dunque per adottare il Mosé, ma nella versione italiana, tanto più essenziale e lineare di quella francese che si rappresentava trionfalmente nel palcoscenico maggiore parigino e che era troppo tributaria del gusto e dei precetti del grand-opéra.

  Resta da accennare a come Balzac abbia conseguito lo scopo di creare con Massimilla Doni il pendant letterario dell’opera musicale e di realizzare in sede letteraria una celebrazione anche delle arti figurative. L’analisi critica del Mosé svolta durante la rappresentazione, infatti, non è, come abbiamo accennato, che il registro primario e probabilmente anche quello meno riuscito del lavoro, anche se serve a sottolineare il confronto tra le vicende del popolo ebreo e quello italiano dell’epoca. In seconda, e più profonda istanza, si potrà agevolmente notare che il raddoppio dell’intreccio e il ricorso ai «coups de théâtre» si ispirino direttamente al gusto del melodramma, facendo del romanzo un vero e proprio “libretto in prosa”. I travestimenti poi ci riportano ad ogni passo all’opera italiana ed è ancora tutta da studiare la lingua utilizzata e la struttura interna della narrazione, in cui sarebbe agevole identificare vere e proprie cavatine e veri e propri assoli di bravura di personaggi in posa o comunque usciti dall’immaginario esaltato nell’opera in musica. Inoltre, se il nome e il volto idealizzato della protagonista ci riportano a Raffaello, più in generale tutta la narrazione è immersa in un’atmosfera densa di suggestioni dell’arte figurativa italiana rinascimentale e della pittura veneziana. Ma su tutte le arti domina incontrastata la musica, la cui superiorità viene codificata attribuendone il merito allo stesso Raffaello! [...].

  Così, a suo modo, Balzac faceva proprio un assunto romantico già presente in Hoffmann.

  Romanzo dedicato ad un’opera seria, Massimilla Doni si conclude su un registro dimesso, quasi da opera buffa alla quale ci riporta l’inganno a cui deve ricorrere Massimilla per farsi finalmente amare fisicamente da Emilio (in verità non senza sottili allusioni alle ambiguità erotiche contenute nei travestimenti di cui era piena l’opera, la seria più ancora della buffa). Ma non è tanto questo che segna la discesa dall’ideale alla realtà concreta. [...].

  Per Stendhal, Goethe, Balzac, come per Carpani, Rossini aveva rappresentato l’ultima stagione della classicità e l’ultimo «génie frère de Raphael». A questo aveva voluto rendere omaggio Balzac con un’opera certamente anomala. «Raphael seul a réuni la Forme et l’Idée» esclama un personaggio di Massimilla. Rossini aveva fatto altrettanto nella musica. Balzac aveva tentato a sua volta di far proprio l’assunto costruendo non un romanzo ispirato ad un melodramma, come i lettori superficiali possono essere indotti a ripetere, ma un romanzo modellato su un melodramma. Che è altra e più ambiziosa sfida. Ma come Stendhal conosceva e temeva quello che sarebbe accaduto al calar del sipario sull’opera buffa, così Balzac non ignorava che il più romantico dei generi letterari e la più romantica delle vicende non potevano reggere l’assunto della perfetta fusione tra forma ed idea. [...]. Per questo Massimilla Doni vive e si svolge nella dimensione di un sogno, il cui risveglio o «dénouement» sarebbe stato, come è detto nelle ultime righe, «horriblement bourgeois». [...].

 

 

  Italo Calvino, Visibilità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993 («Oscar. Opere di Italo Calvino»), pp. 91-110.

 

  Cfr. 1988.

 

 

  Franco Cardini, La Loira contro Robespierre, «Avvenire», Milano, 16 febbraio 1993, p. 19.

 

  Ma v’è chi si ostina a scorgere nel 1789 l’avvio di un’epoca nuova e felice, nonostante quel che si sa ormai bene esser allora accaduto. Allora, è giocoforza che questi qualcuno accettino di celebrare anche il 1798; e il bicentenario di questa nuova scadenza è ormai giunto. Non sembri provocatorio ricordare allora che cosa accadde due secoli fa, a partire dal marzo del ʼ93, un po’ dappertutto in Francia ma in modo speciale nelle regioni del centro e dell’ovest, nell’area tra Vandea e Bretagna. E chi ama gridare alla provocazione non se la prenda con noi: [...] se la prenda con Balzac, che nel romanzo Les chouans dipinse a possenti colori l’epopea della resistenza dei contadini cattolici contro le «colonne infernali» repubblicane, [...].

 

 

  Lorenzo Caracciolo, Giovanna Sagona, Lo spirito della città nella Parigi di Balzac. 54 illustrazioni, Palermo, Sellerio editore, 1993 («La pietra vissuta», 9), pp. 339.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Lorenzo Caracciolo, Lo spirito dell’epoca, pp. 11-16;

  Giovanna Sagona, Strade piazze palazzi case nella Parigi di Balzac, pp. 17-45;

  L’île de la Cité e la Ville, pp. 47-68; estratti desunti da: L’envers de l’histoire contemporaine; Splendeurs et misères des courtisanes; Une double famille; César Birotteau; La maison du chat-qui pelote, pp. 53-68;

  Il Marais, pp. 69-100; estratti da: Honorine; Le cousin Pons; Une double famille; Les employés; Un début dans la vie; Ferragus; Les comédiens sans le savoir; Illusions perdues, pp. 77-100;

  Il centro, pp. 101-132; estratti da: La cousine Bette; Splendeurs et misères des courtisanes; Ferragus; Gambara; Illusions perdues; Un homme d’affaires; César Birotteau; Les employés; La femme auteur; Le cousin Pons; Gobseck, pp. 109-132;

  L’Université, pp. 133-160; estratti da: La peau de chagrin; La rabouilleuse; L’interdiction; Les petits bourgeois; Une fille d’Eve; Illusions perdues; Gobseck, pp. 141-159;

  Il Faubourg Saint-Germain, pp. 161-182; estratti da: Mémoires de deux jeunes mariées; Illusions perdues; La cousine Bette; La peau de chagrin; La maison Nucingen, pp. 169-181;

  La riva sinistra, tra città e campagna, pp. 183-214; estratti da: Illusions perdues; Z. Marcas; La duchesse de Langeais; Les petits bourgeois; Valentine et Valentin; Entre savants; La cousine Bette; César Birotteau; La maison Nucingen; La maison du chat-qui-pelote; Les employés; Le père Goriot, pp. 189-214;

  La Chaussée d’Antin e dintorni, pp. 215-244; estratti da: La fausse maîtresse; La fille aux yeux d’or; La cousine Bette; Une double famille; La rabouilleuse; Gobseck; Le père Goriot; César Birotteau; Une fille d’Eve; La peau de chagrin; La maison Nucingen; Melmoth réconcilié; Un prince de la Bohème; Splendeurs et misères des courtisanes; Les comédiens sans le savoir; Pierre Grassou, pp. 223-244;

  Il Faubourg Saint-Honoré, pp. 245-265; estratti da: L’interdiction; La maison du chat-qui-pelote; Les secrets de la princesse de Cadignan; Béatrix; La cousine Bette; La peau de chagrin; La bourse; L’envers de l’histoire contemporaine, pp. 251-265;

  I confini e gli spazi senza luogo, pp. 267-287; estratti da: Un épisode sous la Terreur; Honorine; Le colonel Chabert; L’envers de l’histoire contemporaine; Les employés; La fille aux yeux d’or; La peau de chagrin; La vendetta, pp. 273-287;

  Elenco delle strade, pp. 289-298;

  Cronologia, pp. 299-300;

  Bibliografia, pp. 301-303;

  Lorenzo Caracciolo, Tre mondi e un autore, pp. 305-320;

  Sergej M. Ejsenštein, La soluzione registica, pp. 321-335.

  Pianta di Parigi 1841.

 

  Giovanna Sagona, Strade piazze palazzi case nella Parigi di Balzac.

 

  La Comédie Humaine [il corsivo è nostro] è l’affanno di uno scrittore con più conti da pagare che quattrini in cassa, è il rovello delle idee che consuma le notti nella stesura delle ventisette bozze di «Pierrette», è l’eco della cronaca degli scandali del tempo, è l’invenzione che germoglia dalla suggestione di un nome visto al volo su un’insegna, è la «dozzina» d’oro dettagliatamente composta che Eugénie Grandet offre al cugino Charles, è la temeraria diagnosi di misteriose malattie orecchiata dai trattati di Broussais e Dupuytren, è la fantastica elencazione di numeri e voci, copiata parola per parola, che in due pagine lievita il prezzo di una cambiale da mille a duemila franchi, è la parure di gioielli da lutto di madame Rabourdin ai ricevimenti ministeriali, è la vita privata e sociale dei personaggi del Faubourg ricostruita attraverso pettegolezzi e confidenze di comuni amici, è la redingote ed il panciotto di Angoulême subito sacrificati da Lucien de Rubempré ad un abito e pantaloni dei sarti del Palais Royal, è il circolo dei sentimenti e delle ambizioni che conclude le nozze tra Eugène de Rastignac e la figlia della vecchia amante, è lo spasimo per l’avverarsi dei desideri che uccide Raphaël de Valentin, è l’odore della bottega di Cesare Birotteau e le traversie del vecchio Caron, è il ventaglio di Watteau dissepolto in rue de Lappe dall’occhio sagace di Pons, è l’amicizia di Eugène Delacroix sacrificata al metterne in romanzo i guai di famiglia, è il giornalismo, la politica e il teatro intrecciati nei calcoli dei salotti e dei viveurs, è l’umidità delle strade, è l’inclinazione del cappello, è la luce di uno sguardo, è la piega di una palpebra, è il mogano di un mobile, è la mussola di una gonna, è l’intonaco di una casa, è il bianco di una mano, è l’impertinenza di un sorriso, è la naturalezza di un gesto e l’astuzia di un comportamento, è la malizia di un dialogo e l’innocenza di una frase, è il calare della sera sulla campagna e della notte sulla città, è il fumo e le sedie di paglia delle sale da gioco, è il cuore di tigre di Elia Magus e l’arrendevolezza di pecora di Schmucke, è la trasfigurazione di piazza della Borsa sotto la luce della luna, è la profondità di un arco del tempo descritto dalle figure dei personaggi, dall’immagine delle cose, dall’intreccio delle vicende. [...].

  Le pagine della Comédie Humaine che raccontano Parigi e le sue case, dove vivono e agiscono i protagonisti, comparse e comprimari delle avventure, sono state strappate al corpo dell’opera e raccolte qui di seguito, ricomposte in uno dei tanti possibili collages.

  Disegni e progetti, sonni e veglie, re e ministri, fame e sazietà, marmo e tufo, principi e borghesi, bronzo e gesso, tuguri e palazzi, statistiche e conteggi, tiranni e martiri, cielo e terra, acqua, ferro e fuoco hanno composto il quadro della città, che poi, via via, a poco a poco trascolorando nell’esperienza del quotidiano, lascia dietro di sé tinte e mezzi toni, combinazioni e strati, tempo e spazio, storia e misura, e sfiorisce in un incerto geometrico profilo che usiamo dimenticandoci di conoscere. [...].

  Spaesati, inconsapevoli di quel che si è diviso, seguiamo mappe sfuggenti, e ciascuno replica, per l’analogia dei segni che li tracciano, i sommari itinerari degli altri, ognuno lontano dalla curiosità, dal guardare e dal vedere.

  Non sono, invece, «occhi che non vedono» [Le Corbusier] quelli del personaggio di Balzac che si muove nella folla dei boulevards di Parigi, città allora alla sua alba di metropoli. Egli, che ancora tra mille volti ha un volto, che possiede un’identità, andando per le strade e per le case interroga e ascolta l’aspetto di uomini ed oggetti con le cui storie intreccia la sua, riconosce voci e battiti della città, apprende cosa infine sia la secolare costruzione che gli è campo di battaglia e asilo.

  Camminiamo accanto a lui, guardiamo quel mondo con il suo occhio dagli assommati mestieri e competenze, raccontiamoci e ritroviamo una Parigi dai cento attori e dalle cento scene per spezzare icone consolidate e ricomporre immagini fresche e nuove, per ridare vita e suono alle pietre e luce all’eclisse dello spazio che ci è intorno.

  Il racconto di Parigi, il romanzo della città dentro il grande romanzo della Comédie è il profumo che può guidare al miele della scoperta, attrarre i distratti all’attenzione, risvegliare gli sguardi, ibridare gli schemi precostituiti con l’originalità delle dissimilitudini nate dalla fantasia del romanziere, alimentare la coscienza della natura naturale e della natura artificiale che ci circondano.

  Per misurare la possibilità di riuscita del progetto di adescamento alla città e all’architettura attraverso il fascino della letteratura, addentriamoci appena un poco nelle intenzioni e nella volontà manifestate dallo scrittore. Un desiderio che Balzac esprime senza reticenze è quello di diventare uno scrittore popolare. Egli nella prefazione alla Comédie, si preoccupa di «come fare per rendere interessante il dramma con tre o quattromila personaggi che la società presenta? Come fare per piacere allo stesso modo al poeta, al filosofo e alle masse che vogliono la poesia e la filosofia in immagini incisive?».

  Con buona probabilità l’aspirazione ha causa prossima nella speranza del fiume d’oro che inonda gli autori di successo e motivazione nella volontà di essere il Napoleone delle lettere che inchiodò Balzac alla macina del lavoro, giorno dopo giorno, per più di vent’anni, in una fatica disumana; ma, oltre il personale e il contingente, l’artista intuisce e dà voce ad un nuovo bisogno di massa che cresce e si afferma, il bisogno di conoscere il mondo attraverso la carta stampata. [...].

  Il mondo di Balzac [...] pullula di scrittori, poeti, giornalisti, libri e lettori. Nel tempo un’analisi comparata delle pagine dei «Contes melancoliques» – il libro dei debiti – e dei borderò degli editori e stampatori ci dirà come sia poi andata la consta del pubblico a 180 gradi che l’autore voleva attirare. Oggi, a noi lettori e spettatori tartassati e smaliziati sembra che la fatica dello scrittore sia approdata a buon fine, che i suoi romanzi, così come egli voleva, siano romanzi popolari, godibili cioè per tanti generi e tipi di persone, da ciascuno al proprio livello. Lo strumento usato per raggiungere l’obiettivo, per fissare nella mente del lettore un’idea, è la parola, forza evocativa e rappresentativa, che costruisce pensieri, che costruisce immagini.

  «Niente è trasmissibile se non il pensiero» conclude alla fine del suo tanto lavorare Le Corbusier. «Lo stile nasce dalle idee e non dalle parole» proclama Balzac.

  Tra le affermazioni dei due grandi cittadini di Parigi passa più di un secolo ed il solco di due diversi mestieri: pure è perfetta la sintonia tra i modi dell’uno e dell’altro di intendere il rapporto tra lavoro intellettuale e prodotto che ne risulta.

  Le parole, strumento della trasmissione delle idee, forme del pensiero trasmesso, sono, tra i mezzi espressivi della creatività, quello che più ha, per il fruitore, il sapore del pane, la familiarità dell’uso quotidiano.

  Contigue alle esperienze di tutti, le parole che delineano una storia, un’avventura, un «romanzo», attraverso le furbizie degli intrecci, lo choc delle passioni, l’esotismo dei personaggi, la presenza di memorie o fatti che evocano a chi legge la vita sua, come è o come vorrebbe che fosse, le parole, con la silenziosa, ingannevole innocenza degli agenti infettivi, veicolano una consapevolezza meno superficiale delle cose, come esse sono o sono state, addensano ombre di perplessità nell’inquieto assopimento in cui, così, naturalmente, si vive.

  Quelle parole, materia semplice per la creazione del meraviglioso e dei sogni, sono anche la leva operosa che ricompone quadri, che regala romanzi visivi, di dura e meditata presenza delle cose, poiché l’autore ogni istante penso che «il romanzo – che deve essere il mondo migliore – «non sarebbe niente se, in questa augusta menzogna, non fosse vero nei dettagli».

  A noi, che tentiamo un uso decontestualizzato dei testi assemblandoli in un ordine nuovo, interessa la «verità» dei dettagli, il parlare che recapitola e descrive la radice degli uomini, del mondo e degli oggetti – un guardare, una tazza, una finestra – e può alla fine, scorrendo l’interesse per più particolari alvei, infervorare di timide attenzioni verso lo spirito della città.

  I dettagli veri sono lo stimolo che risparmia al pensiero le generalizzazioni a priori; sono elementi e strumenti che rendono comprensibili e riconoscibili i modi, le contraddizioni e le stratificazioni dell’essere della città e del suo sviluppo; sono la riflessione sullo spazio e sul tempo della struttura urbana che scende senza pregiudizi nelle profondità della vita e nella dinamica della storia.

  Cesare Pavese, lettore ispirato di Balzac, ne definiva le sentenze, osservazioni, tirate e motti, - che è in parte dire la verità nei dettagli, i dettagli veri – «sospetti e trucchi da giudice istruttore, pugni sul mistero che perdio si deve chiarire». Completando l’immagine del solutore di misteri con quella del suo doppio complementare, il facitore di misteri, i dettagli veri della Comédie appaiono come gli indizi disseminati lungo la trama della vicenda, il tracciato della mappa, dall’ideatore di una caccia al tesoro.

  Ma la scrittura che si fa descrizione più che alla scoperta dell’assoluto, principio unificante della storia, della materia e delle cose, enigma aperto solo all’ossessione della ricerca e mai alla soluzione, conduce alla ricchezza del relativo balzacchiano: che è ciò che, riduttivamente, questo testo tratta.

  Balzac, nel prologo della Ricerca dell’assoluto, introducendo la scena della tormentata storia di Balthazar Claës, limpidamente spiega cosa intenda per dettaglio e quale sia il suo valore. Egli, considera che «un mosaico rivela un’intera società, come uno scheletro d’ittiosauro presuppone un’intera creazione».

  Gli scheletri d’ittiosauro, i mosaici. il relativo, i sospetti e trucchi, i dettagli veri, le verità nei dettagli le cose – case, architetture, città – «la materiale rappresentazione che le persone danno del loro pensiero», arieti contro il muro d’ombra, emergono dallo schema della Comédie come immagini vive ed originali della realtà.

  La realtà di Parigi – la realtà letteraria, beninteso – che Balzac definisce, conversando con Vidocq (altro grande indagatore dell’epoca) simile alla vera realtà tanto quanto una pesca coltivata è simile ad una pesca selvaggia mai sfiorata dalla mano dell’uomo, trova posto in circa metà dei più che cento titoli della Comédie.

  Le strade, le case, i quartieri, la città tutta intera affiorano dal subbuglio fertile delle idee ed esperienze balzacchiane, ed ogni cosa ha una propria autonomia di rappresentazione, è degna di un primo piano, è distante anni luce dall’illeggibile astrazione di fotografie ingrandite a dismisura.

  L’esercizio di una infaticabile capacità dell’autore di spendersi nel proprio lavoro, come di un contadino che replica con pazienza ed ostinazione le cure necessarie perché il frutto della propria terra maturi, ha ideato per noi un universo di cose descritte, realtà in sé, ninnoli, mobili, strade, dipinti, tappezzerie, capaci di evocare e riassumere molteplicità di mondi, di piani ed ambiti altro da sé.

  L’ossidiana della parola, scavando oltre l’accadere dei fenomeni, raggiunge infine il nocciolo da cui germoglia la riflessione sui nessi profondi ed essenziali che regolano il divenire.

  Contagiati dall’inquietudine del frammento, prima o poi, un giorno, torneremo curiosi a vedere e a chiederci ragione e fare i conti con i dati sparsi accumulati sul nostro cammino dall’esperienza quotidiana e dalle tracce della storia.

  Viaggiare per Parigi, per una città, con la voce fuori campo di Balzac che la racconta è però scoperta anche per chi guarda con l’attenzione del mestiere agli spazi di vita dell’uomo.

  La luce del racconto proietta le scene in movimento del cinematografo ante litteram ideato dal nostro e ascendente immediato del vero cinematografo: e, finalmente, quello che vediamo torna ad essere più forte di quello che sappiamo, il presente attuale più forte della storia tramandata e sedimentata. Finalmente capiamo cosa significa ciò che scrittori frivoli e seri vanno oggi affermando, che la storia vera è scritta in forme non destinate alla storia, riflessione offerta, a proposito della Comédie, già da Engels, pochi decenni dopo la morte dell’autore. Egli infatti notava che «[intorno ad un quadro centrale, Balzac] raggruppa una storia completa della società francese dalla quale io, perfino nelle particolarità economiche (ad esempio la ridistribuzione delle proprietà reali e personali dopo la Rivoluzione francese) ho imparato più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statistici di professione di questo periodo messi insieme».

  Le cento e più immagini della città di Parigi, i luoghi della vita privata dei personaggi, che Balzac tramanda come presente attuale della formidabile prima metà del XIX secolo, origine prossima della nostra storia, immagini figlie della tensione e dell’attenzione, sono il lievito che fa crescere la pasta di ciò che già sappiamo; che, nella specializzazione, fermentano l’ampliamento della coscienza fino a raggiungere una fittizia interdisciplinarietà. [...].

  Fissiamo nel 1819 la data in cui si inizia il fecondo matrimonio tra Balzac e la città. Da quest’anno, infatti, egli vive solo, in una mansarda di rue Lesdiguières all’Arsenale, per fare proprio il mestiere dello scrittore.

  Seguiamo questo matrimonio per i trent’anni per cui dura il vivere insieme, descrivendo la sposa come appare alle nozze e come la conosciamo quando Balzac la riconsegna dopo tanto lunga ed inquisitoria convivenza.

  La città che segue il Congresso di Vienna, quanto a consistenza delle strutture fisiche, non differisce molto dalla Parigi della Monarchia Assoluta della fine del XVIII secolo. [...].

  La citta costruita da Balzac nelle pagine della Comédie presuppone e contiene la Parigi nota dalla storia [...].

  Quanto Balzac dice degli spazi dove vivono i marginali o gli esiliati in patria di Parigi non richiede commenti: sulla deprivazione di un qualcosa che scompare muovendo dal nucleo essenziale verso l’effimero vapore che gli si forma intorno, parla chiaro e forte la sofferenza dei personaggi emarginati, ciascuno per motivi suoi propri, dalla città.

  Ancora, la nettezza delle parti, individuate a partire dalla trama degli storici accadimenti e dei progetti e dei decreti che hanno messo mano nella fattura dei fatti architettonici capitali di Parigi, andando ad osservare le sintesi dei dettagli appare problematicamente sfumata al contorno ed all’interno.

  L’unigenita prima Parigi dallo spirito trinitario (trascuriamo l’archeologia e tutto ciò che precede il XII secolo) perde, nelle pagine balzacchiane, una delle sue parti: scompare infatti l’île de la Cité, entità geografica e morfologica pur inequivocabile, che, tuttavia, patisce presistenze monumentali troppo onerose.

  Le meraviglie del mondo di San Luigi, di Abelardo ed Eloisa, ridestate al fulgore medievale dall’allucinazione del suicida Lucien de Rubempré, il miracolo del fulmineo fiorire del gotico di Notre-Dame, sono per il romanziere così tanto storia di Francia e così poco vita di Parigi, così tanto mistero della trascendenza e così poco espressione dell’immanenza che, dense nel luogo, cancellano la possibilità di renderne l’immagine attraverso gli interni domestici.

  Le due uniche descrizioni di cui disponiamo parlano degli spazi o in riferimento ad altri luoghi, già detti, ovvero richiamando altri tempi che non quelli della storia nascente del luogo, a mala pena sfiorata. Così oggi, guardando all’assedio vittorioso portato alla più antica Parigi da uffici, amministrazioni e servizi e promosso da tutte le iniziative intrapresesi dalla metà del XIX secolo in poi, il riserbo di cui Balzac avvolge i modi dell’abitare nell’île de la Cité si vena di profezia.

  Di ciò che rimane del cuore antico, il nucleo sulla riva destra sfuma i suoi confini, lascia spazio al commercio ad Ovest, alle residenze ad Est; si allunga verso Nord e diviene, quasi più che in origine, per distillazione, il luogo del lavoro, compiuto, in compimento, da compiere. Costante dell’esistenza umana, il lavoro assume le forme delle pietre e dei mattoni, delle strade e delle case e copre tutto intero l’arco che va dall’artigianale, raffinata produzione per lo scambio delle ricamatrici del- l’Hôtel de Ville alla vera e propria industria domestica della rue Greneta, di acre e dickensiana suggestione.

  Sempre uguale nei suoi limiti, tanto mantenuti nel tempo quanto trascurati nella funzione, rimane l’Université, sulla riva sinistra. Ma, dalla definita culla in cui Robert de Sorbon aveva posto l’infanzia della scuola, il popolo degli studi si è proiettato verso l’esterno; e, viceversa, nate con il caotico crescere della città attorno all’Université, nuove forze e nuove esigenze sono penetrate attraverso la membrana resistente della funzione in origine principale ed hanno contaminato il nucleo: poiché questo è tra i luoghi ove più numerose si contano le discrepanze e le opposizioni tra strutture fisiche degli edifici, loro stato d’uso e oggetti che compongono gli spazi di vita.

  Il Marais, invece, non perde niente in estensione: il quartiere, luogo quasi esclusivo dell’azione del Cugino Pons, acquista anzi qualcosa, annettendosi ai margini — tardivo, parziale risarcimento o memoria degli anni felici – le attività, i modi di vita, le case dei boulevards che, in epoca ben più tarda di quella della sua data di nascita, gli avrebbero fatto solo per poco ricca e gioiosa corona.

  Però la rappresentazione di Balzac più che superficie guadagna profondità alla parte di Parigi nata da Carlo V e solcata dalla volontà edificatoria di Enrico IV e Luigi XIII.

  L’autore, scavando tra le pietre ed oltre esse, illumina gli spazi che attraversa dell’univoca nozione di eclissi delle cose e censisce i modi dello spegnersi di tutte le tipologie che, via via, nel tempo, hanno affollato il quartiere.

  Sull’altra riva e dalla parte opposta della città il Faubourg Saint-Germain, originario corpo separato della città, a questa è destinato a non saldarsi, separato dal magma che sale da Sud e che deborda dal suo levante.

  Lo splendido, arioso isolamento di uno spazio prescelto da un’élite, secondo esigenze costanti nella storia della città, cova nondimeno il virus della sua decadenza: casa per casa, personaggio per personaggio, ben poco è come dovrebbe essere e Balzac indovina e descrive l’oscuro inizio del corrompimento del Faubourg, così come riconosce e registra la presenza della morte nel Marais.

  La fine si materializzerà, negli anni a venire, in una graduale consegna alle sedi di burocrazia, amministrazione, diplomazia e politica dei palazzi dell’Aristocrazia di Francia; e questo prima che vengano meno le rendite che li mantengono, poiché il chiuso universo che li abita e che mostra «la stessa potenza cieca e massiccia dell’architettura romanica: [che] rinchiude tutta la storia, la mura in sé, la mortifica», dimenticato il senso del proprio essere nel tempo, sdegnerà di dialogare in autonomia ed originalità con il presente.

  Altre parti di città acquistano dalla rappresentazione balzacchiana pastosità e colore di dagherrotipo: la Parigi dell’Ovest, delle Tuileries e del Palais-Royal che si allinea, questa davvero con mille volti, dallo scomparso confine medievale di Filippo Augusto fino ai boulevards occidentali di Luigi XIV, e riassume nella assoluta presenza del presente le ineliminabili contraddizioni e conflittualità di secoli di sviluppo urbano ed edilizio.

  Il boulevard de la Madeleine e la Halle au blé in senso longitudinale, i giardini delle Tuileries, il Louvre e i boulevards dei teatri (Montmartre, Poissonière, de Bonne-Nouvelle) in senso trasversale circoscrivono il cuore della città della prima metà del XIX secolo. Ascoltiamo battere il motore della vita: risuonano i tanti momenti del tempo della sua storia, le tante storie di personaggi che declinano una molteplicità di forme e modi dell’abitare, stratificano le cose, in questo nido di presente e passato, individuale e collettivo, privato e pubblico.

  Affascina, del luogo di Parigi più ed, in parte, più a lungo vissuto, il riverbero dei particolari, che incitano fantasia e ragione a comporre l’insieme del quadro; ci scuote – e profondamente – nella infeconda schematicità dei luoghi del vivere contemporaneo, la memoria precisa scolpita dallo scrittore della diversità di contesti che affollano una sola della città.

  Ancora Parigi è l’ampia cintura di case germogliate a Nord, inscritta tra il ring dei boulevards interni e la cintura daziaria del 1784, evocata in città con nomi di strade e numero di quartieri dalle piante turistiche di metà secolo, e da talune delle stesse rappresentata – con bizzarra ma significativa deformazione – di profondità ben più esigua che la reale.

  Il silenzio di Balzac la spazza via tutta. La fittizia esistenza di segni sulla carta diviene città reale solo nella cronaca della pressante frenesia della calce e del mattone, da cui emerge giorno dopo giorno, dalla mattina alla sera, l’intreccio disordinato e sommario di vecchio e nuovissimo, di periferia e di centro, di miseria e di opulenza delle vie e delle case del quartiere della Chaussée d’Antin.

  Dal compresso reticolo muto di strade, accanto alla macchia di case che il denaro borghese degli anni di Luigi Filippo moltiplica nelle terre dei Porcherons e della Grange Batelière, si allunga e prende corpo il fuso del Faubourg Saint-Honoré. Ancora una parte separata della città, freccia che estende una forma aristocratica dell’abitare, netta, precisa, consolidata dalla consuetudine dei secoli e congelata nell’aspetto di un momento.

  Abitato soprattutto da residenti dell’antica specie, abili nell’adeguare alle circostanze della sorte un modo eletto di vivere preservandone tuttavia l’essenza, compatto ai margini ed all’interno, il Faubourg Saint-Honoré, di gemmazione analoga a quella del più antico Faubourg Saint-Germain, completa, nella Comédie, la trilogia dei quartieri nobili aperta dal Marais.

  Meno minacciato del secondo, poiché meno di questo costretto e trascinato all’indietro dal peso del passato, nondimeno nelle pagine balzacchiane il Faubourg Saint-Honoré teme qualche insulto dall’aggressività omologatrice del nascente futuro della borghesia.

  Chi viene dai costruttori dello spazio di questa parte forte della città ancora è capace di assolutamente prescindere, nel gusto, dal costo delle cose; ma la diversa stima del denaro che, viceversa, contraddistingue le scelte di un commerciante arricchito nel suo attrezzarsi la dimora è avvisaglia della colonizzazione sociale e culturale che, alcuni decenni dopo, renderà amari gli ultimi pensieri di don Fabrizio Salina.

  Infine, dai romanzi e dai racconti sorgono gli ondeggianti confini di un’altra parte di Parigi, un’ameba ottenuta in negativo sottraendo dal solido la città costruita dalla Storia e dalle pietre dei grandi disegni.

  Si tratta della miriade di cose e case racchiuse tra il fiume ed i boulevards di mezzogiorno, materia residuale accumulatasi nel tempo in una terra a lungo di nessuno, a lungo separata dall’Université dalle mura, per sempre dal Faubourg Saint-Germain dal censo, lontana anche dall’indigenza allo stato puro che segna il vivere dell’ampia cavità muta dove sprofonda il Faubourg Saint-Marcel.

  Oltre ogni documento storico o studio erudito i frammenti del testo letterario replicano la frammentarietà del testo urbano, amplificano, spiegano e confermano l’eterogeneità degli spazi che, congelati ed allo sbando in un momento dello sviluppo della città pieno di interrogativi sul futuro, non hanno neanche la forza resistente di una memoria collettiva cui aggrapparsi.

  Parti di città, vie, architetture, case ed interni: Balzac ci fa ancora un dono. Ai segni e disegni che possono descrivere ed aiutano a dipanare la grande trama della città dell’uomo egli ne aggiunge uno, la luce, che, naturale o artificiale, con circa un secolo di anticipo rispetto alla teoretica architettonica, viene dallo scrittore riconosciuta ed impiegata come elemento essenziale della composizione degli spazi.

  Così, ancora per grandi schemi, conosciamo la Parigi segnata e solcata dall’attenzione del romanziere. Figlia di questa, figlia dello sdegno illuminista e pre-rivoluzionario dei Voltaire e dei Mercier, figlia delle impassibili statistiche degli igienisti d’inizio secolo, decifrata attraverso il furto di mille indizi dispersi dappertutto, la città di Balzac è la ricostruzione della Parigi ottocentesca, è la città reale che nell’ora rende conto del Tempo e cede allo sforzo di pensiero del narratore il segreto mutevole e perpetuo delle sue relazioni più intime.

  La città vera più del vero che conosciamo è, per noi, insieme cronaca e storia, presente e passato, vive le «tempeste di interessi» e le tempeste architettoniche del momento, mentre da ciò che è ricorda e rivive ciò che è stato. La sua memoria, sottratta all’oblio per la conoscenza e interpretazione del presente, ci viene consegnata senza nostalgie regressive, nella lucida consapevolezza affermata da tutte le pagine della Comédie [...].

  Siamo nel tempo: la Comédie Humaine è aperta dal racconto La casa del gatto che gioca. A sua volta il testo ha inizio con la descrizione, attraverso lo sguardo di un pittore, di una casa medievale che «c’era una volta» in una vecchia Parigi, evocazione delle vestigia di un universo trapassato e immobile.

  Rastignac, sepolto papà Goriot, sfidando Parigi ed il mondo dalle colline del Père Lachaise («Ed ora, a noi due!») afferma il senso delle cose che muovono verso il fine ultimo dell’eterna trasformazione della realtà ad opera dell’uomo.

  Il concetto e il fatto non si contraddicono: non in Balzac il quale fa grazia all’individuo assediato dalla brutale determinatezza di ogni istante, dell’onda infinita delle scoperte e dei desideri perché «per l’uomo il passato assomiglia straordinariamente all’avvenire: raccontargli quel che è stato non equivale forse quasi sempre a dirgli quel che sarà?».

 

 

  Vito Carofiglio, Un Balzac “gotico”: «Le Sorcier», in AA.VV., Il “Roman noir” ... cit., pp. 293-305.

 

  L’A. riflette sulle affinità del testo balzachiano con la letteratura gotico¬inglese e sulle relazioni tra questo racconto, ripubblicato, dopo la sua prima edizione del 1820, nel 1837, con i romanzi della maturità artistica di Balzac Che formeranno il corpus della Comédie humaine. Dopo l’analisi degli archetipi propri del romanzo gotico a cui il récit balzachiano può rinviare, Carofiglio considera i rapporti, peraltro abbastanza problematici, tra Le Sorcier e «alcuni pannelli o vetrate della Comédie» (p. 293) e individua in Sarrasine una «topica del romanzo gotico-nero» (p. 300), attraverso il rilievo di singolari analogie presenti nell’immateriale centenario di questa e nel personaggio eponimo del romanzo giovanile di Balzac.

 

  pp. 302-304. Non occorre più rilevare l’analogia fra il «centenaire» di Sarrasine e il personaggio eponimo del romanzo giovanile di Balzac: in entrambe le opere il vecchio dall’età indefinibile, quasi immateriale, è spaventoso e inquietante, e in entrambe la sua proprietà soprannaturale viene attribuita all’esercizio delle arti e scienze occulte — in entrambi i casi, insomma, il «centenaire» viene, vero o falso, sentito o chiamato «sorcier», più nobilmente «alchimiste», o avvertito come «assassin».

  Non è senza significato, per tracciare una continuità immaginaria o di trattamento letterario, l’altra analogia fra la coppia «Centenaire»/Marianine, nell’opera balzachiana con pseudonimia, e la coppia «Centenaire»/Marianina in Sarrasine (la finale variazione e/a è funzionalmente giustificata peraltro da un romanzo all’altro, il primo con operatori e luoghi francesi, il secondo con operatori dati per presumibilmente italiani come la stessa Zambinella-il-«Centenaire»).

  Del resto, l’evocazione non casuale in Sarrasine, novella del 1830 (ripeto), del nome di Ann Radcliffe, la «regina» inglese del «romanzo del terrore», è un segno di ciò che ancora opera nell’immaginario letterario di Balzac nel momento di svolta verso il suo grande proposito narrativo. Quel riferimento dice la cornice del genere a cui la novella appartiene, secondo un discorso che è metanarrativo – poiché nella narrazione poi v’è questo e altro, fra storia contenente e. il «tiroir» che si tira fuori: vi è la commistione fra il genere «gotico» e quello propriamente «realistico-romantico».

  Così combinata, la novella di Sarrasine è in pari tempo un tributo al genere inglese e una liquidazione del debito. Tant’è vero che lo stesso Melmoth balzachiano, se chiama quello di Maturin, è il suo rovesciamento ideologico in quanto réconcilié, romanticamente, alcuni anni dopo, nel 1835 (ripeto).

  Una porta sotterranea verso il recupero archeologico del genere orrifico primitivo, la tiene aperta Horace de Saint-Aubin, nella sua autonomia pseudonimica e nella sua enigmaticità allusiva: sarà la porta per cui passerà Le Sorcier, fantasticamente. «Le Centenaire», infatti, non era morto nel 1822 né nel 1830. In fondo, egli non era che una forma del personaggio «errante» e «maledetto».

  Nessuno dei personaggi di Sarrasine, si dice, riappare in altra opera della Comédie humaine. È vero. Infatti, Le Sorcier, sotto la cui designazione toma a vivere il «Centenaire», con Marianine, non fa parte della Comédie, e Balzac non appare come il suo autore. Giochi barocchi, insomma, anzi piuttosto «gotici», con Horace de Saint-Aubin maschera ammiccante, sorniona e grottesca, da una fabbrica d’altri tempi e d’un gusto ormai superato. Ma veramente superato?

  La letteratura romantica da quella fabbrica in buona parte proviene, e va oltre – variando variando.

 

 

  Vito Carofiglio, Note rossiniane tra Balzac e Stendhal, in AA.VV., Stendhal tra letteratura e musica. Atti del Convegno internazionale. Martina Franca, 26-29 novembre 1992. A cura di Giovanni Dotoli, Fasano, Schena editore, 1993 («Biblioteca della ricerca, cultura straniera», 54), pp. 139-156.

 

  Esiste un “rossinismo” in Balzac, che va messo in relazione con la cultura musicale della sua epoca, e con Stendhal in particolare. Giova, così ancora, un confronto specifico fra i due scrittori.

  “Rossiniste”: il termine servì come auto-designante per Stendhal. [...].

  Nel 1835, Balzac dedicava il romanzo Le contrat de mariage a Gioacchino Rossini, a distanza di due anni dall’altra dedica [quella di Ferragus a Hector Berlioz], dopo quella. Non era un altro segno? Al ben più celebre compositore, ormai ritirato dalla creazione operistica e dalle scene musicali francesi ed europee, l’omaggio più tardivo dovette apparire — e a noi così ormai concretamente appare — come più meditato e pertinente. Infatti, Balzac aveva già pubblicato una serie di opere di quel monumento che stava costruendo in forma di romanzo della sua epoca, La Comédie humaine, in cui i riferimenti a Rossini, alle sue opere e ai suoi personaggi, erano ormai molteplici, tutti improntati a un entusiasmo e a un’ammirazione franca, e senza limiti di sorta, in un vero e proprio crescendo, sempre più impegnativo. Fra il 1830 e il 1835, i riferimenti alla sublimità della musica rossiniana si succedono senza sosta nella creazione letteraria di Balzac. [...].

  Nel 1835, dunque, la dedica del Contrat de mariage a Rossini trovava già una giustificazione interna più che motivata nei testi creativi antecedenti, e prendeva forma ufficiale, col segno di responsabilità propria d’autore, sulla “soglia” del romanzo dedicato al matrimonio borghese (che può avere propriamente un ritmo semiserio “alla Rossini”).

  L’analisi dei riferimenti rossiniani [...] porta a rilevare una vera disseminazione variamente dispiegata, la cui ricezione nel pubblico dell’epoca dava per note le allusioni e i loro impliciti testuali e musicali, che si possono convenientemente sgranare per apprezzarne la qualità e lo spessore, anche in funzione narrativa: si incontrano «les duos les plus passionnés» cantati servendosi di Pergolesi e di Rossini (Le Bal de Sceaux); le «divines pages de Rossini, de Cimarosa, de Zingarelli» (La Peau de chagrin), che non possono non far pensare agli «accents divins du désespoir» provenienti dal Matrimonio di Cimarosa per Julien (Le Rouge et le Noir); la «cavatine de Tancrède», cantata in Sarrasine da Marianina, e che è dato di immaginare nella sua estensione musico-testuale come la cavatina “Di tanti palpiti”, nel Tancredi rossiniano [...].

  Ora, di questi antecedenti italiani e francesi, Balzac sembra farsi eco, disseminando di allusioni il tracciato labirintico della sua produzione romanzesca, in quei primi anni Trenta, poiché, oltre alle annotazioni stereotipiche (diciamo d’obbligo e di comune risonanza) sui caratteri melodiosi e dolci o giocosi e buffi delle opere rossiniane, queste permettevano anche “letture”, ricezioni, “patriottiche”, come nel caso di Tancredi, o anche di Semiramide, e, ancor più, del Mosè in Egitto.

  Quest’opera, già rappresentata la prima volta al San Carlo di Napoli il 5 marzo 1818, e poi modificata e ampliata nella versione parigina del 1827, col titolo di Moïse et Pharaon ou le Passage de la Mer, ha fortemente suggestionato per la sua complessità lo scrittore della Comédie humaine, mentre ha imbarazzato il futuro romanziere del Rouge et Noir e della Chartreuse per le stesse ragioni, che venivano a contrastare le sue simpatie belcantistiche e melodiche. In altri termini, mentre Stendhal si era trovato a giudicare il Mosè napoletano del 1818 e la sua terza ripresa a Napoli, con i primi accrescimenti, e non può ancora giudicare la versione parigina, Balzac, lui, può creare un sistema differenziato o, a suo piacimento, ibrido, proponendo, nelle sue affabulazioni romanzesche, diversi protocolli testuali e di ascolto, ovvero di esecuzione, come nel caso dell’uso che del Mosè egli fa nella Duchesse de Langeais, nel 1834, in una pagina esemplare all’inizio del lungo racconto: la duchessa, rifugiatasi in un convento di Carmelitane scalze per sfuggire al mondo e alla mondanità, e ormai divenuta “soeur Thérèse”; il suo universo risponde ormai ad alta codici, quelli della sublimità e della disincarnazione fisica; e nella musica celestiale che ella esegue all’organo, il contatto con l’idea divina si fa più vicino [...].

  Rossini dunque, con la musica del Mosè, viene ad assumere nella finzione sublimante di Balzac un ruolo angelico di intermediano della grazia e della felicità divina. Come sorprendersi che, l’anno successivo, nel 1835, Balzac dedichi a Rossini un’intera opera graziosamente, senza un vero e proprio motivo interno, serio quanto quello che presume l’elevazione spirituale narrativizzata nella Duchesse in apertura d’opera, e così simbolicamente?

  Una ricezione complessa, anche in termini di patriottismo, del Mosé rossiniano sarà affabulata qualche anno dopo, nel lungo racconto di Massimilla Doni, la cui storia è ambientata a Venezia, nel 1820. Ormai il rossinismo di Balzac non è più minimalista e, diciamo, di facciata (come potrebbe essere nella dedica del Contrat de Mariage), anche se convinto e puntuale attraverso la “disseminazione” tra le varie opere: Massimilla Doni contiene una svolta a 360° nell’uso di Rossini, nell’impianto e nelle singole sequenze narrative: Balzac è passato dallo status di “dilettante” di musica alla maniera di Stendhal, a uno che si può propriamente dire di “tecnico” e musicologo: è andato a scuola, si è messo a studiare in alcuni mesi i due sistemi, la melodia e l’armonia, nell’opera lirica, e ha innalzato un monumento a Rossini. La svolta aveva preso avvio con Gambara e in occasione di quest’opera: in effetti, Gambara e Massimilla Doni sono geneticamente correlate e dialetticamente opposte sul piano narrativo, la prima mettendo in scena la postulazione musicale “tedesca”, la seconda quella “italiana”. [...].

  Balzac contava molto su Massimilla Doni, coniugata con Gambara, per significare metaforicamente «une belle explication des plus intimes procédés de l’art» (come scriveva in una lettera alla signora Hanska, il 22 gennaio 1838). La storia di Massimilla ed Emilio porta in sé un principio di poetica: la difficoltà di possedere la donna adorata — perché troppo desiderata — è la metafora della difficoltà di creare, quando non si produca fra l’artista e la sua creatura una distanza critico-immaginativa. [...].

  Massimilla Doni fa toccare il culmine all’adorazione di Balzac per Rossini, senza esaurirne l’intensità nelle successive opere, fino alle ultime. Ancora nella Cousine Bette (1846), di Rossini sarà detto «ce génie frère de Raphaël» (che ricorda il «raphaëlesque» detto da Stendhal per il Tancredi rossiniano); e nel Cousin Pons (1847), ultima fatica di Balzac romanziere, «le nom de Rossini» è l’emblema del genio creativo e della fama più alta a cui potesse aspirare Pons (e tuttavia negletta).

  V’è un itinerario completo dell’adorazione rossiniana in Balzac, dalla quale non sono esclusi testi di tipo saggistico, come il Traité des excitants modernes (1839), ove è la volta della Gazza ladra a dare pimento all’aneddoto morale. Un’adorazione convenientemente razionalizzata, poiché passa narrativamente dalla fase della pura ricezione emotiva e dei riferimenti topici, dalla fase estatica del “dilettante”, a una fase in cui il discorso tecnico-musicale fa da supporto all’emozione, all’entusiasmo, all’estasi.

  Balzac, dall’una all’altra fase, sembra farsi eco della lezione stendhaliana proveniente dalla Vie de Rossini, ma, rielaborandola e rifinendola per il disegno e lo sviluppo della Comédie humaine, ha in pari tempo pagato un debito verso Stendhal e affermato la sua originale autonomia. Appaia quanto si vuole coincidenza, ma si prenda nota che, mentre Stendhal scriveva La Chartreuse de Parme, Balzac scriveva Massimilla Doni: entrambe apparvero nel 1839, quella prima di questa. Certamente si può dire che la novella balzacchiana è la più “italiana” delle sue opere, la più rossiniana, e, in un certo senso, la più “stendhaliana”. [...].

 

 

  Vito Carofiglio, Honoré de Balzac. Oltre i labirinti del romanzo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993 («Studi superiori NIS/163. Letteratura francese. Serie diretta da Luigi de Nardis»), pp. 222.

 

Struttura dell'opera:

 

  Introduzione, pp. 11-12;

  Profilo biografico, pp. 13-17;

  “La Comédie humaine”: il “sistema” e i principi, pp. 19-28;

  Romanzo e politica: fra Stendhal e Machiavelli, pp. 29-43;

  Amore/matrimonio, pp. 45-52;

  Tre storie: “Histoire des Treize”, pp. 53-77;

  Parigi, pp. 79-102;

  Magia e divinazione, pp. 103- 144;

  Gastrologia. Dall’ “ancien régime” al nuovo regime alimentare, pp. 145-160;

  Riformatori e morte, pp. 161-188;

  Arte e teatro, pp. 189-220;

  Bibliografia essenziale, pp. 221-222.

 

  Il volume, che raccoglie per la maggior parte saggi già pubblicati tra il 1974 e il 1993, ma qui ripresi, aggiornati ed ampliati in una nuova e definitiva articolazione, rappresenta certo il prodotto esemplare dell’intesa attività critica di Vito Carofiglio su Balzac e la sua opera. Strutturato in nove capitoli, articolati per paragrafi, il testo, facendo propria la metafora della Commedia dantesca così cara a Balzac, intende fornire una visione complessiva, «a imbuto» (p. 11) degli intricati labirinti dell’universo finzionale balzachiano. I primi tre capitoli, strutturalmente articolati come premesse a mirate  problematiche critiche, analizzano il sistema e i principii della Comédie humaine, alla luce, soprattutto, dell’Avant-propos del 1842 e dei successivi e recenti apporti forniti dalla critica: le teorie del romanzo fra politica ed ideologia, così come risaltano nello studio dedicato da Balzac alla Chartreuse de Parme di Stendhal, l'amore e il matrimonio, nelle loro mostruose combinazioni concordanti o conflittuali con la passione e il denaro. I nove paragrafi che formano i capitoli che vanno dal quarto al settimo si configurano «come nove cerchi scelti nella Comédie» (p. 12) e in essi trovano spazio l'attenta indagine su alcune avventure orribili e sublimi dell’universo parigino, la stessa Parigi, capitale mitica della Comédie humaine e sublime galleria di “monstres” moderni, il crimine, la visione allucinata del reale, le arti magiche e le supreme scienze, il “grand jeu” e la moderna mitologia gastrologica. I due paragrafi del capitolo ottavo e i tre del capitolo nono presentano, nel passaggio allegorico tra un antipurgatorio e la salvezza finale, i tratti più sottili e significativi del riformismo sociale ed economico illustrati nel Médecin de campagne, i temi del peccato e della morte, l’arte e il teatro per figure e strutture, attraverso l’analisi di opere quali Sarrasine, Massimilla Doni, La Marâtre e Le Faiseur.

  L’approccio antropologico alla materia permette a Carofiglio di soffermarsi sui dispositivi c sui processi linguistici, consapevoli e non, dell’opera di Balzac, definendo in tal modo, come suggerisce il titolo stesso del lavoro, «un ambito topologico, con le caratteristiche di un percorso, e il suo superamento, verso un altrove balzachiano, e fuori di esso» (p. 12).

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l’Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1993 («Scienze filologiche e letteratura - 50. Biblioteca del Dipartimento di lingue e letterature straniere», 7), pp. 342.

 

Struttura dell'opera:

 

  Avvertenza, pp. 1-2.

  La formazione dell’italianismo di Balzac (1820-1836) e l’influenza di Stendhal, pp. 3-45.

 

  Cfr. 1963 e 1964.

 

  Balzac a Roma, pp. 47-103;

 

  Cfr. 1963.

 

  Il Balzac di Belli, pp. 105-116;

 

  Cfr. 1964.

 

  Balzac e l’Italia politica del suo tempo, pp. 117- 151;

 

  Cfr. 1973.

 

  Ancora su Balzac e Vico, pp. 153-161;

 

  Cfr. 1973.

 

  Una traduzione pre-originale italiana delle “Fantaisies de la Gina” di Balzac, pp. 163-188;

 

  Cfr.1974.

 

  Balzac e Manzoni. Cronaca di un incontro, pp. 189-290;

 

  Cfr. 1975.

 

  Balzac„ Luini e Saronno, pp. 291-299;

 

  Cfr. 1977.

 

  Balzac e i temi italiani di “Facino Cane”, pp. 301-314;

 

  Cfr. 1984.

 

  Il “Père Goriot” e i suoi primi lettori italiani (1835-1837), pp. 315-327.

 

  Cfr. 1986.

 

 

  Raffaele de Cesare, Tracce balzacchiane nell’opera di Verga, «Annali della Fondazione Verga., Catania, 6 [1989], maggio 1993, pp. 7-65.

 

  Spiace di non poter ancorare questa ricerca intorno agli influssi della Comédie humaine nell’opera di Verga su solidi fondali storici che assicurino alle nostre ipotesi un più compiuto ed oggettivo conforto. Ma sia che ciò si debba ad una effettiva scarsità di prove, alla scomparsa o alla dispersione del materiale diaristico o epistolare verghiano, sia che ciò dipenda dalla nostra stessa incapacità di individuare ogni possibile indizio, la documentazione che siamo in grado di presentare al lettore risulta troppo incerta e troppo frammentaria per fornire tutti quei supporti che ci sarebbero indispensabili. E dobbiamo rassegnarci a tale situazione e dichiarare, fin dall’esordio, che le supposizioni qui di seguito avanzate, per quanto plausibili ci siano apparse, rimangono pur sempre affidate al consenso – costantemente soggettivo, e spesso ingannevole – della sensibilità e del gusto e non oltrepassano i confini di una proposta di lettura. [...].

  [...] cerchiamo ora di individuare, penetrando nel mondo narrativo verghiano, ogni possibile traccia della Comédie humaine: tutte quelle corrispondenze, cioè, di temi, di personaggi, di situazioni, di particolari che permettano scorgere — sia pure attraverso il filtro di una originale rielaborazione propria ad un narratore di razza come Verga — la presenza in questi di influssi balzacchiani.

  Tralasciamo, beninteso, di soffermarci su quelle analogie troppo generali – e pertanto troppo generiche — che non denunciano riscontri diretti e puntuali. I temi dell’avidità di ricchezza (“roba” o denaro che sia), degli affari e delle speculazioni, da contrasti economici, della sopraffazione o della lotta per la stessa sopravvivenza, comuni e, se si vuole, dominanti nei due scrittori, temi che alcuni critici hanno voluto considerare determinanti per individuare punti di incontro, sembrano a noi ingredienti troppo naturali nella descrizione di una società come quella del XIX secolo, e quindi troppo largamente diffusi perché possano essere presi in serio esame in una ricerca di precisi rapporti intellettuali come quella che vorremmo qui delineare. Anche il procedimento di suddividere l’intero affresco della società contemporanea in una serie di scene di costumi, che Verga ha immaginava (ma non condotto a termine) nella storia dei Vinti, e che pur è una tipica “invenzione” di Balzac, ci sembra appartenere ad una tecnica, per così dire ciclica, che il romanzo francese della seconda metà del XIX secolo ha frequentemente utilizzata. Nulla vieta di supporre che non direttamente da Balzac, ma attraverso l’esempio più recente (e, certamente, più conosciuto) di Zola, possa essere stato suggerito a Verga il proposito di applicarlo. Del resto, come ritrovare equivalenze fra le varie Scènes balzacchiane e il ciclo dei Vinti quando questo è stato realizzato solo nelle prime due parti?

  Sorvoliamo pure sulla questione del “verismo” di Balzac che avrebbe costituito una cospicua componente trasmessa dal narratore francese a quello italiano. Il dibattito sulla costante istanza veristica ispiratrice della Comédie humaine ha più che legittimo fondamento ed è ben visibile la trama di una fitta successione di piccoli o grandi “faits vrai” di cronaca contemporanea nel tessuto narrativo balzacchiano per negarne l’esistenza in un autore straordinariamente portato all’osservazione dei costumi (anche se, altrettanto appassionatamente, spinto a travolgerla, deformarla, sublimarla nell’atto di interpretarla con la sua fantasia).

  Ma la lezione veristica impartita da Balzac ai suoi lettori [...] non solo è stata ereditata da Flaubert, dai Goncourt, da Zola e da Maupassant (e da tanti altri narratori minori di quella generazione), ma è stata applicata da essi, nelle loro opere, con una coerenza e con una organica disciplina che dovevano certo apparire a Verga più esemplari di quanto non gli apparisse il paradigma balzacchiano non solo più lontano nel tempo e nella memoria ma meno sistematico nei suoi esiti.

  Quando Paul Arrighi, nella sua tesi su Le Vérisme dans le prose narrative italienne, cita, per esempio, un passo liminare del Père Goriot (1834) e lo mette a raffronto con un passo della premessa di Eva (1873) per affermarne il valore di modello, noi rimaniamo invece abbastanza perplessi sulla reale portata di una ripresa diretta del secondo testo dal primo. [...].

  In realtà, fra le due dichiarazioni di principi, noi non vediamo altra analogia che quella della preoccupazione di scrivere una storia “vera” che metta a nudo senza enfasi né attenuazioni un aspetto drammatico dei costumi contemporanei, ed un invito a considerare l’arte, nel suo scavo impietoso, più morale dei comportamenti egoistici della maggior parte dei lettori che preferiscono sfuggire, col pensiero e con lo sguardo, alla visione squallida o dolorosa della realtà. Ben altre, e ben più eloquenti, professioni di fede veristica potevano presentarsi a Verga a giustificazione del programma etico-estetico di Eva.

  Accantonate queste rassomiglianze tematiche e queste analogie in fatto di postulazioni estetiche che, come crediamo, possono essere ricondotte i modelli di altri scrittori più vicini a Verga o ricollegate a correnti letterarie ormai stabilmente diffuse nell’aria, nostro proposito è quello di analizzare qui elementi più circoscritti, tratti narrativi più episodici e più particolari, atti a denunziare in termini meno opinabili la presenza di eventuali tracce balzacchiane.

  Tale ricerca, certamente più semplice della prima, è tuttavia meno agevole di quanto possa apparire a prima vista. Verga, narratore di spiccata personalità e di grande originalità, ben difficilmente “plagia” un suo predecessore. L’interesse che egli prova per l’invenzione fatta da un altro scrittore lo può portare sì ad impossessarsi di questa “scoperta” di lettura, ma attraverso un processo di elaborazione e di trasformazione talora radicale. In altre parole, l’elemento narrativo strappato ad una pagina altrui (o perché giudicato adatto al personaggio che sta inventando o perché coincidente col disegno ideale che egli si è fatto di una situazione che sta costruendo) è, per dirla con una felice espressione di L. Russo [cfr. Giovanni Verga, 1986], «piegato verso la nota che è propriamente sua» e ad essa strettamente amalgamato.

  Insomma, l’elemento, per quanto di origine estranea e di riporto, è a tal punto stuccato, ridipinto, restaurato da armonizzare coi materiati della costruzione edificata da Verga, da consonare intimamente col gusto di lui (buono o cattivo che sia, ma questo è un altro problema) e da diventare tutt’uno con la propria creazione artistica. [...].

  Concludiamo la nostra ricerca con la proposta di riconoscere una eco di Balzac — proveniente ancora dal Père Goriot — in uno degli apologhi raccolti da Verga nella novella intitolata Fra le scene della vita e pubblicata nel «Corriere della sera» del 29 e 30 dicembre 1893.

  Già il titolo dell’intera narrazione — successione di diversi fatti di cronaca in cui «la finzione si mescola talmente alla realtà da confondersi insieme a questa, e l’uomo, che è costretto a rappresentare una parte, giunge ad investirsene sinceramente come i grandi attori» — ci sembra trasparentemente balzacchiano. E, come il titolo, il proposito di mettere a nudo brani di vita, estratti da una sorte di commedia umana comprendente tutti gli strati sociali. Oltre al titolo e al disegno narrativo c’è comunque dell’altro. Una di queste “scene della vita” rappresenta un caso di adulterio che si consuma fra le pareti di un grande palazzo, nell’intimità della vita coniugale di una coppia appartenente ad un illustre casato ducale italiano; e dove la commedia del silenzio, inappuntabilmente recitata dal manto tradito, copre di un segreto tombale lo scandalo.

  L’amante della donna, bell’uomo elegante ed aristocratico, ma giocatore accanito e sfortunato, ha sollecitato da costei un aiuto. E la donna ha acconsentito ed ha impegnato per lui i propri gioielli.

  Una lettera intercettata dal marito svela a questi l’adulterio e la scomparsa delle gioie di famiglia. Ma il duca, «fermo ... e impenetrabile ... nella rovina improvvisa di tutto ciò che aveva formato il suo orgoglio e la sua fede», evita lo scandalo pubblico. Ed ordina alla moglie di venire con sé al ballo, la sera stessa del suicidio dell’amante, di reprimere ogni emozione sotto la maschera dell’indifferenza, sottomettendosi alle forme che la società gelidamente impone: quella società che la duchessa dovrà continuare a frequentare con la stessa assiduità di prima, come se il suicidio dell’amante non fosse avvenuto o non la riguardasse.

  È una situazione che ricorda quella in cui viene a trovarsi la contessa de Restaud — che ha impegnato i propri diamanti per far fronte ai debiti di gioco dell’amante, Maxime de Trailles — allorché il marito, il conte di Restaud, scopre l’adulterio e la vendita delle gioje di famiglia: situazione che la stessa protagonista, disperata, racconta al padre in una nota scena del Père Goriot.

  Molti particolari di questa triste storia sono narrati anche in un altro romanzo di Balzac, Gobseck, dove il lettore assiste alla tragica conclusione della vicenda e dove il conte di Restaud è presentato in una luce migliore che non nel Père Goriot e che ne giustifica e ne riscatta il comportamento.

  Ora, una diffusa sfumatura di ammirazione che Verga manifesta per la padronanza del duca su se stesso, per la fermezza eroico-aristocratica della sua decisione di allontanare ogni sospetto dalla moglie, insomma per la religione dell’onore familiare professata dal personaggio, può indurre a credere che nemmeno quest’altro testo di Balzac sia rimasto ignoto a Verga.

 

 

  Remo Ceserani, Lidia De Federicis, Il Materiale e l’immaginario. Manuale e laboratorio di letteratura. Società e cultura della borghesia in ascesa. Volume quarto, Torino Loescher Editore, 1993.

 

  Proposte di lettura e ricerca. Le “Illusioni perdute” di Honoré de Balzac, pp. 533-535.

 

  Breve guida alla lettura.

 

  Balzac, che usava trarre dalla realtà che conosceva la materia della narrazione, ha fatto confluire nelle Illusioni perdute due sue esperienze fondamentali; quella di stampatore, da lui tentata con esito rovinoso negli anni 1826-28, nella storia di David Séchard; quella di scrittore al servizio dell’«industria culturale», nelle vicende di Lucien a Parigi. Ambientate 1821-22, fitte di allusioni a personaggi viventi, esse gli permettono di rappresentare il mondo dell’editoria, del giornalismo e del teatro in cui egli stesso vive. Ricordiamo che anche Balzac era un provinciale venuto a Parigi per far carriera grazie al talento, che per molti anni accettò di scrivere testi mediocri e anonimi, che s’indebitò e dovette legarsi agli editori con contratti-capestro, che si logorò lavorando per periodici e giornali e fece uscire in appendice i suoi romanzi, che della precarietà di questo nuovo tipo di rapporto professionale egli ebbe piena coscienza tant’è che fu uno dei promotori dell’associazione (la Société des Gens des (sic) Lettres) fondata a tutela dei diritti degli scrittori.

  In Un grand’uomo di provincia a Parigi, Lucien incontra successivamente cinque specie di librai o editori, in ciascuno dei quali si concreta un aspetto dello sfruttamento commerciale. Lousteau gli rivela il potere segreto del giornalismo [...].

  Balzac tende però a «tipizzare» fortemente. Separa il male dal bene senza lasciare zone intermedie: concentra nella descrizione del giornalismo e del commercio librario tutto il «negativo» dello scrivere, e ne idealizza invece il valore positivo nel gruppo detto del «Cenacolo», in cui si raccolgono filosofi e artisti che non accettano compromissioni con il mercato. [...].

 

  La commedia umana di Balzac, pp. 1000-1002.

 

  È tradizione, nella critica francese, sottolineare il contrasto fra il realismo di Stendhal e quello di Balzac. Certo è difficile immaginare due scrittori, pur legati fra loro da vicinanza storica e da alcuni ideali letterari (e legati dall’ammirazione almeno di uno, il più giovane Balzac, per l’altro), così nettamente diversi. Quanto Stendhal si presentava come un «dilettante» della letteratura, tanto che Balzac ne era un inveterato professionista (scrittore di romanzi di costume, editore e tipografo sfortunato prima di giungere al successo come romanziere). L’uno consegnò la sua fama a due grandi, intensi romanzi, l’altro a uno straordinario e quasi incontrollabile numero di opere. L’uno è il descrittore della vita interiore di un numero limitato di personaggi di grande spicco individuale, l’altro è il creatore di scene, di interi ambienti e città (da Tours, sua città natale, a Parigi), di un gran numero di personaggi (circa tremila) legati fra loro da trame complicate. L’uno guarda al Settecento l’altro è uomo del pieno Ottocento. L’opera di Stendhal è la rappresentazione della società della Restaurazione dal punto di vista di un bonapartista rivoluzionano; quella di Balzac, della società fra la monarchia di luglio e la rivoluzione del 1848 dal punto di vista di un cattolico monarchico.

  Con il crollo finale del vecchio ordine, negli anni Trenta, la società francese si presenta nel momento trionfale del decollo economico e dell’ascesa della borghesia. Il nuovo protagonista (che era stato già il protagonista dell’immaginazione letteraria dell’Inghilterra del Settecento) è il denaro. Balzac è, per certi aspetti, il Defoe della borghesia francese. Come Defoe, incerto fra il successo negli affari (per i quali in realtà non era portato, anche se tentò sempre le imprese più spericolate) e la rappresentazione letteraria del successo negli affari, egli seppe trasformare la carriera letteraria in successo, la letteratura in denaro e il denaro in letteratura. [...].

  Ma guardiamo un po’ più da vicino l’opera di questo scrittore che ebbe l’ambizione di porsi al posto di Dio e di ricreare totalmente e unitariamente il mondo: La commedia umana. Dopo aver scritto, negli anni 1821-25, romanzi d’avventure secondo il gusto del gran pubblico, Balzac pubblicò, a partire dal 1829, i suoi primi grandi romanzi, provandosi in generi diversi: romanzi storici (Les Chouans, Gli Sciuani, 1829), romanzi «filosofici» (come La peau de chagrin, La pelle di zigrino, 1831; Louis Lambert, 1832; Séraphita e La ricerca dell’assoluto, 1834), romanzi sociali (Le médecin de campagne, Il medico di campagna, 1833), racconti rabelaisiani (Contes drolatiques, Le sollazzevoli storie, 1832-37), romanzi di costume (da Gobsek (sic), 1830, a Le curé de Tours, Il curato di Tours, 1832, a Eugénie Grandet, Eugenia Grandet, 1833, a Père Goriot, Papà Goriot, 1834-35). In Papà Goriot compaiono per la prima volta, in un nuovo romanzo, personaggi già noti al lettore: questo passaggio dei personaggi da un romanzo all’altro fa intravedere a Balzac la possibilità di creare un’opera ciclica («che faccia concorrenza allo stato civile», egli dice, dichiarandosi anche, con un’altra metafora scherzosa, il «segretario della società»). Egli comincia a pensare a raggruppare «scene» e «studi» in un insieme organico che sia la replica dell’intera società. Nel 1837 pensa a un titolo generale di «Studi sociali». Continua nel frattempo a scrivere nuove opere per il grande edificio (complessivamente 90 romanzi o novelle lunghe, 30 racconti e 5 opere teatrali): da Le lys dans la vallée (Il giglio nella vallata, 1835-1836) a Illusions perdues (Illusioni perdute, 1837-43). Nel 1842 sceglie per l’insieme il titolo — evidentemente allusivo alla Divina commedia di Dante — di La commedia umana ed espone le sue idee sul romanzo e i princìpi direttivi della sua opera in un’importante Prefazione. Divide i romanzi in «Studi di costume», che sono i più numerosi («Scene della vita privata, di provincia, parigina, politica, militare e di campagna»), «Studi filosofici» e «Studi analitici». In questo quadro vengono quindi a collocarsi Les paysans (I contadini, 1844), Le cousin Pons (Il cugino Pons, 1846), La cousine Bette (La cugina Betta, 1847) e altri romanzi ancora.

 

  Segue: Proposte di lettura e ricerca La cugina Betta di Honoré de Balzac, pp. 1002-1004.

 

  [...].

 

  Una discussione critica: il realismo di Balzac, p. 1004.

 

  Le discussioni critiche sull’opera romanzesca di Balzac si sono concentrate su alcuni punti:

  — il rapporto fra Balzac come osservatore, cioè la sua capacità di fissare nella memoria e riprodurre minutamente nell’opera luoghi, oggetti, particolari significativi, vestiti, gesti e tic dei suoi personaggi, nella loro vita psicologica e in quella fisiologica, e Balzac come inventore, cioè come creatore di universi, storie e personaggi immaginari, intrighi complicati, connessioni intuitive e misteriose;

  — il rapporto tra i valori in cui Balzac come autore e narratore credeva (la sua ideologia, notoriamente nostalgica dell’antico regime) e i valori in base ai quali agiscono, trionfano o falliscono i suoi personaggi;

  — il rapporto tra la straordinaria capacità che Balzac aveva di far vivere, attraverso una precisa scelta di particolari e un gusto plastico e concreto, i suoi ambienti e i suoi personaggi e i cosiddetti «difetti» del suo stile e della sua tecnica: le descrizioni spesso lunghe e pedantesche, gli interventi esplicativi minuziosi, le generalizzazioni, la grossolanità e l’eccessività di tante espressioni.

  Sulla contraddittorietà positiva e feconda fra ideologia di Balzac e sua capacità rappresentativa «realistica» si è soffermata, con una grande tradizione di interventi e interpretazioni, a cominciare da alcune pagine famose di Marx ed Engels, la critica di orientamento marxista.

  Più di recente la critica linguistica e semiologica ha tentato di superare il giudizio contraddittorio fra un Balzac che rappresentava potentemente il suo mondo e un Balzac che, nonostante ciò, scriveva male, e ha studiato le ragioni interne della sua tecnica e del suo linguaggio, ha ravvicinato i problemi dell’ideologia e quelli dello stile, ha visto La commedia umana come un grande universo linguistico.

 

  Segue la trascrizione di due interventi su Balzac: quello di György Lukács tratto da Il marxismo e la critica letteraria e quello di Jonathan Culler tratto da uno studio intitolato: Literary History, Allegory and Semiology del 1976 (pp. 1004-1006 e 1006-1008).

 

  A p. 1305, è presente un profilo biografico-letterario dello scrittore.

 

 

  Gabriella Cima, Il linguaggio meta fonologico nell’opera narrativa di Balzac del 1836/37. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1993.

 

 

  Massimo Colesanti, Note sul mito romantico della Rivoluzione: Mirabeau, Robespierre, i Girondini, in AA.VV., Studi in onore di Mario Matucci, Pisa, Pacini editore, 1993, pp. 103-111.

 

  [...]. Vediamo ora invece quale appare Robespierre ad esempio nelle pagine di scrittori come Balzac, Vigny, Nodier. Nel grande affresco della Comédie humaine non c’è molto spazio per gli eventi rivoluzionari; Omero della borghesia, com’è stato definito [P. P. Trompeo], Balzac ha visto, criticato ed anche esaltato la società francese del suo tempo, e se mai, come Stendhal del resto, è ai tempi eroici di Napoleone che vanno i suoi consensi e interessi. E tuttavia negli Chouans del 1829 – quando era ancora liberale –, e poi nel racconto Un épisode sous la Terreur, del 1830, e ancora nel romanzo Une ténébreuse affaire, del 1841, e qua e là in altre sue opere, egli ha rievocato col suo magistrale realismo il clima, gli effetti ed i contraccolpi positivi e negativi della grande parabola rivoluzionaria. Ma è al Balzac visionario e « fantastique» che dobbiamo una rappresentazione più o meno giustificativa di Robespierre e di Marat, e per così dire a priori in Les deux rêves, un racconto del 1830 unito al suo libro Sur Catherine de Médicis, e lì ambienta la sua scena in un salotto parigino del 1786, in cui riunisce alcune figure storiche dell’epoca, da Calonne a Beaumarchais, da Madame de Genlis ad una delle vittime del Terrore, Lavoisier, Laboisière e due «sconosciuti», un avvocato e un medico di cui solo alla fine verranno detti i nomi. La conversazione verte su Cagliostro, e su visioni, allucinazioni, sogni profetici. E l’avvocato Robespierre, fino a quel momento silenzioso, racconta il suo sogno premonitore: Caterina, giustificando la sua azione politica, e la notte di San Bartolomeo, gli ha predetto che la Rivoluzione è sempre in marcia, e che lui, Robespierre, potrà terminarla, anche nel sangue, perché la libertà politica, la tranquillità di una nazione, la stessa scienza sono dei doni per i quali il destino preleva imposte di sangue. Il medico Marat ha invece sognato di una coscia cancrenosa pullulante di animaletti, che egli perseguita con il suo bisturi, uccidendone un migliaio, e ferendosi alla fine al fianco. Se piuttosto convenzionale appare la descrizione dei due personaggi – Robespierre freddo e compassato in apparenza, ma animato da un fuoco interiore; Marat terreo, dai tratti ignobili e grandi insieme, espressione sinistra della «canaille» –, originale è questa rappresentazione dei due sogni (anche se pensiamo ad altri episodi del genere, premonitori e simbolici, dal «songe» della sanguinaria Athalie di Racine, in altro contesto, al «rêve» di Cazotte): l’accostamento Caterina-Robespierrc significa la difesa a tutti i costi dell’unità e dell’ordine dello Stato, mentre l’intervento chirurgico di Marat dà l’idea d’una purificazione necessaria, dolorosa, spietata, ma anche quella, tipica di Balzac, che una passione, un ideale anche grande e geniale, spinto alle ultime conseguenze (si tenga presente ad esempio la sua Recherche de l’Absolu), degenera in morte e distruzione. [...].

 

 

  Concetta Colosimo, H. De Balzac: la réalité bourgeoise dans «Eugénie Grandet». Tesi di Laurea. Relatore: Prof.ssa Chantal Chevalier Chambert, Università degli Studi della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno accademico 1992-1993.

 

 

  Giuseppina Colosimo, Balzac, l’ésotérisme et les sciences occultes: Ursule Mirouët. Tesi di Laurea. Relatore: Prof.ssa Chantal Chevalier Chambet, Università degli Studi della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno accademico 1992-1993.

 

 

  Giacomo Debenedetti, Verga e il naturalismo. Prefazione di Nino Borsellino, Milano, Garzanti Editore, 1993 («Gli elefanti. Saggi»).

 

 

  Andrea Del Lungo, Pour une poétique de l’incipit, «Poétique», Paris, 94, avril 1993, pp. 131-152.

 

  pp. 146-147. L’incipit balzacien, notre premier point de repère, mais aussi une référence obligée dans l’intertexte des formes d’ouverture, est en général riche en informations, dans le but de construire un univers fictionnel plein, connu et intelligible, qui fait du rapport causal et analogique son principe fondamental. Roland Barthes souligne très justement que le roman balzacien «s’ouvre sur un discours statique, longtemps synchronique, vaste concours immobile de données initiales que l’on appelle un tableau». Cette affirmation convient aux deux modèles d’incipit les plus répandus dans le roman balzacien: le début descriptif, à forte tension informative, et le début narratif «ponctuel», qui, à travers l’indication précise d’une date et d’un lieu, fixe dès la première ligne les points de départ spatio-temporels de l’histoire. Donc, même si certains incipit, chez Balzac, réalisent un passage plus progressif dans l’histoire (par exemple dans La Peau de chagrin), il semble vraiment que la catégorie du dynamique (et l’incipit in medias res) soit refusée par le roman balzacien qui de par son désir de complétude, vise en général à insérer les événements racontés dans un contexte historique, social, politique, économique, etc.

 

 

  Fabrizio Dentice, Rossini allo specchio, «la Repubblica», Roma, 17 ottobre 1993, p. 36.

 

  Ma a confortare Rossini in un sentimento di identificazione c’era un intero scaffale di letteratura, in cui, fra saggi, biografie ed elogi di autori variamente dotati od autorevoli (dall’abate Carpani, a un Eleuterio Pantologo, ad Andrea Mayer, a Charles Ernest Beulé) spiccavano i nomi di Stendhal e di Balzac. Del primo era uscita nel 1824 la Vie de Rossini. Di Balzac (che ancora nella Cousine Bette avrebbe chiamato Rossini “ce génie frère de Raphaël”) era uscita nel 1840 Massimilla Doni, romanzo di assonanze raffaellesche fin nel titolo, la cui trama è un pretesto per dibattiti sui rapporti fra l’amore spirituale e quello sensuale, nonché fra musica e pittura; al qual proposito non altri vengono chiamati in causa come possessori del Bello Stile che i due geni speculari di Rossini e di Raffaello. Con Balzac il vecchio Cigno aveva rapporti e dimestichezza. Stendhal, morto nel ʼ42, l’aveva appena conosciuto. Eppure nei suoi tardi anni, rivisitando con pensiero la propria vita, Rossini doveva sentirsi meglio inteso da lui che da ogni altro. Candidamente, nella sua biografia, Stendhal si era dichiarato “rossiniste de 1815” definendo così – a prescindere dalla ammirazione per gli esiti successivi – i confini di un paradiso di innocenza, freschezza, felicità e grazia inventiva che comprendeva La pietra del paragone, il Tancredi e L’italiana in Algeri e si chiudeva ancora prima del Barbiere. Era lo stesso giardino di delizie coltivato da Raffaello giovane, prima che anch’egli, come Rossini dopo il ʼ15, si espandesse con altri intenti. [...].

 

 

  Marco Diani, L’ossessione della forma: Balzac e l’iscrizione immateriale del denaro, in AA.VV., Nevrosi e follia nella letteratura moderna. Atti di seminario. Trento, maggio 1992, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni editore, 1993 («Biblioteca di cultura», 478), pp. 165-186.

 

  Cfr. 1991 e 1992.

 

 

  Silvia Di Paola, Ripubblicato il feroce e dissacrante Diario dei fratelli Goncourt. Quel rozzo di Balzac, «La Sicilia», Catania, Anno XLIX, N. 35, 5 Febbraio 1993, p. 31.

 

  Anno 1852: era «incorreggibile e asfissiante», nell’intimità umidiccia della sua vita privata si comportava ignobilmente, guardandosi intorno con gli occhi avidi e la rozza sensibilità di un ignorante, «zeppo di luoghi comuni, con una vanità da commesso viaggiatore», mentre nei momenti lavorativi era uno spettacolo il suo immancabile «stato di sonnambulismo». Per la cronaca l’insensibile, incolto, ignobile suddetto si chiamava Honoré de Balzac. [...].

 

 

  Francesco Fiorentino, Insegnamento e rivelazione. Stendhal e Balzac, in AA.VV., Realismo ed effetti di realtà nel romanzo dell'Ottocento, a cura di Francesco Fiorentino, Roma, Bulzoni editore, 1993 («I libro dell'Associazione Sigismondo Malatesta. Studi di letteratura comparata e teatro», 2), pp. 43-55.

 

  Il Seminario di Besançon costituisce per Julien Sorel la tappa fondamentale sulla strada che conduce da Verrière (sic) a Parigi: vi risiede per un anno, dal gennaio 1828 al gennaio dell’anno successivo. [...].

  Quello del Seminario è uno spazio claustrofilico, dove vigono codici severi e un controllo serrato, dove le azioni «minime» presentano la più grande importanza, dove s’impone la ripetizione. Ebbene queste caratteristiche del Seminario sono per eccellenza quelle dello spazio narrativo del romanzo realista.

  In un saggio pubblicato nel numero 2 dell’«Asino d’oro» (1990), ho provato a mostrare come anche l’ambientazione provinciale risponda a questo scopo. In particolare nell’universo narrativo della Comédie humaine, il ricorrentissimo sfondo provinciale – chiuso, controllato e ripetitivo – costituisce uno spazio funzionale alla narrazione realista. E sempre in quel saggio, ipotizzavo che una funzione analoga a quella della provincia sarebbe stata svolta, sempre nella Comédie humaine, dalla mondanità parigina. Entrambe, sia la provincia che la mondanità, avrebbero consentito a Balzac quanto un secolo prima aveva consentito la corte a Saint-Simon: la certezza dell'importanza del dettaglio, l’enfasi sull’evento miniaturizzato, la possibilità di rendere tutto significativo. Ne Le Rouge et le Noir, avviene evidentemente la stessa cosa: all’ambiente provinciale (Verrières) e a quello mondano (l’Hôtel de La Mole) si aggiunge appunto il Seminario che, in quanto luogo concentrazionario, sembra moltiplicare queste caratteristiche.

  Tutti questi spazi dalle prerogative simili sono attraversati da un giovane protagonista in formazione. Il compito che adesso mi prefiggo è quello di mostrare secondo quali modalità diverse in Stendhal e in Balzac il giovane eroe si relaziona a questo spazio e ai suoi valori. [...].

 

 

  N.[icoletta] F.[rola], Balzac Honoré de, in Storia della civiltà letteraria francese, diretta da Lionello Sozzi. Dizionario cronologico, Torino, U.T.E.T., 1993, pp. 30-32.

 

  Romanziere (Tours 1799-Parigi 1850). Borghese d’origine, com i suoi primi studi nella città natale, al collegio oratoriano di Vendôme; trasferitosi coi genitori a Parigi nel 1814, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza e fu apprendista presso uno studio legale ma, intorno ai vent’anni, abbandonò la carriera alla quale lo destinava la famiglia per dedicarsi all’attività letteraria. Dopo un primo fallimentare tentativo teatrale, pubblicò sotto gli pseudonimi di Lord R’hoone e Horace de Saint-Aubin romanzi «neri» e sentimentali che, pur mancando di originalità, furono un prezioso esercizio di scrittura; con queste opere commerciali, su cui B. stesso esprimerà un giudizio negativo, ebbe inizio la sua produzione letteraria, che fu sempre subordinata a vere e proprie impellenze economiche. Amareggiato da numerosi insuccessi, B. tentò diverse imprese d’affari (dapprima editore, acquistò poi una tipografia in Rue Visconti) che ebbero tuttavia esito disastroso e lo indebitarono gravemente. Trascorse quindi anni di attività frenetica, caratterizzati da intensi legami: ebbe, tra l’altro, una relazione con Laure de Berny, che lo introdusse nella società aristocratica e non mancò di offrirgli appoggio finanziario. Riprese dunque a scrivere — ma questa volta con successo —: nel 1829 pubblicò un romanzo storico alla maniera di W. Scott, Les Chouans, e sollevò scandalo con La Physiologie du mariage; l’anno successivo apparve una serie di novelle. A partire da questa data, i romanzi si succederanno ad un ritmo vertiginoso: del 1831 è La Peau de chagrin, lungo acconto fantastico che inaugurò la serie delle «Etudes philosophiques»; rispettivamente nel 1833 e nel 1834 furono poi dati alle stampe due indiscussi capolavori del realismo balzacchiano, Eugénie Grandet e La (sic) Père Goriot. n quest’ultimo romanzo l’autore utilizzò la tecnica del ritorno dei personaggi che, sistematizzata, darà luogo a quella ambiziosa costruzione unitaria che è La Comédie Humaine. Parallelamente alla infaticabile produzione romanzesca, B. fu attivo in campo giornalistico, fondò e diresse numerose riviste parigine (tra le quali il «Feuilleton», la «Chronique de Paris», la «Revue Parisienne»); nel frattempo condusse una vita intensa e mondana: furono, peraltro, anni di enormi spese, in cui B., lanciatosi in ulteriori speculazioni rovinose, dovette fuggire i creditori. Pensò anche di intraprendere la carriera politica: attratto in un primo momento dall’ideologia liberale, la ripudiò dopo il 1830, facendosi sostenitore del cattolicesimo e della dottrina legittimista. Nel 1833 cominciò la sua corrispondenza con la nobile M.me Hanska, un’ammiratrice polacca che gli scriveva sotto lo pseudonimo di «l’Etrangère» e che egli raggiungerà più tardi in Svizzera, Sassonia e Russia. Nel 1842 pubblicò il primo volume della Comédie Humaine, preceduto da un testo teorico capitale, l’Avant-propos: in esso B. affermava di voler studiare la società secondo parametri rigorosi, ispirati al metodo del naturalista Geoffroy-Saint-Hilaire. La gigantesca opera (il cui diciassettesimo ed ultimo volume uscì nel 1848) è divisa in tre sezioni (Etudes de moeurs, Etudes philosophiques e Etudes analytiques) ed include, oltre ai già citati, i più famosi romanzi di Balzac. Questi scrisse anche per il teatro (da cui sempre si sentì attratto), ma senza grande successo. Ormai ricco e celebre, nel 1850 — durante un soggiorno in Ucraina —, potè infine sposare M.me Hanska; rientrò quindi a Parigi ma, estenuato per il troppo lavoro, morì il 18 agosto dello stesso anno, dopo aver ricevuto in extremis la visita di V. Hugo. [...].

 

 

  A. G., Affresco di vita ottocentesca, «Il Mondo», 1 febbraio 1993, p. 97.

 

 

  Daria Galateria, E Balzac creò Parigi, «la Repubblica», Roma, 18 settembre 1993, pp. 32-33; ill.

 

  L’autore della “Comédie humaine” fece della capitale francese il luogo di tutte le avventure in cui ci si perde come nelle foreste. Amava i quartieri nuovi e le passeggiate alla moda sui Boulevards.

 

  «I nomi», tuonava Balzac, tagliando a gran passi il boulevard Montmartre «non si inventano, così come non si crea il granito, la fluorite, il carbon fossile, il marmo. Sono l’opera del tempo, delle rivoluzioni. Un nome non si crea, come non si crea una lingua. Si fa da solo. Non resta che trovarlo».

  Il suo amico Gozlan era senza fiato; camminavano da ore, la testa rovesciata all’indietro come ciechi, urtando i passanti allibiti. Balzac aveva appena inventato un personaggio eccezionale, e restava da trovargli il nome. Le insegne di Parigi, che avviluppavano le vie «come le bende una mummia», erano una miniera di nomi pieni di cattivi istinti o profumati del muschio della virtù, pronti a incarnare briganti da teatro o figure comiche da vaudeville; ma nessuno aveva abbastanza fisionomia per l’eroe eccezionale di Balzac.

  Tra ciabattini della Westfalia e sellai ungheresi, avanzarono fino a place des Victoires, tempestata di magnifici nomi alsaziani che «facevano venire il Reno alla bocca». Ma solo a rue du Bouloi Balzac rimase in adorazione davanti a un nome che esprimeva esattamente il grado di genio superiore incarnato dal suo personaggio. «E’ un sarto», obiettò Gozlan. «Meritava una sorte migliore», sentenziò Balzac; «non importa! Lo renderò immortale». Il giorno seguente, sulla «Revue parisienne», Z. Marcas entrava nella storia. Da Parigi, Balzac non prendeva solo i nomi; in cambio, la rendeva leggendaria. In un saggio del 1937, Roger Caillois pensava al mito di Parigi. Possente e enigmatico come tutti i miti moderni, lo aveva creato Balzac. Parigi diventa nella Comédie humaine il luogo di tutte le avventure, in cui ci si perde come nelle foreste di Fenimore Cooper, l’autore dell’Ultimo dei Mohicani; il romanzo giallo comincia lì a acclimatarsi all’intrico della città moderna.

  Dopo la Comédie, le opere che portano nel titolo Parigi si moltiplicano a centinaia. Caillois osservava che la celebre sfida di Lucien de Rubempré a Parigi, dall’alto del cimitero di Père Lachaise: «E ora, a noi due!», era in fondo indimenticabile proprio per la sua innaturale concisione: gli eroi di Ponson du Terrail o di Armand de Kergaz erano ben altrimenti eloquenti nelle loro tirate, in cui Parigi non compariva se non come «moderna Babilonia» (ora il saggio di Caillois apre un’antologia di testi balzacchiani, A Paris!, Complexe, pagg. 143, franchi 49).

  Comunicante con gli Inferi, il mito di Parigi ha un rapporto privilegiato con il tempo. La storia vi si salda con la leggenda, la moda con l’eterno. Durante l’insurrezione di giugno, la maggior parte dei rivoltosi arrestati era stata portata nelle gallerie sotterranee che corrono lungo Parigi; il freddo era così intenso che si sopravviveva correndo o agitando le braccia. I prigionieri avevano dato alle gallerie i nomi delle strade sovrastanti, e si scambiavano gli indirizzi. Da allora, a ogni moto rivoluzionario, nascevano voci inquietanti sulle catacombe; del resto, già all’epoca della fuga di Varennes di Luigi XVI, si era dato ordine di perquisire i sotterranei di Parigi. Anche i camerieri del Cafè de Paris chiamavano i meandri delle cantine à champagne con i nomi delle vie. Nei Mohicans de Paris, Dumas trema agli orrori delle segrete della città, ma è Hugo a coronare in mito le fogne, appena riformate dal barone Haussmann.

  Quando il prefetto Haussmann trasforma Parigi in un immenso cantiere, ci si sforza di eternare la città che cambia «più velocemente del cuore di un mortale». Maxime Du Camp, l’amico di Flaubert che partecipò all' impresa dei Mille, mentre l’ottico che lo aveva trovato presbite gli preparava le lenti, girò per Parigi, «colpito dall’età»; e decise di scrivere il suo bellissimo monumento a Parigi. Le impalcature sembravano rovine. Solo la memoria poteva fermare una città convulsamente dedita alla moda e alle trasformazioni, e perennemente in pericolo di sparire dalla faccia del mondo. Il Café Turc, aveva detto Balzac, passeggiando per il boulevard, sta alla Moda come le rovine di Tebe alla civiltà.

  Di tutte le Parigi possibili infatti – le mille Parigi di Balzac sono ora amorosamente ripercorse in un sontuoso volume, costellato di incantevoli stampe e piantine d’epoca, da Lorenzo Caracciolo e Giovanna Sagona, Lo spirito della città nella Parigi di Balzac, (Sellerio, pagg. 339, L. 50.000) – Balzac preferiva il quartiere più recente, la Chaussé-d’Antin dei nuovi ricchi, e la passeggiata più alla moda, i Boulevards.

  «Ogni capitale ha il suo poema. I Boulevards sono oggi per Parigi quello che il Gran Canale è stato per Venezia». I Boulevards hanno le loro malinconie, conoscono forse momenti casti; ma vanno in scena nelle ore di tumulto, quando i passanti recitano il coro della tragedia antica, le carrozze sono così affastellate che si perde la certezza di essere a piedi, e gli edifici sono racconti delle Mille e una notte. C’è il palazzo costruito apposta per togliere la vista dei giardini al maresciallo di Richelieu, il più grande libertino dei tempi della dolcezza del vivere.

  I bicipiti leggendari del fondatore del Jockey Club, lord Seymour, venivano tenuti in forma nelle sue tre sale d’armi prospicienti il boulevard; epitome del dandysmo inglese, lord Seymour non aveva mai messo piede in Albione; faceva la boxe sempre freddo e accigliato, ma si mormorava che avesse buon cuore. Sua madre, lady Hertford, era figlia di una ballerina e di «Old Q» il duca di Queensbury o di George Selwyn, e nell’incertezza aveva ereditato da entrambi; così qualche volta dimenticava perfino di chiedere il sontuoso affitto al Café de Paris, dal 1822 ospitato al primo piano del suo palazzo. Al centro della sala rotonda del Café de Paris, si rifletteva negli specchi la vasca da bagno di malachite rimasta dal precedente locatario, il principe russo Demidoff, che teneva a sua disposizione in un suo palazzo di Firenze un’intera troupe di attori italiani. Balzac fece di Vautrin – il forzato divenuto capo della polizia, come nella realtà era accaduto a Vidocq – uno degli habitués del Café de Paris; nella vita vi incontrava Gautier, Stendhal e Alfred de Musset, che non era riuscito a entrare al Jockey club, e, completamente ubriaco, restava in piedi, «dritto come un garofano».

  Nel giro di pochi metri, sorgevano dieci teatri; in quello che dava il nome a quel tratto di Boulevard, il Théâtre des Italiens, potevano andare anche le ragazze: Balzac vi ambienta la dichiarazione di Louise de Chaulieu al barone de Macumer. Le grandi dame prendevano nel chiuso della carrozza i gelati, specie quelli famosissimi di Tortoni, frequentato dai finanzieri – «la prefazione e il finale della Borsa», lamenta Balzac, che nei romanzi colloca in una parallela il ricco e delicato palazzo del banchiere il barone de Nucingen, e nasconde in una laterale la garçonnière preparata dal buon cuore di papà Goriot per gli amori di sua figlia, moglie del barone, con l’avventuriero Rastignac.

  Ogni metro è un mondo; ma è alla moda beninteso solo il lato dei numeri pari, dove chiunque per un momento può credersi ricco, e pieno di spirito. Sull’altro lato, e verso la Madeleine, c’è la più curiosa delle tante redazioni del quartiere: il Voleur, che riproduce articoli rubati a altre testate; Balzac vi collabora con articoli sulla città – prima di lottare per la difesa della proprietà letteraria. Lo ha fondato nel 1828 – in quegli anni eroici in cui i giornali fanno le rivoluzioni, e vendono pubblicando romanzi a puntate – il creatore della stampa moderna, Emile de Girardin, di larghe vedute anche nel privato; una volta aveva aperto la porta a uno spasimante della moglie, avvisandolo che la avrebbe trovata in salotto con un signore «molto geloso». Una volta che avete messo piede nei Boulevards, assicura Balzac, la vostra giornata è perduta, se siete un uomo di pensiero.



  Maurizio Giuffredi, Variazioni sul tema. Semiotica degli affetti, «L’Indice dei libri del mese», Torino, N. 10, Novembre 1993, p. 27.

 

  “Carico come un botanico che ... ha raccolto tante erbe da essere costretto a darle alla prima mucca che incontra”. Così si sentiva il vorace esploratore Honoré de Balzac dopo aver passato un’intera giornata non in aperta campagna ma nel cuore di Parigi, seduto all’angolo di un affollato boulevard ad archiviare osservazioni sul modo di camminare dei passanti. Dall’elaborazione di questo materiale nacque Teoria dell’andatura, un testo piuttosto anomalo per l’insolito avvicendamento di ardue considerazioni filosofiche, abbozzi caricaturali, segreti riferimenti all’esoterismo. Ora pubblicato nella versione italiana in Patologia della vita sociale (Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 149. Lit. 22.000) come l’aveva pensato Balzac – cioè preceduto dal Trattato della vita elegante e seguito dal Trattato degli eccitanti moderni — il breve scritto sembrerebbe possedere tutti i requisiti del trattato di fisiognomica. Affermando la scientificità dell’approccio intuitivo al volto umano, Balzac si allinea alle premesse del pastore di Zurigo Johann Raspar Lavater, autore dei celebri Frammenti di fisiognomica, giudicati appunto “opera magnifica”. Questioni nodali della fisiognomica, come i lapsus e la comparazione tra l’uomo e l’animale, vengono costantemente ricondotte al problema tipico di conciliare ragionamento e intuizione, compilazione di un codice e illuminazione improvvisa, con le parole di Balzac: “cifra” e “abisso”. Il fisionomo deve sapersi muovere con audacia tra un estremo e l’altro, tra la “squadra dello studioso e la vertigine del folle”. Ma è proprio in questo difficile equilibrio che si fa avanti il dubbio. Quale studioso potrà infatti pretendere di misurare l’infinita complessità? Chi può garantire la giustezza di un’intuizione che, riorganizzando in un lampo il sapere sepolto in noi, ci fa leggere un vizio nell’impercettibile fremito del labbro altrui? Balzac recita la parte del fisionomo ma contemporaneamente elabora una critica radicale della fisiognomica, individuando il paradosso di un metodo che spende ogni sua forza cercando di decifrare il nulla. Come ha notato Franco Rella (nella precedente edizione del saggio in Honoré de Balzac, Teoria dell’andatura, Cluva, Venezia, 1986, pp. 81), questi riens di cui è disseminata l’opera ne scoprono infine la dimensione tragica. E con un’inquietante sfumatura ironica che non risparmia neppure se stesso, Balzac scrive nella pagina conclusiva: “Nulla sarà la perenne epigrafe dei nostri tentativi scientifici”.

 

 

  Giuliano Gramigna, Torna «Sarrasine» di Balzac. Che voce d’angelo (ma è un castrato), «Corriere della Sera», Milano, 25 febbraio 1993, p. 32; 1 ill.

 

  La trentina di pagine del racconto di Balzac Sarrasine vanno a infilarsi «come segnalibro o segnale» (per dirla con Jean Reboul) nella massa dei romanzi della «Commedia umana»: nel caso, fra le «Scènes de la vie parisienne».

  Sono racconti dove Balzac, svincolato al suo arbitrio visionario e costruttivo dal genere «breve», tocca spesso i suoi punti più alti: penso a Una passione nel deserto, a El verdugo e naturalmente a questo Sarrasine, ora in versione italiana per cura di Rosanna Farinazzo.

  E’ la storia del giovane scultore di talento Ernest-Jean Sarrasine, che alla metà del Settecento capita a Roma per perfezionarsi nella sua arte, e qui s’innamora follemente di una cantatrice famosa, la Zambinella, che però non è una donna ma un castrato, secondo un uso del mondo musicale, mantenutosi fino al XVIII secolo. La Zambinella, lungi dall’essere il «canoro elefante» esecrato da Parini, è un vero Adone in abito femminile. Sarrasine si accorge troppo tardi dell’errore cui l’ha indotto la passione, e viene ucciso per ordine del cardinal-protettore della, o del, cantante (il gioco grammaticale dei generi ha la sua incidenza nel racconto).

  Favola, è il caso di dirlo —, mirabilmente, incredibile malgrado la base storico-sociale, e straordinariamente moderna; forse al di là delle intenzioni. Sarrasine è stato recuperato all’attenzione, anzi al fasto critico, dei contemporanei da Roland Barthes, che nel 1970 vi ha costruito intorno un grosso volume ermeneutico, S/Z, a sua volta monstrum di analisi d’altissima qualità, che smonta il racconto frase per frase e lo ricostituisce in un nuovo «spazio stereografico» della scrittura.

  Quel monstrum barthesiano ha il pregio supplementare di esonerare i recensori di Sarrasine da qualsiasi chiosa ulteriore in materia di voci, registri, codici etc. lasciando così via libera all’immediato piacere del testo di Balzac nella sua compattezza.

  Come, per esempio, L’albergo rosso, Sarrasine è un racconto dentro il racconto. La cornice è costituita dal ballo in casa dei Lanty, ricchissima famiglia parigina. L’apparizione di un lemure centenario, un Nosferatu casalingo, agghiaccia e incuriosisce una giovane dama, la marchesa di Rochefine (sic), alla quale il narratore, per una specie di patto amoroso, racconterà la storia di Sarrasine e della Zambinella, visto che il lemure non è altri che la Zambinella invecchiata, il cui patrimonio è alla base dello splendore dei Lanty.

  Racconto doppio, o meglio inscatolato, al cui centro sta ovviamente la castrazione. Ma, cosa notabile, questa parola non viene mai pronunciata dal testo, e non certo per ossequio di Balzac alle convenzioni del suo pubblico. Sta di fatto che la castrazione è, letteralmente, indicibile; è il sintagma distruttivo di cui la scrittura ha orrore.

  Così la sua presenza catastrofica è deferita, nel racconto, a sotterfugi grammaticali, come la comparsa, nelle ultime pagine, di articoli e aggettivi al maschile per la Zambinella; o l’incorporazione, nel nome dello sventurato protagonista, della e terminale, che in francese vale solitamente come contrassegno del femminile: quasi che la femminilità, fittizia o fabbricata nella Zambinella, sia passata nello scultore per effetto castratorio inverso. La mutilazione, insieme reale e simbolica, migra di continuo dall’uno all’altro: Sarrasine è idealmente castrato dalla Zambinella, ma anche il narratore lo è, nelle sue speranze amorose, da madame di Rochefide, sua ascoltatrice.

  Un’intuizione balzacchiana è quella del castrato come «macchina casuale», «creatura artificiale». Ma che cosa si contrappone all’«artificio»: la passione sfrenata? Balzac non «eccede» come si dice: è l’eccesso stesso; di qui uno stile che sembrava a Proust «uno stile a venire» ... Sarrasine è un gran punto interrogativo: che cosa vuole la Zambinella? Ma la Zambinella è un artificio che non può rispondere.»

  Honoré de Balzac, Sarrasine, ES editore, pagine 71, lire 12.000.

 

 

  Edoardo Guglielmi, Rileggendo «Pelle di zigrino» di Balzac. La commedia umana tra volontà e destino, «Giornale di Brescia», Brescia, 12 giugno 1993, p. 3.

 

  In Pelle di zigrino, il lungo racconto di Honoré de Balzac sui rapporti misteriosi fra volontà e destino, i colori dominanti (come spesso in Delacroix, come nelle Nuits d’été di Berlioz e Gautier) sono il rosso e l’oro. Le pagine di Balzac hanno poi un estro febbrile, un oscuro fuoco, anche un margine d’incompiutezza, e infine sembrano cupamente remote, come se l’autore della Comédie humaine ai ritraesse dalla vita.

  Nel rileggere Pelle di zigrino si può tornare a uno scrittore che non ebbe mai il riconoscimento dell’Académie, a uno scrittore lungamente trascurato dalla critica italiana, anche se in qualche caso si è voluto associarlo, tramite György Lukàcs, alle fortune del grande realismo. Libro-chiave di Balzac, primo degli «Studi filosofici» (ma non è facile stabilire quel che un uomo come Balzac intendesse per «filosofia»!), Pelle di zigrino esige un’interrogazione senza confini, ben oltre l’imperiosa prodiganti di una natura a cui forse manca, suggeriva Vittorio Lugli, «il dono supremo».

  Gli eroi della visionarietà e della ricerca dell’assoluto, il senso della perdizione e dell’abbandono. A volte i romanzi di Balzac sono troppo gravati di ambizioni e di una meticolosa, puntigliosa strategia descrittiva, ma in Pelle di zigrino – itinerario magico di una vita che si strugge alla fiamma dei desideri – il lungo viaggio verso la morte ci affida tutta la sua vertigine.

  Dobbiamo notare gli influssi di Hoffamnn, i riferimenti al Faust, e riconoscere Delacroix alla festa del banchiere Taillerfer (sic) e magari Olympie (sic) Pélissier, modella di Horace Vernet e futura moglie di Rossini, nel personaggio frustrante di Fedora, la «donna senza cuore», dagli occhi «foderati come una lamina di metallo» (ma Balzac frequentò la Pélissier anche dopo la pubblicazione del racconto).

  C’è la vasta pittura di una società, di un universo vivissimo, tumultuoso, al tempo della monarchia borghese di Luigi Filippo, e le passioni si accompagnano all’ansia del successo; amore e ricchezza svolgono ruoli complementari, il faustiano mondo dell’anima si allaccia ai caratteri del mondo moderno, alla totalità del vero. Alcune pagine serbano traccia di un impulso romantico volto all’insondabile, all’indefinito, nel rapporto, con me (sic) nel l’Empedocle di Hölderlin (sic), fra la forma e l’elemento astratto, illimitato, che è nella natura.

  Possiamo infine, con Baudelaire, ritrovare in questa Pelle di zigrino l’ardente foga di un Balzac «visionario appassionato», una sontuosa qualità di linguaggio che dona tutti i frutti possibili e difende la propria libertà fino all’estremo. Anche le ombre sono modellate in figure, anche la realtà di ogni giorno ha una sua sinistra grandiosità.

  In un altro degli «Studi filosofici», il capolavoro sconosciuto, si riaffaccia l’ardore indicato da Baudelaire in Balzac come nel prediletto Delacroix. E di sangue in comune, fra Balzac e Delcroix (sic), doveva esserci ben più di una goccia. Si tratta di un racconto romantico, ove la procellosa forza del Balzac in zimarra bianca (notturno e assiduo descrittore degli inferni di Parigi, della religione del profitto, del prevalere del materialismo nella concezione della vita) sembra tendere a una più sottile misura.

  Il tema del rapporto fra arte e vita, dell’impotenza dell’arte di fronte alla vita, è al centro di queste pagine, che non conoscono l’avvio lento e minuzioso di molte opere balzachiane (si pensa al frondoso preambolo e a certi fondali neogotici della Ragazza dagli occhi d’oro) né la meccanicità di passioni e situazioni spesso rimproverata al fluviale scrittore di Tours.

  In Balzac, come in Zola, lo smisurato è a volte la qualità primaria. E invece nel Capolavoro sconosciuto, parabole (sic) audace e fatale, l’impetuosa dissipazione balzachiana cede a una serrata essenzialità. Il conflitto arte-vita trova una piena, avvincente figurazione nel rapporto fra Frenhofer – il lusso di cogliere il fremito della vita! – e la sua creatura dipinta, la Belle Noiseuse, veicolo imperfetto dell’Idea.

  Si coglie certo una contrapposizione fra questo Balzac di timbro romantico (nel Capolavoro sconosciuto la trama sociologica è ridotta al minimo) e il Balzac «sociale» esaltato da alcune ali della critica internazionale d’ispirazione marxista. Il Balzac radicato nella Storia. È l’infinito anelito faustiano a proporsi in questo «studio filosofico» quale principio creatore, ad assorbire e a trasfigurare tutto il reale.

 

 

  Jeannine Guichardet, Poètes balzaciens, poésie balzacienne, «Studi Francesi. Rivista quadrimestrale», Torino, 110, Anno XXXVII, fascicolo II, maggio-agosto 1993, pp. 301-311.

 

  Souvent […] j’ai accompli de délicieux voyages, embarqué sur un mot [...] comme l’insecte qui pose sur quelque brin d’herbe flotte au gré du fleuve [...] Quel beau livre ne composerait-on pas en racontant la vie et les aventures d’un mot?

 

  Ce rêveur de mots c’est Louis Lambert auquel Balzac prête, dès 1832, ses années d’enfance et de jeunesse incomprises. Louis Lambert penseur génial et poète meurtri qui trouve en lui «des textes à développer», doué «d’énormes facultés [mais] sans pouvoir en user». Son créateur le fait mourir fou, à 28 ans en 1824 et l’ensevelit au coeur d’une île dans un tombeau sans nom et sans date […]. Soit, mais de la créature au créateur «les parfums et les sons se répondent» et les textes scellés à jamais dans l’«immense cerveau» déréglé de son double, c’est au poète Balzac qu’il appartiendra de les développer peu à peu dans le temps et l’espace de La Comédie humaine.

  C’est donc à un itinéraire en Balzacie poétique que je voudrais vous inviter aujourd’hui, en m’efforçant de faire apparaître un visage de Balzac trop souvent méconnu.

  Notre première étape nous conduira vers «la cueillaison d’un rêve»: celui d’être poète au sens étroit du terme en composant des vers tout comme Chénier ou Lamartine dont l’influence se fait nettement sentir en de premiers essais dont nous avons gardé la trace. Trace qu’on peut suivre jusqu’au coeur des Illusions perdues (ponctuées par les sonnets de Lucien de Rubempré) alors que depuis longtemps déjà, en terreau différent les fruits ont passé «la promesse des fleurs» comme nous le verrons dans la seconde étape de notre réflexion. La dernière tentera de mettre en évidence après avoir congédié «les fantômes du miroir», les « Correspondances » – au sens déjà baudelairien du terme – qui nimbent les plus beaux fragments de l’édifice balzacien tel qu’en lui-même enfin le poète – au sens large cette fois – nous le lègue en son inachèvement perpétuel. […].

 

 

  Hugo von Hofmannsthal, «La fanciulla dagli occhi d’oro», in Honoré de Balzac, La Fille aux yeux d’or ... cit., pp. 189-191.

 

  Cfr. 1958.

 

 

  Christofer Isherwood, Addio a Balzac, in Mr. Norris se ne va. Presentazione di Mario Fortunato, Torino, Einaudi, 1993, pp. 226-233.

 

 

  Henry James, La lezione di Balzac. Traduzione di Luisa Villa, in La lezione dei maestri. Il romanzo francese dell’Ottocento. A cura di Giovanna Mochi, Torino, Giulio Einaudi editore, 1993 («Gli Struzzi», 452), pp. 359-393.

 

 

  Emanuele Kanceff, Francesi a Torino dal Rinascimento al Romanticismo, in Poliopticon italiano, Genève, Editions Slatkine, 1993 («Biblioteca del viaggio in Italia. Studi», 48), Vol. I, pp. 290-359.

 

 

  Carlo Laurenzi, Honoré de Balzac racconta un ambiguo e crudele amore tra Roma e Parigi. Sarrasine ingannato, «il Giornale-Lettere e Arti», Milano, 4 aprile 1993, p. VI.

 

  A Sarrasine, splendido e inconsueto racconto, Roland Barthes ha dedicato nel 1970 X/Z (sic), il più lambiccato dei saggi cioè, per usare le sue parole, una «micro psicoanalisi semiologica» da cui ogni contatto con l’arte di Balzac risulta eluso o piuttosto bandito. Rammento con pena l’agitarsi di Barthes sugli aspetti formalistici del racconto e il suo silenzio se affiorava dalle tortuosità semiotiche la presenza mortificata della poesia. Alla Nouvelle Critique, sulla quale Barthes imperò, interessavano i codici, i sottocodici, le demoltiplicazioni, le omologie fonetiche, i fili azionali e simbolici mentre i «pregiudizi scolastici» (il piano di un’opera, i personaggi, lo stile) venivano ignorati quasi che lo scopo della critica non consista nel riconoscere appunto la poesia servendosi fra l’altro dell’esame di quei pregiudizi. In X/Z Barthes fa una qualche confusione fra testi «leggibili» e «scrivibili» senza giungere a stabilire se Sarrasine appartenga all’una o all’altra categoria, e nemmeno se lo «scrivibile» valga più o meno del «leggibile». Nello «scrivibile», decreta Barthes, il lettore diventa un «produttore del testo» il che gli consente di accedere completamente alla «magia del significante»; ma subito dopo ecco una postilla che ci inquieta: «Ogni testo leggibile noi lo definiamo classico». E allora?

  Ammetto che questa digressione su Barthes mi sta forzando la mano; però la moda strutturalistica di venti-trent’anni orsono ci ha troppo ferito e soprattutto troppo annoiato perché rinunciamo a esternare un disaccordo che non si placa. Rimane, in Barthes, una vocazione di narratore tradita o comunque mancata, le cui tracce non smettono di intrigarci; e si pensa in primo luogo a Miti d’oggi, un libro che comunica a chi legge la sensazione illusoria di scoprirsi intelligente all’improvviso. Un’ultima annotazione Barthes derivò da Georges Bataille il suo interesse particolare per Sarrasine, il quale Bataille aveva definito Sarrasine «un racconto che rivela la possibilità della vita e insieme rivela un momento di rabbia senza di cui l’autore sarebbe rimasto cieco su tale possibilità eccessiva». Questo era Bataille, uomo tormentato, artista di talento ma commentatore irritante, schematico e oscuro.

  A questo punto il lettore, deluso da troppe chiacchiere, fronteggerà infine da solo l’incandescenza balzachiana: Balzac, in un salotto della Parigi 1830, prepara pazientemente – attraverso una serie di deviazioni, di ritardi, di osservazioni concentriche – il manifestarsi di un suo «mostro» al cui orrore non servono i colpi di scena né le suggestioni del romanzo gotico. La lucidità visionaria consente a Balzac un approccio «normale» al mistero. «Lo strano personaggio» scrive Balzac con una reticenza della quale capiremo il motivo «era un uomo». Si attribuisce a costui un’età innumerevole e magari l’immortalità, come a Cagliostro, mentre è «semplicemente un vecchio», ma un vecchio che sembra catapultato in salotto da un meccanismo teatrale. I suoi movimenti sono gelidi e tardi, simili a quelli di un paralitico. La voce ricorda il tonfo di una pietra che cada nel fondo di un pozzo o anche il verso della raganella. Gli occhi, paragonabili a madreperla appannata, non hanno colore; gli abiti sono sontuosi ma, sul gramo telaio di quel morto vivente, miserabili. Dominano il bianco e l’oro in ossequio a una vanità settecentesca, gioielli a profusione agghindano quella «macchina casuale», il cranio cadaverico è coperto via da un’abbagliante parrucca bionda. Quest’uomo, moltissimi anni prima, era stato (era apparso) la donna più affascinante di Roma: il giovane scultore francese Ernest-Jean Sarrasine. allievo di Edme Bouchardon, ne sarà folgorato fino al segno estremo di sacrificargli la vita.

  L’incantevole Zambinella, «primadonna» al teatro Argentina e compendio di tutto (sic) le grazie, è un eunuco: «Da dove venite?», chiede a Sarrasine il principe Chigi in un ricevimento all’ambasciata di Francia. «È mai salita una donna sui palcoscenici di Roma? E non sapete quali creature fanno le parti femminili negli Stati Pontifici?» Sarrasine, ovviamente, è «come colpito dal fulmine» Soffrirà, cercherà di illudersi, rievocherà i festini e una magica gita notturna a Frascati quando gli parve che quell’essere angelico (ancorché «debole e superstizioso») ricambiasse il suo ardore; tuttavia c’erano state da parte di Zambinella ammissioni eloquenti: «Per me il mondo è deserto. Sono una creatura maledetta, condannata a comprendere la felicità, desiderarla ma costretta a vedermela sfuggire ogni momento. Io non ho cuore»

  La parabola affonda nella tragedia. Esasperato, Sarrasine alza la spada sull’eunuco ma i bravi del cardinale Cicognara, protettore di Zambinella, lo trafiggono: «È un servizio degno di un cristiano» mormora il francese spirando. Zambinella invecchierà nella ricchezza e nella vergogna, onorata e adulata dalla famiglia Lanty, i suoi scaltri eredi parigini Nessuna «metacritica» varrà ad offuscare un racconto sapiente di cui, nonostante la complessità dei registri, si potrebbe ripetere che «si tiene su da solo per la forza intrinseca dell’arte come la Terra si regge in aria senza necessità di sostegno».

  Honoré de Balzac, «Sarrasine», trad. di Rosanna Farinazzo, con uno scritto di Jean Reboul, ES, pp.72. lire 12.000

 

 

  Giovanni Macchia, Libertini di gran carriera, «Corriere della Sera», Milano, 28 novembre 1993.

 

  [...]. Ma bisogna superare il quindicennio 1740-1755, il quindicennio della produzione più sfrenata cui si sottoposero i romanzieri libertini, per incontrare molti anni dopo un piccolo capolavoro, Point de lendemain del barone Vivant Denon, pubblicato nel 1777 e ristampato nel 1812. E non meraviglia, per un libro stampato in quella data, che uno dei suoi primi lettori sia stato Balzac.

  Nelle «meditazioni» della Physiologie du mariage Balzac intendeva illustrare i principi strategici messi in azione in un’epoca come quella del Settecento in cui la donna, grazie anche agli scrittori che abbiamo ricordato, aveva raggiunto un alto grado di perfezione viziosa. È l’infinito capitolo delle astuzie femminili. E su quel tema si riversa l’attenzione dei commensali alla fine di un pranzo per pochi, offerto dal principe Lebrun, traduttore di Omero e del Tasso, e insieme arcitesoriere di Francia sotto Napoleone.

  Un vecchio signore, amabile artista — racconta Balzac — amico dell’Imperatore, sosteneva vigorosamente l’opinione poco virile che nessun uomo può resistere alle trame ordite da una donna. Scandalo delle signore presenti. E il prudente commensale per farle tacere prende dalle sue tasche un libretto. Stabilitosi un grande silenzio, comincia a leggere.

  Si tratta della storia dovuta, secondo Balzac, alla penna maliziosa e arguta di uno scrittore del Settecento oggi quasi del tutto dimenticato: Joseph Dorat, l’autore dei Baisers.

  E’ l’avventura di un giovane innamorato di un’avvenente contessa, e che una sera, trovandosi solo a teatro, viene invitato da una signora, amica della contessa (donna, è detto, scrupolosamente devota alla propria dignità), a seguirla durante tutta una notte. La storia è il racconto minuzioso e indeciso di questa notte di sogno. L’arrivo in un castello sulle rive della Senna, l’incontro con il marito da cui la signora vive separata (e che poi discretamente s’allontana), e la lunga passeggiata sotto la luna che è come l’iniziazione, in una serie di piccole tappe, con discorsi che vengono sempre troncati e ripresi, al rito amoroso che si svolgerà in un’alcova profumata. All’alba il giovane saprà che il suo arrivo nel castello era stato combinato dall’amante della signora. La signora aveva spinto quell’avventura verso una conclusione che l’amante non aveva previsto. Era stata lei a creare quell’indimenticabile notte d’amore. L’amante ignora e ringrazia il giovane amico. Tutto ritorna come prima. Il giovane al mattino parte dal castello. Point de lendemain.

  L’autore non era dunque Dorat (che fu nel 1777 soltanto l’editore del racconto) ma il barone Vivant Denon, conosciuto come scrittore di libri di viaggio in Sicilia (dove si legge un accenno alla Villa del Principe di Palagonia) e in Egitto (dove fu al seguito di Napoleone) e come artista e intenditore d’arte antica e, per non interrompere la tradizione della fortunata carriera dei libertini, divenne direttore generale dei Musei sotto l’Impero. Tra le migliaia di persone che Stendhal conobbe nella sua fervida vita non mancava «l’aimable Denon». Ma il suo nome era già scomparso dalla compagnia dei letterati quando Balzac gli dette il colpo di grazia. [...].

  [...] il fragile Denon non ha resistito al bonario massacro che Balzac nella lettura impose al suo testo, massacro la cui entità credo sia sfuggita agli studiosi.

  A Balzac deve sembrare, dunque, quasi fuori posto che in un capitolo sulle ruses femminili si dovesse insistere sulle raffinatezze, sui silenzi, su una filigrana di sospensioni e di attese di cui vive la bellezza delle pagine di Denon. Si è molto parlato della «volgarità» di Balzac.

  E’ indubbio che, pur in un episodio marginale, di quella volgarità egli dette esempio precoce, proprio in quanto cercava di adattare ad orecchie borghesemente caste la prosa libera e, insieme, sostenuta del nostro autore. Ma era evidente fin d’allora che quella volgarità celasse un’irresistibile forza nell’adattare e ricreare ogni materiale che gli capitasse sotto mano. Sembrava respingere ciò che non poteva raggiungere. Preferiva il violento e grossolano Béroalde de Verville (che gli fu utile tra gli altri per confezionare i Contes drolatiques) all’elegantissimo Vivant Denon. Volgarità voleva dire: rappresentare un mondo nel suo spessore e nella sua densità umana. Non scrivere belle pagine ma bei libri. Tutto in funzione dell’insieme. Nella sua carica vitale era chiaro che egli dovesse frantumare con le sue mani un delicatissimo pastello settecentesco. [...].

  Quella estenuata raffinatezza, che a Balzac dovè dare fastidio, non permetteva sviluppi ma soltanto una breve, isolata gloria postuma. E’ quella che oggi viene ridata a Denon. Il vecchio libertino, poi direttore generale dei Musei francesi, è stato ammesso, anche lui, nella Biblioteca della Pléiade.



  Tomás Maldonado, Le ambiguità dell’interno, «Ottagono. Trimestrale di disegno industriale», Milano, Anno XXVIII, 106, Marzo 1993, pp. 8-12.

 

  pp. 8-9. Notoriamente, Balzac porta all’esasperazione questa tendenza. Sono famose le sue descrizioni d’interni. Mi sia consentito, ancora una volta, di fare una citazione per esteso. Si tratta appunto di un passaggio di Le Père Goriot di Balzac:

  Il pianterreno ... si compone di una prima stanza, illuminata dalle due finestre della strada [...] che i lettori frettolosi non perdonerebbero.

  Sarei tentato di affermare che i lettori e, anche quelli meno frettolosi, difficilmente possano essere in grado di sopportare un tale sovraccarico di particolari descrittivi. Soprattutto se si pensa che essi aiutano ben poco a capire il rapporto tra Père Goriot, la padrona della pensione e gli altri ospiti. È il problema sollevato da Henry James, quando rileva come Balzac spesso «ci assale, talvolta fino a soffocarci, con la sua generale rubrica delle cose ... la sua straordinaria scala e la sua terribile completezza».

 

 

  Cristina Mazzucchelli, La funzione del ritratto in alcuni romanzi di Honoré de Balzac (“La Peau de chagrin”, “La Rabouilleuse”, “Le cousin Pons”, “La cousine Bette”). Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Francesca Melzi D’Eril, Milano, Università degli studi, Facoltà di lettere e filosofia, Laurea in lingue e letterature straniere moderne, 1992/93,

 

 

  Ida Merello, Dal noir al brun: variazioni sul tema del fantastico nella raccolta dei “Contes bruns”, in AA.VV., Indiscrete presenze. Forme dell’orrore soprannaturale in letteratura, a cura di Maria Rita Cifarelli e Robert De Pol, Alessandria, Dell’Orso, 1993 («Ianus. Confronti Letterari», 3), pp. 97-112.

 

 

  Max Milner, Les anges sont-ils blancs ? Réflexions sur l’ange balzacien, «Rivista di storia e letteratura religiosa», Torino, anno XXIX, n. 2, 1993, pp. 341-356.

 

  «Les anges sont blancs». Telles sont les dernières paroles de Louis Lambert – les dernières, du moins, que le narrateur l’entend prononcer, dans un état d’insensibilité complète au monde extérieur, au cours de la dernière visite qu’il lui rend. Il y a de quoi être déconcerté. Si c’est là son testament, le message ultime qu’il a à nous livrer avant de quitter définitivement cette vie, il faut avouer qu’il rend un son étrangement creux, surtout si on le compare aux hautes considérations philosophiques et mystiques qui lui échappaient dans l’intervalle de ses crises de catalepsie, et que sa femme a pris soin de noter. […].

  Si l’on se place au niveau symbolique, qui est en arrière-plan au-delà de la vision matérielle, la blancheur est-elle le signe d’une surabondance d’être, d’une explosion de qualités dont l’oeil humain ne peut qu’être ébloui, ou bien signifie-t-elle au contraire une certaine vacuité, une pureté essentielle résultant du retrait du sensible, et invitant celui qui veut la percevoir à un identique dépouillement?

  Toute la question de l’ange balzacien est prise dans cette alternative, et, pourrait-on dire, toute la métaphysique de La Comédie humaine. Balzac a cherché toute sa vie à édifier une vision du monde établissant une parfaite continuité entre la matière et l’esprit, ce qui exigeait à la fois de refuser le matérialisme, qui réduit tous les phénomènes spirituels à des modifications de la matière, et le spiritualisme, dans la mesure où il établit une coupure infranchissable entre le domaine spirituel et le domaine matériel. La figure de l’ange, qui a été conçu depuis les origines comme un intermédiaire entre le ciel et la terre, ne pouvait que solliciter fortement son imaginaire. Mais comment concilier les courants passionnels qui traversent en tous sens l’univers, lancent les individus dans l’action et impriment son mouve- ment à la société, et la pureté édénique à laquelle, selon les croyances illuministes que Balzac partage, l’humanité est appelée à revenir? L’ange pouvait, devait, conformément aux différentes fonctions qui lui ont été attribuées par la tradition, être à la fois un avertisseur, un annonciateur, un intermédiaire et un modèle. Mais la représentation qu’il convenait d’en donner variait du tout au tout selon qu’on en faisait un pur esprit, ne se manifestant aux hommes que pour les inviter à faire le choix d’une vie toute spirituelle, ou le résultat d’une évolution continue, faisant passer la créature humaine, à la fois matière et esprit, à l’état de perfection qui est le but dernier de son existence. Sous l’influence de Swedenborg, selon lequel «tous les anges ont été des hommes» et «après la mort (...) sont hommes encore», Balzac a nettement pris parti pour la seconde perspective. Mais les problèmes posés au romancier par la description du passage de la condition humaine à la condition angélique n’en sont que plus ardus, le plus difficile étant de savoir quel statut réserver au corps et aux passions qui le meuvent dans cet itinéraire ascensionnel. Difficulté d’autant plus grande que le vecteur de cette ascension est l’amour et que la différence des sexes se présente comme la butée ultime, le dernier obstacle à franchir pour passer du régime de la dualité à celui de l’unité. L’amour peut-il être blanc, comme le mariage du même nom? Telle est la question à laquelle je voudrais aboutir, après avoir résumé rapidement les différentes solutions envisagées par Balzac pour concilier les exigences d’une vision à hauteur d’homme et celles d’une eschatologie à hauteur d’ange. Je n’oublierai pas, chemin faisant, la blancheur, que j’utiliserai comme une sorte de test, pour voir ce qui prédomine, de la tendance au vide, ou de l’aspiration vers le plein. […].

 

 

  Maria Luisa Minarelli, Balzac, in A tavola con la storia, Firenze, Sansoni, 1993 («Sansoni Saggi»), pp. 182-184.

 

  Nei romanzi accade spesso che i personaggi rispecchino vizi e virtù degli autori; è quanto capita alla brulicante umanità descritta da Honoré de Balzac nella sua Comédie humaine. Gli attori del grande affresco narrativo si muovono come usava lo scrittore dietro le alte finestre del Café de Paris e nelle sale del Café Anglais illuminate sui boulevard; gustano i tartufi gelati ai canditi di Tortoni e sfilano da Véfour e Véry, al Palais Royal; oppure si infilano nelle fumose bottiglierie della Rive Gauche, magari pranzando per 22 soldi intorno alle lunghe tavole di Flicoteaux, che ospitò da studenti tutti i grandi uomini del secolo scorso.

  Dopo le forzate astinenze della Rivoluzione e il decennio di guerre napoleoniche, come sempre avviene quando un periodo turbolento è appena finito, la buona società coltivava coscienziosamente i lussi e gli amori, ritrovando anche la passione per la buona tavola.

  Era l’atmosfera giusta per il giovane e provinciale Honoré, presto celebre e subito nel turbine della vita mondana, degli amori travolgenti e delle spese per viaggiare e stipare la casa di tappeti, mobili, porcellane, damaschi; il guardaroba era fornito di sete e cachemire, il tilbury di cavalli di razza. Un tenore di vita troppo elevato, per sostenere il quale Balzac, vero «forzato della gloria» si sottoponeva anche per diciassette ore di fila all’«inferno dell’inchiostro e della pagina bianca», per tacitare i creditori che lo perseguitavano e lo costringevano spesso a nascondersi o a cambiare indirizzo; anche a loro va riconosciuto il merito dei suoi 74 romanzi, senza contare gli articoli e le opere teatrali.

  Vero bulimico della vita, Balzac era bulimico anche a tavola. La sua robusta costituzione si rivelava nella risata franca, nel fremito delle narici davanti a una piramide di pere e pesche che, col coltello in mano, superbo nel suo pantagruelismo vegetale, si apprestava a divorare.

  Una volta Balzac invitò a cena da Véry il suo editore Werdet e, davanti allo stupefatto commensale, riuscì a divorare cento ostriche di Ostenda, dodici cotolette, un’anitra alle rape, due pernici arrosto e una sogliola, senza contare gli antipasti, una dozzina di pere, il vino e i liquori. Alla fine, chiesto il conto con voce tonante, scrisse sul foglio alcune parole misteriose e lo fece portare alla cassa, uscendo maestosamente senza pagare, sotto braccio all'incuriosito Werdet; il quale poté soddisfare la sua curiosità il giorno dopo, quando si vide recapitare, a cura del ristorante e intestato a lui dallo scrittore, il conto di 62 franchi e 50 centesimi ancora da saldare.

  Una sera del 1836 Balzac invitò a cena a casa sua il conte Komar, al quale sperava, chissà perché, di vendere per una somma esorbitante la sua rivista La Chronique de Paris ormai sull’orlo del fallimento. Era già in tavola il pranzo curato dalla celebre gastronomia Chevet, che aveva mandato prosciutto arrosto, piviere gratinato, pollo ripieno e asparagi, quando Balzac si accorse con disappunto che la sua argenteria, 40 000 franchi di piatti, posate, salsiere firmate dal celebre Lecointe, giaceva pignorata al Monte di Pietà; riuscì appena in tempo a recuperarla per poche ore, ma l'affare andò a vuoto ugualmente.

  Affabulatore anche nella vita, Balzac raccontava ai suoi ospiti – e spesso c’erano George Sand, Hugo, De Musset, Dumas – che una certa bottiglia aveva fatto tre volte il giro del mondo, e il rhum proveniva da una botte che aveva galleggiato cent’anni sugli oceani, e c’era voluta un’ascia per aprirla tanto i crostacei ne avevano indurita la superficie; il suo tè, dono speciale dello zar, era bagnato del sangue di un’aggressione di Kirghisi e Tartari alla carovana che lo trasportava a Mosca dalla lontana Cina.

  Autentici e ben noti erano invece i pellegrinaggi che Balzac compiva per procurarsi dai droghieri di Parigi il caffè bourbon, il moka e il martinica che componevano la sua miscela esclusiva. Il caffè era la sua droga: Balzac lavorava di notte, al lume di due candelieri, avvolto in un camicione bianco, attingendone dalla caffettiera di Limoges tazze su tazze. Si calcola che in una vita di lavoro ne abbia bevute cinquantamila. Una vita breve: come gli prediceva il medico, a cinquantun anni una malattia cardiaca lo stroncò: da pochi mesi aveva sposato l’amata e ricchissima vedova russa Eva Hanska che l’avrebbe finalmente posto al riparo dai creditori.

 

 

  Giorgio Mirandola, La letteratura romantica. Balzac, in AA.VV., Storia della civiltà letteraria francese ... cit. Volume secondo. Dall’Illuminismo all’Ottocento, pp. 1320-1326.

 

  «Quatre hommes auront eu une vie immense — scriveva nel febbraio 1844 Balzac a Mmc Hanska —: Napoléon, Cuvier, O’Connell, et je veux être le quatrième» In effetti il superlativo caratterizza Balzac, nella parabola biografica o nella carriera artistica. Uomo forte, corpulento, sanguigno, dagli infiniti desideri, sempre alla ricerca della fortuna, del denaro, del potere, Balzac spese nella propria carriera una somma di energie e di ambizioni alla quale è difficile forse trovare riscontro presso altri autori della letteratura universale. «Moi, j’aurai porté une société toute entière dans ma tête», confidava ancora. E l’anno successivo, paragonando la propria opera alla cattedrale di Bourges, aggiungeva: «Voilà seize ans que j’y suis, et il faut huit autres années encore pour la terminer» (lettera a Zulma Carraud, gennaio 1845). Balzac non sapeva in quel momento di avere davanti a sé solo cinque anni di vita, tre dei quali, per varie ragioni, improduttivi. La sua titanica fatica era destinata a rimanere incompiuta. Ma anche così, essa non può che stupire: 91 romanzi (in gran parte lunghi e complessi) scritti soprattutto tra il 1833 ed il 1847, nell’arco di quattordici anni, altri cinquanta romanzi progettati o avviati, 2000 personaggi, più di 10.000 pagine della sola Comédie humaine: ed oltre a ciò la serie infinita di opere teatrali, di romanzi giovanili, di scritti giornalistici.

  A questo imponente risultato Balzac giunse dopo lunghe incertezze e numerosi fallimenti. L’inquieto ventenne che nell’agosto 1819, in una povera mansarda di rue Lesdiguières, aveva ottenuto dai genitori il permesso di tentare l’avventura delle lettere, pensava di poter conquistare la gloria attraverso il teatro romantico. Ma Cromwell, tragedia in cinque atti, in versi, terminata agli inizi del 1820, riscosse tanto unanime disapprovazione tra gli amici ed i parenti ai quali fu letta da indurlo a cambiare immediatamente strada. Balzac cominciò così a scrivere romanzi. Ma anche in questo genere difficile i suoi primi tentativi furono incerti: opere come L’Héritière de Birague, Jean-Louis, Clotilde de Lusignan, pubblicate nel 1822, con vari e pittoreschi pseudonimi (lord R’Hoone, Horace de Saint-Aubin ...) sono più che altro maldestri tentativi di utilizzare modi del romanzo alla Scott, in un contesto di avventure e di intrighi che potesse piacere al pubblico. Sin d’ora il desiderio del guadagno assilla lo scrittore: egli calcola che pubblicando quattro romanzi all’anno (e nel 1822 ne escono ben cinque, alcuni dei quali, è vero, scritti in collaborazione) potrà contare su un reddito soddisfacente, e allora si getta a testa bassa nel lavoro, dando vita ad opere non prive di idee e di immaginazione, ma irrimediabilmente mal scritte. Né maggior peso hanno, negli stessi anni, ulteriori tentativi teatrali o pubblicazioni di carattere poligrafico, come l’Histoire impartiate des Jésuites (1824) o il Code des gens honnêtes (1825). Alla luce di questi lavori, l’abbandono di una letteratura smaccatamente commerciale per il vero e proprio commercio fu un atto coerente ed onesto. Ma fattosi editore, tipografo, titolare di una fonderia di caratteri, Balzac continuò a collezionare insuccessi. Il suo fallimento, nel 1828, fu causato solo in parte da obiettive ragioni di tecnica imprenditoriale (ad esempio l’abitudine di non tener separati i bilanci personali dai bilanci dell’azienda): in realtà Balzac era, e fu sempre, incapace di distinguere tra il mondo delle cose fattibili e la propria galoppante fantasia. Da una parte il romanziere che inventa le più complesse speculazioni, che rende ricchi o miserevoli i personaggi con un’incredibile padronanza delle leggi che reggono gli affari e l’economia; dall’altra l’uomo perennemente in lotta con il problema del vivere negli agi, sempre alle prese coi debiti, legato alla benevolenza o all’indulgenza degli amici: in questa dissociazione sono il dramma profondo di Balzac e forse il motivo che spiega la rabbia con cui egli si impegnò nello sforzo creativo, la stessa sua insistenza nel descriversi analista e pittore della società contemporanea.

  In realtà Balzac era, e sapeva di essere, non pittore di una società, ma demiurgo e padrone assoluto dell’universo che gli usciva dalla penna, obbediente e plasmabile, ben diverso da quella realtà in cui uomini ai suoi occhi limitati e privi di fantasia potevano innalzarsi a guardare con disprezzo, forti del loro denaro e del loro potere, il genio dell’artista. Volontà di conquista, dunque, e presa di possesso, in un’altra dimensione, di una società che di fatto gli sfuggiva e lo sfuggiva; questo l’animus con cui Balzac, nel 1828, all’indomani della propria bancarotta, ritorna alle lettere. Le date sono significative: nell’aprile deve cedere la fonderia, nell’estate la tipografia, che lo lascia, il 16 agosto, con 46.000 franchi di debiti. Il 1° settembre è già immerso completamente nella nuova vita: ha cambiato casa, per un quartiere più tranquillo, non frequentato da creditori, più adatto al raccoglimento ed allo studio; ha arredato, con lusso, la nuova residenza; e scrive al barone di Pommereuil, a Fougères, per dirgli che ha concepito un nuovo romanzo (l’ultimo, Wann Clore (sic) era apparso tre anni prima) e per chiedergli un’ospitalità che gli consenta di stenderlo negli stessi luoghi in cui si svolge. Le dernier Chouan (poi, in edizione definitiva, Les Chouans) è scritto tra il settembre e l’ottobre e pubblicato nel marzo 1829, per la prima volta con la firma: Honoré de Balzac. È il primo grande romanzo della lunga serie. In poche settimane, senza nulla modificare delle proprie pericolose e dispendiose abitudini di vita, Balzac è passato dall’industria, alla bancarotta, alla compiuta realizzazione di un’opera letterariamente significativa.

  Ormai la strada è tracciata. La Physiologie du mariage nel 1829, le Scènes de la vie privée nel 1830, La Peau de chagrin ed i Romans et contes philosophiques nel 1831, i Nouveaux contes philosophiques e Louis Lambert nel 1832 sono tutte opere di ampio rilievo. Sono anche, però, opere rivolte in direzioni troppo disparate. Les Chouans [...] è un romanzo storico, a tinte vivaci e ricco di azione, sui movimenti monarchici m Vandea; Louis Lambert è la storia di un giovane matematico e filosofo, della sua difficile carriera a Parigi, delle sue aspirazioni spirituali; La Peau de chagrin che ebbe subito grande fortuna e che ancor oggi è tra i romanzi più letti di Balzac è metà strada tra il romanzo di costume ed il romanzo fantastico: una magica pelle di zigrino consente al suo proprietario di realizzare ogni desiderio, ma poi si restringe segnando m modo implacabile il consumarsi della vita che gli è concessa. Il protagonista del romanzo, Raphaël de Valentin, incarna assai bene l’uomo al bivio tra una dolorosa creatività, nel mondo povero ma vivace degli intellettuali parigini, ed una vita di lussi e piaceri, al centro della migliore società. La risposta di Balzac è per il momento negativa: Raphaël muore consumato dalla sua stessa sete di godimento, dalla forza incomprimibile dei molteplici e nefasti desideri che sgorgano dal suo animo.

  Le capacità analitiche di Balzac si dispiegano per la prima volta compiutamente nel 1833, con Eugénie Grandet. In questo romanzo capitale, i temi del denaro, dell’avarizia, dell’ambizione sociale da una parte, della pura e infelice passione amorosa dall’altra, emergono in primo piano, con un vigore sino a quel momento sconosciuto alle lettere francesi. La storia è dolorosa, greve di tristezze provinciali e di meschinità, fra le quali risaltano la dolcezza e l’eroismo della protagonista; ma l’involontario manicheismo della trama è ormai irrilevante rispetto alla precisione impietosa con cui Balzac imposta il proprio racconto. Da Eugénie Grandet all’epopea delle passioni, in una suprema indifferenza per vizio e virtù, il passo è ormai breve. Compiere questo passo significò per Balzac non scrivere più romanzi, ma un solo immenso romanzo, quella Comédie humaine alla quale egli dedicò, dal 1834, il meglio delle proprie forze.

  La Comédie humaine si fonda su un principio semplice e geniale: il ritorno dei personaggi. I personaggi di un romanzo riappaiono in altri romanzi di volta in volta protagonisti, comprimari, semplici comparse fugaci. Da un testo all’altro è così possibile seguire la loro storia, ed il concatenarsi delle loro storie. La Comédie humaine è un mondo chiuso, in cui tutti prima o poi si incontrano, con rapporti di amore o di odio, di amicizia o di antipatia e di lotta. L’indifferenza, l’essere o il sentirsi estranei, sono temi assenti in quest’opera, tesa in ogni sua pagina a glorificare la socialità dell’uomo. Vi sono nella Comédie humaine personaggi chiave, dei quali è possibile seguire passo dopo passo l’intera vita, nell’arco di trenta o quarant’anni, attraverso frammenti e notizie ricavabili da decine di romanzi. Esemplare è il caso di Rastignac, una delle più celebri figure create da Balzac. Rastignac è uno dei personaggi principali del Père Goriot, dove si narra della sua venuta a Parigi, nel 1818, e dei suoi primi anni, sino al 1820, nella pensione Vauquer: amicizie, ingresso nella società, inizio della liaison con Delphine de Nucingen. È poi personaggio secondario in Illusions perdues, tra il 1821 ed il 1822, in Splendeurs et misères des courtisanes tra il 1824 ed il 1830, in La Maison Nucingen dopo il 1826. Lo incontriamo marginalmente nella Peau de chagrin, nel 1829-33, ormai uomo ricco ed influente; seguiamo infine la sua carriera politica tra il 183.3 ed il 1846 da sottosegretario di stato a Pari di Francia e ministro della Giustizia, attraverso una serie di romanzi che comprende Le Député d’Arcis, Une Fille d’Eve, La Maison Nucingen, Les Comédiens sans le savoir. Ma di nessun romanzo questo personaggio onnipresente è protagonista nel senso pieno della parola. E la stessa cosa può dirsi per Vautrin, Du Marsay, Gobseck, d’Arthez, Bianchon ... Altrettanto tipico e frequente è il caso di personaggi che dominano per intero un romanzo per comparire poi in altri solo fugacemente, in un salotto, in una conversazione, in un aneddoto riferito: in questi casi il lettore ha il piacere, la sorpresa, di conoscere già la sua storia, di comprendere la sua apparizione e le sue parole non solo alla luce del contesto immediato, ma di una realtà già nota. Ogni personaggio ha così una dimensione interiore, privata, ed una dimensione esterna, pubblica: da un romanzo apprendiamo i suoi drammi sentimentali o familiari, un altro ce lo mostra al lavoro, in un ballo, in una conversazione, intento a sostenere la propria parte nella commedia della vita, e spesso ad apparire ciò che non è. Balzac è maestro nel moltiplicare gli effetti di specchio, nell’accostare elementi disparati, in un contrasto che obbliga il lettore a prendere posizione, ad entrare nel gioco, a distinguere ed a dedurre. La realtà si moltiplica inafferrabile ed infinita proprio per l’accumularsi delle certezze. Ed adora il realismo diventa modo della fantasia, lo studio cede il passo alla creazione. Leggiamo nell’Avant-propos della Comédie humaine (1842): «Le hasard est le plus grand romancier du monde: pour être fécond, il n’y a qu’à l’étudier. La Société française allait être l’historien, je ne devais être que le secrétaire». E poco più avanti: «S’en tenant à cette reproduction rigoureuse […] se rapprochent de la règle éternelle, du vrai, du beau?» . Il contrasto delle due dichiarazioni ci dà la misura del realismo balzacchiano: un realismo che postula sempre dei principi generali, che pone l’artista «instituteur des hommes», dispensatore di certezze. Il romanziare (sic) studia, esamina, registra ma poi sempre analizza, rapportando le cose osservate ad una serie di propri parametri interiori, etici prima ancora che intellettuali o culturali.

  Le Père Goriot, scritto nel settembre 1834, è il primo romanzo in cui il ritorno dei personaggi appare codificato a sistema, ed è anche una pietra miliare nella Comédie humaine. Dopo Le Pére Goriot escono, in rapidissima sorprendente successione, lungo dodici anni di lavoro frenetico, i maggiori romanzi di Balzac […]. Nella prospettiva della prima, edizione completa, e poi della seconda, solo progettata, Balzac fece subire ai romanzi continui rimaneggiamenti di struttura. Il desiderio di dare una sistematicità sempre più perfetta ai testi della Comédie humaine, lo spinse a ritoccare i testi apparsi prima del Père Goriot, a mutare nomi e psicologia dei personaggi, a sostituire ogni qual volta poteva (ed è un particolare degno di nota) al personaggio reale il personaggio immaginato (così Lamartine diventa Canalis, il maresciallo Oudinot diventa il barone Nucingen, ecc. ...).

  Questo immane sforzo creativo, compiuto spesso in bozze, tra la disperazione dei tipografi, fu la vera esistenza di Balzac. I contemporanei sottolinearono spesso, ed in modo impietoso, l’arrivismo, la falsa eleganza, la goffaggine dell’uomo: i suoi cavalli, i suoi debiti, le sue avventure amorose e politiche, i suoi abiti vistosi, il suo snobismo, la sua mania di grandezze mondane, il lusso ostentato e pacchiano delle sue abitazioni, tutta una vita insomma che appariva di dispendio e di esteriorità. Dal 1842 al 1850 Balzac inseguì un duplice sogno di ricchezza, affidata alla propria opera e al matrimonio con Mme Hanska, un’ereditiera polacca con cui era entrato in rapporto epistolare sin dal 1832. Contando su una buona stella acquistò ed arredò una splendida casa, rue Fortunée: ma con la ricchezza ed il matrimonio giunse anche la fine. Sposatosi il 4 marzo 1850, in Russia, ritornò a Parigi con la moglie il 20 maggio; ed il 18 agosto morì, distrutto da un’esistenza di fatiche e di turbamenti. È una fine simbolica: non si riesce ad immaginare un Balzac padre di famiglia, tranquillo, sistemato negli agi di una ricca casa, senza creditori, senza l’assillo del lavoro quotidiano, senza il desiderio di fare, di giungere, di essere. Balzac non era un epicureo alla Rossini, capace di vivere per vent’anni sulla rendita della propria gloria. L’ambizione ci appare l’inconsapevole pretesto del quale si ammantava la sua forza artistica, la molla solo esterna della scrittura. Il vero Balzac non era il dandy squattrinato e un po’ volgare dei ritrovi parigini, non era l’amante interessato della vedova polacca, ma il solitario che rinchiuso per ore e giorni nella propria stanza, vestito di un ridicolo comodo saio, e con l’aiuto di litri di caffè ogni notte, dava vita all’infinito divenire della Comédie humaine.

  Un amico inglese, Henry Reeve, suggerì a Balzac, intorno al 1835, un titolo per la sua immensa opera: «la diabolique comédie», pensando che quell’inversione della formula dantesca potesse assai bene adattarsi ai contenuti del testo. Sarebbe stata però una definizione limitativa, ed assai opportunamente Balzac sostituì humaine a «diabolique». Reeve era stato evidentemente colpito dalla continua presenza del male nelle pagine balzacchiane; gli era sfuggito però che all’autore non interessavano i singoli temi, ma le loro relazioni, non il male o il bene, ma quel continuo intrecciarsi dell’uno con l’altro che è l’essenza stessa della vita. L’eticità di Balzac, profonda e vitale, non mira al giudizio, ma alla comprensione. «Umana» la sua commedia è perché nessun nodo dell’essere uomo in una società di uomini le è estraneo. Le passioni vi dominano sovrane, perché solo nella passione, e spesso nella sofferenza, l’uomo raggiunge la pienezza di sé; esemplare il caso del saggio e decrepito antiquario della Peau de chagrin: tra «vouloir» (che brucia) e «pouvoir» (che distrugge), egli ha scelto il savoir» [...]: troppo tardi, colpito da un desiderio vendicativo di Raphaël, ed innamoratosi rovinosamente di una ballerina, egli scopre che «il y a toute une vie dans une heure d’amour».

  Balzac, diverso in questo da Stendhal e da tanti altri romantici, non concede però all’amore un posto di primo piano tra le passioni. Protagonista invadente della Comédie humaine è piuttosto il denaro, coniuge quantificabile del potere e posta primaria nel gioco dell’esistenza sociale. Tutta una serie di romanzi, tra 1 più lunghi e complessi della Comédie, ruota intorno a questo motivo, che Balzac non solo privilegia, ma continuamente accarezza, con un compiacimento che ci appare, in una certa misura almeno, rivincita. Il piccolo commercio è rappresentato in Illusions perdues, nell’Illustre Gaudissart, in Gaudissart II, nella Cousine Bette e nel Cousin Pons; l’impresa, da artigianato ad industria, in César Birotteau: la speculazione costituisce la vita stessa del père Grandet; l’alta finanza, con i suoi intrighi e con le sue avventurose manovre, regna sovrana in Gobseck, in Un homme d’affaires, in La Maison Nucingen. Per Balzac il denaro non è né bene né male, ma semplicemente una forza, che può usarsi in vari modi: è ben raro che egli la condanni, anche quando i risultati appaiono negativi o deprecabili; Balzac non fu mai ricco, ma da ricco visse sempre, e sempre considerò se stesso uomo destinato alla ricchezza, ben diverso, anche in questo, da tanti autori romantici decadenti, per i quali il denaro era l’arma della materia contro lo spirito, vile e spregevole necessità. Anche gli eroi puri (Eugénie Grandet, Mme de Mortsauf nel Lys dans la vallée, Louis Lambert) devono fare i conti con il suo potere, ed a volte soccombono, in un significativo coincidere della loro purezza con l’incapacità negli affari e nell’amministrazione della vita quotidiana. Ma più spesso l’eroe balzacchiano sa abilmente amalgamare il denaro con gli altri elementi della propria esistenza: amore, matrimonio, passione sociale o politica. Il denaro è strumento dell’ambizione, e serve per conquistare la donna; ma al tempo stesso la stima mondana, la politica, le donne, sono strumento di ricchezza, in un circolo senza fine, in un accavallarsi continuo e sempre sorprendente di rimandi e relazioni. È questo un altro limite del troppo citato «realismo» balzacchiano. Balzac dipinge sì una società, ma dopo averla trasformata in dimensioni di miniatura, di modello matematico. Proprio perché ricreata artificialmente attraverso duemila personaggi che non la esprimono, ma la «rappresentano», la esemplificano, la società di Balzac appartiene alla complicata ed affascinante dimensione del gioco, retto da leggi e regole ben chiare sin dall’inizio. La Comédie humaine è un microcosmo nel quale sono pressate, condensate, ricomposte, le energie e le leggi relativamente ristretta dell’opera narrativa, dalla quale sono banditi i fatti, i gesti, i momenti, le figure prive di valenza. La Comédie humaine è un mondo senza pause, senza riposo, nel quale anonimato ed immobilità non hanno diritto di essere: costruzione fantastica, immensa ed intricatissima, che tutto deve alla legge del suo autore, e nella quale troppo spesso si è visto soltanto il ritratto fedele di una società. A questa natura di gioco afferiscono anche la minuziosità ed il virtuosismo tecnicistico della pagina balzacchiana. Le macchine più complesse, gli intrighi più oscuri, le combinazioni finanziarie più fantasiose sono descritte senza risparmio di particolari. Per parlare di Borsa o di commercio, Balzac usa i termini degli addetti ai lavori, e se è necessario li spiega, in lunghe parentesi. Mai comunque l’analisi psicologica lo distrae dal concreto e mai la partecipazione, sentita e resa, alle vicende del personaggio gli impedisce di esporre con scrupolo imparziale le ragioni oggettive della sua grandezza o della sua decadenza.

  Gruppo a sé costituiscono, nella Comédie humaine, i testi storici o fantastici. Alla prima categoria appartengono Les Proscrits, Maître Cornélius, Jesus-Christ en Flandre, Sur Catherine de Médicis, e tutta la serie di romanzi o racconti ambientati nel periodo della Rivoluzione e dell’Impero: Un épisode sous la Terreur, L’Auberge rouge, Les Chouans, Une ténébreuse affaire: ad eccezione di quest’ultimo e di Sur Catherine de Médicis, si tratta però di testi scritti prima del 1834, inseriti poi, quando possibile attraverso marchingegni narrativi (cornici, epiloghi ...), nella struttura della Comédie humaine. In queste opere Balzac si abbandona senza impacci al proprio gusto per un fluido ed ampio narrare, accogliendo in modo visibile suggerimenti di tipo romantico. Ed alla stessa temperie appartengono le opere tenebrose o fantastiche (L’élixir de longue vie, Melmoth réconcilié, El Verdugo, La Peau de chagrin), in cui spesso accade che le preoccupazioni teoriche e l’influsso aperto del pensiero swedenborghiano releghino del tutto sullo sfondo concretezza e realismo. Di particolare rilievo è il racconto Séraphîta, del 1832-33, centrato sul tema della perfezione androgina e dell’unità angelica, e percorso da uno spiritualismo lieve e aereo.

  La natura intricata e proteiforme dell’opera balzacchiana ha sempre lasciato perplessi critica e pubblico. L’impossibilità di concentrarla in formule è ancor oggi assillo di lettori e studiosi, che spesso finiscono per eludere il problema e fissare il proprio sguardo su un singolo aspetto o un singolo tema di questo immenso universo letterario. Lo stesso dibattito sul «realismo», che ha fatto spesso di Balzac un semplice precursore di Zola e del naturalismo, cancellando una enorme parte della sua produzione e bollando all’insegna del cattivo gusto pagine assai importanti, deriva in fondo dalla polivalenza di quest’opera. Forse più di ogni altro autore, Balzac sfugge ad una definizione di tipo sintetico. Le «chiavi» per entrare nella sua scrittura sono infinite; persino l’ordine con cui il lettore affronta la Comédie humaine o riprende in tempi successivi i vari romanzi dà ogni volta di essa un’immagine diversa, come in un caleidoscopio. Balzac ci appare ad un tempo «datato» ed attuale. Se lo stile greve delle descrizioni, se l’apparente inutilità delle infinite divagazioni (storiche, politiche, filosofiche, archeologiche ...) che punteggiano i suoi testi spesso irritano, ed inevitabilmente ci fanno pensare ai difetti dell’uomo, ai limiti di tutto un periodo storico, la potenza narrativa dei suoi testi, dal lungo romanzo alla rapida novella, non ha mai cessato di affascinare, come immagine di visionaria creatività.

 

 

  Francesca Molfino, Donne e denari coppia insolita, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, 30 maggio 1993.

 

  Honoré de Balzac nel 1830 aveva descritto in una stupenda e tragica scena del suo piccolo romanzo le passioni che si annidano negli scambi economici. L’amante, trascina la contessa, davanti all’usuraio perché gli paghi le cambiali vendendo i suoi gioielli. L’avvocato della contessa racconta il fatto. L’eccitazione e la cupidigia del possesso si sfrenano: l’avvocato sembra l’unico dei tre uomini che voglia tutelare la contessa, ma l’usuraio riduce ancora di più l’offerta e rende la contrattazione sempre più dura e strangolante, l’amante le sussurra. E davanti a una possibile separazione, alle velate, ma eloquenti minacce di suicidio la contessa si piega all’offerta. In tutta la scena essa è estranea a quello che sta avvenendo, muto, dentro un mondo governato da altre leggi: meglio la rovina di ogni cosa, di se stessa piuttosto che perdere l’amato, meglio evitare i dissidi violenti, i contrasti che evidenziano le contrapposizioni di interesse diverso, e soprattutto la parzialità degli scambi umani. Finalmente, tremante e confusa. L’usuraio esulta in preda a una cupa gioia, a una ferocia da selvaggio ... Sono stata sollecitata, oggi, a riflettere sull’intreccio delle donne con il denaro dalla loro esigua presenza nelle vicende di Tangentopoli, e quindi dalla loro permanente estraneità alla gestione dell’economia e del potere. Inoltre la triste vicenda di una cara amica, che pur essendo una donna “emancipata” e accorta, si è lasciata completamente rovinare (come la contessa di Balzac, ma senza quel fascino trasgressivo ottocentesco) dalle avventure finanziarie del compagno, mi ha ricordato quanto spesso tra le donne si incontri in materia di soldi un’ingenuità, sorprendente e anacronistica per i nostri giorni, che giunge fino al rifiuto di capire e di sapere. Le pagine e le teorie della psicoanalisi sono traboccanti di descrizioni sulla paura dell’uomo per il sesso della sua compagna e come questa abbia origine dal lungo periodo di dipendenza dalla figura femminile materna. Una prima, geniale, quanto elementare, trovata della mente consiste nel sostituire a quell’oggetto d’amore pericolosissimo altri oggetti, magari altrettanto preziosi, ma inerti, e quindi molto più maneggevoli e gratificanti. La sostituzione è quindi operazione indispensabile, urgente per uscire dalla dipendenza e per superarla; in questo senso il denaro è come ricorda S. Viderman (ed. Raffaello Cortina, Milano 1992), un puro concetto di valore che si può attribuire sia alle cose concrete che alle operazioni più astratte. [...].

 

 

  Francesco Orlando, Un albero né genealogico né vegetale, in Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Giulio Einaudi editore, 1993 («Paperbacks Letteratura», 236), pp. 81-260.

 

  pp. 96-97. La moderna capacità di evocazione sensoriale era già matura ma ancora nuova, in francese, nella prosa del primo Chateaubriand; ai tempi del tardo Balzac aveva ormai penetrato di sé il codice del realismo narrativo europeo. È una capacità che costituisce certo parte importante del senso generale solito della parola realismo – così male applicabile al testo antico di Marziale. Stavolta però, se a proposito di Balzac può servirci parlare di realismo, sarà soprattutto in uno dei due sensi precisi in cui lo fa Auerbach: e non tanto come finora in quello di serietà nella rappresentazione di cose basse, quanto in quello d’indissolubilità della rappresentazione dai propri riferimenti storici. Ci occorre infatti di nuovo, come nel caso di Chateaubriand, documentare la pertinenza della piena determinazione di un decorso di tempo – sempre sentito collettivamente – nelle immagini di un testo. Sono sufficienti due brani da uno degli ultimi romanzi di Honoré de Balzac (1799-1850), La Cousine Bette: esso si svolge in piena Monarchia di Luglio, dal 1838 che è la data su cui si apre la prima frase del testo, al 1846 che è la data su cui si chiude il penultimo paragrafo – ed è l’anno stesso della pubblicazione.

  Nel primo brano l’ex-commesso profumiere e oggi facoltoso azionista Crevel, in uniforme di capitano della guardia nazionale, sta per essere ricevuto a quattr’occhi dall’ancora bella ma virtuosa moglie del barone Hulot. Costui, più anziano di Crevel, aveva brillato come militare sotto l’impero ed era stato nobilitato da Napoleone; oggi la situazione economica di lui si è fatta precaria, e l’altro conta anche su un confronto di sostanze per la propria speranza di sedurre la baronessa. Ma è su un insuccesso che la visita sta per finire, nel secondo brano:

 

... le garde national examinait l’ameublement du salon où il se trouvait. […] lui fit signe de s’asseoir.

 

  La baronne se leva pour forcer le capitaine à la retraite […] de ce grand salon blanc, rouge et or, un cadavre des fêtes impériales.

 

  Ogni dettaglio fisico è indizio di qualcosa anche nelle descrizioni più lunghe di Balzac; nel nostro caso i tratti descrittivi passano brevemente davanti allo sguardo, o addirittura al gesto, d’una persona interessata a sfruttare la situazione e gli indizi di essa. L’insistenza sull’arredamento logoro serve certo a questo, prima che a fare realtà. Ma un narratore del Settecento avrebbe sintetizzato questo in poche parole astratte, ai soli effetti psicologici e pratici; qui fanno realtà precisazioni fisicamente concrete, alle quali è probabile che oggetti ben conservati o nuovi non si sarebbero prestati altrettanto. Si specifica il trapasso d’una stoffa da un certo colore a un altro, se ne segnala la causa nell’azione del sole, si attribuisce invece al tappeto la scomparsa dei colori (un topos, come vedremo, del realismo descrittivo ottocentesco), si localizza il logorio degli oggetti su pieghe o per macchie o a striscie o in scaglie. Nel secondo brano c’è una doppia punta di figuralità metaforica: «cenci dell’opulenza», «cadavere delle feste» – un altro affioramento, quest’ultimo, d’un referente simbolico generale che conosciamo. Potremmo essere tentati di vedere anche qui residui della figuralità che travestiva nel vecchio codice le cose basse. In ogni caso non avremmo nessuna traccia di quella tendenza al comico di cui ho mostrato come l’accompagnasse e la motivasse: nessuna flessione della serietà di tono.

  Lungi però dal somigliare a quella metastorica del primo esempio dell’albero, una tale serietà è strettamente solidale con la storicità di rappresentazione. L’anzianità d’un mobile reca addirittura una data in millesimo; non col mese e il giorno come quelle che aprono e chiudono il romanzo [...], ma con un’approssimazione che ne rende l’esigenza ancora più significativa: il canapè era stato assai bello «verso il 1809». La rivalità erotica ed economica fra personaggi come Hulot e Crevel è datata essa stessa, in quanto implica ricambio fra due epoche, e appartenenza tipica di ciascun personaggio all’una o all’altra. Secondo la mirabile espressione di un altro romanzo di Balzac, citata da Auerbach: «Les époques déteignent sur les hommes qui les traversent». Crevel è un perfetto uomo della Monarchia di Luglio, come Hulot resta un uomo dell’Impero – e il mancato aggiornamento del lusso dei suoi salotti denuncia il suo fallito inserimento nei regimi successivi. È a questo proposito che incontriamo la differenza degna di entrare quale opposizione nell’albero semantico: fra le presentazioni rispettive di una determinazione storica altrettanto pertinente e forte, riguardo alle cose come agli uomini, nel testo di Chateaubriand e in questo di Balzac. [...].

 

  Dodici categorie da non distinguere troppo, Ibid., pp. 261-447.

 

  pp. 232-235. Lo scandalo di simili avvicinamenti è sfruttato narrativamente in uno dei primissimi romanzi originali di Balzac, La Peau de Chagrin pubblicato nel 1831. Il giovane Raphaël de Valentin, giocata la sua ultima moneta in una bisca, decide di gettarsi nella Senna di notte; per passare qualche ora entra nel negozio d’un antiquario. Là gli verrà offerto un talismano, la pelle d’onagro che può esaudire ogni desiderio – ma restringendosi, e accorciandogli la vita, in proporzione. La descrizione del negozio è lunghissima e attraversa più fasi: Raphaël perde gradualmente il senso della realtà, la visione delle merci antiche ed esotiche gli si tramuta in allucinazione. Cito la prima fase, il primo sguardo sul groviglio d’immagini:

 

  Au premier coup d’oeil, les magasins lui offrirent un tableau confus, dans lequel toutes les oeuvres humaines et divines se heurtaient. […] jusqu’aux plumes d’un trône.

 

  Qui non mania privata e provinciale addensa gli oggetti, ma mercificazione urbana e cosmopolita. Non meno della loro eterogeneità temporale e spaziale, ne esaspera la decontestualizzazione il loro accozzarsi presente: non c’è posto per l’alone culturale di nessun oggetto, perché non ne lasciano a ciascuno tutti gli altri oggetti. Tutti gli altri sono l’unico prossimo contesto accordato a ciascuno – come all’inizio di questo libro dicevo che accade, verbalmente, in un elenco di cose. La contiguità infatti, qua e là nel testo, genera elenchi; o esplicita se stessa: «si trovava accanto a», «era posato su», «erano gettati alla rinfusa con»; o sottolinea i propri opposti effetti d’insieme: «si scontravano», «si sposavano». Dalla stessa contiguità nascono inedite figure, che animano le cose inventando fra l’una e l’altra relazioni accidentali e intenzioni assurde. Gli animali impagliati «sembravano» sorridere o minacciare attacchi agli arredi, Mme Dubarry «pareva» concupire una pipa indiana; senza più verbi d’apparenza, il vascello d’avorio «navigava a piene vele» sulla tartaruga, la macchina pneumatica «cavava un occhio» ad Augusto. Simili figure sono lontanissime dal frusto-grottesco della descrizione di Scott. Nel tono fantastico a cui contribuiscono circola qualcosa di stupefacente, se non di ammirativo: è la volta di verificare la nuova categoria negativa, o la semipositiva? Che esperienze autentiche siano mediate dagli oggetti in questione, è quanto le fasi seguenti della contemplazione di Raphaël si adoperano a farci credere.

  In una seconda fase, sembra ai suoi occhi febbricitanti che l’Egitto intero sorga da una singola mummia, o la Grecia da una statua; o le religioni indiane da un idolo, o la cavalleria da un’armatura milanese, ecc. In una terza fase si personifica come individuo, fissando le cose ad una ad una, nella vita del selvaggio e poi in quella del corsaro e poi in quella del monaco e così via. Ciascun oggetto si dà per una metonimia o antonomasia evocatrice: una parte capace da sola di restituire alla fantasia il tutto storico e geografico relativo – il quale a sua volta non si lascia fantasticare se non per parti scelte, metonimie o antonomasie al plurale anziché al singolare. Ora, il percorso mentale delle ricontestualizzazioni a buon mercato, dei falsi vissuti occasionati da oggetti, è più facilone a piacere ma non in sostanza diverso. Ed è applicabile al concetto di Kitsch la distinzione che ho fatta in sede preliminare: tra non-funzionalità come attributo di certe immagini in un testo, e negazione della funzionalità d’un testo come giudizio di valore su di esso. Se in prima fase Balzac rappresenta volontariamente immagini di Kitsch obiettivato, fa in seguito involontariamente cattiva letteratura Kitsch? D suo sregolato genio mette a cimento l’ovvietà e il rigore della distinzione: che pure è da prevedere più indispensabile che mai, per un impiego coerente della nuova categoria negativa. Nell’inizio citato, sono mostrate mirabilmente le contraddizioni virtuali in ogni esibizione di oggetti decontestualizzati, con la loro proposta di esperienze inconsuete. Subito dopo, è come se l’intelligenza stessa del fenomeno ne favorisse la produzione involontaria: tali esperienze vengono prese sul serio, in dosi intensive ed effimere, ma per vie tanto più convenzionali.

  In attesa di quell’apparizione alla Hoffmann che sarà il vecchietto commerciante, dopo un’ultima fase di delirio visuale del suicida presuntivo, l’autore prepara il dato soprannaturale. Ma Balzac non è Hoffmann; e d’un tale dato non ha tutti i torti di affermare che «devait être impossible» a Parigi, sul quai Voltaire, nel secolo XIX – quando «nous ne croyons plus qu’aux paraphes des notaires». Non metto in discussione lo statuto letterario del soprannaturale, nei non pochi capolavori che conteranno fra le Études philosophiques. Solo, La Peau de Chagrin non è un capolavoro maturo; e la componente di sinistro-terrifico o di magico-superstizioso non è la dominante, nello straordinario esempio impuro che ne ho ricavato. Vera meraviglia in esso appare il mondo moderno, con l’onnicomprensività spaziale del suo imperialismo e temporale del suo storicismo. Non uno degli oggetti spogli di alone vale a trasmettere modelli da venerando-regressivo; direi che, delle categorie definite, quella con cui più si contaminano le nuove è un laicizzato monitorio-solenne. Tutto finisce con l’azzerarsi metastoricamente, nella somma di cose di cui si dice che era «una specie di concime filosofico al quale niente mancava». E secondo l’ultima frase del paragrafo che precede la citazione, Raphaël «devait voir par avance les ossements de vingt mondes»; i referenti e cadaverico ed escrementizio suggellano il configurarsi di tante merci come altrettante antimerci. Balzac ci avrà comunque molto aiutato, e non indirettamente come Scott, a compiere le definizioni delle nuove categorie. Non ancora a ben documentarle: per questo, bisogna andare a un’epoca più tarda di quella della svolta storica.

 

 

  Camille Paglia, Culti del sesso e della bellezza. Balzac, in Sexual Personae. Arte e decadenza da Neferiti a Emily Dickinson. Traduzione di Daniela Morante, Torino, Giulio Einaudi editore, 1993 («Gli Struzzi», 457), pp. 515-539.

 

  [...]. In Sarrasine, un testo cardine del passaggio fra primo e secondo Romanticismo, Balzac reimmagina in termini decadentistici le avventure italiane dell’eroina travestitesca di Latouche. Nel 1758, mentre è in visita a Roma, Sarrasine, uno scultore francese, si innamora follemente di una cantante d’opera, la Zambinella. La cantante incarna la «bellezza ideale» che il casto Sarrasine ha cercato invano nella vita reale, e il cui modello sono state «le sfarzose e soavi creazioni dell’antica Grecia». Soltanto dopo aver ottenuto un abboccamento con Zambinella Sarrasine apprende, con sua pubblica umiliazione, che costei è un maschio, un castrato. Ancora una volta una rivelazione sessuale ci costringe a una rilettura. La prima comparsa in scena di Zambinella si rivela un’epifania sacra, che rapisce Sarrasine con una visione di perfezione ermafrodita. La bellezza ideale gli è fino ad allora sfuggita perché i comuni mortali hanno un solo genere, mentre Zambinella è sessualmente composita, alla maniera dei Greci. L’ipersensibilità di Sarrasine deriva dal suo assorbimento in sé d’artista. Egli non ha bisogni sessuali perché è già di per sé semifemminile. In un suo farraginoso commento al libro Barthes fa rilevare come il nome di Sarrasine denoti «femminilità»: la forma francese normale avrebbe dovuto essere Sarrazin. Perciò Sarrasine, in quanto androgino, può essere dominato sessualmente solo da un altro androgino. Egli morirà ancora illibato, assassinato per ordine del protettore di Zambinella, un cardinale omosessuale.

  La poesia romantica [...] non accorda alcun privilegio alla virilità. Sarrasine, una storia tardoromantica, scalza del tutto la virilità col fare di un castrato la persona sessuale per eccellenza. Nel Don Giovanni di Byron gli eunuchi sono semplici elementi decorativi. Qui invece l'eunuco è un idolo sacralizzato che ispira amore e concupiscenza. Il Romanticismo sfugge la sessualità sottraendosi all’agire maschile, mentre Balzac mortifica il sesso deformando la natura. Sarrasine infierisce su Zambinella con queste parole: «Mostro! Tu, che non puoi dar vita a nulla!» Divorziando dalla natura il Decadentismo cancella Rousseau dal retaggio romantico. Sade [...] dà battaglia a Rousseau demonizzando la natura e calandosi nel suo disordine. Il Decadentismo si volge dall’energia verso la stasi. La creatività passiva dei romantici diviene estetismo, un atteggiamento contemplativo nei confronti di oggetti preziosi affatto rescissi dalla natura. Lo Zambinella di Balzac è il primo oggetto d’arte decadente. Il castrato transessuale rappresenta un sesso artificiale, il frutto di una manipolazione biologica attuata in favore dell’arte. Zambinella dà vita a qualcosa: ad altri oggetti d’arte. Dapprima viene la statua di lui, o lei, eseguita da Sarrasine; quindi una copia marmorea commissionata dal cardinale; infine il sensuale dipinto di Girodet raffigurante l’effeminato Endimione dormiente e ispirato, a quanto afferma Balzac, da Zambinella nei panni di Adone. Lo sterile castrato, che si riproduce attraverso altri oggetti d’arte, è un esempio del mio androgino tecnologico, un oggetto affatto artificiale. [...].

  Il romanzo rappresenta con efficacia il luminoso fascino di Zambinella, che attrae Sarrasine entro un intrigo che gli si richiude alle spalle. Si pensi agli equivoci sessuali delle commedie travestitesche di Shakespeare. Senza più speranze Sarrasine avanza un’ultima pretesa verso Zambinella: «Non hai qualche sorella che ti rassomigli? E allora muori!» Non siamo più nel Rinascimento, in cui un gemello si fa avanti al momento opportuno per incanalare nell’ambito del matrimonio gli impulsi omoerotici. L’errore sessuale di Sarrasine ha come esito la sua morte. Egli è una vittima decadente dell’arte, una nuova religione che aspira ai suoi martiri. Ciò che è moderno in Sarrasine è il porre al centro il problema dell’identità sessuale, un problema creato da Rousseau. Balzac ci presenta la sessualità come qualcosa di incomprensibile e sconvolgente. I travestiti rinascimentali riconducono per mano i loro adoratori verso l’integrazione nella società. Zambinella invece, al tempo stesso odalisca e solipsistico artista, è un androgino decadente indifferente alla sorte dei suoi spasimanti. Il loro annientamento non fa che rispecchiare l’abrogazione del sesso in lei. [...].

  La seconda delle opere narrative decadenti di Balzac è La ragazza ciarli occhi d’oro (scritta fra il marzo del 1834 e l’aprile del 1835). Strutturalmente ricorda Sarrasine: una donna misteriosa viene seguita dentro un pauroso labirinto fino al luogo della sua prigionia. L’una e l’altra sono avventure sessuali che si concludono nella morte, ma stavolta non è il focoso spasimante, bensì l’oggetto sessuale gelosamente segregato a venire ucciso. Il dandy Henri de Marsay, protagonista de La ragazza dagli occhi d’oro, è uno dei personaggi ricorrenti di Balzac, e terminerà la sua carriera come primo ministro. Ne Le (sic) illusioni perdute, in cui lo vediamo all’Opera schiacciare il provinciale Lucien de Rubempré con il suo aristocratico snobismo, De Marsay ha «una sorta di beltà femminea: una bellezza di un languido genere effeminato». È la sua androginia che sta all’origine di tutte le disavventure de La ragazza dagli occhi d’oro.

  Indolente e viziato, De Marsay non ha alcuna convinzione politica né morale. Il dandy della Reggenza inglese rappresentò una tardiva fioritura della maniera epicena settecentesca, quale è incarnata in quell’infido ermafrodito di corte che fu Lord Hervey. La figura di De Marsay si basa su dandy parigini dell’epoca quali il duca di Morny col suo «fascino effeminato». [...].

  La ragazza dagli occhi d’oro è dedicato a Delacroix, il cui barbarico sfarzo orientale deriva da Byron. De Marsay è figlio illegittimo di una marchesa francese e del byroniano libertino inglese Lord Dudley. Come Byron, Dudley fugge dall’Inghilterra nel 1816 «per sottrarsi alla giustizia inglese, che non accorda la sua protezione ad alcunché di esotico, salvo le mercanzie». Avendo adocchiato De Marsay a Parigi chiede chi sia «quel bel giovane»: «Nell’udire il suo nome esclamò: “Ah! È mio figlio. Peccato!”». Proprio come Byron, insomma, Dudley è tanto sessualmente ambivalente quanto sbadato. [...].

  Il lungo preambolo di Balzac è una ricognizione dantesca dell’«inferno» della amorale Parigi. La città è sotto l’imperio di due forze, «l’oro e il piacere», le cui immagini si fonderanno nella ragazza dagli occhi d’oro. Incontrando De Marsay in un parco, Paquita Valdez è sopraffatta da una «emozione paralizzante» che il giovane attribuisce al «magnetismo animale» delle «affinità elettive». Tali affinità derivano dal fatto che Paquita vive ridotta in stato di asservimento sessuale a una lesbica spagnola, la Marchesa di San-Real, che si rivelerà sorellastra di De Marsay e, in quanto tale, suo romantico doppio byroniano. Gli occhi d’oro di Paquita stanno a significare il suo valore materiale di oggetto sessuale e di objet d’art. Essa è una vittima della fredda possessività degli aristocratici rampolli byroniani. Piovutavi in mezzo come una straniera, Paquita diviene lo sventurato simbolo di Parigi e dei suoi vizi.

  Con una certa faciloneria De Marsay dà per scontato che la ragazza, tanto strettamente controllata, sia l’amante del marchese. «Si accingeva a rimettere in scena la commedia dell’antico e sempre rinnovellato triangolo» del vecchio, della fanciulla e dello spasimante. Ma De Marsay è incorso in un equivoco sessuale. Si tratta di una rappresentazione con due personaggi femminili e uno maschile, e che si rivelerà tragedia e non commedia. Per il suo primo appuntamento De Marsay viene bendato c portato in giro all’infinito per le strade, un procedimento estraniante che fa della sua città natale un labirinto sessuale. Balzac aveva fatto lo stesso in Sarrasine trasferendo il suo protagonista da Parigi a Roma. Come Sarrasine con Zambinella, De Marsay raggiunge alfine Paquita nel suo palazzo, dopo essere passato ritualisticamente attraverso una serie di stanze immerse nell’oscurità.

  De Marsay si ritrova in una camera segreta, uno sfarzoso boudoir tappezzato di arazzi rossi e impreziosito con ori e argenti. E il primo elaborato décor estetistico del Decadentismo, che prelude al salotto della vita reale di Baudelaire nonché alla dimora di Controcorrente di Huysmans. Gautier dice che mentre attendeva alla composizione de La ragazza dagli occhi d’oro Balzac era insediato in un identico salotto, anche se non è chiaro quale dei due abbia influenzato l’altro. La descrizione balzacchiana del boudoir è lunga e pittorica, e mostra la profonda influenza di Delacroix. La marchesa lesbica, che ha costruito un serraglio per il suo harem di una sola donna, è una femmina-esteta, e in quanto tale il primo architetto del Decadentismo. È una libertina sadiana la cui cittadella, con le sue pareti insonorizzate, è fatta per tenere lontane la società e la legge. La sua arena sessuale è una sorta di sepolcro. Siamo ancora e sempre entro lo spazio claustrofobico del Decadentismo. Ogni particolare della scenografia è inteso a «indurre alla voluttà». L’eros è intensificato dalla situazione carceraria, che determina una dialettica teatrale di personae sessuali chiusa in se stessa. [...]. La sua concezione asimmetrica, parte curvilinea e parte a spigoli vivi, rispecchia la natura divisa della marchesa; organicismo femminile congiunto a geometricità maschile in una sorta di ermafroditismo psichico. L’impianto coloristico – rossi, rosa e bianchi – conferisce al boudoir un carattere vaginale che diviene decisivo nello sconvolgente finale. [...].

  Balzac cominciò a scrivere Seraphita (sic) (dicembre 1833-novembre 1835) prima di aver terminato La ragazza dagli occhi d’oro. A mio modo di vedere i due romanzi sono le due metà moralmente contrapposte di un’unica intuizione sessuale. Uno è l’Inferno de La commedia umana, l’altro il Paradiso. Seraphita è inconsueta per Balzac per il fatto di svolgersi fuori dalla Francia, in Scandinavia, la patria del mistico svedese Emanuel Swedenborg le cui concezioni incombono su tutta la narrazione. Il gelido candore della Norvegia consente a Balzac di conseguire abbaglianti effetti apollinei analoghi a quelli di Spenser. Seraphita fu l’opera balzacchiana preferita da Yeats, probabilmente per via dell’occultismo che la ispira. [...].

  La ragazza dagli occhi d’oro e Seraphita rimandano l’uno all’altro, sia pure con un’inversione dei rispettivi fulcri ermafroditici. Nell’amorale Ragazza, con i suoi spazi chiusi decadentistici, due androgini sono delittuosamente associati verso un fulcro convenzionale. Nella morale Seraphita, con le sue aperture e le sue sublimità, due generi convenzionali sono amorosamente associati per il tramite di un ermafrodito. La ragazza dagli occhi d’oro è tutto impregnato di una passionalità sessuale meridionale, cui dà corpo il sontuoso boudoir della marchesa. Seraphita congela sesso e genere nei ghiacci boreali. Il corpo contro lo spirito, la sensualità contro l’astrazione: al pari di D. H. Lawrence, Balzac rappresenta schematicamente la schizofrenia culturale dell’Europa. La natura languisce sotto il giogo angelico. Il ghiaccio si spezza e la natura torna a vivere soltanto quando Seraphita illanguidisce e muore. Le due parabole balzacchiane si compensano e si correggono luna con l’altra in una circolarità che investe tanto i sessi quanto la geografia.

  Le personae androgine sono onnipresenti ne La commedia umana. Il terzetto dei più grandi personaggi balzacchiani è composto da Eugène de Rastignac, di virginale bellezza, e da Lucien de Rubempré, schiavi del machiavellico principe del crimine, Vautrin. Le similitudini transessuali riferite a Eugène sono cartine di tornasole atte a rendere visibile al lettore il suo narcisismo femminile. Lucien scimmiotta il dandy De Marsay nella stessa identica maniera in cui il Dorian Gray di Wilde scimmiotterà Lord Henry Wotton, la cui opera di corruzione morale su Dorian ricorda quella di Vautrin su Lucien. Lucien ha mani, piedi e fianchi femminei, profilo greco, guance soffuse di una «serica peluria» e «tempie bianche e dorate» di una «soavità olimpia»”. Il «diabolico» Vautrin è un autocrate mascolino scortato da due angeli effeminati. Grazie al suo magnetismo omoerotico egli attira Eugène e Lucien nel sacrario del suo intimo universo amorale, dove è apparecchiato l’ingannevole banchetto satanico della ricchezza e del potere.

  Uno dei più notevoli androgini femmina di Balzac, cui dette spunto George Sand, è la scrittrice Félicité des Touches, che Balzac chiama «l’esimio ermafrodito» a motivo della sua genialità maschile Lo pseudonimo Camille Maupin rappresenta un condensato di riverenti allusioni a Latouche e a Gautier. La protagonista de La cugina Betta (La cousine Bette, 1846) è un androgino che si colloca su un registro diverso, quello ctonio. È una «primitiva contadina» dal «duro temperamento maschile» rinsanguato dalla sua contiguità sentimentale con la natura. I sentimenti a cui indulge più volentieri sono «l’odio e la vendetta senza mezzi termini, così come li si conosce in Italia, in Spagna e in Oriente», regioni «imbevute di sole». Betta è dunque una selvatica sorella della marchesa spagnola de La ragazza dagli occhi d’oro. Betta, illibata, presenta tratti del lesbismo della marchesa. Il suo «amore del potere» viene ridestato da un abulico artista polacco, il conte Wenceslas Steinbock, «un giovane pallido e avvenente». «La natura aveva commesso un errore – dice Balzac – nell’assegnar loro il sesso». [...].

  Betta si trasforma in una Musa «dittatoriale», tanto da riuscire a rendere produttivo il trasognato artista. Quando questi si sposa e diviene sessualmente attivo, la sua operosità perde efficacia e si blocca. Balzac riteneva la castità decisiva ai fini dell’operosità artistica e intellettuale, e si mantenne egli stesso casto per gran parte degli anni in cui attese alla sua ciclopica Commedia umana. La materialità primordiale di Betta riscuote il suo protégé. Essa lo feconda rendendolo potente come artista, ma inibendolo sessualmente. Non appena baratta il suo asservimento sado-masochistico con la felicità personale, egli smarrisce la sua identità artistica. [...]. La castità è in genere una strategia anti-ctonia, ma Balzac la associa stranamente con i poteri ctoni. [...]. Condensandosi in forma di objet d’art apollineo, essa imita i riti della società al fine di penetrarla e sconvolgerla. Gli apollinei cristalli di ghiaccio di Seraphita divengono l’amorale diamante nero de La cugina Betta. La primordiale aggressività di Betta offusca l’occhio concettuale dell’Occidente. Pur facendo parte di un romanzo sociale essa, in quanto volitivo androgino romantico, rimanda risonanze archetipe. [...].

  Questi vari androgini sono dunque autoritratti di Balzac che si rispecchiano come le due metà percettive di Seraphitus-Seraphita. L’androgino maschio è la fantasia, l’androgino femmina la realtà.

 

 

  Gianfranco Pasquino, Prefazione, in Honoré de Balzac, Il Deputato di Arcis ... cit., pp. 9-11.

 

  Chi si crede mai d’essere questo Balzac? Un famoso politologo francese, forse? Eccolo che delinea con grande raffinatezza, acutezza e conoscenza di causa, tutti gli ingredienti necessari al processo di selezione di un candidato per un piccolo collegio uninominale della provincia francese. La ricetta è semplice, probabilmente vincente: un po’ di previa popolarità, acquisita per collocazione professionale oppure per appartenenza familiare; una buona disponibilità di denaro, qualche sostenitore eccellente, meglio se con solidi agganci governativi. A questo punto può entrare in campo il candidato. Costui non è particolarmente brillante. Anzi, è alquanto noioso, un po’ pedante e piuttosto pomposo. È interessato alla politica quasi sostanzialmente come veicolo di promozione sociale e al fine di stipulare un matrimonio vantaggioso. Se poi ci sarà anche da rappresentare gli interessi del collegio di Arcis, ebbene promette di fare qualche sforzo. Nel frattempo è disponibile a snocciolare banalità e si preoccupa di scontentare il meno possibile i potenziali sostenitori eccellenti, quelli che hanno i voti, il denaro e la capacità di convincere altri a votarlo come loro candidato. Si viene così formando, come è giusto e utile, una sorta di comitato elettorale. Naturalmente, attenzione, il tutto avviene nella Francia del secolo scorso, in una piccola cittadina di provincia. Quindi, la politica è riservata a un numero ristretto di persone, si svolge nei salotti, fra i notabili. [...].

  Insomma, la politica opaca e manipolata era già una corposa realtà, quando Balzac la analizzava allo stato nascente. Naturalmente, il bravo candidato promette di andare a fare della buona opposizione al parlamento parigino, di «illuminare il governo, far guerra agli abusi e reclamare il progresso in tutte le cose ...». Dichiara solennemente che sarà filosofo in tutte le cose, puritano in politica. [...]. Dal canto suo, Balzac non perde l’occasione per commentare che liberalismo sta diventando «una nuova parola d’ordine per nuove ambizioni». [...].

  Infine, Balzac offre un ultimo, prezioso suggerimento, non tanto al candidato ma ai suoi sostenitori, più o meno eccellenti. «Il potere non abbandona mai chi si fa strumento solido e sicuro, elegante e ben presentabile». Una lezione di stile e di politica per il bravo candidato, ma anche per l’ancor più bravo rappresentante. [...]

  Avendo combinato il meglio della brillante visione anticonformista della società e della politica [...] Honoré de Balzac presenta al lettore, di ieri e di oggi, un’impietosa e spiritosa analisi di una politica che nelle sue componenti centrali si riproduce solo marginalmente cambiata. Anzi, che non è affatto passata di moda. [...].

 

 

  Adelaide Perilli, La sirène et l’imaginaire dans “Ferragus”, «L’Année balzacienne», nouvelle série, Paris, 14, 1993, pp. 229-259.

 

  L’A. riflette sul simbolismo degli spazi urbani parigini descritti in Ferragus, caratterizzati, nella loro mostruosità, dai «traits d’une sirène» (p. 232) ed espressione, parallelamente, dell’«ambition balzacienne envers le corps féminin qui est source d’une attraction invincible mais aussi d’un dégoût mal caché» (p. 259).

 

 

  Beniamino Placido, Impiegati brava gente, «la Repubblica», Roma, 11 maggio 1993, p. 29.

 

  Purtroppo gli scrittori che dell’impiegato si sono occupati, da Balzac al nostro Bersezio («Le miserie d’monsù Travet») erano tutti molto bravi. Bravissimo, geniale, realista-visionario poi, Honoré de Balzac. Che all’impiegato parigino dedicò qualche romanzo; e poi un trattatello: «La fisiologia dell’impiegato» che adesso l’editore Abramo pubblica, per cura di Marco Diani (pagg. 134, lire 14.000). E’ un libriccino divertente e pericoloso. Eccolo lì l’impiegato parigino con tutti i suoi limiti e le sue tristezze. Abita in periferia, è appesantito da una moglie banalissima, è bistrattato dai superiori, vede far carriera i bellimbusti meno meritevoli di lui. Non riesce a far la dote alle figlie. Passa nel suo bugigattolo polveroso delle giornate interminabili. Ma come? «Delle nove ore d' ufficio che l’impiegato deve allo Stato, quattro e mezza si perdono in chiacchiere, minuzie, bisticci, intrighi, oltre che nel far la punta alle matite». Ben detto, perbacco. Ci mancherebbe: l’ha detto Balzac. Proprio così, anche oggi.

 

 

  Regina Pozzi, L’attività critica. 2. La concezione estetica, in Hippolyte Taine. Scienze umane e politica nell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1993 («Saggi Marsilio. Storia e scienze sociali»), pp. 155-170.

 

 

  Jean Reboul, Sarrasine ovvero la castrazione personificata, in Honoré de Balzac, Sarrasine ... cit., pp. 61-71.

 

  Nel novembre del 1830, un anno dopo la morte del padre, Balzac, che ha trentun anni, scrive la terza novella del II tomo delle Scènes de la vie parisienne, Sarrasine, una trentina di fogli infilati come un segnalibro (o un segnale) tra i mastodonti della Comédie humaine. [...]. Il racconto è redatto in prima persona, cosa che ne sottolinea il tono personale e confidenziale. È costituito da un prologo, un racconto e un epilogo. Il suo carattere onirico colpirebbe il meno avvertito; ha poco a che vedere con le suggestioni, pur ben avvertibili, del romanzo nero che saturò l’epoca e che, paradossalmente, smorzano qui l’angoscia sotto estenuati luoghi comuni; molto di più con la permanente erosione del contenuto esplicito ad opera del contenuto latente da cui l’amore e la morte, scambiandosi insegne e poteri, emergono separati l’uno dall’altra solo per riassorbirsi subito nell’enigma che li lega.

  Il narratore si trova, accompagnato da una signora, al ballo dei Lanty, ricchi banchieri di cui Parigi non sa nulla ad eccezione della loro favolosa ricchezza. È mezzanotte, come ai primi accordi di Igitur («la mezzanotte in cui si devono gettare i dadi»). Il narratore si sforza di comunicarci il sentimento di dissociazione che prova, che è il tema della novella e che sarà chiarito solo dal progressivo svelarsi della situazione. [...].

  Diviso tra questo paesaggio d’alberi spettrali al di là del vetro, rischiarati nella neve dalla luna, e il tiepido splendore delle sale in cui si ritrova voltandosi, il narratore non ha nessuna esitazione a porsi qui come tra la vita e la morte; e la banalità dell’antitesi romantica si riattiva nella prosaicità di una sensazione fisica che seziona nel corpo il nostro dandy, dopo questo frazionamento dell’anima [...].

  Ma il tema si dilata bruscamente fino a evocare a proposito dell’ospite, la contessa di Lanty, l’immagine di una mutilazione precisa [...].

  Questi preparativi sapientemente graduati servono soltanto a introdurre nella sontuosa dimora il mostro la cui descrizione fantastica non richiederà meno d’una decina di pagine. [...].

  Il racconto che segue sembra non avere alcun rapporto con gli avvenimenti della vigilia e concernere un nuovo personaggio: lo scultore Sarrasine, il cui patronimico a desinenza femminile evoca un Islam di turcherie nonostante fosse nato a Besançon. Veniamo a sapere dei suoi turbolenti anni di collegio, e che, durante le risse dell’adolescenza, quand’era il più debole, mordeva. Maledetto dal padre per le sue empie stravaganze, trova asilo a Parigi nell’atelier di Bouchardon, vi manifesta il suo genio nascente e riacquista il favore paterno grazie all’intervento del suo maestro. Quest’ultimo «ne soffocò l’energia con continui lavori» e contiene la sua foga con l’inflessibile dolcezza della sua autorità che risveglia in lui una riconoscenza filiale. Il risultato è che dapprima egli non ha che la scultura come amante, poi Clotilde, una ragazza dell’Opéra che lo restituisce presto all’amore delle arti, e di cui, nell’ambiente, ci si stupiva che avesse potuto, per qualche tempo, prevalere sulle statue.

  Mantenuto così in una «profonda ignoranza delle cose della vita», parte per Roma, «regina delle rovine». Una sera, seduto a teatro tra due preti, resta folgorato d’amore per la Zambinella, prima donna che gli strappa grida di piacere. [...].

  Sarrasine nega la possibilità della castrazione, aggrappato fino alla fine alla boa squarciata della denegazione. Ma lui, Balzac, libera la sua creatura utilizzando adesso il lui e non più lei per designare Zambinella. Quella stessa notte, lo scultore rapisce l’essere ambiguo, lo rinchiude nel suo atelier e l’interpella, spada alla mano, come al termine di una corrida. [...].

  Questo marchio d’imperfezione, la castrazione reale, si allaccia alla mancanza immaginaria del fallo materno, il cui problema eluso o rimosso si pone di nuovo bruscamente. Per quanto travestito e transvestito fosse, Zambinella doveva nascondere (a differenza delle donne) molto più di quello che non aveva: non potendo fare in modo di non averlo avuto e perduto, ma avendolo perduto realmente, proclamava dunque che tutti correvano il rischio di perderlo, diventando così essere-per-la-castrazione, vale a dire essere-per-la-morte.

  Frustrato, si può pensarlo dopo quello che sappiamo di lui, dalla castrazione simbolica che crea un’esistenza attraverso il reale senza creare il reale, e a causa della quale il sacrificio si innesta sulla legge, il debito sulla promessa e lo scambio, Sarrasine, portatore di un pene poco sicuro perché non l’ha ricevuto due volte, non può che rimetterlo in discussione, non appena confrontato, nel reale, a un uomo amputato chirurgicamente del suo.

  Ecco che appena giunto allo stadio dello specchio, sul bordo dell’associamento narcisistico di se stesso ad opera di se stesso, attraverso l’altro, egli si ritrova, a causa dell’altro, nel suo frazionamento davanti allo specchio profanato.

  Egli non può appropriarsi, escludendolo nell’altro speculare, del genitale, poiché l’altro ne è privo. Per lui, non ci sono più donne: soltanto uomini mutilati; non ci sono, anzi, che uomini in proroga: soltanto virilità condannate. [...]. Castrazione e morte, il ciclo fatale è chiuso. [...].

 

 

  Joyce M. H. Reid, Balzac Honoré de, in Dizionario Oxford della letteratura francese. Edizione italiana a cura di Luciano Poggi, Roma, Gremese Editore, 1993 («Dizionari Gremese»), pp. 34-35.

 

 

  Franco Rella, Miti e figure del moderno. Letteratura, arte, filosofia, Milano, Feltrinelli Editore, 1993.

 

  pp. 149-150. Il mistero dell’opera.

 

  Allora si ritorna a Cézanne: al mistero della sua opera, ma anche al mistero della sua vita, di quei suoi ultimi trent’anni passati di fronte a “cose” con l’ossessione della réalisation, che non a intesa semplicemente come la “realizzazione” dell’opera, quanto piuttosto come l’ossessione di rendere reale nella forma ciò che ci si dà in modo così frammentario, confuso, evanescente da non poter essere considerato davvero come “il reale”. La réalisation è l'esperienza del mero oggetto che si spinge fino alla verità della cosa.

  Il vecchio Cézanne si esaltava ancora, fino all’ultimo, di fronte al folle tentativo di Frenhofer nel Capolavoro sconosciuto di Balzac di cogliere nella fissità della tela la pulsazione della vita, era rimasto ferito e lacerato da quello che aveva ritenuto essere un suo ritratto, il ritratto del suo fallimento, nell’Oeuvre di Zola. Perché non si può né si deve fallire di fronte al compito di rappresentare, o meglio di rendere reale nella tela la vita inafferrabile.

  Ma Cézanne tornava sempre comunque al lavoro. Aveva capito, come Balzac, che “nella pittura si può giungere improvvisamente davanti a qualcosa di così immenso a cui nessuno può bastare”.

 

  pp. 244-245, nota 31. Balzac, nel 1831, ha scritto un racconto che ha, in questo senso, una forza o addirittura un furore profetico. Si tratta del Capolavoro sconosciuto (H. de Balzac, Le chef-d’oeuvre inconnu, in La Comédie humaine, sous la direction de P.-G. Castex, Gallimard, Paris 1976, vol. X). In esso si muovono due pittori “storici” e una figura di pittore inventata da Balzac. Dunque il giovane Poussin incontra, recandosi nello studio di Porbus per mostrargli i suoi disegni, un vecchio con un “che di diabolico nella figura”, il quale afferma che l’arte non deve copiare la natura, ma deve cercare di “cogliere lo spirito, l’anima, la fisionomia delle cose”. Soltanto così è possibile giungere alla bellezza che è “cosa severa e difficile”, che può essere colta soltanto stringendola in una forma, che è essa stessa plurale come la realtà che ci circonda, come la vita che “deborda” e “fluttua nebulosamente all’intorno”. Qui inizia davvero “la leggenda dell’arte moderna”, non tanto o non soltanto per gli artisti e i poeti che hanno meditato su questo racconto come su di una profezia, ma perché Balzac coglie il mutamento conoscitivo che emerge da una nuova realtà. È dunque l’inizio, o la profezia, dell’arte del moderno. Frenhofer è dietro tutto questo. È dietro Cézanne, per il quale, come scrive D. Ashton (La leggenda dell’arte moderna, tr. it. di M. Vitta, Feltrinelli. Milano 1982, pp. 46 e sgg.), “la favola di Frenhofer esercitò sulla sua vita un influsso rimasto inalterato nel tempo. Mentre era ancora incerto fra le diverse maniere, fra i ventisette e i trent’anni (1866-69) l’artista si era divertito a rispondere alle domande contenute in un libretto di otto pagine Le mie confidenze (...) Alla domanda circa il personaggio della letteratura o del teatro al quale ci si fosse più ispirati, Cézanne aveva risposto: Frenhofer. Più o meno nello stesso periodo Cézanne aveva eseguito due schizzi raffiguranti un artista del XVII secolo (...). Cézanne aveva in mente Le chef-d’oeuvre inconnu. Nella vecchiaia, la favola di Frenhofer lo attirò con forza ancora maggiore”.

 

 

  Massimo Romano, I tanti difetti dei giornalisti nell’impietosa classificazione di Honoré de Balzac. Tutti i particolari in cronaca, «il Giornale», Milano, 21 marzo 1993.

 

  Il mondo dei giornali bersagliato da una girandola di velenose stilettate e di aforismi brucianti: è quanto ha fatto Honoré de Balzac in I giornalisti. Monografia della stampa parigina, che esce per la prima volta in Italiano a cura di Carmine De Luca. Scritto nel 1843 (quando l’autore era al culmine della popolarità, aveva già pubblicato quasi tutti i grandi romanzi della Comédie Humaine e aveva descritto i meccanismi della nascente industria culturale in Illusioni perdute), questo libro non è soltanto, come scrive il curatore nell’Introduzione, un «attacco feroce contro gli ambienti della stampa parigina», ma un’indagine «di sconcertante attualità» sugli ingranaggi della macchina della stampa.

  Per la sua influenza sull’opinione pubblica, il giornalismo diventa una professione rampante nel periodo della monarchia di Luigi Filippo, un mestiere che permette di creare una notorietà fasulla o di distruggere una reputazione. Balzac classifica in generi e sottogeneri i vari ruoli del giornalista usando «gli strumenti stilistici della caricatura e del sarcasmo». Il «pubblicista», definito «un uomo che si occupa dei fuscelli galleggianti dell’attualità», può essere un «uomo di Stato», un «panflettista», un «nientologo», cioè un volgarizzatore di luoghi comuni, uno «scrittore monobiblico», cioè autore di un libro solo, un «camarillista», il cronista parlamentare.

  Ci sono tre tipi di direttore: «l’ambizioso», attratto dal potere della politica, «l’uomo d’affari», che considera il giornale un investimento di capitali. e il «purosangue», che ha la vocazione del giornalismo, «gode nello sfruttare le intelligenze» e considera il giornale «la sua fortuna, la sua casa, il suo piacere, il suo potere».

  Il critico, che nasconde sempre «un autore impotente», «vezzeggia e corteggia la mediocrità», e può essere un «negatore» o un «burlone», un «incensiere», cioè addetto agli elogi, o un «bravo», colui che «vuole farsi un nome o, almeno, lo spera attaccando le grandi reputazioni. È noto per impugnare i libri, per spaccarne la schiena; è un massacratore giurato. Questo squartatore letterario non discute un’opera, la fa a pezzi; non la esamina, la stritola».

  Inutile dire che i critici e i pubblicisti di oggi rientrano perfettamente in queste categorie, si possono specchiare e riconoscere nelle tipologie disegnate da Balzac esattamente un secolo fa. Anche l’etica di comportamento del giornalista, che considera «vero tutto ciò che è probabile» e si basa sulla regola «colpiamo prima, spiegheremo poi», è rimasta la stessa.

  La stampa è femminile, è una sirena incantatoria, «come la donna, è ammirevole e sublime quando dice una bugia, non vi molla finché non vi ha obbligati a credere, e dispiega le migliori qualità in questa lotta in cui il pubblico, stupido come un marito, soccombe sempre».

 

 

  Arminio Savioli, Giornalisti: una specie da buttare. Parola di Balzac, «l’Unità», Roma, Anno 70, N. 89, 27 aprile 1993, p. 17; 1 ill.

 

  In un pamphlet scritto nel 1843 lo scrittore si dedicò a catalogare le varietà di un «formicaio» umano. Ignoranti, corrotti, servili eppure «magnifici» nella loro nullità.

 

  Ben nota, ancorché contestata, è l'ammirazione per Balzac di Marx A Engels (se è ancora lecito citare gusti, idee, fissazioni della celebre coppia). In una lettera alla scrittrice socialista inglese Margaret Harkness, volonterosa ma ingenua, Engels chiarì con garbo, ma con fermezza, le ragioni di tanta stima scrivendo (la citazione è da: K. Marx, F. Engels, «Sull’arte e la letteratura», a cura di V. Germana, Universale economica. 1954): «Balzac, che io ritengo un maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comédie Humaine un’eccellente storia realistica della società francese ... Egli descrive come gli ultimi avanzi di questa società per lui esemplare (quella della morente aristocrazia, invano e provvisoriamente restaurata, ndr), andavano a poco a poco soggiacendo all’assalto del ricco e volgare villan rifatto ... e intorno a questo quadro centrale raggruppa una storia completa della società francese dalla quale io ... ho imparato più che da tutti gli storici, economisti, statistici di professione di questo periodo, messi insieme».

  Secondo Engels, l’opera di Balzac era tanto più lodevole in quanto lo scrittore, «politicamente», era un legittimista, un monarchico, un reazionario nostalgico dell’ancien régime, le cui simpatie andavano «tutte» alla «classe condannata a tramontare». E proprio in questa contraddizione vi era – secondo Engels – un magnifico esempio di come «il realismo di cui parlo possa manifestarsi anche a dispetto delle idee dell’autore».

  Questi brani, su cui si sono in seguito esercitati e accapigliati i più insigni specialisti di letteratura, si addicono perfettamente anche a un’opera «minore» di Balzac, a un pamphlet scritto nel 1843, quando l’autore aveva 44 anni ed era già maturo e famoso: opera pubblicata ora anche in una traduzione italiana, per la prima volta secondo il curatore Carmine de Luca, sotto il titolo laconico «I giornalisti» (Abramo editore, pagine 176, L 16.000).

  Con la stampa quotidiana e periodica, Balzac ebbe un rapporto intenso, complesso e ambiguo. Sui giornali pubblicava romanzi a puntate, che intelligenti e disonesti librai belgi stampavano spesso e volentieri in volumi «pirati» senza pagarlo mai. Collaboratore di molte testate (il curatore ne enumera non meno di sette). Balzac tentò anche di fare un po’ di soldi come editore-direttore-redattore in proprio, ripescando o lanciando un paio di riviste, ma senza alcun successo Sarebbe però ingiusto attribuire solo alla delusione per tali fallimenti, o, più in generale, al rancore per gli inevitabili attriti con i proprietari dei fogli per cui scriveva, la genesi dell’opuscolo in questione, nato certamente da più profondi stimoli (gli stessi, forse, per cui «un baco da seta produce seta», e qui la citazione è, nientedimeno, dal Marx di «Teorie sul plusvalore», Editori Riuniti, 1961).

  Il Balzac che, con ben simulata serietà scientifica, al limite della pedanteria, si dedica a catalogare e a descrivere le diverse specie e sottospecie, generi, sottogeneri e varietà di giornalisti come se si trattasse (sono parole sue) di «Anellidi, Molluschi, Entozoi», sembra mosso da un odio viscerale per i «soggetti» della sua monografia di stampo zoologico. E tuttavia, come l’entomologo più freddo e distaccato non sfugge alla morbosa seduzione che su di lui finiscono per esercitare alcuni, almeno, dei viscidi insetti a cui dedica l’esistenza; così lo scrittore non può fare a meno di esprimere (involontariamente, suo malgrado, con riluttanza) una sorta di stupefatta ammirazione per il formicaio umano che aveva pur deciso di aggredire e distruggere con la penna intinta nel fiele e nel veleno.

  I giornalisti «di» Balzac (ma solo i suoi?) sono, sì, ignoranti, ampollosi, servili, meschini, cinici, bugiardi corrotti, spesso analfabeti o quasi, sempre voltagabbana: ma in queste qualità negative essi eccellono, perché proprio in esse si compendia e si esalta (appunto) l’avida, animalesca, bestiale, inarrestabile vitalità della borghesia in ascesa, dei «villani rifatti», o aspiranti a «rifarsi-, accorsi a migliaia da oscuri angoli di provincia, a tentare la fortuna a Parigi (a Roma?, a Milano?). Nella loro lotta feroce per dare la scalata al potere, a una parvenza di potere, a una briciola di potere, o anche semplicemente per procurarsi un invito a cena prostituendo la propria intelligenza, c’è qualcosa di ripugnante, è ovvio, ma anche molto di epico, di sublime, di eroico. Essi, i giornalisti (ma perché «solo» i giornalisti, perché non «tutti» gli esseri umani?) sono mostri meravigliosi: grandiosi nella piccolezza, temerari della viltà, altissimi nella bassezza. Da essi emana il fascino del male (lo stesso fascino perverso, ma irresistibile, che consegna l’Onesto, ingenuo Otello, nelle mani del perfido Jago, il vero protagonista della tragedia).

  «Questo pamplhlet (sic) – scrive il curatore – risulta oggi, per più aspetti, di sconcertante attualità»: ed è vero, almeno per due «aspetti» (ad altri il compito di trovarne un terzo, un quarto, un quinto). Il primo: dall’opera emerge la foto, la «copia» (sconfortante o esaltante?) di uno «ieri» che tanto, troppo, somiglia all’«oggi» e al «domani». Il secondo: come un importuno insonne, petulante fantasma, Balzac ci costringe a riflettere (mentre tanto vorremmo distrarci, sonnecchiare, defilarci) sul solito dilemma che da un paio di secoli si ripresenta puntuale, in ogni momento di crisi «storica», in questa vecchia Europa (altrove, beati loro, o povere» loro, hanno ben altri problemi): e cioè se sia meglio o peggio una democrazia sbracata, con la sua stampa pasticciona, superficiale e gaglioffa, o un «bel» regime dittatoriale, magari solo un po’ autoritario, che «rimetta tutto a posto» (nascondendo l’immondizia degli scandali sotto i folti tappeti della censura). [...].

  Anche Balzac. forte, ha scritto un reportage, sotto forma, però, non di romanzo, ma di parodia. Le sue caricature sono infatti troppo simili al vero per non essere vere, e non muovono al riso perché in quel (o «di» quel) formicolante sottobosco umano, non c’è proprio niente da ridere.

  Su un punto (per concludere) non si può, e comunque non si deve, essere d’accordo con l’autore. Proprio all’inizio e alla fine dell’opera, Balzac ha posto due «assiomi» gelidi come pietre tombali. Il primo: «Si ucciderà la stampa come si uccide un popolo, dandogli la liberta». L’ultimo. «Se la stampa non esistesse, non (attenzione: non) bisognerebbe inventarla». [...].

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Torna «La fisiologia degli impiegati» di Balzac. C’è una formica nell’ufficio, «Il Messaggero», Roma, 19 maggio 1993, p. 22.

 

  Esauriti gli slanci in avanti dell’Impero in cui ogni soldato aveva nello zaino il bastone da maresciallo, e quelli all’indietro, azzardati dalla Restaurazione nel tentativo di cancellare gli anni della rivoluzione, gli anni Quaranta sembrano segnati da un’irreparabile tranquillità.

  L’assonnata quiete della monarchia borghese sembra pilotare definitivamente la Francia fuori dei marosi della storia, per consegnarla alla torbida stasi della natura. In questo clima, il principe Rodolphe dei Misteri di Parigi di Sue intraprende, con sorprendente successo di pubblico, delle singolari spedizioni. Ogni sera, deposto il cilindro satinato del dandy, si traveste da popolano ed esplora i bassifondi della sua metropoli. La jungla non è più solo una prerogativa dell’Africa misteriosa, la si può trovare anche nei vicoli maleodoranti di una città.

  Il declino del futuro, unito all’inutilità di ripensare un passato ormai inservibile sia per i conservatori che per i progressisti, schiude al presente una labile oasi nei sussulti che scuotono la società francese nel XIX secolo. In questo golfo, al riparo dalle correnti della storia, gli osservatori si chinano a esaminare curiosamente la spiaggia su cui sono scampati ai marosi del progresso. [...].

  Ritornando, nel 1841, su un argomento già esplorato, nel 1838, nella Donna superiore Balzac pubblica la deliziosa Fisiologia degli impiegati, annunciata per la prima volta nella sua interezza dalle edizioni Abramo di Catanzaro. La scolorita popolazione dei burocrati ha «qualcosa di meraviglioso, di banale e di raro, d’eccezionale e d’ordinario, qualcosa del vegetale e dell’animale, del mollusco e dell’ape».

  Per questi strani animali, spiega lo scienziato sociale, la natura è l’ufficio. Il loro elemento è la polvere, l’atmosfera è dominata dall’odore di chiuso, il cielo è il soffitto. Con declino dell’epoca eroica sono state ammainate anche le divise imposte dall’Impero, sostituite dalle mezze maniche e dalle bluse da lavoro.

  Il potere del capodivisione si traduce immediatamente nella relativa ampiezza della sua stanza. A questo sereno isolamento, si contrappone la promiscuità del vasto locale riservato agli impiegati. Se i superiori possono vantare camini, poltrone di pelle rossa e mobili di mogano, gli inferiori devono accontentarsi di una stufa e le scrivanie, verniciate di nero, non risaltano contro l’austera cupezza della tappezzeria.

  Chi teme gli spifferi, si ripara dietro un paravento di pratiche, mentre il freddoloso appoggia i piedi su uno sgabello. La porta del vicecapo è perennemente socchiusa, come una pupilla attenta, sulle attività dei salariati. Lo strato più basso della popolazione è rappresentato dal soprannumerario, su cui si riversano i compiti più sgradevoli. Il suo modesto aspetto è frutto dello sforzo della sua famiglia, che si concentra sulla sua malinconica persona, nella speranza d’avvicinarlo all’agognata meta dell’impiego. E’ il giovanotto pallido e timoroso, che fende cautamente la folla parigina cercando di non inzaccherare l’unico abito decoroso, mentre una sporgenza delle tasche rivela la presenza dello sfilatino destinato al pranzo.

  Presto, però la recluta perde la sua innocenza davanti allo sconcertante spettacolo dei metodi praticati per far carriera. [...].

  Gli impiegati, per Balzac, si dividono in due specie fondamentali: gli scapoli e i coniugati. I primi sono trascurati e disordinati, pronti a lasciare la trincea della burocrazia alla prima occasione. Tra loro brilla come un solitario il «bell’uomo». Sospeso tra la giovinezza e la maturità, cura voluttuosamente il suo aspetto, consegnando al sarto gran parte dello stipendio. Vive con frivolo eroismo nella speranza di un ricco matrimonio, diversissimo dal solerte «babbeo», invariabilmente sposato. Tenace lavoratore, fiero del suo ministero, è succube della moglie. Altrettanto solerte, l’introverso «collezionista», riempie la sua vita accumulando dispense di libri illustrati, tra cui l’autore pone maliziosamente una raccolta di fisiologie, i Francesi descritti da se stessi. L’astuto «letterato» riesce ad arrotondare la paga componendo vaudevilles. Sempre impeccabile, riesce a eludere i rigori dell’orario regalando biglietti gratuiti ai superiori. Più patetico il «cumulatore» aggiunge ai suoi impegni una quantità di lavoretti, e non s’accorge che la sua promozione è dovuta al fascino della consorte. Pallido o paonazzo, incapace di sorridere, l’«usuraio» conduce parallelamente una vita sotterranea, in cui incontra i suoi sfortunati clienti. L’abilità non è la qualità preminente dell’«adulatore», pronto a lusingare i superiori come a tradire i suoi compagni. Sempre teso e preoccupato, lo «sgobbone» prende sul serio la carriera e finisce per affermarsi. L’unico personaggio sereno in questa galleria è il fattorino, affondato, tra una corsa e l’altra, nella sua comoda poltrona. Dal suo osservatorio, reso immune dall’ambizione dell’impossibilità di emergere, studia attentamente le abitudini e i vizi degli impiegati. «Alla base di questa piramide umana, alla cui sommità c’è il ministro», conclude Balzac «c’è un uomo felice».

 

 

  Osvaldo Scorrano, Nascoste nel cuore di Parigi le maison di Balzac e Hugo, «La Stampa», Torino, 3 settembre 1993, p. 21.

 

  [...]. Balzac, invece, non arrivava trionfante a rue Raynouard: si nascondeva per sfuggire ai creditori, ai sequestri Nel 1840, Passy aveva un’aria provinciale Egli si sistemò in rue Basse (l’attuale rue Raynouard). Era (ed è) una casa strana, deliziosamente anacronistica. Un giardino conduce bizzarramente su un secondo piano, quello di una casa che, dall’altro lato, dà sulla rue Berton, situata più giù. Balzac vi si fece scrivere il nome di Monsieur de Breugnol, dal nome della sua governante, Louise Breugniot. Quattro stanze, una cucina (dove si trova oggi la cassa del Museo). Dei fogli bianchi. E, disse Gérard de Nerval, che venne a trovare Balzac, «un odore delizioso, su due dei piani, tutte le varietà di pere di Saint Germain». Perché tante pere oggi scomparse non si sa. Vi si possono vedere ritratti, documenti e quattro piccoli drammi che evocano la febbre del suo lavoro. Si trovano anche dei libri con dedica e un tavolo, semplice e rettangolare, che ha visto nascere migliaia di pagine, perché nella «capanna» di Passy sono stati scritti, tra gli altri, Ursula Mirouët, La cugina Betta, Il cugino Pons, Un tenebroso affare. Al Museo Balzac, si può ancora ammirare un oggetto straordinario; il bastone ornato d’oro e di pietre turchesi che Balzac ordinò a un gioielliere nel 1834. Gli si attribuì a lungo il potere di rendere invisibili e di conferire a Balzac una penetrazione divina degli uomini e dei cuori di cui non aveva, si diceva, nessun mento: bastava ammirare il bastone. Esso suscitava il baccano dei ragazzi del vicinato. Quando il loro rumore era troppo invadente, Balzac prendeva il calesse e andava a perdersi a Parigi. [...].  

 

 

  Elisabetta Stefanelli, Balzac contro tè e caffè, «La Sicilia», Catania, Anno XLIX, N. 19, 20 Gennaio 1993, p. 29.

 

  Secondo quanto racconta Honoré de Balzac nel suo «Trattato sugli eccitanti moderni» (Theoria, pp. 128, L.10.000), capitolo della più vasta «Patologia della vita sociale» del 1838, il governo inglese avrebbe fatto agli inizi dell’800 un singolare esperimento. «Il governo inglese – sostiene lo scrittore – ha permesso di disporre della vita di tre condannati a morte ai quali è stato offerto di optare tra l’essere impiccati, oppure di vivere esclusivamente l’uno di té, l'altro di caffè, l’altro di cioccolato». Il risultato fu che il primo morì dopo tre anni per «consunzione», il secondo dopo due anni «bruciato come se il fuoco di Gomorra lo avesse carbonizzato», il terzo dopo solo otto mesi «in uno spaventoso stato di impudrimento, divorato dai vermi». La morale balzachiana è che «il destino di un popolo dipende dall’alimentazione» e che quindi quello dell’uso di sostanze tanto deleterie come zucchero, caffè, alcol e tabacco, sia in primo luogo un problema etico e politico. Ma aldilà dei contenuti morali dell’opera, per i lettori smaliziati di oggi l’eccessiva pedanteria dello scrittore francese si trasforma in un paradossale racconto dalla irresistibile vena comica. Balzac ad esempio, dopo aver bevuto ben diciassette bottiglie di vino, dà la colpa del suo stato di ebbrezza ai due sigari che era stato «obbligato a fumare».

  «Il tabacco ebbe un azione – racconta – di cui mi resi conto solo quando scesi le scale. Mi sembrò che i gradini fossero composti di materia molle: ma salii gloriosamente in carrozza». Segue la straordinaria descrizione di un concerto visto con gli occhi di un Balzac completamente ubriaco: «l’orchestra mi appariva come un enorme strumento entro il quale si faceva un lavoro qualsiasi di cui non potevo afferrare né il movimento, né il meccanismo, non vedendovi che. molto confusamente, i manici dei bassi, gli archetti che si agitavano, le curve dorate dei tromboni, i clarinetti, le luci». Così ogni capitoletto dedicato ad uno dei quattro eccitanti incriminati diventa per il grande autore lo spunto per un quadretto di costume, un frammento di «commedia umana». «Chi andando a zonzo per Parigi, non ha osservato nei dintorni dei mercati generali, tra le due e le cinque del mattino, quella tappezzeria umana formata dagli assidui clienti dei fabbricanti di liquori?». Il caffè poi sembra essere per lui una specie di entità demoniaca: «produce una specie di vivacità nervosa che somiglia a quella della collera»

 

 

  G.[iovanni] Tesio (a cura di). L’estate in tasca. Nella Parigi di Balzac. Al ballo della Restaurazione, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, N. 864, 24 luglio 1993.

 

  Alla Parigi della Restaurazione chiama invece il racconto giovanile di Balzac, incastonato nella Comédie, che si intitola Il ballo di Sceaux, pubblicato da Passigli nella traduzione di Nanda Colombo (pp. 78, L. 8500). Il conte di Fontaine, vandeano di ferro e carico di una famiglia numerosa, cede ai desideri della moglie e si reca nella capitale, dove accumula un bel po’ di credito e fortuna. Tra splendore di feste e lusso di sale, la storia s’appunta sulla figlia terzogenita del conte, Emilia di Fontaine, capricciosa e letterata, abbagliante e noncurante, orgogliosa e bizzarra, alle prese con il sogno arido e sfrenato di sposare il figlio di un pari di Francia, naturalmente a scapito della sua stessa felicità, poiché – come riflette Balzac – la vanità ha il potere di inaridire tutto.

 

 

  Paolo Todaro, Le impressioni dell’autore della “Comédie humaine” sul variegato mondo della stampa. Pubblicisti, pamphlettisti, traduttori: i giornalisti alle prese con l’attualità, «La Voce repubblicana», Roma, 5-6 aprile 1993.

 

  Nella Francia del 1843, Honoré de Balzac scrisse e pubblicò un corrosivo pamphlet dedicato al variegato mondo del giornalismo. L’autore della Comédie humaine scrisse in quegli anni numerosi saggi di costume, come la Physiologie du cigar (sic) (= Fisiologia del sigaro) o il Traité des excitants modernes (= Trattato sui moderni stimolanti — nel quale elaborò elogi sperticati per il caffè —). Questi trattatelli dimostrano un interesse notevole da parte del romanziere francese per la nascente, a quell’epoca, scienza sociologica.

  In questo panorama si colloca la Monographie de la presse parisienne, articolato rapporto sulla nascita del quarto potere: il giornalismo E’ con attenzione quindi che accogliamo la proposta della Editrice Abramo, che nella collana I Cammelli ed avvalendosi della traduzione di Laura Franco ci consente di apprezzare l’autorevole giudizio di Balzac, peraltro datato di centocinquant’anni.

  Balzac è scrittore, romanziere: nella pagina scritta vengono riprodotte fedelmente quelle impressioni che solo lo spirito di osservazione di un attento analizzatore dei costumi poteva cogliere. Tuttavia qui il grande letterato smette i panni dello scrittore e, con rigore scientifico, cataloga severamente le tipologie in cui si esprime il giornalista.

  Lo stile è asciutto, l’ironia conduce per mano il lettore ma non lo condiziona. L’autore dimostra una certa diffidenza verso i “pennivendoli'” ma comunque li rispetta e cerca di illustrare al lettore la crescente importanza sociale e politica che la loro funzione riveste nella società.

  Balzac, nella descrizione dei personaggi, si lascia spesso aiutare dalla propria inventiva per suffragare le teorie che espone, servendosi di ipotetici articoli immaginati all’occorrenza per illustrare i cliché professionali con i quali il giornalista lavora.

  L’autore divide il giornalista secondo due generi: Il Pubblicista ed il Critico. Suddivide poi ulteriormente ogni genere in sottogeneri e distingue fra questi ultimi alcune “varietà”. Più precisamente il Pubblicista presenta otto sottogeneri (Giornalista, Uomo di Stato, Pamphlettista, Nientologo, Pubblicista col portafoglio, Scrittore monobiblico, Traduttore, Autore con le certezze). Il comun denominatore che associa questi sottosegeneri (sic) è la qualità di occuparsi sempre e comunque del “fuscelli galleggianti dell’Attualità”. Il Giornalista e l’Uomo di Stato sono i due sottogeneri che vantano molteplici varietà (il Fabbricante degli articoli di fondo per il primo, il Politico con gli opuscoli, per il secondo, tanto per fare un esempio).

  I sottogeneri del Critico, i cui caratteri generali «sono notevoli soltanto nell’essenza, nel senso che esiste in ogni critico un autore impotente riguardano il Critico della vecchia guardia, il Giovane critico biondo, il Grande critico, il Feuillettonista ed i Piccoli giornalisti. Anche qui non mancano le varietà, come quelle previste per il Critico biondo (il Negatore, il Buffone, l’Incensiere) o per il Grande critico (il Giustiziere delle grandi opere).

  Come è stato brevemente esposto numerose e differenti tra loro sono le categorie dei giornalisti, pertanto la lettura della dissertazione di Balzac offre il destro ad alcune riflessioni.

  Innanzitutto non deve stupire che queste pagine siano di così stretta attualità, apparentemente sorprendente. Questo dato può solamente significare quanto abbia inciso nel corso degli ultimi due secoli nell’impianto sociale e culturale della società occidentale il mestiere e la funzione del giornalista. Non può sorprendere né essere causa di sdegno il riconoscere che la stampa sia diventata il “quarto potere”. Ai nostri giorni si continua a discutere sull’ingerenza dei giornali nella vita pubblica e si biasima il comportamento dei giornalisti in ogni frangente. Per arginare l’importanza che la loro funzione riveste si invocano moralismi codini, che dimostrano un’ignoranza storica manifesta. Il giornalista è spesso considerato il capro espiatorio di situazioni la cui genesi riguarda altri responsabili. E’ facile prendersela con colui che ha solo il compito di informare la gente e di commentare la realtà, cercando di interpretarla.

  Un’altra considerazione interessa il mondo della carta stampata. Balzac analizza, ovviamente, il mondo del giornalismo scritto, l’unico presente ed operante ai suoi tempi. Mai si sarebbe immaginato la nascita della radio e della televisione e la trasformazione della veicolazione della notizia in altra forma che non fosse la parola scritta. [...].

  L’ultima considerazione da fare, nonostante altre e diverse ne suggerisce la lettura, concerne le modalità con cui viene praticato il giornalismo. Il fatto che Balzac ne parli con così tanta dovizia di particolari e con cognizione di causa induce a pensare che egli abbia solamente ordinato e riportato convinzioni proprie suffragate dalla realtà quotidiana in cui viveva. Per dirla in altri termini i comportamenti giornalistici che lui cataloga sano praticati conosciuti e diffusi già ai suoi tempi Questo per dire che scandalizzarsi oggi e preoccuparsi per il presunto dilagare del potere giornalistico è subdolo e superficiale, per non dire antistorico. [...].

 

 

  Paolo Todaro, Esce da Sugarco la ‘Teoria del camminare’ dello scrittore francese. A passeggio con Honoré de Balzac, «La Voce repubblicana», Roma, 24-25 agosto 1993.

 

  Quando il movimento caratterizza le diverse specie.

 

  «Chi ha detto: “Il primo passo che l’uomo fa nella vita è anche il primo verso la tomba”, ottiene da me la stessa profonda ammirazione che accordo a quel delizioso imbecille che Henri Monnier ha ritratto mentre pronunciava questa grande verità: “Se togliete l’uomo dalla società, voi lo isolate!”». Con questo assunto termina la Théorie de la démarche scritta nel 1833 da Honoré de Balzac, e riproposta in questi giorni nella collana tascabile dalla Sugarco, nella traduzione che ne ha reso Stefano Viviani.

  Leggendo questo libriccino troviamo la conferma della vocazione di Balzac ad essere uno scrittore vivace, fedele cronista del tempo, osservatore curioso ed attento delle abitudini dei contemporanei e pronto ad evidenziarne le caratteristiche peggiori. Tuttavia il suo spirito — e la sua grandeur — non gli permettono di indulgere in una cattiveria che altererebbe uno stile sempre leggero e frizzante.

  L’autore di Papà Grandet scrisse una serie di piccoli vademecum in cui racchiuse lo spirito del tempo che viveva — il XIX secolo, in Francia cogliendone gli aspetti apparentemente più superficiali, permettendoci però di ricostruire la storia sociale e del costume negli ultimi due secoli. In certo senso è uno storico, un annalista, capace di tracciare nel quotidiano il pensiero di un’epoca. Questa però non era la sua vocazione. Sebbene a quel tempo a uno scrittore di fama non era permesso di concedersi al genere puramente comico, considerato di second’ordine – oggi per fortuna molte cose sono cambiate – Balzac aggirò l’ostacolo scrivendo questi libelli divertenti, camuffandoli da trattatelli.

  Sull’argomento “giornalismo” per esempio [...] si divertì in una classificazione così accurata da sospettare, al di là di un disgusto superficiale, una complice invidia per il mestiere di “pennivendolo”.

  In questa Teoria del camminare invece, prendendo spunto dall’analisi del movimento umano Balzac identifica le caratteristiche di ciascuna “specie” umana, giungendo ad una catalogazione completa degli umani attraverso il modo di incedere di ognuno.

  La camminata è la fisionomia del corpo, osserva Balzac. E’ possibile, secondo lui, scoprire un vizio, un rimorso, una semplice malattia vedendo un uomo in movimento. L’inclinazione più o meno accentuata di uno dei nostri arti, la forma telegrafica di cui esso ha contratto, nostro malgrado, l’abitudine, l’angolo o il cerchio che gli facciamo descrivere: tutto questo è di un’eloquena (sic) mostruosa. «Non avete mai riso di una donna che muovendo le braccia, la testa, i piedi o tutto il corpo disegna degli angoli acuti? O delle donne che tendono la mano come se il loro gomito fosse azionato da una molla?» si chiede divertito lo scrittore francese.

  La prima parte del testo è dedicata ad una illustrazione delle cause e concause che hanno determinato l’autore a comporre l’opera. Mai nessuno prima di lui infatti aveva capito che attraverso il movimento umano era possibile conoscere il carattere della persona o quantomeno, gli studiosi, filosofi, scienziati e letterati avevano dato minima importanza allo studio della deambulazione, ritenendolo di interesse tanto scarso da non meritare un trattato.

  Nella seconda Balzac passa ad analizzare le di verse tipologie della camminata tracciando, attraverso dodici “aforismi” come lui li definisce, i dodici parametri di riferimento, le dodici leggi per capire il passo umano e catalogarlo.

  Vale la pena di citarne qualcuno: La camminata è la fisionomia del corpo – Il riposo è il silenzio del corpo – Il movimento lento è fondamentalmente maestoso – Ogni movimento brusco tradisce un vizio. o una cattiva educazione – La grazia vuole forme arrotondate – Il movimento umano si scompone in tempi ben distinti; se li confondete arrivate alla rigidità meccanica – Camminando, le donne possono mostrare tutto senza lasciar vedere nulla – Ci sono dei movimenti della gonna che valgono un premio Monthyon – Quando il corpo è in movimento il viso deve restare immobile.

  Questo saggio a metà tra la psicologia e la sociologia sul movimento umano e sull’eterna commedia della vita umana è senza dubbio divertente, beffardo, caricaturale.

  Tuttavia la prosa di Balzac questa volta non è agilissima La narrazione procede per considerazioni, esempi, emozioni che affiorano scompaginando la sequenzialità del racconto. Frasi interrotte, continue circonvoluzioni ed elucubrazioni mentali frammentano l’esposizione. Un incedere troppo brusco e nervoso per essere al tempo stesso scientifico e frivolo.

 

 

  Patrizia Tomacelli, “La femme supérieure”: La Muse du département di Balzac, in I Personaggi Femminili del romanzo realista francese, Milano, Cooperativa Libraria I.U.L.M., 1993 («Università», 5), pp. 97-124.

 

  Dinah de la Baudrave è uno dei rari personaggi femminili dei romanzi del XIX secolo che si distinguono non solo per le qualità fisiche o morali, ma anche per cultura, intelligenza, istruzione ed “esprit". Dinah appartiene a quel genere di donne definite da Balzac “femmes supérieures”. Nella Physiologie du mariage troviamo una descrizione di questo tipo di donna “supérieure”, la cui identificazione è per lui quella con Mme de Staël, la “virago du XIXe siècle”, definizione nella quale è possibile riscontrare una certa ironia, che non esclude un apprezzamento positivo. [...].

  Ritornando a Dinah Piédefer, dobbiamo ricordare che il padre morì nel 1819 lasciandole una più che modesta rendita e che la madre, nonostante le ristrettezze economiche, riuscì a mantenerla in imo dei migliori pensionati di Bourges. [...].

  Bellezza e intelligenza non saranno pero sufficienti alla sua completa affermazione, né le eviteranno di avere un avvenire difficile. Esistono infatti vantaggi sociali come la ricchezza e la discendenza nobiliare che costituiscono elementi di ben più grande rilevanza nel destino di una giovane il cui compito “esistenziale” è di trovare un buon partito. Le indiscusse qualità di Dinah non compenseranno infatti l’assenza di origini nobili o quanto meno alto borghesi. La divisione di classe e la struttura sociale rigida dell’alta società non ammettono l’intrusione di una “roturière”, anche se questa vanta doti straordinarie d’intelligenza e di bellezza.

  Si tratta di regole che tutt’al più possono essere infrante da uomini, i quali non vivono lo stesso condizionamento e l’immobilità sociale della donna e che, grazie alla loro astuzia e determinazione, riescono a superare le pesanti barriere di classe: molti personaggi maschili dei romanzi di Balzac ne rappresentano una valida testimonianza.

  Per una donna, invece, valgono le parole di Lousteau, personaggio del romanzo, il quale afferma che la donna può dominare il mondo in due modi: essere Mme de Staël oppure avere una rendita di duecentomila franchi.

  Data perciò la sua condizione socio-economica, che cosa può fare ima giovane di provincia intelligente e ambiziosa per poter affermare se stessa e vedere riconosciute e apprezzate le proprie doti?

  Dinah sa bene che l’accesso alla “haute” le è precluso, perciò volge la sua attenzione a un ambito che manifesta pretese d’emulazione dell’alta società e che quindi le offre vantaggi economia e sodali, poiché, rimasta orfana di padre all’età di dodici anni, la giovane può vantare come patrimonio unicamente la sua sorprendente bellezza. […].

  Nell’intento di creare i migliori presupposti alla sua ascesa, essa intuisce l’importanza di assicurarsi innanzitutto la protezione di un’istituzione di potere: la Chiesa. Da protestante si converte così al cattolicesimo […].

  Qui non possiamo esimerà dal richiamare l’attenzione sul valore della prosa balzachiana: poche righe bastano a dare rilievo a un personaggio già conscio delle proprie scelte, le sole in grado di cambiare quello che sarebbe stato, malgrado tutto, il suo destino: una brava sposa, una brava madre, accanto a un uomo modesto, impiegato o artigiano: nulla più. Troppo poco per le sue ambizioni maturate in una precaria adolescenza, nella consapevolezza che il suo valore, la sua bellezza, meritassero un posto elevato nella società. E con una meditata conversione, opportunistica, certo, non per nulla osteggiata in famiglia, Balzac la propone come personaggio autenticamente romanzesco.

  L’arcivescovo, investito della parte di “legittimo dispensatore di equilibri”, si occuperà di trovare un marito alla giovane Dinah, in grado di offrirle dò che essa merita. [...].

  Le difficoltà dell’arcivescovo nel “collocare” la giovane presso una famiglia ricca e titolata erano dovute unicamente alle ristrettezze in cui si dibatteva l’erede Piédefer: mille scudi di rendita, derivanti da una proprietà posseduta in comune con la madre, erano infatti ben poca cosa. E in un contesto così limitato, sia geograficamente che socialmente, le difficoltà aumentavano miche per il sottinteso rifiuto della giovane a ogni accomodamento precario: il rapporto disincantato di Dinah con la realtà che la circonda, la fermezza con la quale essa matura le sue scelte, la sua consapevolezza di non voler abdicare per nulla al mondo allo scopo che si era prefissa, non possono che crearle intorno un alone di sospettosa diffidenza o, come succederà più tardi, di aperta avversione, specialmente tra le donne incapaci di rivaleggiare con lei.

  Dinah è – come abbiamo detto – un essere anomalo nella società della Restaurazione: il primo confronto che ci viene alla mente è quello con Mme de Rênal del Rouge. Anch’essa educata dalle suore, anch’essa ristretta in una provincia ostile: ma quale differenza nella presa di coscienza del proprio valore tra le due donne! Dinah agisce quasi come antitesi al tradizionale personaggio femminile che, pur con diverse vicende, delinea la propria sorte nel romanzo francese dell’Ottocento. Essa si comporta emulando, se così si può dire, personaggi maschili resi celebri da Balzac, ma anche dallo stesso Stendhal e, più tardi, da Maupassant: uomini dotati di intelligenza e sprovvisti di mezzi riescono a ottenere ciò che si sono prefissi grazie a un divisamente e a una spregiudicatezza non comuni, favoriti da una società, da una classe, che usa gli stessi mezzi per arricchirsi, infrangendo regole e comportamenti che un tempo erano la morale comune.

  Avendo dunque constatato che il nostro personaggio ha tutte le doti – nessuna esclusa – per affermarsi, dobbiamo insistere sul fatto che l’unico e certamente il più rilevante ostacolo è costituito dall’avversione che la società del tempo manifesta verso coloro che si propongono di infrangere le rigide regole di classe, che per una donna sono applicate con ancor maggior rigore.

  Dopo aver valutato i vantaggi derivanti dalle diverse proposte matrimoniali sottopostele dall’intraprendente arcivescovo, Dinah accetta di sposare M. de la Baudraye, di ventisette anni più vecchio di lei, ma anche, come ce lo descrive ammirevolmente l’autore, ben lontano dall’essere un uomo gradevole. Ventisette anni in più significa averne quarantaquattro: un’età accettabile per una giovane orfana bene educata e senza patrimonio. Nella società del tempo matrimoni del genere non provocavano né meraviglia né scandalo. Ma erano piuttosto le condizioni del barone de la Baudraye a essere oggetto di maliziosa attenzione [...]

  Per una ragazza di appena diciassette anni, seppur intelligente e vivace, ma già tormentata da un’ambizione che soltanto la misera condizione di una vita “provinciale” poteva giustificare, il problema matrimonio non si poneva certo come scelta d’amore. […]

  Dinah non si pone neppure il problema che una donna più esperta si sarebbe posta: come mai un uomo di quarantaquattro anni sceglie di sposare una ragazza così giovane; e che cosa egli può aspettarsi da lei. Che razza di matrimonio potrà mai essere? Balzac non si sofferma più di tanto sulla prospettiva autenticamente matrimoniale che attende Dinah; lascia al lettore immaginarlo, e noi possiamo liberamente argomentare sull’inconsistenza di essa, alla luce di ciò che le vicende successive si incaricheranno di dimostrare.

  Pagine e pagine del romanzo sono consacrate a immergerci in un’atmosfera che ci consenta di accettare questo matrimonio: i giorni, i mesi, gli anni che ne seguono, non come frutto di una eccezionalità romanzesca, ma come ciò che è normale avvenga nella provincia francese. E nella provincia, in nome della provincia, per colpa della provincia che queste cose succedono. Le scene di provincia hanno tutte per Balzac un indefinibile colore tetro, edulcorato qua e là dalle incomparabili descrizioni della campagna, dei vigneti, dei fiumi che certamente l’autore predilige, ma che non riescono a distoglierci dalla pena provocataci dagli abitanti, dalla mediocrità degli uomini, dalla povertà spirituale delle donne, condannate a vivere in un’indigenza intellettiva che provoca una vera afflizione. E l’eccezionalità di Mme de la Baudraye ci darà ancor più la conferma della verità dell’assunto balzachiano. [...]

  La provincia francese, anche quella di questa regione del Berry, non lontana da Parigi, nel cuore della Francia, dove si svolgono gli avvenimenti del romanzo, risente di tutte le limitazioni universalmente note ai lettori del romanzo francese dell’Ottocento: il bigottismo, l’invidia, l’avarizia, la spocchiosa differenza di classe, il desiderio di possesso di ciò che il nostro Verga definì “la roba”, la terra, a casa, i vigneti; e, ancora, l’imposizione del rispetto, l’ostracismo, la maldicenza, la falsa devozione. Un altro romanzo della Restaurazione, Le Rouge et le Noir, ce ne fornisce un campionario autenticato di un’altra regione francese, in cui è solo il clima che differisce. Di Balzac ritroviamo in Eugénie Grandet, piuttosto che in Les Paysans, per limitare le citazioni, decine e decine di pagine dove la desolazione diventa spesso assillante.

  Chi riesce a salvarsi dalla provincia, a fuggire verso una capitale in cui verranno messe a dura prova forza e virtù, dove si dovrà pagare sempre caro e salato l’anelito di libertà? Sono gli uomini, come Rastignac, come Lousteau, appunto, quel Lousteau destinato a “illuminare il cammino di Mme de la Baudraye, prigioniera della provincia, e portarla con sé a Parigi.

  Le alternative non sono molte: Dinah attende pazientemente di poter giocare le sue carte. Nel frattempo ... Nel frattempo vive in un agiato castello, frequentato da rispettabili provinciali, alto borghesi, grossi funzionari, aspiranti deputati. La sua intelligenza e la sua bellezza sono unanimemente riconosciute: questo la solleva dal grigiore quotidiano, le dà quella carica d’illusione alimentata da una considerazione di sé inequivocabilmente autentica.

  La presenza maschile nel suo salotto la priva del piacere di intrattenere rapporti con le signore di La Baudraye, timorose di misurarsi con lei per la riconosciuta superiorità attribuitale. La sua reputazione è dovuta ai suoi abituali frequentatori che, in diverso modo, non nascondono i loro sentimenti riguardo a una donna che non può certo vantare un matrimonio felice: ed essa è come ristretta in un cerchio di ammirazione fine a se stessa, poiché, increduli del loro possibile successo, essi esaltano insieme all’intelligenza e alla bellezza anche la sua virtù [..].

  Dinah diviene così vittima di un ulteriore condizionamento, oltre a quello ampiamente enunciato, ben più insidioso e sottile, che è stato, e probabilmente lo è tuttora, la forza di tutti coloro che hanno interesse a mantenere l’altro in uno stato di assoggettamento e subordinazione. Ci riferiamo al fenomeno dell’isolamento, tattica sottile e forse inconscia nel caso della “Muse du département”, messa in atto da tutti gli uomini che l’ammirano e che frequentano il suo salotto. Esaltando le sue virtù, la sua straordinaria cultura e intelligenza, essi stimolano indirettamente la vanità di Dinah, intensificando il distacco già di per sé esistente e reale con le altre donne, e rendere così incolmabile, a livello mentale e psicologico, il gap culturale e intellettivo fra lei e le donne dello stesso ambito sociale. [...].

 

 

  André Vanoncini, Balzac-Simenon: figures de la représentation, «Comparatistica. Annuario italiano», Anno Quinto, 1993, pp. 103-118.

 

  Lo studio prende in esame le principali caratteristiche della rappresentazione narrativa in Balzac e in Simenon, discutendo, in un secondo tempo, della posizione occupata dalle loro opere nell’ambito dell’intricato campo della riflessione estetica. Le modalità della rappresentazione romanzesca in Balzac, fondatrici non solo di una tipologia propria del romanzo realista, ma anche di una specifica problematica della conoscenza del mondo, conducono Vanoncini a definire la configurazione epistemologica soggiacente alla natura e allo statuto del romanzo nei due scrittori, problematizzandone le modalità di ricezione. Se la tensione creativa di Balzac poggia principalmente sulla stretta connessione tra l’opera e il mondo, la rappresentazione letteraria in Simenon si manifesta, contrariamente ai modelli e alle tecniche propri del romanzo balzachiano e di quello realista, attraverso l’immagine di una umanità arcaica e allo stesso tempo universale, che esclude in tal modo qualsiasi problema di identificazione referenziale e che conferisce al testo un carattere individualizzato e profondamente segnato dalla forza di un’espressione interiore.

 

  Balzac et Simenon n’ont pas fait l’objet d’études comparatives, sauf dans les commentaires journalistiques. Le parallèle établi dans le cadre de ces publications s’explique facilement, puisque tout lecteur non spécialisé est intuitivement sensible à l’importance quantitative ainsi qu’au caractère plus ou moins réaliste de ces deux oeuvres romanesques. Le discours critique universitaire, en revanche, n’a jamais procédé à un tel rapprochement pour la simple raison que, pendant de nombreuses années, le roman de Simenon n’a pas été retenu parmi les objets à étudier. J’estime qu’à la fois l’intuition des journalistes et la réserve des universitaires sont symptomatiques d’un complexe de problèmes à tirer au jour. Afin de conduire une telle analyse, je propose de décrire d’abord les pricipales (sic) caractéristiques de la représentation romanesque chez Balzac et chez Simenon. Ensuite, je commenterai la position qu’occupent leurs oeuvres dans le champ mouvant de la réflexion esthétique. […].

 

 

  Serge Viderman, Il fuori prezzo, in Il denaro, in psicoanalisi e al di là. Traduzione di Alessandro Serra, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1993 («minima»), pp. 83-89.

 

  Se il denaro è lo scambiatore universale, se ha la facoltà di convertire e di far proprie tutte le merci esistenti sul mercato, non potrà comunque acquistare veramente tutti i valori. Per la ragione decisiva che essi non sono fuori prezzo ma al di là del prezzo. Certo non sono molto numerosi – i cinici affermano addirittura che non ne esiste neppure uno.

  Il denaro è come l’acqua, che non ha forma, ma solo per aderire meglio a tutte le forme dei recipienti che la contengono. Il denaro è una pura astrazione che può prendere la forma di tutte le cose concrete possibili.

  Il denaro può quindi corrompere, cioè comprare una coscienza, ma la metterà all’incanto, quale che sia l’estensione dei beni che questo acquisto può procurare, e in quanto essa è il mezzo di queste acquisizioni, solo nella misura in cui la coscienza stessa sarà divenuta una cosa. La coscienza ha lasciato la sfera dei valori etici, senza prezzo, per trasformarsi in un oggetto utilitario. [...].

  Il quadro che Elie Magnus brama ardentemente, è il desiderio di Pons a far sì che Magnus possa impadronirsene solo attraverso il crimine dell’orribile Cibot. In mancanza di ciò, l’oggetto si terrebbe in un luogo inaccessibile e in uno statuto di alterità insuperabile. Il soggetto desiderante e l’oggetto desiderato si situerebbero in due spazi senza punto di incontro. Il rifiuto di Pons diviene un oggetto del mondo esterno che Elie Magnus può penetrare ormai solo attraverso l’effrazione della Cibot.

  La collezione di Pons, per la volontà e il desiderio del proprietario, è divenuta un valore insieme estetico ed etico. Ciò significa che essa lascia il luogo generale dei valori scambiabili per una sorta di topos ideale fuori prezzo. [...].

 

 

  Sopra di me ci sono solo io, Ibid., pp. 137-159.

 

  [...]. L’accumulazione delle ricchezze, la pulsione di accumulazione è dalla parte di Eros. Come le forze di vita, la ricchezza tende a perdersi, a dissiparsi. Come ogni vita finisce per cessare, così ogni ricchezza finisce per essere dissipata. Bataille dirà cose importanti in proposito. Nell’attesa, papà Grandet accumula tante ricchezze, lotta con tanto accanimento, solo contro l’accrescersi dell’entropia che introdurrebbe in un patrimonio accumulato con l’astuzia paziente di un ragno in agguato che tesse la tela in cui, come le mosche, gli sciocchi dovevano lasciarsi prendere, esattamente con una sorta di genio animale, di mimetismo che faceva assumere ai suoi occhi, quando guardavano il suo oro, il colore del prezioso metallo. Papà Grandet ha accumulato tanti beni solo in vista della loro dilapidazione futura da parte della sua bambina, Eugénie, che nella sua prodigalità è solo la mano del destino che tende al livellamento, all’abbassamento delle tensioni – qui la morte, là la rovina o la povertà. La santità di Eugénie è una delle astuzie combinate della storia, dell’economia e della morte. [...].

  Il prefatore di Eugénie Grandet racconta che il vero Grandet, che servì da modello a Balzac, di ritorno da una cerimonia di famiglia dovette passare la notte con la moglie in una locanda. Il giorno dopo si ritrovò accanto un cadavere. La signora Grandet era trapassata nello stesso silenzio in cui aveva passato la vita. Gli impresari delle pompe funebri gli presentarono un preventivo delle spese di sepoltura, al che il buonuomo chiese due giorni di tempo per andare a Saumur a prendere le misure per l’inumazione. “Sarò di ritorno domani”, disse all’oste. “Badate che nessuno entri nella stanza in cui riposa la defunta. Anzi, prendo con me la chiave. Poiché tre giorni dopo l’uomo non si era ancora fatto vedere si decise di sfondare la porta. Il cadavere non c’era più: il tipo di Saumur se l’era portato via tra i bagagli. Balzac, alla fine, non si servì dell’episodio. A chi gli chiedeva il perché, rispose: non l’ho fatto perché questo tratto non era verosimile, era troppo vero. [...].

  Sceglierò come prototipi di caratteri che si distinguono per il loro rapporto con il denaro due personaggi della Comédie humaine, e questo per varie ragioni. Intanto perché Balzac è uno dei più grandi scrittori del XIX secolo, in quanto la sua opera è il tentativo più ambizioso e meglio riuscito di dare un’idea completa della vita sociale ed economica del suo tempo, di fare l’inventario di tutte le passioni dell’anima, di essere un torrente che travolge tutto, che trascina tutto nella sua società della monarchia di Luglio, ma un’autopsia senza equivalenti: quella di un’anima e di un corpo vivi. E cosa emerge da questo universo, da questa macchina sociale smontata con la precisione e la meticolosità di un meccanico ossessivo? L’oro. Non quello degli aztechi ma il denaro in tutte le sue forme, prodotto dall’ingegnosità della banca e dal genio di un Nucingen, modello esemplare di tutte le raffinatezze dell’alta finanza, a qualsiasi nazione appartenga.

  Il denaro in tutte le sue forme scorre in modo sotterraneo o sotto gli occhi di tutti con un impeto che è quello della vita stessa, quella vita che Balzac sa destare tanto bene – voleva fare il cancelliere dello stato civile – che il suo stile, criticato da alcuni ingiustamente, ne è solo la mimesis.

  Secondo la sua abitudine, Balzac mostra in apertura il suo personaggio alla luce della sua principale inclinazione. Nessuno in tutta la città di Saumur dubitava che il signor Grandet avesse grandi masse d’oro, quell’oro nascosto che, invisibile, proprio per questo assumeva ancor di più le dimensioni del sogno. Nessuno dubitava che il brav’uomo avesse un nascondiglio pieno di luigi d’oro e che qui, di notte – sempre l’oscurità propizia all’oro e alla sua passione segreta – indulgesse ai godimenti che una grande massa di oro può procurare. Gli altri taccagni non avevano che da osservare il loro stesso comportamento, i loro sguardi, per scoprire in quelli del buon Grandet il linguaggio segreto della stessa massoneria. Finanziariamente parlando, papà Grandet si ispira con questi comportamenti a due ceppi animali: alla tigre e al boa. Si nasconde, si acciambella, si rannicchia, valuta la preda, scatta, apre la bocca, inghiotte un certo numero di scudi. Sazio, s’addormenta, digerisce la preda, sino alla prossima scorpacciata.

  Come si vede, l’avarizia di Grandet non è una semplice accumulazione passiva di beni. La sua attività è incessante, non conosce un attimo di sosta dalla mattina alla sera e prosegue anche dopo il crepuscolo, in uno studiolo cui si può accedere solo dalla sua camera, che prende luce da un’unica finestrella, difesa da enormi inferriate, dove nessuno, neppure la signora Grandet, ha il diritto di entrare; qui, in un nascondiglio abilmente ricavato nel muro, il brav’uomo pesa i suoi luigi, fa le sue ricevute, le sue fatture e i suoi conti. E sarà lo stesso Grandet a svelare il segreto di questa attività pulsionale, lui che preferirebbe saper la figlia morta piuttosto che vederla dare il suo oro al cugino.

  “È vero signore”, chiede Nanon, la grossa domestica, “che i morti mangiano?” Sei stupida, risponde Grandet, mangiano quel che trovano (Grandet ha preso le sue precauzioni). E noi, non viviamo forse sui morti? Cos’altro sono le successioni? Lui ne sapeva qualcosa, che aveva visto il suo patrimonio accrescersi regolarmente in virtù di varie morti compiacenti.

  Balzac ha un’intuizione penetrante della ragione profonda che fa di tutti noi, in misura diversa, degli avari. Ogni potere umano è un misto di tempo e di pazienza. Il potente, colui che ha il gusto della potenza, e l’avaro lo ha in grado supremo, [...] gusto che s’appoggia sull’amor proprio e l’interesse, il quale tuttavia, dice Balzac in una formula meravigliosamente lapidaria, è una specie di amor proprio solidificato. Quando amor proprio e interesse si fondono, abbiamo l’egoismo. [...].

  Come in tutti gli avari, dice Balzac, in Grandet c’era il bisogno di giocare una partita con gli altri, di vincere legalmente i loro scudi. È questa anche la principale ragione che lo spinge a gabbare con superiore abilità i creditori del fratello fallito che, da vero sciocco, si è bruciato le cervella. Gabbare, ingannare – senza incorrere nelle pene previste dalla legge –, imporre la propria volontà significa provare la propria superiorità, acquisire il diritto di sottomettersi, di disprezzare i deboli – in fin dei conti di divorarli. “Gli avari”, scrive Balzac, “si pascono di denaro e di sdegno.” Da questa frase risulta chiaramente che Balzac non attribuisce alcuna preminenza al denaro nell’anima dell’avaro. Denaro e disprezzo formano una coppia inseparabile. Come egli si è ingrassato ereditando dai morti, così il disprezzo dei vivi garantisce all’avaro l’eternità. “Quest’agnello”, dice Balzac, “cioè il debole, l’avaro lascia che s’ingrassi, lo porta nell’ovile, lo scanna, lo mangia e lo disprezza.”

  Eppure tutti questi sforzi riusciranno vani. La morte, un giorno che il bravo Grandet si è lasciato distrarre per un attimo, fa la sua comparsa. Gli si impartisce l’estrema unzione. Morto in apparenza, la vista delle croci, dei candelieri, dell’aspersorio d’argento sembra rianimarlo. Quando il prete avvicina alle sue labbra il crocifisso luccicante, Grandet non riesce a resistere alla tentazione, tende la mano per afferrarlo, e il gesto gli costa la vita. I patrimoni meglio gestiti non resistono al tempo, tutti gli sforzi di Grandet si rivelano vani. La sua “bambina”, Eugénie, farà ricco il suo amore sciagurato e indegno, il resto andrà in opere pie.

  La pulsione di accumulazione come forza antientropica potrebbe trovare nella dispersione delle ricchezze, nel disordine (gli avari e più generalmente i ricchi sono anche uomini d’ordine) che questa dispersione rappresenta, una metafora che porterebbe sino a vedere nella necessaria accumulazione primitiva del capitale in Marx la manifestazione di un principio antientropico.

Se avessi pensato a dare un titolo alle pagine che seguono, l’avrei fatto solo per contrapporlo a Shylock: “Gobseck è ebreo”.

  Gobseck è il nome del personaggio principale del romanzo di Balzac intitolato appunto Gobseck. Si tratta sicuramente di uno dei capolavori di Balzac (ma sono davvero tanti, e ciascuno ne può trovare a suo piacimento) e per il mio proposito di uno dei più illuminanti, in quanto in esso il denaro non soltanto è dappertutto ma svolge la funzione di “grande fermento catalizzatore”, come dice Albert Béguin [...]. Il denaro, osserva ancora Béguin, fa e disfa le famiglie, gli amori, la buona e l’avversa fortuna. Esso innalza ogni cosa alla potenza superiore, scolpisce i caratteri e i volti.

  Gobseck si oppone radicalmente a Shylock, e punto per punto. Shylock è un sedentario, cittadino di Venezia. Non avrebbe mai rischiato un ducato sul mare sornione. meno che mai avrebbe messo piede sui vascelli che beccheggiano, incerti, nei mari su cui il cristiano ha rischiato e, naturalmente, perduto la sua fortuna. [...] Gobseck è un avventuriero che ha conosciuto il mondo e i suoi pericoli, battuto le piste terrestri e marittime, senza esitare a far uso del coltello e delle armi per aprirsi il cammino. È ebreo solo a metà, per parte di madre – il padre è olandese.

  È un ragno in agguato, pronto a balzare, impegnato in una guerra incessante, dice ancora Béguin. È un mostro, ma è proprio questo che dal punto di vista narrativo gli garantisce la salvezza: un mostro è un personaggio. Vedremo che in termini di personaggio balzacchiano ciò è forse vero; in termini di essenza umana, se Shylock ne ha una, Gobseck non appartiene alla stessa categoria di anime e la differenza apparirà decisiva. Gobseck è un artista – e Balzac si è proiettato in lui, vi si è riconosciuto e l’ha amato –, Shylock è un amante, un vendicativo, per di più stupido e la sua imprevidenza, nel lasciarsi sospingere dall’odio, è tale da portarlo alla rovina. Gobseck invece maneggia il denaro con diletto e con un talento superiore, ma non è né un Arpagone né un Grandet. Non è un avaro. Il suo gusto essenziale, che forma la trama stessa del racconto e illumina il personaggio, è di esser riuscito, con abili manovre e calcoli, con il concorso dell’onesto Derville, quintessenza della notarietà, come Bianchon lo era della medicità, a restituire al giovane conte di Restaud un patrimonio in cui era riuscito a implicare tanto abilmente tutti gli attori che ne aveva ottenuto la proprietà legale, al punto che niente e nessuno avrebbe potuto legalmente sottrargliela. Mai un avaro si sarebbe lasciato scappare una simile preda. Ma questa restituzione Gobseck la rimanda sino alla morte. Mai un avaro avrebbe preso in considerazione una simile differanza (con la a, come in Derrida) perché, nota Béguin, “l’avarizia non conosce la morte”. O piuttosto l’avarizia nega, attraverso l’accumulazione dell’oro, il suo inevitabile avvento. Gobseck non è soltanto un banale usuraio, e se Balzac gli conferisce la potenza che ha, e soprattutto quello sguardo che è lo stesso di Dio (“il mio sguardo è come quello di Dio, io vedo nei cuori”), ciò dipende dal fatto che Gobseck è una delle incarnazioni dello stesso Balzac. Gobseck è un poeta, un romanziere, un demiurgo. Il suo eccezionale talento nel moltiplicare il denaro, come Cristo ha tatto coi pani, e il modo in cui si rivela quella parte divina che Balzac gli concede. Perché l’oro è qualcosa di ancora diverso da quel malefico metallo che rende gli uomini folli, o criminali, è anche e soprattutto il simbolo della potenza, dell’immortalità nella misura in cui la sua ricerca, la follia della sua ricerca, supera le brame semplicemente terrestri. In questa ricerca, nella sua ostinazione, nei rischi che fa correre, c’è qualcosa che supera la pura materialità del suo possesso. Nel tempo questa ricerca ardente, febbrile, ha trovato la sua espressione più forte nel mistero dell’accanimento alchemico. L’alchimia non è la ricerca dell’oro. L’oro subisce, nella passione che arroventa l’ossessione di tramutare il piombo in oro, quella trascendenza che ne fa la pura metafora dello stesso peccato adamitico: la ricerca della conoscenza. Il romanziere è un alchimista che cerca la conoscenza, quella “commedia umana” che è semplicemente la condizione della sua esistenza terrestre dopo la caduta di cui reca tutti i segni e assume tutte le sventure.

  Si capisce come Balzac possa identificarsi a questo tratto dell’anima ebraica che aggiunge all’accumulazione dell’oro un’inestinguibile sete di conoscenza. “Io possiedo il mondo senza fatica e il mondo non ha la minima presa su di me”, dice Gobseck, ingannandosi su se stesso. È il suo versante etico che forma la base del suo comportamento, [...] quello che gli conferisce il suo senso più profondo avvicinandolo a quel mistero ebraico che si sforza di congiungere al possesso dell’oro l’esercizio del Bene. [...].

  Quando Derville, giovane impiegato in uno studio notarile, vuole mettersi in proprio, non ha il denaro per le prime spese. Gobseck glielo fornirà, ma l’oro e l’amicizia non vanno d’accordo. Malgrado tutto, se non gli chiede gli interessi eccessivi, da usuraio, che chiede a quelli che non ama o che si sono messi in situazioni in cui la sola via d’uscita è il suo denaro, non gli fa un regalo e gli chiede un interesse, per la verità molto vantaggioso per il debitore.

  Più tardi, divenuti amici e addirittura complici in una buona azione, che è anche un atto di giustizia, anche se fortemente illegale, quando Derville gli chiede perché, pur essendo legato a lui da amicizia, non abbia potuto impedirsi di strangolarlo con interessi troppo alti per un giovane alle prime armi e privo di capitali, Gobseck gli risponde: “perché Lei conservasse la sua libertà nei miei confronti, era necessario che non avesse sentimenti di riconoscenza per me”. Per questo usuraio, apparentemente senza pietà, per questo boa (e qui Balzac riprende il paragone che aveva già fatto a proposito di Grandet), questo tratto non è già più quello dell’avaro. Grandet l’avrebbe divorato.

  La contessa di Restaud ama Maxime de Traille (sic) – uno pronto a tutto e buono a niente — con una passione cicca che le fa dimenticare e trascurare tutti i suoi doveri. Pieno di debiti, Maxime minaccia l’amante di bruciarsi le cervella, cosa che non sarebbe stata una gran perdita per nessuno; la contessa dà in pegno a Gobseck dei magnifici brillanti in cambio di una somma che la pressione della necessità permette all’astuzia di Gobseck di ridurre a una minima parte del loro valore reale. [...].

  Il signor di Restaud viene a sapere della transazione ma si trova nell’impossibilità di riscattare i diamanti. È qui che Gobseck si rivela ebreo, come Shylock non avrebbe mai pensato di essere, perché il movimento profondo della sua anima gli avrebbe ottenebrato la facoltà di giudizio, tutta volta com’era alla vendetta.

  Il signor di Restaud muore, ucciso dal tradimento della moglie prima ancora che dalla sua malattia. Appena egli ha esalato l’ultimo respiro, la contessa in agguato butta all’aria la stanza, forza tutti i cassetti per ritrovare e distruggere i documenti attraverso i quali il genio delle combinazioni notarili di Gobseck era riuscito a far sì che tutti i beni del conte divenissero sua proprietà. Alla maggiore età di Ernest de Restaud, il figlio del conte, Gobseck, pur non avendo alcun obbligo, trasmette tutti i titoli di proprietà al giovane conte, rispettando la promessa fatta al padre.

  Il fatto è che Gobseck non è né un avaro né uno speculatore, uno di quelli che mirano solo alle ricchezze. Gobseck è un filosofo, un saggio, un moralista. È un signore, pari se non superiore al conte di Restaud. Shylock, invece, è schiavo della sua autentica passione, che è quella di accumulare montagne di ducati non tanto per il possesso in sé (come Grandet) quanto per farne l’unico modo di vendicarsi che può concepire. Ma invece di questo pubblico riconoscimento della sua metamorfosi che lo farà – così spera – passare dallo stato di schiavo a quello di padrone, lo scontro finale mostrerà che questo comportamento pervertito dall’odio gli potrà portare solo la morte: le sue ricchezze confiscate, Jessica, sua figlia, partita con un goy, peggio ancora, padrona dei suoi ducati.

  Gobseck invece non l’ha umiliato nessuno. Ha visto il mondo, ne ha scrutato i vizi, ha sondato i cuori e i lombi, ha imparato a battersi, nessuno gli ha tirato la barba, o l’ha fatto scendere dal marciapiede, o gli ha fatto volare il cappello nella polvere. Maneggia la spada come un moschettiere e tira alla pistola con la precisione di un eroe dei western.

  Con manovre che il suo genio della combinazione tortuosa sa escogitare, Gobseck inghiotte la preda, il patrimonio del conte di Restaud, accresce la proprietà, riacquista alcune terre, fa fruttare i beni di cui è legalmente proprietario e, il giorno della maggiore età di Ernest de Restaud, glieli restituisce: quale boa avrebbe fatto altrettanto – quale Shylock, quale Grandet?

  L’avarizia di Grandet, la sua astuzia, il suo gusto della vendetta lo spingono, quando può, a diventare anche ladro. Quando suo fratello, a Parigi, fa affari sbagliati e preferisce la morte alla vergogna del fallimento (c’è un tocco di César Birotteau in Guillaume Grandet), papà Grandet, con una di quelle astute manovre di cui non è per una volta avaro, trova il modo per impedire che il fratello sia dichiarato fallito, fa balenare ai creditori il pagamento parziale dei loro crediti e agita così bene questa dolce speranza davanti ai loro occhi che in capo a quattro settimane di quella lunga pazienza di cui il bottaio di Saumur possiede riserve più inesauribili delle botti di buon vino che riempiono la sua cantina, ha contemporaneamente impedito il disonore del fratello – che mette avanti con forza – e intascato una bella sommetta.

  È un furto. Ma Grandet è uno di quei ladri che non compariranno mai davanti al giudice. “La proprietà è un furto”, diceva Proudhon in una formula che sembra di una violenza eccessiva e che è solo un’equivalenza benigna tra la proprietà e i mezzi e le conseguenze ultime attraverso i quali il proprietario ne è entrato in possesso.

  La proprietà non è più un reato (il furto) ma un omicidio. Ogni profitto ottenuto con il furto di una parte della forza-lavoro altrui (dell’operaio in Marx, per esempio, ma non in lui soltanto) è un delitto. In questo senso possiamo scoprire in ciò un rapporto con il sadismo anale, ma è la ristrettezza del quadro ipersemplificato in cui si vuole inscrivere questo rapporto che esige che ne siano tratte le conseguenze metaforiche, in altre parole il progetto di omicidio dell’altro.

  La signora di Restaud umilia, porta alla disperazione e alla fine uccide il marito per una di quelle canaglie ambiziose che, dopo averla depredata delle ricchezze che quella ha rubato al marito e sottratto al suo stesso figlio, l’abbandonerà non appena avrà trovato una preda più fornita [...].

  La scena della morte del conte è di una forza che il genio di Balzac innalza ai vertici della tragedia antica. La scena in cui, dopo la morte del conte, la contessa fruga dappertutto, butta all’aria i cassetti, fracassa la scrivania, supera l’orrore del crimine che essa stessa commette davanti al cadavere del conte. Gobseck diviene in questa faccenda di assassinio a freddo l’ipostasi del Bene e della Giustizia.

  Il fine che la Legge ebraica si sforza di raggiungere – contenere la violenza – ecco che l’incarnazione dell’usura, la passione dell’oro, lo porta a compimento. Gobseck potrebbe dire non soltanto, come effettivamente dice, “ego sum papa” ma anche “ego sum deus”.

  Gobseck ha impedito che il patrimonio del conte andasse perduto, dissipato. Ha evitato che il disordine della contessa, che alimentava quello, distruttivo, del suo amante, accrescesse il disordine e l’ingiustizia del mondo. Il patrimonio del conte, appena scalfito, riunito nelle mani di Gobseck, passerà a quelle del figlio del conte. Così ci sarà, per grazia dell’usuraio, più ordine, più giustizia in questa giungla lacerata da appetiti contraddittori. [...].

 

 

  Dominio, immortalità: un Achille senza tallone?, Ibid., pp. 189-198.

 

  [...]. La passione dell’oro, la sua accumulazione, è una garanzia fantasmatica contro la morte. È la forma laica della credenza nell’immortalità. Balzac, a forza di notti febbrili, sempre in piedi, sostenuto da innumerevoli tazze di caffè, perde la sua vita terrena nell’illusione che l’accumulazione delle migliaia di pagine della Comédie humaine gli darà l’immortalità. L’ha avuta. Non quella di cui fantasticava – muore a cinquant’anni, sposato di fresco, sicuro di avere il tempo davanti a sé, di un cuore sfinito.

  Lo scrittore per Balzac ha il dono della doppia vista, vede intuitivamente; in caso di bisogno, privato della vista, della vista degli occhi, gli resta sempre l’altra. Come il vecchio cieco di Facino Cane la cui madre, incinta, ha dovuto vedere l’oro e gli ha trasmesso la capacità di sentire l’oro, di trasalire all’approssimarsi di esso – sento l’oro, egli dice. Entra in possesso di ricchezze immense a spese della Serenissima. Ne ha per sei milioni ma non può dimenticare di aver lasciato nelle grotte che ha saccheggiato trenta milioni in argento, venti in oro, vari milioni in diamanti, perle e rubini. La cecità lo colpisce proprio quando può godere dei suoi milioni – la sua capacità di vedere l’oro non produce un abuso di potenza visiva che lo predestina a perdere gli occhi? [...].

 

 

  Richard H. Weisberg, Diritto e letteratura. 2. Il diritto nella letteratura, in AA.VV., Enciclopedia delle scienze sociali. Volume III, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1993, pp. 107-110.

 

  p. 108. [...] l’eroina che dà il titolo al romanzo di Balzac, Ursule Mirouët, è vittima degli abusi nell’applicazione della legge sulla proprietà e la successione ereditaria.



Marco Stupazzoni

 

 

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