lunedì 18 novembre 2019



1944

 


 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Le livre mystique. I. Séraphîtüs-Séraphîta. Orné et illustré par A. D. Monari, Milano, Spartaco Giovene Editore (Società “Ars Italiae”, per Industrie Grafiche Dalle Nogare & Armetti), 1944 («Maia. Collezione dei maggiori poeti e prosatori in edizioni numerate. Direttore Guido Marinelli»), pp. 233.

 

  A Madame Eveline Hanska, née Comtesse de Rzewuska, pp. 9-10;

  Séraphitüs, pp. 11-44;

  Séraphîta, pp. 45-72;

  Séraphitüs-Séraphîta, pp. 73-134;

  Les nuées du Sanctuaire, pp. 135-178;

  Les adieux, pp. 179-200;

  L’assomption, pp. 201-231.

 

 

  Honoré de Balzac, Le livre mystique. II. Louis Lambert. Les Proscrits. Orné et illustré par A. D. Monari, Milano, Spartaco Giovene Editore (Società “Ars Italiae”, per Industrie Grafiche Dalle Nogare & Armetti), 1944 («Maia. Collezione dei maggiori poeti e prosatori in edizioni numerate. Direttore Guido Marinelli»), pp. 233.

 

  Louis Lambert, pp. 13-182;

  Les Proscrits, pp. 183-231.

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, All’insegna del gatto che giuoca a palla. Il Ballo di Sceaux. Il Borsellino. La Vendetta. Traduzione di Raoul Vivaldi, Roma, De Carlo Editore (Tipografia di Giovanni Bardi), (dicembre) 1944 («La Commedia umana, raccolta completa delle opere di Honoré de Balzac, a cura di Raoul Vivaldi», Volume I), pp. 247.

 

  Raoul Vivaldi, Due parole ai lettori, pp. 5-8; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Prefazione alla Commedia Umana, pp. 9-24;

  All’insegna del gatto che giuoca a palla, pp. 25-83;

  Il ballo di Sceaux, pp. 85-144;

  Il borsellino, pp. 145-177;

  La vendetta, pp. 179-246;

  Nota, pp. 247-248.

 

  Il modello di riferimento su cui si fondano le traduzioni dell’Avant-propos e delle tre scènes de la vie privée qui raccolte è quello dell’edizione Furne (1842). A cominciare dall’Avant-propos, ci pare che le versioni italiane che Raoul Vivaldi fornisce dei testi balzachiani qui raccolti non siano da considerarsi, soprattutto dal punto di vista stilistico, esemplari per fedeltà e aderenza al modello francese. Si considerino, a questo proposito, alcuni esempi tratti dalle seguenti opere:

 

  All’insegna del gatto che giuoca a palla.

 

  p. 39. [cfr. Balzac, La Maison du Chat-qui-pelote, a cura di Anne-Marie Meininger, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1976, t. I].

 

  Au milieu de la rue Saint-Denis, presque au coin de la rue du Petit-Lion, existait naguère une de ces maisons précieuses qui donnent aux historiens la facilité de reconstruire par analogie l’ancien Paris. Les murs menaçants de cette bicoque semblaient avoir été bariolés d’hiéroglyphes. Quel autre nom le flâneur pouvait-il donner aux X et aux V que traçaient sur la façade les pièces de bois transversales ou diagonales dessinées dans le badigeon par de petites lézardes parallèles? Évidemment, au passage de la plus légère voiture, chacune de ces solives s’agitait dans sa mortaise. Ce vénérable édifice était surmonté d’un toit triangulaire dont aucun modèle ne se verra bientôt plus à Paris. Cette couverture, tordue par les intempéries du climat parisien, s’avançait de trois pieds sur la rue, autant pour garantir des eaux pluviales le seuil de la porte que pour abriter le mur d’un grenier et sa lucarne sans appui. Ce dernier étage était construit en planches clouées l’une sur l’autre comme des ardoises, afin sans doute de ne pas charger cette frêle maison. Par une matinée pluvieuse, au mois de mars, un jeune homme, soigneusement enveloppé dans son manteau, se tenait sous l’auvent d’une boutique en face de ce vieux logis, qu’il examinait avec un enthousiasme d’archéologue. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 27. A metà della via San Dionigi, quasi all’angolo con la via del Petit Lion, si poteva ammirare, in passato, una di quelle case preziose che consentono agli studiosi di ricostruire, per analogia, la Parigi di un tempo. Le mura pericolanti di quella bicocca sembravano screziate di geroglifici, poiché nessun altro più adatto nome si poteva dare alle X e alle V tracciate sulla facciata da alcuni travicelli trasversali o diagonali, che lasciavano sull’intonaco sottili incisioni parallele, e che certamente tremavano nei loro incastri quando passava anche la più leggera delle carrozze.

  Questo venerabile edificio culminava in un tetto triangolare di un tipo del quale, fra breve, non si troverà più a Parigi alcun esemplare, e questa copertura, contorta dalle intemperie del clima parigino, sporgeva di tre buoni piedi sulla strada, non soltanto per riparare dalla pioggia la soglia dell’ingresso, ma anche per contenere le mura di un granaio e il suo abbaino senza davanzale. Quest’ultimo piano era stato costruito con tavole sovrapposte e inchiodate l’una all’altra, come si fa con le lastre di ardesia, evidentemente per non caricare di un peso rilevante l’alto di quella casa non eccessivamente robusta.

  Un piovo mattino del mese di marzo, un giovanotto, accuratamente avvolto nel suo mantello, si era fermato sotto lo sporto di una bottega sita di fronte a quel vecchio palazzetto e sembrava esaminarlo con un entusiasmo da archeologo.

 

 

Le Bal de Sceaux.

 

  p. 109. La Restauration surprit monsieur de Fontaine chargé d’une nombreuse famille. Quoiqu’il n’entrât pas dans les idées du généreux gentilhomme de solliciter des grâces, il céda néanmoins aux désirs de sa femme, quitta son domaine dont le revenu modique suffisait à peine aux besoins de ses enfants et vint à Paris.

 

  p. 87. La rivoluzione trovò il signor de Fontaine carico di una numerosa famiglia; quantunque il generoso gentiluomo non avesse la benchè minima intenzione di sollecitare favori, dovette tuttavia cedere al desiderio di sua moglie e, lasciato il suo dominio – le cui modeste rendite bastavano appena alle necessità dei suoi figli – se ne venne a Parigi.

 

 

  Honoré de Balzac, Il biglietto d’alloggio. Traduzione dal francese di Orsola Nemi, Roma, Documento, Libraio Editore (Stabilimento A. Staderini), (marzo) 1944 («La Pietra di Paragone. Collezione di racconti antichi e moderni a cura di Marco Smeriglio», N. 3), pp. 49.

 

  Si tratta della traduzione – in diversi punti piuttosto libera e non rigorosamente aderente al testo francese – in lingua italiana di Le Réquisitionnaire, esemplata sul modello dell’edizione Furne del 1846. Si considerino questi due esempî tratti dalle prime pagine del racconto:

 

  p. 1106. [cfr. Balzac, Le Réquisitionnaire, a cura di Tierry Bodin, in La Comédie humaine … cit., 1979, t. X].

 

  Mariée à la fleur de l’âge avec un militaire vieux et jaloux, la fausseté de sa position au milieu d’une cour galante contribua beaucoup sans doute à répandre un voile de grave mélancolie sur une figure où les charmes et la vivacité de l’amour avaient dû briller autrefois. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 14. Sposata giovanissima con un soldato vecchio e geloso, si era trovata male in mezzo a una corte galante, e quel disagio contribuì molto, senza dubbio, a velarle di malinconia il viso dove una volta avevano brillato la grazia e la vivacità dell’amore.

 

  p. 1107. Afin de faire comprendre aux hommes la force de ce sentiment, il suffira d’ajouter que ce fils était non seulement l’unique enfant de madame de Dey, mais son dernier parent, le seul être auquel elle pût rattacher les craintes, les espérances et les joies de sa vie.

 

  p. 16. Per far capire la forza di questo sentimento, basterà aggiungere che egli non era l’unico figlio della signora di Dey, ma il solo essere l quale ella potesse riallacciare i timori, le speranze, le gioie della sua vita.

 

 

  Onorato Balzac, Due studi di donna e altri racconti. A cura di Alessandro Pellegrini, Milano-Firenze-Roma, Valentino Bompiani & C., 1944 («Il Centonovelle. Novelliere antico e moderno», vol. n. 11), pp. XXIV-261.

 

  Introduzione di Alessandro Pellegrini, pp. VII-XIV; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Primo studio di donna, pp. 3-15;

  L’abbandonata, pp. 17-63;

  Secondo studio di donna, pp. 65-128;

  Il capolavoro sconosciuto, pp. 129-158;

  La recluta, pp. 159-177;

  Un dramma sulle rive del mare, pp. 179-200;

  L’Albergo Rosso, pp. 201-233;

  El verdugo, pp. 235-247;

  Nota bibliografica, pp. 251-258.

 

  Esemplate sul modello delle rispettive edizioni Furne (1842-1846), le traduzioni che Alessandro Pellegrini fornisce di questo ricco ‘corpus’ di scènes e di études balzachiane sono da ritenersi, a nostro avviso, fedeli e corrette se si eccettua qualche rifuso tipografico (vedi, ad esempio, Bianchon trascritto erroneamente in Blanchon).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Raoul Vivaldi, Roma, De Carlo Editore (Tipografia di Giovanni Bardi), (ottobre) 1944 («La Commedia umana», raccolta completa delle opere di Honoré de Balzac, a cura di Raoul Vivaldi», Volume XIII), pp. 183.

 

  La traduzione, condotta sul testo dell’edizione definitiva Furne (1843), può ritenersi, nel complesso, corretta, anche se il Vivaldi non si esime, qui come in altri testi balzachiani da lui tradotti, di intervenire sul modello francese in forma se non del tutto arbitraria, certamente personale, soprattutto sotto la prospettiva stilistica. Si considerino alcuni esempî tratti dalle prime pagine del romanzo:

 

  p. 1027 [cfr. Balzac, Eugénie Grandet, a cura di Nicole Mozet, in La Comédie humaine … cit., 1976, t. III].

 

  [...] qu’un étranger les croirait inhabitées s’il ne rencontrait […]. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 5. […] che un forestiero potrebbe crederli inabitati se, passando, non sentisse [...].

 

  pp. 1027-1028. Des habitations trois fois séculaires y sont encore solides quoique construites en bois […].

 

  Ibid. Alcune di esse, benché costruite in legno e tre volte secolari, appaiono ancora ben solide [...].

 

  p. 1028. Il est difficile de passer […].

 

  p. 6. È ben difficile passare […].

 

  Ibid. Plus loin, c’est des portes garnies de clous énormes où le génie de nos ancêtres a tracé des hiéroglyphes domestiques dont le sens ne se retrouvera jamais. Tantôt un protestant […].

 

  Ibid. Più lontano, attirano l’attenzione alcune porte ornate di enormi chiodi con i quali la fantasia dei nostri antenati si è sbizzarrita a tracciare geroglifici. Può darsi che un protestante [...].

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Raoul Vivaldi, in AA.VV., Romanticismo. Dodici capolavori della letteratura romantica di ogni paese, Roma, Società Tip. Editrice Italiana, 1944, pp. 205-340.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Onorato Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo. Traduzione integrale di A. Morotti. [Prefazione di Lyno Guarnieri], Roma-Milano, Edizioni Geos, (maggio) 1944 («Capolavori dell’800 romantico. Seconda serie»), pp. 188.

 

  Prefazione di Lyno Guarnieri, pp. 7-11; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  Eugenia Grandet, pp. 13-188.

 

  L’estratto delle prime pagine di Eugénie Grandet, che trascriviamo integralmente nella sua versione italiana, è già di per sé alquanto significativo circa l’assoluta mediocrità di questa traduzione, costellata costantemente di tagli, omissioni ed errori rispetto al modello originale; non è riportata la dedica del romanzo ‘À Maria’:

 

  pp. 1026-1027. [cfr. Balzac, Eugénie Grandet … cit.].

 

  Il se trouve dans certaines provinces des maisons dont la vue inspire une mélancolie égale à celle que provoquent les cloîtres les plus sombres, les landes les plus ternes ou les ruines les plus tristes. Peut-être y a-t-il à la fois dans ces maisons et le silence du cloître et l’aridité des landes et les ossements des ruines. La vie et le mouvement y sont si tranquilles qu’un étranger les croirait inhabitées, s’il ne rencontrait tout à coup le regard pâle et froid d’une personne immobile dont la figure à demi monastique dépasse l’appui de la croisée, au bruit d’un pas inconnu. Ces principes de mélancolie existent dans la physionomie d’un logis situé à Saumur, au bout de la rue montueuse qui mène au château, par le haut de la ville. Cette rue, maintenant peu fréquentée, chaude en été, froide en hiver, obscure en quelques endroits, est remarquable par la sonorité de son petit pavé caillouteux, toujours propre et sec, par l’étroitesse de sa voie tortueuse, par la paix de ses maisons qui appartiennent à la vieille ville, et que dominent les remparts. Des habitations trois fois séculaires y sont encore solides quoique construites en bois, et leurs divers aspects contribuent à l’originalité qui recommande cette partie de Saumur à l’attention des antiquaires et des artistes. Il est difficile de passer devant ces maisons, sans admirer les énormes madriers dont les bouts sont taillés en figures bizarres et qui couronnent d’un bas-relief noir le rez-de-chaussée de la plupart d’entre elles. Ici, des pièces de bois transversales sont couvertes en ardoises et dessinent des lignes bleues sur les frêles murailles d’un logis terminé par un toit en colombage que les ans ont fait plier, dont les bardeaux pourris ont été tordus par l’action alternative de la pluie et du soleil. Là se présentent des appuis de fenêtre usés, noircis, dont les délicates sculptures se voient à peine, et qui semblent trop légers pour le pot d’argile brune d’où s’élancent les œillets ou les rosiers d’une pauvre ouvrière. Plus loin, c’est des portes garnies de clous énormes où le génie de nos ancêtres a tracé des hiéroglyphes domestiques dont le sens ne se retrouvera jamais. Tantôt un protestant y a signé sa foi, tantôt un ligueur y a maudit Henri IV. Quelque bourgeois y a gravé les insignes de sa noblesse de cloches, la gloire de son échevinage oublié. L’Histoire de France est là tout entière. [Il corsivo è nostro].

 

  pp. 15-16. Di solito, in alcune città di provincia vi sono delle case il cui aspetto infonde un’indicibile malinconia: è la stessa malinconia che suscitano i vecchi chiostri, le aride lande e le cadenti rovine. Vita e movimento vi appaiono così tranquilli, che un forestiero le crederebbe disabitate, se non incontrasse d’improvviso lo sguardo freddo d’una persona immobile, la cui figura claustrale viene ad appoggiarsi al parapetto della finestra, al suono di un passo insolito. Quest’aria di malinconia caratterizza appunto una casa posta a Saumur, all’estremità che conduce al castello, dalla parte alta della città. La via era poco frequentata: era calda nell’estate, fredda nell’inverno, oscura in qualche punto, e notevole per la sonorità del suo arido acciottolato, per l’angustia del suo giro e per la pace delle sue case che appartengono ai vecchi quartieri, e sono protette da robusti bastioni.

  Fabbricati di tre secoli vi sorgono ancora ben solidi, e siccome i loro diversi aspetti danno a quel lato di Saumur un aspetto singolare, antiquari e artisti vi accorrono di frequente. E’ difficile passare davanti a quelle case senza ammirare gli enormi panconi, dagli spigoli tagliati a figure bizzarre e coronanti come d’un nero bassorilievo il pianterreno della maggior parte di esse. Qui, dei pezzi di legno trasversali sono coperti d’ardesia, e proiettano linee azzurre su le deboli mura d’una casa con tetto e colombaia, che ha piegato sotto il peso degli anni e le cui travi – mezze fradicie – si sono contorte sotto l’azione continua della pioggia del sole; là, si presentano telai di finestre anneriti, in cui si distinguono appena le delicate sculture. Più oltre vi sono porte guarnite di chiodi enormi, su le quali il gusto degli antichi ha tracciato geroglifici indecifrabili: in un punto, un protestante ha lasciato il segno della sua fede; in un altro, un socio della Lega ha maledetto Enrico IV. Qualche borghese vi ha inciso lo stemma della sua nobiltà di campana e la gloria delle sue obliate cariche di scabino.

  Vicino alla casa scadente [...].

 

 

  Honoré de Balzac, La falsa amante. La donna abbandonata. Ballo in campagna. Traduzione di Mario Casalino. Copertina di Carlo Dradi, Milano, Ultra (coi tipi dell’Istituto grafico Bertieri), (giugno) 1944 («Narratori di ieri e di oggi», 2), pp. 251.

 

  Struttura dell’opera:

 

  La falsa amante, pp. 9-90;

  La donna abbandonata, pp. 91-158;

  Ballo in campagna, pp. 159-248.

 

  Le omissioni di sequenze testuali, presenti fin dalle prime pagine di queste versioni italiane dei tre testi balzachiani qui raccolti, non consentono di formulare un giudizio positivo circa la qualità delle traduzioni che Mario Casalino fornisce di queste ‘scènes de la vie privée’. Ballo in campagna è la traduzione di: Le Bal de Sceaux.

 

 

  Honoré de Balzac, Gesù Cristo in Fiandria. Racconto di Onorato Balzac, «Il Novelliere. Antologia quindicinale di letteratura narrativa», Venezia, Anno I, Numero 8, 5 Giugno 1944, p. 4.

 

  Si tratta della versione parziale del racconto filosofico balzachiano (condotta sul testo dell’edizione Furne, 1845) che termina con la traduzione del periodo: «En 1793, lors de l’entrée des Français en Belgique, des moines emportèrent cette précieuse relique, l’attestation de la dernière visite que Jésus ait faite à la Terre» («Nel 1793, quando i Francesi entrarono nel Belgio, i monaci portarono via quella preziosa reliquia, prova dell’ultima visita che Gesù abbia fatto sulla Terra»).



  Onorato Balzac, Papà Goriot (Opera completa), Roma, «Il Vascello» - Ist. Grafico Romano – Casa Editrice, s. d. [1944?] («Romanzesca. Romanzi di ogni tempo e per ogni età», n. 5; Fascicolo doppio), pp. 1-47.

 

  Versione fortemente mutilata e maldestramente tradotta del capolavoro balzachiano. Si consideri, come esempio chiarificatore di questo prodotto editoriale di basso profilo, la traduzione dell’incipit del romanzo:

 

  p. 1.

Capitolo I

 

  La vecchia signora de Conflans, vedova Vauquer, tiene da circa quarant’anni, a Parigi, una modesta pensione borghese, in via Nuova Santa Genoveffa, nei pressi del Quartiere Latino.

  La casa Vauquer dà su un giardinetto, si stende un selciato, non troppo largo, dal quale si stacca un viale coperto di ghiaia, ed ornato da geranii, da rosai e da melograni piantati in ampi vasi di maiolica bianca ed azzurra. Si entra in questo viale da una porticina, su cui sta scritto

 

CASA VAUQUER

 

  Pensione borghese pei due sessi ed altri.

 

 

  Honoré de Balzac, Le Piacevoli Historie di Honoré de Balzac. A cura di Salvatore De Carlo. [Illustrazioni di Ercole Brini]. Prima diecina, Roma, De Carlo Editore, (luglio) 1944, pp. 171; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  [Salvatore] de Carlo, Prefazione, pp. 11-15. [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Prologo (traduzione di Carlo Formichi), pp. 17-20;

  La Bella Imperia (traduzione di Franco Rossi), pp. 21-33;

  Il Peccato veniale (traduzione di Salvatore de Carlo), pp. 35-63;

  L’Amica del Re (traduzione di Italo Toscani), pp. 65-78;

  L’Erede del diavolo (traduzione di Italo Toscani), pp. 79-95;

  Le Facezie di Re Luigi Undecimo (traduzione di Franco Rossi), pp. 97-110;

  Il Conestabile (traduzione di Franco Rossi), pp. 111-124;

  La Pulzella di Thilouze (traduzione di Franco Rossi), pp. 125-131;

  Il Fratello d’armi (traduzione di Franco Rossi), pp. 133-145;

  Il Curato d’Azay-le Rideau (traduzione di Franco Rossi), pp. 147-155;

  L’Apostrofe (traduzione di Franco Rossi), pp. 157-165;

  Epilogo (traduzione di Salvatore de Carlo), pp. 167-169.

 

 

  Honoré de Balzac, Le Piacevoli Historie di Honoré de Balzac. A cura di Salvatore De Carlo. [Illustrazioni di Ercole Brini]. Seconda diecina, Roma, De Carlo Editore, 1944, pp. 169; ill.


  Struttura dell’opera:

 

  Prologo (traduzione di Salvatore De Carlo), pp. 7-12;

  I tre baccellieri di San Nicola (traduzione di Italo Toscani), pp. 13-26;

  Il digiuno di Francesco I (traduzione di Italo Toscani), pp. 27-33;

  I lieti conversari delle religiose di Poissy (traduzione di Italo Toscani), pp. 35-48;

  Le origini del Castello di Azay (traduzione di Italo Toscani), pp. 49-64;

  La falsa cortigiana (traduzione di Italo Toscani), pp. 65-77;

  I perigli dell’esser troppo baggèo (traduzione di Italo Toscani), pp. 79-88;

  La costosa notte d’amore (traduzione di Italo Toscani), pp. 89-100;

  La predica dell’allegro curato di Meudon (traduzione di Italo Toscani), pp. 101-114;

  Il sùccubo (traduzione di Italo Toscani), pp. 115-156;

  Delusione d’amore (traduzione di Alberto Spaini), pp. 157-164;

  Epilogo (traduzione di Salvatore De Carlo), pp. 165-168.

 

 

  Honoré de Balzac, Le Piacevoli Historie di Honoré de Balzac. Terza diecina, [Illustrazioni di Ercole Brini], Roma, De Carlo, Editore, 1944, pp. 143; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Prologo (traduzione di Salvatore De Carlo, pp. 7-12;

  Perseveranza d’amore (traduzione di Raoul Vivaldi), pp. 13-28;

  Di un giustiziere della corta memoria (traduzione di Raoul Vivaldi), pp. 29-38;

  Di Frate Amadore che fu un glorioso abate di Turpenay (traduzione di Raoul Vivaldi), pp. 39-54;

  Berta la pentita (traduzione di Enrico Damiani), pp. 55-78;

  Come la bella portiglionese si beffò del giudice (traduzione di Raoul Vivaldi), pp. 79-86;

  Dove si addimostra che la fortuna è sempre femmina (traduzione di Raoul Vivaldi), pp. 87-100;

  Di un mendico che avea il nome il Vecchio-Vaperlastrada (traduzione di Raoul Vivaldi), pp. 101-110;

  Le incongrue parole di tre pellegrini (traduzione di Italo Toscani), pp. 111-118;

  Ingenuità (traduzione di Salvatore De Carlo), pp. 119-122;

  La Bella Imperia maritata (traduzione di Enrico Damiani), pp. 123-138;

  Epilogo (traduzione di Enrico Damiani), p. 139.


  Le traduzioni ci sembrano, nel complesso, abbastanza corrette.

 

 

  Honoré de Balzac, Piccole miserie della vita coniugale. Traduzione di Raoul Vivaldi, Roma, De Carlo Editore, 1944 («La Commedia umana. Raccolta completa delle opere di Honoré de Balzac a cura di Raoul Vivaldi», volume XLIII), pp. 186.

 

  Anche nella traduzione di questo studio analitico, il Vivaldi non mostra sempre di attenersi con rigore e precisione al costrutto balzachiano rimodellando il modello francese in maniera a volte inopportuna ed ingiustificata:

 

  p. 21. [cfr. Balzac, Petites misères de la vie conjugale, a cura di Jean-Louis Tritter, in La Comédie humaine … cit., 1981, t. XII].

 

  Un ami vous parle d’une jeune personne:

  «Bonne famille, bien élevée, jolie, et trois cent mille francs comptant».

  Vous avez désiré rencontrer cet objet charmant. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 5. Un amico vi sta parlando di una ragazza:

  «Di buona famiglia, beneducata, graziosa e con trecento mila franchi in contanti». Voi desideravate proprio incontrare una sposina tanto vezzosa ...

 

  VOTRE PÈRE (à la belle-mère). – Ma ferme vaut cinq cent mille francs, ma chère dame! ...

  VOSTRO PADRE (alla suocera): «Mia cara signora, miei beni hanno un valore di cinquecentomila franchi!».

 

  p. 23. De votre femme, personne bien conservée, mais dont l’âge a été l’objet de mûres réflexions et d’un long examen de la part des aves et ataves de votre gendre.

 

  p. 8. Figlia unica di vostra moglie dunque ... la quale è una donna benissimo conservata, ma la cui salute è stata oggetto, da parte di vostro genero, di mature riflessioni e di un coscienzioso esame circa i nonni e i bisnonni!

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Fra le quinte, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Anno LIV, N. 11-12, Novembre-Dicembre 1944, p. 187.

 

  Un poetastro presuntuoso si presentò un giorno a Onorato Balzac.

  — Io non sono figlio di alcuno — gli disse.

  — Come? — domandò l’autore di Eugenia Grandet.

  — Ma sì: io sono figlio delle mie opere.

  — Che fortuna per vostro padre! — esclamò Balzac.

  — Perché, Maestro?

  — Perché vostro padre si è liberato d’una bella responsabilità!

 

 

  Bruno Astolfi, Vittoriano Sardou “medium” in rapporti con Giove ..., «Stampa Sera», Torino, Anno 78, Num. 76, 7 Luglio 1944, p. 2.

 

Scrittori spiritisti.

 

  Balzac si onorava di essere discepolo dell’occultista Svedenborg (sic) e in alcuni volumi come Pelle di zigrino, Orsola Mirouet, I proscritti, ecc., circola una atmosfera di veggenza [...].

 

 

  Nino Berrini, E il teatro?, «La Stampa», Torino, Anno 78, Num. 146, 25 Maggio 1944, p. 2.

 

  Se volete avere al momento opportuno e necessario, dei cittadini vivi e operanti, bisogna anche, intellettualmente civilmente culturalmente, lasciarli respirare, muovere, affrontarsi, agire e lottare (teatro); vivere insomma e non soffocare la vita e pretendere che poi, ad un momento dato, siano virili.

  Ciò vuol dire permettere agli uomini cittadini, di agire la loro commedia umana. Perché Dante ha dato per titolo comprensivo «La comedia», al suo poema! Per significare e rappresentare «la vita» dell’al di là. Così Balzac, ha raccolto i suoi innumeri vorticosi romanzi, sotto il titolo di «La commedia umana».

 

 

  [Salvatore] de Carlo, Prefazione, in Honoré de Balzac, Le piacevoli historie ... cit., Prima diecina, Roma, De Carlo Editore, 1944, pp. 11-15.

 

  Se questo libro non fosse un’autentica opera d’arte, in tutta l’estensione di una parola ai giorni nostri un po' frusta, l'editore non si sarebbe arrischiato a pubblicarlo; ma egli ha pensato che i critici coscienziosi ed i lettori colti, tra le mani dei quali devono andare «Les contes drolatiques» terranno conto dei precedenti illustri che hanno consentito questo ardito tentativo, del quale l’Autore non si è dissimulato la temerità, e del quale ha calcolato tutti i pericoli.

  Nessuno dei nostri letterati vorrà ripudiare la Regina di Navarra, il Boccaccio, il Rabelais, l’Ariosto e il La Fontaine, geni rari nei tempi moderni, che quasi tutti furono dei Molière pur non dedicando al teatro le loro cure.

  Invece di descrivere una passione, molti di questi grandi dipinsero la vita ed i costumi dell’epoca in cui vissero: in tal modo si spiega il fascino che esercitano sul lettore moderno le opere loro con il profumo di fresca ingenuità, con la vis comica, con il linguaggio vivo e rude che s’esprime senza perifrasi; un linguaggio che oggi nessuno osa più osare.

  Questo libro va quindi letto e considerato con intelligenza, perché l’intelligenza è un dovere verso il narratore che vuole, non già sfruttare la preziosa eredità dei nostri antenati, ma soltanto procedere per la strada che tanti vividi ingegni batterono e che sembra essersi chiusa al loro passaggio.

  Ma per prendere quella strada era necessario rifarsi alla fresca ingenuità che la nostra lingua ha perduto, senza la quale vano sarebbe stato intraprendere il cammino.

  Il La Fontaine avrebbe potuto scrivere «La Cortigiana innamorata» con lo stile di Gian Giacomo Rousseau? L’editore ha prestato questa osservazione all’Autore per giustificare lo stile inconsueto di questi racconti: a tutti gli ostacoli di una simile impresa bisognava appunto aggiungere quello della stranezza dell’idioma.

  Vi sarà certamente qualcuno fra i lettori di quest’opera che griderà allo scandalo per l’audacia del suo Autore. Questa gente, la cui fronte arrossisce alla buona franchezza che una volta faceva ridere le principesse ed i re, hanno messo in gramaglie il nostro antico idioma e persuaso il popolo più allegro, più spiritoso del mondo che bisogna ridere decentemente e dietro il ventaglio.

  A costoro noi potremmo rispondere che il riso è un fanciullo nudo, un fanciullo abituato a scherzare con la tiara, la spada e la corona, senza guardare il pericolo.

  Non sarebbe un’incoerenza biasimare in letteratura ciò che si accoglie e si esalta nelle altre arti? Se il primo passo di questa musa incurante della sua nudità deve aver bisogno di caldi protettori e di benevoli suffragi, forse non ne mancheranno fra coloro il cui buon gusto e la cui virtù non potrebbero essere messi in dubbio.

  Con queste chiare ed oneste parole l’editore francese licenziava alle stampe, nell’anno di grazia 1832, la prima edizione dei Contes drolatiques. A distanza di oltre un secolo, riportando alla luce in una nuova traduzione italiana i conti balzachiani, potrei far mia la premessa dell’illustre collega. Dopo il coraggioso tentativo di un editore di Roma, nessuno aveva più osato metter mano, per quasi un quarto di secolo, ad una degna edizione di quest’opera che, àuspici alcuni melanconici Tartufi in diciottesimo, si era rifugiata nel polverume delle civiche biblioteche — reparto riservato — esule non dimenticata.

  Non dimenticata. E perché dovrebb’esserlo un’opera così viva, così scintillante, così preziosa come Les contes drolatiques? Un simile libro non deve essere dimenticato, non deve essere ignorato sotto pena di tacciar d’ignoranza le giovani generazioni, oggi più che mai ansiose di conoscere.

  A questo punto mi par d’udire la voce del solito Catone: «Questo è un libro immorale!». Immorale può darsi, purché ci s’intenda sul significato di questa parola. Se dire le cose come si vedono e come si sentono, al solo scopo di riderne e metterle in ridicolo — ed il ridicolo è sempre una forma di condanna — se dire pane al pane e vino al vino mettendo in luce piaghe che solo i raggi del sole possono cauterizzare e forse sanare vuol dire far cosa immorale, ebbene, sì, questo è un libro immorale. Dal canto mio, mi sia permesso però di aggiungere, a mo’ di chiarimento per quegli irriducibili ed ottusi catoni, che fino a quando l’uomo continuerà a trovare e buono e bello e giovevole ciò che il buon Dio fabbricò per la necessità, per il comodo o per il diletto delle umane genti, l’immoralità — ove si dovessero porre sotto questa etichetta le cose chiamate con il loro nome — non esiste se non nel cervello malato di coloro che vivono negli angolini a covare il proprio livore, la propria impotenza e la propria maldigerita ipocondria. Alla gente fatta di carne e di sangue non sembrerà mai immorale una muliebre rotondità o una naturale manifestazione fisiologica, poiché l’immoralità non è mai nelle cose ma negli occhi o nel cervello di chi le guarda. Solo uno stolto potrebbe osar di tacciare la Natura di immoralità visto che nei suoi tre regni questa espressione è del tutto ignora, se da quei tre regni si escluda l’uomo, animale «progredito» e perciò corrotto, ipocrita e in mala fede.

  Meno che meno si può poi parlare di immoralità nell’arte, quando di vera arte si tratti, e non di prostituzioni più o meno eleganti. Ed a questo punto, per non dilungarmi eccessivamente su di un argomento già sviscerato nella introduzione alle Mille e una notte che io vado pubblicando, posso senz’altro far mie le argomentazioni dell’editore francese: «Chi potrebbe osare di tacciare di immoralità Boccaccio, Rabelais, Ariosto, La Fontaine?». Ed a tutti codesti signori molti altri ne potrei aggiungere dell’italica ed universale letteratura; citerò per tutti padre Dante che pur non risparmiò certa crudezza di linguaggio quando si trattò di ... dar forza al discorso:

 

Per l’argine sinistro volta dienno;

Ma prima avea ciascun la lingua stretta

Coi denti, verso lor duca, per cenno.

Ed egli avea del cul fatto trombetta.

 

  L’opera d’arte, in quanto creata come tale da spiriti eletti e non da anime guaste, contorte o pervertite, non è, non può essere, immorale. Nessuna scultura ha mai raggiunto la perfezione della Venere di Milo; mai marmo ha «incarnato» — mi sia permessa l’espressione — forme muliebri più divine ed incantevoli. Eppure, quelle forme non hanno alcunché di procace o di conturbante; vi strappano un grido di ammirazione, ma non v’ispirano alcun pensiero lascivo; è un nudo che voi non celate a vostro figlio adolescente: ben gli proibireste però certe cartoline francesi che riproducono dei nudi forse neanche integrali, ma che costituiscono un vero e proprio adescamento a ... delinquere; ben vero che in questo caso non si può neanche parlare di opera d’arte.

  Così, dunque, è immorale quel quadro, quella statua, quel libro creato con intenzione di nuocere, con animo impuro e corrotto, cosa che non accade quasi mai in un vero artista; soprattutto è immorale, — giova ripeterlo — ciò che guardiamo con occhi e con mente non sereni, non puri, maliziosi.

  Ma l’arte, l’Arte pura, quella con l’A maiuscola, non è mai immorale, ed è in nome dell’Arte che io riporto oggi alla luce questi Contes drolatiques, questo superbo capolavoro di grazia, di arguzia, di umorismo; queste gioconde, allegre, bonarie, piacevoli istorie, frizzanti e salutari come un buon vino generoso, non eccitanti e velenose come i fumi di una droga. Leggiamoli dunque questi Contes, leggiamoli con intelligenza; e se il buon Balzac ci strapperà qualche volta una grassa risata, ebbene ridiamo senza scandalizzarci e senza ipocrite riserve: il riso «è un fanciullo nudo che scherza con la tiara., con la corona e con la spada», ed anche di questa sana risata noi dobbiamo esser grati al vecchio Balzac, poiché il riso fa buon sangue e noi abbiamo tanto, troppo bisogno di buon sangue in questi anni feroci.

 

***

 

  Non da poco io pensavo ad una nuova edizione, ad una «mia» edizione dei Contes drolatiques.

  Un anno fa osai persino proporre a Carlo Formichi di tradurre per la mia Casa le tre «diecine» balzachiane. Lì per lì il Maestro non rispose, ma mi guardò negli occhi con quel suo sguardo benevolo e paterno; ricordo che il rossore mi arrivò fino alla punta delle orecchie. «Ho preso una cantonata», pensai, ma il buon Formichi, accortosi del mio imbarazzo, disse pacatamente: «Lei, mio caro, si rende conto delle difficoltà?».

  «Me ne rendo conto, Professore, ma le difficoltà non possono spaventare nè la mia giovinezza nè la Sua sapienza».

  Sorrise il Maestro, e nel congedarmi mi assicurò, battendomi la mano sulla spalla:

  «Proveremo».

  Passò qualche mese, ed un giorno mi giunsero in una busta due fogli vergati con la sua larga e un po’ infantile calligrafia: il «prologo» dell’opera del Balzac che il Maestro mi mandava quale saggio della traduzione.

  Di poi, drammatici eventi per il Paese, fortunose vicende per la mia Casa, il trasferimento dell’attività editoriale in luogo «più sicuro» che non fosse questa Roma minacciata di distruzione e di morte, la perdita dei quattro quinti del patrimonio editoriale ingentissimo accumulato in tanti anni di duro lavoro, mi distrassero dal mio divisamento.

  Purtroppo, non più dovevo rivedere il caro volto del Maestro, ed il buon Formichi — che aveva preparato una scelta di novelle orientali per la mia Enciclopedia della novella — moriva improvvisamente prima di aver potuto correggere le bozze di questa ultima opera.

  La Sua morte improvvisa, la dolorosa impressione che ne riportai, il rimpianto per la perduta amicizia di un così eletto spirito, mi richiamarono alla memoria il progetto relativo ai Contes drolatiques. Ma quelle due paginette di pugno del Maestro non potei ahimè! — ritrovarle. Nel trasferimento in Abruzzo non soltanto quel manoscritto era andato perduto! Fortunatamente avevo la copia che, per prudenza, se ne era fatta: due sole paginette, ma quanta eleganza, quanta perfezione di stile! Purtroppo Egli non era più, e quella edizione dei conti balzachiani che sognavo da tanto tempo, mi appariva ora come legata alla promessa che io ed il Maestro ci eravamo tacitamente scambiata.

  Mi diedi d’attorno per cercare chi potesse degnamente assolvere il difficile compito, ma da più d’uno mi sentii rispondere: «troppo difficile», oppure: «troppo lavoro»!

  Sono testardo: non mi lasciai smontare, e poiché le difficoltà hanno sempre avuto il potere di rendermi ancor piò testardo, dedicai lunghi giorni ad un profondo esame della materia: questo esame — ed una certa qual presunzione che in me giuoca costantemente a rimpiattino con modestia che sortii da natura — questo esame dunque, e quel tal pizzico di presunzione, mi convinsero che le difficoltà non erano poi così gravi come me le avevano dipinte. Di questa mia convinzione mi feci sostenitore accanito e difensore ad oltranza, ma una convinzione non basta, e una felice idea neanche; in quanto alle belle parole, non sono mai servite gran che quando si tratti di realizzare qualche cosa di solido. Mi occorrevano uno o più uomini di buona volontà, cosa non facile a trovarsi, poiché questi benedetti letterati sono sempre «occupatissimi», hanno sempre «un lavoro enorme» per le mani, e sono per giunta costantemente «stanchissimi» per aver lavorato fino alle due di notte.

  Pure, batti e ribatti, riesco a riunire intorno a me Enrico Damiani, Alberto Spaini, Franco Rossi, Italo Toscani e Raoul Vivaldi, specialisti coi fiocchi, ingegni fini, alcuni giovani d’anni e d’esperienza, altri baldanzosi e sicuri della loro celebrata bravura, ma tutti ugualmente e sinceramente entusiasti.

  Il lavoro non è davvero facile e molte sono quindi le prove, infinite le discussioni. Non bisognava trascurare l’esperienza di chi, per aver tentato venti anni prima l’ardua impresa, aveva finito per fare opera egregia sotto certi aspetti, ma discutibile — molto discutibile — sotto certi altri.

  Non si può assistere all’esecuzione di un «pezzo» come quello dei Contes drolatiques se l’orchestra non è affiatata, se l’esecuzione non ha un tono, un’armonia, un’intima coesione. Ve l’immaginate voi un’orchestra composta di professoroni, magari con tanto di alloro sulla gloriosa canizie, che eseguano il Barbiere di Siviglia (chissà perché Balzac mi richiama sempre alla memoria Rossini) suonando ognuno per proprio conto? Ebbene così, proprio così avvenne per quell’edizione di venti anni fa! L’egregio e compianto editore romano già citato in principio pensò (proprio come ho fatto io) di affidare la traduzione ad una ventina di «assi». Ma gli Assi gli presero la mano, e ne venne fuori quel che venne: una serie di bellissimi pezzi, alcuni dei quali si leggono con diletto, altri ci lasciano a bocca aperta per l’eleganza, per la grazia del dire, ma ... e Balzac? Balzac, signori miei, sogghignava dall’alto della sua pappagorgia e si divertiva un mondo per tutto quel tramestìo; ancor più dovette sogghignare il buon Onorato quando l’edizione dei conti «drolaticci» venne fuori sfoggiando la pseudo-trecentesca barbosità di uno e la novecentesca disinvoltura dell’altro, passando attraverso infinite gamme di artifizi e bastardaggini: bellissimi «pezzi» ognun preso a sè, ibrido il complesso e cacofonico e per giunta arbitrario e non aderente al testo.

  Ora, tutti questi errori non si dovevano ripetere, e d’altra parte io pensavo e penso che per rendere lo spirito ed il contenuto dell’opera balzachiana non occorresse ricorrere nè al Boccaccio, nè al Lasca, nè al Bandello, nè allo Straparola, nè agli altri classici nostri; che non occorresse, in sostanza, far troppo ricorso alle espressioni del trecento, del quattrocento o del cinquecento, e come, d’altra parte, fosse del tutto inutile, per non dire dannoso, spremere le meningi per coniare aggettivi più o meno nuovi e più o meno strambi. Per rendere lo spirito, l’arguzia, la grazia dei Contes drolatiques, occorreva soltanto — ma un «soltanto» non facile ad ottenersi — il nostro bell’idioma letterario usato con stile, con eleganza, e con proprietà da gente avvezza a porvi le mani.

  Solo in tal modo era possibile evitare squilibri e dissonanze e contrasti invero poco simpatici. Credo che in tal senso i miei bravi collaboratori siano riusciti a fare ciò che io volli da loro. Sarà presunzione la mia, ma io oso sostenere che — se non la più bella, la più perfetta, la più ... vattelapesca che cosa — questa è certamente l’edizione più fedele, più integrale, più rispettosa, ed in un certo senso più onesta delle tre (la mia è la terza) comparse negli ultimi venticinque anni sui «colli fatali». Posso assicurare che — tenuto conto delle difficoltà non sempre facilmente superabili, delle astrusità del testo, dei virtuosismi letterari che Balzac disseminò a piene mani in queste Piacevoli historie e soprattutto del desiderio di rendere gradevole, oltre che fedele, l’italiano della presente traduzione, accostandolo cioè alla sensibilità del lettore moderno senza falsare il delicato contenuto — non si poteva procedere con maggiore serietà e coscienza e dignità: quella dignità che, come modesto studioso e come ancor più modesto editore, ha sempre inquadrato ogni mia impresa.

  Il lettore dovrà tener presente che i Contes drolatiques furono scritti in un francese arcaico ma, più che arcaico, rabelaisiano, un francese condito ed insaporito di espressioni personalissime, aggettivi fantasiosi, parole del tutto sconosciute ai lessici, in un ricamo delizioso per rendere il quale, non bastava «tradurre», bisognava «interpretare», e interpretare con grandissima sensibilità, con acuta intelligenza e con accorto senso di misura; bisognava, in una parola, entrare nello spirito, nel pensiero, nell’arte dello scrittore e seguirlo nei suoi virtuosismi dialettici, nelle sue bizzarrie, e nelle sue acrobazie letterarie: il tutto — si badi bene — senza storpiare il contesto; poiché i Contes drolatiques, giova ripeterlo, sono come un prezioso ricamo di seta e d’argento e vanno trattati con mano leggera, con quella stessa trepida tenerezza e con la medesima levità con cui un amatore tratterebbe una iridescente farfalla dalle ali così belle, così smaglianti, così deliziosamente festevoli di porpora e d’oro: che le dita non tocchino però quello, splendore con gravezza inadatta! La porpora e l’oro e i bei colori lucenti di cui i vostri occhi si dilettano sparirebbero come d’incanto, e voi trovereste che sono essi fatti di impalpabile polvere, meravigliosamente chiamata a suscitare l’illusione della vita e della grazia. Di una tale materia impalpabile sono fatti questi Contes: gravare su di essi la mano avrebbe significato rivelare la trama di un così bel ricamo, cangiare il brillante in cul di bicchiere, lo spumeggiare di vino generoso in greve esalazione di mosto, il lieve trillar di violino in roco stridore di tromba.

  Credo di poter affermare — ma il lettore ne sarà giudice inappellabile — che la presente edizione vada esente da simili mende. Tutto lo spumeggiare d’idee e di espressioni, tutto il virtuosismo di forma e di stile, tutto lo spirito, la gioconda spensieratezza, la grazia incomparabile del capolavoro balzachiano si è cercato di rendere con infinito amore e con grande pazienza in un italiano nè novecento nè arcaico, ma elegante, letterario, con una lieve nostalgica pàtina di nobiltà che non è vano orpello nè posticcio ciarpame, ma ricercatezza di stile. La povera nostra lingua d’oggi, che malinconicamente s’industria fra gli snobismi di Tizio e le innovazioni di Caio ed i riformismi di Sempronio, deve, quando vuol ricordarsi della propria nobiltà, rifarsi un po’ al passato; al passato, ma senza riandar troppo indietro, che lungo ed ozioso sarebbe il cammino: e allora indossa la vecchia marsina, un po’ stinta ma sempre elegante — perché la stoffa è di quella «proprio buona», di quella «anteguerra» — e fa il suo figurone, sempre, come certi vecchi nobiluomini di campagna un po’ anacronistici ma che incedono sicuri e disinvolti perché la marsina, loro, la sanno portare. Lo vedrà il lettore in questa edizione che io licenzio, con tranquillo cuore, per il godimento intimo del colto e per quello meno spirituale dell’inclita; e ben si fregi del Prologo che per essa preparò il compianto Formichi: credo che il Maestro, dal mondo delle Ombre, possa riguardare, con quello sguardo benevolo che io non ho dimenticato, la fatica modesta ma appassionata dei miei giovani (chi d’anni e chi soltanto di spirito!) collaboratori, più o meno celebri, più o meno dotti, ma preparatissimi, coscienziosi ed onesti tutti, e tutti animati da una incorruttibile fede nella potenza di quell’Arte che, per essere patrimonio immortale dei popoli e degli individui, sopravvive alle miserie del mondo degli umani, alle loro beghe meschine e alla loro sadica furia di distruzione.

 

 

  Francesco Casnati, Bourget e Balzac, in La lettera e lo spirito. Tempi. Uomini. Idee. Scritti di critica letteraria, Milano, Istituto di Propaganda libraria, 1944 («Collana La Corona d’argento»), pp. 133-139.

 

  Cfr. 1931.

 

  Un libro sul Balzac, pp. 137-139.

 

  Cfr. 1934.

 

 

 Giovanni Cenzato, Gioie di raccoglitori. Oasi del faticar lieto, «Corriere della Sera», Milano, Anno 69, N. 279, 22-23 Novembre 1944, p. 2.

 

  Tante volte questa fissazione può essere stravagante e allora andiamo nelle raccolte bislacche, come quel tale che faceva raccolta di ragnatele, conservandole ben distese fra due vetri (ricordate a questo proposito la nota definizione di Balzac sui raccoglitori), ma tante volte è di gusto superiore ed esprime la gioia del bello, l’amore alla cultura, l’omaggio all’arte.

 

 

  Cesare Giardini, Maria Stuarda. Romanzo di Cesare Giardini. Puntata N. 12, «Corriere della Sera», Milano, Anno 69, N. 16, 19-20 Gennaio 1944, p. 2.

 

  A quanto pare, il metodo era discretamente efficace: infatti, Caterina ebbe dieci figli; durante un periodo che s’inizia nel 1543, anno della nascita del Delfino, e copre gli ultimi anni del regno di Francesco I e quasi per intero il regno di Enrico II, essa fu tutta presa dai doveri delle sue successive maternità, e non a torto, forse, Balzac suppone che in questa ininterrotta fecondità regolata da lei la duchessa di Valentinois vedesse un mezzo per relegare nell’ombra la sposa legittima del suo regale amante.

 

 

  Cesare Giardini, Maria Stuarda. Romanzo di Cesare Giardini. Puntata N. 15, «Corriere della Sera», Milano, Anno 69, N. 14, 22-23 Gennaio 1944, p. 2.

 

  Balzac fa senz’altro il nome di Caterina de’ Medici; un ambasciatore veneto, con maggior verosimiglianza, quello del conestabile de Montmorency, il quale, avidissimo di danaro, vedeva di malocchio gli enormi benefìci che Diana traeva dalla sua relazione con Enrico II.

 

 

  Lyno Guarnieri, Prefazione, in O. Balzac, Eugenia Grandet … cit., Roma, Edizioni Geos, 1944, pp. 7-11.

 

  Con Onorato Balzac il romanzo francese raggiunge la sua massima perfezione. Diventa un’opera completa, capace di ritrarre la vita sotto ogni aspetto, e nello stesso tempo di valere come documento storico con un contenuto psicologico, serio e durevole.

  Nato a Tours, nel 1799, passò sette anni nel collegio — famosissimo a quel tempo — di Vendôme. Sembra che i suoi professori lo considerassero una intelligenza mediocre.

  Probabilmente non sapevano quello che si nascondeva dietro a quella fronte quasi sempre corrugata. Leggeva moltissimo, quasi fosse divorato da una passione inestinguibile. I suoi familiari vollero iniziarlo alla carriera notarile. Ma, poco portato per i cavilli e per i raggiri, persuase i suoi a fargli intraprendere la carriera delle lettere. Da allora nessuno, neppure i suoi genitori, ebbe un po' di fiducia in lui. Trasferitosi a Parigi, visse fino alla sua morte continuamente incalzato, spinto dal bisogno. Per sopperire alle necessità della vita scrisse un romanzo dopo l’altro, senza nessuna tregua. Una cambiale che scadeva lo spingeva ad accumular pagine su pagine. La sua resistenza era davvero miracolosa. La sua produzione, infatti, è numerosissima. C’è da pensare che nessun uomo, spinto così costantemente dal bisogno, abbia saputo conservare tanta forza di volontà e tanta resistenza. Chi non si sarebbe lasciato abbattere dalla disperazione, vedendosi sempre, incessantemente inseguito dalla necessità stringente, quasi soffocante, e da creditori intransigenti?

  Ma egli, sempre ostinato, tenace, chino sul suo tavolo, scrive, scrive senza fine. Viaggia fino a conoscere la Francia alla perfezione: è in Germania, in Italia ed in Russia, dove incontra (sic) una donna che ama per sedici anni continui. Nulla si sa su altre possibili relazioni sentimentali di Balzac. E’ stato sempre molto riservato, e neppure i suoi amici più intimi seppero altro più di noi.

  Chi legge la sua Commedia umana resta sbalordito. Come ha potuto, un essere umano, creare un tale colosso?

  A questo punto lasciamo la parola a Brunetière, che così ha definito l’opera del romanziere:

  «...Si tratta di documenti storici, in quanto lo stato dei luoghi, la localizzazione dei costumi, la genealogia psicologica non sono soltanto colte dal pittore, ma vedute dallo storico, che non solo ha saputo ritrarre la fisionomia dei costumi del suo tempo, ma fissarne la successione ed il moto ... Sono documenti realisti, in quanto danno una parte importante ad una infinità di particolari prima trascurati come volgari, al denaro, alle professioni, alle condizioni sociali, ecc. Infine sono documenti scientifici, in quanto hanno saputo rintracciare tipi sociali e raccoglierli in gruppi sociali analoghi ai gruppi zoologici ...». «...Pertanto — continua il Brunetière egli ha costituito il romanzo come genere letterario, fondando per la prima volta il romanzo storico, il romanzo di costumi, il romanzo di caratteri, il romanzo sociale, avendo trovato la formula cui tendevano tutte queste verità di rendere una reale immagine della vita! ...».

  Balzac ha lasciato una traccia incancellabile nella letteratura contemporanea. Quanti oggi scrivono e scriveranno romanzi, bisogna che riconoscano in lui un maestro che ha trattato in modo tale alcuni soggetti, che quasi non è possibile riprovarcisi attorno dopo il suo esempio!

  Non a torto si può quindi affermare che egli ha iniziato il ventesimo secolo. Ci ha aiutati a spostare più in là la muraglia della comprensione e della veduta umana, aprendoci un più ampio orizzonte!

  Produsse incessantemente per vivere, logorandosi i polsi per timore di venire incarcerato per debiti. La spinta è abominevole, ma bisogna ammirarlo così com’è. C’è da credere che s’egli avesse avuto molti mezzi di fortuna, o quanti bastavano per condurre una vita serena, forse non avrebbe creato monumenti così elevati e duraturi!

  Curvo sotto la frusta del debito creò opere immortali, forse senza sapere che lo fossero. Probabilmente non aveva neppure il tempo di correggere quello che scriveva.

  Zola così scrive di lui:

  «Bisogna pensare ad un naufrago che stia per annegare e che si trasforma in un eroe, nuotando per delle leghe, accrescendo del decuplo il suo sforzo, compiendo il miracolo di camminare sul mare e di comandare ai flutti adirati! ...».

  Da vero lottatore combattè, fino alla fine della sua vita, senza pregustare la dolcezza del riposo ... La gloria gli arrise e crebbe su la sua tomba. Ma per lui oramai era tardi. Mentre era vissuto quasi all’oscuro, davanti alla luce sfolgorante di Victor Hugo, solamente più tardi i suoi romanzi costruirono il monumento della sua gloria!

  Osserviamo ora quest’opera: «Eugenia Grandet»: un avaro, una moglie vittima del carattere taccagno del marito, una figlia ingenua e dall’indole angelica, molte persone interessate all’enorme ricchezza del vecchio, ed una fantesca ignorante e pronta alla commozione. Questo è il quadro generale dell’opera. Un cugino che vive a Parigi compare improvvisamente su la scena. E’ bello ed elegante. L’ingenua Eugenia palpita per lui, ella che non è mai uscita dal cerchio della sua fredda casa. E’ pronta a donargli tutto, anche a sfidare il cuore acerbo di suo padre. E così avviene. Carlo, il bel cugino, rimane orfano. Suo padre, in seguito ad un dissesto finanziario, s’è suicidato.

  Il giovane è ormai povero. Per consiglio dello zio, parte per le Indie, in cerca di fortuna. Eugenia, commossa, gli offre tutte le monete d’oro, dono di suo padre. Prima che egli parta si giurano eterno amore e si promettono eterna fedeltà!

  Ma quando arriva il nuovo anno l’avaro vuol vedere l’oro della figlia. Costei è costretta a confessargli la verità. Il vecchio, terribilmente irato, condanna la figlia a vivere, relegata in camera sua, a pane ed acqua. Sua moglie, afflitta da tante controversie, ammala gravemente. Solamente quando un suo vicino lo avverte che morendo la moglie, la figlia Eugenia erediterebbe molta parte dei suoi beni, il vecchio Grandet, spinto dalla voce potente della sua avarizia, si riconcilia con la figlia e le fa firmare un atto di rinuncia al patrimonio materno. L’avaro è soddisfatto! Potrà contemplare il suo tesoro fino alla fine dei suoi giorni.

  Gli anni passano. Rimasta orfana. Eugenia attende ancora il ritorno di Carlo, quando una lettera fredda di quest’ultimo, le annuncia il suo prossimo matrimonio d’interesse. Ma bisogna ch’egli paghi i creditori di suo padre; e sembra che le nozze non abbiano più luogo. Eugenia allora gli rinfaccia, con la sua bontà, quel ch’egli ha tanto vilmente disprezzato. Paga tutti i debiti di suo zio. Ma Carlo non arriva a comprendere l’atto della cugina, e rimane meravigliato quando apprende che ella ha molti milioni. Se l’avesse saputo prima, forse ...

  Eugenia sposa allora un altro uomo. Ma soffre terribilmente. Così, intorno a lei, è caduto tutto! Al posto di tanto oro avrebbe preferito possedere almeno un briciolo di felicità!

  Quindi rimane presto vedova: si sente alfine sola, sottoposta a portare il peso enorme d’una ricchezza che la schiaccia e che le ha procurato soltanto dolori ed amarezze.

  Altro non può sperare dalla vita: non ha avuto nulla, ed ha donato tutto! Ella che ha amato tanto non ha potuto divenire nè sposa, nè madre, nè amante, e muore volontariamente vergine!

  Ha forse spesa intano la sua vita? ...

 

 

  Rodolfo De Mattei, Antenati e tradizione, in Ritratti di Antenati, Firenze, Sansoni Editore, 1944 («Itinerari», V), pp. IX-XLI.

 

  p. XIX. Si tennero istintivamente sulla via giusta, via urbana e gelosa insieme, quei nostri padri che si diedero per consegna di usar la massima ospitalità e squisitezza agli stranieri, però declinando gentilmente ogni lezione, cioè ogni importazione di costume, politico o mondano. «Ma in Italia è differente — Perché poi la nostra gente — Non è tanto barbara», ammoniva dolcemente una voce del ‘46 «sulle cose d’Italia». In Italia è differente: e dunque cosa vuole intenderne l’uomo della strada ferrata?

  Istruttiva, alla fine, la lettera di Balzac — che non è poi l’ultimo venuto in Italia — a don Michelangelo Caetani, principe di Teano. «Fino a che non vi ho udito, la Divina Commedia mi sembrava un immenso enigma, di cui la chiave non era stata mai trovata da nessuno ... Un dotto francese si farebbe una reputazione, pubblicando l’improvvisazione con la quale mi avete graziosamente stupito, in una di quelle sere in cui ci si riposa di avere veduto Roma ...». Ecco un solitario umanista italiano svelare a quattr’occhi, domesticamente, non meno che la Divina Commedia all’autore della Commedia Umana: munifico dono di principe romano.

 

 

  Attilio Momigliano, Dante, Manzoni, Verga, Messina-Città di Castello, Casa Editrice G. D’Anna, 1944 («Biblioteca di cultura contemporanea», VIII).

 

  p. 239. In questa figura [mastro don Gesualdo] palpita la vitalità grandiosa e instancabile dei più caratteristici personaggi di Balzac.

 

 

  Alessandro Pellegrini, Introduzione, in H. de Balzac, Due studi di donna … cit., Milano, Bompiani, 1944, pp. VII-XXIV.

 

  Negli anni fra l’inizio della grande rivoluzione e la rivoluzione del 1848 la Francia fu il paese ove le varie dottrine polemiche e sociali si definirono teoricamente ed ebbero la loro prova nelle vicende storiche; e se l’influsso della Francia in Europa ebbe il suo apogeo durante l’impero napoleonico, tuttavia si estese assai più innanzi nel tempo, e il mutare e il susseguirsi dei vari regimi segnò ogni volta un nuovo momento della evoluzione politica e sociale europea.

  Ciascuno di quei periodi statici della prima metà del secolo XIX, la grande rivoluzione e l’impero napoleonico, la Restaurazione e il regno di Luigi Filippo, sembrarono mondi per sé definiti, sistemazioni sociali e politiche in sé concluse, che pretendevano di valere costantemente, e condussero ogni volta al potere nuovi ceti, in una rapida successione di fortune e decadimenti. Ogni periodo storico, ogni regime sembrò allora essere un organismo, che in sé comprendeva i vari aspetti di una società, secondo una interpretazione sociale e politica, il cui mutamento tramutava anche la società e l’ordine dei vari ceti. Quel susseguirsi di regimi e quelle mutazioni possono essere argomento di studio per lo storico, ma per la ricchezza di contrasti e per la varietà delle vicende, per la molteplicità dei caratteri, che in quelle vicende si dimostravano, quel periodo di storia poteva dare argomento anche al romanziere, che dalle idee informative e contraddittorie dei vari regimi e dalle varie figure e dai vari tipi umani si ispirava per la narrazione fantastica.

  Balzac, nato nel 1799, vide l’impero napoleonico, le cui vicende accompagnarono il crescere del bimbo e del ragazzo, e l’adolescente vide la caduta dell’impero e il ricostituirsi della monarchia borbonica. L’esempio napoleonico appariva essere una grandiosa esperimentazione delle energie e delle possibilità di un uomo. E durante gli anni della Restaurazione, che furono per lui gli anni della giovinezza, nei tentativi per trovare la propria via da parte del giovane dedito alle lettere e partecipe della vita letteraria, nella tensione delle energie verso il successo e verso la ricchezza, che gli desse adito ad una vita sociale cui ambiva anche per partecipare più profondamente alla vita del tempo, Balzac conobbe la propria epoca e riconobbe in se stesso gli impulsi e le ambizioni che travagliavano la giovinezza del tempo, soffocata dalla imposizione artificiosa di un regime non più corrispondente alla società formatasi dalla rivoluzione e dall’impero napoleonico. Il regno di Luigi Filippo coinciderà poi con il ventennio di maggior produzione di Balzac e con l’apogeo della sua gloria; egli fu uno dei critici più aspri di quel periodo, che potremmo dire l’epoca aurea della borghesia, ma ne fu anche il maggior romanziere e ne rappresentò la società e la vita come nessun altri.

  Si parlò dalla critica e si parla ancora di un «romanzo sociale», e a questo proposito Benedetto Croce nel suo studio su Balzac osservava che il romanzo sociale, nelle sue qualità proprie, non appartiene affatto all’arte ed è piuttosto «semplice schema didascalico», una sorta di sociologia e di storia insegnate usando di un intrigo romanzesco e di varie figurazioni di caratteri. Ma i caratteri ne divengono allora tipi, similmente ai tipi che già conosciamo dalla commedia menandrea, che valgono al modo di categorie di vizi e di virtù o di condizioni sociali. Cotale romanzo non è opera di poesia, e si ispira ad un insieme di idee sociologiche politiche e filosofiche, secondo le quali si dà una interpretazione del conformarsi e dell’essere di una società, con il proposito di una riproduzione dal vero, che dovrebbe trovare in quei tipi e caratteri una traduzione e quasi una equivalenza Secondo schemi definiti e pressoché costanti i caratteri della commedia menandrea si tramandarono attraverso il Rinascimento e sino ai tempi moderni, e quei caratteri divennero tipi fissi e convenzionali. Il proposito di Balzac di dare un quadro della società del suo tempo e di rappresentare les espèces sociales sarebbe stato piuttosto storico e di sociologo che non di artista. Lo schema didascalico, che formava la struttura del romanzo sociale, implicava un accostamento della scienza, che è osservazione e storia, e della immaginazione, che è pura fantasia; e poiché, secondo quanto dice il Croce, «la fusione delle due tornava impossibile, due casi accadevano: o che l’elemento poetico si affermasse come il vero centro dell’opera e asservisse gli elementi scientifici, riconducendoli ai suoi toni e colori, e ne nasceva una pura opera di poesia, ovvero che l’interesse scientifico si costituisse centro, e allora gli elementi. poetici erano a lor volta asserviti e valevano come forme immaginose e popolari di discorso». Questo giudizio del Croce nello studio dedicato al Balzac adduce a meglio intendere l’importanza di un giudizio di Baudelaire, che nota come il romanzo sociale, «questo genere roturier» divenga per opera del grande scrittore «cosa ammirevole, sempre curiosa e spesso sublime», e ciò perché «egli vi buttò tutto il suo essere». Il valore artistico del romanzo è in tal guisa dal Baudelaire riportato alle qualità soggettive, non all’opera di osservazione e di riproduzione dal vero, ed è da considerarsi nei suoi valori espressivi e rigorosamente estetici.

  Non importa, per il vero, indagare quale fosse la teorica del romanzo formulata da Balzac, e si può riconoscere che non vi era nel Balzac capacità di filosofo né attitudine di pensatore; sicché le pagine di prefazione alla Comédie humaine, il richiamo alla storia naturale e alle teorie della evoluzione, la spiegazione dei propositi perseguiti e dell’architettura dell’opera hanno per noi mediocre valore, considerando che assai prima di formulare nel 1842 quelle teorie, Balzac aveva preso a scrivere i suoi romanzi e a creare tipi e caratteri che hanno tuttavia una vita intensa, così da essere per noi non già o non soltanto una rappresentazione della società francese in un dato periodo, ma individualità create dall’arte e che solo come espressioni dell’arte di un periodo storico si possono adesso riferire. Il problema del romanzo di Balzac, in quanto viva opera d’arte, è al di là di ogni considerazione delle teorie sociologiche dell’autore e di ogni problema relativo alla consistenza di una qualsiasi formula. Al qual proposito succede di ricordare di nuovo qualche giudizio di quegli che fu certamente il maggior critico francese del secolo XIX, e non voglio dire il Sainte-Beuve, che fu grande storico ma che non ebbe sufficiente fondamento alla sua teoria critica, ma invece ed ancora una volta il Baudelaire, il quale fu il vero e proprio creatore della critica estetica.

  Nello studio sulla poesia di Gautier, edito fra le pagine dell’Art romantique, Baudelaire svolge una teoria del romanzo, accennando all’ibridismo di questo genere letterario, che sta fra il poema e la storia e non è soggetto alle leggi né dell’uno né dell’altra; per cui il pericolo ne è l’eccessiva libertà, la mancanza di una disciplina, anche della disciplina propria del racconto e della novella. Questa mira a narrare una vicenda, e il narrare una vicenda è anche il proposito del romanzo, e vorrei, insistere su questa precisazione, l’unica che veramente aiuti a definire l’essenza del romanzo. Ma la novella, secondo il giudizio di Baudelaire, «più serrata, più condensata, gode dei costanti benefici della costrizione; il suo effetto è più intenso, e poiché il tempo dato alla lettura di una novella è ben minore di quello necessario a leggere un romanzo, non si perde nulla della totalità dell’effetto». Il giudizio porta l’impronta dell’educazione estetica che Baudelaire compì alla scuola di Edgard Poe, e il rigore nel considerare il romanzo concede però a Baudelaire di meglio avvertire la grandezza di Balzac. La quale a suo parere non può consistere nella capacità di osservazione e di riproduzione dal vero e neppure, possiamo aggiungere nel ripresentare i tipi e i caratteri fissati dalla commedia menandrea. Simili qualità sono infatti di second’ordine, se per esse il romanzo diviene storia dei costumi, non più arte e neppure veramente storia essendo lecito l’introdurvi elementi non controllati dai documenti e creati solo dalla fantasia. «Quando il romanzo di costumi non sia retto da un grande gusto innato dell’autore, esso corre il pericolo assai grave di riuscire banale, e poiché in arte l’utilità si commisura alla nobiltà, può essere affatto inutile».

  Il valore del romanzo di Balzac non è invero da ricercarsi secondo schemi di giudizio sul romanzo sociale, ma estraneamente a quegli schemi; e Baudelaire stesso dà la definizione, che oggi ancora permane fondamentale, dell’arte di Balzac. «Più volte fu per me ragione di stupore il fatto che la gloria di Balzac fosse di passare per un osservatore; mi parve sempre che il suo merito maggiore fosse di essere un visionario, e un visionario appassionato. I suoi personaggi sono dotati dell’ardore vitale onde egli stesso era animato, le sue finzioni fantastiche hanno una coloritura tanto profonda e intensa quanto i sogni. Dal sommo dell’aristocrazia sino ai bassi fondi della plebe, tutti gli attori della sua Commedia sono più tenaci nella vita, più attivi ed esperti nella lotta, più pazienti nella sventura ... più angelici nella loro devozione di quanto non ce li mostri la commedia del mondo vero. Insomma, ciascuno, presso Balzac, anche la portinaia, ha del genio; e ciascuno è Balzac stesso. Poiché gli esseri del mondo esteriore gli si presentavano all’occhio spirituale con un rilievo possente e una smorfia che lo affascinava, ha rese convulse le figure, ne ha oscurate le ombre, ha dato maggior rilievo alle luci. Il suo gusto prodigioso dei particolari, che proviene da una immoderata ambizione di vedere e far vedere e di indovinare e di far indovinare ogni cosa, lo costringeva d’altronde a segnare con maggiore intensità le linee principali, onde salvare la prospettiva dell’insieme. Da queste stupefacenti doti della sua natura sono provenuti risultati mirabili; ma in queste doti vien generalmente veduto il vizio e il difetto di Balzac. Per dir meglio, son per l’appunto queste le sue qualità. Chi può gloriarsi di esser dotato così felicemente e di poter applicare un metodo che gli permetta di rivestire sicuramente di oro e di porpora ciò che è soltanto triviale? Chi è capace di t anto? E chi non lo sa fare, per dire il vero, non fa gran cosa».

  L’esprimere la poesia della vita attuale, apparentemente triviale, l’attenersi a una sorta di realismo, ma approfondito così da andare oltre le apparenze, il testimoniare artisticamente quello che Baudelaire diceva «l’eroismo della vita moderna», il dimostrare la grandezza dell’uomo d’oggi, nei vizi e nelle virtù, e la intensità delle passioni di una società contemporanea e i toni e i colori e la sensibilità dell’epoca, non soltanto in quanto se ne fa parte, ma in quanto se ne ha preso coscienza, il raggiungere mediante le espressioni della vita contingente la sensazione dello immutabile propria della bellezza, tutto ciò Balzac assunse quale suo compito; e tutto ciò è il compito dell’artista moderno. Il procedimento realistico, lo studio dei costumi, la disciplina degli ambienti e delle figure, la precisione minuziosa dei tratti, tutto ciò serve a Balzac per rinserrare il fantastico nel reale ed è il modo per raggiungere il regno della pura fantasia, un’atmosfera rarefatta al di sopra e al di là del reale. Così ad esempio, nella Fille aux yeux d’or, per esaminare uno dei migliori racconti, la narrazione mira e tende all’attimo in cui fratello e sorella, sino allora ignoti l’uno all’altra, si riconoscono per la loro somiglianza fisica. Ella è coperta del sangue di un delitto compiuto e che il fratello si apprestava a compiere, ugualmente per amore della stessa persona. L’uno domanda e l’altra spiega come siale possibile rimanere impunita e dice ad un tempo la conclusione e la catastrofe della sua vita. Fratello e sorella si riconoscono anche spiritualmente nella violenza e nell’orrore delle loro passioni, e come a sigillare il riconoscimento della fraternità spirituale, si baciano. Nella pagina ove all’orgoglioso dandy, tranquillamente capace di ogni delitto per orgoglio e per amore di potenza, ad Henry de Marsay, fa riscontro la figura tragica di passione e di sangue della sorella omicida, che solo in quell’attimo appare nel racconto e lo illumina e lo spiega, Balzac raggiunge il regno della fantasia assoluta.

  Invero, per la visione fantastica e trasfiguratrice, per lo sguardo rivolto al sotterraneo tumultuare di istinti dell’animo umano, per il coraggio del dire la violenza di vizi innaturali e di passioni mostruose e di fare di Parigi l’immagine poetica della città moderna, ove i vizi e le colpe e le miserie umane sono chiuse nel cerchio della città come nei gironi infernali, per il sentimento della tragicità della vita contemporanea e dell’arida bellezza dei paesaggi cittadini, Balzac appare a noi come un maestro, e da lui si ispira la poesia moderna. Anche il mito di Parigi, il mito che ebbe vita durevole per un secolo e che si trasformò quindi nel mito della grande città moderna, e come tale vive tuttora, uno fra i temi ispiratori del romanzo contemporaneo, trovò in Balzac la espressione prima e maggiore. La tradizione del romanzo francese e la evoluzione del romanzo europeo si richiamano necessariamente, sotto questo aspetto, a Balzac; e soltanto l’immagine della Londra di Dickens o la raffigurazione di Pietroburgo secondo Dostoiewski possono esser ricordate e avvicinate alle immagini che Balzac dà di Parigi. In ciascuno di questi grandissimi romanzieri la città assurge a immagine e fantasia mitica ed è uno dei fondamentali temi della loro arte.

  Per alcuni aspetti Balzac sembra essere l’erede e il continuatore dell’enciclopedismo settecentesco e ne partecipa l’acuta indagine dei fatti sociali e la varietà della cultura, assai più vasta che non profonda. E occorre osservare che perciò il tentativo già più volte fatto dai critici, e ad esempio da Ernst Robert Curtius nella sua opera monumentale su Balzac, di ricostruirne il mondo ideale e culturale e di spiegare in tal guisa il suo mondo romanzesco, non approdava insomma a risultati utili per la precisazione dei valori estetici dell’opera di Balzac; poiché questi, forse per il primo nell’Ottocento, dava l’esempio di una cultura e di una formazione tutta di attualità e non teoretica, ma che soltanto intende a chiarire le vicende cui si assiste. La mente di Balzac era insomma poco atta a speculazione filosofica: e invece disposta ad un pensiero, che potremmo dire funzionale, relativo alle circostanze e alle vicende, che la fantasia gli proponeva nel costruire il suo mondo romanzesco; il che gli permetteva una continua concretezza del pensiero, legato alla realtà del suo mondo fantastico e non da esso astratto. «Il pittore deve meditare soltanto con il pennello in mano» dice Porbus nel Capolavoro sconosciuto; e l’affermazione è valida per Balzac stesso. Perciò ogni sua idea o teoria, ogni «schema didascalico», per adottare l’espressione crociana, non è affatto la via onde pervenire a immaginare una vicenda, che dell’idea e della teoria dia dimostrazione, ma piuttosto la vicenda sorge nella fantasia del romanziere come un primo dato, pura intuizione, ed ogni idea e teoria o schema ne proviene come un modo di meglio illuminare o spiegare la vicenda romanzesca. Le teorie, le idee sociali, gli schemi valgono in funzione della fantasia romanzesca, non per se stessi; e Balzac, che non è atto a costruire filosofemi, sa però trarre un insieme di idee dalla visione fantastica: le idee sono soltanto un riflettersi della visione nel suo pensiero. Tale è infatti il modo di pensare proprio del romanziere, per il quale ogni pensiero è incarnato in figure e in immagini, e solo in tal guisa ha consistenza, non per se stesso; sicché arbitrario è ogni tentativo di dedurre il pensiero del romanziere dalle idee che i suoi, personaggi esprimono od anche dalle considerazioni sulle vicende narriate, poiché quelle considerazioni valgono per quelle vicende, sono da riferirsi ad esse, e se hanno valore generale ciò avviene solo perché le vicende del romanzo assurgono a definire situazioni e tipi costanti e universalmente valevoli. Il romanziere ne diviene allora, non di proposito ma per intima esigenza artistica, sociologo, storico e moralista. Così in alcuni racconti Balzac riprende la teoria della cristallizzazione di Stendhal, onde spiegare il sorgere dell’amore in un’anima, o traccia una storia dei costumi, per spiegare il mutare e il trasformarsi, dall’un secolo all’altro del sentire e degli atteggiamenti e del contegno della signora, o può enunciare una estetica della pittura, perché ne divenga comprensibile ed evidente anelito dell’artista verso la perfezione, o negli Impiegati, ad esempio, dare un piano perfettamente valevole di riforma della burocrazia, per descrivere quell’ambiente, mentre un grande piano di riforme sociali serve soltanto a delineare il carattere del Medico di campagna. Chi voglia pervenire a intendere l’animo di Balzac non deve però soffermarsi alle varie idee espresse dai personaggi e neppure attenersi solo alle considerazioni dell’autore sullo svolgersi delle vicende, ma oltre di esse pervenire al punto verso di cui tutte le idee contraddittorie convergono, nell’unico fuoco e nell’impulso originario, donde un mondo si è formato e ha preso vita.

  Veramente la Comédie humaine è un mondo, una società intiera, creata e rappresentata nella varietà, delle persone e dei ceti e dei rapporti fra le persone e i ceti; e Balzac definisce ciascuno di questi rapporti sociali o politici o mondani, e configura le leggi secondo cui quel mondo, ch’egli stesso ha creato, si muove e si trasforma. Il suo pensiero e non soltanto la sua fantasia è in funzione di quel mondo di immagini e di visioni, non può esserne distolto, e se distaccato dal mondo fantastico donde sorge e cui si rivolge, il pensiero di Balzac non ha per sé una intiera consistenza; quel pensiero, le idee, le teorie hanno vita e rilievo nell’ambito del mondo fantastico. E se or è un decennio si parlò assai di «romanzo puro», di un romanzo donde siano esclusi tutti gli elementi non di pura fantasia, poetica, cioè le riflessioni le idee le teorie, occorre dire che il romanzo di Balzac non corrisponde affatto a tale concetto; e però è anche necessario rilevare che quell’idea del romanzo, ch’era fra le suggestioni e i propositi di André Gide, non si avvera in nessuno dei grandi romanzieri, siano Balzac o Dickens, Tolstoi o Dostoiewski o Marcel Proust. Il romanzo è contesto anche di una quantità di elementi che non sono di pura fantasia, ma di riflessione o di storia e insomma può comprendere ogni specie di saggistica, ma importa, però sempre e soltanto che la fondamentale intuizione poetica sia sufficiente a coinvolgere in un ritmo unitario ogni altro elemento; e codesto ritmo unitario è l’unica legge del romanzo. Nel racconto il ritmo è più serrato e rigoroso; e però nel romanzo il ritmo deve consistere ugualmente secondo una traiettoria per sé coerente dall’inizio al termine della vicenda narrata, per quanto diffusa e distesa sia la narrazione e molteplici siano le disgressioni o le considerazioni esplicative.

  Nella coerenza del ritmo unitario vediamo la legge propria del romanzo; e se dobbiamo segnare il limite dell’arte di Balzac, non dobbiamo richiamarci alle sue idee sibbene alla possibilità di conservare ed esplicare quella unità ritmica nel complesso dell’opera. I difetti allora se ne rilevano facilmente, e il limite che distingue Balzac dai grandissimi e che non permette di avvicinare il suo nome a quello di un Tolstoi e tanto meno di uno Shakespeare e pone un distacco fra il Balzac e ad esempio il Manzoni, questo limite consiste nell’incapacità di sovrastare costantemente alla propria opera e di attenersi ad una misura, che è la essenza della classicità. Dalle sue opere egli sembra di frequente travolto, soggiacendovi, né riesce a conservare sino al termine di una narrazione il ritmo enunciato: egli si disperde, si smarrisce, le figure che già avevano vita si irrigidiscono in maschere, lo stile si fa incerto, le digressioni non sono più coerenti alla ispirazione fondamentale. Sono questi i difetti essenziali dell’arte di Balzac, nei quali di frequente incorre, e che tuttavia non bastano a diminuirne la grandezza e l’importanza nella storia delle lettere; poiché invero egli è il fondatore del romanzo moderno.

  Nello studio che dedicava alla memoria di Balzac, subito dopo la morte del romanziere, Sainte-Beuve diceva che se gli scrittori dell’epoca classica scrivevano con il loro pensiero e con «l’essenza del loro essere» e insomma secondo un pieno dominio della loro opera, invece nella nuova epoca letteraria a lui contemporanea l’intiera persona dello scrittore si impegnava ormai e si dimostrava nell’opera. Lo scrittore, costretto dalle circostanze sociali e pratiche a dare di sé tutto quanto gli è possibile e ad un continuo produrre, non scrive più soltanto «con il suo puro pensiero, ma con il suo sangue e i suoi muscoli», il che non è per Sainte-Beuve una qualità positiva Il concorrere all’opera d’arte di elementi non ancora purificati sminuisce la purezza di un’opera d’arte; e perciò possiamo dire che la Comédie humaine di Balzac non è esteticamente pura, e cioè non è in tutte le sue parti opera artistica.

  In un’opera immensa come quella di Balzac non è però tanto da considerarsi la imperfezione di alcune parti, piuttosto il consistere dell’insieme; e se vogliamo coglierne l’ispirazione complessiva ci è d’uopo intendere come l’opera, per quanto ampia e diversa, si richiami a un nucleo centrale, donde si forma. Un sedimento della unità del tutto, della corrispondenza e delle analogie e della forza unica e diffusa, che si esprime in apparenze divergenti e opposte, adduceva Balzac a ricercare, mediante la dipintura di un carattere o di un episodio, il manifestarsi di una forza cosmica ed anche di potenze magiche. Un impulso religioso, in lui vivo sino dalla fanciullezza, ma non contento della religione tradizionale, lo traeva ad un esoterismo mistico. E se costantemente esaltava il cattolicesimo, anche per l’importanza politica della religione, in quelli ch’egli denominò Studi filosofici e che comprendono alcuni dei suoi maggiori romanzi, si ispirava dal magismo e da correnti esoteriche, delle quali parla esplicitamente nella prefazione al Libro mistico. Nelle opere postume diceva inoltre: «Sono della religione di San Giovanni, della chiesa mistica, la sola che abbia conservata la vera dottrina». Secondo Balzac, che qui ripeteva concetti della teosofia settecentesca, la tradizione di codesto esoterismo mistico risale ad una antichità precedente ai Vangeli ed alla Bibbia, e le ultime espressioni ne sono le opere di Böhme e dello Swedenborgh (sic). Ed egli scriveva all’amica straniera, la contessa Hanska, il 31 maggio 1837: «Lo swedenborghismo, che è una ripetizione, in senso cristiano, di antiche idee, è la mia religione, con l’aggiunta, che io vi faccio, della incomprensibilità di Dio». Dal punto di vista della storia letteraria, come giustamente E. R. Curtius osserva, tutta la mistica, eterodossa del XVII e del XVIII secolo, impregnata di dottrine magiche e alchimistiche, sbocca con il Libro mistico nella letteratura francese del XIX secolo e quindi nella letteratura universale. E quelle correnti mistiche e magiche ebbero notevolissimo influsso sul romanticismo europeo, tedesco, inglese e francese e concorsero a formare la poesia moderna e contemporanea.

  Per Balzac quella forza cosmica, che si diffondeva nel mondo, si raccoglieva nella sua stessa anima e diveniva creatrice di un mondo per sé consistente, il mondo della sua fantasia, che si esplicava e dimostrava nell’immensa opera, intrecciata così da formare una unità, nella Comédie humaine. I caratteri, i tipi, le persone della Comédie humaine sono varie espressioni di quella forza cosmica, sono irradiazioni diverse dell’unica potenza creatrice insita nell’anima del creatore; e perciò è nel vero il Thibaudet, quando afferma che il senso della paternità è l’impulso fondamentale e il sentimento donde origina l’ispirazione nell’animo di Balzac. E il sentimento della paternità, che trovava una espressione positiva nel Père Goriot e una espressione mostruosa nella figura di Vautrin e nella sua torbida amicizia per Lucien de Rubempré, era anche l’impulso che adduceva Balzac alla creazione delle mille figure e dei tipi della Comédie humaine, che hanno sempre in sé, secondo l’osservazione di Baudelaire, l’intensità di passione e di sentire del loro stesso creatore. La logica di questa passione traeva ogni figura e ogni carattere sino alla suprema dimostrazione di sé, sino a quella allucinata violenza di espressione, per cui una figura diveniva finalmente l’evidente rappresentazione di un vizio o di una virtù, il tipo e il carattere, che per noi incarna quel vizio o quella virtù. Basterebbe a questo proposito il ricordare il tipo dell’avaro, incarnato nel padre di Eugénie Grandet o il tipo del lussurioso, il barone Hulot di La cousine Bette; e una moltitudine di caratteri raggiungono una uguale evidenza rappresentativa. Si può dire che Balene non accettò i tipi e i caratteri formati e definiti dalla commedia menandrea, ma foggiò come Molière, caratteri, che per sé vivi pervenivano a raggiungere l’evidenza rappresentatrice di un tipo; e cioè egli creava nuovamente la «commedia».

  I romanzi ed i racconti di Balzac, le opere singole, vanno considerate e intese nell’insieme dell’opera complessiva della Comédie humaine, e la ricorrenza delle varie figure in diversi romanzi assume allora la sua significazione, che è di temi, che di nuovo ritornano in vari svolgimenti. Non sarebbe inesatto il ricordare perciò i temi wagneriani e il ricorrere degli stessi temi nella tetralogia. La Comédie humaine è infatti nella sua complessità una epopea, che narra la fine dell’aristocrazia dell’antico regime e l’ascensione della borghesia sino al suo trionfo, durante il regno di Luigi Filippo. Perciò quattro diverse élites sociali si presentavano a Balzac ed egli se ne fece descrittore: la vecchia aristocrazia, i soldati e i marescialli dell’epopea napoleonica, la nobiltà della Restaurazione, la borghesia orleanista. Nel mondo che egli descrive queste élites sociali si avvicinano, si intrecciano, ognuna con le sue caratteristiche particolari; e se l’individuo è definito nella sua realtà singola, però ogni individuo assume caratteri tipici a seconda della diversa élite di cui fa parte e della formazione e dello svolgimento della sua vita sociale. Quindi le figure divengono rappresentative di una élite e del suo fiorire; quindi le figurazioni gloriose dei marescialli dell’impero, grandeggianti di fronte alla rattrappita nobiltà della Restaurazione o alla volgarità trionfante della borghesia orleanista; quindi le immagini delle dame del tempo della Restaurazione, allorché la vita si raccoglie tutta nell’intimità dell’anima, vietata ormai l’energia dell’azione. La giovinezza disoccupata, che non può dedicarsi più alle imprese gloriose di guerra, rivolge quegli stessi metodi e quelle audacie al vivere civile, e i dandies della Restaurazione si propongono come scopo della loro vita il raggiungere potenza e onore e ricchezza e gloria nell’ambito di una società legata a pregiudizi di classe e di rango nobiliare.

  Le varie figure di dandies e di giovani ambiziosi, de Marsay, il maggiore di essi per la fredda audacia dei propositi, per la ricchezza delle doti, per l’aristocrazia del sentire, Rastignac, l’arrivista, che vede il suo trionfo nel diventare un grande borghese, Maxime de Trailles e La Palferine, che sono propriamente avventurieri, tutti costoro sono varie raffigurazioni ai quella giovinezza, che nell’impero napoleonico aveva trovata la via aperta a tutte le ambizioni e a tutti i successi, ed era inceppata, ora, dalla meschinità di sentire della società nobiliare della Restaurazione. Costoro sarebbero stati marescialli e duchi dell’impero o grandi fornitori dei viveri all’Armata, se nati una generazione prima; e quando non più il valore e l’audacia militare e invece l’intrigo apriva la via del successo, e non più l’imperatore ma le dolci mani delle dame distribuivano ricompense e titoli e onori, durante la Restaurazione quei giovani ambiziosi si dedicavano appunto all’intrigo, che diviene il loro metodo di lotta contro la società e per trionfarne, facendone parte, e per dominarla. Stendhal raffigurerà in Julien Sorel il contrasto fra quella società e l’individuo; ma il romanzo dello Stendhal mira a precisare situazioni, che direi puramente musicali e oltre le contingenze, metafisiche, similmente a quelle create dal romanzo di Dostoiewski. Invece Balzac si attiene sempre alle contingenze della propria epoca, non se ne distacca, e nel suo amore per la concretezza traduce ogni valore, anche la fede religiosa, in influenze e azioni e reazioni contingenti, e insomma socialmente. Non l’individuo è protagonista, per lui, ma la società stessa, nella sua sconfinata varietà di tipi, di caratteri e di vicende. Balzac conobbe i vari aspetti discordanti di una società in continuo tramutamento, e ne fu il poeta; e dall’intimo del proprio animo egli non diede una riproduzione dal vero della società francese nella prima metà del secolo XIX, ma la figurazione costante della società in periodi di turbamento e della fine di un’epoca e dell’iniziarsi di un’epoca nuova. E perciò le persone, i caratteri, i tipi, le individualità che egli creava, per quanto di un’epoca determinata, valgono al di là dell’epoca loro propria e vivono della vita non transeunte dell’opera d’arte.

  Il modo del narrare di Balzac è volutamente lento all’inizio, e il romanziere insiste nel dare una molteplicità di particolari; quindi l’intreccio si forma per una necessità non esteriore, costituendosi di quegli stessi elementi che ci furono esplicati uno ad uno; e l'intreccio si svolge più rapido, sino a raggiungere, in una sosta suprema, una specie di distacco dei personaggi dalle loro stesse vicende, ch’essi contemplano e cercano d’intendere; ed infine la vicenda volge quasi precipitosamente alla catastrofe. Sia nel racconto breve o nel romanzo l’unità del ritmo è conservata, almeno nelle opere più valevoli, e il ritmo si amplia e si distende, al culmine della vicenda, quindi si raddensa e si accelera verso la conclusione. Le curé du village, Le lys dans la vallée, Le père Goriot, Le médecin de campagne, sono esempi perfetti di questo procedere della narrazione. Ma per quanta sia la ricchezza dei particolari esteriori, l’intima essenza dei caratteri e delle vicende non è esplicata e piuttosto permane ricca di interpretazioni e di un mistero non esplorato neppure dall’autore e difficilmente penetrabile, nel quale nondimeno è la vera vita dell’opera d’arte. Si ricordi ad esempio Le curé du village, ove il compiersi di un assassinio, il pentimento e l’espiazione sono la vicenda sotterranea, e sino all’ultimo si può rimanere dubbiosi circa la interpretazione. Si ripensi ancora al martirio del Père Goriot e al pullulare di figure attorno a lui; sicché sembra che il mondo rappresentato dal romanzo, quel mondo empio e colpevole, abbia le sue basi nel rinnegamento della paternità e sia perciò ineluttabilmente destinato alla rovina, già nel tempo della sua maggiore efflorescenza. Il mito della paternità, venerata o sconsacrata o derisa, augusta nella passione e nella sofferenza, legge superiore e non disconoscibile pur nella colpa, informa tutto il mondo di Balzac; e alle figlie di Goriot fa contrasto Eugénie Grandet nel sacrificio della sua giovinezza al padre. La incomprensibilità di Dio, ch’era per Balzac, un principio religioso, è la legge di questo mondo artistico, e ne forma l’alone di mistero; e perciò i romanzi di Balzac non si possono riassumere o narrare, se in quell’alone di mistero è la loro verità artistica. L’evidenza delle immagini dà soltanto il modo e la via per riuscire a intuire il mistero, che si dimostra infine in un carattere e che adombra una vicenda. Le esplicazioni varie, che Balzac dà di una vicenda o di un carattere, valgono ad aiutare il lettore a raggiungere lo sguardo distaccato, sereno, che l’autore rivolge al mondo incandescente creato dall’intensità della sua visione. E si può assumere a criterio di giudizio delle varie opere di Balzac per l’appunto lo sguardo, che s’intuisce, dell’autore stesso alla sua opera; e quando essa sia riuscita perfetta, uno sguardo sembra affiggervisi e contemplarla di distacco sereno, che implica un giudizio non illuso delle vicende e dei caratteri.

  Nei racconti, per la concisione rappresentativa, si raggiunge una maggiore evidenza e una maggiora intensità di effetti. Di frequente la distinzione fra il racconto e il romanzo è meglio precisata da Balzac con il proporre l’immagine del narratore, come avviene pressoché sempre. Ma sarebbe un errore l’attribuire la narrazione allo stesso Balzac, che delega piuttosto la narrazione ad un suo personaggio. Il più spesso questo narratore è il dottor Blanchon (sic), l’osservatore della società, della quale egli è partecipe per la sua funzione di medico e dalla quale nondimeno sembra lontano e distaccato, scienziato piuttosto che uomo di società. Egli narra e dà rilievo a sottili vicende psicologiche, e quando interviene in una conversazione è a volte per concluderla con un giudizio appena accennato o addirittura implicito nel suo dire. La narrazione presuppone gli ascoltatori, e questi vengono descritti, e il racconto non è diretto, ma riferito ad altri da chi lo udì, quasi riportato di bocca in bocca, e a volte riportato assieme a congetture e a considerazioni divergenti, diversamente narrato varie volte, di guisa che la verità di un racconto è relativa soltanto a chi lo narra. Ma questa complessità tende a dar rilievo alla necessità che è in opera in una vicenda, al predominarvi di potenze oscure, leggi fatali, che si manifestano nella crisi di una individualità o nella catastrofe di una vicenda Al termine del racconto esso ci appare necessario nella sua concatenazione, eppure non tutto esplicato; e se ne esala per noi un sentimento di misteriosità dell’agire e delle vicende umane; che è il raggiungimento proprio dell’arte di Balzac.

  A volte la conclusione di una vicenda sembra in contraddizione apparente con il contesto di un romanzo o di un racconto e suscita una sorpresa, che è soltanto il modo di un approfondirsi dello sguardo nell’intimo delle psicologie. L’uccidersi del protagonista alla fine del racconto La femme abandonnée, l’aspetto demoniaco assunto dal protagonista di Une double famille sono rivelazioni improvvise della verità di quei caratteri. Alcune figure, come il Corentin di Une ténébreuse affaire, sembrano non essere penetrabili, opache, e questa impressione è raggiunta anche in caratteri per ogni loro aspetto facili a intendersi, come in varii dei personaggi di Les parents pauvres: l’intensa volgarità e brutalità del sentire e delle passioni crea una sorta di opacità impenetrabile. Ma in figurazioni pur raffinate e rese limpide dalla eleganza degli atteggiamenti, e citiamo De Marsay, o ricordiamo una tutt’altra immagine, Madame de Mortsauf nel Lys dans la vallée, d’improvviso si lascia adito a vedere profondità insospettate; e la selvaggia mostruosa violenza di De Marsay nella vendetta appare tanto misteriosa quanto la sofferenza di Madame de Mortsauf, la pura donna inebriata da una passione cui tuttavia non consente. Il mondo chiuso e definito dei rapporti sociali d’improvviso si dissolve, e sembra che le oscure potenze cosmiche, che lo informano e lo reggono, prorompano per un attimo, trascendendo la realtà delle persone, da quelle potenze dominate e assunte a tramite ed a strumento.

  L’arte di Balzac, che esprime una varietà quasi sconfinata di persone e di caratteri, non è definita perciò da uno stile unico e lo stile partecipa di quella sorta di opacità, se così possiamo dire, che è dei caratteri. Mentre Stendhal ha uno stile tutto di disegno e di limpidezza lineare, lo stile di Balzac è essenzialmente plastico e procede per ritocchi sovrapposti, e ciascuna pennellata aggiunge un elemento di vita, ma, non chiarisce, sibbene rende più complessa e misteriosa la vita di un carattere o di una vicenda umana. Lo stile ha l’opacità della linfa vitale che percorre questo mondo, ove la logica del romanziere non interviene per disporre le vicende e di rado per chiarirle; e il procedere della frase è spesso difficoltoso, quasi inceppato dal turgore di quella linfa. Balzac scrive «con il suo sangue e i suoi muscoli», Sainte-Beuve diceva; e ne origina uno stile il cui carattere fondamentale direi essere questa sorta di opacità e una violenza di tinte e di chiaroscuri: non disegno, ma colori, contrasti di ombre e luci; e in tal guisa lo stile raggiunge la sua potenza espressiva. Ogni figura esige uno stile diverso, un diverso muoversi della frase: ma la diversità si riassume nella unità di uno stile narrativo valevole come uno strumento, non mai scopo a se stesso, e che si dissolve nella rappresentazione. Questo modo dello stile definisce Balzac; poiché nella evidenza della visione e nell’alone che la circonda, quasi atmosfera, egli testimonia la sua potenza di artista. Perciò l’opera di Balzac non vale per noi soltanto come una rappresentazione della società francese fra la grande rivoluzione e la rivoluzione del 1848, che sarebbe opera di storico, non soltanto per aver raccolte in sé le voci e le idee di tutta una società e di un’epoca, ma come opera d’arte, al di là dell’epoca e del necessario mutare delle idee, e quale una monumentale espressione dell’arte del romanzo.

 

Nota bibliografica, pp. 251-258.

 

  Balzac nacque a Tours il 20 marzo (sic) 1799. Il padre, originario di una famiglia, di contadini, divenne segretario del Gran Consiglio con Luigi XV, fu segretario del ministro della marina e poi direttore ai viveri nell’armata del Nord, durante la Rivoluzione. A cinquant’anni, nel 1799, sposò una giovinetta diciottenne, Laura Sollambier (sic), figlia di uno dei suoi superiori; e lo stesso anno era nominato direttore della sussistenza della 22a divisione militare a Tours, ove si stabiliva e acquistava casa e terreni. Uomo di grande possanza fisica, visse sino a tardissima età, scrisse parecchi opuscoli su questioni sociali e di igiene ed ebbe una fortissima influenza sulla formazione del figlio. La mandre (sic) di Honoré invece, fredda, severa, tenne costantemente i figli in un distacco e in una estraneità di cui Honoré soffrì sino a lamentarsi della propria infanzia infelice. Tanto più il bimbo e il ragazzo amò Laure, la sorella minore, che fu la sua confidente durante l’intera vita.

  La vita di Balzac è dominata dal lavoro. Si dedicò alle lettere sin dall’adolescenza, rifiutò di divenire notaio, secondo il volere della famiglia, e scelse piuttosto una vita povera e sprovveduta a Parigi. Della giovinezza è il suo amore per la signora de Berny, che gli fu ispiratrice e confidente e certamente la donna che più concorse a formare il suo animo e la sua arte. L’immagine soave della signora di Mortsauf nel Lys dans la vallée ricorderà la viva figura dell’amata negli anni della giovinezza.

  Dapprima si dedicò a scrivere romanzi popolari, che non firmò, e che lo aiutavano a vivere; e ne scrisse sette. La speranza di arricchirsi lo indusse a occuparsi di affari, e si fece editore, poi ebbe una tipografia. Gli affari non ebbero buon esito, egli se ne dovette ritirare con un debito di novantamila franchi, somma allora assai notevole: aveva ventinove anni. D’allora ebbe inizio l’attività propriamente letteraria di Balzac: nel 1829 scrive Le dernier Chouan, che è il primo romanzo edito col suo nome. Con attività intensissima creò in un ventennio, sino alla morte, la sua immensa opera, la Comédie humaine, i Contes drôlatiques e innumeri studi e articoli di vario argomento. Nel 1829 usciva la Physiologie du Mariage, nel 1830 le Scènes de la vie privée; Balzac raggiunge subito il successo e la fama letteraria, e d’allora ad ogni trimestre pubblicò un nuovo libro. Fra il 1829 e il 1848 Balzac scriveva 91 tra romanzi e racconti riuniti nella Comédie humaine. Non vi sono vicende avventurose in questa vita essenzialmente di lavoro, se non la costante lotta con i creditori e la tensione continua per pagare i debiti che lo opprimono. Accolto nella società aristocratica, amico della duchessa di Castries, divenne uno dei dandies di Parigi, ebbe cavalli e carrozze, e il gusto con il quale ammobiliava la propria casa appare squisito nei ricordi dei contemporanei come nelle descrizioni ch’egli ne dava.

  Il lavoro enorme costringeva Balzac a un ritmo di vita particolare: usava risvegliarsi alle due di notte e lavorava sino alle cinque pomeridiane, senza sosta; si concedeva il riposo dalle cinque pomeridiane sino alle dieci di sera; alle dieci andava a dormire, per ricominciare il lavoro alle due del mattino. Le quindici ore di lavoro giornaliero divennero in alcuni periodi diciotto e persino ventun ore.

  Nel 1832 è da situarsi un episodio notevole della sua vita: una permanenza ai bagni di Aix con la signora di Castries, e di qui un viaggio in Svizzera e che doveva proseguire in Italia assieme alla signora amica e ai duchi di Fitz-James. Un malinteso, o forse il risentimento di Balzac contro la civetteria e ad un tempo la severità della signora, lo distolse dal proseguire il viaggio; e ritornò a Parigi, solo. Nel 1833 ebbe inizio la corrispondenza con l’étrangère, una signora che dapprima conservò l’incognito e poi si rivelò per la contessa Evelina Rzewuska Hanska, la dama polacca che gli fu amica e che, rimasta vedova, gli sarà moglie.

  Frattanto, nel 1834, si definiva anche il piano complessivo della Comédie humaine, immenso quadro della vita e del pensiero e del sentire di un’epoca, che rimase incompiuto, e che secondo Balzac avrebbe dovuto essere una specie di Milles (sic) et une Nuits de l’Occident. Un Essai sur les forces humaines doveva darne il coronamento filosofico, mentre i Cent Contes drôlatiques volevano essere un grande arabesco al basamento dell’opera.

  Nel 1835 cominciano i viaggi all’estero; e veramente Balzac percorse l’Europa intera, sino in Russia; l’Europa fu la sua casa, come la gloria ne fu europea durante la sua stessa vita. Più volte fu anche in Italia, ove ebbe molte buone amicizie. I viaggi ebbero per motivo, qualche volta, fantasiose speculazioni, che concludevano costantemente in un aumento di debiti: così l’idea di sfruttare le miniere della Sardegna e della Corsica, progetto che avrebbe richiesto forti capitali che Balzac non aveva; così il progetto di una coltivazione degli ananas in un terreno presso Parigi, ov’egli si era costruito una villa: “les Jardies”. La casa, disegnata da lui stesso e costruita a credito, aumentò il suo debito di oltre quarantacinquemila lire ed egli dovette rivenderla nel 1840. Nel 1840 Balzac tentò il teatro, con un dramma, Vautrin, tratto dal romanzo dello stesso nome; ma né questo né altri tentativi susseguenti ebbero buon esito.

  Dal 1840 la vita di Balzac fu una disperata lotta per superare le difficoltà finanziarie e riuscire a una situazione che gli permettesse degnamente il matrimonio con la signora Hanska; e furono gli anni di alcune fra le opere maggiori, e s’iniziò l’edizione nel 1842 delle opero complete. Nel 1848, candidato all’Accademia Francese, egli stesso si ritirò quando seppe che la sua situazione finanziaria compromessa rendeva difficile l’elezione. Fra il 1843 e il 1850 fu assai di sovente all’estero, raccogliendo anche opere d’arte, delle quali decorava la casa che stava preparando per sé e per la futura moglie; un palazzetto in quella che oggi a Parigi è la rue de Balzac. Nel 1847 raggiunse l’amica nelle sue terre in Polonia; nel 1848 a Parigi vide la rivoluzione, ma quell’anno stesso ritornò in Polonia. Colà nel marzo del 1850 sposava l’amica. Quando ormai poteva sperare di iniziare in Parigi una vita serena, Balzac si ammalava: l’enorme lavoro di un ventennio lo uccideva; ritornò dalla Polonia a Parigi nel maggio del 1850, in tempo per morirvi il 18 agosto.

 

  La Comédie humaine è divisa in tre parti: Studi di costume, Studi filosofici, Studi analitici; delle quali Balzac svolse più ampiamente la prima parte. Questa è a sua volta distinta in Scene della vita privata, Scene della vita di provincia, Scene della vita politica, Scene della vita militare, Scene della vita di campagna. In tal guisa la Comédie humaine doveva formare una specie di Summa e comprendere non soltanto ogni aspetto della esperienza, ma la riflessione e l’analisi anche teoretica, e sempre con un riferimento alla esperienza.

 

 

PRIMO STUDIO DI DONNA.

 

  Fa parte delle Scene della vita privata (sezione 1a).

  1), p. 7. Rastignac, uno dei personaggi più noti della Commedia umana, e il cui nome di continuo ritorna in varii romanzi, trova nel Père Goriot la sua epopea e se ne può seguire, nella Commedia umana, tutta la evoluzione sino all’apogeo nella vita politica. Qualche aspetto del suo carattere fu desunto da una figura storica, il Thiers; ed è la raffigurazione del giovane arrivista, di ingegno e che si fa strada anche mediante l’intrigo, ma senza rinunciare a una fondamentale gentilezza dell’animo e ad una onestà sociale; Lucien Chardon, alias de Rubempré rinuncia a questa onestà, è propriamente l’avventuriero. (Vedi, a questo proposito Illusione perdues; e Splendeurs, e Misères des Courtisanes.) In un altro romanzo La Maison Nucingen, si può vedere per quale via Rastignac ottenga la ricchezza, che Lucien ricercava con mezzi ancor più avventurosi e nell’atmosfera del delitto.

  2), p. 9. Orazio Blanchon (sic), il medico, è quegli che narra le vicende di cui nello Studio di donna, come pure di Un altro studio di donna: è dei personaggi più frequenti della Commedia umana e Balzac ne conobbe l’originale nella vita. Si sa che sul letto di morte il romanziere chiedeva che si chiamasse Blanchon, perché questi l’avrebbe guarito: la fantasia era divenuta per lui realtà, credeva al suo mondo fantastico come a un mondo più vero del reale.

  3), p. 10. Stendhal è citato più volte nella Commedia. Balzac ne conosceva il valore e fu il primo ad esaltare la Certosa di Parma come un capolavoro. Della teoria della “cristallizzazione” Stendhal parla in De l’amour.

  4), p. 13. La signora di Listomère è sorella del signor di Vandenesse, del quale si narra il grande amore per la signora di Mortsauf nel romanzo Le lys dans la vallée, uno dei maggiori capolavori del romanzo francese.

 

L’ABBANDONATA.

 

  Il titolo francese è: La femme abandonnée, e il racconto si trova negli Studi di costume, Scene della vita privata, sezione 2a. È dedicato alla duchessa di Abrantès, la memorialista del regime napoleonico, dalla viva voce della quale Balzac ebbe molte indicazioni e notizie storiche su quell’epoca; e la signora di Beauséant, è anche un ritratto, abbellito, della duchessa. Si veda, per le vicende della signora di Beauséant, i suoi amori e il suo abbandono: Mémoires de deux jeunes mariées.

  5), p. 20. Questi nomi, di invenzione di Balzac, formano la grande aristocrazia della Commedia umana, e l'autore ne traccia la storia, la genealogia, ne disegna le armi; e codesti nomi ricorrono di continuo in varii romanzi.

  6), p. 25. Il nome dei Beauséant trovammo già nello Studio di donna: Rastignac era parente dei signor di Beauséant (vedi anche Père Goriot.) Le notizie sull’uno o l’altro personaggio sono così sparse in più romanzi e racconti, e soltanto dall’insieme dell’opera risalta la definizione di un carattere. La Commedia umana è in verità un unico grande romanzo.

 

SECONDO STUDIO DI DONNA.

 

  Nell’ordinamento della Commedia queste pagine sono della terza sezione delle Scene della vita privata. Un altro studio di donna è la descrizione di una serata parigina e dà modo al romanziere di far incontrare molti personaggi della Commedia, ciascuno tratteggiato in modo coerente al suo carattere e alle sue vicende, altrove narrate. La comprensione dei singoli atteggiamenti e del conversare è possibile veramente soltanto a chi conosca l’opera intera e quindi possa constatare la coerenza rigorosa fra i personaggi e il loro modo di dialogare. Non si vuole in queste note dire le vicende di tutti questi personaggi, ma bensì accennare di alcuni di loro. Si veda d’altronde, a tal proposito; A. Cerfberr et J. Christophe: Répertoire de la Comédie humaine de H. de Balzac (Parigi, 1887) ed anche: E. Preston: Recherches sur la technique de Balzac (Parigi 1926), e ancora la prefazione alla edizione della Comédie humaine nella Biblioteca della Pléiade a cura di M. Bouteron.

  7), p. 68. Le obiezioni al meccanicismo della vita inglese sono frequenti in Balzac e in Stendhal e sono una eco del settecento, quando la Francia veramente determinava lo stile della vita europea.

  8), p. 68. De Marsay è una raffigurazione romantica del dandy diplomatico, quali furono, nella interpretazione della loro vita da parte dei romanzieri, Metternich, Talleyrand e Chateaubriand.

  9), p. 69. I mutamenti della psiche secondo le epoche storiche sono tra le ricerche perseguite da Balzac; il romanzo era per lui non soltanto storia dei costumi ma storia della psiche umana nella sua evoluzione sociale; la Commedia umana riassume perciò la descrizione oggettiva di una vastissima esperienza psicologica.

  10), p. 72. La baronessa di Nucingen, l’amica di Rastignac, una delle figlie di papà Goriot, moglie del banchiere, il quale fu l’equivalente, nel mondo romanzesco di Balzac, del barone James Rothschild nel mondo della storia ottocentesca, verrà in questo Un altro studio di donna giudicata mediante qualche accenno e ne sarà definita la situazione sociale, diversa secondo le prospettive di Rastignac o di De Marsay.

  11), p. 74. Il carattere di De Marsay, nella vecchiaia e divenuto uomo di Stato, può esser meglio compreso quando si ricordi il suo comportamento giovanile, quale descritto, ad esempio, in La jeune fille aux yeux d’or (sic); e si veda anche, per il carattere di De Marsay nella virilità: Le contrat de mariage.

  12), p. 75. Vedi: Les secrets de la princesse de Cadignan nella seziono 2a delle Scene dalla vita parigina.

  13), p. 78. La severità di questa concezione contraddice ogni esaltazione romantica della passione e nel rigore della moralità sociale di Balzac è da riconoscersi uno dei segni della sua grandezza di osservatore: all’inizio della società borghese e nel suo maggior fiorire egli presentiva già tutte le cause dello sfacimento. Si veda ad esempio come egli considera il problema della stampa e del giornalismo in Illusions perdues.

  La grande arte francese ottocentesca si ispira d’altronde a un profondo pessimismo circa la natura umana, in netta contraddizione con l’ottimismo di Rousseau.

  14), p. 85. De Vandenesse non è un dandy al modo di De Marsay e di Rastignac, ma piuttosto è il signore, lontanissimo dalla psicologia dell’avventuriero, del quale qualcosa vi è invece negli altri dandies di cui Balzac ci narra; ed ha qualche dispregio per l’eleganza esteriore.

  15), p. 85. La critica si rivolge al regime di Luigi Filippo; l’osservatore si preoccupava della continuità di una tradizione, che vedeva interrotta; e di fatto non vi fu poi nessuna possibilità di reazione contro la dittatura di Luigi Napoleone.

  16), p. 86. Se Balzac raffigurò un mito di se stesso, fu nel personaggio di D’Arthez; un asceta del pensiero e dell’arte.

  17), p. 95. Nel disintegrarsi del mondo sociale tradizionale e della fede religiosa, la nuova società borghese si atteneva alla morale, intesa però come legalità e ad essa equiparata e con questa confusa.

  Una cotale interpretazione della morale è per Balzac, come per tutti i maggiori dell’ottocento, occasione di continua ironia.

  18), p. 97. Camille Maupin ritratta George Sand: si veda: Béatrix.

  19), p. 97. Canalis riunisce in sé tratti di Lamartine e di Chateaubriand, la loro rettorica di grande stile, il loro gusto dell’intrigo. Si veda a suo proposito un romanzo contesto di allusioni continue ed anche di satira: Modeste Mignon.

  20), p. 97. Furono infatti i nemici più pericolosi di Napoleone, e forse fra i pochi nomini di cui fece alta stima come di competitori degni di lui: il tono dei rapporti fra Napoleone e Metternich, quale definito dalle Memorie di quest’ultimo, è a tal proposito assai meritevole di una indagine psicologica.

  21) Si inizia qui la seconda storia compresa in questo ciclo di Un altro studio di donna, che forma infatti una cornice nella quale sono riunti vari racconti, secondo esempi classici dell’arte del narrare. Il primo racconto fu dell’amore e della delusione di de Marsav; il secondo si potrebbe intitolare: L’amante del colonnello; il terzo, che sarà narrato da Blanchon, che è anche quegli che ci dice della serata parigina e del suo vario dialogare, può aver per titolo: La Grande Bertesca.

 

IL CAPOLAVORO SCONOSCIUTO.

 

  Il titolo francese è: Le chef d’oeuvre inconnu; e uno degli Studi filosofici, 1a sezione. Le idee sulla pittura che qui si esprimono Balzac assunse da Delacroix, del quale era amico, e si può vedere nel racconto il risultato delle sue conversazioni col grande pittore. Balzac tracciò un ritratto fantasioso di Delacroix in La rabouilleuse. Se Baudelaire nei suoi scritti di estetica precisa idee sulla pittura affini a quelle di Balzac, ciò è dovuto al fatto che anche egli si richiamava agli insegnamenti di Delacroix. Echi delle teorie di Balzac sulla pittura si possono riscontrati (sic) anche nella Education sentimentale di Flaubert. La condanna dell’astrazione teoretica, l’affermazione della esigenza di attenersi al lavoro artistico e di non permettere all’attività critica di estraniarsi dall’immediata necessità del lavoro esprimono però una persuasione che è fondamentale per Balzac e quasi il risultato della sua esperienza artistica. Si veda a questo proposito anche: La cousine Bette.

 

LA RECLUTA.

 

  E’ uno degli Studi filosofici, sezione 1a.

  22), p. 259. La citazione dal Louis Lambert, dello stesso Balzac, (Studi; filosofici, 2a) ricorda teorie magiche e di psicologia care al romanziere: il racconto narra un caso di telepatia.

 

UN DRAMMA SULLE RIVE DEL MARE.

 

  Gli Studi filosofici 1a, comprendono una serie di racconti fra i quali questo pure, e inoltre i seguenti: L’albergo rosso ed anche El Verdugo.

  23), p. 203 [El verdugo]. Un consimile giudizio circa il carattere tedesco sommamente pacifico, era allora comune ed era stato diffuso dalla signora di Staël nel suo libro De l’Allemagne. Dopo di allora le cose mutarono notevolmente.

  24), p. 209. Circa questo personaggio si veda: Père Goriot.

  25), p. 233. Il racconto non termina qui, Balzac vi aggiungeva un paio di pagine; il narratore riuniva alcuni amici e li pregava di decidere del suo caso di coscienza. Ma quelle ultime pagine, di aspra satira sociale, non hanno nulla a che fare con il racconto vero e proprio ed anche il tono ne è diverso.

 

EL VERDUGO.

 

  La densa esemplare brevità del racconto riesce anche ad accennare il dissidio nella interpretazione delle società secondo la Francia rivoluzionaria e borghese e secondo la tradizione spagnola aristocratica.

 

 

  Carola Prosperi, Una stella napoleonica. Gli ultimi trionfi, «Stampa Sera», Torino, Anno 78, Num. 119, 28-29 Agosto 1944, p. 2.

 

  Madama Récamier ora stata un’amica di famiglia prima che Napoleone l’esiliasse. Era stata la bellezza di quel tempo, ancora adesso serbava il suo ovale angelicamente puro, i suoi occhi soavi e quella divina armonia delle membra che incantava gli sguardi. Fu da lei che Laura [Laure d’Abrantès] un giorno vide un giovane piuttosto grosso e mal vestito, con le unghie trascurate e il viso sudaticcio, coi capelli ricciuti, gli occhi neri lucenti, le labbra frementi e carnose.

  Vedete quel tale? ... le dissero. È uno scrittore, dicono un futuro genio. Si chiama Onorato di Balzac.

  Lui le piantò gli occhi addosso, come se volesse succhiarle tutti i segreti dell’esistenza. Fremeva di eccitazione.

  — Una duchessa! Una vera duchessa ... Gli altri lo guardavano.

  — Sì, una duchessa. Che c’è di strano?

  — Oh ... Una stella napoleonica. Una che ha visto Napoleone bambino, fanciullo, che l’ha ricevuto in casa quand’era un semplice giovinotto, sconosciuto ai più, che l’ha visto occuparsi delle cose ordinarie della vita, lui, quel semidio! ... E poi l’ha visto salire, crescere, grandeggiare e coprire il mondo col suo nome! Oh, ella è per me come un beato che venisse a sedere semplicemente al mio fianco, dopo aver goduto la gloria dei cieli, vicino a Dio! ... Mai oserò avvicinarmi a lei.

  Gli dissero.

  Oh, è così buona, Laura, così alla mano.

  Laura aveva quarant’anni. Era ancora una donna seducente col suo colorito d’un pallore intenso, i grandi occhi neri, i capelli d’un nero corvino, la vivacità che non veniva ancora meno. Non aveva più il corpicino guizzante di una volta, quello che la faceva simile a un grazioso paggio quando in Spagna cavalcava come un uomo. Era alquanto ingrassata. Ma ciò non disdiceva. alla sua età e alla sua figura. Balzac aveva giusto quindici anni meno di lei e quando si entusiasmava e lasciava libero corso alla sua parola facile, scintillante, eloquente, ricca di immagini e di trovate, esercitava la seduzione del genio nascente. Ella gli chiese:

  — Avete un culto per l’Imperatore?

  — Oh, sì, mio Dio, sì ...

  — Venite da me. Parleremo di lui.

 

 

  Carola Prosperi, Una stella napoleonica. Le memorie della duchessa, «Stampa Sera», Torino, Anno 78, Num. 120, 29-30 Agosto 1944, p. 2.

 

  [...] Separazione da Maurizio e ritiro a vita più modesta all’inizio della quale incontra il giovane scrittore Onorato di Balzac.

 

XII

 

  — I fiori ... Sì, i fiori ci sono in abbondanza. Ora li accomodo nei vasi.

  I fiori costavano poco a Versailles, e lei, del resto, aveva una vera arte nel disporli.

  — Qualche biscotto per il tè? ... Adele, l’unica domestica della duchessa d’Abrantès, poco scrupolosa, poco accurata e brontolona, bofonchiò qualcosa che Laura non capì.

  — Sì, ci sono. Ma ... Oh, Adele, Adele, che disastro!

  — Ebbene, che c’è? ...

  — I cucchiaini! ... Non posso offrire un tè con questi cucchiaini che non sono d’argento! ...

  La donna si strinse nelle spalle ...

  — Beh, che ci posso fare io? L’argenteria è tutta ...

  Sì, lo sapeva, quella poca argenteria rimasta era tutta al Monte di Pietà e non era comodo in quel momento fare una corsa fin laggiù a Parigi per riprenderla.

  — Senti, Adele, se tu fossi buona andresti a farteli imprestare dai vicini.

  Adele mise il broncio.

  — L’altra volta che ci sono stata mi han trattata in un modo!

  — Eh, si sa, è gente da poco, grossolana ... Tuttavia bisogna che tu ci torni, abbi pazienza. Non si tratta che di un invitato, questa volta, tre cucchiaini basteranno.

  Qualcuno suonava alla porta.

  — Dio mio che sia già qui? ...

  Adele andò ad aprire, Laura la sentì parlamentare in anticamera con un uomo dalla voce aspra. —

  Sempre mi raccontate che la duchessa non c’è, non c’è. Credete che sia comodo arrivare da Parigi fin qui, per incassare una miserabile fattura vecchia come la barba di Matusalemme?

  — Ma la duchessa ...

  — Andate a farvi benedire voi e la vostra duchessa! ... Badate bene che se entro domani non ricevo il saldo ...

 

Un mondo fantasmagorico.

 

  La voce sgarbata finalmente tacque, evidentemente Adele era riuscita a cacciare l’uomo fuori di casa. Aveva un sacco di difetti quell’Adele, rubava a man salva, faceva un servizio da far pietà, ma non si stupiva di nulla, e per i creditori aveva una faccia di bronzo che valeva un tesoro.

  Dopo poco rientrò con i cucchiaini, chiesti ai signori della casa accanto.

  — Han brontolato molto? ...

  Adele alzò le spalle, con l’aria di dire: — Che importanza ha? ...

  Del resto, anche per Laura ciò non aveva la minima importanza.

  Qualcuno ora scendeva da una carrozza arrivata da Parigi. Questa volta era lui, Onorato di Balzac.

  — Venite, mio caro, venite.

  Sedevano nella saletta e mentre prendevano il tè si tuffarono in un’orgia di ricordi napoleonici. Man mano che il tempo passava — eravamo nel 1824 e Napoleone era morto nel ‘21, laggiù nella piccola isola di Sant’Elena — quei ricordi diventavano qualcosa di prezioso, di fantastico, di meraviglioso, di irresistibile. Coi grandi occhi aperti, la bocca semichiusa, il giovane scrittore vedeva lenirsi davanti a sè tutto quel mondo fantasmagorico di eroi da leggenda, di avventure incredibili, di donne splendide come sultane, quei re e quelle regine improvvisate, quelle vite da fiaba, dove ogni sogno poteva, da un momento all’altro, divenire realtà. Era possibile, era vero un Napoleone così umano, da essere stato tenuto in iscacco da questa donna quand’era fanciulla e poi sposa?

  — Raccontate, raccontate ...

  Laura raccontava.

  — Figuratevi che nei primi tempi del mio matrimonio, quando ero alla Malmaison e Junot mi veniva a trovare solo la domenica, una bella mattina mi sveglio e vedo il Primo Console in piedi accanto al mio letto. Ho creduto di sognare e mi fregavo gli occhi. Ma lui rideva. «Sono proprio io ...». Io guardavo fuor della finestra. L’alba era spuntata da poco, gli uccelli cantavano ancora con un po’ di esitazione. «Ma, deve essere prestissimo — dico io. — Nemmeno le 5!». Lui approvò col capo. «Ebbene, saranno le 5, che importa?». Sedette, si mise a fischiettare, trasse di tasca un enorme pacco di lettere che si mise a leggere una dopo l’altra. Faceva insomma lo spoglio della corrispondenza e intanto mormorava dei commenti, mi chiedeva dei consigli, cantarellava, perfettamente a suo agio mentre io morivo di angoscia al pensiero che Giuseppina così gelosa o Junot, un vero Otello, potessero sopravvenire per un caso maligno. L’indomani dico alla mia cameriera di chiudere la porta della mia camera, a chiave, ma Bonaparte entrò lo stesso, nè so come facesse. Canticchiò, zufolò, fece lo spoglio della corrispondenza chiacchierando, poi se ne andò dopo avermi pizzicato un piede attraverso la coperta. Ero giovane, avevo sedici anni ... La cosa mi spaventò. E tanto feci una sera che Junot venuto a trovarmi di nascosto si trattenne da me e l’indomani mattina Bonaparte ebbe la sorpresa, aprendo le cortine del mio letto, di trovarmi addormentata accanto a mio marito. Non vi so dire lo stupore di Junot! ... In quanto a lui, pochi giorni dopo, prendendomi da parte mi chiese: — Vi credete molto furba? ... — Oh, Dio, proprio tanto furba, no, ma un’imbecille nemmeno. — Una sciocca, sì, però ... — Aveva del risentimento contro di me ... Credo che non me l’abbia mai perdonato. Aveva ragione, avevo male interpretato una sua distrazione innocente. D’altra parte era veramente da biasimare? ...

 

Le visite di Balzac.

 

  Balzac ascoltava con gli occhi lucenti d’interesse. — Sentite, duchessa, perché non scrivete le vostre Memorie?

  — Oh, che dite mai?

  — Voi sapete certo scrivere, lo si capisce dal modo con cui raccontate. Scrivete invece di parlare. Voi avete una miniera di aneddoti, di storielle, di fatti, siete stata testimone di eventi importanti, fatali. Scriveteli, duchessa, avrete un grande successo. Potrete guadagnare molti denari.

  Laura alzò il capo.

  — Credete? ... —

  Ne sono certo! ... Io penso a tutto, lasciate fare a me. Vi trovo l’editore. Vi faccio il contratto ... Vi introduco nei giornali ...

  — Ma dovrete anche aiutarmi a cominciare ... —

  S’intende! ...

  Ora sedevano accanto. La duchessa scriveva. Introduzione. Oggigiorno, ciascuno pubblica delle memorie, tutto il mondo ha i suoi ricordi ...

  Balzac dietro di lei camminava nervosamente su e giù per la stanza, dettando. Poi si fregava le mani.

  — Avrete un successo folle, vedrete! ....

  — Non abbandonatemi a me stessa, però.

  — Non c’è pericolo.

  Ora Balzac veniva tutti i giorni. Il salotto era sempre pieno di fiori; i cucchiaini di argento erano chiesti in prestito tutti i giorni, i creditori, quando venivano, avevano un bel tempestare, ma non potevano passare la soglia del salotto. Adele diceva:

  — La signora duchessa lavora.

  Quelli restavano a bocca aperta.

  — Lavora? Ma fatemi il piacere ...

  — Proprio così. Scrive. —

  Ah, scrive? Ma lo scrivere è forse un lavoro? ...

  Comunque dovevano tornarsene a mani vuote e senza aver potuto nemmeno vuotare il sacco delle loro contumelie.

  Balzac, quando tornò a casa trovò un biglietto della signora di Berny che lo pregava di passare da lei. La signora di Berny era stata la fata benefica di Balzac, la protettrice, la sorella, l’amante. Egli le doveva tutto e quando le scriveva la chiamava la Dilecta. Ora ella mostrava un viso sofferente, scuro.

  — Quella donna, Onorato ... Quella duchessa ....

  — Ebbene? ...

  — Che farà di voi? ...

  — Ma nulla, cara, io l’aiuto a redigere le sue Memorie ... E’ una duchessa ed ha visto tutte le sue ricchezze sfumare. In fondo è un’opera buona la mia ...

  — Onorato, quella donna non tarderà a parlarvi d’amore ... Vi prego, non frequentatela più. Pensate a me ...

  Balzac interruppe le sue visite a Laura. Ora ella seguitava a scrivere da sola. Era quasi con una specie di stupore rapito che scopriva di poter benissimo fare a meno dell’aiuto di Balzac, tuttavia non le riusciva di rassegnarsi a quella solitudine. «Possibile che io vi faccia paura? ... — ella scriveva. — La cosa vi farebbe torto. La nostra amicizia era una cosa così bella ... Io l’avevo posta su di un piano superiore. Quanti progetti avevo fatto per voi! Primo quello d’introdurvi in un mondo che vi è necessario per esercitare le vostre meravigliose qualità di osservazione. Voi siete un genio, mio caro Balzac, ed i geni, come tutti, hanno bisogno di ispirarsi a modelli viventi. So io di marchese e di contesse che potreste raffigurare nei vostri romanzi dal vero ...».

  Balzac disse alla signora di Berny:

  — Infine, ella può essermi davvero utile, introducendomi nella società bonapartista e, anche, in quella della Restaurazione. Ha tale una quantità di relazioni!

 

Il manoscritto delle Memorie.

 

  La signora di Berny chinò il capo e Balzac tornò da Laura. Egli l’amava, ora, le scriveva lettere appassionate, quando non poteva vederla, e intanto il manoscritto delle Memorie si faceva sempre più voluminoso.

  Il primo volume fu pubblicato nel 1830, l’ultimo, il diciottesimo, vide la luce nel 1835. I volumi andavano a ruba, la critica si mostrava invece piuttosto severa. Ma l’editore disse: — Bisogna pensare a qualcos’altro. Non si può mica andare sempre avanti così ... Sapete scrivere romanzi?

  I guadagni delle Memorie erano tutti finiti, inghiottiti come non da uno, ma da dieci vampiri. Com’era possibile?

  — Sapete — ella disse a Balzac — in queste piccole mani sono passati, tesori inestimabili, ricchezze inaudite. Ma queste mani sono state come un crivello attraverso cui tutto è passato senza lasciare nulla ...

  Balzac capiva. Egli non aveva mai avuto ricchezze, ma il bisogno del denaro lo aveva sempre torturato.

  — Scrivere per guadagnare, ecco la mia vita. Ora era anche quella di Laura.

  Appena sveglia, ella chiamava Adele. La domestica apriva la finestra e le portava il necessario per scrivere. Accomodata nel letto, bevendo qualche tazza di caffè, ella scriveva, scriveva, scriveva. Le cartelle si ammucchiavano lì accanto. Poi nel pomeriggio aspettava Balzac. Ed egli non veniva. Ella scriveva qualche messaggio urgente, ed egli non veniva lo stesso. Ora aveva la scusa del mal di denti, ora quella di un lavoro urgente da finire. Versailles era così lontana da Parigi ...

  Aveva ragione. Bisognava lasciare Versailles.

  Ella abbandonò la casetta di Versailles e andò a installarsi a Parigi in via La Rochefoucauld, a un pianterreno. Era un piacere essere di nuovo in citta, uscire, rientrare cento volte al giorno, fare le visite, riceverne. Le accoglienze erano diverse. C’era chi la guardava con l'occhialino,

  — Ah, l’autrice delle famose Memorie!

  La consideravano come un fenomeno. C’era, chi le voltava le spalle, pieno di risentimento. Ma ella non ci badava, cercava Balzac che non si lasciava più vedere. Egli aveva conosciuto la sua famosa ammiratrice la contessa polacca Hanska, quella che era destinata a essere il suo grande amore, a diventare sua moglie. E non faceva altro che scrivere alla Straniera, come allora la chiamava. Gli appelli di Laura restavano quasi sempre inascoltati. Ma lei non si offendeva più. Una grande melanconia era adesso sotto la sua gaiezza forzata, una indulgenza tenera piena di rassegnazione. «Non vi faccio il broncio per non essere venuto a pranzo. Voi sapete che vi amo tanto lo stesso. Mio Dio, la vita è un singolare dramma alla Shakespeare: si ride, si piange e poi di nuovo il riso e poi di nuovo il pianto. Ma la mia amicizia per voi è quella che deve essere: un sentimento che ci lega inalterabile, tenero e profondo. E quando sento dire che non avete più alcuna amicizia per me, io dico che mentono tutti e che noi siamo attaccati l’uno all’altra da uno di quei legami d’anima che nulla riesce a spezzare ...».

 

Il dolce pungolo.

 

  A quell’ora, nella notte alta, Balzac, si svegliava, beveva alcune tazze di caffè e sedeva al tavolino a scrivere. Lo spronavano al lavoro il cruccio dei debiti perenni, conseguenze dei cattivi affari, e il suo amore per la Straniera, quel dolce pungolo per cui egli avrebbe voluto coprirsi di gloria. Ma qualcosa di Laura rimaneva accanto a lui e in lui come un ricordo tenace, un’eco fedele. Una delle sue creazioni più celebri, la marchesa di Beauséant del Papà Goriot, e della Donna abbandonata, quando erompeva nella tirata famosa a Rastignac: «Ah, se avete un sentimento vero, nascondetelo come un tesoro, non lasciatelo scoprire, sareste perduto. Voi non sareste più il carnefice, voi diventereste la vittima. Se mai amate nascondete bene il vostro segreto, ecc.», diceva con le parole stesse di Laura.

  Povera Laura! C’era una cosa poi che profondamente lo commoveva, ed era il pensiero che a quell’ora, anche lei, dopo che gli ospiti del suo salotto se n’erano andati e la domestica aveva chiuso la porta, accendeva le candele, e si metteva al duro lavoro. Incauta! ... Lui era stato il suo tentatore, adesso nessuno poteva salvarla più. A quell’ora, mentre tutti dormivano ella piegava sulle carte la testa doppiamente stanca, per il lavoro e per la certezza di essere sola ad affrontare le difficoltà che ancora le rimanevano da superare.

 

 

  Carola Prosperi, Una stella napoleonica. Il mestiere di letterata, «Stampa Sera», Torino, Anno 78, Num. 121, 30-31 Agosto 1944, p. 2.

 

Dumas come Balzac.

 

  — Domani, no, ho un impegno importantissimo, dopodomani, nemmeno ... Il giorno appresso, certamente.

  Ella pensò che egli calcolava di arrivare in tempo a mandarle un biglietto che disdiceva l’appuntamento. Come faceva Balzac, tal quale. Dopo averla saccheggiata di tutti i ricordi possibili, necessari alla loro narrazione, si eclissavano. [...].

 

Se scriveva, mangiava...

 

  Tempo addietro ella aveva voluto entrare in convento: — Voglio farmi suora!

  La madre aveva cercato di dissuaderla.

  — Ma perché prendere il velo? Sei sicura della tua vocazione?

  — Son sicura! —

  Potevi contrarre un buon matrimonio, essere felice ... — Io?!

  C’era un tal suono di sprezzo in quell’esclamazione che la madre aveva taciuto.

  Erano i tempi di Versailles, quando Balzac veniva da Parigi a trovarla, in una carrozza che correva a spron battuto e sedeva accanto a lei a scrivere i primi volumi delle Memorie ... Giuseppina non approvava quelle visite, non approvava nulla. Stava silenziosa ma certo anche lei condannava la madre sciupona, la madre leggera, la madre mondana. [...].

  Doveva scrivere. In casa non c’era denaro. L’indomani, se consegnava quella novella, avrebbe potuto essere subito pagata. C’eran dei debiti minuti che strillavan più di quelli grandi. Il conto del macellaio, del panettiere, del droghiere ... Il terribile di quel mestiere era per lei che doveva ricominciare sempre da capo. Aveva un bel sognare di fare una commedia che tenesse il cartellone per mesi e mesi, oppure di scrivere un romanzo di cui si stampassero migliaia e migliaia di esemplari. Questo avrebbe forse voluto dire la vecchiaia assicurata. Ma per lei questo non era possibile. Eran cose che accadevano a Chateaubriand, a Victor Hugo, che sarebbero certo accadute a Balzac e a Dumas ... Ai veri scrittori, non soltanto ai geni, a coloro che avevano la vocazione vera, il dono di natura ... Ma per lei non poteva essere così, ella conosceva bene i suoi limiti.

 

 

  [Marco] Ramperti, Incontri e letture, «Stampa Sera», Torino, Anno 78, Num. 117, 25-26 Agosto 1944, p. 2.

 

  Ho fatto, in libreria, una scoperta che non ha mancato d’immelanconirmi. Balzac, il grande Balzac, aveva la piccola vanità di far precedere, quando gli riusciva, il proprio nome onestamente plebeo di un «de» ridicolmente nobiliare! ... Nè bastò a salvarlo, quando glie lo rinfacciarono, un tratto di spirito. Essendogli detto, infatti, che in verità egli non aveva nulla a spartire coi Balzac d’Entragues. — Tant pis pour eux! — fu pronto a rispondere. E invece era peggio, tanto peggio per lui. Perché non si va ad accattare una aristocrazia del sangue, quando se ne possiede già una del pensiero.

 

 

  Dante Serra, Amori, grandezze e miserie di Balzac, Roma, Fratelli Palombi – Editori, 1944, pp. 209, 16 tavv.

 

  Struttura dell’opera:

 

  [Prefazione], pp. 11-13;

  I primi anni, pp. 15-41;

  I successi nell’arte e nell’amore, pp. 43-98;

  L’amore per la sua terra, pp. 99-108;

  Scorribande per l’Italia, pp. 109-150;

  Balzac aneddotico, pp. 151-167;

  Il gigante s’abbatte, pp. 169-191;

  Amore in maschera [L’Indice del volume riporta il titolo: L’ultimo romanzo di Balzac, pp. 193-206;

  Bibliografia, pp. 207-209.

 

  Riportiamo integralmente il testo della prefazione (pp. 11-13) e quello del capitolo riguardante i soggiorni del romanziere francese in Italia (pp. 109-150):

 

[Prefazione].

 

  La vita agitata di Honoré de Balzac conserva un eccezionale valore nella storia letteraria dell’800 francese.

  Dopo circa un secolo dalla morte di questo scrittore la sua possente personalità artistica vive e giganteggia come non mai.

  Pochi scrittori, di quell’epoca, hanno avuto tanta rinomanza e pochi hanno suscitato tante polemiche, tante discussioni e tanto interesse quanto Balzac.

  Ecco perché la sua prodigiosa attività di romanziere domina ancora la letteratura francese, per non dire europea.

  Per quasi trent’anni la febbre del lavoro gli accese la fantasia, lo soggiogò, mentre l’avversa fortuna lo incalzava non concedendogli tregua, costringendolo a logorarsi la salute e l’ingegno non tanto per il suo meraviglioso sogno di gloria quanto per tenere a bada i numerosi e fastidiosi creditori.

  A ventinove anni si trovò sul lastrico, abbandonato dalla famiglia e da tutti, carico di debiti, senz’altro mezzo per pagarli e per vivere che il lavoro della penna. Cominciò da quel momento la lotta prodigiosa che lo scrittore sostenne fieramente fino alla morte, lavorando giorno e notte, sorretto dalla fede nell’avvenire e da una forza di volontà quasi sovrumana.

  La servitù di questo novello Ercole, della penna era anche la sua divinità: compiute le dodici fatiche, ne escogitava una tredicesima per un sollazzo. E questo è il facile segreto — facile ad intendersi, arduo ad imitarsi — di tutti i grandi lavoratori tormentati. Essi hanno sempre saputo, come seppe Balzac, mettersi al lavoro per un triste bisogno, e continuare a lavorare con una superba gioia. Una sola emozione gli occupava il cervello; e se per un istante, quell’emozione era il disgusto della necessità, subito dopo soverchiava l’orgoglio della creazione. Ciascuno in verità cerca le catene che gli convengono: Alfieri si fa legare alla seggiola per scrivere tragedie. Balzac si dà mancipio ai creditori per comporre la Comédie Humaine. Ed è stolto andare indagando che cosa mai avrebbe scritto di perfetto Balzac se avesse avuto ordine e tranquillità nella sua vita. Non era nato per levigare la frase, o per intagliare o cesellare il periodo, o per comporre con euritmia: deplorare la mancanza dell’ordine lapidario di Flaubert nella prosa di Balzac è peggio che andare cercando le farfalle sotto l’arco di Tito. La sua scultura è di torsi, il suo disegno è di abbozzi: il ritmo frenetico detta stia vita economica e morale è anche quello della sua fantasia. Tra l’uomo e l’opera non v’è discordanza; e si direbbe una formula paradossale, nella quale è pure un granello di verità, che Balzac non scriveva frettolosamente i romanzi per pagare i troppi debiti, ma contraeva troppi debiti per poter scrivere frettolosamente i romanzi.

  Vita agitata, stravagante ed estenuante, ripetiamo, quella di Balzac. Temperamento moderno per aver gettato in pieno romanticismo il seme di quell’osservazione realistica che darà i suoi migliori frutti nei capolavori di Flaubert e di Verga; uomo dell’avvenire per non essersi adattato — come molti altri suoi illustri contemporanei — ad una concezione povera ed unilaterale della vita, egli scontò l’invidiabile colpa di possedere un temperamento così ricco e fecondo con una serie quasi ininterrotta di ansie e di angosce che avrebbero presto fiaccato una fibra meno energica e vigorosa della sua.

  Questo mio nuovo libro: Amori, Grandezze e Miserie di Balzac, non è un vero e proprio studio critico oppure un’arida biografia, bensì una vita episodica o per dir meglio romanzata del grande Francese.

  La sua massiccia personalità di scrittore ci appare, attraverso le pagine del mio volume, quale effettivamente essa era: gioviale, loquace, burlesca, generosa, umana e, oso dire, un poco spregiudicata.

  Per concludere: questa mia biografia ha un solo scopo: quello di far conoscere ai lettori la complessa ed autentica figura di Balzac attraverso la tumultuosa e pur breve sua esistenza che, pure seppe, dal ciclopico edificio costruito dalla sua inesauribile fantasia, far scaturire mille e mille personaggi, uno differente dall’altro, ma legati tutti da un’impronta inconfondibile e duratura.

 

Scorribande per l’Italia.

 

  Balzac fu, con Stendhal, e con l’errante Chateaubriand, uno dei più appassionati turisti del secolo XIX, percorse tutte le provincie della Francia, fece parecchie volte il viaggio da Parigi a Marsiglia, visitò l’Austria, la Germania, la Svizzera, la Polonia, la Russia e infine l’Italia, riportando da questo paese, più degli altri, una impressione profonda e inobliabile.

  Muoversi, viaggiare da una città all’altra, da una nazione all’altra gli piaceva, come gli piaceva raccogliere allori, veder gente nuova, contemplare monumenti storici, visitare chiese belle, frequentar salotti illustri, corteggiar dame straniere, incontrare fuggevoli avventure e allontanarsi, principalmente, dai creditori. E il grande Onorato — onoriamolo anche per questo — per i suoi spostamenti preferiva sempre l’Italia. Da noi è venuto e rivenuto ed era come se fosse di casa. Milano, Venezia, Torino, Roma, Genova e la Sardegna, mezza penisola l’ha coscienziosamente girata. Come Stendhal, per il quale essere in Italia, fra cose e genti italiane, e non vedere che queste, e non scrivere che di queste, era una passione indispensabile alla sua vita di scrittore e di uomo.

  Ma subito dopo Stendhal, nell’amore per l’Italia viene lui, Balzac. Solamente nel golfo di Napoli e con Graziella troviamo Lamartine, che a Firenze si fa aperta antipatia e provoca il famoso duello con Gabriele Pepe. Di tutta l’Italia Chateaubriand non vede che Roma, ma una sua Roma cimitero e museo tutta polvere e tombe, elegia di vecchie pietre intonate alla sua romantica malinconia. Per Balzac no: l’Italia tutta è viva, fascinosa, è luogo e protesta di vitalità.

  Nell’anno 1836 compiva appunto trentasette anni di età. Balzac visitò per la prima volta l’Italia. Veramente fin dal 1832, nel quale anno la famiglia del duca di Fitz-James (cui si era unita Madame de Castries, che al Balzac era particolarmente cara, e che – come si è detto – era una delle più belle aristocratiche dame di Parigi) doveva scendere e soggiornare in Italia per vari mesi. «Gli fu proposto — narra Giuseppe Gigli nel suo libro Balzac in Italia [1]— di unirsi alla compagnia, ed egli accettò con entusiasmo; l’itinerario comprendeva Genova, Napoli e Roma. L’annunzio alla madre, alla diletta sorella Laura e a qualche amico. Il 10 ottobre di quell’anno i viaggiatori partirono da Aix; ma, arrivati a Ginevra, il romanziere rinunziò bruscamente a proseguire il viaggio con la scusa di improvvisi e urgenti affari lo richiamavano a Parigi. Quale la vera ragione? Forse qualche contrasto con Madame de Castries? E’ da supporre che quest’ultimo probabile incidente lo decidesse al ritorno: infatti in una lettera alla madre, da Ginevra, dell’ottobre di quell’anno, scriveva tra l’altro: «... il est plus sage à moi de rentrer pour trois mois en France. Il m’est impossible, malgré, d’imprimer de loin Le Médecin de campagne, La Baitalle (sic), le second dizain des Contes Drolatiques et les Etudes de femmes, etc.». Egli, poi, nell’anno seguente scrivendo la Duchesse de Langeais, doveva vendicarsi del trattamento usatogli da Madame de Castries, creando un tipo di donna che aveva un carattere molto somigliante a quello di costei, leggero, artificiale e incostante».

  In Italia Balzac venne per trattare affari d’ipotetiche miniere — e per tale scopo si recò in Sardegna — per trafficare tra avvocati e notai, per trovar donne e per portarvene. Ed una ve ne portò, a Torino nel modo più romanzesco e più boccacesco, cioè travestita da uomo.

  Come portava avanti, nelle febbrili notti di composizione eccitate a furia di caffè, tre romanzi nel medesimo tempo, così accadde a Balzac d’averne nel medesimo tempo anche tre amori: laggiù in Polonia, nel nevoso castello, la straniera, Madame Hanska, a Parigi la contessa Guidoboni-Visconti, moglie inglese di un gran gentiluomo milanese, melomane a tal segno che, ricco com’era, andava per suonare a prender posto col suo violino nelle pubbliche orchestrine, anche, di terz’ordine; e venendo a Torino, Balzac si trascinò dietro un terzo amore; una bella signora bruna affascinante rispondente al nome di Carolina Marbouty, testa bizzarra, nipote e figlia di magistrati, moglie tediata d’un tedioso cancelliere-capo al tribunale di Limoges.

  Costei fu a Parigi, a periodi, per farvi vita brillante e conoscervi celebrità letterarie. Visto da vicino Saint- Beuve (sic), il grande critico goffo e presuntuoso, la delude. Non così Balzac. Il romanziere la riceve nel salotto del famoso divano bianco. Ha indosso la sua tonaca di lana «cachemire» bianca, foderata di amoerro candido, stretta al fianco da un cordone rosso. Bello non è; ma come parla, come s’infiamma, come trascina gl’interlocutori nel mondo ardente e chimerico della sua fantasia inesauribile! ... Sicché questa stravagante signora andata a trovare lo scrittore famoso per un’ora, essa rimase in casa di lui tre giorni e tre notti senza prendere sonno. Ma, trascorsi i tre giorni, Balzac deve partire per l’Italia. Lo mandano a Torino. E ve lo manda, per aiutarlo a sottrarsi ai creditori e per fargli guadagnare alcune migliaia di franchi, proprio la contessa Guidoboni- Visconti. C’è una complicata storia d’eredità: e di questa eredità il Guidoboni-Visconti reclama una parte Tra avvocati e notai la matassa è indiavolatamente imbrogliata; vada dunque Balzac, ingegnoso in tutto, a tentare di dipanarla. Ma per far questo bisogna lasciare Madame Marbouty e spegnere i fuochi appena accesi e con quale ardore! in quei tre giorni. D’improvviso Balzac ha un’idea: «Fa la tua valigia. Vieni a Torino anche tu...». La bella Carolina lo guarda con occhi stralunati: «Sei matto? Lo saprebbe mio marito ...». Zitto un istante, — cosa rara — Balzac ci pensa sopra un momento; poi, trovata la seconda idea, batte una mano sulla fronte ed esclama giubilante: «Il modo c’è. Staremo via dieci giorni. Lascia, ad un’amica fidata il compito di spedire da qui, da Parigi, le tue lettere al coniuge cancelliere ... E tu verrai con me, vestita da uomo ... Hai il profilo virile: dirò che sei un mio giovane amico, un romanziere in erba ... Ti va?». La signora Marbouty accetta senza indugio la bizzarra proposta dell’amico. E partono subito. Salendo in una diligenza, la signora ridotta ormai a un bel giovanotto non sa neppure quale nuovo nome portare. Balzac se la ride e se la gode, mentre la signora è alquanto impacciata: «Che nome ho? Non mi posso mica chiamare Carolina ...». «Giusto non ci avevo pensato al nome. Mio giovane amico, tu ti chiamerai Marcello ...». E partono così beati, Onorato e Marcello, per la frontiera italiana.

  Strada facendo, il romanziere ha una curiosità. Per Savoia, sopra Chambery, incontrano un convento famoso: quello della Grande Certosa. Balzac vuole visitarlo per la seconda volta. Ma quando i due amici improvvisati sono per varcare la soglia, il frate guardiano fa severa opposizione: «Voi sì, signore, potete entrare ... Ma l’altro viaggiatore non può: esso è una donna ...» — «Fratello, voi siete in errore ... Costui una donna? Se si chiama Marcello, mio giovane amico letterato ...». «Mi dispiace, insiste il buon frate con aria paterna, ma non entra. E’ senza dubbio una donna ... E le donne, come tutti sanno, nei conventi non possono entrare ...». Il portiere, per quanto Balzac infurii e minacci, gridi e strepiti, non cede. «Dov'è il Priore? — chiede Balzac in tutte le furie. — Vado a parlargli. Ci penserò io. Sono Honoré de Balzac, lo scrittore ...». E rivolgendosi a Madame Marboutv che resta fuori, le dice: «Tu, Marcello, passeggia attorno al laghetto. Ora chiarirò l’equivoco e ti farò chiamare». Balzac incontra il Priore che viene a dargli il benvenuto e gli fa visitare il convento. Poi Balzac, entrato nelle simpatie del monaco, gli racconta l’accaduto: «Sono vivamente contrariato ... Il vostro frate guardiano ... Uno stranissimo equivoco ... Il mio giovane amico Marcello, scrittore di vivo ingegno, ancora alle prime armi, scambiato per una donna ... Se voi poteste farlo salire ...». «Andiamo subito ad incontrarlo noi stessi. Vi farò, così, visitare anche orti e giardini ...». Ed escono all’aperto, alla ricerca di Marcello, Balzac, il Priore e i più ragguardevoli monaci che il Priore ha presentati al romanziere ... E per i viali che, separati dal ruscelletto che diventa lago con alti e fitti canneti, circondano le fresche acque il buon Priore cerca ansiosamente Marcello per offrirgli ospitalità. Senonchè d’improvviso laddove il canneto dirada. Marcello appare Ma non è Marcello. E’ Carolina: la bella e stravagante Carolina Marbouty, la quale nel gran caldo del meriggio di luglio, ha avuto una bellissima idea: prendere un bagno. Ed ora, davanti ai frati sbigottiti che cercavano Marcello, Eva nuda come Dio l’ha fatta vien su pudicamente, arrossendo anch’essa, per asciugarsi al sole.

  Questa diavoleria, come era facile prevedere, suscitò negli ambienti mondani ed artistici delle maggiori città d’Italia, scalpore, ilarità, sorpresa. Diavoleria salace di grosse e grosse risa; diavoleria arcigna e moralizzante, verde di sdegno e d’ira; e diavoleria magari un po’ satanica e morbosa di compiacenza e curiosità indiscrete.

  Credete che il romanziere per questa bizzarra avventura s’impermalisse e giudicasse un tiro birbone questa cornice di libertinaggio piccante, in cui lo si inquadrava innanzi agli italiani? No davvero! Piccolo, paffuto, rubicondo egli non pareva formato dalla natura alla apollinea missione di guidare al tempio di Gnido in agile danza una silfide francese in abito da paggio: se mai, c’era piuttosto stoffa per la ridda silvana del satiro aggravignato alla driade schiva! Balzac lasciava dire ai bisbigliatori moralizzanti. Erano dopo tutto, anche queste voci che correvano sul suo conto, una forma di reclame che, per essere sinceri, allo scrittore non dispiaceva punto.

  A Torino, nel migliore appartamento dell’albergo d’Europa in piazza Castello, la coppia Balzac-Marcello suscita subito curiosità ed attenzione. Il grande, scrittore è felice nel trascinarsi dietro Marcello: ognuno a Torino gli parla del suo famoso bastone dal pomo adorno di turchesi. Con Marcello egli si gonfia e fa il pavone: «Vedi, caro — caro e non cara, —. come sono celebre anche di qua dalle Alpi e senti come tutte queste signore italiane, beate di poter parlare in francese, mi chiamano Cher maître?». Ricevimenti in suo onore dappertutto, serate e teatro, ascensione a Soperga. con cavalli delle scuderie di Carlo Alberto; e, tra pranzo e pranzo in casa Sclopis di Salerano, in casa Cortanze, in casa Sanseverino, è un miracolo se Balzac trova tempo d’andare sino a Rivoli, nei bei giardini dell’avvocato Luigi Colla, per affidargli gl’interessi dei Guidoboni- Visconti. E dovunque, caro, cher, carissimo, — Marcello dietro in redingotte grigia e con un’aria fatale e romantica che fa innamorare tutte le donne. E tutte a chiedere a Balzac: «Sempre con voi, il giovane amico?». «Sempre con me, madama». «Vi ama?». «Mi ammira». «Scrive anche lui?». «Meglio di me». «Impossibile!». «Merci!».

  Ma una sera lo stranissimo Marcello, con le sue arie, dà ai nervi di Silvio Pellico, reduce dello Spielberg ed ospite dell’ambasciatrice di Francia, presso la quale l’autore delle Mie Prigioni esercita la funzione di bibliotecario. Pellico accortosi del travestimento del supposto Marcello dà immediatamente l’allarme, come il monaco della Certosa: «Costui è una donna!». Messo alle strette, Balzac confessa a malincuore: «Sì! E’ vero. Una dama parigina che vuol conservare l’incognito ...». Cambiamento a vista. Le dame torinesi volgono, ora, le spalle a Marcello. Ma verso questi, in compenso, si fanno avanti in fitta schiera, i cavalieri tutti languori e sospiri. E Balzac, un po’ divertito, un po’ infastidito, di gruppo in gruppo: «Non posso dire chi è ... Non posso!». Mistero, curiosità, febbre di sapere d’indovinare ... Balzac ha raccomandato: «Per carità! Silenzio. Tutti ignorano e devono ignorare il viaggio di questa virtuosa dama presa dalla smania di venire in Italia ... Un’indiscrezione la rovinerebbe ...». E tutti a pettegolare, ma sottovoce, affinchè quanto si mormora a Torino non si oda a Parigi. C’è un ballo dalla marchesa di Saint-Thomas. Balzac e Marcello partono il giorno dopo. Tra i suoi indumenti maschili, Carolina ha portato con sè un abito da sera. E all’albergo d’Europa, vestendosi, Balzac le dice: «Vieni così, caro. Da donna. Sarà divertente per tutti rivedere in abito scollato e a braccia nude il bel paggio byroniano, il vezzoso adolescente che ha destato tanta curiosità, che ha suscitato tanto interesse». E non appena, sfolgorante donna, Marcello entra al braccio di Balzac, un nome corre di bocca in bocca tra gli invitati: «Stupidi tutti a non averci prima pensato. E’ George Sand! Per questo Balzac ha detto: «Scrive meglio di me ...». E son tutti e tutte all’ex Marcello per chiederle notizie di de Musset, — caro e tenero poeta ... — e parlano alla supposta Sand di Lelia, d’Indiana, di Consuelo e informarsi di nuovi romanzi che la baronessa Dudevant prepara. Marcello, inorgoglito da mille complimenti e da mille omaggi ricevuti dai numerosi convenuti, chiama in disparte Balzac e gli dice: «Mi credono George Sand».

  «Lasciali credere». «Mi parlano di letteratura». «E parlane, caro, anche tu». «Non so parlarne: sono una piccola bestia». «Tutti i letterati, caro, sono così: bestie; ma grosse».

  Carolina, la vezzosa Carolina, per nulla impressionata da quella folla che l’assediava e l’incalzava da presso con una sfilza di domande non ci si perde affatto. Ci si diverte anzi a rilasciare autografi, come questo: «Torino, 10 agosto 1836 — Balzac è il più grande scrittore francese!» Firmato George Sand. Immaginate Balzac al ritorno in albergo: «Perché hai scritto così su quel libro? Balzac è il più grande scrittore francese ... Questo è proprio volersi far smascherare da tutti ... Credi tu che George Sand, quella vera, l’avrebbe mai scritto?».

  Episodi briosi, piccanti, divertenti, durante il soggiorno dello scrittore a Torino, si contano a diecine.

  Dopo qualche tempo Balzac da Parigi si recò a Milano, ma non più in compagnia dell’ineffabile Marcello, nè tanto meno da Thèophile (sic) Gautier, ove arrivò il 19 febbraio del 1837. La Gazzetta Privilegiata di Milano di due giorni dopo ne dava semplicemente notizia nella rubrica degli Arrivi con le seguenti parole: «De Balzac, idem, da Parigi». L’idem voleva dire possidente, perché il viaggiatore precedente era designato come tale.

  Un giorno la notissima contessa Maffei ricevette da una giovane e bella amica, questo biglietto:

  Parigi, 16 febbraio, rue Saint Honoré, 333.

  «De Balzac. con Thèophile Gautier, suo amico, viene a Milano. Io lo raccomando alla mia gentilissima Chiarina e all’illustre Maffei. Il celebre letterato francese conosca così le grazie, e ammiri l’ingegno italiano. Egli troverà, ne son certa, nella vostra casa, le cortesi accoglienze a cui ha diritto: ed io soddisfo, facendovi conoscere a lui, un orgoglio d’amicizia e di patria».

  L’affezionatissima amica

Fanny Sanseverino-Porcia

 

  «La contessa Fanny Porcia — narra Raffaello Barbiera nel suo famoso libro[2] Il salotto della Contessa Maffei — sorella del principe Alfonso Serafino, ciambellano dell’imperatore d’Austria, era un’amabile gentildonna di ventinove primavere, sposata da tre anni al conte Faustino Vimercati Sanseverino Tadini, cremasco. Le sue lettere alla Maffei, nelle quali descrive le feste dell’aristocrazia a Parigi, sono gioielli di finezza e di brio. Vasta, elegante era la cultura dell’incantevole dama; una cultura persino classica; ma chi se ne accorgeva! ... Ella si adoperava a nasconderla. Avrebbe potuto trionfare nella società gaudente; ma i doveri della famiglia e i doveri della carità erano le sole sue ambizioni. Quando a Parigi si recò a visitare Balzac, dovette salire molte scale e arrampicarsi verso una soffitta, dove il grande romanziere cercava di vivere lontano, remoto dalle persecuzioni dei creditori e dai clamori del mondo. Una vera soffitta. Ma il Balzac, da quel raffinato che era, l’aveva trasformata nel recesso misterioso di un opulente rajà, tale era il lusso asiatico, tali gli oggetti curiosi e preziosi. Chi ha letto il mirabile racconto del Balzac, La peau de chagrin, ravvisa l’autore nel protagonista innamorato delle decorazioni squisite.

  «La contessa Fanny Sanseverino-Porcia si trovò dinanzi un eremita». Il Balzac indossava, infatti, una tunica bianca da frate, che vedremo rispuntare più tardi a Milano; quella tunica stessa nella quale il Dastuge dipinse il «colosso del romanzo moderno» nel ritratto che si vede a Versailles nella sala degli scrittori francesi celebri».

  Il pubblicista Sacchi, cooperatore per la parte letteraria, della Gazzetta privilegiata di Milano, mandò su questo periodico ufficiale un benvenuto all’insigne ospite straniero:

  «La nostra città accoglie da due giorni fra le sue mura il signor Balzac, lo scrittore francese che in pochi anni fece il maggior numero di opere che descrivono in ogni maniera la vita dell’uomo e la società: quello che anche il più popolare fra di noi, perché i suoi scritti corrono nelle mani di tutti in originale e tradotti. Esso viaggia in Italia per raccogliere materiali onde scrivere le compagne (sic) di francesi nella penisola. Questa notizia tanto più ne riesce gradevole, perché siamo certi che il genio di Balzac avrà dal nostro cielo le sue più belle ispirazioni».

  La venuta di Balzac in Milano venne ascritta alle persecuzioni spietate dei creditori parigini, e fu un avvenimento. Tutti volevano vedere il celeberrimo autore, molti, chissà perché, pretendevano d’averlo già visto. In quei giorni, nella città lombarda, si parlava solo di tre cose: di una splendida aurora boreale apparsa sul cielo di Milano qualche sera prima dell’arrivo dello scrittore, del romanziere francese e della sua canna famosa quanto lui che si diceva costasse tesori, una canna che, in realtà, era un giunco colossale, col pomo tempestato di pietre preziose, e che serviva di reliquario amoroso: uno scatolino dissimulato nel pomo, conteneva infatti il ritratto in miniatura della contessa Eva Hanska, dal seno denudato.

  Ben presto dai salotti dell’aristocrazia Balzac si vede frequentare i teatri milanesi. Alla Scala egli passava di palco in palco, corteggiatore e corteggiato, festeggiato ed ammirato dalle donne e dai cavalieri.

  Antonio Piazza, uno dei pubblicisti più apprezzati in quel tempo, nel Corriere delle dame, diffuso giornale di mode, di letteratura e di varietà, da lui diretto, scriveva tra l’altro:

 

  Il signor di Balzac

  «Avete veduto l’aurora boreale? e il signor di Balzac l’avete visto? Ecco le due inevitabili interrogazioni dei giorni andati: senonchè la prima era transitoria, e l’altra continuata. Il signor di Balzac rimase parecchi giorni sulle labbra di tutti e vi suonò dolce come una parola d’amore. Ognun voleva averlo veduto o vederlo; tra i primi un giovane il quale diceva d’essersi stretto d’intimità secondo lui a Vienna, indicò ad alcuni curiosi, in teatro, un capitano dei granatieri, esclamando: ecco il signor di Balzac! e le armi ebbero per pochi istanti i magni onori della letteratura. Anche i molti, rimasti per loro sventura stranieri alle opere di questo ingegno pellegrino e brillante, cercavano avidamente il fortunato pittore de’ costumi parigini, e si tenevan beati di poter ripetere in società: «ho veduto il signor di Balzac e la sua canna»; ma sia detto per istruzione di chi nol sapesse che la celebrata sua canna non è comparsa sinora a dividere col signor di Balzac l’ammirazione del pubblico.

  «Io non avevo avuto ancora la consolazione di scontrarmi con lui, quando un letterato bozzacchiuto anzichenò, ed al quale l’epa va da parecchi anni aumentando la gravità e il volume, venne festevole a raccontarmi, «che anco il signor di Balzac era panciuto»; di che, a dirvelo, non mi sono accorto dappoi quando mi trovai davvicino al sottile scandagliatore dei secreti matrimoniali.

  «Del resto, il signor di Balzac è piuttosto basso che alto della persona; i proventi della sua letteratura lo conservano ben pasciuto ed allegro; la sua educazione e la nascita lo rendono amabile e disinvolto; il suo talento spiritoso e vivace; la sua fervida immaginazione parlatore fecondo, preciso, inesauribile. Una felice inclinazione al buon gusto, se non lo ha reso «fashionable» in tutto il significato della parola, gli ha fatto poi rinunziare a quella lunga capellatura, che ingombrandogli una volta le spalle, poteva per avventura risvegliare l’idea d’una prefica nello scrittore più gaio e più brillante del suo paese. Non è bello e non è brutto; ma fra le due piuttosto brutto che bello; ha sotto il naso una specie di chiaro scuro che dà qualche lontana idea di mustacchi. Chiome nere ed incolte, naso savoiardo e due occhi nerissimi nei quali si può leggere compendiato il fuoco, il brio di questo grande scrittore. Parla con modestia di sè, e speriamo che ripudiando il gradito sistema de’ suoi concittadini, parlerà un giorno con lode anche degli italiani che lo ammirano, lo festeggiano, e lo presentano di casa in casa, di palchetto in palchetto a tutte le loro Belle.

  «Cerca con ansietà i quadri di Luino, e aspetta impaziente un mattino sereno per visitare la sommità del nostro Duomo. Si direbbe che l’ingegno straordinario di codesto scrittore ha in lui destato una particolare tendenza alle regioni alte, perché anche in Parigi dimora in una specie di specola dalla quale il suo sguardo domina in tutta la sua estensione la vastissima metropoli della Francia, ricavando colà dal suo genio tutte quelle ispirazioni che lo rendono il più felice pittore delle scene della vita contemporanea.

  «Così, per esempio, Papa Goriot e Gobseck, che io riteneva due creature immaginarie e fuor de’ confini di ogni umana probabilità, sono copie di persone che hanno vissuto e che vivono in una città, qual’è Parigi, che può presentare ad uno scrittore la società nelle sue svariatissime gradazioni, dal sublime al ridicolo, dal serio al giocondo, dal tragico al comico, dall’improbabile al vero, e svolgere a’ suoi occhi tutte le passioni ignobili e generose ond’è scossa e agitata l’umana razza.

  «La festosa accoglienza con la quale tutte le classi della nostra società ricevono il signor di Balzac è certamente premio lusinghiero delle sue letterarie fatiche, e incoraggiamento agli ingegni, sprone all’emulazione italiana; ma la povertà delle nostre lettere non sempre invoca con buon successo il patrocinio della nazione; ed anche ammessa, purtroppo, molta distanza fra la letteratura francese e la nostra, chi di noi vide misura di proporzionati campioni? ...

  «La bella e gentile Venezia vedrà nella prossima settimana l’illustre viaggiatore francese; ed in quella città, che racchiude tante gloriose ricordanze di sua grandezza, ci troverà largo pascolo alla sua vivace immaginazione. e potrà soddisfare pienamente al suo nobile amore per la pittura».

A. Piazza.

 

  Dallo scritto del Piazza appare evidente che in Italia si conoscevano, si leggevano e si sapevano giudicare le opere di Honoré de Balzac, nel tempo stesso che si sapeva far onore a un letterato della sua fama, ciò che prova che da noi era spento, come si pretendeva, ogni vigore morale e patriottico. E se Balzac, forse seguendo una vera tradizione antitaliana, doveva in più d’una occasione, lasciarsi andare in giudizi assai acerbi contro l’Italia, se ne pentì di poi e ne fece onorevole ammenda.

  Il Guadagnoli, proprio in quegli anni, scrivendo le sestine che portano per titolo La Ciarla, si scagliava allegramente contro le critiche e le accuse che, quasi sempre per beffa gli stranieri ci ammannivano:

 

“... Eh, ciarlino di cavalli,

Di carrozze e bottiglie senza fine;

Parlino della musica, de’ balli

E delle gambe delle ballerine;

Ma non vengano a dir male dell’Italia,

D’ogni sapere genitrice e balia ” ...

 

  L’immortale scrittore era andato ad alloggiare in un albergo centrale di Milano, ma si affrettò ad accettare una stanza deliziosa, che guardava su un giardino, offertagli nella propria casa, sul bel corso di Porta Orientale (ora Corso Venezia), dal principe Alfonso Serafino Porcìa, il fratello appunto della Fanny. Quando Balzac andò a trovare la contessa Maffei, questa gli andò incontro festosissima, esclamando:

  «J’adore le génie!!».

  La nobile signora lo accolse nel suo salotto, famoso a tutti i grandi ingegni delle arti, delle lettere e della politica, con entusiasmo e cordialità e lo presentò al marito e ai varii amici, tra cui lo scultore Alessandro Puttinati, Ferdinando De Lugo, uno dei più intelligenti giovani dell’alta società; lo presentò ad una bionda poetessa. Giulietta Pezzi, di Milano, e ad altre amiche che parlavano bene la lingua francese; cosa non rara anche allora a Milano.

  «Egli rimase incantato — scrive il Barbiera nel suo libro citato — della «piccola Maffei, come ella stessa si definiva con spirito; e non tardò a provarne un’amicizia dolce, tenera che si confondeva coll’affetto. Ma di ciò, nessuna meraviglia. Egli era un «tendre» secondo l’espressione di Guy de Maupassant; egli voleva essere sempre aiutato dalla parola consolatrice della donna gentile, dalla sua stretta di mano, dal suo sorriso. La poesia dei suoi ideali strideva, peraltro, un po’ troppo nel confronto della prosa del suo corpo pesante, col quale sfondava le poltrone del salotto Maffei; salotto adorno nello stile del primo Impero e di tutte le sobrie eleganze del tempo.

  «A lui, avvezzo a Parigi, non piaceva Milano; si mostrava querulo, rannuvolato. Solo il prestigio della Maffei e di Giulietta Pezzi aveva il potere di ridestarlo dalla tetraggine. Si bisticciava con la contessa Fanny Sanseverino perché questa non tollerava ch’egli dicesse male dell’Italia; e andato a visitare un’altra dama, la contessa Eugenia Bolognini Sforza Attendolo, in Via Cappuccini, là, in quel fresco salotto a stucchi, litigava un po’ anche con lei, che rideva delle nuvole nere del grande.

  «Nuvole sorte dalle giogaje dei debiti. In un album della dama, il Balzac disegnò se stesso, ritto in piedi, nella tonaca fratesca, con le braccia incrociate. Alla destra disegnò un mucchio di sacchi gonfi d’oro; e, alla sinistra, le inferriate d’una prigione: quella di Santa Pelagia, ospizio parigino dei debitori a quei tempi così feroci contro chi non pagava, e la contessa Bolognini scrisse per il Balzac, Mes rêves, sotto i sacchi d’oro, e Mes réalités sotto la prigione.

  «Anche Matilde Juva, bella e dilettante di canto, veniva visitata dal Balzac; è anch’essa era amica della Maffei. Nei salotti ella spiegava la malìa della sua grazia e della sua voce; il Balzac le consacrò alcune linee d’omaggio, che non si sa dove siano andate a finire.

  «La poetessa Giulietta Pezzi, figlia di un sibaritico giornalista (direttore dell’austriaca Gazzetta di Milano) era piacente con que’ riccioli che le scendevano sulle spalle come ruscelletti d’oro. Il Balzac voleva vedersela seduta dinanzi, e la chiamava l’«ange». Ma perché egli, dopo il celestiale complimento si addormentava? ... Era un suo «tic» questo, di dormire in piena conversazione, nonostante l’abuso di caffè cui si abbandonava, ai lavori di fantasia cui pensava sovente sprofondandosi in cupo silenzio. Un altro suo vezzo (chiamiamolo così) era di accennare sempre di «no» colla testa, con quella sua grossa testa piantata sul collo taurino; pareva lo «spirito che nega».

  «Nella conversazione del salotto Maffei e nelle altre, egli amava più ascoltare che discorrere. Di tratto in tratto, a qualche facezia, rompeva in una fragorosa risata; quindi si rimetteva ad ascoltare ... e a dormire».

  Correva allora, nei salotti, la moda degli album, che ogni scrittore ed artista doveva fregiare dei suoi caratteri e disegni. Nell’album di Giulietta Pezzi, il romanziere francese scrisse, colla sua spaventosa calligrafia, un pensiero quasi indecifrabile.

  E sull’album della contessa Maffei scrisse quest’altro pensiero, un giorno in cui giuocava, pare, a capo-nascondi fra le nuvole.

  «Rien ne ressemble plus a (sic) la vie humaine ques (sic) les vicissitudes de l’atmosphère et que les changements du ciel. Le temps est le fond de la vie, come (sic) la terre est le fond sur lequel agissent les intempéries et les beautés du sleil (sic) et des saison (sic). Tantôt, il arrive des journées splendides, pendant lesquelles tout est azur et fleurs, verdure et rosée; tantôt, des clairs-obscurs, où tout est piège, et doute dans la nature; puis de longues brumes, des temps lourds, des nuées grises. La plupart des hommes ont une pente qui les porte, à s’harmoniser avec cette instabilité de l’air; mais pour ceux qui se réfugient dans le domaine moral et qui ne comptent pour rien tout ce qui n’est pas le vie de l’âme, il peut toujours faire beau dans le ciel. Le souvenir est un des moyens qui peuvent, nous aider à rendre l’air pure et faire briller le soleil dans notre âme. — 24 avril 1837».

  Nonostante i molti peccati descritti nei suoi romanzi il celebre romanziere viveva quasi immune da passioni volgari, domandando alla donna, o meglio alle signore, da quel raffinato che era, le carezze pure della devozione, il profumo dell’anima. Clara Maffei, che possedeva l'intelligenza del cuore, lo comprese; deve, peraltro, essersi accorta, che il suo illustre amico amava più con la fantasia che con i sensi.

  L’ammirazione dei milanesi per il romanziere divenne, infine, così spontanea e così profonda sino al punto che i giornali di varietà e di moda proposero — cosa curiosa questa — una moda alla Balzac. Nel numero 11, del 25 febbraio di quell’anno, il Corriere delle Dame riportava un articolo, dovuto alla penna del suo direttore [Antonio Piazza], dal titolo Del signor di Balzac a proposito di mode, nel quale dopo aver accennato alle varie pettinature femminili allora in voga, e alle marsine e alle cravatte degli uomini, si leggeva:

  «...La moda, in aggiunta al merito reale, ha compiuto i gabinetti delle nostre Signore delle opere del signor di Balzac, per tacere di tanti altri autori francesi, ai quali ha fatto varcare le Alpi da vent’anni in poi, e, per dir vero, sinché ei mostra sì buon criterio, non abbiamo giusto motivo di lamentarcene. Ora il signor di Balzac è in Milano; notizia che diviene per conseguenza importante e per la letteratura contemporanea e per la moda. L’avete veduto? Spero che in esso non andrete in traccia di bello, sì perché il bello d’un uomo di tanto spirito e di tanto talento non è riposto nè dall’avvenenza del volto, nè nell’eleganza della persona, e sì ancora perché sarebbe tempo perduto il cercarlo.

  «Ho studiato dappresso la sua toletta per ricavarne, se fosse possibile, una moda, che avrei proclamato col titolo di «moda alla Balzac»; non nulla di notevole che potesse imporne al “bont-ton” (sic) tranne la cravatta bianca ch’ei porta in toletta di gala col contro senso dei granatieri. «Ha un bel bastone a cesellatura, che costa 500 franchi, ma non è la «canna» che ha dato vita al libro d’una spiritosa signora: «La canna del signor di Balzac»[3].

  «Ho fermato il mio occhio sulla sua acconciatura: l’opposto della «renaissance!» questa piange dimessa come il salice del cimitero; quella è ridente e rigogliosa come una quercia delle nostre montagne. Spero che i classici mi vorranno menar buona la similitudine, e la libertà che mi prendo di far piangere e ridere i capelli, come Migliavacca fa or piangere ed ora ridere i suoi frontieri (sic; lege: frontini) e le sue parrucche.

  «Pare che il signor di Balzac inchini al vero (sic; lege: nero); circostanze di analogia coi gusti di Lord Byron, il quale aveva del nero persino nella anima. Senonchè le opere dell’illustre autore francese ci dànno ben diversa de’ suoi sentimenti: delle sue naturali tendenze, dell’umur (sic) suo. Ama forse i vestiti neri, ma ci invia da Parigi i suoi scritti nei quali brillano le vive tinte dell’iride.

  «Il signor di Balzac s’intratterrà un mese fra noi, facendo la prossima settimana una gita a Venezia. Una moda deve assolutamente uscire dalla sua toletta: io non lo perdo di vista; e sarò allora beato di potervi annunziare, o lettori, «una moda alla Balzac».

A. Piazza.

 

  Come artista Balzac aveva infiniti pregi, come uomo, purtroppo, aveva un difetto grave: criticare cioè tutto e tutti, scrittori e artisti, italiani e stranieri. Infatti Balzac, chissà per quale misteriosa ragione, non nutriva nessuna stima sopra tutto per gli scrittori italiani; di questo suo disprezzo non mancava di far pubblica ostentazione. Specialmente egli non tollerava i milanesi e lo stesso Manzoni, del quale non apprezzava l’immortale suo romanzo. Giudizî, quelli dello scrittore francese, avventati che, ripetuti poi, dopo qualche giorno a Venezia, per poco non provocarono un vivacissimo incidente. Alla sua fecondità di scrittore, veramente prodigiosa — e questa grande attività era stata più volte riconosciuta ed apprezzata entusiasticamente da parte degli italiani — riusciva incomprensibile la moderata produzione manzoniana, e al suo ingegno, intento a scrutare per le tortuose file della società del suo tempo le poche virtù e i moltissimi vizî dei suoi personaggi, appariva debole, sterile la trama dei Promessi sposi, forse perché era fondato sulle virtù di una povera contadina. E, del resto, non poteva essere diversamente. Al temperamento artistico di Balzac non poteva piacere un libro di rassegnazione e di fede; egli era come uomo e come scrittore, un appassionato e un lottatore.

  Il milanese, Antonio Lissoni «antico ufficiale di cavalleria» provvide alla difesa dell’onore delle armi italiane, oltraggiato, secondo lui dal de Balzac perché questi, nella Marana, aveva rappresentato il personaggio di Montefiori (sic), capitano italiano nell’esercito napoleonico, come un tipo spregevole di avventuriero. Ma il proposito del romanziere non era ingiurioso; dal complesso dei suoi personaggi italiani emerge piuttosto l’idea — che gli si confermò nel breve soggiorno veneziano e che ritroviamo, con grandi analogie nei romanzi della Sand – che il lungo servaggio avesse quasi sconnesse le coscienze, e che ogni cuore abbadonato (sic) a sè, cercasse il suo destino nelle passioni amorose, confuse con la seduzione delle arti, e segnatamente della musica. Massimilla Doni esprime tutto ciò attraverso la maniera un po’ deliziosa ed enfatica ch'è propria del Balzac, quand’egli vuole innalzarsi alle passioni «poetiche» (maniera da cui non va immune, ad esempio, Le Lys dans la vallée, e le scene di teatro lasciano qualche spiraglio al pensiero della patria oppressa dallo straniero). La chimera della musica in un demente costituisce il tema centrale di Gambara; e nel bozzetto di Facino Cane il vecchio e povero suonatore, ch’è il principe di Varese (onde il suo titolo passerà ben presto a Marco Vendramin, di Massimilla Doni, per quel richiamo ed intreccio consueto dei personaggi della Comédie humaine), evoca nel suo volto sofferente il ricordo della maschera di Dante. Sebbene il Balzac dichiari, nelle prime pagine d’Honorine, che in Italia «les types nobles» non s’incontrano ormai più che nel popolo, come, dopo l’incendio della città, le medaglie rimangono nascoste tra le ceneri («ce phénomène s’observe chez toutes le nations ruinéés (sic)»), le sue bellezze italiane appartengono tutte alle più grandi famiglie: Onorina stessa, ch’egli assomiglia alla Notte di Michelangelo, ravvolta di vesti moderne, e Massimilla Doni, e la principessa Colonna di Albert Savarus, salda nel suo dovere e nella sua virtù; per non dire di Ginevra La Vendetta, la giovine corsa, d’una famiglia amica dei Bonaparte. che attinge nella sua mortale un’espressione così pura, così «nivea» che la distingue tra tutte le. eroine di Balzac. E insomma il concetto di un’altera nobiltà non poteva scompagnarsi della gloria dell’arte, che appariva al fecondo scrittore come superstite fra le rovine d'Italia; ciò che, d’altra parte, dimostra — poiché Massimilla Doni è del 1839 e Albert Savarus nel 1842 — che dalla Lombardia, dalla Venezia, egli aveva riportato la visione di un’Italia affranta dal dominio straniero, senza aver compreso il rigore del Risorgimento che animava in segreto quelle terre generose e le stesse famiglie che l’avevano accolto quale ospite illustre.

  Intanto le indiscrezioni e, diciamolo pure, i pettegolezzi si allargavano come una macchia d’olio; dalla stampa milanese passavano a quelle di altre città d’Italia. Non mancarono vari periodici — e fra questi: La voce della Verità — a scagliarsi contro il Balzac coprendolo d’improperi e di basse ingiurie. Così piano piano l’ammirazione incondizionata per lo scrittore straniero andava declinando.

  La Gazzetta Ufficiale di Venezia recava, in un’appendice, una lunga lettera del conte Dandolo ad Angelo Fava (altro amico della Maffei), sulla malagurata (sic) conversazione in casa Soranzo; e il Balzac era criticato aspramente. E neppure Angelo Fava fece il sordo; perché nel Vaglio, giornale letterario di Venezia, rispose a Tullio Dandolo, censurando aspramente i romanzi del Balzac, dipingendoli — ed anche questo giudizio secondo noi era azzardato — figli di una Musa corrotta e corruttrice. Non basta: la Fama, giornale teatrale di Milano, che aveva una certa risonanza, senza nominare il Balzac, era già uscita con un articolo sui viaggiatori-letterati che «acconciati da Childe-Harold, muovono ai luoghi celebri», sui «poeti del dipartimento» che. senza avere un «soldo in saccoccia», viaggiavano da artisti. E rincarando la dose, il giornalista eccitava (nientedimeno) la polizia a vegliar meglio su costoro, perché, in conclusione, «non erano che malviventi».

  L’allusione non poteva suonare che come un insulto maligno feroce, perché si diceva, infatti, che il Balzac era venuto a Milano uscendo dalla prigione di Parigi!

  Per sfatare questa bassa leggenda Gaspare Aureggi (sic), uomo equanime e dotato di nobili sentimenti, pubblicò un notevole studio sulle opere di Balzac Pensieri su Balzac[4] il quale sdegnosamente difende il grande scrittore dalla calunnia tremenda ed aggiunge: «Non potendo batterlo con la penna, lo lacerano coi denti».

  Benché negli eccessi di malumore il Balzac abbia disprezzato il capolavoro manzoniano, si reca a far visita all’illustre scrittore milanese. Vi si porta accompagnato da un gentiluomo letterato, allievo di Pietro Giordani, il cavaliere Felice Carrone, marchese di San Tommaso. Il Balzac dice al Manzoni che gli sembra di vedere in lui Chateaubriand stesso; e infatti, quelle due fisonomie, se non quelle anime religiose, hanno tra loro molti punti di contatto. Parlatore brillante egli discorre dei propri lavori letterari, disserta sul panteismo, discute sull’arte italiana e francese. Accompagnato dalla contessa Clara, va a visitare lo studio del pittore Havez. Si porta poi a visitare, in Via S. Primo, anche un altro artista allora celebrato, lo scultore Pompeo Marchesi.

  Un altro scultore, Alessandro Puttinati, andando un giorno a trovare il romanziere nel suo alloggio lo sorprese avvolto nella famosa veste da camera; una specie, di tunica da certosino, serrata con due grossi cordoni ai fianchi, e, dietro, tanto di cappuccio, come l’aveva visto a Parigi la contessa Fanny Sanseverino.

  Il curioso abito fratesco del romanziere alimentava i discorsi dei Caffè Martini; e si rideva raccontando che lo scrittore, anche di giorno, scriveva fra due candele accese.

  E Andrea Maffei? Che ruminava nella sua niente agitata e, sopratutto, quale parte sosteneva il cavaliere marito della contessa, nelle vicende balzacchiane sull’Olona?

  E’ interessante, e nel contempo divertente, questo episodio della vita matrimoniale dei coniugi Maffei e della improvvisa gelosia che pare prendesse il cuore del marito, nel veder sempre presso le gonnelle della moglie lo straniero. In verità, un osservatore superficiale avrebbe potuto scambiare la loro fervida amicizia per amore, e avrebbe potuto azzardare le più audaci supposizioni.

  Una lettera che scrisse Andrea a sua moglie Clara e che merita di essere riportata integralmente per conoscere lo stato d’animo del povero marito, e in cui egli è invaso d’una gelosia vigile e lamentevole, è la seguente[5]:

 

  «Cara Clarina,

  «Io temo che mi sarà difficile l’allontanarmi dal Tribunale[6] tuttavia m’ingegnerò. Se alle due ore non mi vedi, va pure col signor di Balzac allo studio del nostro Hayez. La contrada è poco frequentata e passerai non veduta. Ora, mia cara Clarina, desidero che un po’ m’ascolti e rifletta con animo tranquillo alle mie parole, come se uscissero dalla bocca di tua madre. Tutti gli occhi sono conversi a questo celebre straniero; tutti sanno ch’egli passa in casa nostra molte ore del mattino o della sera, trascurando le famiglie dove ha pur trovato inviti e cortesie senza fine, ciò che dalla nostra non ebbe. Nè l’essere io il cultore dei suoi studi è bastante coperta alle sue visite, giacché la mia riputazione è tutta italiana ed appoggiata quasi unicamente allo stile ed al verso, cose queste a lui sconosciute. Tu sola adunque ne sei l’oggetto; e se le visite del signor di Balzac si limitassero alle sole ore notturne, io non uscirei dalla mia inerzia per inviarti questa mia lunga lettera, ed anzi mi sarebbe gratissimo che mia moglie sapesse trattenere un uomo di tanto grido. Ma nella condotta di questo signore parmi di riconoscere un ben altro fine, e l’esperienza di trentasette anni mi fa temere con fondamento che egli cerchi di abusare della tua buona fede e del tuo entusiasmo de’ suoi scritti. Il suo breve soggiorno a Venezia, che per la fantasia di un poeta e di un romanziere può dirsi un soggiorno di incanti, mi ha confermato in questo sospetto. Egli scorre rapidamente tante meraviglie senza riaffrettarsi non a Parigi, ma a Milano, senza che gli affari suoi, già finiti l’abbiano richiamato[7]. Ed anche in mezzo alle distrazioni di quella città, trova modo di scriverti due lettere, che se non sono del tutto galanti, sono certamente insidiose e adulatrici. Tu, che hai letto i suoi romanzi, puoi giudicare quanto bene egli conosca la donna e l’arte finissima del sedurre, e quali mezzi si debbono adoperare colla civetta e quali colla saggia ed educata giovane per abbatterne i buoni principii. Aggiungi che la dissoluta Parigi gli dà fama di libertino e d’immorale. Nè credere che la bruttezza del suo volto possa salvarti dalla inesperienza e dalla opinione del pubblico. La stessa deformità sparisce dinanzi all’ingegno e alla forza irresistibile di chi sa svolgere a sua voglia tutte le pieghe del cuore e della mente. Pensa, mia Chiarina, che tu sei l’amore di Milano, e che ti credono migliore di me, quantunque io sappia di non averti mai e poi mai offesa ed insultata che per irriflessione o per indole troppo sùbita allo sdegno. Non perdere, per carità, quella bella ed invidiabile riputazione che ti sei acquistata colle amabili tue bontà. Non fare che questo straniero abbandoni Milano lasciandoti in braccio al dolore od al rimorso. Ora che la stagione migliora, esci sovente di casa, vieni a prendermi all’ufficio, e faremo delle lunghe passeggiate in compagnia del nostro amico. Vedrò così rinfiorirsi una salute che tanto m’è cara. In breve si riaprono i teatri; andremo qualche sera allo spettacolo, e così passeremo questi dieci giorni o dodici giorni che ancora si frappongono alla partenza del francese. Anche l’epigramma di quella sfacciata di ... benché non ne faccia gran caso, non è cosa che mi piaccia, ma mi rincresce assai più il silenzio della tua nuova conoscenza, di quell’angelo della Somaglia. Quest’ultima non potrà dimenticarsi di averlo veduto a Torino in compagnia di una donna vestita da paggio. Insomma, io mi terrò onorato se il signor di Balzac ti vegga cogli altri alla sera, ma non potrò sopportare senza rammarico che egli passi alcune ore della mattina da solo a sola con te. Io non so quale effetto faranno i miei consigli sull’animo tuo. Se il buon Lucchi[8] fosse qui, gli avresti dalla sua bocca, ne sono sicuro, ma sono determinato a farlo io medesimo. Io ti amo con tutta l’anima, e di giorno in giorno mi vieni più necessaria: chi, dunque, potrà biasimarmi s’io guardo con occhi vigilanti un tesoro, che se mi venisse rapito, morrei di dolore?

Il tuo Andrea».

 

  Questo scritto, ove trapela l’inquietudine e la gelosia d’un marito non del tutto affettuoso e premuroso verso la moglie, rappresenta un documento umano. Sono giusti i giudizî e le accuse mosse da Andrea Maffei al Balzac? Ad onor del vero noi riteniamo il contenuto di questa lettera vergato da un essere travolto subitamente dai vortici della gelosia, inopportuno ed esagerato. Abbiamo già affermato che il celebre scrittore era un sentimentale, e che aveva bisogno della parola consolatrice d’una donna gentile; ma non possiamo credere che in lui nascesse mai un’idea più audace rispetto alla sua amica che tanto apprezzava e stimava. Ripetiamo: egli, come uomo, fu un visionario e. in qualche modo, un debole: perseguiva idee di grandezza e faceva castelli in aria. Ecco tutto. E che i rapporti fra i due non avessero esorbitato dai giusti confini dell’onesta amicizia si può arguire dalla seguente lettere del Balzac alla Maffei, inviatale dopo il suo ritorno a Parigi, data come inedita dal Barbiera. e che riportiamo volentieri nella nostra lingua:

 

  Novembre 1838.

  «Grazie, cara» della lettera, profumata dal ricordo, che mi avete mandato e che mi ha deliziosamente rievocato il vostro amatissimo salotto e le serate che vi ho passate e quella che voi stessa chiamate familiarmente «la piccola Maffei», e che occupa un posto troppo grande nella mia memoria, perché io mi permetta questa espressione.

  «Siete stata ancora malata? I medici di Milano mi fanno una gran paura; se fossi in voi, verrei a Parigi, a consultare qualcuno de’ nostri, poiché ne abbiamo ancora in questa povera Francia.

  «Non mi avete [?] niente di Puttinati: ho dunque spaventato che non è venuto a trovarmi neppure un giorno al suo ritorno da Londra? Ditegli quanto torto ha avuto, che avevo pensato a lui durante la sua corsa a Londra, mentre è stato troppo discreto con una certa persona, che si era invaghita di lui durante il non facile viaggio.

  «La contessa Sanseverino era in collera contro di me quando l’ho lasciata; questa collera, della quale non conosco i motivi, s’è calmata? Mi ha accusato di non amare l’Italia, proprio quando lavoro ad un’opera intitolata Massimilla Doni che farà sobbalzare più d’un cuore italiano. Ma son così avvezzo alle ingiustizie che neppure quella di una bella donna non mi commuove più: ho fatto un callo sul cuore, tanto vi è stato battuto. Trovo d’altronde molto impertinenti tutti coloro che mi proclamano un uomo profondo e che vogliono conoscermi cinque minuti. Sia detto fra noi, io non sono profondo, ma molto grosso, e ci vuol tempo per fare il giro della mia persona; è una passeggiata che stanca; ma non dico questo per lei. La commedia che meditavo a Milano, mentre sorseggiavo il vostro thè e vagavo per le vie, è compiuta[9]; la metterò in prova fra una quindicina di giorni, ma in un incognito così profondo, che non sarà davvero un segreto di commedia.

  «Questo lavoro, che ho compiuto contemporaneamente ad altri, mi ha cagionato una piccola malattia infiammatoria, da cui guarisco ora, e che ha ritardato la mia risposta, perché il dottore mi aveva proibito di scrivere qualsiasi cosa, anche una lettera.

  «Sono andato nella mia dolce Turenna; ho dovuto rinunziare al mio viaggio autunnale; tornerò in Italia a primavera, perché voglio vedere la settimana santa a Roma, se Dio vorrà che porti nella metropoli i denari guadagnati colla commedia, dato che l’opera profana abbia successo.

  «Ricordatemi gli ospiti del vostro salotto: Lugo, Dolcini, la Giulietta Pezzi e «tutti quanti», senza dimenticare, di deporre la mia ubbidienza ai piedi della «piccola Maffei»: prendete la vostra aria più gentile e la vostra astuzia per scoprire come ho perduto qualcosa, alla quale tenevo tanto, nella benevolenza della contessa Sanseverino, ditemelo, fatemi l’elemosina di questo regaluccio, e sopratutto, presentatele i miei omaggi.

  «Vi sono de’ giorni in cui sogno il Duomo di Milano e il quadro di Raffaello[10] che abbiamo visto insieme; ma sopratutto sogno una camelia ancora più bianca del più bianco marmo della più bianca statua della guglia più bianca.

  «Non dimenticate di ricordarmi al «cavalier Maffei», e fate dire all’editore di non so qual giornale, a cui ho promesso il testo riveduto del Giglio nella Valle, per tradurlo, che non sarà pronto che nel primo mese del prossimo anno, perché non sarà stampato che per quest’epoca.

  «Trovate qui mille cose graziose che vorrei poetiche e dolci quanto occorre per un caro fiore come voi: e credete ad un’affettuosa memoria che rasenta un’eretica idrolatria (sic) di cui si lagnerebbe il mio confessore, se avessi la disgrazia di averne uno poco benevolo: ma esso stesso è il vostro devoto

Di Balzac».

 

  «Io non ho dimenticato Piazza, nè Bonf ... Pompeo Marchesi avrà fra qualche giorno mie nuove; ma ho tanto da fare ...».

  Povero e grande Balzac! Egli, in fondo, fu uno degli scrittori più calunniati del suo tempo. Diffamato ingiustamente, egli trovò sempre difensori ardenti e suscitò intorno a sè simpatia e ammirazione. Questa lettera, però, dimostra quanto grande fosse la stima che riponeva per l’Italia e per gli amici milanesi.

  D’altra parte, e questo ci piace rilevarlo, gl’italiani non furono sempre giudici imparziali delle opere del tanto bistrattato autore francese. Da Parigi, ad esempio, Niccolò Tommaseo, dopo aver consigliato Cesare Cantù a scrivere un articolo alquanto severo sui romanzi del Janin, del Balzac. e simili, gli scriveva, il 7 aprile 1837, parole roventi come queste:

  «...che il Balzac sia accarezzato costà me ne duole più che d’una nuova invasione di barbari. Son queste, mio caro, le nostre piaghe; e di questo vivono i bachi che voi sapete. L’Azeglio non lo doveva presentare al Manzoni; ma l’Azeglio è un po’ su quel gusto. E a me disse spropositi degni d’un nobile piemontese. Dite piuttosto a codesta crassa galanteria milanese, che il Balzac è tenuto fino a Parigi per cosa ridicola e bassa; scrivente manierato senza la potenza di que’ che si creano una maniera; pittore minuzioso della parte materiale di certe cose, ignorante del resto, sterile sì di fantasia sì d’affetto. E’ egli vero che a Torino aveva seco costui una donna e lasciava credere che fosse la Sand? Di Milano dice bene ora che non c’è: uscito la giudicherà tutta quanta dai quattro nobilucci scoglionati che avranno riso delle sue villanie (mi perdonino i villani questa ingiuriosa metafora ...)».

  Non ci sorprende il fatto come il Tommaseo, uomo di eletto ingegno, magnanimo e virtuoso, sia stato indotto a scrivere simili bassezze non degne certamente della sua reputazione di scrittore e di uomo. Egli, del resto, moralista quale era, viveva in un (sic) rigida atmosfera di costumi e di moralità ed è comprensibile l’accusa infamante mossa al Balzac, accusa, secondo noi, lanciata più all’uomo che all’artista.

  Anche il Mazzini, etusiasta (sic) ammiratore ed amico di George Sand, ebbe severi giudizi contro il romanticismo e, quello che maggiormente importa, contro Honoré de Balzac che, come è noto, fu uno dei maggiori esponenti di tale scuola romantica francese. Assai significativo è il seguente brano dovuto alla penna dell’Aureggi tratto dal suo opuscolo:

  «... Era poi egli appena partito d’Italia che, anche tra noi, fu vociferato avere l’ingrato francese, in premio delle qui trovate accoglienze composto un sanguinoso libello. Ma tutto era perfida invenzione. De Balzac tornava, non da guari, nel nastro bel paese[11], colla sicurezza dell’innocente. Ma appena egli era ripartito si volle che de Balzac, venendo qui, sortiva da un carcere di Parigi. Ma finiscono una volta le atroci allusioni all’individuo. Chi di noi è scevro di debolezza getti la prima pietra. Alcuni anni sono si pretese attaccare nell’«Eco» un bravo nostro letterato con armi simili a quelle colle quali si vorrebbe oggi battere de Balzac.

  «Chiuderò questo mio umile cenno con alcune di quelle parole colle quali fu saggiamente allora riposto all’avvenire: l’alludere nelle dispute letterarie allo stato domestico della persona non è cosa permessa, e non saprei con qual onesto nome chiamarla. Giugno 1838».

  Nelle sue scorribande in Italia compiute negli anni 1837-38, non mancò di visitare oltre, come s’è detto, Torino, Milano, Genova. Venezia, Firenze, la Sardegna e Roma. Ovunque Balzac fu accolto con grandissima simpatia e dappertutto egli fu oggetto dell’attenzione e della curiosità pubblica.

  Il grande storico Cesare Cantù, spirito equilibrato e sereno, fu meno feroce del Tommaseo nel giudicare il romanziere. Dopo aver menzionato in un suo interessante scritto le opere lasciate dalla sua magica penna, conclude:

  «E’ franco ed abbondante parlatore, vago di mantenersi l’aggiunto de (de Balzac), che i più gli vogliono contendere, ma che egli sostiene con puerile affezione, dicendosi derivato da un’autentica famiglia gallese contemporanea dei Capeti. Poco studioso di libri, studiosissimo invece della natura e della società, dove il suo occhio penetrantissimo s’addentra investigando gl’intimi segreti rivelando il più tenue motivo che fa muovere un braccio, girare uno sguardo, allungare o ritirare una gamba, o una mano, e mille altri di questi piccoli atti, di cui i più non trovano alcuna significazione, con tanta perspicacia colorisce ed anima le sue scene, dove la società compare, in tutte le affezioni e minutezze, in tutti i complimenti, in tutta l’eleganza. Se non nobilita il secolo nostro, lo dipinge al vero, poiché le più tenui modificazioni sono quelle appunto che distinguendo la società nei diversi tempi, nelle diverse condizioni, nei diversi luoghi, come le piccole modificazioni d’una faccia distinguono vivamente due fisonomie, benché abbiano rassomigliantissimo il profilo, il naso, l’occhio, la bocca, la fronte, la pelle, insomma tutto ...».

  Nella conclusione di questo articolo, che, certamente, è mitigato da una giusta considerazione, il più sereno e il più imparziale tra quanti in quegli anni si scrissero su Balzac, Cesare Cantù, coglie, tra l’altro, l’intenzione dello scrittore nel creare tante scene, descrivendoci la società, gli ambienti in cui i molteplici personaggi balzacchiani si agitano, mostrandoci le virtù che li sostengono e i vizî che li deturpano.

 

***

 

  Nell’ottobre del 1845 e nell’aprile del 1846 Balzac visitò per l’ultima volta l’Italia. Per verità, non si può dire ch’egli abbia conosciuto il nostro paese in modo così intimo da trarne un opera colossale, ma le lettere che, ad esempio, egli ebbe ad inviare dalla Città Eterna, ove aveva raggiunto M.me Hanska e sua figlia Anna, alla sorella Saura (sic) Surville sono così riboccanti d’ammirazione stupefatta che dimostrano come Balzac ne abbia avuto un’impressione profonda: «E (sic) assolutamente necessario — scriveva — mettere da parte del denaro per andare a Roma almeno una volta nella vita, altrimenti non si conoscerà nulla dell’antichità, dell’architettura, dello splendore e dell’impossibile realizzati».

  Roma, in particolar modo, lo aveva così ammaliato sino a tal punto di decidersi a passarvi tutto l’inverno d’un altr’anno: progetto che, come tanti altri, non riuscì, però, a realizzare. Non è tuttavia inutile ricordare che il viaggio di Balzac a Roma fu determinato da uno dei suoi grandi amori, quello per la polacca signora Hanska, che, come è risaputo, ne confortò poi a Parigi gli ultimi tristissimi giorni.

  Il pittore Schneitz, allora direttore dell’Accademia di Francia a Roma, gli fece ottenere un’udienza col Papa Gregorio XVI, che succeduto a Pio VII nel 1831 doveva meritarsi il titolo di dotto amante delle arti. Il Santo Padre accolse il famoso scrittore con molta affabilità e gli donò un rosario benedetto per sua madre, dono che questi accolse con viva gratitudine.

  Ricorreva in quell’aprile la settimana Santa, e il Balzac potè ammirare la solennità e la grandiosità delle cerimonie sacre. Furono impressioni grandissime che rimasero scolpite nel suo animo. L’illuminazione di S. Pietro nel giorno di Pasqua «vaut à elle seule le voyage», e poi rimase commosso per la benedizione del Papa Urbe (sic) et orbi non meno per l’affluenza di cinquantamila forestieri e turisti di ogni parte d’Italia e dall’estero per la circostanza.

  «Io sono così contento — scriveva — da Roma, che ho l’intenzione di passarvi l’intero prossimo inverno, perché voglio conoscere tutte le gloriose bellezze storiche ed artistiche che la città dei Cesari racchiude.

  «Ora, siccome ci sono trecento chiese da visitare, pensa bene com’io non abbia visto che le principali. San Pietro supera ogni aspettativa, ma per la riflessione. Sono salito sino alla cima su cui è la croce. Occorrerebbe una settimana intera per dire di San Pietro! Figurati che la vostra casa di «rue du Houssaie (sic)» si distenderebbe agevolmente nella cornice d’una delle doppie colonne piatte del terzo piano interno della basilica. Niente sorpassa il «Miserere» del coro che è superiore a quello della Sistina, che non ho voluto ascoltare; ho preferito ascoltare due volte quello di San Pietro: il primo era una musica di angeli (Guglielmi); il secondo, ch’era una musica erudita (Fioravanti) m’è sembrata cattiva, sebbene l’esecuzione fosse perfetta.

  «Roma, malgrado il breve lasso di tempo trascorsovi, rimarrà uno dei più grandi e più bei ricordi della mia vita, e, nel caso che tu ci vada, tu saprai quale prova d’affetto a scrivere qualcuno, anche alla propria sorella; e bisogna ben amare la propria madre per portare a compimento un romanzo e degli affari invece di finirla tutto d’un colpo con questa grande cosa ...

  «Ti mando per mia madre il rosario detto «la corona» benedetto dal papa; vi unisco un piccolo scapolare e l’istruzione per recitare il rosario. Queste sono le ultime cose che Gregorio XVI ha benedette, come io probabilmente sono l’ultima persona straniera che egli ha ricevuto».

  «Forse, scrive M Jules Bertaut, nella sua visita a Roma il Balzac studiò il magnifico decoro della città santa per farne la cornice di qualche suo romanzo; ma la vita gli si abbreviava, e non potè tradurre in atto questo suo proponimento, che ci avrebbe lasciato un documento immortale del suo amore per l’Italia».

  Fra le più ragguardevoli persone conosciute in Roma è da ricordare il principe Michelangelo Caetani, duca di Teano, appartenente ad una delle più nobili e cospicue famiglie dell’aristocrazia romana.

  Il principe che, oltre ad essere un dotto studioso dell’Alighieri, sapeva disegnare e scolpire, e possedeva altresì una grande cultura letteraria ed artistica, accolse con molta simpatia lo scrittore francese, e gli fu compagno e guida in molte escursioni, tra le quali quella alle famose Terme di Caracalla sull’Aventino.

  Teneva il Caetani, in quei giorni, una serie di illustrazioni della Divina Commedia al palazzo Farnese, e ad una di queste intervenne il Balzac. La parola dotta e calda di italianità del patrizio romano, produsse una grande impressione nell’animo di lui; gliene fece dopo averlo ascoltato, vivissime congratulazioni; egli l’autore della Commedia Umana, aveva inteso parlare della Commedia Divina come non gli era mai avvenuto altra volta, e quest’impressione consacrò nella lettera dedicatoria della Cousine Bette, in cui dice:

  «Non è al principe romano, nè all’erede dell’illustre casa dei Caetani che ha dato dei Papa (sic) alla cristianità, è al sapiente commentatore di Dante che dedico questo minuscolo frammento di una lunga storia. Voi mi avete fatto scorgere la meravigliosa intelaiatura di idee sulla quale il gran poeta tialiano (sic) ha costruito il suo poema, il solo che i moderni possano [?: opposer] a quello di Omero. Fino al giorno in cui v’intesi, la Divina Commedia mi sembrava un immenso enigma la cui soluzione non era stata trovata da nessuno ed ancora meno dai commentatori. Comprendere così Dante vuol dire essere grande come lui; ma a voi tutte le grandezze, sono familiari ...».

  Questa sua improvvisa e sconfinata ammirazione per il divino poeta, e per colui che gliel’aveva fatto comprendere, ci rivela un Balzac ossequiente delle forme più singolari del genio umano; e varie e singolarissime ne ebbe quello di Dante.

  Con l’animo tutto invaso dal fascino della bella terra romana, e della grandezza e della solennità delle sue glorie consacrate, nei monumenti, il Balzac lasciò Roma alla fine d’aprile, e con Roma, M.me Hanska e sua figlia.

  Contrariamente a quanto compiacenti critici scrissero il romanziere francese non si mostrò per nulla sconoscente verso i suoi amici italiani. Come poter in qualche modo contracambiare le gentili accoglienze accoppiate da una sincera amicizia, da essi ricevute? A questi amici lo scrittore dedicò, quale pegno d’una fratellanza di spiriti e di gusti, ben dieci tra i suoi racconti e romanzi. Chi ben guardi il contenuto di esse non può negare che queste dediche sono un capolavoro di gentilezza. e per taluni lati, anche di galanteria.

  Infatti, nel dedicare Les Employés alla contessa Serafina San Severino, nata Porcìa, dopo aver ricordato il nostro Bandello che mandava le sue novelle a molti intimi, conclude che avrebbe voluto offrirle, piuttosto del romanzo, qualche poesia, a lei che aveva tanta poesia nell’anima e nel cuore, quanta ne emanava dalla sua persona.

  Nella dedica del romanzo Splendeurs et Misères des Cortisanes (sic), dedicato al fratello della precedente, Alfonso Serafino Porcìa, ciambellano dell’Imperatore d’Austria, e in casa del quale fu cortesemente ospitato, si legge fra l’altro:

  «Non è naturale che io vi offra i fiori di rettorica germogliati nel vostro giardino, inaffiati dai rimpianti che mi hanno fatto conoscere la nostalgia, e che voi mi avete addolciti quando erravo sotto i boschetti, i cui olmi mi ricordavano i Campi Elisi?».

  In un’altra dedica che si legge nel romanzo Une Fille d’Eve, dedicato alla contessa Bolognini-Vimercati, si legge quanto appresso:

  «Se voi ricordate, signora, il piacere che la vostra conversazione procurava a un forestiero, rammentandogli Parigi a Milano, non vi stupirà vederlo dimostrarvi la propria riconoscenza per le belle serate ch’egli trascorse accanto a voi, col porre ai vostri piedi una delle sue opere, ch’egli vi prega di proteggere col vostro nome, che già altra volta protesse alcuni racconti d’un vecchio autore, caro ai milanesi.

  «Voi avete una Eugenia, già bella, il cui spirituale sorriso assicura ch’essa erediterà da voi i doni più preziosi della donna, e che, certamente, proverà nell’infanzia tutte le gioie che una triste madre rifiutò all’Eugenia di quest’opera.

  «Voi vedete che, se i francesi sono accusati di leggerezza e di facile oblìo, io sono Italiano per la costanza e il ricordo. Il mio pensiero, scrivendo il nome di Eugenia, mi ha spesso ricondotto nella fresca sala ornata di stucchi e nel piccolo giardino del vicolo dei Cappuccini, testimoni della gaiezza della vostra cara bambina, delle nostre dispute, de’ nostri racconti. Voi avete lasciato il Corso per i tre Monasteri, e non so punto come voi vi troviate; son perciò costretto ad immaginarvi non più in mezzo alle gentili cose che indubbiamente vi circondano, ma come una di quelle figure di Carlo Dolci, di Raffaello, di Tiziano, dell’Allori, le quali sembrano astratte, tanto si staccano da noi.

  «Se questo libro, dunque, potrà valicare le Alpi, vi proverà la viva riconoscenza e la rispettosa amicizia del vostro umile servo».

De Balzac.

 

 

  [Raoul Vivaldi], Nota, in Honoré de Balzac, Eugenia Grandet ... cit, Roma, De Carlo Editore, 1944, p. 183.

 

  I personaggi che agiscono in questa storia si ritroveranno nelle seguenti opere:

 

  CHAULIEU (Eleonora di)

 

  Memorie di due giovani spose.

  Modesta Mignon

 

  GRANDET (Guglielmo)

 

  La Banca Nucingen.

 

  GRANDET (Carlo)

 

  La Banca Nucingen.

 

  KELLER (Francesco)

 

  Pace in famiglia.

  Cesare Birotteau.

  Gli impiegati.

  Il deputato di Arcis.

 

  LUPEAULX (Chardin des)

 

  La Musa provinciale.

  Vita di scapolo.

  Illusioni perdute.

  Gli impiegati.

  Splendori e miserie delle cortigiane.

  Orsola Mirouet.

 

  NATHAN (Sofia)

 

  La Musa provinciale.

  Illusioni perdute.

  Splendori e miserie delle cortigiane.

  Gli impiegati.

  Vita di scapolo.

  Orsola Mirouet.

  La falsa amante.

  Un principe della Bohème.

  Figlia d’Eva. (sic)

  Gli attori inconsci.

 

  NUCINGEN (Delfina di)

 

  Babbo Goriot.

  Storia dei Tredici.

  Cesare Birotteau.

  Melmoth. (sic)

  Illusioni perdute.

  L’interdizione.

  Splendori e miserie delle cortigiane.

  Modesta Mignon.

  La banca Nucingen.

  Altro studio di donna.

  Figlia d’Eva.

  Il deputato di Arcis.

 

  ROGUIN

 

  Cesare Birotteau.

  Vita di scapolo.

  Pierina.

  La vendetta.

 

  La presente edizione de La Commedia umana è condotta sull’edizione Calmann-Lévy di Parigi delle Oeuvres complètes de Honoré de Balzac, ed è quindi assolutamente integrale.

 

 

  Raoul Vivaldi, Due parole ai lettori, in Honoré de Balzac, All’insegna del gatto … cit., Roma, De Carlo Editore, 1944, pp. 5-8.

 

  Non è certo con poche parole ai lettori che si può pretendere di presentare un’opera così grandiosa qual è La Commedia umana di Balzac. Del resto, a presentarla da par suo, ha provveduto lo stesso Autore che, a questo proposito, ha scritto forse le pagine più interessanti, profonde di filosofia e ricche di vigore polemico.

  Più che una introduzione dunque, sarebbe opportuno uno studio sulla persona e sull’opera di Balzac. Ma a far questo, poche pagine non bastano, ed è perciò che, dando alla luce questa prima edizione italiana completa de La Commedia umana, si è pensato essere necessario riservare un volume della collana unicamente a tale studio, nel quale l’Autore e la sua opera verranno presentati con tutti gli onori loro dovuti.

  Questo proposito tuttavia non ci esime da qualche, cenno sulla, nostra fatica. E non a caso abbiam detto fatica, chè non solo la vastità dell’opera ha richiesto un lavoro di anni, ma la sua indole stessa è tale da destare non piccola preoccupazione in chi si accinga ad affrontarla.

  Il visconte Spoelberch de Lovenjoul che pure era tra i grandi amici ed ammiratori di Balzac chiama il di lui stile «faticoso e tormentato», il che si risolve in un tormento anche per il povero traduttore il quale, oltre a questa, che è sicuramente che è sicuramente la più grande, si trova poi di fronte a parecchie altre e non lievi difficoltà.

  Lo stile di Balzac è comunque lo scoglio maggiore in cui si urta chi voglia accingersi a tradurlo. Ma ancor meglio che tormentato e faticoso, ci sembra possa essere definito tutto a scatti e a pennellate, come i quadri di taluni pittori i quali, visti da vicino, non dicono nulla, ma osservati a giusta distanza e nella giusta luce, rivelano in ogni colpo di pennello e in ogni tono di colore, la mano del maestro.

  E qui appunto cominciano i guai, perché certi, quadri non si riproducono bene nemmeno in fotografia: figurarsi poi a tentare di renderli con lo stile dell’autore. E allora? allora non rimane altro che cercare di rendere il più fedelmente possibile il pensiero e l’animo di chi ha scritto, meno brillantemente, certo, di lui, ma forse in maniera più accessibile e, oseremmo dire, più gustabile dai lettori italiani. Perché, anche a leggere Balzac in francese, per poterlo pienamente gustare, occorre una padronanza della lingua, da preoccupare chiunque francese non sia.

  Come se ciò non bastasse, ad aggravare, questa già indiscutibilmente difficile situazione del traduttore, si aggiungono altre due osservazioni; da una parte, il tempo e l’ambiente, nei quali si svolge, l’azione di tutta la Commedia umana, dall’altro la conoscenza profonda e particolareggiata di tutti i più svariati argomenti che vengono trattati.

  Descrivere oggi, in modo comprensibile, come si viveva e come si pensava cento anni fa, è cosa molto meno facile di quanto non appaia a prima vista. Per dirne una fra le tante, basta ricordare che, in quell’epoca, i dagherrotipi — che oggi ci fanno sorridere — erano considerati come una meraviglia, e così di seguito. Come rendere, dunque, i mille particolari della vita quotidiana, dipinti con vivezza personalissima dall’Autore, in modo che il lettore di oggi riesca a vivere in essi e per essi senza sforzo eccessivo? Per ottenere un simile scopo si dovrebbe o postillare il testo con una quantità di annotazioni che finirebbero certo per diventare pesanti, oppure cercare di renderlo comprensibile, almeno nei punti più oscuri, adattandolo, ove si possa, alla concezione moderna.

  Se questo è già un grave intoppo, laltro non ha proporzioni minori e meglio non si potrebbe descrivere se non con le parole stesse di Paolo Bourget che, nella prefazione ad un’opera dedicata alla ricostruzione biografica della vita di tutti i personaggi della Commedia umana, così si esprime: «... Balzac sa anche quale fosse, in quell’epoca, lo spirito del paese, della provincia, del mestiere al quale il suo personaggio apparteneva. Egli si è informato del tasso della rendita e dello stato delle coltivazioni. Non ignora che Grandet non ha potuto far fortuna con gli stessi sistemi di Gobseck, suo rivale in avarizia, nè Ferdinando du Tillet, quello sciacallo, con la stessa larghezza di mezzi di quell’elefante di Nucingen. Ha constatato e misurato il rapporto esatto del personaggio al suo ambiente, come ha constatato e misurato i legami fra i suoi diversi personaggi: così bene che ognuno dei vari individui esiste di per se stesso come realtà personale e sociale e quello che si verifica per ciascun individuo si verifica anche per ogni famiglia».

  Tale e tanta è la competenza che dimostra in ogni questione, talora anche minima, da costringere il traduttore, se per caso costui non è profondamente versato in quel dato argomento, a formarsi in proposito una adeguata cultura per riuscire rendere convenientemente il pensiero e lo scritto dell’Autore.

  E per ultimo, lo stesso Balzac, nella sua prefazione, sembra voler mettere alla disperazione ogni traduttore allorché afferma di aver portato a compimento la sua opera nella lingua più difficile del mondo. Perché se la lingua francese è difficile, quella italiana non lo è meno, e conciliare le esigenze dell’una e dell’altra lingua, nel senso di conservare tutte le sfumature e le caratteristiche espressioni della prima senza offendere le bellezze della seconda, è lavoro che dà le vertigini. Se, e come il traduttore vi sia riuscito è quanto, come dice Balzac, dovrà decidere il pubblico.

  Tuttavia l’impresa è di quelle che attirano, che ammaliano anzi, perché mai panorama così vasto è stato aperto davanti agli occhi del lettore. Ed anche se si può notare, in Balzac un certo compiacimento nell’osservare e nel descrivere il lato più amaro e talora più crudele della vita – ed a ciò forse non sono estranee tutte le traversie che a lui toccò subire – le osservazioni di questo grandissimo scrittore sono così esatte, le sue pitture, d’ambiente così fedeli, i suoi tipi così reali, che tutta la sua opera ne riesce profondamente interessante e perfino educativa.

  Attraverso l’appassionante lettura dei vari volumi che verranno pubblicati secondo il piano enunciato dall’Editore, e insieme dallo studio su Balzac che abbiamo promesso, sarà possibile rendersi esatto conto della potente personalità del Nostro: intanto, per la migliore comprensione della Prefazione, dall’Autore premessa a quest’opera, riproduciamo una lettera che l’editore Hetzel indirizzava nel 1842 al Balzac.

  La lettera dice:

  «Mio caro Balzac, non è possibile, riprodurre quelle prefazioni firmate Felice Davin. Hanno tutta l’aria di essere state scritte quasi tutte da voi e firmate da un altro. Le trovo, quindi, per un tal motivo, estremamente malaccorte. Il loro effetto, in principio di un’opera capitale come la nostra edizione completa, sarebbe detestabile.

  Quelle prelazioni hanno qualche cosa di accademico che andrebbe bene, per un elogio o per una difesa, ma che manca al suo scopo in una prefazione che voglia soprattutto essere semplice, naturale, quasi modesta e sempre alla buona, senza pretese letterarie o altro. Un riassunto, una breve spiegazione, di quanto è stato scritto, firmata da voi, ciò che implica una grande sobrietà ed un grande senso di misura, ecco quello che ci vuole.

  Non è possibile che una vostra edizione completa, la più grande cosa che sui stata osata con le vostre opere, vada al pubblico senza essere, preceduta da qualche, pagina vostra.

  No; l’impresa avrebbe l’aria di una cosa trascurata da voi, suo padre, e la si direbbe un figlio ripudiato o per lo meno negletto dal suo autore.

  Ho letto quel che avete cominciato. Mi è sembrato meglio di tutto il resto; ha un tono migliore. Riassumete, riassumete il più modestamente possibile. In questo risiede il vero orgoglio, quando si è compiuto quello che voi avete compiuto. Raccontate la vostra storia tranquillamente. Figuratevi vecchio, staccato da tutto, anche da voi stesso. Parlate come uno dei vostri eroi e farete una cosa utile, indispensabile.

  All’opera, grosso padre, permettete ad un magro editore di parlare così a Vostra Grassezza. Voi sapete che l’intenzione è buona.

  È una pubblicità da fare. Se sapessi scrivere, la scriverei io; in materia di pubblicità val meglio un mercante che un poeta.

  Come! noi pubblichiamo i vostri libri che compariranno per la prima volta sotto il titolo unitario di La Commedia umana e la prima riga non suonerà così:

  “Ho dato questo nome (La Commedia umana) alle mie opere complete per le seguenti ragioni ecc. ecc.”? E dopo troverete il modo di dire che, se siete stato parecchie volte attaccato, molto meno nelle vostre opere che nella vostra persona, ciò prova forse che la vostra persona è meno nota delle vostre, opere. Che sicuramente voi non potete essere biografo di voi stesso, ma che vi sono tuttavia alcuni errori, da una parte, e alcune menzogne (dall’altra) che occorre rettificare! Che si è potuto dir male di voi come di chiunque altro, ma che non vi avrebbero dovuto calunniare! Che è stato un torto il farlo perché era facile e senza pericolo, dato che voi non avete mai risposto ad un attacco diretto contro la vostra persona!

  Bisogna dire anche che avete avuto molto da lodarvi dei vostri critici che si sono tanto mele intesi tra loro, sia per lodarvi come per criticarvi, così che gli uni vi hanno concesso quanto altri vi rifiutavano e viceversa! La critica è piena di fatuità! Alcuni hanno sperato di far fare un passo innanzi all’Umanità – per servirmi della loro espressione – scrivendo sull’argomento in due colonne, di giornale, e urlerebbero con tutte le loro forze contro un autore che dicesse la metà di queste tre parole: un passo all’Umanità!

  Chiacchiero ... e vi dico addio. Vi ho lasciato che stavo bene e mi sono trovato ammalato per due giorni, e lo sono ancora.

  Adesso, grosso padre, mettetevi, in condizioni di marciare o bisticceremo. Attaccatevi alla vostra macchina. Noi siamo le ruote, siatene voi il vapore.

  Vi attaccano da tutti i lati: da una parte Old Nick, dall’altra la Rivista di Parigi con quel rospo di Chaudesaigues».

  Con questo, la prefazione assume tutto un altro sapore e rivela un nuovo interesse; essa ci accosta ancor meglio ed ancor più alla potente personalità dello scrittore e acuisce in noi — se pur ve ne fosse bisogno – il desiderio di penetrare ben addentro nell’opera di questo gigante che non ha forse il suo secondo in alcuna letteratura.

  Ed ora si possono finalmente concludere le due parole di presentazione che, senza volerlo, sono state molte di più. Ma come si può mantenersi in ristrettissimi limiti quando si parla di Balzac e della sua opera?

  Una cosa ci conforta, ed è che il far conoscere Balzac a chi ancora non lo conosce, o lo conosca solo per i suoi libri più celebri i quali non sono i soli notevoli, sia opera meritoria anche se, più di una volta, questa Commedia umana lascerà un po’ di amaro nel cuore. Ma si tratta di un amaro tonico che è molto spesso temperato e condito dal più fine e sottile umorismo che vi è profuso a piene inani. Ma Dio ci guardi dall’andare fuori dei limiti che ci siamo imposti in queste Due parole ai Lettori. Ci si perdoni perciò, se rimandiamo i nostri amici al volume, cui accennavamo in principio: Storia di Balzac e delle sue opere, con il repertorio della «Commedia umana», a cura di Salvatore De Carlo.

  Intanto auguriamo al Lettore buona lettura: con l’augurio che egli ritragga da essa altrettanta soddisfazione, quanta noi ne abbiamo provato nel tradurre.

 

NOTA, pp. 247-248.

 

  I personaggi che agiscono nelle seguenti opere si ritroveranno in quelle a fianco di ciascuno indicate.

 

ALL’INSEGNA DEL GATTO CHE GIUOCA A PALLA.

 

  Guillaume: Cesare Birotteau.

  De Sommervieux (Augustina): Cesare Birotteau.

  De Sommervieux (Teodoro): Gli impiegati – Modesta Mignon.

  Lebas (Virginia): Cesare Birotteau – La cugina Betta.

  Lebas (Giuseppe): Cesare Birotteau – La cugina Betta.

  Roguin (signora): Cesare Birotteau – Pierina – Una doppia famiglia – Figlia d’Eva (sic).

  Carigliano (duchessa di): Illusioni perdute – I contadini – Il deputato di Arcis.

  D’Aiglemont (Vittorio): La banca Nucingen – La donna di trenta anni.

  Birotteau (Cesare): Cesare Birotteau.

  Camusot: Illusioni perdute – Casa di scapolo – Il cugino Pons – Una Musa provinciale – Cesare Birotteau.

  Cardot (Giovanni): Incomincia una vita – Illusioni perdute – Casa di scapolo – Cesare Birotteau.

 

IL BALLO DI SCEAUX.

 

  Fontaine (conte de): Gli Sciuani – Modesta Mignon – Cesare Birotteau – Gli impiegati.

  Fontaine (Emilia): Cesare Birotteau – Orsola Mirouet – Figlia d’Eva.

  Fontaine (Baronessa de): Una Musa provinciale.

  Fontaine (viscontessa de): Fra le quinte della storia contemporanea.

  Kergaroüet (conte de): Il Borsellino – Orsola Mirouet.

  Luigi XVIII: Gli Sciuani – Fra le quinte della storia contemporanea – Un losco affare – Splendori e Miserie delle cortigiane – Il giglio nella valle – Il colonnello Chabert – Gli impiegati.

  Dudley (lady Arabella): Il giglio nella vale – La pelle di zigrino – I segreti della principessa di Cadignan – Figlia d’Eva – Memorie di due giovani spose.

  Vandenesse (marchese Carlo de): La donna di trent’anni – Incomincia una vita – Figlia d’Eva.

  Manerville (Paolo): Storia dei Tredici – Illusioni perdute – Un contratto di matrimonio.

  Baudenord (Goffredo): Un grand’uomo di provincia a Parigi – La banca Nucingen.

  Rastignac (Eugenio de): Babbo Goriot – Illusioni perdute – Splendori e miserie delle cortigiane – L’ultima incarnazione di Vautrin – La pelle di zigrino – I segreti della principessa di Cadignan – Figlia d’Eva – Un losco affare – La banca Nucingen – La cugina Betta – Il deputato di Arcis – Attori inconsci.

  Portanduère (Saviniano de): Splendori e miserie delle cortigiane – Orsola Mirouet – Beatrice.

 

IL BORSELLINO.

 

  Schinner (Ippolito): Casa di scapolo – Pietro Grassou – Incomincia una vita – Alberto Savarus – Gli impiegati – Modesta Mignon – La falsa amante – Attori inconsci.

  Kergaroüet (conte de): Il ballo di Sceaux – Orsola Mirouet.

  Du Halga (cavaliere): Beatrice.

  Souchet (Francesco): La falsa mante – Figlia d’Eva.

  Bridau (Giuseppe): Casa di scpolo – Illusioni perdute – Incomincia una vita – Modesta Mignon – Altro studio di donna – Pietro Grassou – Memorie di due giovani spose – La cugina Betta – Il deputato di Arcis.

  Molineaux (G. Battista): Una doppia famiglia – Cesare Birotteau.

 

LA VENDETTA.

 

  Napoleone Bonaparte: Un losco affare – Il colonnello Chabert – Pace in famiglia – Fra le quinte della storia contemporanea – La donna di trent’anni.

  Thirion (Amelia): Cesare Birotteau – Il salotto delle anticaglie – Splendori e miserie delle cortigiane – L’ultima incarnazione di Vautrin – Il cugino Pons.

  Roguin (Matilde): Pierina.

  Vergniaud (Luigi): Il colonnello Chabert.

  Bidault (detto Gigonnet): Gli impiegati – Gobsek (sic) – Cesare Birotteau – La banca Nucingen – Figlia d’Eva.

  Magus (Elia): Il contratto di matrimonio – Casa di scapolo – Pietro Grassou – Il cugino Pons.

 



[1] Balzac in Italia – Casa Ed. Treves, Milano 1920. [N. d. A.].

[2] Il Salotto della contessa Maffei – Casa Editrice Garzanti, già Treves, Milano. [N. d. A.].

[3] Emile (sic) de Girardin: La canne de Balzac – Calmann-Lévy, Paris, 1885. [N. d. A.].

[4] Milano, Pirola 1839. [N. d. A.].

[5] Lettera del poeta Andrea Maffei pubblicata nella Nuova Antologia nel 1916 da Cesare Olmo. [N. d. A.].

[6] Abbiamo già detto che Andrea Maffei era impiegato al Tribunale d’Appello di Milano. [N. d. A.].

[7] Balzac faceva credere che le sue “affaires”, per le quali era sceso a Milano, erano finite; cosa assurda in sì breve tempo, trattandosi di grovigli amministrativi e legali; se fossero esistiti, ne avrebbero richiesto molto tempo, date anche le solite lentezze burocratiche.

[8] Vecchio amico di casa Spinelli. [N. d. A.].

[9] E’ quella che ha per titolo La demoiselle de magasin. N. d. A.].

[10] Lo sposalizio della Vergine, della prima maniera di Raffaello, ce si conserva a Brera. [N d. A.].

[11] Rivide, infatti, Milano, nella primavera del 1838, di ritorno dalla Sardegna e ne fu contento. [N. d. A.].


Marco Stupazzoni

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