domenica 10 novembre 2019



1943

 


 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, La Fisiologia del matrimonio di Honoré de Balzac. Traduzione di S. G. V., Milano, Casa Editrice “Attualità” (Stabilimento tipografico Società Editoriale «Cremona Nuova»), (ottobre) 1943 («Le Cavalcate dello spirito», a cura di Carlo Brighenti, 6), pp. 269.

 

  Questa nuova traduzione integrale dello studio analitico balzachiano ci pare, nel complesso, corretta e fedele al modello originale.

 

 

  Onorato di Balzac, Modesta Mignon. Traduzione di Ada Sori, Firenze, Vallecchi Editore (Stab. grafici A. Vallecchi), 1943 («Biblioteca Vallecchi», 72), pp. 412.

 

  Cfr. 1940.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Aspetti del tempo d’oggi. Neofiti ai fornelli, «Corriere della Sera», Milano, Anno 68, N. 226, 24-25 Settembre 1943, p. 2.

 

  Balzac ha detto che «gli uomini si appassionano di più quelle donne che sanno preparare appetitose vivande». Se non è vera, è però probabile. La cucina — chi non lo sa? è uno dei siti più delicati della casa e dell’economia domestica. […].

  Vera o inventata la frase di Balzac, è indubbio che gli uomini amano di più le loro donne quando esse, alle virtù di madri e di spose, aggiungo-no quelle di sagge amministratrici delle aziende familiari. Vi ordine morale dove v’è ordine economico.



  Andate pure a raccontarlo, «Il Travaso delle idee», Roma, Anno 11, N. 12, 17 Ottobre 1943, p. 3.

 

 Inchiesta per gli illeciti guadagni. Balzac ha scritto:

 «Gli arricchiti sono come le scimmie di cui hanno l’abilità; vedendoli salire si ammira la loro agilità nella scalata, ma giunti alla cima non si vedono se non le parti vergognose». [citazione da Le Lys dans la vallée].

 

 

  C. A., Parigi nel giudizio di Balzac di M. H., in «National Zeitung», di Essen, 6 Novembre 1942, «Minerva. Rivista delle Riviste», Torino, Anno LIII, N. 7, Luglio1943, pp. 158-159.

 

  Dal 14 giugno 1940 i soldati tedeschi sono a Parigi, già occupata ripetute volte dalle truppe germaniche vittoriose. Ma l’occupazione della città questa volta avvenne in circostanze ben diverse del 1815. […].

  Certamente anche il parigino non è più quello d’un tempo, anche su di esso la nostra epoca essenzialmente tecnica ha lasciato la sua impronta, ma è pur sempre interessante il giudizio sui parigini pronunciato da Balzac un secolo fa. Fra l'altro egli scrisse: «Il parigino pare interessarsi a tutto, ma in fondo nulla lo attrae. Il suo viso, presto logoro dalle lotte della vita, è freddo, grigio come l’intonaco delle sue case. Oggi un fatto lo lascia assolutamente indifferente, domani al contrario può appassionarlo vivamente; in fondo, a qualunque età, il parigino vive come un bimbo. Brontola su tutto, ma si consola rapidamente; rinunzia facilmente a ciò che poco prima adorava: il suo re, le glorie militari, gl’ideali, tutto butta via come un paio di calze o il suo cappello. L’intensa vita di Parigi addormenta la sensibilità; ci si lascia trascinare dalla corrente generale. Questa società non differenzia il misero dal grande, l’utile dal dannoso; il probo e l’intelligente stanno alla pari del furfante e dello sciocco. Tutto sopporta: governo, ghigliottina, colera ... La fatica improba dell'operaio, la perniciosa influenza di teorie scettiche, l’insaziabile brama di piaceri del ricco, ecco ciò che traspare dal volto del parigino. Un viso fresco, leggiadro, veramente giovane è una rara eccezione. Se lo trovi è certamente un giovane prete molto devoto o un corpulento abate quarantenne; una fanciulla di puri costumi, come ancora ne trovi nell’ambiente borghese o una sposa ventenne, che allatta il primo nato e vive in un mondo di sogni; un giovane giunto di fresco dalla provincia, senza un soldo in tasca, o un manovale, che verso mezzanotte si corica stanco morto dal continuo lavoro della giornata per alzarsi alle sette; un artista o uno scienziato, che vive in un’atmosfera superiore, dove si mantiene equilibrato e casto; uno sciocco presuntuoso, pieno di salute, che non si occupa di nulla e ride pur di se stesso o uno di quei bighelloni sfaccendati, che beatamente si gode la cangevole poesia di Parigi».

  Questo giudizio risente certo di quella tendenza all’esagerazione, che allo stile già così vigoroso di Balzac, aggiunge vigore. Chi conosce il parigino nelle sue qualità e nei suoi difetti può anche respingerlo. Lo stesso Balzac, pur criticando aspramente il parigino, ne era innamorato. L’abbagliante vita parigina, che in ogni secolo ha corrotto tanti uomini, gli era necessaria per vivere e lavorare. Questo instancabile scrittore avrebbe potuto creare le sue opere ritirato in un tranquillo angolo di Francia, ma non poteva rinunciare alle vive, innumerevoli impressioni della vita parigina di cui fu sempre prigioniero. Egli la visse come nessun altro in tutti i suoi aspetti e probabilmente ne fu vittima. Morì logorato dal lavoro esagerato e dalle preoccupazioni finanziarie. Falsa o vera, l’arte di Balzac ci rivela tuttavia la vita di Parigi nei suoi aspetti più reconditi ed impressionanti.

 

 

  Akka, Periscopio. Anche il tavolino parlante volle giudicare il “romanziere delle donne”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 68, N. 7, 8-9 Gennaio 1943, p. 3.

 

  Postilla – Il 1942 è passato e nessuno ha pensato a un certo centenario; non di un autore, e nemmeno di un’opera; di un titolo appena — ma che titolo! —: Comédie humaine. Per comprendere i 97 romanzi del ciclo, Balzac. lo decise nel 1842. Un solo cenno commemorativo ne ho trovato in un giornale religioso. L’articolo era intitolato «Balzac e la Chiesa»[1]; e questo solitario ricordo, malgrado l’Indice abbia segnato, com’è noto, tutte le fabulae amatoriae del grande romanziere, mi pare un omaggio prezioso alle sue intenzioni riformatrici. Certo, per giungere a queste bisogna lavorare un poco. L’opera di Balzac è un mare. Bisogna tuffarsi per cercare la perla. Correnti tempestose, e diverse agitano il fondo. Dal realismo balzacchiano derivano tanto Zola, anticlericale e sovversivo, quanto Bourget, tradizionalista e cattolico. Non è mia la domanda: «Chi dei due ha maggior diritto di rifarsi a Balzac?» A intorbidare le acque concorre poi qualche ricordo biografico. Per esempio il primo capitolo del romanzo con «l’Etrangère», siamo giusti, è un capolavoro di cinismo. E’ autunno, i monti della Svizzera sono già corsi dai primi venti freddi. Quel poveraccio del conte Hanski. uomo tirannico e atrabiliare, sia pure, ma comunque vecchio e ammalato, quindi meritevole di qualche rispetto umano, e innamorato e geloso, quindi degno di qualche coniugale misericordia, si è fermato là per non condurre la moglie a Parigi, città di perdizione Ed ecco, da Parigi arriva-Balzac: è l'amore che fa servizio a domicilio. E’ il 25 settembre 1883 (sic), salvo errore. Siamo a Neuchâtel. Ma il romanziere rivedrà Madame Hanska in dicembre e in gennaio a Ginevra, e in questi incontri i due innamorati rinnoveranno la loro promessa di sposarsi appena Hanski sarà morto. Lasciamo andare, questa trepida fiduciosa attesa della morte del marito, benché popolarizzata dalle «scene madri» del teatro borghese e sì ampiamente superata dai casi delle famigliole di ’O Neill, a pensarla nella realtà è qualcosa di obbrobrioso. Balzac aveva un bel catechizzare la Sand sulla necessità del matrimonio. (Ne discutevano talvolta per notti intiere. «Nous avons discuté avec un sérieux, une benne foi, une candeur, une conscience dignes des grands bergers qui mènent les troupeaux d’hommes, le (sic) grandes questions du mariage et de la liberté ...». Sì; e poi lui sarà tornato a casa sua a pregare per la salute di un marito!). Viene da pensare, che il destino abbia voluto punire Balzac, con la famosa partita di rincorrino, diciassett’anni attraverso tutta l’Europa dietro la donna amata, riuscendo a metterle il sale sulla coda e a sposarla soltanto cinque mesi prima della morte. Pare un’applicazione della «morale au fer chaud», come la chiamava lui stesso, («Presto o tardi siamo castigati di non avere obbedito alle leggi sociali!» dice un suo personaggio, il vecchio giudice, il cui figlio naturale è diventato ladro.)

  Personalmente, insomma. Balzac. non trovava modo di salvarsi da quei principi di disordine e di anarchia che l’amore seminava fra i protagonisti dei suoi romanzi, permettendo a lui di teorizzarci sopra in base alla religione e alla morale. Ogni sua pagina reca infatti la proposizione di un problema. Quasi sempre problemi d’amore. Lo stesso Spirito della Critica lo affermava. C’era a Jersey, in casa di Victor Hugo, un tavolino a tre gambe: vi sedevano Auguste Vacquerie, Charles Hugo e madame Hugo. Ebbene, il 24 settembre 1853, lo spirito venne e battè un colpo. Non era Eschilo, nè Shakespeare, nè Mosè: si annunciò come la Critica. Vacquerie (forse lo fece per stornare subito il discorso dai presenti, anche gli spiriti certe volte possono fare delle gaffes) subito gli domandò: «Che ne pensi di Balzac?» E la Critica: «E’ il porta-chiavi del cuore. Prima di lui il cuore femminile, era serrato». E poi: «Balzac è il Michelangelo della miniatura». (Lo diceva per distinguere dai poeti che avevano dato i grandi affreschi dell'amore, lui che invece aveva descritto soprattutto «les petites douleurs de cette immense souffrance»). Per tutto ciò Balzac meritò in certo senso il titolo di «romancier des femmes» (queste avevano anche altri motivi di riconoscenza verso il romanziere che aveva prolungato l’età legale dell'amore); e se, oggi, attraverso le varie e tempestose gonnelle di Ursula Mirouët e di Modeste Mignon, di Eugénie Grandet e di Rosalie de Watteville, la critica cattolica lo considera, e ricorda la testimonianza da lui resa alla morale e alla Chiesa, questo ci fa riflettere e ci ispira una postilla alla famosa prefazione alla Comédie. Permettete, signor de Balzac? Là, come tutti sanno, dopo aver reso omaggio a Geoffroy de Saint-Hilaire, si insiste nel parallelo fra le società umane e la natura: «Le differenze fra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un vagabondo, un sapiente, un uomo di Stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero, un prete, sono, benché più difficili a stabilirsi, così notevoli come quelle che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, il pescecane, il vitello marino, la pecora etc.» Nei romanzi, poi, si stabiliscono anche distinzioni fra i due sessi, nel senso che si attribuisce a ciascun d’essi una forma propria di sensibilità e di intelligenza; e così, una distinzione supplementare possiamo alfine stabilire noi fra autore e personaggio, attribuendo a ciascuno dei due ispirazioni, intenzioni e possibilità diverse, che da mille fonti e per mille vene si confondono e si mescolano in quell’abisso, che, pieno di misteri e di sorprese proprio come il mare, è il Genio dell’uomo.

 

 

  Francesco Argenta, Il codice della vita coniugale. La voce della specie, «La Stampa», Torino, Anno 77, Num. 57, 7 Marzo 1943, p. 3.

 

  C’è ancora un capitolo su cui la giurisprudenza insiste con mòniti ammaestramenti consigli. Ed è un capitolo decisivo, nella scala dei rapporti coniugali, ma anche il più tenebroso, il più delicato. Fra i doveri del coniuge è l’adempimento del debitum coniugale, che non è l’ultima o la minore (e, tuttavia, sia detto per incidenza, neppure la più detestabile) fra le obbligazioni nascenti dal matrimonio, questo immenso contratto, come lo definiva Balzac.

 

 

  Arturo Codignola, La turbinosa vita di Costante Ferrari. Due duelli mancati e un matrimonio, «La Stampa», Torino, Anno 77, Num. 104, 1 Maggio 1943, p. 3.

 

La fantasia di Balzac.

 

  Non creda il paziente lettore che ci ha seguito sino qui, che le memorie contengano soltanto avventure più o meno boccaccesche o donchisciottesche: l’idea di dettarle sorse nell’autore dal proposito ben fermo di non far perdere le tracce del valore italiano nella guerra di Spagna, assegnando ad ognuno il suo, sia che si trattasse dei connazionali, sia degli stranieri a fianco o contro i quali egli si trovò tanto tempo a combattere. Ed anche oggi, mentre si è così gravemente impegnati in questa gigantesca guerra, non è senza orgoglio che si leggono fatti ed episodi narrati con vivacità da uno spirito alacre in pagine che si leggono d’un fiato. […]. E le Memorie da lui dettate vogliono considerarsi anche come un’indiretta risposta, fra l’altro, alla denigrazione degli Italiani combattenti in Spagna, fatta dal Balzac nel romanzo Les Marana edito nel 1834, cui aveva già risposto Antonio Lissoni dimostrando come il grande romanziere mentisse allorquando affermava di aver attinto, scrivendo, a fonti non sospette di militari in buona fede. Facile compito quello del Lissoni e del Ferrari: sia sufficiente ricordare che se non vennero del tutto negate, dal fecondo romanziere, le imprese veramente leggendarie compiute in Ispagna dal più sublime degli eroi italiani che a tal guerra parteciparono, il bolognese Domenico Bianchini, tentò però di diminuirne l’importanza, presentando il purissimo eroe sotto vesti nientemeno che di un cannibale. Dichiara infatti il Balzac che il Bianchini, durante la campagna, aveva scommesso di mangiarsi il cuore di una sentinella spagnola; e riuscì a vincere la scommessa avendo mantenuto l’impegno!

 

 

  Giovanni Comisso, I sentimenti nell’arte, «Primato. Lettere ed arti d’Italia», Roma, Anno IV, N. 12, 15 Giugno 1943, p. 212.

 

  Certa tendenza dell’arte del settecento, che si può concretare nei romanzi nuovissimi di Voltaire, dove i personaggi così per nulla legati all’anima nella loro astrazione irreale potrebbero senza dolore essere tagliati a pezzi, ha determinato la tendenza alle decapitazioni insensibili della rivoluzione francese. A questa tendenza metafisica dell’arte esauritasi con una realizzazione di fatti conformi per la durata di circa quaranta anni, ha reagito quella romantica con Balzac, Stendhal e Flaubert decisa di lottare per l’affermazione dell’anima nel complesso prezioso dei sentimenti e delle passioni. E da essa ebbe origine un’epoca successiva dominata dal principio della considerazione umana.



  Lucio D’Ambra, Il passo della mia strada. Romanzo, Milano, A. Mondadori – Editore, 1943.

 

  p. 26. Donna ed uomo, invecchiando, non hanno il medesimo destino. La donna regge finché può. Balzac — la femme de trente ans, — metteva addirittura nel fiore degli anni la fine di questa resistenza. Pensavano così le nostre nonne. Le nostre mamme portarono il limite a quaranta. E le nostre gaie contemporanee oggi lo allungano — Dio le aiuti, — sino a cinquanta.

 

 

  Victor Hugo, Morte di Balzac, in Cose viste. A cura di Vasco Pratolini, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1943 («Universale Einaudi»), pp. 231-236.

 

 

  Riccardo Mariani, Balzac e il vaticinio del cinema, «Cinema», Roma, Anno VIII, Vol. I, Fascicolo 163, 10 Aprile 1943, pp. 201-202.

 

  Quando Daguerre nel 1842 riuscì a rendere possibile quella lastra di Niepce che si ostinava fin dal 1827 a dipingere nero il cielo ed a fare dei corpi puri fantasmi, scoppiò uno di quei fenomeni di entusiasmo universale di cui non abbiamo idea. […].

  Immaginiamo il contrasto che dovette provare Balzac, che pur avendo varato i due terzi della sua Comédie humaine, era ridotto nel dimenticatoio dal gran chiasso sollevato da quella stregoneria di Daguerre: i fedeli lettori dei suoi romanzi, ahimè, non fanno più la coda nelle librerie, bensì dal dagherrotipista, questo deus ex machina caduto sulla terra a metà secolo per la più grande rivoluzione della storia.

  Ferito, Balzac ha un’idea: scagliare l'anatema contro l’ars photographica. E così commette un duplice delitto, proprio contro quella decima musa da lui vaticinata nientemeno un decennio prima. Certo, demolendo l’idolo del giorno, egli riprendeva la sua posizione di celebrità.

  La memoria di questa curiosa trovata balzacchiana è raccomandata soltanto da uno scritto di Paul Nadar, Faces et et profils, ov’è rimasta dimenticata fino ad oggi. Il Nadar, uno dei primi iniziati alla nuova arte, ebbe l’onore d’una brevissima amicizia con Balzac, che s’era avvicinato a lui per studiare appunto la misteriosa operazione di Daguerre, Fu durante quelle incursioni nell’«atelier»» del dagherrotipista ch’egli espose una certa teoria sugli spettri, ritornando su di essa più volte. Il Nadar, tanti anni dopo, potè riferirla con assoluta fedeltà.

  In natura, diceva Balzac, ogni corpo è formato da una serie di spettri, e in strati soprapposti all’infinito, spettri sfogliati in pellicole infinitesimali, per tutti i sensi donde l’occhio può percepire il corpo stesso. L’uomo non potendo creare, cioè d’un’apparizione far cosa materiale, con ogni operazione del dagherrotipo non fa che sorprendere ritenere e in definitiva. sottrarre per sempre uno degli spettri al corpo, che perciò viene a perdere parte della sua essenza costitutiva.

  Pensiamo che il grande romanziere abbia voluto «étourdir le bourgeois», ma può darsi che in questa sua teoria ci sia tanto di paradossale quanto di vero, almeno per lui; specie se queste idee si riallacciano a quelle enunciate in altri suoi scritti, come vedremo. In ogni modo, una trovata abbastanza buona per presentarla ai «cugini» dello Cheval Rouge, la società segreta fondata da Balzac per ridere. Gozlan accettò per primo la teoria degli spettri e per primo anche la buttò a mare; mentre T. Gautier e G. de Nerval, pure associati, con Balzac formarono un trio che mantenne le sue posizioni fino a che, ormai snebbiato il mistero dell’operazione di Daguerre, poiché tutti ne conoscevano il processo fisico, correvano il rischio di coprirsi di ridicolo e di farsi fischiare come quel borghese veneziano che non volle metter l’occhio nel cannocchiale di Galileo.

  Così un bel giorno pure Balzac si decise a posare davanti all’obiettivo. Dopo vana resistenza si arresero anche il Gautier e il de Nerval. Balzac scriveva subito all’amica, la signora Hanska, il 2 maggio del 1842 per avvertirla dell’avvenimento: fin qui niente di straordinario, lo scrittore s’è fatta una daguerre, la manda alla lontana Amarilli (che non so se lo conosce già di persona). Ma Balzac nella lettera rivendica una parte non indifferente nella meravigliosa scoperta, che secondo lui si troverebbe in germe nelle Pensées da lui scritte come appendice dell’autobiografico Louis Lambert nel 1832 e pubblicate cinque anni prima dell’invenzione.

Si trattava di semplice pretesa, o c’era un fondo di verità nella sua affermazione?

  Sul letto di morte il giovane Louis Lambert – l’eroe che impersona la giovinezza di Balzac — soffia parole di un senso arcano, La donna che l’assiste ha voluto salvare queste straordinarie parti del suo genio e così ha appuntato alcune frasi, queste Pensées di tono profetico. Ecco lo stratagemma escogitato da Balzac per far digerire ai suoi lettori un sistema tanto ardito quanto per i tempi astroso, senza così compromettere la sua reputazione, per una simile bagattella.

  Chi scorre questo scritto vi trova strane reminiscenze d’idee presocratiche, e diciamo senz’altro «scolastiche», tanto sfiorano illustri signori come Anassimene, Pitagora, Aristotele e … perfino Schopenhauer.

  Alle prime avvisaglie della scoperta di Niepce è probabile che Balzac si sia interessato vivamente alla cosa, fino a sentire la necessità di mettere insieme queste idee — non certo tutte originali ma pure combinate con intenzione — per spiegarsi la rappresentazione del mondo attraverso l’occhio nuovo fisico, strumento e misura di tutte le cose: la macchina fotografica.

  Balzac crea tutto un sistema, non già da filosofo, come pensa, ma d’artista che vuol rifare tutto da capo il mondo per un godimento della sua fantasia e unicamente con questa macchina che vede. Perciò, più che una anticipazione del dagherrotipo, come egli pretende nella lettera, queste Pensées possono interpretarsi come un vaticinio abbastanza ingegnoso dell’avvento delle immagini semoventi. Fino a qual punto giudicherà il lettore.

  Qualcuno penserà che ci si trova di fronte ad una Centuria di Nostradamus. Che rispondere? sarebbe un onore, semmai, per Nostradamus Ma poiché si va a cercare nell’astrologo la conferma e la spiegazione di fatti reali che ci riguardano, noi che viviamo l’età del cinema, possiamo anche leggere senza forzar le parole queste Pensées, in funzione della nostra esperienza.

  Seguiamo il pensiero di Balzac, anche se a sufficienza tortuoso.

  Nel mondo tutto è prodotto da una sostanza eterea che nell’insieme delle sue trasformazioni noi chiamiamo materia. Il cervello è il matraccio ove l’animale trasporta le organizzazioni che può assorbire della sostanza, e donde esse escono trasformate in volontà: la volontà un fluido, attributo di ogni essere dotato di movimenti, (nel mondo tutto è opera del movimento e del numero, il movimento è il numero operante, prodotto di una forza creata dalla parola e dalla resistenza, la materia; con questa resistenza il movimento produce una combinazione, la vita). Se la volontà è un fluido proprio di ogni essere dotato di movimento, tutte le forme di cui fa mostra l’animale provengono dalla sua combinazione con la sostanza. La volontà partecipa della sostanza che ritrova in tutte le trasmutazioni penetrandole col pensiero, il quale è un prodotto della volontà umana combinata colle modificazioni della sostanza. Le innumerevoli forme che ostenta il pensiero derivano dalla maggiore o minore perfezione dell’apparecchio umano (il cervello, questo matraccio). La volontà ci dà l’intelligenza di tutte le forme della sostanza, cioè come vita particolare, e però si esercita per mezzo dei cinque sensi, i quali si riducono ad uno solo, «la facoltà di vedere». L’odorato, il gusto, l’udito e il tatto rappresentano soltanto una vista adattata a certe trasformazioni della sostanza. Tutte le cose che per la forma rientrano nel dominio del senso unico, la facoltà di vedere, si riducono ad alcuni corpi elementari, i principi dei quali sono nell’aria e nella luce, se non proprio nei principi dell’aria e della luce. Così, suono, colore, profumo e forma, le quattro espressioni della materia in rapporto all’uomo, hanno una stessa origine, car le jour n’est pas loin où l’on reconnaitra la filiation des principes de la lumière dans ceux de l’air.

 

  Perciò il pensiero che partecipa della luce si esprime colla parola che partecipa del suono. Quando la sostanza è assorbita di numero sufficiente (poiché tutto proviene dalla sostanza per l’azione del pensiero e le trasformazioni della sostanza non differiscono che per il numero) allora l’uomo diventa un apparecchio potentissimo, che comunica coi principi stessi di questa sostanza. La volizione mette in opera questa forza indipendente del pensiero, e per la sua concentrazione ottiene qualcuna delle proprietà della sostanza, come la rapidità della luce, ecc. A queste proprietà della sostanza acquisite colla volizione, bisogna aggiungere l’intelligence de ce qu’elle peut (la sostanza). La parola genera incessantemente la sostanza. I fatti non sono nulla, non esistono: sussistono sole le idee: il mondo delle idee è suddiviso nelle sfere dell’istinto, dell’astrazione e della specialità. La parte più grande dell’umanità abita la sfera dell’istinto Agli istintivi l’azione, i fatti non pensano, e però nascono lavorano e muoiono senza elevarsi alla sfera dell’astrazione, ove si creano le leggi e le arti. Soltanto la specialità è la sfera vicina agli dei («spécialité, species, vue, spéculer, voir tout, et d’un seul coup, speculum, miroir ou moyen d’appresier (sic) une chose en la voyant tout entière»), Lo specialista è l’iniziato alla nuova visione del mondo. «Aussi, peut-être un jour le sens inverse de l’Et verbum caro factum est sera-t-il résumé d’un nouvel Evangil (sic) qui dira: Et la chair se fera te verbe, elle deviendra la parole de Dieu». L’angelo portato dal vento per la resurrezione, non dirà «Morts, levez-vous!». Dirà invece: «Que les vivants se lèvent!».

  L’apparecchio di tutto questo ingegnoso processo per cui le immagini si risolvono in volontà, cioè in movimento, assumendo così intelligenza, vita (pensiamo ad un pezzo di pellicola), nella mente di Balzac è un qualcosa di non molto diverso dal vaso di vetro che i chimici usano per la distillazione, il matraccio: questo matraccio è come un altro cervello, è la macchina di Niepce: la nostra macchina da presa. Alcune delle infinite immagini del mondo passando per il matraccio, si commutano in volontà, movimento, e in immagini. Il nuovo verbo.

  Nel secolo scorso si dette nessun peso a questa teoria di Balzac, i tempi non erano maturi a capire le intenzioni — certo fantastiche — di queste Pensées. Ma noi che siamo in pieno esperimento cinematografico — il cinema per la parte decisiva che avrà nella formazione dell’avvenire del mondo in certo modo è ancora, come dicono, all’infanzia — noi possiamo considerarle come genialmente intuite, anche se troppo vaghe e un poco oscure. Però Balzac ci ha capito abbastanza perché possa a noi servire d’anello fra i dagherrotipisti d’ieri e i cineasti d’oggi.

  Non è un nostro gratuito giudizio. Il lettore che ci ha seguito, pur essendo ferratissimo in cose cinematografiche, se dovesse andare nella immaginaria città di Bengodi a illustrare a quei fortunati e ingenui cos’è il cinema — s’intende soltanto a parole — forse non potrebbe valersi di argomentazioni molto diverse da queste di Balzac. Certamente dovrebbe presentare questo nostro cinema in senso tutto ontologico. Come hanno tentato gli antichi, che davvero l’hanno sospirato.

  Balzac ha avuto una felce intuizione di ciò ch’è cinema, ma come in sogno; non da filosofo, malgrado la pompa di questi (sic) Études Philosophiques.

  Di fronte all’artista però non diciamo come quel pensatore: «Cest drôle!».

 

 

  Walter Minardi, Balzac in Sardegna alla ricerca della fortuna, «il Resto del Carlino», Bologna, Anno 59, Numero 57, 8 Marzo 1943, p. 3.

 

  Un movimentato e inutile viaggio fino alle miniere d’argento di Alghero – Fallitogli questo estremo tentativo di conquistare la ricchezza lo scrittore torna al suo fecondo lavoro letterario.

 

  In una caricatura disegnata di sua mano e donata alla contessa Bolognini-Attendolo-Vimercati, Onorato di Balzac si era raffigurato fra i suoi sogni (sacchi di denari) e la sua realtà (la prigione per debiti); così, sia pure scherzosamente, l’autore di «Papà Goriot» accusava la sua cupidigia per quello che gli astemi della finanza definiscono il «vile metallo». Infatti Balzac, oltre che invasato dalla smania di grandezza — che gli dettò il famoso motto «Ciò che non ha compiuto Napoleone con la spada lo compirò io con la penna» — era acceso da una vera febbre dell’oro che lo faceva sognare favolose ricchezze da Mille e una notte — spingendolo ad arrischiare le più pazze speculazioni che naufragavano sempre in un mare di cambiali.

  A 25 anni si mette in testa di non scrivere più libri ma di venderli e acquista una stamperia in via Saint-Germain dove si mette a pubblicare le opere di La Fontaine ma dopo breve tempo è costretto a liquidare l’azienda assediata dai creditori.

 

Centomila ananassi.

 

  Un’altra delle tue balorde speculazioni che avrebbero dovuto renderlo milionario fu quella degli ananassi. Gli era venuto in mente che coltivando una piantagione di ananassi nel territorio parigino ci fosse da far quattrini a palate. Secondo i suoi calcoli, mettendo a dimora centomila piante che avrebbero dato migliaia di frutti da vendersi a 5 franchi l’uno, si sarebbe potuto guadagnare quattrocento mila franchi all’anno. Infatuato da quest’idea, prende in affitto una casetta con annesso giardino nei sobborghi di Parigi e progetta di affittare, anche una bottega nel centro della città per la vendita di quei frutti esotici. Fortunatamente interviene il suo amico Gautier che riesce a dissuaderlo, evitandogli un altro dissesto.

  Ma intanto le sue condizioni finanziarie agonizzano per i continui salassi e la febbre dell'oro si fa più bruciante che mai. Occorre pagare il sarto Buisson che avanza per quattromila franchi di vestiti; e poi c’è un grosso conto da saldare alla drogheria del «Mortaio d’argento» per caffè e candele. In uno scaffale della sua biblioteca, accanto ai «Contes drolatiques», il grande Onorato vi ha inserito un volume rilegato in cui è scritto «Contes mélanconiques» che contiene la copiosa nota dei debiti. Per tacitare la cagnara minacciosa dei suoi creditori Balzac si rituffa nell’estro febbrile della creazione che più consente di baloccarsi coi milioni immaginari del banchiere Nuncingen e di trasferire i suoi progetti megalomani fra le speculazioni dell’usuraio Gobsek (sic).

  Per alcuni mesi di seguito lavora 16 o 18 ore su 24. Egli non accorda all’animalità che 6 ore di sonno penoso e convulsivo, prodotto dal torpore della digestione dopo un pasto frettoloso. Impaludato nel candido saio domenicano, egli lavora come un forzato, senza concedersi tregua, ingollando tazze su tazze di caffi che gli devastano il sistema nervoso.

  Gli occorre denaro, molto denaro, e per guadagnarlo egli si assoggetta ad un lavoro da Sisifo. Ed è grazie a una volontà sovrumana, sorretta da un temperamento d’atleta e da una reclusione da monaco, che Balzac riesce a edificare il colossale monumento letterario della «Commedia umana» che sbalordisce e sconcerta.

  In realtà, Onorato di Balzac, che i maligni definivano «il romanziere all’ingrosso», guadagnava molto ma spendeva il doppio. A Parigi c’era soltanto Eugenio Sue che lo battesse in fatto di guadagni. con la sua bustarella di 15 mila franchi che l’amministrazione dei teatri gli passava settimanalmente per i suoi diritti d’autore; nessuno però superava Balzac nel tono di vita sfarzoso e nella specialità di volatilizzare le banconote di grosso taglio. Egli possedeva uno splendo cocchio guidato da un gigantesco auriga in palandrana azzurra e si serviva di un nano fatto venire espressamente da Lilliput per portare i dispacci. I suoi domestici indossavano la livrea color tabacco con le iniziali in oro H. B. sormontate dallo scudo d’Entraigue, pretendendo egli di discendere da quella nobile stirpe; e a qualcuno che gli fece osservare come il suo casato non avesse alcun rapporto con quello patrizio dei d’Etraigues egli rispose: «peggio per loro!».

  In definitiva, il tono della vita di Balzac era quello di un «blaguer (sic)» che gongolava quando poteva «épater» il suo prossimo. Una sera al teatro dell’Opera disse vantandosi a un crocchio di amici: «E pensare che in questo momento in casa mia ardono trecento candele». Nessuno ci volle credere e infine la brigata si incamminò per un sopraluogo verso la casa di Balzac dove fu constatato che, effettivamente, l’appartamento era rischiarato da trecento candele.

  Era venuto in rapporti con l’editore Werdet, che gli apriva la cassa con una certa buona grazia, e il romanziere lo esortava ad essere per lui quello che era stato Archibald Constable per Walter Scott. Questo privilegio non era senza inconvenienti per l’editore Il quale doveva continuamente sborsargli forti anticipi per soddisfare le sue smanie da Nababbo. Il guaio era che l’autore di Vautrin aveva fatto suo il motto di Blondet: «Il denaro degli stupidi è per diritto divino il patrimonio della gente di spirito» e coloro che si arrischiavano a fargli credito rivelavano una deplorevole tendenza all’autolesionismo. Werdet si stancò di allentare i cordoni della sua borsa e ruppe i rapporti con lo scrittore. Allora cominciarono per il grande Onorato giorni durissimi. Oberato dai debiti deve disfarsi della sua proprietà, «Le Jardes (sic)», che brulica d’ipoteche. L’aria di Parigi diviene opprimente per lui; egli si sente affaticato come un «galérien de plume» per il grande sforzo mentale che gli è costato il «Luigi Lambert», per cui ne risente tali emicranie che assomigliano a veri attacchi di follia.

  Occorre cambiare aria, e soprattutto sottrarsi alla muta accanita dei creditori che non gli dà tregua.

 

I viaggi in Italia.

 

  Da qualche tempo Balzac covava il progetto di un viaggio in Sardegna avendo saputo che esisteva colà un’antica miniera d’argento lasciata in abbandono e che avrebbe dovuto racchiudere favolose ricchezze; e ora davanti al suo sguardo sorge la visione allettante di quella terra promessa, come una fata Morgana. Decide di partire per l’Italia,

  Balzac amava molto l’Italia. Dal 1836 al 1838 vi fece tre viaggi successivi che gli lasciarono dei ricordi e delle nostalgie. Nell’agosto 1836 lo scrittore venne in Piemonte in compagnia di Carolina Marbouty, letterata che aveva acquistato un certo nome sotto lo pseudonimo di Clara Brunne. Costei vestiva da paggio imitando George Sand e si faceva chiamare Marcel. Essa non era che un’amichetta, per Balzac che da tre anni amava madame Hanska, la nobile polacca divenuta sua moglie alcuni anni più tardi.

  L’anno seguente si recò a Milano e vi soggiornò alcune settimane frequentando il salotto della contesta Maffei, dove sfondava le sedie impero col suo corpo pesante e avvolgeva l’anima sensibilissima della «piccola Clara» col suo spirito «charmant». Tale galante assiduità allarmò il marito e poeta Andrea Maffei. Pare che tali contrasti maritali siano stati il preludio della rottura definitiva fra i due coniugi che avvenne il 16 giugno 1845, con atto di separazione legale notificato dal notaio Tommaso Grossi; comunque è certo che il «tendre» Balzac era un pericoloso donneatore, avvezzo ad usare nelle partite d’amore quelli che nel linguaggio pugilistico vengono definiti i «colpi bassi».

  Da Milano Balzac si recò a Genova dove conobbe per caso un negoziante del luogo, certo Giuseppe Pezzi, col quale, discorrendo della Sardegna, citò un passo di Tacito in cui è detto che in quella terra esistevano ricche miniere di argento. Il negoziante disse che si dovevano trovare in una località denominata Argentara, fra Alghero e Sassari, dove vi erano ancora tracce di piombo da cui, nell’antichità, si era estratto l’argento. L’indicazione colpì la mente fantasiosa di Balzac il quale pregò il genovese di mandargli a Parigi un po’ di quelle scorie.

 

La spedizione.

 

  Tornato a Parigi, Balzac parlò del progetto argentifero al comandante Carraud il quale lo indirizzò al chimico Biot che aveva inventato un processo speciale per l’estrazione dell’oro e dell'argento.

  Nel frattempo sopravvennero i rovesci economici che gettarono Balzac in un mare di debiti. Allora, senza attendere le scorie di piombo, che il negoziante Pezzi aveva promesso, di mandargli, decide di partire per la Sardegna salendo sull’imperiale della diligenza Parigi-Lione-Marsi-glia, giungendo in quest’ultima città dopo cinque giorni sgangheratissimo per il viaggio massacrante. «Fra qualche giorno avrò purtroppo una illusione di meno — scrive a madame Carraud con inusitata saggezza — poiché è sempre al momento della soluzione che si incomincia non crederci più. Parto domani per Tolone e sarò venerdì ad Ajaccio. Posso dirvi che non mi conoscete, se credete che il lusso mi sia indispensabile: ho viaggiato cinque giorni e quattro notti su una imperiale, bevendo dieci soldi di latte al giorno. Vi scrivo da un albergo di Marsiglia dove la camera costa quindici soldi e il pranzo trenta. Non temo l’andata, ma quale ritorno se non mi riesce! Bisognerà passare delle notti a lavorare per ristabilire l’equilibrio e mantenere la posizione».

  Nel giorno infausto di venerdì sbarca ad Alacelo, dove si affretta a scrivere all’Hanska per informarla del suo viaggio, concludendo per giustificare quell’impresa pazzesca: «Quando voi saprete che questa mia spedizione è un colpo disperato per non finire sotto i colpi della, sfortuna. non vi stupirete; del resto non rischio che un mese di tempo e 500 franchi contro una bella e grande fortuna». Il gioco valeva la candela, ma intanto il futuro Mida è costretto a una vita miserevole.

  Finalmente può imbarcarsi su di un trabaccolo di pescatori di corallo che si recano in Africa. La navigazione procede tranquilla per cinque giorni durante i quali, però, Onorato di Balzac deve assoggettarsi alla vita dura dei marinai, i quali non mangiano che i pesci che pescano, cucinati con mezzi di fortuna, e si coricano sul ponte lasciandosi divorare da gigantesche zanzare che seguono l’imbarcazione come dei gabbiani e piombano in picchiata sugli sventurati naviganti.

  La barca rimase in quarantena per alcuni giorni in vista del porto di Alghero per il pericolo dl, colera che si temeva infierisse in quella zona, finché giunse il permesso di sbarco. Da Alghero a Sassari e da Sassari all’Argentara il viaggiò fu massacrante per quanto pittoresco. La Sardegna, a quei tempi, era un territorio selvaggio che assomigliava alla jungla del Matto Grosso, e una lunga cavalcata attraverso la foresta col miraggio allucinante di una. montagna d’argento dovette suscitare nello spirito avventuroso di Balzac, sensazioni epiche da nibelungo o da eroe leggendario di Walter Scott.

  Ma purtroppo le romantiche evoluzioni della sua accesa fantasia dovevano subire un notevole rilassamento insieme a quelle dei suoi nervi lassi come vecchie bretelle. Giunto all’Argentara con le terga brucianti per il «mal del cavallo» causato dalla lunga galoppata, il povero Balzac trova che la miniera è già stata, occupata da quel tale Pezzi negoziante genovese il quale l’aveva preceduto ottenendo l’autorizzazione del Governo piemontese per lo sfruttamento della miniera. Lo scaltro genovese gli aveva giocato quello che i borsaioli chiamano un «colpo gobbo». Il disinganno di Balzac fu enorme, e in una lettera alla sorella parla di tremenda sventura e di milioni sfumati. In realtà pare che le scorie dessero il 10 per cento di piombo e queste il 10 per cento d’argento; tuttavia c’era di che mordersi le dita per l’occasione perduta.

  Dopo la crudele delusione Balzac andò a Cagliari e si imbarcò per Genova; ma poi fu costretto a passare per Milano per rimediare un po’ di denaro per il ritorno. Giunto alla capitale lombarda con le pive nel sacco riversa tutta la sua amarezza in una lettera a madame Hanska che egli chiama «chère confidente de mes tristesses e (sic) de mes erreurs».

  Ora è necessario ricominciare daccapo, riprendere la vita monacale, curvo sul tavolo come un forzato della penna e spremersi le meningi per inventare ancora complicate storie romanzesche che si trasformeranno in moneta sonante.

  Così questo genio straordinario che si poneva egli stesso al livello di Napoleone, Cuvier e O’Connel (sic), questo grande «dottore in scienze umane», come egli stesso si definiva, questo prodigioso architetto della «Commedia umana» che per avere la ricchezza si sarebbe dedicato con entusiasmo al commercio dei carciofi o dello stracchino, era condannato ai lavori forzati della penna che non gli diedero mai la ricchezza, ma che lo posero in prima fila nell’eccelso arengo degli immortali.

 

 

  Nemo, Stravaganti d’altri tempi. Don Ferrante e il canonico Settala, «Corriere della Sera», Milano, Anno 68, N. 260, 3-4 Novembre 1943, p. 2.

 

  Sarebbe certo interessante studiare le infinite specie di collezioni e cercare a quale istinto l’uomo ubbidisca nel formarle, il più spesso a prezzo di sacrifici. Balzac diceva che la passione di raccogliere è il primo gradino della pazzia, ma crediamo che il grande romanziere abbia voluto fare, con questa sentenza, un motto di spirito e non altro.



  Alfredo Niceforo, Criminologia. Ambiente e delinquenza, Milano-Roma, Fratelli Bocca Editori, 1943.

 

Capitolo Decimoquinto.

Zone rurali, zone urbane, grandi città.

 

  p. 406. Ricordiamo: verso la grande capitale si incamminano, dalla oscura provincia, Lucien de Rubempré e Rastignac; qui giunti, essi trovano – trascinati dall’irresistibile desiderio di ricchezza e di gloria – il primo, un debole, la prigione e il suicidio mentre il secondo, un forte senza scrupoli, l’assistenza dell’oro da parte di una donna, dapprima, e la soddisfazione alla sua vanità politica e sociale di poi. Così nelle Illusions perdues, di Honoré de Balzac, specchio della vita.




  Alfredo Niceforo, Criminologia, in AA.VV., Dizionario di criminologia per opera di numerosi autori ed a cura di Eugenio Florian – Alfredo Niceforo – Nicola Pende. Vol. I. A-L, Milano, Casa Editrice Dottor Francesco Vallardi, 1943, pp. 209-221.

 

  p. 219. Non crederemmo capitolo estraneo alla criminologia quello che si fermasse – dopo aver detto dello studio somatico e fisico del delinquente, dell’ambiente criminale e della classificazione dei delinquenti – a far vedere in che modo l’arte e soprattutto la letteratura di immaginazione, ma spesso presa sul vivo delle cose, dipingesse uomini e ambienti della criminalità

  Apparirebbe un seguirsi di figure varie, dai criminali e degenerati dell’Inferno dantesco, ai personaggi della Commedia umana balzacchiana [il corsivo è nostro] e della Commedia naturalistica di Emilio Zola, figure che singolarmente si avvicinano a quelle che la nostra psicologia criminale aveva già da tempo, e per prima, disegnato.


 

  Alfredo Niceforo, Detective, Ibid., pp. 246-248.

 

  p. 247. Sempre a questo proposito, più volte chi scrive tentò una classificazione dei vari tipi di detective o indagatore giudiziario, creati dalla fantasia dei romanzieri o presenti ed agenti nella realtà della vita. Nella citata Memoria [L’istruttoria giudiziaria nel romanzo e nella scienza, «Giustizia Penale. I. Presupposti», 1937) sfilano i diversi tipi. Astuzia e intrigo: il tipo dell’agente Corentin nella Commedia umana di Balzac. Astuzia e abilità: il giudice istruttore Camusot, ancora di H. de Balzac. Lucidità e profondità nella induzione e nella deduzione: dalla pendola collocata sulla consolle del salotto, risalire alle caratteristiche tutte della persona a cui il salotto appartiene, come fa il buon giudice Popinot, ancora e sempre di H. de Balzac.


 

  Alfredo Niceforo, Fisonomia, Ibid., pp. 378-385.

 

  p. 379. Forse – sempre per rimanere nel campo della documentazione che potrebbero fornire prosatori e poeti – si potrebbe venire a quei naturalisti moderni del romanzo che con tanta sottigliezza seppero descrivere, quasi guardando uomini e cose attraverso una lente di ingrandimento, a cominciare da Walter Scott, minuziosissimo e forse prolisso descrittore, fermandosi poi soprattutto a Balzac i cui cento e cento personaggi sono tutti ... fotografati nella Commedia umana, ma con esecuzione fotografica in cui sono anche anima ed arte dell’autore. Esame particolareggiato degli umani «ritratti» balzacchiani si troverà nella nostra citata Memoria [cfr. I caratteri descrittivi della fisonomia umana e la loro trattazione statistica, «Archivio di Antropologia criminale», 1916-197].

 

 

  Giorgio Polverini, L’estetica di Charles Baudelaire, Bari, Gius. Laterza & Figli, 1943 («Biblioteca di cultura moderna», N. 387).

 

Le facoltà dello spirito.

 

  p. 26. Un giorno Balzac, racconta, trovandosi di fronte a un bel quadro rappresentante un paesaggio invernale seminato di casupole e di contadini sparuti, dopo aver contemplato una casetta da dove usciva un magro pennacchio di fumo, alludendo ai suoi melanconici abitatori esclamò: «Che bello! Ma che fanno in quella capanna? a che pensano, quali sono i loro dolori? Il raccolto è stato buono? essi hanno senza dubbio delle scadenze da pagare!». Rida chi vuole, commenta il Baudelaire, ma io penso che Balzac, con la sua adorabile ingenuità, ci ha data una eccellente lezione di critica; anche a me «avverrà spesso di apprezzare un quadro unicamente per la somma di idee o di sogni di cui arricchirà il mio spirito». Noi non rideremo certo delle parole del Balzac, che erano nella logica del suo temperamento poetico, ma crediamo che egli, contrariamente a quanto il Baudelaire crede, ci abbia dato una lezione di critica assolutamente pessima. La libertà del critico dinanzi all’opera d’arte, non vuol dire libertà di creare un’arte sull’arte, abbandonandosi ai sogni che una poesia, una pittura o un brano musicale suscitano nell’animo del contemplante.

 

Il critico.

 

  p. 142. E si legga ancora questa esattissima pagina su Balzac:

  «Io mi sono spesso meravigliato che la grande gloria di Balzac derivasse dalla sua fama di osservatore; mi era sempre parso che il suo principale merito fosse quello di essere un visionario, e un visionario appassionato. Tutti i suoi personaggi sono dotati dell’ardore vitale di cui egli stesso era animato. Tutte le sue finzioni sono fortemente colorite, come i sogni. Dalla sommità dell’aristocrazia sino ai bassifondi della plebe, tutti gli attori della sua Comédie sono più vicini alla vita, più attivi e più scaltri nella lotta, più pazienti nelle sciagure, più ingordi nel godimento, più angelici nel sacrificio, di quello che non ce li mostri la commedia vera del mondo. Insomma ognuno, in Balzac, ha del genio, anche le portinaie. Tutte le anime sono come armi cariche di volontà sino al possibile: appunto come il Balzac. E poiché tutti gli esseri del mondo esteriore si offrivano all’occhio del suo spirito con un rilievo potente e una smorfia agganciante, egli ha reso convulse le sue figure; egli ha annerito le loro ombre e illuminato le loro luci. Il suo gusto prodigioso del particolare, la sua ambizione smodata di tutto vedere, di tutto far vedere, di tutto indovinare, di tutto far indovinare, l’obbliga d'altronde a marcare con più forza le linee principali, per salvare la prospettiva dell’insieme. Egli mi fa qualche volta pensare a quegli acquafortisti per cui l’acido non morde mai abbastanza, e che trasformano in solchi profondi le venature fondamentali della lastra. Da questa straordinaria disposizione naturale sono nati dei capolavori. Ma questa disposizione è definita generalmente; i difetti di Balzac. Ora, per dir meglio, sono proprio qui le qualità.[2]


 

  R. R., Corriere degli spettacoli. Rassegna cinematografica. “L’amante mascherata”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 68, 20 Ottobre 1943, p. 2.

 

  Balzac a parte, questo film boemo in maggioranza pregevole è romantico fino a un certo punto.

 

 

  [Marco] Ramperti, Incontri e letture di Ramperti, «Stampa Sera», Torino, Anno 77, Num. 33, 8 Febbraio 943, p. 3.

 

  «L’abbondanza — mi diceva un giorno Gerolamo Rovetta — ha soltanto la scusa del genio. Ma ha compromesso anche Victor Hugo, e rischiato di rovinare persino Balzac».

 

 

  [Marco] Ramperti, Errata corrige, «La Stampa», Torino, Anno 77, Num. 253, 19 Ottobre 943, p. 2.

 

  Ricorderò a «Landrù» gli amori ottantenni di Verdi, di Tiziano, di Victor Hugo? Balzac, è vero, già in anticipo di cent’anni sull’umorista milanese, poteva scherzare sulle forze dei poeti «salite al piano superiore senza fermarsi al mezzanino». Ma, per quanto più spiritoso, aveva torto anche lui.



  Gino Raya, Stendhal, Modena, Società Tipografica Modenese Editrice, 1943.

 

L’egotista.

 

  p. 61. Per quanto convinto che la sua notorietà non potesse cominciare prima del 1880, Stendhal, più sentiva vicina la fine della sua vita, e più doveva osservare con amarezza la scarsa risonanza della sua opera presso i contemporanei. Persino dell’ultimo capolavoro, di quella Chartreuse ch’egli ancora ritoccava e sviluppava in vista d’un’edizione più degna, non vedeva che giudizi generici, o ingiusti, o distratti. Perciò l’articolo di Balzac nella Revue Parisienne del 25 settembre 1840 fece epoca nella sua vita. Gli rispose subito (16 ottobre), rifacendo tre volte la lettera, perché, pur ringraziando l’autore della Comédie humaine delle lodi e anche delle censure, voleva difendere col miglior garbo possibile il proprio stile, sul quale Balzac aveva fatto molte riserve, elogiando proprio lo Chateaubriand, tanto aborrito dal nostro.

  p. 63. All’opposto, Stendhal preferiva le parole più semplici, lo stile più comune e senza fronzoli (quello del codice civile! — scriveva a Balzac—), il tono leggero, la canzonatura c non la polemica, la conservazione e non la predica, lo pseudonimo più che il nome e cognome.

 

 

  G.[iovanni] Titta Rosa, Balzac da Manzoni, «Corriere della Sera», Milano, Anno 68, N. 199, 20 Agosto 1943, p. 2.

 

  Nella primavera del 1837, quando Balzac passeggiava per le vie di Milano, dove anche le figlie delle portinaie gli parevano tante regine — come scrisse in Cousine Bette parecchi anni dopo — non doveva essere diverso da come lo aveva ritratto Boulenger (sic): un faccione fornito d’abbondante pappagorgia, i capelli spioventi sulle orecchie e rialzati sulla fronte da un tocco obbliquo al vento, la grande bocca sensuale malamente coperta dai baffi non folti, il gran naso ciccioso, e gli occhi aggrottati sotto le sopraciglia corrusche. Quegli occhi soprattutto, penetranti e avidi, dallo sguardo spaziante e divoratore, imponevano: e facevano dubitare ch’egli fosse proprio quel commesso viaggiatore o quel mercante di porci, a cui l’avevano assomigliato Paul Lacroix e il giornalista Gozlan. Le figlie delle portinaie, vedendolo andare in giro col naso all’aria, massiccio e curioso, con quel collo taurino invano nascosto da un ampio nastro a cravatta, avranno tutt’al più pensato a qualche mercante di campagna o a uno di quei grossi fittabili della Bassa venuto in città a vender granaglie. Invece, ed esse non lo sapevano, le migliori famiglie milanesi che avevano letto Cesare Birotteau ed Eugenia Grandet, facevano a gara per conoscerlo, averlo in casa, festeggiarlo. Qualcuno diceva anche — tanto potevano le trombe della fama che suonava Parigi — che egli fosse più grande di Don Lisander. Lo invitavano a pranzo, gli offrivano il palchetto a teatro: e quando un ladruncolo gli rubo l’orologio, il governatore di Milano si fece personalmente in quattro per ritrovarlo, e ci riuscì. Cesare Cantù commenta: «Questa prova di abilità nel ricuperar un oggetto rubato accusava la negligenza di lasciarne perdere tant’altri»; che è una punta ironica contro il governatore austriaco e un’indiretta constatazione che a Milano non fossero scarsi i ladruncoli.

  Una delle più grandi meraviglie di Balzac, mentre andava a zonzo per le vie milanesi — non certo con l’animo di quel giovine dragone di Grenoble a cui forse, per via di una bella donna che lo faceva disperare, era, tanti anni prima, piaciuto persino un certo odore di «fumier» che s’alzava da quelle stesse vie — una delle sue meraviglie più grandi, dico, era il constatare che certe insegne di botteghe avevano gli stessi cognomi di quelle famiglie di signori che lo invitavano a pranzo e a teatro: e non avrà certo mancato di riflettere che l’aristocrazia lombarda non dovesse assomigliare molto, in quanto a ideali civili e alle pratiche attività, a quella aristocrazia tornata in Francia con la Restaurazione, distaccata e superba, e con ancora in testa, almeno in parte, le ubbie dell’ancien régime.

  In Lombardia, essa, se non si era potuta mescolare ancora negli affari dello Stato perché la felix Austria non lo consentiva, si mescolava, senza sentirsi diminuita, coi borghesi, e gareggiava con essi per intraprendenza e attività, nell’agricoltura e nel commercio. Doveva essere, questo, un tema ben balzacchiano, se l’autore di Eugenia Grandet l’avesse potuto e voluto studiare, in una cornice diversa da quella che l’Impero, la Restaurazione e la Monarchia di Luglio gli offrivano alla fantasia, che andava allora muovendo, come dice Sainte-Beuve, quella «immense ronde de la Comédie humaine qui nous donne — forse ancora oggi — un peu le vertige».

  Ma Balzac era venuto a Milano en touriste e, com’era nella sua natura, da uomo di affari, anche, e soprattutto, sballati. In quella primavera, a esempio, visto l’enorme successo dei suoi libri, dal Medico di campagna al Curato del villaggio, dal Giglio nella valle a Eugenia Grandet — tutti prontamente tradotti in italiano — s’era messo in mente di fare una specie di consorzio fra i librai italiani per lo smercio di questi e d’altri suoi romanzi; una succursale milanese della grande azienda della Commedia umana. Inoltre, aveva saputo, non si sa da chi, che in Sicilia c’erano miniere d’oro (sic); i Romani, o per inesperienza o perché perduti dietro le loro guerre, non se n’erano mai curati: le grandi pepite d’oro, simili a quel le trovate da Cacambo e da Candido nel paese di Eldorado, giacevano ancora sotto le rovine dei templi greci, e i ragazzi siciliani ci giocavano forse a piastrelle, e forse erano anch’esse «rotonde e alquanto larghe, di color giallo, rosso e verde, e mandavano strani bagliori». Perché non fare un piccolo consorzio?

  Con queste idee in testa e con tante altre che gli rutilavano nell’accesa fantasia — come mai gli venne in mente di andare a far visita ad Alessandro Manzoni? Fatto sta che ci andò; e ce lo accompagnò — come attesta Cantù — il cav. Felice Garrone marchese di San Tommaso. Era costui un bravo giovine, aveva scritto articoli e libri, fra cui uno sulla Casa di Savoia. I piemontesi, anche per fedeltà sabauda, lo avevano largamente letto e apprezzato. Pietro Giordani, che gli aveva fatto un po’ da mentore negli studi gli voleva bene; Don Alessandro, unitario per la pelle («liberi non sarem se non siam uni» aveva scritto nel Proclama di Rimini: un brutto verso senza dubbio, ma si giustificava dicendo: «io feci per l’Italia il più gran sacrificio che possa fare un poeta, quello di far per essa un brutto verso»), e buon sabaudista anche lui, doveva voler un po’ di bene a questo marchese piemontese, se è vero che ogni volta che capitava a Milano andava a trovare il Manzoni; e Balzac varcò la soglia della casa rossa di via del Morene.

  Fu una sera; e nella stanza di ricevimento par che non vi fossero altri ospiti di riguardo. Ma c’era riunita la famiglia; donna Teresa, ancora in luna di miele col suo Alessandro (l’aveva sposata qualche mese prima, esattamente il 2 gennaio di quello stesso anno); c’era la marchesa Beccaria, donna Giulia, colei che Giuseppe Borri, il fratello di donna Teresa, chiamava «Monna Aristocrazia viva e vera»; e c’era, pare, anche il genero d’Azeglio, a cui Balzac, certo pour épater, disse a bruciapelo che l'editore parigino, per «lanciare» la traduzione del suo Ettore Fieramosca, aveva speso più quattrini di quanto l’autore non ne avesse certamente mai ricavati pubblicando in Italia il suo romanzo. E aggiunse trionfalmente che il suo editore per il Cesare Birotteau gli aveva versato ben 20 mila lire.

  E’ presumibile che don Alessandro restasse, zitto, a sentire. Difficilmente, quando qualche ospite non gli garbava, apriva bocca. Ma aveva letto Eugenia Grandet, e pare che gli fosse piaciuto. Era piaciuto anche a donna Giulia e a donna Teresa. «Il suo miglior romanzo», dicevano. E furono cortesi con l’ospite. Il quale parlò, per l’intera serata, sempre di sè. Stava scrivendo un nuovo romanzo, La recherche de l’absolu, aveva in tela una commedia, che avrebbe fatto indubbiamente furore sulle scene parigine; e intanto raccoglieva certi suoi Juvenilia. E si dichiarò panteista ...

  Don Alessandro taceva; e non fu scosso nemmeno quando Balzac si mise a parlare di una scienza nuova, che aveva già adepti di gran riguardo, una scienza cui era riserbato un enorme avvenire: la cranioscopia.

  E poiché Manzoni, attizzando con le molle in mano il fuoco che ardeva nel caminetto, com'era sua ambizione e costume, continuava sempre a tacere, Balzac credette di fargli un complimento molto lusinghiero, dicendo:

  — Voi somigliate a Chateaubriand.

  Solo allora don Alessandro, di rimando:

  — E’ sembrato anche a Cantù.

  Ma tutti s’accorsero, quella sera, che Balzac non aveva letto i Promessi Sposi.

 

 

  Antonio Rusai, Dal romanzo al racconto, «Primato. Lettere e arti d’Italia», Roma, Anno IV, N. 7, 1 Aprile 1943, pp. 130-132.

 

  p. 130. Certo per questo suo carattere fluviale il romanzo difficilmente sarà una composizione breve. Anche il numero dei personaggi, la vicenda del racconto saranno vasti. «Jusqu’à notre époque – nota l’avant-propos alla «Comédie Humaine» - les plus célèbres conteurs avaient dépensé leur talent à créer un ou deux personnages typiques, à peindre une face de la vie».

  Il romanzo moderno, ossia il romanzo senza altro, distinto dalla novella, sottratto alle influenze compositive del dramma, nasce invece dal rifiuto di questa situazione tradizionale. Si tratta proprio di «rendre intéressant le drame à trois ou quatre mille personnages que présente une société». Solo in tal senso suona chiara l’affermazione dei Goncourt, per cui «le roman, depuis Balzac, n’a plus rien de commun avec ce que nos pères entendaient pour roman». Dove più che altro i Goncourt avranno guardato allo studio meticoloso di tutta un’epoca, alla storia del costume, alla concorrenza allo stato civile, come allora si diceva; né diversamente l’intendeva nella sua prefazione lo stesso Balzac. Pure il concetto di svolgimento naturale, la fluvialità del romanzo, che di fatto offrirono nella loro opera, deve apparire come sottintesa anche nella loro teoria ed anzi come il movente più vero di essa; la poetica pura sottostante alla poetica contingente e fuggevole del tempo.

 

 

  Ch.-A. de Sainte-Beuve, Balzac, in Ritratti. Preceduti da un saggio di [Émile] Faguet. Traduzione dal francese di Luigi Diemoz, Milano-Roma, Rizzoli, 1943 («Il Sofà delle Muse. Collezione diretta da Leo Longanesi», 21), pp. 377-400.

 

 

  Agostino Severino, Onorato Balzac (1799-1850), in Storia della Letteratura Francese, Milano, Edizioni Le Lingue Estere, 1943, pp. 111-113.

 

  Con Balzac l'arte narrativa si accresce di un nuovo genere: il romanzo di carattere. Anche Balzac muove da un’esperienza sociale: quella della Francia emersa dal periodo napoleonico e dalla Restaurazione, in cui i vari strati sociali si sovrappongono gli uni agli altri e comincia nella società il gioco di un elemento che sarà poi l’arma della elevazione borghese: il denaro. Tutta l’opera di Balzac ha per centro il rivolgimento che nella famiglia, nella politica, nella società, nell’uomo, produce il denaro; intorno al denaro si muove una folla innumerevole di personaggi agitati da tutte le passioni, capaci di tutte le virtù o dibattentisi tra tutti i vizi, e in cui passioni, vizi e virtù sono tuttavia determinati quasi fatalmente dalla circolazione continua del denaro: accumulamento e distruzioni di fortune, prodigalità ed avarizia, grandezza d’animo e grandezza spirituale. Poiché l’opera narrativa di Balzac ha per fondo una ridda di sentimenti talvolta delicati e di passioni spesso violente ed incomposte, riceve dal suo autore un titolo significativo: La comédie humaine. È, in contrapposto con la Divina Commedia, in cui l’uomo tende al superamento di se stesso ed alla adeguazione sua ai più alti princìpi morali, un ben diverso mondo; un mondo in cui l’uomo pare legato al suo fato e come incapace di innalzarsi sopra di quel tumulto di desideri, di ambizioni sfrenate, di esagerazioni del sentimento, di malattie della volontà, che sono peculiari nella società osservata e descritta dal Balzac. Il quale fu sommo nella dipintura dei moventi che spingono l’uomo nel vortice della vita attiva e lo fanno, nel gioco degli avvenimenti, come marionetta al destino. E fu ancora inarrivabile nel descrivere tipi nei quali parla alta una passione dominante che li divora e li abbatte: uomini che bruciano la loro vita dinanzi al moloch insaziabile che è il denaro, uomini arsi dalla gelosia, dall’invidia, da ogni perversità dello spirito e che tuttavia, come gli spiriti più poderosi scolpiti da Dante, mai abbandonano e dimenticano la loro umanità.

  La Comédie humaine comprende un ciclo di romanzi, raggruppati in parti: Études de Mœurs, Études philosophiques, Études analytiques.

  La prima parte è suddivisa in Scènes de la vie privée (Le Père Goriot, ecc.); Scènes de la vie de province (Eugénie Grandet, ecc.); Scènes de la vie parisienne (Le Cousin Pons, ecc.); Scènes de la vie politique (Une ténébreuse affaire, ecc.); Scènes de la vie militaire (Les Chouans); Scènes de la vie de campagne (Le Médecin de campagne, ecc.).

 

 

  Alessandro Varaldo, Avventure di tutti i tempi. Aveva trovato il vero amore, «Stampa Sera», Torino, Anno 77, Num. 114, 13 Maggio 1943, p. 3.

 

  Nei primi del maggio 1846, Onorato di Balzac, ritornando pieno di nostalgia da Roma, si fermò qualche giorno a Genova, prima di proseguire per Ginevra, Basilea e Strasburgo alla volta di Parigi. E fu invitato dal marchese Gian Carlo di Negro, suo vecchio amico. Infatti, fin dal 1836, il romanziere aveva dedicato al patrizio genovese una fra le più belle opere della Commedia Umana, Studio di donna, che appartiene al gruppo delle Scene della Vita Privata. Onorato di Balzac amava l’Italia come Stendhal, ed aveva contratto numerose amicizie italiane. Ben undici romanzi della Commedia sono dedicati ad amici italiani. Nel 1830 aveva offerto a un amico milanese, lo scultore Puttinati, La vendetta. Nel 1832, Il messaggio al marchese Lorenzo Damaso Pareto; nel 1833, Una figlia d’Eva alla contessa Bolognini Vimercati; nel 1835, Il contratto di matrimonio a Gioacchino Rossini; nel 1842, La falsa amante alla contessa Clara Maffei. C’è persino una mezza italiana, cioè la moglie di Giulio Cesare Guidoboni Visconti, patrizio milanese, signore di Melegnano, la bella Sara, alla quale è dedicato il romanzo Beatrice, ma che avrebbe potuto anche vantare il diritto al Giglio nella valle, poiché ne fu la protagonista, sotto il nome di Madama di Mortsauff (sic). Ecco invece due autentici coniugi dell’aristocrazia milanese, il conte e la contessa di Porcia. Al primo sono dedicati Splendori e miserie delle cortigiane ed alla seconda — una Sanseverino — Gli impiegati, quando il romanzo s’intitolava ancora La donna superiore. Alla principessa Belgioioso Trivulzio (che Alfredo de Musset trovò troppo magra e civetta perché s’occupava più di politica che d’amore) offrì Gaudissart II.

  E infine, proprio nel 1846, a Roma, Balzac aveva scritto la dedica dei Parenti poveri (i due grandi romanzi La cugina Betta e il Cugino Pons), a Michelangelo Cajetani. principe di Teano.

 

Come due botticelle...

 

  Che il lettore perdoni questa enumerazione, ma non è vanagloria d’italiano. E’, la prova non soltanto della simpatia, della affinità, della devozione di un grande scrittore all’Italia, che come Stendhal prima e Bourget poi, chiamava “la sua patria d’elezione”, ciò che può rilevarsi nell’opera, ma sopra tutto della cortesia, con cui fu accolto e trattato da gente che nulla aveva da sperare da lui. E’ vero che molta di questa gente vive nella memoria dei posteri per le sole sue dediche, ma, nel tempo in cui furono scritte, quasi tutti i menzionati, per una ragione o per l’altra, erano più in vista di lui. Come si legge nei diligenti spulciatori dì memorie contemporanee, Balzac non godeva la fama dei popolarissimi Dumas, Sue, Soulié, nè degli apprezzatissimi Nodier, Hugo e Lamartine; i lettori dei primi lo trovavano ben noioso, quelli dei secondi che scriveva sciatto, confuso, asmatico. Si ricordano le lotte fra marito e moglie Girardin: Emilio, se pubblicava un romanzo di Balzac nelle appendici del suo giornale, riceveva proteste e sospensioni di abbonamenti: Delfina, invece, come del resto le donne tutte, subiva il fascino del romanziere per l’importanza che costui dava nelle sue opere all’eterno femminino e per quella specie di divinazione che nelle pagine dello scrittore spesso rivelava una donna a se stessa.

  Tradotto, il libro di Balzac mostrava tutta la sua sostanza e chi non lo leggeva nell’originale non era profondo in tutte le sottigliezze della lingua e dello stile. Gian Carlo di Negro parlava naturalmente il francese come tutti, con scioltezza, quasi come il proprio dialetto; soleva dire persino di leggere con minor senso di stanchezza un romanzo di Balzac, che non uno del Guerrazzi. E glielo stava ripetendo in quel dolce tramonto di maggio, seduti ambedue presso la balaustrata con la visione dei tetti d’ardesia, dei campanili, del mare lontano. Per un raro caso, quel giorno, alla villa di Negro non c’era la solita raccolta dei poeti paesani e di qualche bello spirito della nobiltà Seduti accanto, parevano due botticelle, ambedue rotondi e non alti, ma benché il marchese portasse quindici anni e forse di più del vicino (Balzac il 20 di quello stesso maggio ne compiva quarantasette) sembrava minore, più fresco, anche più agile. Soltanto l’occhio piccolo, quasi nascosto dalle borse, del romanziere, vinceva, con quelle sue pupille nere che parevano scavar dentro all’interlocutore. Balzac non conosceva Guerrazzi: leggeva l’italiano con molto stento: la fatica immane a cui si assoggettava per i suoi editori e per i suoi debiti, che gli hanno impedito persino di appartenere all’Accademia (non vi si accettavano che persone assestate) non gli permetteva più la lettura. Lasciò dunque cadere il discorso e ne intavolò uno che lo interessava nella sua vanagloria. Parlò di Roma, della Settimana Santa, del coro pel Miserere in San Pietro e soprattutto del ricevimento che gli aveva accordato Papa Gregorio XVI.

  — Sua Santità — disse pomposo il romanziere — mi parlò dei miei libri, poche parole, ma precise: deve essere un lettore appassionato.

 

La dama “lussa”.

 

  Gian Carlo di Negro sorrise impercettibilmente. Sapeva come certe cose andavamo. Pochi appunti della Segreteria, che aveva assunto informazioni alla fonte, cioè all’Ambasciata, dovevano aver messo in grado il Pontefice di sembrar edotto appieno. Del resto l'udienza non era durata che pochi minuti, chè Papa Gregorio, uomo di spirito, non era molto paziente e s’annoiava nei ricevimenti ufficiali. Ma il romanziere ne aveva riportato una grande emozione, perché (lo confessò a bassa voce) Sua Santità gli doveva aver letto in cuore per pronunciare le poche parole di commiato.

  — Guà! E che cosa vi ha detto? —

  Ecco la frase precisa: che il Cielo vi accompagni, nella vostra vita vera.

  — Hum! Non ci vedo gran che! —

  Io sì, invece. E se sapeste ...

  Il marchese ammiccò furbescamente.

  — Scommetto che c’è sotto una donnetta!

  L’altro scattò.

  — Vi prego. La mia futura moglie!

  — Oh! Oh! Siamo dunque al gran passo? E chi sarebbe la fortunata, se è lecito?

  Il romanziere non sentì nelle parole un’ombra di ironia, ben naturale del resto. Gian Carlo di Negro, se non tutti i libri, conosceva tutte le avventure del suo ospite, quelle vere e quelle non vere, che, la fantasia del romanziere non distingueva fra le amiche e le qualche cosa di più. Facile per lui tacer le pedine più che le dame. Pensò che la futura signora Balzac si nascondesse fra le attrici o le calze azzurre (come si designavano le scrittrici). —

  E’ forse — domandò — una tragica o una musa?

  — E’ una gran dama — ripetè piccato l’altro — e mi pare d’avercene già parlato ... ma sotto il velo dell’anonimo … sotto il nome di ... E lanciò la gran parola che doveva far effetto, —

  ... Straniera!

  Mio caro signore — gli rispose il marchese — noi abbiamo un proverbio che dice: Moglie e buoi dei paesi tuoi. E’ fiorentino o romano, ma fu tradotto in tutti i nostri dialetti. E credo che sia saggio. Ma poco importa, ciascuno vede coi propri occhi e mangia coi propri denti. Se vi piace straniera e straniera sia. Sarebbe mai Un’italiana, poiché venite da Roma? —

  No, marchese, è russa. —

  Russa?

  Il marchese Gian Carlo di Negro, per vezzo, coltivava l’erre dolce come un’elle. Pronunciò dunque lussa. E ne fu lieto. Continuò: —

  La dama lussa, ne ho conosciuto, mi pare sempre una donna di lusso. Voi come artista siete un uomo di lusso, e potreste anche trovarsi bene assortiti. E senza insistere troppo, scivolando, sussurrò: —

  E’ ricca?

  Onorato di Balzac sospirò: — Sì, è ricca, ed è questo che mi fa spesso esitare. Io non lo sono, ahimè, lo sembro qualche volta, ma Dio solo sa a prezzo di qual duro lavoro! —

  Voi siete un artista che s’è creato un nome illustre con la penna come i nostri antenati battagliando o navigando. Certi banchieri offrono, a dei nobili spiantati, figlie e sacchi di scudi e si credono sempre obbligati. Voi non siete un discendente, infrollito, ma un antenato, come disse un generale del Còrso. Dunque non avete ragione alcuna di esitare. Però ...

 

Non si sbagliava.

 

  Abbassò ancora la voce:

  — ... siete certo che non sarà d’intoppo al vostro lavoro? — No, madama Hanska lo rispetta e sa che io non intendo starmene in panciolle: per dignità e per volontà debbo continuare nel mio lavoro. Ho tanto ancora da scrivere per compiere quella che ho chiamato la Commedia umana, in omaggio al vostro grande poeta, al Dante ...

  I francesi hanno il vezzo di pronunciare il nome dell’Alighieri, come se fosse un cognome.

  — ... e chi sa poi se la finirò!

  — Oh! per questo, siete giovane!

  — Ma ho forse abusato della giovinezza, non per vizio, no, a tavolino ...

  — Lo so, è una specie di allenamento. Anche io nella mia giovinezza ho abusato del ballo, e lo stesso Duprè diceva che le piroette di dieci secondi non riuscivano che a me. Pure non me ne trovo male.

  Il buon marchese confondeva un po’ le idee.

  Ballare è ginnastica, creare a tavolino è esaurimento; il paragone zoppicava. Ma il romanziere non ci fece caso. Riprese:

  — Lavorerò senza posa, Il nostro ambiente, lo sapete, è pettegolo: non voglio che si dicano, anche se non si pensano, eresie d’interesse. —

  Non ci badate. Alzate le spalle. Pensate piuttosto alla vostra tranquillità di spirito. A quanto sento, il vostro è un matrimonio d’amore ...

  Qui, Onorato di Balzac si lanciò con la velocità d’una torpedine.

  — Oh! sì, d’amore, perché, ve lo confesso, io, che ne ho tanto scritto, non l’ho provato mai. Oggi solo sento che cos’è. Questa donna, che voi dite di lusso, è capace di ogni sacrificio, persino della miseria per me ...

  Non si sbagliava. Quando lo Czar Nicola rifiutò il permesso alla contessa Hanska di sposare uno straniero, per lo stesso motivo della Vedova allegra, e cioè che le sue ricchezze restassero in Russia, la dama rinunciò al patrimonio in favore dei figli e sposò Balzac.

  — ... non ne ho il minimo dubbio. Valgono più le prove che si sentono di quelle che si vedono soltanto. Ho sognato nell’opera mia tante donne, persino delle eroine d’amore, e tante coppie nate in poli opposti per unirsi, ma questa donna, la straniera, come dite voi, non vale nessuna delle francesi che ho conosciute, e che sono tutte eccessive nella virtù come nel vizio, nella clausura come nella mondanità, nella galanteria come nella maternità. Questa donna, che ho conosciuto per lettera come un’ignota che doveva restar tale per tutta la vita e che quindi non si tratteneva dal mostrarsi a me quale era, quando la conobbi di persona mi apparve come un’amica d’infanzia che sapesse tutto di me, come io di lei, che indovinasse ogni mio celato pensiero, com’io tutti i suoi, e che sapesse trattare con me, secondare o qualche volta, quando sentiva ch’era bene, combattere dolcemente quanto proponevo, e che insomma fosse davvero la donna creata per me dal buon Dio! Non soltanto l’epidermide compagna alla mia, come dice l’amico Beyle, ma l’anima gemella. Comprensione perfetta, attrazione perfetta, identità scrupolosa, sentimento per sentimento, trasporto per trasporto, eternità per eternità. Non so quello che i posteri diranno dell’opera mia fra trenta, cinquanta, cento anni, e poco me ne importa. Ma sono certo che dichiareranno unanimi: il capolavoro del signor di Balzac fu il suo amore e il suo matrimonio.

 

L’«Assoluto trovato» ...

 

  Gian Carlo di Negro l’aveva ascoltato con un certo stupore, piacevole da prima, poi con una evidente inquietudine. Ne restò persino scosso, lui, amabile scettico, che le donne, compresa madama di Staël, avevano sempre, dopo alcuni minuti di colloquio, annoiato. Ma senza interromperlo aveva lasciato parlare il suo ospite, per cortesia, per curiosità di sapere dove sarebbe andato a finire.

  Sicché quando l’altro tacque — ed era calata la sera illune, che con la luce non s’osa replicare a certe cose — gli disse: —

  Peldincolina, mio caro amico, voi avete incontrata l’araba fenice e smentito l’abate Metastasio. Vi dico di più! Voi che avete scritto un capolavoro, La ricerca dell’Assoluto, dovete scriverne un secondo, l’Assoluto trovato e così smentirete, anche i dotti che ci insegnano: la natura non ripete nè gli uomini, nè le opere!

  Cavò di tasca la tabacchiera, l’offrì, poi vi tuffò le dita continuando:

  — Davvero noi siamo poveri mortali, ben limitati con pochi doni morali e materiali! Voi sarete invece l’assoluto anche in questo.

  S’alzò traballando un poco: la testa gli pesava.

  — Ma adesso, vi prego, basta con l’assoluto, e rientriamo in noi. Andiamo a pranzo.

 

***

 

  Onorato di Balzac morì quattro anni dopo, soffocato dalla sua immensa fatica. Fu felice nel suo matrimonio fuori serie e nel suo amore assoluto? Non so come, all’annuncio della morte del romanziere, restasse il marchese di Negro, nè se abbia mai avuto sentore della impressione che fecero a Vittor Hugo le parole di una vecchia serva piangente, quando il poeta era accorso a visitar l’amico agonizzante.

  «Muore ... i medici lo hanno abbandonato da ieri ... Madama, è rientrata nel suo appartamento ...».

  Come assoluto non c’è male, davvero!

 

 

  Mario Vugliano, Curiosità del romanziere, «Corriere della Sera», Milano, Anno 68, N. 156, 1-2 Luglio1943, p. 3.

 

  Debbo a mio nonno materno la prima conoscenza di Balzac, al quale egli, intorno al 1830, era stato presentato da un suo cliente di Saumur, come «tipo da romanzo» e ne aveva avuto in cambio di un bottone e d’uno specchietto non pagati, pratici consigli — pare impossibile! — per l’ingrasso gratuito dei campi. Ma che storia è questa? Una privata piccola storia di famiglia, non indegna, tuttavia, di pubblico interesse, poiché alla fine vien fuori anche il prototipo dal balzacchiano Grandet, che avrebbe potuto dare dei punti ad Arpagone, se non fosse stato del principio di non dare mai niente a nessuno.

  Studente ginnasiale in busca di libri per la fame divoratrice di carta stampata, propria di quell’età, avevo scovato in casa un vecchio romanzo francese, privo di copertina e di pagine, ma che mia mamma conservava per affetto filiale. essendo appartenuto a suo padre. Uomo di scarse letture che non fossero religiose, egli se lo era comperato, poiché ne aveva conosciuto l’autore. sotto il falso nome di Morel, e il protagonista sotto quello vero di Niveleau. Quel romanzo era l’Eugénie Grandet di Balzac.

  Coraggioso fin da ragazzo e più da uomo — prese ben cinque mogli, e solo il colera del 1866 arrestò la fortunosa e demografica carriera coniugale — il mio futuro nonno materno, rimasto orfano e povero, si appese al collo una cassetta da merciaio ambulante, e via dalla sua valdostana La Salle per il mondo, a vendere aghi spilli refe stringhe e bindelli. Girando specialmente per la Francia, egli era capitato più d’un (sic) volta a Saumur. dove aveva, tra gli altri, due singolari clienti. Si chiamavano uno Niveleau, e, favolosamente ricco quanto avaro, non gli comprava mai un bottone: per giunta, con una calamita cercava, di sottrargli degli aghi. L’altro, di nome Denis Bouchar, era, invece. un brav’uomo, che l’ospitava nella sua stalla, e una scodella di minestra non gliela lasciava mancare.

  Costui, verso il 1810, aveva studiato con Balzac. nel collegio di Vendôme — diceva — un po' anche per il futuro vulcanico romanziere, allora apatico ragazzo in letargo intellettuale. Poi, quel cattivo scolaro, dal quale suo padre non aveva potuto ricavare nemmeno un notaio, s’era messo nella «letteratura»; e l’antico compagno Bouchard — rimasto con lui sempre in relazione — come l’aveva aiutato nei compiti di scuola, così l’aiutava ora nei suoi romanzi, narrandogli storie di Saumur e descrivendogli curiosi tipi locali.

  Mai che Balzac rispondesse alle lettere del suo volontario cacciatore di tipi e fornitore di temi: ma gli capitava in casa all'improvviso, dicendogli: «Je viens voir ton bonhomme!» Ché voleva documentarsi de visu, il romanziere fantasioso e realista insieme. L’amico Bouchard avrebbe, allora desiderato «sfoggiarlo» a braccetto per tutta la città, il grande uomo, ma Balzac «per non mettere sull’avviso la selvaggina e coglierla meglio», esigeva l’incognito, e si faceva presentare come un qualunque signor Morel.

  Sotto tale pseudonimo, per l’appunto, lo conobbe anche mio nonno. Fu nell’occasione in cui Balzac era sbolidato, come sempre all'improvviso, in piazza della Bilange a Saumur. in casa di Bouchard per conoscere quel Niveleau, di cui egli aveva tanto scritto. Proprio vero che era d’un’avarizia da ispirare una specie di rispettoso terrore? Che certi suoi gesti di incredibile rapacità lo avevano reso leggendario e proverbiale da Angers fino a Tours? Che, duro con la propria famiglia quanto con se stesso, affamava la moglie e la figlia? E questa, bella e gentile come una madonnina, povera ragazza, per non morire di farne, veniva da lui Bouchard, a ripranzare due o tre volte la settimana, e, alzandosi da tavola, accartocciava qualche cibo per la mamma, che non aveva osato sottrarsi al tiranno? Specialista in avarizia — quanto si parla di onesto vizio nella Commedia Umana! Balzac, che allora stava scrivendo il Grandet, voleva sincerarsi se tutto ciò fosse proprio vero. Verissimo? Allora lo si presentasse a questo Niveleau come un ricco signore, avido d’acquistare case e terreni a Saumur.

  Ma pur smacchiato e spazzolato da madama Bouchard, l’abito del romanziere non era da ricco signore, e poi mancava alla giubba anche un bottone. Dove trovarne un altro simile? «Ma c'è qui il nostro giovane Leonardo Coccoz, che è un bazar ambulante — si picchiò in fronte il marito, — e, chiamato Balzac, glielo additò dalla finestra nel cortile ove, seduto a terra, la sua cassetta tra le gambe, riordinava la merce. Questo valdostano — aggiunse — è un tipo anche lui da romanzo. Scendiamo».

  Un bottone compagno a quelli del signor Morel, il giovane merciaio ce l’aveva; ma il signor Morel gliene attaccò prima uno a lui, sulla sua vita e sul suo commercio: volle sapere se questo gli rendeva e quanto, poi quale avvenire vagheggiasse. Il mio futuro nonno non conosceva allora Dante nemmeno, forse, di nome, e perciò non lo si può accusare di plagio se, con più parole e diverse, disse alla fin fine che quel suo vagabondaggio gli serviva «a divenir del mondo esperto». Senza contare che era bello e piacevole: discreto il guadagno, poiché non tutti i clienti erano alla calamita come Niveleau.

  Questo particolare piacque tanto a Balzac che comprò dal merciaio valdostano oltre il bottone anche uno specchietto; ma, all’atto di pagare, accorgendosi di non avere spiccioli in saccoccia, disse al petit bonhomme: «Voglio regalarvi un’idea fruttifera. Il vostro sogno, m’avete detto, è di aprire a Ivrea un negozio di stoffe e di acquistare poi nei dintorni una cascina e campi. Bene, sapete come dovete fare per ingrassarli gratis, questi campi? No? Così: ospitate caritatevolmente nella vostra stalla i greggi che l’inverno scendono al piano e la primavera salgono alla montagna: in tal modo, oltre il latte e un riscaldamento naturale, non vi mancherà mai il concime. Così ho fatto io nelle mie terre di Tours, e vedete se son ricco!». Il merciaio ambulante, divenuto poi agricoltore, fece altrettanto, e sempre chiamò quell'ingrasso gratuito Morel, anche quando seppe che sotto questo nome si nascondeva l'illustre romanziere Balzac.

  Il giorno dopo Denis Bouchard invitò tutte, e tre i Niveleau a pranzo, ma non vennero che padre e figlia. La signora Niveleau stava malissimo: questa povera donna che non s’era mai lamentata, moriva, ora, di stenti e di crepacuore. Ma il ricchissimo marito non aveva potuto resistere, avaro com’era, alla gioia di economizzare due pasti, e aveva costretto la figlia ad accompagnarlo. Durante tutto il pranzo, costei che non pensava se non a sua madre, che stava morendo, non disse dieci parole. Balzac, non lasciava un minuto di osservarla, pur discutendo di interessi con il padre. Essi si ammiravano reciprocamente. Balzac aveva recitato a meraviglia la sua parte di Morel. «Questo Morel — disse Niveleau a Bouchard, andandosene — è un uomo d’affari straordinario. E sì che io me ne intendo. Un altro eguale non l’ho mai incontrato!». Dal canto suo Balzac, rimasto solo con l’amico, sfogò il suo entusiasmo: «Questo Niveleau sorpassa ogni tua descrizione. Non speravo tanto. Avevo deciso di partire domani, ma abuserò della tua ospitalità per qualche giorno ancora. Ho il presentimento che la povera signora Niveleau se ne va, e che qualcosa di straordinario deve succedere».

  E, infatti, successe. Madama Niveleau si spense dolcemente. Ma prima di passare a miglior vita, alla presenza del prete, che le aveva amministrato i sacramenti, del marito, della figlia e dei parenti riuniti intorno al suo capezzale, ella espresse la ferma e formale volontà d’essere sepolta a Nantes, suo paese natio, nella tomba dove riposavano i genitori. Niveleau faticò a contenere la sua rabbia per questa decisione della moglie, che gli sembrava una vendetta postuma. Il trasporto della salma in diligenza gli sarebbe costato — diceva. — non uno ma tutte e due gli occhi della testa, ché nessuno avrebbe osato viaggiare con un cadavere sull’imperiale e gli sarebbe toccato noleggiare tutta la diligenza per conto proprio. Durante l’intera giornata il desolato vedovo studiò il mezzo di conciliare l’economia con l’esecuzione delle ultime. (e prime) volontà della moglie, purtroppo già conosciute da tutta Saumur. Venuta la notte, egli rivendicò l’onore di vegliare da solo la morta. Invano sua figlia lo supplicò di lasciare anche lei. No, essa aveva bisogno di riposo, si ritirasse. Ella che non aveva mai discusso gli ordini del padre, obbedì piangendo.

  All’alba, quando rientrò nella camera mortuaria, la salma materna era scomparsa. «Non t’inquietare, figlia mia — le disse Niveleau con un orribile sorriso — ho approfittato d’una buona -occasione ... La tua povera mamma è già in viaggio per Nantes». L’avaro, con la complicità d’un impiegato delle pompe funebri, aveva ripiegato il cadavere della moglie in una valigia, spedendolo poi come bagaglio. E così non aveva speso che una cifra irrisoria. Quando Balzac apprese questo, esclamò, raggiante: «Ah, è troppo bello! Meraviglioso, fuori della natura!». «Spero bene — gli disse l'amico Bouchard — che questo macabro episodio ti servirà per il più bel capitolo del tuo romanzo». Ma il grande romanziere, calandogli un formidabile pugno tra capo e collo: «Jamais de la vie, je ne me servirai de cela. Mon pauvre vieux, tu n’entendes (sic) rien à l’art». E gli spiegò: «Se scrivessi questo, nessuno ci crederebbe, non avendo l’aria d’essere vero, e il mio Grandet sarebbe rovinato [»].

  E nemmeno la storia della calamita, narratagli da mio nonno, mise poi nel romanzo, perché il vero, talvolta, è inverosimile.

  Come certi tramonti, dicono i pittori, che ne dipingono degli altri inventati, ma più credibili.

 

 

  Baldo Zari, Uomini celebri in mezzo ai debiti, «L’Ordine. Settimanale Cattolico Salentino», Lecce, Anno XXXVIII. N. 29, 10 Luglio 1943, pp. 1-2.

 

  p. 2. Ecco Balzac che, a furia di accumular cartelle per lo stampatore e raddoppiar, così, il reddito della sua penna vulcanica, condannò all’ergastolo d'un lavoro pazzesco e codesto lavoro lo stroncò nella pienezza della sua virilità e della sua genialità.

 

 



[1] Cfr. Luigi Muti, Balzac e la Chiesa, «L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso», Città del Vaticano-Roma, Anno ottantaduesimo, Numero 297, 21-22 dicembre 1942, p. 1.

[2] L’Art romantique, pp. 176-177. [N. d. A.].


Marco Stupazzoni

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