sabato 20 marzo 2021



2008

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Sillabario. Cortigiane, «la Repubblica», Roma, 8 luglio 2008.

 

  A Parigi, quando una donna ha deciso di far professione e commercio della propria bellezza, non è questa una ragione sufficiente perché faccia fortuna. Vi sono creature ammirabili, piene d’intelligenza che vivono in una terribile mediocrità, concludendo assai male una vita cominciata con i piaceri. Ed ecco perché: non basta dedicarsi alla vergognosa carriera della cortigiana per averne tutti i vantaggi pur conservando l’apparenza di una borghese onestà coniugale. Il vizio non raggiunge facilmente i suoi trionfi: ha questo in comune col genio, che entrambi, per conciliare la fortuna col talento, hanno bisogno di un insieme di circostanze favorevoli. A Parigi, una Taide deve dunque, anzitutto, trovare un uomo ricco che perda la testa tanto da darle un prezzo. [Da: La Cousine Bette].



  Honoré de Balzac, Borghesia e aristocrazia sull’orlo del matrimonio, in Vittorio Caporrella, La famiglia. Un’istituzione che cambia, Bologna, Archetipolibri, 2008 («i prismi storia contemporanea»), pp. 94-96.

 

  Da Papà Goriot, Firenze, Sansoni, 1965, pp. 70-72.



  Honoré de Balzac, La dote e il “valore” dei figli, Ibid., pp. 96-97

 

  Da La cugina Betta, Milano, Rizzoli, 1978, pp. 20-21.


 

 

 

Audiolibri.

 

 

  Honoré de Balzac, Le (sic) Illusioni perdute legge: Giorgia Bignami, Feltre, Centro Internazionale del Libro Parlato, 2008, 2 compact disc MP3 (27 ore, 48 min.)

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il ballo di Sceaux. Traduzione di Nanda Colombo, Bagno a Ripoli, Passigli, 2008 («Le Occasioni. Piccola Biblioteca Passigli»), pp. 94.

 

  Cfr. 1960 e successive edizioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Béatrix. Traduzione e cura di Clara Sereni, Milano, Feltrinelli, 2008 («Universale economica», 2116), pp. 318.

 

  Cfr. 1995.

 

 

  Honoré de Balzac, La Borsa. A cura di Gabriele Fredianelli, Firenze, Barbès, (aprile) 2008, pp. 71; 1 ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  [Gabriele Fredianelli], Introduzione, pp. 5-7;

  Biografia, pp. 8-11;

  La Borsa, pp. 13-70.

 

  Scrive G. Fredianelli nella sua Introduzione al racconto balzachiano:

 

  Si sostiene spesso, semplificando, che Honoré de Balzac, uno dei padri del romanzo “realista”, sia stato un semplice osservatore del mondo del suo tempo, lo scrittore che forse meglio di ogni altro seppe raccontare con colori veri e senza troppe sofisticate mediazioni la Francia della Restaurazione. C’è ovviamente del vero in questo, ma le cose non stanno semplicemente così. L’immenso universo di Balzac è infatti almeno tanto immaginato quanto osservato. Poco dopo la sua morte, il suo grande ammiratore Charles Baudelaire scrisse: “Mi sono sempre meravigliato del fatto che la grande gloria di Balzac fosse legata al fatto di essere un osservatore; mi era sempre sembrato che il suo principale merito fosse quello di essere un visionario, e un visionario appassionato”. Dunque osservazione e immaginazione convivono in Balzac, e sono messe al servizio, e qui sta forse il suo più grande genio, di un disegno colossale, il sistema della “Comédie Humaine”, un “progetto” di opera complessiva nel quale Balzac pensò di riunire tutti suoi scritti.

  Balzac sa vedere, fissare nella memoria e riprodurre in letteratura i luoghi, gli oggetti e gli esseri umani e, manipolato dalla sua scrittura, il reale conserva tutto il suo spessore e la sua complessità.

  Come pochi altri scrittori Balzac è riuscito a darci l’immediatezza della realtà materiale. Non esistono nei suoi romanzi dettagli troppo bassi o troppo volgari: i suoi eroi sono esseri umani in carne ed ossa che mangiano e bevono e dei quali conosciamo con precisione il fisico, i vestiti, la professione, le abitazioni. E l’osservazione di Balzac penetra i caratteri e le personalità, le psicologie, i rapporti fra i personaggi, i dolori e le gioie della vita. L’immaginazione assume il ruolo di far giocare questi personaggi, e nei romanzi di Balzac si svolgono le storie più complicate, intrighi, scontri, complicatissimi intrecci, tanto che secondo alcuni critici egli può essere considerato uno dei padri del romanzo giallo moderno.

  Come insegnano molti moderni storici, soprattutto della scuola francese, per capire il passato nella sua intima realtà è spesso più utile ricorrere all’arte e alla letteratura che ai documenti e ai testi storiografici. In questo senso la “Comédie Humaine” di Balzac è forse la più importante, vasta e completa documentazione, anche se in forma letteraria, per capire che cosa fosse la Francia post-napoleonica.

  Nella prefazione della “Comédie Humaine”, Balzac espone il suo “progetto”, che nasce dalla voglia di esplorare l’uomo mettendolo a confronto con l’animalità, secondo la lezione dei naturalisti, eredi degli illuministi che laicamente sostenevano che esistesse un metodo capace di farci comprendere l’organizzazione della natura mettendola in relazione con il “milieu” il contesto sociale, economico e politico nel quale gli esseri umani, gli animali e più in generale il mondo si trovano a vivere. Balzac applica questa legge alle diverse “specie sociali” che vuole descrivere e raccontare, opera ancor più complessa di quella degli scienziati naturalisti poiché nel regno umano i fattori di differenziazione sono ancora più numerosi e complessi: la città, la provincia, la campagna, le diverse professioni, gli uffici, gli studiosi, gli artisti ... da tutto questo derivano le azioni dei suoi personaggi, ma ancora prima da tutto questo deriva il loro carattere, la loro psicologia, le loro ambizioni e i loro sogni. E anche questo, sostiene Balzac, è fare storia, perché uno scontro d’amore o la feroce lotta tra un padre e le sue figlie non sono meno importanti o interessanti di una battaglia combattuta fra soldati di eserciti opposti.

  Il romanzo breve “La Borsa”, scritto nel 1832, all’interno della “Comédie Humaine” concepita da Balzac inserisce tra le scene della vita privata degli “Studi di costume”. Una vicenda semplice e lineare che porta con sé molti dei germogli più tipici della produzione dello scrittore. Si parla di amore e di arte, di interessi economici e di nobiltà d’animo. I personaggi che si muovono in una Parigi borghese di inizio Ottocento sono quelli consueti di Balzac: il giovane pittore, la fanciulla di buoni principi, la nobile decaduta, il reduce d’epoca napoleonica. Una piccola “summa” di figure e intrighi balzacchiani, dove all’acutezza della descrizione risponde l’asciuttezza degli eventi, per un racconto in cui il fondale ha la stessa importanza degli attori in scena e della trama rappresentata.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Traduzione di Sara Guindani, in Georges Didi-Hubermann, La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente. Traduzione di Sara Guindani. In appendice Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac, Milano, Il Saggiatore, 2008 («La Cultura», 638), pp. 115-158.

 

 

  Honoré de Balzac, La lettera inedita. Costumi nella miseria, traduzione di Giuseppe Scaraffia, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 213, 3 agosto 2008, p. 35.

 

  Lettera a Madame Hanska, datata Cagliari, 17 aprile 1838.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Betta. Introduzione e note di Maurice Allem. Traduzione di Ugo Déttore, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008 («Classici moderni»), pp. XLI-518.

 

  Cfr. 1996.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Saggio introduttivo di Stefan Zweig. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008 («Classici moderni»), pp. 266.

 

  Cfr. 2007.[1]

 

 

  H. de Balzac, Facino Cane, principe di Varese di H. de Balzac, in Fernando Cova, “Facino Cane, principe di Varese” di Balzac, in AA.VV., Calandari d’ra Famiglia Bosina par ur 2008. Edito a cura della «Famiglia Bosina» di Varese, Varese, La Tipografica Varese, 2008, pp. 116-127.

 

 

  Honoré de Balzac, Melmoth riconciliato, in Charles Robert Maturin, Melmoth l’errante. Honoré de Balzac, Melmoth riconciliato, a cura di Flavio Santi, Torino, UTET libreria, (settembre) 2008Letterature UTET», pp. 739-791.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Elina Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 2008 («I grandi libri», 90), pp. LXIV-245.

 

  Cfr. 1992 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, La Ragazza dagli occhi d’oro. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Attilio Bertolucci, Milano, Garzanti, 2008, («I grandi libri»), pp.LX-69.

 

  Cfr. 2004.

 

 

  Honoré de Balzac, Séraphîta. Prefazione di Giampiero Moretti. Traduzione di Pia Cigala Fulgosi, Rovereto, Zandonai, (novembre) 2008 («I fuochi»), pp. XX-147.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Giampiero Moretti, Séraphîta sul Reno, pp. VII-XX. [Cfr. La sezione: Studî e riferimenti critici];

  Séraphîta, pp. 1-147.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Anna Premoli, Francesco Niederberger, Milano, Garzanti, 2008 («I grandi libri», 57), pp. LXI-549.

 

  Cfr. 1968 (per la traduzione) e successive ristampe.

 

 

 

 

Edizioni e Adattamenti di Opere in DVD.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot di Honoré De Balzac. Regia e sceneggiatura: Tino Buazzelli; scene: Giorgio Aragno; costumi: Roberto Laganà; interpreti: Tino Buazzelli, Paolo Ferrari, Anna Miserocchi et alii, Milano, Fabbri Editori, 2008, 2 DVD (6 h. ca.), Puntate 1-2.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot di Honoré de Balzac. Regia di Tino Buazzelli, Roma, Rai Trade; Milano, RCS libri, 2008 («I grandi sceneggiati della televisione italiana», 41), 2 DVD video (373 min 51 sec compless.), Puntate 1-2.

 

 

  Honoré de Balzac, Sarrasine. La tana [Franz Kafka]. Regia di Walter Pagliaro. Bari, Progetto Interreg. IIIA Grecia-Italia, 2008, 1 DVD (ca. 70 min.); sonoro, color. Registrazione effettuata al Teatro Petruzzelli di Bari: 1991.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  La carne, la morte e il diavolo nascosto nell’artista, «Almanacco romano», 3 luglio 2008. [on-line].

 

  Su: Le Chef-d’oeuvre inconnu.

 

  Siamo nei primi del XVII secolo, il giovane Poussin bussa speranzoso allo studio di Porbus e qui, insieme al maestro riverito, incontra una singolare figura di artista: Frenhofer. Sarà l’uomo dal nome tedesco a iniziare gli altri due a uno straordinario esperimento che sta conducendo in segreto da lunghi anni. Si tratta di oltrepassare la pittura come la si è concepita in Occidente da tanti secoli, per non dire da sempre. L’artista esce dai suoi canoni per cercare l’Assoluto, la pittura pura. Ora siccome la pittura è sporcata dalla materia, le tele, gli olii, le tempere, i diluenti, i grassi, le colle, i pennelli, tale purezza cancella proprio la tecnica del dipingere che diventa tanto immacolata da non apparire più. Ma che cosa è un’arte visiva che non è visibile? Un esperimento mentale, una notte mistica, una riflessione indicibile. Tale è l’avventura di Frenhofer che anticipa quelle di tutti coloro che pretendono di fare un’arte che non vuole più rappresentare la realtà. Balzac sembra allora trasformarsi nel santo cavaliere di tutte le avanguardie, il patron dei contemporanei. E, a sua volta, sembra pure riprendere temi e tormenti di letterati romantici tedeschi, in primis Hoffmann, che volevano contrapporre una esoterica e astratta arte nordica, tedesca, protestante, a quella tradizionale, carnale, pagano-cattolica. Senonché Balzac è un conservatore, geniale scrittore dell’assennatezza, e fedele alla Chiesa di Roma: «Scrivo alla luce di due verità eterne, la Religione e la Monarchia… verso le quali ogni scrittore di buonsenso dovrebbe cercare di ricondurre il nostro paese» (Avant-propos del 1842). Come è dunque possibile che egli sia l’autore di questo «catechismo estetico» dei moderni?

  Il fatto è che l’inventore di Frenhofer non sembra volere abbracciare i suoi personaggi finiti nel gorgo del sogno prometeico di reinventare l’arte, anzi Le chef-d’oeuvre inconnu è il doloroso racconto di un impazzimento. «È più poeta che pittore» fa dire a Poussin di lui: in quel tempo – nel secolo barocco che i francesi intitolano classico – Pascal colloca la poesia, la letteratura, su un gradino gerarchicamente superiore all’arte di dipingere, che comincia lentamente, ancora ammantata dallo splendore di Rubens o di Piero da Cortona, a perdere colpi. La parola si emancipa da tutto e conosce il suo maggior trionfo, l’alfabetizzazione che mette in riga i popoli renderà sempre più inutile la Biblia pauperum della pittura. Il gramo omaggio alla parola rappresentato dai rebus di Magritte e compagni in cabbale burlone, per non dire del meschino abbarbicarsi ai discorsi aggrovigliati dei cataloghi e delle didascalie con cui le gracili immagini del nostro tempo tentano di tenersi in piedi, sono un segno di tale sconfitta storica. D’altra parte, già gli artisti romantici si rigirano in concetti e oziosa indeterminatezza piuttosto che nelle messe in scena su tela o su parete di idee pittoriche. Non dimentichiamo che anche il giovane Werther fa il pittore che non dipinge mai, legge sempre, dipende dai libri, costruisce un unico capolavoro: la propria morte.

  Si incammina verso un probabile suicidio, o morte per sofferenza troppo acuta, anche Frenhofer. In balia dell’arbitrio soggettivo, della instabilità che perseguita l’autore mai soddisfatto e che si ripercuote sull’opera destinata a non concludersi mai, a non trovare per definizione un suo punto di arrivo, e quindi una sua perfezione, diventando eterno work in progress (dove lo spaventoso non risiede soltanto nell’interminabile progresso, che non conosce quiete, ma anche nel lavoro, che non diventa mai opera realizzata, restando sempre esperimento, laboratorio, elaborazione interminabile, fatica …).

  Prima della sua morte, al termine di una scena madre in cui le innumerevoli intenzioni di Frenhofer vanno a cozzare con gli esiti desolanti o quantomeno impossibili, concludono i due testimoni: «Là, riprese Porbus toccando la tela, finisce la nostra arte su questa superficie. – E di là va a perdersi nei cieli, dice Poussin». Anche della nostra disastrosa bancarotta si sta parlando, quella che si ripete da oramai quasi due secoli. Lo spirituale nell’arte, ma senza paradiso, con un po’ d’inferno ridicolo. Solo l’olimpico Picasso poteva spingersi a disegnare il racconto balzachiano della pittura impossibile, e a rivestire i panni dell’illustratore, abbastanza superbo per il talento immenso da non temere alcun ruolo artigianale.

  Il povero pittore dell’Assoluto si disperò con i due sodali che non vedevano nulla: ma come, anche tu Porbus, che sei un mio buon amico – implorava – dici che non c’è nulla? Quindi, accecato nella ragione e nei sentimenti, urlava che aveva speso dieci anni della sua vita per creare un quadro invisibile. Si vogliono realizzare opere estremamente sofisticate ma poi si invoca sempre una qualche complicità. Magari ci si taglia il lobo dell’orecchio e lo si porge in omaggio amicale. Frenhofer si sedette e pianse: «sono dunque un imbecille, un pazzo… Non ho prodotto nulla!». Sempre più folle, parlò allora in nome di Cristo, come tutti gli invasati si sentiva ormai sacerdote, angelo di Dio invece che pittore, forse addirittura un Dio impotente, chenotico. Questo l’eroe balzacchiano della non-arte contemporanea, secondo i suoi esegeti.

  Se ci fossero molti dubbi su come la pensa Balzac a proposito del capolavoro impossibile, l’autore stesso potrebbe aiutarci a disperderli. Per esempio, quando afferma che «se l’artista contempla le difficoltà invece di vincerle una a una […] l’opera resta incompiuta e perisce […] mentre l’artista assiste al suicidio del suo talento» (La Cousine Bette). Probabilmente è un tentativo di esorcizzare le ossessioni che pur dovettero cogliere Balzac nel suo progetto iperrealista. Goethe scrisse il Werther per non soccombere alle pene amorose, il romanziere francese per non lasciarsi stregare dai sempiterni rimorsi estetici. Con tale racconto filosofico, con la rappresentazione di un tentativo di arte sperimentale che fallisce di fronte a due grandi testimoni, due pittori fedeli alla committenza, al lavoro onesto, spesso servile, è l’equilibrio che vince. Così Balzac «si è salvato dall’abisso del perpetuo ricominciare, è sfuggito alla disaggregazione che provoca l’analisi. […] Frenhofer, Balzac lo ha sottolineato, è diabolico: posseduto dalla ‘spirito che tutto nega’» (Pierre Laubriet).

  Per fortuna che è ancora rintracciabile una edizione Passigli dello Chef-d’oeuvre inconnu, datata 2001: ci eviterà di dover leggere Balzac attraverso lo specchio opaco delle nostre scempiaggini contemporanee. Di fronte a un capolavoro, gli schemi comunque che cosa contano? Frenhofer ci può apparire inviso fin dalle prime scene, con la sua teorica insistenza per far scomparire il disegno dall’arte, in questo rivelandosi precursore prodigioso dell’informe prodotto nell’ultimo secolo, quindi procedendo in un irragionevole Kunstwollen. Eppure, proprio perché estranei agli schemi militari dell’avanguardia, si sapranno evitare gli schieramenti, perfino compatire l’ardente sforzo di ogni Lucifero umano, che oltrepassa nel patetismo l’angelo ribelle. Il giudizio sui defunti del resto non ci appartiene. Georges Bernanos ha lasciato scritto: «Être d’avant-garde c’est savoir ce qui est mort; être d’arrière-garde c’est l’aimer encore».

 

 

  Vespe. Margaret come Balzac: si metta a dieta, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 324, 23 Novembre 2008, p. 35.

 

  Grassi sono Balzac, Thomas Mann, Proust. Magri Racine, Stendhal, Gide. Il nuovo, «fluviale» libro della Mazzantini [Venuto al mondo] potrebbe rientrare «nella tipologia capitanata da Balzac». Margaret sovrappeso? Ma se non ha mai sfondato la taglia 38!

  Non fidatevi delle apparenze, insiste Marcoaldi: è una falsa magra, e dovrebbe mettersi un po’ a stecchetto, se non vuole diventare Mazzantoni, e finire dritta dritta nel girone degli incontinenti [...]. Cara Mazzac, dia retta al critico-dietologo. Lo faccia per amore dei lettori. Dovendo smaltire un’abbuffata di queste dimensioni senza cadere in depressione, più che di Balzac avranno bisogno del Prozac.

 

 

  La citazione. «César Birotteau» di Honoré de Balzac, «Il Sole 24 Ore», Milano, 23 dicembre 2008, p. 1.

 

  Nell’intervista il presidente delle Generali, Antoine Bernheim, csita il romanzo «César Birotteau» come chiave per capire anche la crisi finanziaria di oggi.

  Il volume, scritto da Honoré de Balzac e pubblicato nel 1837. narra la parabola di un autentico «self made man» del XIX secolo approdato a Parigi in cerca di fortuna. Un figlio di contadini arriva nella capitale con l’ambizione di migliorare la propria condizione sociale: César Birotteau è diventato un piccolo commerciante rispettato e ammirato, ma desideroso di migliorare il suo status borghese, intraprende spese folli che lo gettano infine sul lastrico. Tra proficue attività commerciali e ardite operazioni finanziarie, oscure speculazioni edilizie e lucrose rendite immobiliari, si consuma l’inganno che intrappola un uomo semplice e onesto.

 

 

  Giano Accame, Il poeta, il denaro, il testo, l’usura, «Letture», Milano, n. 644, febbraio 2008.

 

  La questione operaia era facile da rappresentare: vi si sono buttati in tanti. Ma la nuova qualità narrativa fiorita nell’Ottocento doveva cimentarsi su problemi economici più complessi, scaturiti con forza nell’epoca dominata dalla rivoluzione liberalcapitalista della borghesia trionfante. Con Balzac il denaro comincia a scorrere come motivo pregnante della vita moderna, quindi della narrativa chiamata a ritrarla: «Il denaro è tutto», farà dire a Papà Goriot. Se nella Divina commedia una cultura dominata dalla teologia poteva essere particolarmente interessata alla topografia dell’aldilà, nella Comédie humaine di Balzac, che si apre con la figura torbida di Gobseck, l'usuraio, assume importanza centrale la topografia della Borsa, delle banche, la necessità d’orientarsi nel mondo degli affari. Già Gobseck, primo d’una serie di usurai nella letteratura ottocentesca, sarà ebreo solo per parte di madre e non più legato al culto mosaico. Secondo Balzac «possiamo considerarlo un ateo».

 

 

  Daniela De Agostini, De «Wann-Chlore» à «Albert Savarus». Réminiscences de Tristan, in AA. VV., Autour de «Wann-Chlore». Le dernier roman de jeunesse de Balzac, Berne, Peter Lang, 2008 («Franco-Italica», Vol. 5), pp. 3-34.

 

  En 1822, Balzac est donc à un tournant (comme ce sera de nouveau le cas pour d’autres raisons en 1830 et puis encore en 1842). Il abandonne le terrain philosophique et l’incorpore au terrain narratif, il renonce en partie au terrain mystique et, se partageant entre le merveilleux du conte de fées et le réalisme plus passionnant des aspects psychologiques de l’«intus de l’homme», il se prépare à donner vie aux oeuvres d’Horace de Saint-Aubin. Cette deuxième étape de la formation balzacienne, destinée au public des «cabinets de lecture», occupera l’auteur de 1822 à 1824, une période qui, comme nous l’avons dit, comprend aussi la rédaction longue et tourmentée de Wann-Chlore, le seul des six romans, publié en 1825, qui ne portera pas la signature du «pauvre bachelier» aux prises avec ses «premières opérations de littérature commerciale».

  Résultat de complexes élaborations d’écriture, pour Honoré de Balzac Wann-Chlore constitue une conclusion, une sorte de bilan de ces années difficiles. Il s’en souviendra pourtant des années plus tard quand il se préparera à écrire trois de ses chefs-d’oeuvre, Le Lys dans la vallée, Honorine et Eugénie Grandetet l’un de ses romans les plus sophistiques et les plus autobiographiques, Albert Savarus. […].

  A partir du stéréotype représenté par le roman sentimental et par une ample littérature consacrée aux complications de l’amour, et après avoir réfléchi sa propre image de diverses manières depuis Wann-Chlore jusqu’à Albert Savarus, dont le destin est victime d’un complot invisible, Balzac représentera celle-ci en la projetant sur les autres personnages qu’il a créés. C’est ainsi que la Comédie humaine est une fresque de plus en plus vaste qui se formule à partir d’éléments entrecroisés appartenant au silence de l’enfance de son auteur, à sa vie de romancier, aux lectures et aux réécritures, y compris mythiques, de son passé affectif.

 

 

  Maria Giulia Baiocchi, Ritratti d’autore, «Ottocento», Anno VII, N. 15, febbraio-marzo 2008, pp. 18-21.

 

  p. 19. In Papà Goriot, Honoré de Balzac (1799-1850) ci presenta una serie di personaggi che fanno da corollario alla squallida pensione di Madame Vauquer: c’è lo studente squattrinato, ma deciso a farsi strada; Eugène de Rastignac, che “aveva un viso tipicamente meridionale, carnagione bianca, capelli neri, occhi blu”; il misterioso Vautrin, “l’uomo di quarant’anni, dai favoriti tinti, la faccia rigata da rughe premature, segni di durezza che smentivano le maniere affabili e compiacenti”, la dolcissima e sfortunata Vittorina Taillefer che “felice sarebbe stata incantevole e invece aveva sempre lo sguardo triste e gli occhi grigi e neri esprimevano una dolcezza e una rassegnazione cristiane” e poi, fra tanti altri, c’è Monsieur Goriot, così come lo vide la vedova Vauquer, piacente e perbene con “il suo lungo naso robusto che pronosticava qualità morali”. Ella ammirava “i suoi capelli ad ala di piccione, che il barbiere del Politecnico gli incipriava tutte le mattine e disegnavano cinque punte sulla sua bassa fronte e decoravano bene il suo viso”.

  Eppure l’uomo è roso da una pena segreta dovuta alla cupidigia e alla grettezza delle sue figliole, descritte come dame affascinanti e dal visetto delizioso, ma dal cuore di pietra, capaci di approfittare del loro papà sino a renderlo un miserabile.

 

 

  Marcello Benfante, Le risposte sibilline nel mondo dei burocrati, «la Repubblica», Roma, 30 agosto 2008.

 

  Nel suo “Ferragus”, prima parte della “Storia dei Tredici”, Balzac muove dall’intento di narrare in chiave gotica e nei modi del romanzo d’appendice le gesta misteriose di un gruppo di superuomini «abbastanza forti da mettersi al disopra di tutte le leggi». Ma su questo originario nucleo d’ispirazione si venne ben presto innestando un diverso e più forte interesse: un progetto di rappresentazione corale che Calvino ha definito «il poema topografico di Parigi». Il ritratto della metropoli francese che Balzac tratteggia lungo tutta la trilogia con rapide e calzanti annotazioni sociologiche e antropologiche presenta quasi subito caratteristiche assai cupe e inquietanti. Se «le vie di Parigi hanno qualità umane», il disumano non tarda però a emergere e ad avere il sopravvento. La capitale appare allora come «il più delizioso dei mostri», un concentrato di eccezionale vitalità e intelligenza, dinamismo e bellezza, che in modo apparentemente ossimorico, ma in realtà pleonastico, viene definito una «mostruosa meraviglia». L’elogio per «la città dai centomila romanzi, la testa del mondo» lascia trapelare un che di orrido. «Mostro in tutto», Parigi. E mostro irrefrenabile, in perenne attività. Una specie di «enorme aragosta» le cui membrane sono le infinite porte che cigolano, come se sbadigliassero, ruotando sui loro cardini. Questa ruggente bestia famelica dalle mille zampe è l’icona di ciò che Calvino ha definito la «fondazione d’una mitologia della metropoli». È significativo che in Ferragus tale mitologia sfoci nei «meandri della burocrazia funeraria». Calvino nota che la premessa vitalistica ha per coronamento una conclusione cimiteriale. Andrebbe aggiunto che la teratologia balzachiana trova nella burocrazia la sua macabra apoteosi: «mostro infecondo» che «non genera nulla», la burocrazia insidia come un avvoltoio gli stessi cadaveri, allungando le sue unghie «fin nelle nostre bare».

 

 

  Mariolina Bertini et Patrizia Oppici, Avant-propos, in AA. VV., Autour de «Wann-Chlore» … cit.,pp. VII-IX.

 

  Il fallait rendre justice à ce roman. Bien que l’on ait depuis longtemps reconnu l’importance et l’autonomie des oeuvres de jeunesse, Wann-Chlore y méritait, à notre avis, une meilleure place. C’est pourquoi nous lui avons consacré ce volume, dont les résultats semblent confirmer le statut en quelque sorte exceptionnel que nous avons implicitement attribué à ce texte.

 

 

  Mariolina Bertini, Les deux orphelines : «Wann-Chlore» entre mélodrame et roman de moeurs, in AA. VV., Autour de «Wann-Chlore»... cit., pp. 71-80.

 

  La contamination des genres comédie et poésie lyrique, roman fantastique et roman sentimental, mélodrame et tragédie – fait donc la loi chez Wann-Chlore, qui est un véritable laboratoire d’expérimentation narrative. Dans un tel contexte, les deux héroïnes d’origine goethienne, unies dans l’amour et la douleur, la noblesse et l’innocence, finissent par se distinguer l’une de l’autre, surtout parce qu’elles appartiennent à des genres littéraires différents: Chlore, victime de l’obscur complot du traître Salvati, est l’héroïne du mélodrame par excellence, l’orpheline «innocente, malheureuse et persécutée» qui a fait verser des torrents de larmes au public du Boulevard du crime; quant à Eugénie, la «martyre ignorée» sur laquelle s’acharne une mère ambitieuse, obsédée par l’arrivisme, elle ne peut trouver son contexte que dans le roman de moeurs naissant, le seul qui puisse prendre en compte les facteurs historiques et sociaux déterminant sa situation. Eugénie et Wann-Chlore finissent par devenir l’incarnation, l’allégorie stylisée des genres auxquels elles appartiennent.

 

 

  Mariolina Bertini, Schede – Classici. Charles-Augustin Sainte-Beuve, “Contre Balzac”, a cura di Ida Porfido, pp. 183, € 19, Graphis, Bari, 2008, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XXV, N. 10, Ottobre 2008, p. 33.

 

  Il titolo che la curatrice ha scelto per questa raccolta di articoli, pubblicati tra il 1834 e il 1850, fa eco al celebre titolo che Proust, nel 1909, avrebbe voluto dare a uno scritto teorico che non portò mai a compimento: Contro Sainte-Beuve. Agli occhi di Proust, Sainte-Beuve rappresentava l’autorità consacrata di una cultura ufficiale che, facendosi scudo del prestigio dell’Académie Française, aveva misconosciuto Nerval e Stendhal, sottovalutato Baudelaire e liquidato Balzac come rappresentante di quella “letteratura industriale” il cui vero scopo era spremere la maggior quantità possibile di denaro al pubblico dei colti e dei semicolti. Come emerge dai saggi raccolti in questo volume, e presentati con il testo a fronte, Sainte-Beuve non restò sempre insensibile al fascino di Balzac. “Ha un senso molto acuto della vita privata, - scrisse di lui nel ʼ34 gli basta descrivere un viale, una sala da pranzo, un arredamento, per commuovere e far palpitare il lettore”. Ma la concezione che Balzac aveva del romanzo, come duttile strumento per dare voce ai paradossi e alle contraddizioni della società moderna, era incompatibile con l’ideale estetico di Sainte-Beuve, ancorato a più classici valori di eleganza, equilibrio e armonia. Sainte-Beuve capeggiò dunque autorevolmente il partito critico anti-balzachiano, spesso cogliendo con acume i punti deboli di un avversario che considerava “la sua selvaggina preferita” e di cui stigmatizzava le disparità stilistiche e la debordante immaginazione; Balzac reagì stroncando Port Royal e accusando spesso il suo avversario di essersi convertito alla critica per impotenza letteraria. [...].

 

 

  Gilberto Borzini, L’ombra della luna, Trento, Editrice Uni Service, 2008,

 

  p. 83. Tutte le cose vere assomigliano alle favole, tanto più che al nostro tempo le favole fanno l’impossibile per assomigliare alla verità. Chi lo ha detto? Giancarlo si era svegliato con questa citazione in mente e poco dopo ricordò Balzac, il cugino Pons.



  Roberto Calasso, La Folie Baudelaire, Milano, Adelphi Edizioni, 2008 («Biblioteca Adelphi», 531).

 

  pp. 199-200. È per lo meno strano che, proprio nel paese dove da quasi due secoli infuriava la querelle fra. Antichi e Moderni, occorresse tanta circospezione per arrivare a pronunciare e definire la parola «modernità». Che cosa incombeva dietro quel termine? Gautier si era tradito scrivendo una volta «moderno come un romanzo di Balzac». Dove «romanzo di Balzac» stava a significare il dettaglio ossessivo della vita di ogni giorno nella grande città. Era questo l’evento avvolgente e difficile da accettare. Balzac – una prateria di prosa che nomina fatti, oggetti, procedure e sensazioni sullo stesso piano – era egli stesso un sintomo (e non fra i meno allarmanti) di quella modernità, più che un suo teorico. Perciò non poteva essere un confratello nel tentativo di circoscrivere il moderno, essendone egli stesso una manifestazione invadente. Incarnazione di una demoniaca «volontà di vedere tutto, di non dimenticare nulla», Balzac è una «sommossa di dettagli, che esigono tutti giustizia con la furia di una folla infatuata di uguaglianza assoluta. Inevitabilmente, ogni giustizia sarà violata; ogni armonia distrutta, sacrificata; la minima banalità diventa enorme; la minima piccolezza, usurpatrice». Queste righe di Baudelaire, che non si riferivano a Balzac, sono quelle che più precisamente lo definivano. C’era qualcosa di smisurato in Balzac, una «incorreggibile e fatale mostruosità» che giustificava l’aspetto convulsivo delle sue figure. Tutte soffrono equamente di un eccesso di rilievo, di genio biologico (perché «chiunque, in Balzac, anche le portinaie, è geniale»). Ogni personaggio è pronto a esplodere, «tutte le anime sono armi cariche di volontà fino alla canna». Questa energia dilagante è tale da permettere a Balzac di «rivestire infallibilmente di luce e di porpora la pura banalità». È questo il suo segreto – e sembrerebbe essere lui l’unico a possederlo. Sullo slancio, Baudelaire aggiungeva una domanda retorica: «Chi altri può far questo?». Poi si fermava, come colpito da un’improvvisa evidenza: «Ma chi non fa questo, a dire il vero, non fa gran che». Rivelatore è quell’inciso: «a dire il vero». Come se, di colpo, si dovesse fissare un punto: non solo Balzac, nella sua mostruosità, ma ogni scrittore è tenuto almeno a rivestire di luce e di porpora la «pura banalità».

 

 

  Vittorio Caporrella, Il modello di famiglia borghese nell’Ottocento, in La Famiglia. Un’istituzione che cambia … cit., pp. 93-109.

 

  Seguendo un approccio metodologico prettamente diacronico e mantenendo comunque viva l’esigenza di coniugare la dimensione cronologica con le prospettive dei diversi approcci storiografici e disciplinari, l’A. affronta, in questa sezione, la questione del rapporto ambivalente tra famiglia e Stato-nazione nell’Ottocento. Il modello di famiglia borghese descritto dall’A. segna la nascita di un ideale di famiglia inteso come «centro affettivo, caratterizzato dall’intimità, dall’ideale dell’amore coniugale, dalla separazione fra ambito politico e sfera privata» (p. 93). Da questo punto di vista, la produzione romanzesca del XIX secolo costituisce una delle fonti privilegiate per studiare e comprendere il modello sentimentale ottocentesco: le opere di Balzac (di cui vengono riportati due brani tratti da Le Père Goriot e da La Cousine Bette) e di Flaubert, ad esempio, intendono denunciare, penetrando con occhio vigile e spietato gli spazi angusti e nascosti delle mura domestiche, «le ipocrisie della morale, smascherare la pratica dell’adulterio extraconiugale, descrivere la condizione di inferiorità a cui era costretta la donna, il tutto in un quadro di rapporti che richiedeva la subordinazione delle aspirazioni e dei sentimenti individuali alle strategie familiari» (ibid.).

 

 

  Giancarlo De Cataldo, “Le (sic) illusioni perdute”. Honoré de Balzac, «Corriere della Sera», Milano, 19 Dicembre 2008, p. 49.

 

  Non solo avrei voluto scrivere Le illusioni perdute, di Honoré de Balzac. Vi confesso che, da anni, non faccio altro che riscrivere (nei miei romanzi) questo bellissimo libro. La storia di un provinciale che tenta la strada del successo, con ogni mezzo, e accettandone le inevitabili (dolorose) disillusioni. Ma anche una grande scrittura corale, con personaggi così ben descritti, imbevuti di atmosfera e connotati con una precisione che ancora oggi colpisce per la sua nettezza, dalla cortigiana fino all’usuraio.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac e la lingua italiana, in «L’Analisi linguistica e letteraria», Milano, anno XV, n°2, 2007 [ma pubblicato nel novembre 2008], pp. 272-309.

 

  Nessuno meglio di Raffaele de Cesare avrebbe potuto affrontare e portare a miglior compimento questa ricerca su un tema così complesso e così poco esplorato dalla critica come quello relativo alla presenza e alla diffusione della lingua italiana nell’intera opera di Balzac. A dire il vero, in anni recenti, già M. T. Zanola, in un meritorio lavoro pubblicato nel 2005, aveva trattato con chiarezza di questa delicata questione – limitatamente però alla sola Comédie humaine – offrendo per la prima volta in maniera precisa valide e promettenti indicazioni circa l’indole “italianisante” di Balzac romanziere.

  Maggiormente ampia e profonda è la prospettiva di analisi assunta da de Cesare per mettere in luce, in questo studio, «il livello delle conoscenze che Balzac aveva della lingua italiana, la quantità e la qualità delle sue citazioni transalpine, il compiacimento più o meno giustificato (o, per meglio dire, il vezzo accarezzato) che egli aveva di porle in mostra sotto l’occhio dei suoi lettori» (p. 273). Privo di qualsiasi base lessicografica, grammaticale e sintattica in lingua italiana che potesse derivare dalla sua formazione scolastica, Balzac ebbe modo, grazie soprattutto alle relazioni con un nutrito gruppo di amici italiani o “italianisants’’ e alle diverse suggestioni ed intermediazioni italo-francesi di provenienza musicale (Cimarosa, Zingarelli, Donizetti, Bellini, Rossini), di cogliere e di trasmettere alcuni echi della nostra lingua. In questo gruppo di amici e conoscenti, un posto di primo piano spetta a Latouche (l’autore di Fragoletta) senza dimenticare i nomi di personalità altrettanto importanti e determinanti quali il barone Gérard, il conte milanese Emilio Guidoboni- Visconti, il duca Edouard de Fitz-James. Altre figure da ricordare sono il duca Napoléon d’Abrantès, oltre alle amiche Zulma Carraud, Laure d’Abrantès e Fanny Sanseverino-Vimercati.

  Passando poi ad allestire, secondo un ordine che, pur nel rispetto della scansione cronologica delle opere, l’A. assume come fondamento quello del genere della produzione balzachiana (di invenzione narrativa, di critica letteraria o politica, di comunicazione epistolare), e motiva questa sua scelta metodologica ritenendo che l’italiano di Balzac «non ha [...] uno sviluppo che cammini di pari passo con gli anni, che si arricchisca, cioè, grazie alle sue successive esperienze di lettura e di vita vissuta nelle vicende personali acquisite nel corso dei suoi numerosi viaggi in Italia» (p. 277).

  Nella prima sezione di questo repertorio, vengono analizzati non solo i cosiddetti ‘romans de jeunesse’ ma anche quei racconti o frammenti narrativi redatti dallo scrittore dalla seconda metà del 1830 alla fine del 1831 e rimasti inediti o pubblicati in riviste. Se le citazioni in lingua italiana tratte da questi scritti di apprendistato letterario non sembrano particolarmente frequenti e significative, più nutrito è l’insieme dei riferimenti all’italiano presenti nelle prime Scènes de la vie privée (Le Bal de Sceaux, La Vendetta, Sarrasine), nella Peau de chagrin, ne Les Marana e nella trilogia: Histoire dei Treize, mentre degno di nota è il caso di Père Goriot in cui Balzac attribuisce a Vautrin una solida conoscenza della nostra lingua. Particolarmente ricchi di riferimenti all’italiano sono i romanzi e i racconti redatti tra il 1836 e il 1838, negli anni, cioè, in cui il romanziere francese iniziò e approfondi le sue esperienze di viaggio nelle città della nostra Penisola; mentre per quel che riguarda la produzione narrativa successiva occorre sottolineare il fatto che, pur essendo in queste opere presenti citazioni e locuzioni italiane, «esse danno l’esempio di tediose repliche di parole e di modi di apre già largamente sfruttati» (p. 296). Un caso particolare ed abbastanza singolare è costituito dal romanzo Albert Savarus (1842) dove, osserva de Cesare, «la nostra lingua si riserva una larga porzione dell’invenzione narrativa» (p. 298). Complessivamente sommaria e priva di marcata originalità è la messe di citazioni presente nei romanzi della Comédie humaine posteriori al 1845 e negli scritti raccolti nelle Oeuvres diverses; più rilevante ed interessante è invece il repertorio di parole italiane desumibili dalla Correspondance in cui «appellativi di cortesia, attestazioni di calore umano, di amicizia, di affetto sgorgano in un vero e proprio effluvio» (p. 305).

  Se, dunque, l’insieme delle citazioni in lingua italiana presenti nell’opera omnia balzachiana raggiunge all’incirca le mille e cinquecento occorrenze, non bisogna per questo esagerare, osserva de Cesare, «il valore che assume l’imponenza di tale quantità» (p. 308). La loro qualità, infatti, si rivela assai tenue e di scarso pregio: numerosi sono i termini che, pur appartenendo «ad un linguaggio comune, colloquiale, quotidiano» o provenendo da diversi canali culturali restano comunque «incapaci di illuminare di una luce inattesa, folgorante la parola prescelta imprimendole quella incisività che la sua corrispondente francese non avrebbe saputo garantirle» (p. 309). In altri termini, conclude de Cesare, «Balzac appare – dispiaccia o non – più proclive a far mostra delle sue cognizioni linguistiche italiane che non a dominarle con esperta sicurezza» (ibid.).

 

 

  Pietro Citati, L’amore nel paese dei ciechi, «la Repubblica», Roma, 9 dicembre 2008.

 

  Esistono due tipi di lettura. La prima è la lettura interminabile: la quale si realizza, per esempio, leggendo le quattordici o quindicimila pagine della Comédie humaine di Balzac. Non finisce mai. Quando abbiamo terminato l’ultima riga – e i romanzi si possono leggere soltanto nell’ordine stabilito da Balzac – abbiamo già dimenticato il primo volume, e dobbiamo ricominciare da capo. Balzac racconta tutta la società, e nelle vene di questa società e nei suoi abissi, scopre le leggi dell’universo. Nulla manca: dalle fatiche del contadino alla ricerca dell’assoluto, dalle cortigiane di Parigi al “giglio della valle”, dall’androgino al giornalista, da Napoleone ai soldati francesi, dalla pelle di bue alla magica pelle di zigrino. Il movimento del libro conduce verso il centro, e dal centro riconduce alla periferia, e così sempre di nuovo. I personaggi ritornano, i romanzi si intrecciano; e ciò che è diverso e molteplice viene accompagnato, con mano ferma, verso l’Uno.

 

 

  Loredana Cont, «Forza Balzac!», www.giornalesentire.it, 25 ottobre 2008. [on-line].

 

  [...] Ho provato gioia davanti alla scultura di Rodin che rappresenta Balzac nudo, fiero, austero, che ti fulmina con lo sguardo, che sembra dirti “Beh? Vuoi dire forse che non vado bene così?”

  Vai benissimo, Balzaci!

  Con la tua pancia prominente sei una consolazione per tutti gli uomini che ti vedono, i quali, ornati a casa, davanti allo specchio prima di andare a dormire possono dire: “Però guarda come assomiglio a Balzac!”

 

 

  Giorgio Cosmacini, Hanno mortificato la morte, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 206, 27 luglio 2998, p. 33.

 

  Per molti medici del tempo andato, l’incontro con il morire del proprio paziente era il banco di prova della qualità del proprio mestiere, era il metro di misura di una religiosità tutta umana, laica, appartenente per statuto al mestiere di medico, indipendentemente dal personale credo di quest’ultimo. «Cominceremo col visitare due defunti», diceva Il medico di campagna descritto da Honoré de Balzac, avviandosi a fare il giro delle sue visite mattutine. Vita e morte appartenevano alla cultura medica del “fare visita”, del “visitare”, nelle condotte di campagna e di città.

  La morte era considerata un evento o processo naturale, connaturato all’essere mortale dell’uomo come di ogni altro vivente. Faceva parte della vita, non era opposta alla vita. I futuri medici, nelle aule di lezione e nei gabinetti d’analisi, imparavano a “conoscere la morte” come fenomeno fisico-chimico, come anatomia cadaverica, ma poi, sul campo, imparavano a “comprendere la morte” a un più alto livello, grazie a una vocazione realizzata come curanti disponibili e partecipi.

 

 

  Fernando Cova, “Facino Cane, principe di Varese” di Balzac ... cit..

 

  Oggetto di questo contributo è la presenza delle citazioni (peraltro minime) relative a Varese nella Comédie humaine – una scoperta definita dall’autore «motivo di stupore e curiosità» (p. 111) – in relazione essenzialmente alla figura del personaggio di Facino Cane, protagonista dell’omonimo racconto. Fernando Cova traccia un profilo biografico del condottiero Bonifacio Cane (1560-1413) e fa sommariamente cenno ai momenti e alle figure salienti che hanno caratterizzato i diversi soggiorni italiani del romanziere francese tra il 1836 e il 1846. Alla fine del suo intervento, viene presentato il testo in lingua italiana della novella in oggetto (pp. 116-127).

 

 

  Maurizio Cucchi, Honoré de Balzac un genio normale, «La Stampa», Torino, 16 dicembre 2008, p. 36.

 

  Confesso di essere poco attratto da biografie e diari di illustri personaggi. Mi sembra quasi di compiere atti di voyeurismo letterario, di venire in possesso di notizie che in qualche modo turbino il sereno giudizio sull’opera, e soprattutto il suo godimento autonomo. Ma la realtà è sempre contraddittoria, e dunque quando amo un autore vorrei a volte anche sapere tutto di lui: quant’era alto, come si muoveva, che atteggiamento aveva verso gli altri. Proprio per questo ho letto con piacere Balzac mio fratello di Laure Surville Balzac (Sellerio, p.192, € 9), che rende più vicino e quotidiano il personaggio del grande romanziere.

  Introduce con un breve saggio Daria Galateria, che ci ricorda molto opportunamente chi fosse la madre di Balzac, il quale la definiva «un mostro», aggiungendo: «Non è pazza, è cattiva», e poi: «Non ci perdona i suoi errori». La sorella Laure è molto affettuosa con Honoré, di cui scrive questo dolce ritratto nel 1858, otto anni dopo la morte del fratello, avvenuta quando il grande Balzac aveva solo cinquantuno anni. E ancora una volta non possiamo non restare sorpresi, quasi annichiliti, dall’enorme importanza, anche quantitativa, di un’opera composta, in fondo, in due soli decenni.

  Ma dal libro della sorella, tra le varie circostanze narrate, emergono due aspetti importanti. Il primo è legato al ben noto peso opprimente dei debiti contratti da Balzac per cercare l’indipendenza economica con operazioni fallimentari (aveva comprato persino una fonderia). Come se, in fondo, il genio si trovasse costretto a una attività incessante, capace anche di soffocarne la gioia e il piacere di vivere che pure erano nella sua natura, proiettando in un futuro, che non ci sarebbe stato, ogni idea di riscatto. E da questo non possiamo che ricavare un’ulteriore conferma di quanto giovi una ferrea disciplina, anche imposta, al pieno esprimersi di un estro creativo, che l’ozio, anziché coltivare, tende spesso a soffocare.

  Il secondo aspetto che emerge dalle parole di Laure è la normalità della grandezza: «quell’uomo di solito così lucido e lungimirante era semplice e fiducioso come un bambino», «anche nei giorni di scoramento e malinconia era di umore calmo e costante» e «in privato, era così gentile da rendere felice chi gli viveva accanto». Tutto questo contro ogni pittoresco stereotipo, contro ogni mitizzazione ingenua del genio come intrattabile e semifolle personaggio immerso nelle fosche nubi della sua ispirazione.

 

 

  Andrea Del Lungo, Impuissances du mal (Balzac, “Histoire des Treize”), in Collectif, Puissances du mal, textes réunis et présentés par Pierre Glaudes et Dominique Rabaté, «Modernités» n. 28, Presses Universitaires de Bordeaux, 2008, pp. 63-77.

 

  In questo studio, l’A. considera il concetto di “reversibilité” come uno tra i principi fondanti del sistema narrativo balzachiano sotto la prospettiva non soltanto letteraria, ma ideologica. Riferendosi in modo specifico ai tre romanzi che formano l’Histoire des Treize, i cui modelli di riferimento si collocano in stretta relazione con le strutture e le forme del romanzo nero inglese, egli ritiene che «ce principe de réversibilité met en crise la “puissance du mal”» (p. 63). A suo giudizio, infatti, «cette trilogie nous plonge dans l’histoire d’une association secrète mystérieuse, dont le pouvoir frôle le démoniaque et le surnaturel, et plante tout à la fois le décor de Paris [...] comme ville-enfer, condensation des vices du monde» (ibid.). Balzac, osserva l’A. in conclusione, non descrive unicamente il male poiché «son principe de dévoilement est plus complexe, à travers un mécanisme incessant de déconstruction et de reconstruction par lequel tout devient réversible du point de vue de l’idéologie et de la morale» (pp. 76-77).

 

 

  Luigi Derla, Menzogna e verità nel “Père Goriot” di Balzac, «Testo», Milano, N° 55, gennaio-giugno 2008, pp. 7-20.

 

  Il contrasto tra menzogna romantica e verità romanzesca assume, nel Père Goriot di Balzac, «proporzioni inaudite» determinandone «l’estrema ambiguità del testo» (p. 9): un’ambiguità strettamente legata ai personaggi, ai temi e ai nodi cruciali del romanzo e che dipende dalla «strategia compositiva predisposta a tessere la tela dell’illusione romantica e nello stesso tempo a lacerarla» (ibid.). Come il romanzo (inteso come genere letterario) è concepito da R. Girard e M. Butor come una forma artistica che demistifica, sotto la prospettiva esegetica, il “récit“, così il Père Goriot può interpretarsi come un romanzo di smascheramento. Attraverso la potenza oggettiva della narrazione, Balzac denuncia l’ambiguità morale di Rastignac e della sua «éducation sentimentale», e inscrive nella categoria estetica del mostruoso l’amore di Goriot per le figlie rappresentando questo falso «Cristo della paternità» come un personaggio tragicamente ridicolo. Tuttavia, si chiede l’autore, quella “menzogna romantica” di cui parla Girard non potrebbe in realtà riferirsi a un fenomeno universale, ad una «modalità dell’insopprimibile menzogna esistenziale», ad uno degli espedienti a cui l’essere umano e l’umanità balzachiana ricorrono non sempre consapevolmente per rendersi tollerabile la vita, per apparire quello che non sono, o che vorrebbero essere?

 

 

  Georges Didi-Hubermann, La pittura incarnata ... cit., pp. 165.

 

  pp. 31-33. Frenhofer rimprovera al quadro di Porbus che il corpo della santa peccatrice sia «incollato sullo sfondo della tela»: «è una silhouette a una dimensione, un’immagine ritagliata». Detto altrimenti, quel che manca è la virtù fondamentale dell’interstizio, del «tenersi-fra». Virtù che dipende dalla doppia esigenza di aria e di sangue: a un corpo dipinto si deve poter «girare intorno», dice Frenhofer, vale a dire che esso deve rompere, in quanto corpo, con tutto lo spazio atmosferico del rappresentato; deve di conseguenza presentarsi, rispetto al mondo, allo sfondo o alla scena, come un soggetto, un individuus (individuato, cioè separato, ma anche indivisibile). D’altra parte, questo corpo dev’essere a sua volta provvisto della virtù interstiziale della pelle: superficie viva, porosa, irrigata, calda – come a dire una non-superficie. C’è bisogno del lucente e del sangue [...].

  L’esigenza della «forma» secondo Frenhofer non è quindi l’esigenza delle sue qualità di superficie, quand’anche tridimensionali: «Prova a prendere l’impronta della mano della tua amica e posala davanti a te: ti troverai di fronte a un orribile cadavere senza alcuna somiglianza» dice Frenhofer al mesto Porbus. «Non vi calate abbastanza nell’intimo della forma». Ma cos’è «la forma»? E, risponderà sostanzialmente Frenhofer, una fecondità inafferrabile della piega. Il visibile sarebbe una specie di immensa e diffusa topologia delle pieghe, una sfoglia pellicolare generalizzata, nella quale l’interstizio sarebbe in qualche modo portatore della differenza, del senso. Quando Frenhofer ci parla di un «Proteo ben più inafferrabile e fecondo di pieghe di quello della favola», bisogna allora ricordarsi di quello che ci dice Nadar su Balzac, in posa per il proprio ritratto fotografico di corpo «in sfoglie»: «Balzac si sentì a disagio davanti al nuovo prodigio: non poteva difendersi da una vaga apprensione per l’operazione daguerriana. Aveva trovato una personale spiegazione [...]. Dunque, secondo Balzac, ogni corpo, in natura, è composto da una serie di spettri, in strati sovrapposti all’infinito, stratificati in membrane infinitesimali, in tutti i sensi in cui si attua la percezione ottica. Non essendo consentito all’uomo di creare – ovvero costituire una cosa solida da un’apparizione, dall’impalpabile, ossia dal niente fare una cosa –, ogni operazione daguerriana interveniva a rivelare, distaccava e tratteneva, annettendoselo, uno degli strati del corpo obiettato». Obiettato, dice bene Nadar: infatti nel momento in cui è «messo in opera», oggettivato, il corpo si trova confutato, spogliato, annientato. Sarebbe come un effetto mortifero dell’aura: il divorare diafano, a opera dell’immagine, del foglio dei corpi. Non tanto effluvio, quanto effetto di un interstizio pellicolare generalizzato, vorace.

  Frenhofer, nome proprio enigmatico inventato da Balzac, ha probabilmente qualche affinità con l’idea di un mondo visibile instabile, in cui ogni forma dovrebbe la propria esistenza solo alla quasi casualità di una concrezione spettrale. Poussin e Porbus fanno parte della «vera» storia del l’arte, ma di quale storia fa parte questo genio sconosciuto chiamato Frenhofer? Di una storia mitica, di sicuro, un’invenzione balzachiana, ma anche della storia del diafano, per l’appunto. Cinque anni prima della stesura del Capolavoro sconosciuto, moriva al colmo della gloria l’ottico Fraunhofer, autore di una Teoria degli aloni, di uno studio sulle variazioni della luce e, soprattutto, fondatore notorio della spettroscopia: era stato il primo fisico a mettere in evidenza lo spettro della luce solare (utilizzando a questo scopo il potere dispersivo dei prismi): il raggio di pura luce si rivelava costituito da cinquecentosettantasei pellicole o strisce (dette «strisce di Fraunhofer»» di cui si suppose che l’organizzazione dicesse qualcosa sulla natura materiale dell’astro solare (la supposizione fu confermata: Fraunhofer stabilì tra l’altro una vera e propria classificazione spettrografica delle stelle). Il sapiente Fraunhofer aveva dunque penetrato l’intimità dei corpi celesti semplicemente analizzandone gli spettri, le diafane emanazioni pellicolari. Possiamo immaginare che l’iper-pittore Frenhofer tentasse la stessa impresa con i corpi di carne.

  Una simile «esigenza di forma» si espone a un enorme pericolo. Essa s’inscrive, infatti, in una specie di poco crudele, un mortale chi-vince-perde (e qui il pensiero corre a La pelle di zigrino) in cui ciò che detta legge è una sorta di iperfisica (il termine e. fra gli altri, di Nadar), un’iperfisica della mimesi. Iperfisica e non metafisica: la mimesi è qui di fatto pensata come una materia, certo sottile, ma in ogni caso una materia, una «sostanza madre», scrive Balzac, un tessuto di viscere. È dunque un’iperfisica della piega e della vibrazione, come un diaphanes generalizzato, quasi organico. L’apparire corporeo, ma anche il pensiero, ne deriverebbero. Per il suono e per la luce sarebbe la stessa cosa, secondo un principio d’equivalenza generalizzata, sottile: «Il suono è la luce sotto altra forma: ambedue procedono per vibrazioni che fanno capo all’uomo, che le trasforma in pensiero nei suoi centri nervosi. La musica, come la pittura, fa uso dei corpi che hanno la facoltà di liberare questa o quella proprietà dalla sostanza base, per comporli in quadri» spiega Balzac attraverso un altro genio sconosciuto, Gambara. Il quadro non è quindi solo una topica, ma una dinamica e un’energetica del vivente il diafano pensato come una biologia del visibile). Balzac ne conduce che, come la pittura, «la musica è un’arte intessuta nelle stesse viscere della natura».

 

 

  Stefano Doglio, Balzac e la musica, «Sìlarus. Rassegna bimestrale di cultura», Battipaglia, Anno XLVIII, n. 260, Dicembre 2008, pp. 48-53.

 

  Viene qui pubblicata solamente la prima parte dello studio dove, però, non si fa cenno in alcun luogo a Balzac.

 

 

  Marco Dotti, Il volto privato di Honoré de Balzac, «Il Manifesto», Roma, 13 dicembre 2008, p. 14.

 

  A dargli una mano, agli esordi della camera, era stato il titolo di «romanziere più prolifico di Francia» affibbiatogli con troppa fretta da stampatori e librai. A ben vedere, però, quel titolo Honoré de Balzac se l’era conquistato a colpi di delusioni, di rimproveri, di amici cari e fidati che lo invitavano a desistere da ogni ambizione e nei primi tempi, quasi per rivalsa, sembrava non andargli neppure troppo stretto. Proprio grazie alla fama e alle tirature dei suoi tomi, costantemente esaurite, gli sarebbe stato possibile proporre e stampare senza problemi altri libri, quelli «maggiormente impegnativi» secondo il suo giudizio e che di certo gli stavano più a cuore. Ma a conti fatti, quel «titolo» fini per nuocere molto all’autore e alle sue opere, relegate in angoli polverosi di qualche biblioteca, ma quasi mai – così ricorda la sorella di Honoré, Laure Surville «nata» Balzac, in un delizioso libretto da poco pubblicato per i tipi dell’editore Sellerio – nel posto che competeva loro, accanto a Rabelais, Shakespeare o Molière.

  Per molti lettori «anche di buon livello», persino dopo la sua morte avvenuta nel 1850 (pochi anni dopo, Laure consegnerà i suoi ricordi al testo che apre il XXIV volume delle Oeuvres complètes del fratello), Balzac era e rimaneva «solo il padre di Eugénie Grandet». Chi lo leggeva, amava lo «svago» che le sue opere sapevano dare, senza cogliere il disegno profondo, la traccia di una «dura» filosofia nascosta dietro la facciata di tanti quadri e tante storie di vita borghese parigina. Balzac teneva molto al sostrato speculativo del proprio lavoro, anche quando appariva segnato da considerazioni «scientifiche» sconvenienti o del tutto in controtempo. I lettori più esigenti sembravano invece ignorare tutto di lui – questa l’amara considerazione dello scrittore, ripresa e ampliata da Laure – non degnando i suoi libri neppure di uno sguardo superficiale, mentre i superficiali per inclinazione naturale o sociale vocazione si dedicavano a una lettura per nulla «esigente» del suo lavoro. Per una strana inversione, nota la Surville-Balzac, accadeva dunque che molti fra i lettori della Comédie humaine «la conoscessero meno di quelli che non l’avevano mai letta». Eppure, quel Balzac che in pubblico si mostrava come una vera e propria «macchina» mossa dall’attività febbrile e quasi maniacale dello scrivere, nell’intimità mostrava umanissimi cedimenti dinanzi alle proprie pene economiche o d’amore. La scrittura stendeva veli ed erigeva muri, declinando le ferite della giovinezza al ritmo imposto da un continuo dissimulare. Guidato «dal genio dell’osservazione», Balzac collezionava tipi umani, «studiando le stimmate che le passioni o i vizi imprimono su tutti i volti». Da attento fisionomista, però, cercava di «nascondere con fierezza la sua miseria, per timore che lo commiserassero».

  A conti fatti, scrive Daria Galateria nella sua premessa, Balzac sapeva bene che, scrivendo, si lasciano impronte digitali un po’ ovunque e forse nulla, più di una pagina scritta, conserva indizi che, col tempo, tendono a riaffiorare «Nessuno conosce il segreto della mia esistenza, e non intendo raccontarlo a nessuno», scriveva comunque Balzac a Eveline Hanska. Curvo «sotto un terribile fardello», deciso a mostrarsi forte, ribadiva che anche «interrogando chi mi sta accanto, non riuscireste a far luce su questa infelicità». Eppure è proprio a chi più di tutti gli stava accanto, la sorella Laure, cui bisogna ancora rivolgersi per cercare di decifrare «l’enigma Balzac». Rivolgersi ai suoi ricordi, ma anche alle sue cesure e ai suoi silenzi: mai una parola – per esempio – non una sola menzione per Madame Hanska, la nobildonna polacca che, verso la fine della propria vita, Balzac intendeva sposare. Ma, conclude Laure Surville, «il mio dovere verso di lui e verso tutti si ferma qui», davanti a quel silenzio, calato come una griglia nera oltre la quale «solo i forti hanno il diritto di giudicarlo come scrittore».

 

 

  Mircea Eliade, Fragmentarium. Edizione italiana a cura di Roberto Scagno. Traduzione dal romeno di Cristina Fantechi, Milano, Jaca Book 2008.

 

«Non m’interessa».

 

  p. 79. Balzac è stato ridicolo innumerevoli volte, ma la scena più penosa della sua vita l’ha vissuta quando ha tentato di spiegare in un caffè perché aveva scritto L’enfant maudit. Non discutete seriamente che con quelli che, preventivamente, accettano le vostre idee. Gli altri ascoltateli, prendetene nota e salutateli gentilmente.

 

 

Sul destino del romanzo romeno.

 

  pp. 81-82. Non mi propongo di tentare una definizione del romanzo. Ma è incontestabile che – mentre nella novella predomina l’avvenimento, e nel dramma il contrasto – il romanzo è un libro fatto di personaggi. Si può scrivere un romanzo senza che nulla vi accada e senza conflitti. Basterà che vi viva un solo uomo. Il romanziere è libero di scegliere dove vuole i personaggi che crea; essi possono essere geniali ed esaltati, come in Louis Lambert, o primitivi e tellurici, come ne Il risveglio della terra di Knut Hamsun. Rileggete Louis Lambert; è un romanzo in cui non avviene praticamente nulla. Un libro in cui vive un solo essere umano, al quale non accade niente sin quasi alla fine; e più della metà delle pagine del libro sono occupate da riflessioni mistico-antropologiche, da riflessioni filosofiche, da lettere esaltate. E tuttavia, Louis Lambert resta uno dei migliori libri di Balzac, che dev’essere senz’altro annoverato tra i capolavori del romanticismo, benché Balzac sperasse, all’epoca in cui lo ha scritto, di aver superato quest’ultimo ...

  Certo, è preferibile che i personaggi di un romanzo siano persone notevoli. Un libro i cui personaggi avallano la dignità umana è al tempo stesso un libro che innalza la dignità della letteratura nella quale si inscrive. Più una letteratura può andare fiera di possedere diversi tipi, diversi personaggi nei quali il dramma dell’esistenza si dispiega in tutta la sua pienezza, più alto è il livello che raggiunge. Ci ricordiamo del romanzo francese grazie a Père Goriot, a Madame Bovary, a Julien Sorel o a Manon Lescaut. [...].

  Anche Balzac si è cimentato nel romanzo sociale e ci è riuscito nella misura in cui ha creato dei tipi, degli esseri eccezionali.

 

 

Solidarietà.

 

  p. 115. L’opera di uno scrittore acquisisce valore e rivela aspetti sconosciuti grazie soprattutto alle creazioni e alle esperienze letterarie ulteriori. Così a Balzac ha giovato enormemente la comparsa di Proust. Ne La Comédie humaine vi è un numero considerevole di pagine che erano ritenute inerti e inutili tanto dai critici quanto dai semplici lettori. Si tratta di quelle lunghe e pesanti descrizioni dai colori smorti, e tuttavia di notevole esattezza, che non piacquero né nel 1840 né nel 1900. Dopo la lettura di Proust, il criterio di giudizio – incluse le stesse premesse della contemplazione estetica – si modifica e gli aspetti «inerti e morti» de La Comédie humaine acquistano un gusto e un valore che non avrebbero mai conseguito se non fosse intervenuta la creazione di Proust.

  Un’opera geniale fornisce al lettore nuovi mezzi di conoscenza, mezzi che gli permettono di considerare le opere del passato da una nuova prospettiva. Se ho menzionato Balzac insieme a Proust è perché questo caso è uno dei più facilmente verificabili.

 

 

Teoria e romanzo.

 

  p. 119. Il romanzo puro è una sciocchezza, come la «poesia pura». Una grande creazione narrativa rispecchia in buona parte anche i mezzi di conoscenza dell’epoca, il senso della vita e il valore dell’uomo, le conquiste scientifiche e filosofiche del suo tempo. È ciò che hanno realizzato Rabelais, Sterne, Balzac, Tolstoj, Dostoevskij. È assurdo bandire la «teoria» da un’opera narrativa, assurdo chiedere a un romanziere solo descrizioni o solo eventi. Questi romanzieri «puri» sono esistiti; e si chiamano Zola, Goncourt, Maupassant. Romanzieri che si sono guardati dal generalizzare, dal filosofare, dal violentare la realtà in nome di un’idea o di un ideale. Nessuno degli altri grandi creatori narrativi, da Rabelais a Thomas Mann, ha rinunciato per un solo istante alla sua dignità umana, ad affrontare i problemi che il sapere e la morale implicano, alla «teoria». Beninteso, questa «teoria» nuoce all’opera quando vi è gettata a palate, male assimilata, come in Balzac, o quando procede da un profetismo extra-artistico, come in Tolstoj.

 

 

Modesti.

 

  pp. 158-159. Quanto ingenuo mi sembra, adesso, l’orgoglio sbandierato ai quattro venti di Balzac, che si reputava – ed era – un genio; che diceva d’essere eguale a Napoleone e sosteneva che mai il mondo avrebbe dimenticato Le Père Goriot! ... Balzac era cosciente almeno del fatto che la sua opera coincideva, benché imperfettamente, con le sue capacità. Non pensava, come Virgilio, che ciò che aveva creato non valeva nulla, che la sua capacità creativa avrebbe potuto essere mille volte più grande, che, comunque, il suo «ideale» artistico era a tal punto grandioso che neppure Lui riusciva a realizzarlo ...

 

 

  Flavio Fergonzi, Monumento a Honoré de Balzac, in AA.VV., Rodin e la nascita della scultura moderna. Catalogo di Flavio Fergonzi e Massimo De Sabbata, Milano, Il Sole 24 Ore; Firenze, E-ducation.it, 2008 («I grandi maestri dell'arte. L’artista e il suo tempo», 33), pp. 211-217; ill.

 

  La vicenda del monumento a Balzac, commissionato a Rodin nel 1891 da un importante società di lettere presieduta da Émile Zola, la Société des Gens de Lettres e rifiutato dai committenti dopo la contrastata esposizione del modello in gesso al Salon del 1898, segnò un punto di svolta cruciale nel lavoro dello scultore. Per la prima volta Rodin tentò di rinnovare il repertorio di quell’eroismo di matrice michelangiolesca che era stato, fine a quella data, la cifra dominante della sua scultura di grandi dimensioni, e scelse la via di una scultura consapevolmente impressionista. Per la prima volta il fronte compatto di apprezzamento che accompagnava il suo lavoro dai primi anni Ottanta si spaccò: la modernità della proposta trovò favore presso quegli ambienti che auspicavano un rinnovamento radicale dell’arte scultorea, ma suscitò forti riserve presso gli ambienti più conservatori che avevano considerato Rodin sì come un rinnovatore, ma nel solco della tradizione museale. Di Balzac non esisteva, a più di quarant’anni dalla morte (avvenuta nel 1850), un monumento pubblico a Parigi; esisteva, però un celebre busto di David d’Angers, che ne aveva in qualche modo definito i canoni somatici. La prima sottoscrizione per un monumento da innalzare a Parigi fu aperta dalla Société des Gens de Lettres nel 1883, con l’intento di celebrare con Balzac uno dei suoi più antichi e prestigiosi presidenti. L’incarico fu affidato a Henri Chapu, un affermato scultoree neoseicentista, che studiò un bozzetto molto tradizionale (Balzac seduto in atto di meditazione, penna in mano), ma morì prima di provvedere all’ingrandimento. Il nome di Rodin fu proposto da Zola nel 1891, non senza trovare opposizioni interne alla Société: lo scultore accettò e iniziò un intenso processo di studio fisionomico dello scrittore, condotto in particolare su antiche fotografie, ritratti e descrizioni letterarie. Il genere di commissione, che non prevedeva i consueti controlli ministeriali che seguivano puntualmente ogni passaggio del lavoro, fece credere a Rodin di godere di una libertà creativa a lui sconosciuta fino a quella data per un monumento. Iniziò così a studiare una scultura in cui Balzac, giovane e dai capelli corti, vestito con una lunga redingote, si appoggiava a una pila di libri; scelse poi di rappresentare Balzac nella veste di lavoro, un lungo saio da frate domenicano e le braccia incrociate (questo bozzetto fu presentato alla Société des Gens de Lettres e fu entusiasticamente approvato); pensò poi di accentuare l’aspetto eroico dello scrittore rappresentandolo nudo, nel gesto del cammino o in quello di affrontare spavaldo lo spettatore. Nel 1896, ormai in drammatico ritardo rispetto agli accordi statuiti con la committenza, tornò all’idea del Balzac vestito da domenicano: ma questa volta, calò il saio (ottenuto nel modello bagnando in gesso un saio vero) su uno studio di nudo stante, lievemente inclinato all’indietro, con le braccia riunite all’altezza del sesso. La lunga veste non si modellava più sul corpo, ma creava un effetto di colossale, informe monolite: l’idea venne probabilmente a Rodin dall’osservazione del Bookmaker di Medardo Rosso, esposto alla mostra personale dell’italiano alla Bodinière nel dicembre 1893, e fu riutilizzata per uscire dall’impasse di un monumento per il quale sembrava incapace di trovare la soluzione.

  Nel 1898, dopo una travagliata operazione di ingrandimento del modello che durò quasi un anno, il gesso a dimensioni definitive fu esposto al Salon. La reazione di gran parte del pubblico e della critica fu violentissima, e le dimensioni dello scandalo furono paragonabili solo a quello, di trent’anni prima, dell’esposizione dell’Olympia di Manet al Salon del 1865. Allo scultore venivano rimproverati la scarsa somiglianza con l’effigie nota di Balzac, l’aspetto caricaturale del volto e soprattutto l’impianto generale della statua, più simile a «un pupazzo di neve» o a «un quarto di manzo» (così si espressero le recensioni più velenose apparse sulla stampa) che a uno scrittore ammirato. La Société des Gens de Lettres comunicò ufficialmente che rifiutava «di riconoscere nello studio esposto da Rodin al Salon la statua di Balzac» e affidò il monumento ad Alexandre Falguière. Rodin ritirò dal Salon il grande gesso e lo installò nel suo giardino di Meudon, rinunciando a una sottoscrizione per la fusione in bronzo dell’opera promossa da un gruppo di parigini che comprendeva artisti (tra i quali Monet, Renoir, Cézanne, Meunier e Medardo Rosso) e letterati (tra i quali Mallarmé, France e Gide). In un’intervista rilasciata a caldo mentre infuriava lo scandalo Rodin sostenne che col Balzac aveva voluto «tracciare una linea di demarcazione tra la scultura commerciale e l’arte della scultura nella grande tradizione occidentale», trovando a rappresentare qualcosa che fosse al di là della forma abitualmente percepita. La statua rimase lungo nel giardino di Meudon, dove fu oggetto di una celebre sequenza di fotografie al chiaro di luna di Edward Steichen nel 1908: solo nel 1938 la fusione in bronzo fu collocata a Parigi alla congiunzione a i boulevards Raspail e Montparnasse.

 

 

  Francesco Fiorentino, «Wann-Chlore» et l’esthétique du roman sentimental, in AA.VV., Autour de «Wann-Chlore» ... cit., pp. 61-70.

 

  Le roman sentimental lui-même, écrit le plus souvent par des femmes appartenant à l’aristocratie, connaît — grâce à Mme de Duras – un certain renouveau. Vu que ces différents modèles de narration coexistent sans qu’aucun d’entre eux n’arrive à s’imposer, il est assez commun au cours de cette décennie que les romanciers passent de l’un à l’autre, comme le fit le jeune Balzac. Que l’on pense à Nodier, à Latouche — mais aussi à Hugo et à Stendhal, pour ne parler que des plus importants. En somme, il me semble juste de souligner que le caractère expérimental des oeuvres du jeune Balzac entre dans un contexte plus général, de crise de croissance du genre romanesque favorisant les expérimentations.

  C’est sous ce jour que nous entendons considérer Wann-Chlore. Le roman s’insère clairement dans le sous-genre «sentimental», glorieux courant de la tradition romanesque européenne qui, à partir du renouvellement opéré par la Nouvelle Héloïse et par Werther, reste en vogue jusqu’à la fin de la Restauration. Non seulement le roman balzacien attaché une importance primordiale à la description des différentes formes et natures du sentiment amoureux, obéissant en cela aux lois du genre sentimental, il adopte aussi certains topoi, – tels que l’héroïne anglaise, l’importance de la musique et du portrait, le sauvetage de la noyade, l’angélisme ... Mais c’est surtout l’intrigue qu’il en retient, même s’il la déforme au point d’en renverser la valeur idéologique.

 

 

  Marc Fumaroli, Balzac e l’artista suicida. Storia di un quadro impossibile. Traduzione di Elisabetta Horvat, «la Repubblica», Roma, 13 dicembre 2008, p. 51; 1 ill.

 

  Nel “Capolavoro sconosciuto” il romanziere penetra nell’interno della stessa invenzione artistica spiando lo studio e l’anima del pittore dell’era borghese. Creando il fantastico personaggio di Frenhofer che dà lezioni al giovane Nicolas Poussin l’autore mette in scena la sfida di chi aspira a creare come Dio.

 

  Cos’è che rende oggi così universalmente affascinanti i grandi romantici francesi – Chateaubriand, Tocqueville, Stendhal, Baudelaire, Flaubert, e il più enciclopedico di tutti, Balzac? Come sbarcati, pieni di stupore, da un altro pianeta, hanno visto e mostrato il mondo radicalmente fantastico in cui noi siamo ora immersi fino al collo, senza poterne prendere le distanze. Mentre loro, alieni carichi di una lunga memoria e di un formidabile potere contemplativo, si mostrarono subito lucidissimi: un lusso che a noi è negato, presi e incalzati come siamo nell’attuale maelstrom globale.

  In questo grande gioco di un’anticipazione inseparabile dalla reminescenza – che nulla ha di fantascientifico – Balzac è imbattibile. Nelle Illusioni perdute e in Splendori e miserie delle cortigiane esplora quel nido che è la Parigi di Turgot e di Restif, deturpata dalla Rivoluzione, stanando tutto intero l’uovo di New York e di Wall Street. E nella frenesia con cui la stampa e la pubblicità proletarizzano le menti, in una Francia da poco derivata da quell’Ancien Régime che adora, rivela il potere mediatico ancora in germe.

  Noi sguazziamo nella querelle sull’arte contemporanea. C’è chi vuole vedere in essa i vermi che rodono il cadavere delle Belle Arti, mentre altri la celebrano come un Rinascimento alla rovescia, un’inaudita esplosione di creatività scatenata dalla buona novella: «Dio è morto, l’immagine di Dio è infine libera di scoppiare». Ora, al tempo in cui Delacroix, Ingres e Corot sono vivi e celebri, Balzac osa già predire quello che chiama «il suicidio dell’Arte». E in Pierre Grassou lo spiega dall’esterno, in termini sociologici: la proliferazione degli artisti, la scomparsa del mecenatismo esigente della Chiesa e dello Stato, il moltiplicarsi di un pubblico di nuovi ricchi che non vedono la differenza tra un capolavoro originale e la riproduzione di immagini in serie.

  Ma in Le chef-d’oeuvre inconnu (Il capolavoro sconosciuto) Balzac penetra nell’interno della stessa invenzione artistica, spiando lo studio e l’anima del pittore dell’era borghese; e dà vita al fantastico personaggio di Frenhofer, l’artista folle e geniale in cui si consuma e si brucia il destino occidentale dell’Arte.

  Con Frenhofer, «demone» della pittura creato di sana pianta da Balzac, il romanziere si rivela, più che storico o sociologo dell’Arte, un suo mitografo uguagliando in potenza Platone. Il vecchio e glorioso Frenhofer deve la sua immensa ricchezza alla sua arte, di cui le corti europee si disputano le creazioni. Erede critico e possessore geloso dei segreti del mestiere di tutte le scuole di pittura europee fin dal Rinascimento, virtuoso della «linea» fiorentina e düreriana come del colore veneziano o correggiano, può permettersi di umiliare crudelmente il fiammingo. Porbus, ritrattista del re Enrico IV, che gli mostra il suo ultimo quadro: Maria l’egiziana in atto di offrire le sue grazie a un traghettatore, non potendo pagare altrimenti il passaggio all’altra riva del Nilo, verso il deserto dove vuol fare penitenza per la sua vita da cortigiana. E a maggior ragione, Frenhofer può dare una lezione di disegno al giovanissimo Nicolas Poussin, che sogna di poter entrare nello studio di Porbus, e per ingraziarsi il suo eventuale maestro non esita a chiedere alla bella Gillette, la donna che ama, di posare per Frenhofer. Aveva già ottenuto che posasse per lui, ma la giovane donna, risentita, gli dice: «Tu non pensi più a me, eppure mi guardi». Una battuta degna di Dora Maar, amante e modella di Picasso negli anni 1937-1939, che dopo la loro rottura si consacrò con la fede più ardente alla vita claustrale.

  Insaziabile Homo eroticus, Frenhofer si era proposto di superare se stesso e i limiti della sua arte; da dieci anni lavorava a creare un’immagine più viva della natura stessa della donna che fin dall’inizio gli aveva fatto da modella: una cortigiana, la «Belle Noiseuse» (la Bella scontrosa). Quando Poussin gli presenta Gillette per proporla come nuova modella, lui la «spoglia con lo sguardo», e «indovina le sue forme più segrete».

  Balzac ha dunque innestato nell’intimo delle sue tre figure di pittori l’arte di «abbacinare gli occhi» in un isterismo erotico e cinico, senza più traccia di reciprocità, al servizio dell’illusione e della seduzione pittorica. Nel XVII secolo immaginato da Balzac, dove il mecenatismo regale e laico si sostituisce a quello del clero, prima di cedere il posto al mercato borghese, l’arte pittorica, disancorata fin dal Rinascimento dalla funzione devozionale e liturgica in cui l’aveva tenuta la Chiesa romana, non è ormai più che una versione virile e cerebrale della prostituzione delle donne e di quella mercantile.

  Il verme della corruzione è nel frutto. Ma è nel genio fuori dal comune di Frenhofer, e non in quello dei suoi due epigoni, che questo principio di morte insinuatosi nell’Arte può mostrarsi anzitempo «suicida». Insofferente di tutte le astuzie illusioniste di cui è ormai maestro, Frenhofer vuol far superare alla pittura lo stadio servile del trompe-l’oeil, e portare lo spettatore oltre i confini della percezione naturale; aspira a impossessarsi degli «arcani» del Creato per creare un ritratto di donna nuda non meno reale, vivo e desiderabile del suo modello. Vuol prendere il posto di Dio e dar vita a una seconda Eva. Protofotografo, sogna di creare un duplicato scientifico del suo oggetto erotico; in preda a una hubris malinconica che fa saltare tutti i limiti della sua arte, Frenhofer riesce solo a farsi iconoclasta ai danni della sua propria opera. Una volta esposto davanti a Porbus e a Poussin, il quadro che Frenhofer definisce «vivo come la vita» si rivela per ciò che è diventato: «un’accozzaglia di colori confusamente ammassati, contenuti in una moltitudine di linee bizzarre che formano una muraglia pittorica».

  Niente, tranne un «delizioso piccolo piede» di donna in un angolo della tela, sola reliquia visibile dell’immagine che il pittore ha stravolto, a forza di volerla rendere visibile nella quarta dimensione, Frenhofer deve arrendersi all’evidenza: gli altri non vedono ciò che lui ha creduto di vedere e di mostrare. La notte stessa si suicida, dopo aver dato fuoco al suo studio.

  Il Picasso del XVII secolo concepito da Balzac aveva finito per creare un dripping di Jackson Pollock. La cosa più strana, in tutta questa faccenda, è che il mito premonitore di Balzac si è sicuramente aperto un suo proprio varco verso il reale. Cézanne si riconosceva in Frenhofer. Nel 1932, su richiesta di Ambroise Vollard, Picasso incise una serie di splendide illustrazioni per Le Chef-d’oeuvre inconnu. Nel 1937, l’anno in cui ebbe inizio la sua relazione con Dora Maar, il moderno Frenhofer installò il proprio studio in una dimora di rue des Grands Augustins, quella stessa in cui Balzac aveva ambientato Le Chef-d’oeuvre inconnu! E fu qui che dipinse Guernica. [...].

 

 

  Daria Galateria, Rancori di Daria Galateria, in Laure Surville Balzac, Balzac mio fratello. Introduzione di Daria Galateria. Traduzione di Roberta Ferrara, Palermo, Sellerio editore, 2008 («Il divano», 264), pp. 7-29.

 

  Delitti.

 

  I racconti sono come un delitto, sosteneva Freud; il problema non è compierli, ma occultarne le tracce. Balzac sapeva che, scrivendo, si lasciano dappertutto impronte digitali, e ogni sorta di indizi; le cicatrici tendono invariabilmente a affiorare. Balzac invece amava circondarsi di mistero. «Nessuno conosce il segreto della mia esistenza, e non intendo raccontarlo a nessuno», scriveva a madame Hanska, la nobile polacca che sperava di sposare. «Sono sempre rimasto curvo sotto un terribile fardello. Anche se interrogaste chi mi sta accanto, non riuscireste a far luce su questa infelicità».

  La persona più vicina a Balzac è stata la sorella Laure. Insieme a balia, legatissimi per tutta l’infanzia e la giovinezza: è a Laure che bisogna affidarsi per ricostruire l’enigma di Balzac. Con lei possiamo scoprire, nei racconti del fratello, i luoghi del testo in cui l’autore si tradisce, producendo significati non previsti. C’è chi muore senza che il medico sia in grado di dire quale malattia lo abbia inghiottito, lamentava Balzac. Il tenerissimo e delicato ritratto del fratello che Laure scrive nel 1858 ci aiuta a spiegare i sintomi – nascosti dietro l’ilarità immensa dello scrittore – di quel suo dolore mortale; Balzac mio fratello finisce per instaurare un implacabile protocollo indiziario.

 

  Laure: «Racconti di famiglia».

 

  Verso la fine della vita, Laure scrisse una favola, La fata delle nuvole, col sottotitolo Racconti di famiglia. Nulla – pur nella sua vita ragionevolmente serena con un marito, Eugène Surville, ingegnere del genio civile – giustifica un tale edulcorato quadretto di gioie familiari.

  Siamo a fine Settecento; la piccola Eliane de Kermont vive felice in un castello in Bretagna, con la madre e un vecchio abate. Per raggiungere il marito ferito in Canada, singhiozzando la tenera mamma è costretta a affidare Eliane a un convento [...].

  Il libro, di gracile grazia, è dedicato «a mia madre, ricordo della sua ineffabile tenerezza».

  Mia madre, scrive Balzac – che la ha poi tenuta quasi sempre presso di sé – è «un mostro». «In questo momento, sta uccidendo mia sorella con scenate crudeli. Abbiamo creduto che fosse pazza. Abbiamo consultato un medico, che è suo amico da trentatré anni, e ci ha risposto: “Ahimè! Non è pazza, è cattiva!’’». E aggiunge una frase bellissima: «Non ci perdona i suoi errori».

  «Siamo stati, mia sorella Laure e io, preda del suo odio; ha ucciso l’altra mia sorella Laurence», scrive ancora Balzac a madame Hanska. «Appena messo al mondo, fui messo a balia; a sei anni e mezzo sono stato spedito in collegio a Vendôme, ci sono rimasto fino a quattordici anni, e in questo frattempo ho visto mia madre due volte. Dai quattro ai sei anni la vedevo la domenica».

  Madame Balzac, parigina, era un gioiello di grazia maliziosa quando a diciannove anni ha sposato il cinquantunenne Bernard-François Balssa, che ha modificato da tempo il cognome, non rievoca volentieri il suo passato nella temibile Comune, e ha conquistato agiatezza e frequentazioni borghesi come commissario alle forniture militari a Tours. I ritratti di Laure hanno qualche volta qualcosa di apprettato; quest’uomo forte e gioviale, che bestemmia volentieri e racconta storie scollacciate – alcune diventeranno Contes drolatiques – è rap-presentato con un’eterna, alta cravatta Direttorio, anche in vestaglia, mentre divaga sui metodi per campare cent’anni. A ottantatré anni morirà infatti di incidente, avendo appena ingravidato una contadina – suo fratello del resto aveva ucciso a 54 anni una campagnola incinta, ed era stato ghigliottinato dopo un processo clamoroso.

  La graziosissima madame Balzac dunque, appena Honoré e Laure rientrano a casa dal soggiorno a balia in campagna, li rispedisce a mezza pensione da estranei, in rue de Portillon, nei dintorni di Tours. I due bambini vedono la madre solo la domenica, e ne hanno paura; Laure trova, per descrivere i sentimenti di questa loro strana infanzia, parole chiarissime. Ora, al n. 15 di questa rue de Portillon esisteva un convento, chiamato «La Grande Bretèche».

  La bertesca è una fortificazione medioevale, spesso una torre, che serviva a spiare il nemico e a combatterlo stando al riparo. La Grande Bretèche è il titolo di un racconto di Balzac che è una resa dei conti con la madre – Mario Lavagetto ne ha tratto alcuni anni fa un bel saggio critico che è un giallo, e la storia di una vendetta. Balzac inizia descrivendo la grande bertesca come una casa in rovina; guardandola, si indovinano i resti di una serena vita provinciale, spazzata da un’annosa desolazione. Le porte sono «costantemente sbarrate», quello spazio «chiuso» e «un immenso enigma di cui nessuno conosce la chiave». Il protagonista, che si trova «in esilio a Vendôme» – Vendôme è il terribile collegio in cui Balzac viene internato a sette anni – apprende che il testamento dell’ultima proprietaria ha prescritto che la casa venga lasciata disabitata per cinquant’anni dopo la sua morte, interdicendo l’ingresso a chiunque, e proibendo ogni riparazione. In provincia, ci si accanisce a scoprire i segreti d’amore; è la caccia trasferita sul terreno dei sentimenti, dice Balzac. Accorte indagini svelano al protagonista il mistero consumatosi tra quelle mura. Rientrando a tarda notte, il padrone di casa aveva avuto il sospetto che la moglie avesse nascosto un amante – il grande di Spagna Bajos de Férédia, prigioniero su parola di Napoleone – in un ripostiglio della camera da letto. La donna giura sul crocefisso d’esser sola; il marito fa murare la porta dello stanzino, che è privo d’aria, e si allontana. Febbrilmente, la moglie cerca di aprire un varco nel ripostiglio, poi si ferma annichilita: il marito, rientrato, è dietro di lei. E per venti giorni pranza con lei con corretta freddezza, ignorando i lamenti che sfuggono al giovane sepolto vivo.

  Sul manoscritto, Balzac scrive, nel 1831, «Here», poi cancella e scrive «Férédia». Ferdinand Hérédia è il nome dell’ufficiale spagnolo a cui la madre di Balzac ha rivolto alcune attenzioni nel 1805. Ma nel 1807 madame Balzac è immersa in una più avvincente disavventura, e a tre giorni dal Natale dà alla luce un figlio. Il padre è un giovanissimo amico di famiglia, Jean-François de Margonne, castellano del luogo. La Grande Bretèche è dunque un attacco alla madre, una denuncia delle sue leggerezze spostata sul cicisbeo irrilevante; mentre la rimozione – murare l’antagonista ne è la forma visibile – copre l’amante pericoloso, quello che ha generato il fratello rivale di Balzac, coperto di «carezze folli», coccolato e amato a suo discapito: «Tu e Dio sapete bene», scrive Balzac alla madre nel 1840, a cinquant’anni, «che non mi hai soffocato di carezze né di tenerezza da quando sono al mondo; e hai fatto bene, perché, se mi avessi amato come hai amato Henry, sarei ridotto come lui».

  Ma nel racconto è sceneggiato un regolamento di conti anche più feroce. Il 22 giugno 1807, sei mesi prima della nascita del fratellino, Balzac è rinchiuso nel temibile convento di Vendôme. I convittori non possono uscire dalle sue mura neanche per le vacanze; hanno diritto a scrivere una lettera ai genitori solo la domenica. Dal 1807 al 1813, Balzac vedrà il padre due volte, ed è tutto. Il ragazzo viene spesso rinchiuso nella cella della torre, dove divora furiosamente romanzi. Il 22 aprile 1813, il collegio avverte i genitori: dovranno ritirare il figlio, caduto in una sorta di coma. È la depressione, che lo restituisce alla famiglia irriconoscibile, uno scheletro apatico. L’impenetrabile Grande Bretèche rappresenta anche questo collegio: tra le righe affiora due volte la formula «esilio a Vendôme». Di nuovo Balzac sposta la denuncia dall'esilio intollerabile a quello precedente e più lieve, la pensione condivisa con la sorella. I significati vengono convocati con agghiacciante violenza: «Oggi casa del lebbroso, domani casa degli Atridi», dice Balzac della Grande Bretèche, evocando l'isolamento, l’assenza di carezze della sua infanzia e il mito di Clitemnestra adultera, punita dal figlio Oreste.

  L’indagine non è finita. Nell’esilarante Phisiologie (sic) du mariage, e in Petites Misères de la vie conjugale Balzac indica, tra gli inequivocabili segnali dell'adulterio: «Vostra moglie trova che è ormai venuto il momento di mettere in collegio vostro figlio da cui, poco tempo prima, non voleva mai separarsi». Il movente: «Il figlio è spedito in collegio il giorno stesso in cui gli sfugge un’indiscrezione». Il piccolo Honoré è davvero forse «il bambino che indovina un segreto» citato dallo scrittore in un progetto letterario non realizzato.

  Il 24 luglio 1832 Laure, commentando con un’amica la raccolta in cui è inserito il racconto La Grande Bretèche, sanziona «quei legami che mettono le donne in un atmosfera di intrighi, di falsità, di menzogne, legami che sconvolgono i matrimoni, la società, e cambiano esistenze intere». E del racconto dice: «È una storia vera».

 

  Silenzi di Laure.

 

  La madre di Balzac è solo uno dei grandi temi di questo ritratto di scrittore. È un profilo vivace e fedele; gli inizi, le tribolazioni finanziarie e letterarie sono restituiti in un incantevole e affettuoso tracciato di aneddoti. Ma sono i silenzi di Laure i luoghi più eloquenti, o perlomeno divertenti quanto il narrato.

  L’apoteosi e il romanzo della vita di Balzac è stato il matrimonio con madame Hanska, l’aristocratica polacca che gli aveva scritto in termini assai accesi, firmandosi «l’Inconnue», tutta la sua ammirazione – una Rzewuska, nipote di regina. Di questo matrimonio, tutto quello che si dice nella biografia di Laure è che il fratello «si recò in due occasioni nella Russia meridionale». Tanto puntiglioso riserbo merita un approfondimento.

  Il 17 luglio 1843 Balzac si recò in effetti in Ucraina a Wierzchownia. I due ostacoli al matrimonio con madame Hanska erano superati. Per sei anni, Honoré ha aspettato la morte di Wenceslaw Hanski. Quando nel 1843 ha incontrato di nuovo madame Hanska, dopo otto anni di lontananza e a dieci dal primo incontro, è stato sollevato un nuovo motivo di rinvio: madame Hanska vuole prima sposare la figlia. La contessina si fidanza in effetti con uno stravagante conte Mniszech, collezionista di insetti, che ha nelle sue terre quarantamila «anime») e Honoré può finalmente raggiungere la sua promessa. Percorre «un quarto del diametro della terra» in una settimana, scrive alla sorella; Wierzchownia è all’altezza della sua immaginazione. Le terre degli Hanski sono vaste quanto un dipartimento francese; i servitori, nel castello con le sue stanze in infilata, si prosternano stesi «sul ventre», battono tre volte la terra con la fronte, e vi baciano i piedi. Balzac e in estasi – anche se, non placato dal fallimento di tutte le sue imprese (la casa editrice, la tipografia e la fonderia, le miniere d'argento in Sardegna, le azioni dei Rothschild nelle ferrovie del Nord), proporrà al conte Mniszech di sfruttare il legno dei suoi sterminati possedimenti per le traversine delle rotaie; il novello sposo lo ascolta stupefatto: loro si scaldano, negli immensi camini, con la paglia. Ma a gennaio, con 23 gradi sotto zero e una pelliccia russa sulle spalle, Balzac è restituito alla Francia – dove sta per scoppiare la rivoluzione di febbraio del 1848.

  Nell’ottobre successivo, Balzac è di nuovo a Wierzchownia, e stavolta si sposa davvero, il 14 marzo 1850, nel capoluogo di provincia più vicino, Berditcheff, alle sette del mattino, e senza invitati. Madame Hanska, avvertita dal medico della fine imminente dello scrittore, ha ceduto, ma non vuole farsi vedere. «Quest’unione è la ricompensa credo che Dio mi riservava per tante avversità, gli anni di lavoro, le difficoltà subite e superate», scrive Balzac. Madame Hanska non trova mai il tempo di aggiungere due righe alle lettere di Balzac alla madre e alla sorella. «Mia moglie non ha un minuto per sé; d’altronde le sue mani sono prodigiosamente gonfie a causa dell’umidità del disgelo», spiega il novello sposo. Un’altra volta, la signora è trattenuta accanto alla figlia malata. L ’11 maggio, di nuovo le mani sono gonfie. «Conto su di te», scrive intanto Balzac a Laure, «per far comprendere a mia madre che non deve stare in casa al nostro arrivo».

  Dal 1846, la casa per la sposa, a rue Fortunée, è stata – letteratura a parte – la principale occupazione di Balzac, e l’argomento ossessivo delle lettere. Per accogliere la contessa Hanska, ci vogliono quadri di Holbein, Rembrandt, Raffaello, Sebastiano del Piombo; solo nella galleria, sfilano un Van Dyck, un Cranach, un Greuze, due Watteau, e ben tre Canaletto. Gli arredi sono fantasmagorici: «È arrivata la fontana della sala da pranzo eseguita da Bernard Palissy per Enrico II o Carlo IX: si tratta di uno dei suoi primi lavori e non ha prezzo», scrive Balzac. Una Venere d’avorio opera – lui ritiene – di Benvenuto Cellini sorvegliava il letto di Boulle, non lontano da un mobile appartenuto a Maria de’ Medici. Sotto la direzione della madre di Balzac, sui damaschi ribes, verde cinese, giallo, su tutti i velluti, si posavano, durante i viaggi di Balzac, delle prudenti fodere. Questo nido di stravagante lusso era infatti affidato alla settantenne signora Balzac. È lei a affrontare fornitori e creditori, sorvegliare i domestici, tenere i conti. Mentre Honoré esercita tanta fantastica prodigalità (la contessa gli ha messo a disposizione circa centomila franchi), l’anziana madre esita a spendere i due soldi dell’omnibus per andare dalla rue Fortunée a Suresnes, dalla figlia. Dall’Ucraina, dopo il matrimonio, Honoré le manda indicazioni minuziose: «Troverai nella grande ciotola cinese che è sopra l’armadio scuro della prima stanza in alto dal lato del salotto intarsiato l’indirizzo di un giardiniere degli Champs-Elysées; è già venuto da me nel 1848, per vedere cosa serve di fiori ogni quindici giorni, e fare un preventivo per tutto l’anno. Si trattava di sei, settecentocinquanta franchi all’anno. Dovendo partire, ho rinviato questa spesa che si può fare se piace a una persona che d’altronde adora i fiori. Quindi questo giardiniere avendo già una volta guarnito la casa avrà le basi per mettersi d’accordo con te. Cerca di avere dei bei fiori, sii esigente». «Non mi hai risposto a una domanda che ti ho posto già due volte: e cioè se hai istruito bene il cameriere a pulire i lampadari. Solo tu puoi insegnargli a avere mani da fanciulla tedesca». A volte le richieste sono più estrose: ogni settimana, deve spaventare il domestico annunciando che i padroni stanno per tornare, «servirà a tenerlo in esercizio». Il risultato di tanto allenamento, al momento dell’arrivo degli sposi a rue Fortunée, sarà tenebroso. Il treno ha ritardato; è notte. la casa è perfettamente illuminata, e rigurgita di fiori; completato il suo compito, la madre di Balzac da tempo è rientrata in campagna dalla figlia. Gli sposi suonano; nessuno apre. Qualche vicino viene a curiosare. Balzac manda il cocchiere a cercare un fabbro per forzare la porta. Dentro, trovano il cameriere, che è diventato pazzo. Quella notte stessa, lo dovranno portare in un manicomio.

  Le due donne si sono prodigate in silenzio per questa contessa polacca che non vuole conoscerle, e invocava ogni scusa – il rifiuto dello zar, per fare un esempio gentile – per rinviare il matrimonio con un genio. Balzac le ha lasciato tutto; lei ha nominato erede universale la figlia – Balzac lo ha comunicato a due riprese alla famiglia: «Madame Hanska guida i figli e li istruisce nella vasta e difficile amministrazione dei suoi beni. Ha dato tutto alla figlia, conoscevo le sue intenzioni da S. Pietroburgo. E d’altronde sono incantato che la felicità della mia vita sia scevra da interesse», scrive a Laure il fratello nel novembre 1847; probabilmente lei non condivide l’estasi di Honoré.

  Il silenzio di Laure su madame Hanska è più violento di un’incriminazione. Le due donne pensavano probabilmente che i viaggi in Ucraina avevano abbreviato la vita di Honoré; e comunque che l’arredamento chimerico della casa di rue Fortunée avesse distratto non poco lo scrittore dal lavoro. Non si tratta, da parte di Laure, di un lungo risentimento, che neanche la tenerezza, e neppure le convenzioni riescono a coprire con un po’ d’ipocrisia. Laure non vede in madame Hanska la più patetica chimera di Balzac; e del resto non sta scolpendo un medaglione del grande scrittore; il suo è un ritratto passionale. Balzac si vergognava della madre, e anche delle nipotine. «Mi parlate di un tessuto ricamato dalle nipoti per tappezzeria; ma non pensiamo per la verità a lavori femminili da mettere in casa. Poi sai che, in questo tipo di lavori, si preferisce l’utile al superfluo», scrive Balzac il 10 gennaio 1850; naturalmente ha ragione, ma Laure ha molto care le sue due bambine, e la loro nonna non dimenticava di sgridare Balzac, quando era lontano, se non scriveva alle nipoti.

  Se nelle immaginarie foto di famiglia conservate da Laure madame Hanska è cancellata, compare poco il Balzac mondano, quello che sogna l’ascesa sociale, e la sera si bilanciava sugli scarpini per entrare a teatro. Una volta, non fu la sua corpulenza da «cinghiale allegro» a creargli impaccio. Gli sembrava che i gradini fossero molli; e quando riuscì, con una ragionevole dose di gravità, a raggiungere il suo palco, la vicina sussurrò strabiliata: «Ma questo signore sa di vino!». Balzac era in effetti perfettamente ubriaco, avendo scolato con un amico, per scommessa, diciassette bottiglie; ma, mentre si inteneriva superlativamente sulle onde rossiniane della Gazza ladra, ruminò contro la vicina il rancoroso progetto di raggiungere il palco di una duchessa sua amica; comparire in una compagnia così scelta gli sembrava indispensabile per recuperare il rispetto degli astanti. Ma la folla nel foyer si rivelò un muro. Fu Rossini, scoccandogli una delle sue gioviali battute che lasciò Balzac inebetito come prima, a conquistargli d’improvviso la stima del pubblico.

  Ma Laure ha ragione; Balzac era un «bevitore d’acqua» devoto alla letteratura; quando titanicamente si raccoglieva nel lavoro, nessuna distrazione era ammessa, tirava le cortine e non distingueva il giorno dalla notte. «Da tre anni», confiderà un giorno al medico, «sono casto come una fanciulla, peso gli alimenti e non bevo mai, né vino né liquori». «Quanto vi costa il vostro talento!», rispondeva ammirato il dottor Naquart (sic). Così, Balzac ammetteva, tra gli eccitanti, solo il caffè – nonostante gli procurasse terribili dolori di stomaco – perché lo animava alla scrittura. Però, avvisava, i suoi effetti stimolanti duravano solo quindici giorni. Giusto il tempo di comporre un’opera, commentava Rossini.

  Un giorno, il caffè non gli fece più effetto. Cominciava a pensare sempre più al romanzo della sua vita, il matrimonio, la casa di tutti i lussi. Componeva la Cousine Bette, «terribile» perché riassumeva il carattere della madre e della «zia Rosalie» di madame Hanska, contraria al matrimonio. Chi aveva ferito a morte Balzac – la madre, all’origine – o madame Hanska, come pensa Laure?

 

  Una madre.

 

  Laure è una donna di straordinaria cultura; le sue lettere sono cosparse di nomi – non di scrittori, ma di personaggi: evocati come faceva il fratello, quasi fossero persone vere; e incrociando i tempi e le letterature, ma sulla base di somiglianze di carattere o di intreccio («perdere la ragione! Tutti questi Gilbert, questi Chatterton ...»). Balzac mio fratello invece è di mirabile e voluta semplicità. Le idee politiche di Honoré – che Laure avvedutamente descrive come conservatore innamorato del moderno e consapevole del contemporaneo –, i metodi di lavoro, le fonti e i modelli dei grandi romanzi, le debolezze, le gelosie letterarie che suscitava, «l’ingenuo entusiasmo per se stesso», tutto è raccontato prima della consacrazione. Ma un certo elemento di gigantismo non può mancare in una vita di Balzac, e Laure mostra il fratello mentre sta «ridendo, e alzando le spalle possenti su cui poggiava un mondo».

  Si avverte un certo puntiglio solo nella rivendicazione degli affetti familiari. «In casa lo si trovava sempre avvolto in un’ampia veste da camera di cachemire bianco, foderata di seta bianca e stretta da un cordone di seta, simile a un saio. In testa portava la calotta dantesca di velluto nero sempre confezionata dalla mamma, che aveva adottato nella sua prima mansarda e da allora non aveva mai più smesso». Del resto l’enigma della madre, sollevato e lasciato aperto da queste memorie di Laure, ha molte facce anche dal punto di vista di Honoré. «Mia buona mamma amatissima», le scrive Balzac nel novembre del 1834, avendo composto Les Marana, declinazione di tutto il repertorio convenzionale, e per lui disperato, dell’amore materno, «Laure mi ha detto che non stai bene. Ti supplico, curati! Niente mi è più caro al mondo della tua salute. Darei la metà del mio sangue per restituirtela, e conserverei l’altra per servirti ... Addio, buona madre; ti abbraccio, ti stringo con un’effusione di cuore senza limiti; vorrei che questa lettera ti comunicasse la mia salute». I sentimenti familiari sono sempre sadici, ma tutto sommato ambivalenti, pensava Proust; queste delicate memorie, tra dolcezze e reticenze, lo confermano.

 

 

  Daria Galateria, Il libro galeotto. L’amore per il verso giusto, «la Repubblica», 31 agosto 2008.

 

  Da quattro mesi, il castello di Wolinia era sotto la neve, e così, a perdita d’occhio, le sue terre, con le diecimila anime di servi-contadini, e le foreste. Il ballo di primavera a Kiev era lontano; nessun viaggio previsto a San Pietroburgo; insomma, tra i suoi quadri, i mobili inglesi, la ricca biblioteca e le porcellane cinesi, Evelina Hanska si annoiava. Il venerdì però arrivavano in slitta riviste e libri dall’Europa; quel nuovo scrittore, Balzac, la incuriosiva. Come aveva potuto scrivere Scene della vita privata, così sensibile sul cuore delle donne, e poi la cinica Fisiologia del matrimonio? Ne discusse con la figlia e due parenti povere; poi un giorno – era il febbraio del 1832 – scrisse una lettera a Balzac, firmandosi La Sconosciuta: “La vostra anima mi è parsa luminosa”. Evelina aveva trent’anni; era una bellezza, appena pingue. Balzac la sposò qualche lustro dopo, ma, come aveva sostenuto, “una contessa ha sempre trent’anni”. Scènes de la vie privée aveva trasformato la vita dell’indebitatissimo scrittore piccolo, grasso e senza denti in un aristocraticissimo romanzo a lieto fine.

 

 

  Alessio Galbiati, La Duchessa di Langeais, «Rapporto Confidenziale. Rivista digitale di cultura cinematografica», numero uno, gennaio 2008, p. 25.

 

  All’epoca della Restaurazione il giovane ed intrepido generale Armand de Montriveau giunge sull’isola di Majorca per ristabilire l’autorità di Ferdinando VII. Qui scoprirà che nei meandri oscuri d’un convento di suore di clausura ha preso i voti, per isolarsi dal mondo, la Duchessa Antoinette de Navarreins, donna con la quale cinque anni prima intrattenne una contrastata e dolorosa relazione sentimentale. Ottenuto dalle autorità religiose del monastero il consenso ad incontrarla, Armand rivedrà la sua amatissima Antoniette dietro le sbarre metalliche della clausura, in un fosco antro dell’edificio. Il drammatico confronto fra i due farà da preludio al racconto della genesi e dell’epilogo della loro relazione, portandoci nella Parigi ipocrita e superficiale dei primi anni dell’ottocento, fra aristocratici incontri mondani e protocolli di comportamento follemente disumani.

  L’ultimo film di Jacques Rivette è una trasposizione cinematografica dell’omonima novella di Balzac, una trasposizione che cerca la più totale adesione al testo letterario basata proprio sullo stile di scrittura del grande romanziere francese. Non solo lo spirito ma proprio le lettere, le parole, si riversano sulla pellicola testimoniate dall’abbondante uso di didascalie con la funzione di raccordo ed interpunzione della vicenda. Il romanzo di Honoré de Balzac (nella sua prima stesura intitolato “Ne touchez pas la hache”) rientra in quel monumentale ciclo denominato “Commedia umana”, opera complessa ed articolata che restituisce la contemporaneità dell’autore attraverso il racconto delle vicende della celeberrima società segreta dei Tredici. “Ne touchez pas la hache” ci racconta essenzialmente una storia in cui è il tempo a costituire la variabile fondamentale attorno alla quale costruire l’intero intreccio. Vi è in Balzac, e dunque nel film di Rivette, l’idea del “troppo tardi”, dello sfilacciarsi degli eventi sotto i colpi dell’inesorabile trascorrere del tempo, vi è una pesante critica ad un mondo ed una cultura – quella appunto della Restaurazione – incapace di vivere davvero il proprio tempo perché persa disperatamente nell’inutile prosopopea d’un’esistenza fatta d’orpelli e maniere anacronistiche e vuote. Muovendosi fra due piani temporali distinti il film mette in scena il tribolato rapporto amoroso fra la Duchessa Antoinette de Navarreins (de Langeais è il nome che le deriva dall’unione in matrimonio con il duca di Langeais) ed il generale Armand de Montriveau, ponendoci immediatamente di fronte alle estreme conseguenze dell’assurdo comportamento tenuto in particolar modo da Antoinette, vera e propria incarnazione d’un’epoca che però nel corso della relazione sarà in grado di oltrepassare le convenzioni, ben rappresentate dai personaggi che la attorniano. [...].

 

 

  Antonella Gargano, «Stella» et les autres. Un conflit non résolu de Goethe, in AA.VV., Autour de «Wann-Chlore» ... cit., pp. 35-45.

 

  C’est un fait que derrière Wann-Chlore et Eugénie, «les deux épouses» de Balzac, on distingue les modèles de Stella et Cezilie, les héroïnes d’un drame du jeune Goethe jugé scandaleux. La Pandore du 19 novembre 1825 faisait d'ailleurs allusion à Stella, quelques mois seulement après la publication de Wann-Chlore. L’intrigue romanesque où évolue le ménage à trois est une création de Balzac jusque dans les deux moments-clés: la rencontre entre les deux femmes, projetée par Eugénie selon un plan digne d’un roman policier, ne doit plus rien au hasard comme il s’avérait dans Stella; la révélation par l’entremise de Mme d’Arneuse telle un deus ex machina ne comporte aucune déclaration personnelle des héroïnes. Les citations goethiennes sont néanmoins très claires. Il y a, comme chez Goethe, la suprématie des femmes, multipliée et dilatée sur plusieurs générations et dans une perspective matriarcale avec Mmes Guérin et d’Arneuse; il y a l’absolution morale de l’homme «aux deux femmes» qui innocente Horace, comme cela avait été le cas pour Fernando de Goethe; il y a le choix, dans une géographie forcément différente et diversifiée, de lieux appartenant à une topographie symbolique: l’Hôtel du Faisan rappelle l’Hôtel de la Poste et l’ermitage de Wann-Chlore donne, dans sa «solitude glaciale», un sens religieux au refuge goethien plutôt lié à la Empfindsamkeif; et encore, le renvoi souterrain à Stella dans le nom de Cécile, la fille de Sir Georges Wann, même s’il ne s’agit là que d’un trait ténu; enfin, Wann-Chlore est l’expression d’une révolte contre les contraintes et les conventions sociales, tout comme Stella en avait donné un exemple hasardeux en laboratoire.

 

 

  Giuseppe Garrera, La buona novella. Flaubert, Balzac e il sogno della ricchezza, in AA.VV., L’io e la scrittura, «Davar», Reggio Emilia, Diabasis, 4, 2007-2008, 2008, pp. 168-176.

 

  [...]. Balzac è stato il primo a comprendere che la misericordia e la conoscenza degli uomini non appartengono più alla scrittura o allo spirito, ma al mercato: il mercato detiene la conoscenza profonda dell’animo umano ed è l’unico in grado di lenire le ferite più profonde. Tutta la letteratura realista non farà che ribadire il fallimento delle cose del cielo, e annunciare la buona novella del commercio e delle merci. Più di ogni altra cosa, e per tutta la vita, Balzac sognerà di diventare ricco e di potersi procurare, con spese faraoniche, quei quadri, quei mobili, quelle ceramiche, quei lussi che gli danno una felicità e una comunanza con gli uomini a cui la scrittura non può neppure aspirare. [...].

  Per Balzac il mercato, nella sua battaglia contro la nostra miseria, sarebbe la più santa delle istituzioni se non chiedesse denaro in cambio dei doni e delle ricchezze che procura [...]. Ma è difficile non credere carità una realtà così compiacente con la nostra povertà, così vicina ai nostri bisogni. [...].

  Già Tolstoj, in Anna Karenina, aveva ricondotto la passione della protagonista anche alle sollecitazioni del ballo, alla toiletta, al soggiorno fuori casa, e soprattutto all’aria della città in festa, non dimenticando di elencare tutta una serie di prodotti che il mercato della città offriva per calmare inquietudini e autentici struggimenti che esso stesso provocava. Non bisogna dimenticare che proprio in quegli anni il mercato stava intuendo la possibilità di investimento che l’anima romantica offriva, e che Balzac aveva, con la solita formidabile intelligenza, collegato la crescita dell’offerta con una crisi o flessione della produzione nel settore sacro, individuando l’ultima sollecitudine amorosa dell’industria nella produzione di romanzetti che aprono gli occhi alle tante spose che non sanno di essere rassegnate (in alcune pagine Balzac addirittura sembra intenerirsi nel vedere tanti cuori perdersi nell’indefinito, in pretese di felicità, in rimpianti inesistenti, e dilapidare i risparmi in abiti e toilette, anche perché per incontrare il principe azzurro bisogna passeggiare al Bois de Boulogne o lungo i boulevards, dato che se lui passerà, passerà di lì; ma ciò è meglio comunque dell’esistenza di prima). [...].

  Balzac ha chiaro il fatto che il mercato ha occupato tutti gli spazi dello spirito e che in realtà, più che eccitare, lenisce e consola, offre medicamenti: ama gli uomini per quello che sono e li vuole vedere felici come non sanno fare e non desiderano la letteratura, le arti, la religione stessa [...].

  Come dirà l’ebreo Gobsek (sic), protagonista dell’omonimo racconto di Balzac, vi sono tristezze dell’anima che non si possono consolare se non con idoli d’oro. La grazia dell’oro riluce, o meglio, conforta di più di quella di Dio.

  Ma il legame con la passione e i versi d’amore? È andato perso, risulta essere stato nascosto o cancellato, come, nella poesia aulica e cortese, tutta l’esperienza con il denaro (le eccezioni sono tali, per quanto la tradizione giocosa e realistica, per intenderci un Cecco Angiolieri, ci dia indicazioni preziose, unanimemente concorde com’è che non ci si possa dedicare al culto d’amore e all’adulterio, e cioè alla propria lussuria, senza baiocchi e una casa comoda ed essersi liberati dai bisogni della vita). Forse c’è qualche frammento, ma appena sufficiente a farci intravedere che il desiderio di una vita lussuosa, esaudito dalla ricchezza, nasce dalla brama di rendere meno terribile il pensiero della distruzione, o che si accumulano tesori per una disperazione e un istinto che nessuna religione può colmare o comprendere.

  Balzac affermerà che l’oro, insieme a felicità fantastiche e a tutti i mezzi per stare vicini alla nostra miseria, è l’unico che dà la conoscenza del cuore umano, e contemporaneamente tutto l’amore che occorre per non restarne scandalizzati.

 

 

  Tiziana Goruppi, Il miracolo dell’amore: dal comico al patetico nel “tudesque” di Balzac, in AA.VV., Threads in the Complex Fabric of Language. Linguistica and Literary Studies in Honour of Lavinia Merlini Barbaresi, Ghezzano, Felici Editore, 2008, pp. 675-685.

 

  In Splendeurs et misères des courtisanes di Balzac la vicenda, esplicitata a chiare lettere dal titolo della seconda parte del romanzo (“A combien l’amour revient aux vieillards”), riprende uno dei filoni più sfruttati della tradizione letteraria occidentale: l’amore come campo di confronto e di scontro tra due generazioni, la vecchia e la nuova, c la ricchezza come forma di potere e quindi come arma di ricatto. Il romanzo di Balzac è la storia di una giovane coppia, Esther e Lucien de Rubempré, che trovano un ostacolo al godimento della loro felicità nella mancanza di denaro, tragicamente coniugata con l’amore per la giovane donna di un vecchio facoltoso, il barone di Nucingen.

  Tuttavia rispetto a una simile conformità di situazione la tipologia dei personaggi cambia in maniera significativa rispetto alla tradizione. Esther, la giovane donna, è tutt’altro che innocente e pura, è una cortigiana. E, come la ben più celebre ‘signora delle camelie’, commette l’imperdonabile errore di innamorarsi di Lucien de Rubempré, un suo coetaneo, bello, affascinante ma squattrinato, dal quale è riamata, e di aspirare perciò a un futuro con lui — passa addirittura qualche tempo in convento — e viene costretta suo malgrado a vendersi al “vieillard”, il barone di Nucingen, per ottenere la dote indispensabile all’amato a contrarre un matrimonio adeguato alle sue ambizioni sociali.

  Altrettanto insolita è la figura del giovane innamorato. Fin dall’inizio del romanzo Lucien si delinea inadatto ad affrontare la vita con le sue sole forze; di fronte al fallimento delle sue illusioni tenta il suicidio, ma viene salvato da un personaggio misterioso, incontrato per caso, che in cambio lo obbliga a stipulare “l’un de ces pactes infernaux qui ne se voient que dans les romans” [...], che lo costringe a un’obbedienza assoluta, a una completa passività, insomma a vendergli la propria vita. Lucien, che è il motore, oltre che il beneficiario della durissima scelta fatta da Esther, rimane malgrado tutto fuori dalla scena, e sempre in attesa di un matrimonio altolocato, lasciando la giovane donna da sola a misurarsi con gli eventi. Di fatto, viene meno quella presenza attiva e solidale della coppia di innamorati che combattono insieme per difendere il loro diritto alla felicità, viene meno insomma il protagonismo tradizionale degli amanti che, esautorati dal loro ruolo, e addirittura privati del dovuto rispetto all’amore, vengono ridotti a mero strumento delle volontà altrui. Da questo disfacimento della coppia deriva in contrasto con la tradizione la loro completa disfatta, sancita da un doppio suicidio finale, ripetutamente preannunciato quello di Esther, a sorpresa quello di Lucien.

  Simili innovazioni dipendono in realtà dalla presenza di un quarto personaggio, vicino per età a Nucingen, lo stesso che ha salvato la vita a Lucien. A causa del suo passato di ex-forzato, fuggito dal bagno penale, e costretto a cambiare il proprio nome di Jacques Collin con quello dell’abbé Carlos Herrera, è obbligato giocoforza a cercare le compensazioni ambite solo per interposta persona. Agli occhi di “questo morto civile” Lucien incarna alla lettera la sua vendetta contro la società, oltre che la sua terribile rivincita personale. L’inserimento di questo secondo vecchio’ cambia la natura relazionale tra i quattro personaggi in gioco, spostando il ruolo antagonistico dai due giovani ai due vecchi. Ne deriva una lotta alla pari tra due persone coetanee e sostanzialmente uguali, come riconosce giustamente l’ex-forzato; nel suo avversario egli indica infatti “un Nucingen qui a été Jacques Collin légalement et dans le monde des écus”.

  Il barone di Nucingen risponde invece a pieno alle caratteristiche del suo prototipo: questo “vieillard” è un uomo dell’alta finanza, ricchissimo, che conta sul potere del denaro per ottenere Esther, e si copre di ridicolo, in pubblico e in privato, per la sua illusione di essere ricambiato.

  Eppure, al di là del comico situazionale, quello che investe il Nucingen di Splendeurs et misères des courtisanes converge tutto sul fatto linguistico. Nucingen parla infatti quel “tudesque”, la cui prima datazione risale allo storico “serment de Strasbourg”, rimasto nel codice linguistico e letterario ottocentesco con questa stessa denominazione, e relativamente diffuso anche nella produzione letteraria. Ma rispetto a scrittori come A. Dumas, J. Verne o G. de Maupassant, e all’uso misurato che ne fanno, nella Comédie humaine diventa un “baragouin tudesque”, un francese cioè talmente deformato da risultare del tutto caricaturale per la forzatura della deformazione linguistica, per l’eccessiva approssimazione che ne rendono difficoltosa la decodificazione immediata, e quindi disagevole la lettura. A parte questa differenza, anche in Splendeurs et misères des courtisanes l’attribuzione del “tudesque” non è neutra, in quanto è volta alla penalizzazione dell’alterità ma anche di un’alterità personale – Nucingen è infatti grossolano e privo di eleganza estetica e spirituale – che passa, come è ovvio, dalla ridicolizzazione. In effetti, benché originario dell’Alsazia, Nucingen, spesso chiamato anche “l’Alsacien”, non parla affatto il dialetto locale, bensì il suo particolarissimo “tudesque”, i cui eccessi tra l’altro rischiano paradossalmente di diminuirne assieme alla comprensibilità la vis comica. [...].

 

 

  Mario Lavagetto, Variazioni su una metafora con tavole di Sergio Romiti, Parma, Università degli Studi, Facoltà di Architettura, Monte Università Parma Editore, 2008, pp. 91.

 

  Questo studio di Mario Lavagetto costituisce la nuova versione, rivista, corretta ed ampliata, della prolusione tenuta dal critico presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Parma nell’anno accademico 2006-2007 («Metafore di confine tra architettura e letteratura»).

  La metafora assuma come oggetto specifico di studio da Lavagetto è quella che rimanda in modo diretto all’architettura, il cui uso è descritto ed analizzato attraverso opere letterarie, quali La Comédie humaine di Balzac, Notre-Dame de Paris di Victor Hugo e A la Recherche du temps perdu di Marcel Proust.

  Intimamente legati al concetto di struttura («la struttura — scrive l’A. – è il principio di organizzazione di un sistema che si può scoprire e descrivere e che si manifesta nella percezione estetica di un’opera», p. 27), il linguaggio dell’architettura e il linguaggio poetico risultano, nelle opere degli scrittori considerati, strettamente complementari.

  Il ricorso, nella Comédie humaine, a metafore desunte direttamente dal campo dell'architettura consente a Balzac di riunire, nella sua opera, e di «rendere compatibili le più clamorose contraddizioni» (p. 51), avendo, sui lettori, una sorta di effetto di contagio quasi come se si trattasse di attirarli e di coinvolgerli in una «specie di rapinosa, irresistibile e quasi allucinatoria vertigine mimetica» (p. 33). Luoghi di scrittura particolarmente ricchi di riferimenti e di prestiti tratti dall’universo dell’architettura – ma anche dalla pittura e dalla scultura – sono le prefazioni ai romanzi della Comédie humaine dove, non soltanto il momento della progettualità, ma soprattutto la fase di esecuzione dell’opera narrativa sono resi, dallo scrittore, in forma particolarmente efficace. Nella sua concezione d’insieme, l’edificio narrativo balzachiano, perennemente “in fieri”, si presenta come un universo sovraffollato ma governato da leggi precise: tra queste, quella senza dubbio più innovativa riguarda «il ritorno aperiodico dei personaggi, il continuo intersecanti delle loro vicende» che «provocano nel lettore un senso di vertigine come si trovasse a muoversi in un labirinto di specchi tra linee che si integrano, si correggono, subiscono scarti improvvisi ed espongono alio spettacolo di singolari anamorfosi» (p. 41 ).

  Negli stessi anni in cui Balzac si sforza di fornire al proprio pubblico l’idea di un grande cantiere letterario in divenire, preoccupandosi, osserva l’A., di trovare «un possibile correlativo della Comédie humaine in un edificio immaginario piuttosto che in un edificio reale» (p. 46), Victor Hugo propone, nel 1832, in Notre-Dame de Paris, una visione apparentemente simile di questa metafora, ma, in realtà, profondamente diversa. Lavagetto si sofferma, in modo specifico, sul discorso di Claudio Frollo alla fine del primo capitolo del quinto libro, circa il carattere minaccioso dell’invenzione della stampa nei confronti dell’unità armonica di una costruzione architettonica, la cattedrale, concepita come libro «al cui interno si possono riconoscere senza sforzo lettere, sillabe, parole, frasi che si articolano in una grande unità, un libro che costituisce il punto più alto e il coronamento di un percorso secolare» (p, 30). Dopo Gutenberg, i rapporti di forza mutano e «l’architettura sembra progressivamente perdere la sua centralità» (p. 34); la bibbia di carta ha preso il posto della bibbia di pietra: bisogna ammirare e rispogliare in continuazione il libro scritto dell’architettura, scrive Hugo, “ma non si deve negare la grandezza dell’edificio che anche la stampa è in grado di erigere” (p. 35).

  Con H. James e M. Proust, considerati dall’A. nella parte finale del suo studio, assistiamo all’estrema e ratificata presa di coscienza dell’impossibilità di costruire il “grande edificio” sul modello balzachiano. Benché l’idea di costruzione costituisca, per l’autore della Recherche, la vera ragione ed il verso valore della sua opera, quel grande modello diventa impraticabile poiché «il centro è stato irreparabilmente perduto» (p. 78).

 

 

  Egidio Lobina, La brutta avventura di Balzac in Sardegna, «Làcanas. Rivista Bilingue delle Identità», Su Planu-Selargiu, Anno VI, numero 33, IV/2008, pp. 68-69.

 

  Si tratta della ricostruzione per sommi capi del viaggio e del soggiorno compiuti da Balzac nel 1838 in Sardegna con il proposito di appropriarsi delle (improbabili) ricchezze derivanti dallo sfruttamento delle miniere argentifere dell’isola. L’esperienza sarda dello scrittore francese si rivelerà, come è noto, un fallimento e l’immagine, di questo viaggio, ma soprattutto le impressioni sulla terra e sul popolo di Sardegna che colpirono e avvilirono il romanziere sono efficacemente registrate nella lettera dell’otto aprile 1838 a Mme Hanska che l’autore inserisce alla fine del suo intervento. Da segnalare è il vistoso errore relativo all’anno di nascita di Balzac qui indicato nel 1789 (sic).

 

 

  Francesco Manzini, The zero-sum gate of provindential pain: Balzac’s «L’Envers de l’histoire contemporaine», in AA.VV., Pleasure and pain in nineteenth-century French literature. Études reunites et présentées par David Evans et Kate Griffiths, Amsterdam; New York, Rodopi, 2008 («Faux titre», 324), pp. 73-85.

 

 

  Giampiero Martinotti, Parigi. Lo sfratto dei portieri addio all’eroe di Simenon, «la Repubblica», Roma, 11 febbraio 2008, p. 31.

 

  Se la presenza dei portieri è già nota durante il Medioevo, nel Settecento il quartiere del Marais ne contava uno ogni novanta abitanti. Talmente tanti che Balzac se ne ricordò scrivendo “Il cugino Pons”, nel quale descrive una coppia di portieri. Lui, Cibot, “lavorava ancora malgrado i suoi cinquantotto anni; ma cinquantotto anni è la più bella età dei portieri; si sono abituati alla guardiola, la guardiola è diventata per loro quel che la scaglia è per le ostriche, e sono conosciuti nel quartiere”.

 

 

  Pier Vincenzo Mengaldo, “Jadis et naguère”: finezze di Balzac, «Rivista di Letterature moderne e comparate», Firenze, Volume 61, N. 4, 2008, pp. 417-423.

 

  Oggetto di questo interessante contributo di Pier Vincenzo Mengaldo è La Duchesse de Langeais, uno dei capolavori della Comédie humaine balzachiana e una delle più inquietanti e sottili storie d’amore della narrativa, non solo francese, dell’Ottocento. Nella sua puntuale analisi della struttura di questo romanzo, dove «l’intreccio si discosta vistosamente dalla fabula, o il tempo della narrazione da audio narrativo» (p. 417), l’A. evidenzia, a proposito della sezione del romanzo che concerne il ritrovamento della duchessa e in quella del ritrovamento del suo corpo, l’uso di due avverbi temporali: ‘jadis’ e ‘naguère’ impiegati da Balzac non in «accezione realistica o obiettiva ma prettamente mentale, psicologica, in momenti di completo égarement dei due personaggi» (p. 422). In questi usi, conclude Mengaldo, o sfumature, noi dobbiamo riconoscere non distrazioni dell’inesauribile poligrafo [...], ma finezze concertate del grande narratore» (ibid.).

 

 

  Giampiero Moretti, Séraphîta sul Reno, in Honoré de Balzac, Séraphîta … cit., pp. VII-XX.

 

  Il compito di introdurre brevemente il lettore italiano all’affascinante ma complesso Séraphîta di Balzac è semplificato dal fatto che il fondamentale saggio di Franco Rella L’atopia erotica,[2] che ne accompagnava una precedente edizione, costituisce un punto di riferimento insuperato. In particolare, delle diverse considerazioni che Rella proponeva al lettore ne vogliamo qui richiamare subito tre, molto importanti: che l’interprete deve credere al misticismo di Balzac come a uno stadio essenziale, autentico, della sua esistenza, uno stadio che non viene minimamente contraddetto, semmai invece rafforzato, dagli aspetti fisico-corporei pur presenti in quell’esperienza; che la visione dell’androgino, che sostiene e attraversa tutto il romanzo, non va letta come una “metafora dell’originario” ma, eventualmente, come l’immagine (nel senso di Henri Corbin) di una condizione sì utopica, però raggiungibile dall’essere umano; infine, che «Balzac è arretrato rispetto alla sua intuizione, e ha trasformato le metamorfosi di Séraphîta in una trasfigurazione allegorica». Sono tutte riflessioni che offrono l’orizzonte di lettura di Séraphîta, rispetto al quale siamo perciò di fronte a uno di quei casi (per la verità non rarissimi) in cui l’arte (qui la letteratura), tentando di superarsi, a un tempo si compie. Séraphîta non è un romanzo che utilizza il “tema” dell’androgino per comunicare con i propri lettori, bensì, superandosi, presenta al lettore un percorso che sfocia nell’invisibile, un invisibile che viene descritto in quanto i sensi possono coglierlo. Ecco allora il punto di partenza: Balzac, narratore della realtà circostante in tutte le sue molteplici forme, in Séraphîta descrive l’invisibile nel suo essere reale. Se però il visibile circostante, nella penna del romanziere, di solito si trasforma in un insieme di circostanze da narrare, nel caso di Séraphîta accade invece che l’invisibile, visto e descritto, non può trasformarsi in circostanza, pena la perdita della propria realtà più autentica e genuina, benché vada considerato pur sempre circostante. Pertanto Rella osserva a ragione che talvolta è come se Balzac avesse perduto per strada la propria stessa intuizione, trasformando la metamorfosi in allegoria; ma tale pericolo è insito nel narrare in quanto tale: la parola poetica soltanto, e anch’essa rarissimamente, consente all’invisibile circostante, che è stato “visto”, di permanere nella propria libertà pur venendo “detto”. Insomma: solo la parola poetica preserva la circostanza invisibile dal divenire circostanza tout court.

  Quest’ultima, che ha l’aspetto di un’affermazione meramente apodittica, rinvia invece a un’esperienza della “poeticità” di cui proprio libri come Séraphîta raccontano. Come romanzo, Séraphîta è spesso ritenuto non riuscito, e diversi critici letterari sono d’accordo su ciò: limiti, pecche, sbavature e forzature sarebbero rilevabili in moltissime sue pagine. E tuttavia – persino i letterati che più sostengono le forme compiute lo intuiscono – il punto non è questo, e neppure, come sarebbe immediatamente semplice argomentare, il fatto che il contenuto di questo romanzo (le dottrine di Swedenborg, il tema dell’androgino, il misticismo in senso lato) è tale da infrangere qualsiasi tentativo di “plasticità”. Con Séraphîta, pubblicato nel 1835, Balzac sperimenta una parola che viene piegata verso qualcosa che si compie nel superamento, nell’oltrepassamento necessario (e non puramente voluto e teorizzato dall’autore) di una forma, di un limite linguistico-visivo che viene invece solitamente consegnato ai canoni letterari tradizionali. [...].

  Stando a quanto lo stesso Balzac ha scritto nella sua presentazione de La commedia umana, l’idea originaria dell’opera gli sarebbe venuta da un confronto fra umanità e animalità. Se però i confini, di fatto tracciati e in tal senso insuperabili, della natura valgono come un limite insuperabile per la specie animale e le sue caratteristiche, la società umana presenta invece, come si esprime Balzac, combinazioni che la natura non può permettersi; ragion per cui la descrizione della società è necessariamente ben più articolata e problematica di quella naturale, anche soltanto dal punto di vista quantitativo. Ecco allora il ruolo della visionarietà mistica: questa percepisce corrispondenze altrimenti invisibili, eppure realissime, che costituiscono l’ossatura stessa di una narrazione che aspiri alla completezza, nel senso che, senza l’invisibile, potremmo dire, il visibile stesso non regge, si disintegra, e cede infine sotto il peso non di un significato eccessivo e straripante, bensì, all’opposto, proprio a causa dell’assenza di significato. In Séraphîta viene data la parola all’amore invisibile nell’atto del suo tralucere nel visibile, una dissolvenza continua e trasparente, richiamata e rappresentata nell’atto del(la) protagonista, ripetuto durante tutto il romanzo, di prendere congedo. Ecco perché occorre credere a Balzac, quando scrive che quanti lo ritengono attento a considerare l’uomo soltanto nella sua natura finita sbagliano profondamente, e che proprio Séraphîta, «la dottrina in azione del Buddha cristiano», è la confutazione evidente di tale errore interpretativo delle sue opere. Séraphîta è l’amore non individuale e non individualizzabile che, proprio per questo, trasparendo nel mondo degli uomini, lega. La visione cristiana di Swedenborg, che com’è noto costituisce una radice ispirativa del romanzo, si attesta dunque come una sorta di invisibile versante della dottrina della Chiesa romana, la quale rappresenterebbe invece la visibilità del metafisico nella storia e nella società dell’uomo, e che, a differenza del versante invisibile – costantemente soggetto alla trasformatività del divenire spirituale – è per necessità, beninteso, ben più statico e conservatore.

  Tra le maggiori personalità che hanno sottolineato l’importanza e l’autenticità del pensiero e della visionarietà di Swedenborg vi è certamente Henri Corbin, che gli ha dedicato pagine estremamente importanti a proposito di una nozione centrale per comprendere, conseguentemente, sia Balzac sia, come si accennava più sopra, Schelling: la nozione di corrispondenza[3]. E sul filo di questa nozione che tanto Balzac quanto Schelling, a dispetto del fatto che essi di primo acchito possano essere considerati quasi agli antipodi, hanno percorso un cammino comune, conducendo l’uno la letteratura, l’altro la filosofia, a trasformarsi, così da costringerle ad avvicinarsi reciprocamente. Se infatti, nel caso della descrizione dell’umanità e di quel che la concerne, Balzac presuppone più o meno implicitamente l’esistenza di un legame invisibile in grado di tenere assieme il visibile (così che lo scrittore può poi appunto “descriverlo”, o narrarlo, realisticamente), del pari è per Schelling un legame invisibile ma assolutamente reale a tenere assieme natura e spirito, cui è rivolto lo sguardo speculativo del filosofo. Ne consegue, in entrambi i casi, una pratica della scrittura che finisce per sconvolgere senza risparmio ne attenuanti i canoni tradizionali di quelle discipline, i loro contorni tacitamente accettati, e la Romantik, intesa ora in senso amplissimo, non fu che la “volgarizzazione” di quell’esperienza in primo luogo essenziale. In altre parole: la realtà, che è tanto alla base della realisticità della descrizione letteraria quanto a fondamento dell’empirismo filosofico da sempre sostenuto da Schelling, è tale soltanto se in essa, attraverso di essa, traspare l’abisso spirituale che ne sostiene invisibilmente la manifestazione corrispondendole intimamente. Ora, sia per Balzac sia per Schelling [...], la trasparenza spirituale nella realtà materiale si chiama Geisterwelt, mondo degli spiriti. [...].

  Senza volersi qui addentrare ulteriormente nell’intrico, in realtà più apparente che reale, delle premesse e degli esiti del kantismo, basterà osservare che la critica letteraria si trova spiazzata dinanzi a Séraphîta poiché Balzac configura la trasformazione qualitativa dell’esistenza umana, raffigurata nel(la) protagonista del romanzo, non come un tema, una metafora, un’allegoria, ma come un accadimento reale, augurabile e necessario, e perciò ontologicamente strutturato, possibile, e narrabile come una circostanza invisibile. Il limite kantiano tra intuizione sensibile e desiderio metafisico viene oltrepassato dalla vita stessa del(la) protagonista, il cui racconto può essere sì ricondotto al motivo dell’androginia e trattato secondo i princìpi dello stile, ma la sua dimensione ontologica profonda consiste e sussiste nell’interscambio inevitabile e necessariamente trasformativo tra Geisterwelt e umanità attuale. Per Kant, e per la critica estetico-letteraria tradizionale, l’essere umano non è destinato a trasformarsi già in questa vita, mentre per Balzac sì. Il giudizio critico sull’opera di Balzac segue conseguentemente quelle premesse: la critica estetica, nella sua imprescindibile derivazione kantiana, non può essere perciò applicata al Balzac di Séraphîta, ma non può neppure fare a meno di esserlo, poiché lo spazio del romanzo quasi ve la costringe.

  Nemmeno la storia delle religioni, anche quella più alta e avvertita – pensiamo a Eliade – ha assunto, nei confronti di Séraphîta, una posizione ermeneutica molto più avvantaggiata della critica estetico-letteraria. Benché infatti Eliade affermi esplicitamente che «Séraphîta è senza dubbio il più affascinante dei romanzi fantastici di Balzac»[4], è proprio la sua caratterizzazione come romanzo fantastico che risulta estranea al fatto narrato, e, in effetti, lo stesso Eliade considera l’androgino come il tema o soggetto del romanzo: «Séraphîta è l’ultima grande creazione letteraria europea che abbia come motivo centrale il mito dell’androgino». Eppure, come abbiamo visto, nell’orizzonte che qui cerchiamo di delineare è quanto meno molto parziale considerare il romanzo di Balzac più come la traccia residuale di un passato antichissimo, che si avvia a spegnersi per sempre e di cui l’arte trattiene una sorta di ultima parvenza, che non, com’era peraltro nelle intenzioni dell’autore, come un annuncio possibile, verso il quale l’umanità deve tendere. [...].

  Strindberg scrive Inferno nel 1897, al volgere di un secolo che Balzac fa iniziare con gli eventi di Séraphîta. [...].

  Balzac e il suo Séraphîta rappresentano in questo momento l’avvicinamento di Strindberg a Swedenborg tout court, senza – apparenti – mediazioni ulteriori, né questo è il luogo per ampliare il discorso a tal punto da ricomprendervi quel che deve invece rimanere solo accennato. Swedenborg rappresenta per Strindberg il Maestro delle Corrispondenze, benché — ed ecco l’ombra del nichilismo nietzscheano – tali corrispondenze appaiano ormai quasi esclusivamente come coincidenze e circostanze nefaste, raramente come aperture sul cielo. [...].

  Se la presenza di Nietzsche, la frattura che il suo pensiero crea lungo la scala che dalla terra conduce al cielo, fa sì che l’artista sensibile al cielo (Strindberg) percepisca delle corrispondenze quasi soltanto il risvolto massimamente terribile, spettrale, così da dover utilizzare tutte le proprie energie per tentare di ricostruire, con il proprio sangue e la propria arte, gradino per gradino, quella scala, v’è però anche chi, come Schönberg, assiste all’incrinarsi dei gradini senza – a suo dire – parteciparvi [...]. Insomma, per Schönberg la scala che conduce al cielo, e quindi al mondo delle corrispondenze, sono intatti. [...].

  [...] nella complessiva posizione spirituale di Schönberg, abbiamo non soltanto una ripresa, a nostro parere esplicita, del Séraphîta di Balzac, quanto soprattutto una risposta sia alla circolarità annichilente ed estenuante dell’eterno ritorno di Nietzsche, sia alla “lotta” di Strindberg [...].

 

 

  Marco Nuti, Balzac et Cezanne: l’artiste entre mythe et réalité, in Et in pictura fabulator. Paul Cézanne et le dialogue créateur entre peinture, littérature et philosophie de Balzac à Maldiney, Fasano, Schena; Paris, Alain Baudry, 2008Biblioteca della ricerca. Cultura straniera», 151), pp. 59-82.

 

  Pubblicati tra il 1831 e il 1837, i racconti che formano la trilogia dei Romans et contes philosophiques rappresentano il momento più alto della riflessione di Balzac sull’essenza dell’arte (figurativa e musicale), oltre che sul gemo e sulla verità dell’artista. In particolare, è nel Chef-d’oeuvre inconnu che Balzac, nel difendere le idee romantiche sull’arte attraverso l’opposizione tra Delacroix ed Ingres, «traite aussi du rapport de l’artiste et de l’amour» (p. 60). Incarnazione della genialità (quasi diabolica) dell’artista, Frenhofer rappresenta, per lo scrittore, una figura eccezionale, quasi magica: «le type de peintre philosophe aux frontières de la folie» (p. 65) ossessionato dall’assoluto all’interno di un contesto di isolamento e di emarginazione rispetto alla quotidianità della vita reale. Come il personaggio balzachiano, anche Cézanne «a conçu l’ambition de mener la peinture jusqu’à la perfection de son être» (p. 66), pur essendo consapevole circa le difficoltà insite in questa ricerca in relazione alla inadeguatezza dei mezzi di cui l’artista dispone. Le concordanze tra il pensiero di Frenhofer e quello di Cézanne, osserva Nuti, «sont plus remarquables quand elles concernent la définition, ou la répudiation, des moyens de la représentation» (p. 145), anche se il concetto di bellezza sostenuto da Cézanne non implica quella trascendenza dell’arte rispetto al reale che ritroviamo nel ‘credo’ del personaggio balzachiano. Il quadro, scrive Cézanne a E. Bernard nel settembre del 1906, non è il luogo di rivelazione di una bellezza trascendente, ma il prodotto del «développement logique de ce que nous voyons et ressentons par l’étude de la nature» (p. 81). In questo senso, le concezioni di Cézanne si avvicinano maggiormente al credo artistico di Porbus piuttosto che a quello di Frenhofer: tuttavia, precisa l’A. a conclusione del suo studio, «cette conjonction hypothétique» tra il racconto di Balzac e la poetica dell’arte di Cézanne suggerisce talune «affinités électives» (p. 82) che legano il pittore francese al testo balzachiano e dunque a Frenhofer, il suo personaggio centrale.

 

 

  Patrizia Oppici, “Delphine, Corinne, Wann-Chlore”, in AA.VV., Autour de «Wann-Chlore» ... cit., pp. 47-57.

 

  Que ce soit par un réseau d’images mémorables ou qu’il s’agisse de l’enchaînement des péripéties, les romans de Mme de Staël paraissent donc avoir joué un rôle indéniable dans la création de Wann-Chlore. Si la force suggestive de ces oeuvres s’est imposée à Balzac, c’est qu’il y a reconnu ce don de vision original qui sait bâtir du nouveau à partir de fondations anciennes. Derrière ces deux oeuvres se dessine en effet toute une tradition romanesque où Balzac a puisé pour trouver son monde à lui. La création balzacienne comprend une dose à ne pas négliger peut-être — des ingrédients du roman sensible.

 

 

  Massimiliano Parente, “Séraphîta”. Balzac e il sesso degli angeli nel romanzo esoterico perduto, «Libero», Milano, 23 dicembre 2008, p. 30.

 

  Comunque sia, almeno in teoria (o meglio in “teologia”), tornerebbe utile il romanzo Séraphîta di Honoré de Balzac, appena ritradotto da Pia Cigala Fulgosi con una soporifera introduzione di Giampiero Moretti (Zandonai, pp. 148, euro 16), a riprova di quanto, se la critica dei recensori è vacua, quella dei prefatori accademici è noiosa e inutile. Non si possono reggere infatti 20 pagine di «ordine di riferimento kantiano», «trasformazione qualitativa della sensibilità», «dimensione ontologica profonda che consiste nell’interscambio inevitabile e necessariamente trasformativo tra Geisterwelt e umanità attuale». Meglio il più concreto Mircea Eliade, che parlò «dell’ultima grande creazione letteraria europea che abbia avuto come motivo centrale il tema dell’androgino», peccando però, anche lui, non di intellettualismo ma di ottimismo erotico-estetico.

  Pubblicato nel 1835, Séraphîta è la storia di un angelo incarnato, dietro cui ci sono le teorie di Emanuel Swedenborg, pseudoscienziato settecentesco che concepì infiniti trattati teologici e che finì rapito dagli angeli, letteralmente, dopo averci chiacchierato per una vita. [...].

  Séraphîta è un essere sia uomo sia donna, e incanta due amanti predisposti all’esoterismo trascendente, Minna e Wilfrid, ma poco c’entra con la meravigliosa e umana Zambinella di Sarrasine, né con l’imponente Commedia umana, dove gli umani sono trattati da scienziato, come animali sociali. Il romanzo è il più anomalo e meno citato di Balzac, linguisticamente raffinatissimo ma anche il meno interessante dal punto di vista narrativo e filosofico, dove la letteratura fa un passo indietro rispetto allo stesso Balzac de Le (sic) illusioni perdute e si iscrive nel normale filone paranormale. È una sorta di piccolo vangelo misteriosofico che termina con l’assuzione (sic) della creatura eletta, ma dopo trenta pagine non vediamo già l’ora che Séraphîta si tolga dalle palline di Natale.

  Il gruppo di personaggi, con al centro i due imbambolati Minna e Wilfrid, contempla Séraphîta-Séraphîtüs, ma, a differenza di Zambinella, la cui castrazione è anche fonte di attrazione erotica, il serafino/serafino non è né uomo né donna e lascia solo spazio a contemplazioni sdilinquite a bocca aperta e con gli occhi al cielo.

  Tuttavia le pagine forti, paradossalmente, sono nella prima parte del lungo monologo dell'angelo, quando sciorina l’insensatezza del mondo e con-trita l’idea di Dio, e sembra di leggere Sade o il barone d’Holbac, sebbene il tutto si afflosci quando l’angelo esclama «A me la scure, adesso!» per rimettere, al contrario, in piedi, su un piccolo piedistallo medievale, il misticismo soprannaturale agiografico e prepararsi a salire “su”, dallo “Spirito celeste”, in un tripudio di onde luminose, fiammeggiamenti paradisiaci, fremiti fosforescenti, con Wilfred (sic) e Minna che esclamano «Vogliamo andare da Dio» e via a razzo, nell’happy end con il cherubino orante e ascendente.

  Più che la scure Séraphîta riprende in mano il rosario e l’incensario. Il racconto si chiude nell’ovvietà di un santino miniato, e con l’angelo-androgino neppure una lingua in bocca (e allora, Eliade, cosa ce ne fregherà mai dell’androginia?), non c’è pathos, non c’è morte, non c’è vero buco nero se non riempito di fiorellini raccolti sui fiordi. E allora, prendendolo in fondo come romanzino confessionale scritto per far felice la contessa Rzewuska, bisognerà aspettare un cinquantennio prima che si spalanchino le vere voragini di Dostoevskij [...].



  Maria Rosaria Petti, Titoli di coda. Romanzo, Soveria Mannelli, Iride Edizioni, 2008.

 

  Prologo.

 

  p. 11. La sera mi piace coricarmi con i miei libri del cuore, Honoré de Balzac, la Woolf, Francis Bacon, Melville.

 

  La metamorfosi.

 

  pp. 52-53. ...“Verso la fine del 1612, [...] un non so qual tocco di pennello... un tocco di poesia ...”.

  Avevo sempre immaginato il mio arrivo a casa di Alice come l’arrivo del giovane Nicolas Poussin a casa del pittore Porbus dove avrebbe conosciuto il pittore Frenhofer nel “Capolavoro Sconosciuto” di Honoré de Balzac.

  E così mi sentii, davanti al portone di Rue Christine n. 4, quando intravidi una vecchia che spazzava l’androne.

  Naturalmente non potevo immaginare che la vecchietta filiforme fosse proprio Thérèse ma nei minuti di sosta che mi concessi prima di varcare quella soglia mi ricordai l’incipit del romanzo di Balzac e capii.

  Capii perché nonostante l’oggettiva ripugnanza di vedere la grande scrittrice in deplorevoli condizioni non avevo esitato a recarmi da lei. Ma certo, l’amore per l’arte.

 

  pp. 73-74. Niente di meglio per cominciare che un buon libro sotto le coperte, un libro amico che sa parlarti anche senza contraddittorio. Avevo portato con me tre vecchi classici, i Racconti di Cechov, Lo Scrivano Bartleby di Melville, e appunto, Il Capolavoro Sconosciuto di Honoré de Balzac. Scelsi quest’ultimo che mi pareva di aver avuto accanto tutto il pomeriggio.

 

  pp. 75-78. .... immaginate una fronte calva, bombata [...] e avrete una immagine imperfetta del personaggio ... [...].

  Riconobbi subito il pittore Frenhofer dalla dettagliata descrizione che ne aveva fatto Balzac. D’altronde gli autori, un tempo, erano abilissimi a farti vedere un personaggio. [...].

  - E cosa sapete di me? – mi chiese con sufficienza.

  - Siete un insigne pittore, vi chiamate Frenhofer. Siete stato creato da Honoré de Balzac ...

  - Chi è costui?

  - Uno scrittore ...

  - Ma ... cosa dite! Io sono allievo del grande Mabuse, ho dipinto donne più vere della vita stessa. Donne così vive che potevo girarci intorno, che all’ultimo tocco di pennello cominciavano a respirare e si staccavano dalla tela! Non sono stato creato da nessuno, eccetto che da mia madre. Screanzato!

  - Non siete dunque il pittore e l’amante di Catherine Lescault?

  - Ma chi siete? Da dove venite? – chiese con voce tremante impallidendo.

  - Dal 1999 ...

  - Avete viaggiato così tanto?

  - A dir la verità non me ne sono reso conto. Volete dirmi, di grazia, dove stiamo andando?

 - Nel 1912.

  - E perché?

  - Devo salvare Catherine, la mia Musa. La mia donna, angelo ispiratore, amante accondiscendente, tentatrice e figlia.

  Salvarla? Da cosa ...

  - Per anni l’ho dipinta. L’ho dipinta con le sue imperfezioni, le sfumature, i cedimenti, le ritrosie. Credevo di averle catturato l’anima e il corpo. Credevo di averle dato l’eternità ...

  - E invece?

  - Invece un brutto giorno ho mostrato il quadro a due pittori, un maestro e un principiante e dopo molte insistenze. Pensavo che mostrandolo mi sarei liberato dell’ossessione e li ho condotti nel mio atelier.

  - Ma il quadro non esisteva, giusto? La vostra Catherine era ridotta a un grande scarabocchio. A forza di correggere, limare, definire l’avevate cancellata. Tranne ...

  - Un magnifico superbo piede ... Ma sotto quelle macchie di colore sovrapposte, quegli affondi disperati di pennello, le cancellature e le orge di passione pittorica, Catherine è ancora lì. Nuda, superba, distesa, abbandonata, accondiscendente, devota. Può essere cancellata allo sguardo profano ma non all’attento spirito di un artista ... Quello che lei ha chiamato scarabocchio è amore sublime. Comunque mi pare che la mia storia sia conosciuta nel vostro tempo. E questo mi inorgoglisce e mi mortifica insieme. Se è giunta fino a voi vuol dire che ha lasciato il segno. Ma non mi fa piacere che Catherine sia sulla bocca di tutti.

 

  Il capolavoro sconosciuto.

 

  p. 305. Il piede di Ferhofer, il suo quadro corretto e cancellato ... nel “Capolavoro Sconosciuto” di Honoré de Balzac. Il mio romanzo preferito. [...].

  Alice aveva letto l’Opera di Balzac oppure i grandi geni nascondono le opere più amate perché non sopportano di esporsi completamente nudi?

  Oppure, deve essere l’ipotesi più dimostrabile, oppure tutto dipende da quell’idea ambiziosa che hanno gli artisti di dare la vita alle loro creature di fantasia. Infondergli il respiro. Sfiorare la perfezione.

 

 

  Rinaldo Rinaldi, «Physiologie des fantômes». A propos de «Wann-Chlore» d’Honoré de Balzac, in AA.VV., Autour de «Wann-Chlore» ... cit., pp. 83-99.

 

  Il ne s’agit pas d’un choix fortuit si dans Wann-Chlore la violence des émotions et des sentiments s’exprime souvent par un regard brûlant «comme un éclair» ou comme une «brillante et vive explosion qui, semblable à un torrent, s’échappe de l’âme et déborde sur la vie tout entière». Cette excitation passionnelle, véritable «expansibilité», qui propulse vers l’extérieur la force ou le «délire comprimé» du Moi, surgit en effet des profondeurs de l’âme et tend à s’y renfermer de nouveau. […]. Fidèle à la doctrine de l’«homme duplex» («l’homme extérieur et l’homme intérieur»), Balzac reprend régulièrement ce cycle de l’extériorisation et de l’intériorisation de l’âme, vers la source même de l’énergie spirituelle: citons la maternelle «chaleur humide et profonde» («Je suis un enfant») qu’Horace sent monter en lui lorsqu’il s’approche de la porte de sa bien-aimée; sa «blessure» ou avec «l’éclat de l’obus», pénètrent symboliquement des fragments du portrait de Wann-Chlore; ou encore cette «racine» allégorique qui décide en un instant du destin et de l’amour d’Eugénie («Une grosse racine que la lueur du crépuscule empêchait de voir») et qui la condamne à la douleur («j’ai coupé mon bonheur dans sa racine»).

 

 

  R. Rossi, Arte e schizofrenia: un lavoro in comune, «Giornale Italiano di Psicopatologia», Vol. XIV, 2008, pp. 3-9.

 

  Pur sottolineando la non-sovrapponibilità assoluta tra arte e schizofrenia, l’A. intende ricercare, in questo studio, le componenti e le funzioni disgreganti e destrutturami che sono comuni tanto alla creazione artistica quanto alla patologia schizofrenica. Fornendo alcuni esempi che rimandano all’arte narrativa, che l’A. ritiene fondata sulla «struttura depressiva» (p. 6), è citato Balzac, definito come «l’iniziatore della psichiatria», di cui viene riportato un estratto delle Femme de trente ans dove è protagonista Mme d’Aiglemont che Rossi ritiene «l’esempio più armonico, più stilistica mente ordinato [...] di come un giovane psichiatra dovrebbe stilare la storia di una depressione» (ibid.).

 

 

  Francesca Sanvitale, L’inizio è in autunno, Torino, Einaudi, 2008.

 

  p. 5. [Michele] voleva riprendere il racconto intitolato Addio e chiedere a qualcuno: Vi ricordate le pagine di Honoré de Balzac? Che meraviglia! Nella confusione di carri, cavalli, soldati, acqua e neve, si stendeva il disastro dei soldati francesi che cercavano di passare la Beresina. Nel calore pieno dei primi di settembre sentiva il freddo del ghiaccio spezzato in pesanti lastre galoppanti intoro al corpo. Schizzò via la testa decapitata dal ghiaccio del conte di Vandières.

  Mentre camminava, leggeva quella pagina desideroso di controllare che la memoria non lo avesse tradito. Non nei fatti ma nel modo di esporli, di far entrare il lettore nel caos della ritirata e nella paura collettiva, c’era un orrore speciale infilato sotto ogni parola. Balzac scriveva: «Il conte, che era su un bordo della zattera, rotolò nel fiume. Nel momento in cui vi cadeva, una lastra di ghiaccio gli tagliò la testa e la lanciò lontano, come una palla ... “Addio!” gridò la donna».

  I passi lo portavano verso la zona del Vaticano e la testa del conte rotolava sul marciapiede. «Addio», si ripeteva. Gli pareva di avere un appuntamento con la donna, impazzita subito dopo, e affrettava il passo.

 

  pp. 13-14. Riusciva ancora a vedere le pagine. Ricominciò a leggere il racconto di Balzac. [...]. Ormai nel buio, lesse a fatica la pagina nella quale il protagonista, dopo anni dalla ritirata dalla Beresina, ritrova per caso in una vecchia villa la donna amata e impazzita. Lasciò il seguito per la notte o per il giorno dopo.

 

  p. 119. Avrebbe finalmente terminato Addio e avrebbe visto un affresco famoso che, a parte le avventure di Hiroshi, aveva il dovere di conoscere.

 

  pp. 123-125. Aveva letto in un primo tempo, che pareva lontano, circa trenta pagine. Non si ricordava per quali ragioni avesse lasciato, però si ricordava bene il quadro delle truppe francesi decimate dall’inverno russo, congelate o accampate sulla Beresina; uomini inebetiti, impazziti o deliranti. E il ritrovamento, da parte del maggiore Philippe de Sucy, dell’amante Stéphanie con il marito, conte De Vandières. Quindi era venuta la costruzione della zattera da parte di Philippe. Stéphanie e il conte erano stati caricati sulla zattera che prendeva il largo verso l’altra riva, tra i flutti e le pesanti lastre di ghiaccio che cozzavano le une contro le altre: «La zattera fu gettata con tale violenza verso la riva opposta a quella dove Philippe era rimasto immobile che, toccando terra, per la scossa tremò tutto. Il conte, che era sul bordo della zattera, rotolò nel fiume. Nel momento in cui vi cadeva, una lastra di ghiaccio gli tagliò la testa e la lanciò lontano, come una palla ...».

  Stéphanie cominciava qui il lungo viaggio nella follia, da subito senza memoria di sé, del luogo dove si trovava e di ciò che le stava capitando. Lei, ma forse tutti, avevano perso la scala dell’orrore, la differenza tra salvezza e perdizione, tra morte e sopravvivenza. Stuprata, usata giorno dopo giorno, ormai demente aveva seguito le truppe in ritirata.

  Michele si fermò ancora una volta alla stessa pagina: non reputava un buon esercizio stabilire legami inutili tra fatti dissimili e magari lontanissimi solo perché un punto, un unico punto conduceva a stringerli in un nesso di segreti rapporti. Eppure, come se fosse stato di fronte a un’agnizione incontrovertibile, paragonò subito la testa del conte che balzava lontano dal corpo alla testa di Cristo che avrebbe visto tra poco. Fu preso da uno strano sconcerto irrazionale, che non lo abbandonò continuando la lettura. Invece era proprio la seconda parte del racconto che avrebbe dovuto interessarlo, stabilire riflessioni, poiché era fondata sulle vecchie teorie di Breuer e vi si dimostrava che si poteva senza dubbio ricostruire l’ambiente, la stagione, il momento, persino ritrovare alcune persone presenti alla scena o al fatto per il quale un essere umano aveva perso la ragione, rimetterlo forzatamente di fronte al già vissuto, e procurare un accesso forzato alla memoria perduta. [...].

  Erano passate circa due ore. Aveva finito di leggere il racconto ma l’interesse professionale per la povera contessa, la tragedia della follia, la ricostruzione mesmeriana del momento fatale dello shock, non si era messa in moto. Restava un chiodo fisso nella mente: vedeva e rivedeva la testa del conte spiccata dal busto che rotolava nell’acqua, sbattuta tra i ghiacci, prima di sparire insieme a schiuma e flutti: era il sordo rumore della fine del mondo. Riaprì il libro al punto della decapitazione. Balzac aveva scritto solo una parola incisa in un urlo di Stéphanie: «Addio!». E Philippe de Sucy era svenuto «in preda all’orrore, sfinito dal freddo, dal dolore e dalla stanchezza».

  Qui lui si era agitato e commosso perché lo scrittore, con una sola parola, aveva descritto la forza della mente umana, una forza enorme quando vuole distogliersi e sradicarsi da sé a qualunque costo per sopportare. C’era nell’inizio della demenza, sempre o quasi, una necessaria, inconscia volontà di annullare ciò che un essere umano non vuole o non può sopportare? La follia era una difesa legittima che andava affrontata con cautela perché era una pelle che nascondeva l’insopportabile?

 

  p. 135. Nel racconto di Balzac la contessa era stata l’unica a impazzire, di fronte alla testa del marito spiccata dal busto. Anzi Hinoshi, di fronte alla testa cancellata del Cristo. Se lui, Michele avesse scoperto il percorso tra follia e realtà, avesse analizzato il momento fondamentale del corto circuito tra coscienza e rifiuto, sarebbe entrato in possesso, almeno una volta, del potere salvifico delle operazioni psichiche che facciamo su noi stessi per continuare la vita, della necessità categorica dell’inganno. «Addio?» aveva gridato la contessa. Era la realtà intollerabile che di botto l’aveva fatta uscire di senno. O lei nell’attimo del corto circuito aveva scelto? Ma era stato il ritrovamento della coscienza, anni dopo, tanto insostenibile fino a farla morire.

 

  p. 188. Rileggeva Addio, e ne scoprì altri, prove di un agghiacciante senso della morte e del mistero. La curiosità per l’indagine e lo svelamento di ciò che non si poteva afferrare subito lo costringeva a riflettere a lungo sulla fantasia dell’autore, su ciò che aveva provato prima a immaginare e poi a scrivere storie così. In Un episodio sotto il Terrore non poteva togliersi dalla mente il reperto di una tragedia storica, il fazzoletto del Re, sporco di sudore e di sangue, che il boia aveva preso dalle sue mani prima che la mannaia cadesse. In quel clima di religiosa povertà estrema, vecchiaia e paura dei tre protagonisti, il prete e le due suore, era arrivato l’uomo sconosciuto, il boia, circondato da una pesante sensazione di forza e terrore. Nella squallida soffitta che abitavano, aveva assistito alla loro messa e aveva lasciato loro quel dono.

  Michele pensava all’oggetto che s’imponeva sul resto del racconto, feticcio isolato, fonte di orrore, portatore delle ultime tracce di una ita: sudore e sangue protetti dal lino, dal pizzo, dalla sigla regale ricamata. Accartocciato, spiegazzato, era rimasto fisso nella sua mente come l’invenzione più geniale per riferire di morte e violenza, per descrivere il fotogramma bloccato dell’esecuzione senza parlarne.

  Solo pochi decenni prima avrebbe considerato il racconto del fazzoletto un documento della restaurazione, scritto contro la Storia, saluto demagogico devoto e ingiusto alla sacralità del Re. Lo avrebbe disprezzato, cassato insieme all’autore.

 

  p. 193. Era stata lei [Karen] la belva magica, circondata da profumi forti e inebrianti, che emanava il fascino di tutto ciò che ci avvicina a un mondo selvaggio e lascia alle spalle i mediocri piaceri umani. Lo capiva leggendo Una passione nel deserto, il racconto di un soldato che si risveglia in una tana, nell’oasi solitaria, vicino a una bestia feroce, «pantera» che si nutre di carne umana. Il soldato, nei giorni che passa con la pantera, unico essere dell’oasi nel deserto di sabbia, dalla paura paralizzante cade presto in balia di un sentimento incomprensibile, misto di tremore e di ammirazione. Lei di giorno lo segue come un’enorme gatta ammansita. Dove l’avrebbe condotto il legame improprio tra un uomo e una belva? L’attrazione e il fascino sembravano attirare verso la morte, ma Michele sapeva che non era vero. Si trattava di altro, non dicibile. Chi leggeva poteva solo supporre, per mala fantasia, che dalla descrizione stessa della bestia e del suo corpo si nascondesse un accenno all’attrazione sessuale che essa provocava. Avvicinarsi a lei, volersi confondere con la sua natura, non voleva forse significare alla fine che può esistere in noi, occultato dalla millenaria civiltà, il residuo di un richiamo allo stato selvaggio che un giorno ci è appartenuto?

  Michele non riusciva a leggere quelle pagine senza tremare ancora di desiderio per Karen, il desiderio del quale aveva avuto paura, come il soldato aveva conservato sempre la paura della belva. Lo avrebbe condotto fuori dai limiti accettati, forse alla morte di uno dei due o per lo meno alla perdizione di entrambi. Infatti il soldato, per una mossa della pantera interpretata come un gesto di aggressività, alla fine l’aveva uccisa.

 

 

  Giuseppe Scaraffia, A tavola con Balzac & Co., «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 61, 2 marzo 2008, p. 36.

 

  [...]. Abitualmente sobrio e astemio, Balzac si concedeva ogni tanto «un po’ di gozzoviglia». Allora poteva scolarsi una serie di bottiglie di Vouvray, un bianco fortissimo, e mangiare con appetito pantagruelico. Intanto trasformava i cibi in altrettanti romanzi. L’origine delle bottiglie arretrava nei secoli, il rum usciva da una botte che aveva galleggiato per centoventi anni sul mare: per rompere la crosta di conchiglie c’era voluta un’accetta. Gli amici temevano la terribile purea di cipolle che faceva preparare su sua ricetta, ma apprezzavano le magnifiche pere, che lo scrittore divorava in quantità. Ma l’autore della Commedia umana scompariva davanti alle ossessioni culinarie che nella vita di Rossini avevano interamente soppiantato quelle erotiche. Al punto da occupare una considerevole parte della sua corrispondenza. [...].

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Balzac nell’isola d’argento, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, N. 213, 3 agosto 2008, p. 35; ill.

 

  Nel 1838 lo scrittore francese, travolto dai debiti e umiliato dalle ironie dei critici letterari, tentò una carta disperata: rimettere in funzione le miniere sarde. Fu un fallimento, tra «selvaggi» e cattivi consiglieri.

 

  «Viva il 1838, qualunque cosa ci porti! Che importa quanti dolori nasconde nelle pieghe dell’abito? C’è un rimedio a tutto e quel rimedio è la morte, e non mi fa paura», mugugnava Honoré de Balzac all’alba del primo gennaio. Tutto gli sembrava lugubre, persino il tintinnio delle campane.

  Stava per compiere quarant’anni e la sua posizione letteraria e sociale era ampiamente insoddisfacente. Se si guardava indietro, vedeva trenta romanzi composti in diciassette anni di sforzi ininterrotti ma, soprattutto, una massa di debiti. Aveva accettato di scrivere in venticinque giorni La storia della grandezza e della decadenza di César Birotteau, la parabola di un profumiere prima trionfante e poi sconfitto dagli speculatori. Per riuscirci aveva lavorato giorno e notte, senza per questo mettere da parte La Maison Nucingen, che stava componendo. Ne era uscito in uno stato di abbattimento inesprimibile.

  I critici, che non gli perdonavano l’inarrestabile creatività, non lo consideravano all’altezza di Victor Hugo. Ma le sue vendite erano lontane da quelle di un autore popolare come Eugène Sue. Aveva un bell’ignorare gli attacchi dei giornali che gli rimproveravano le prolissità descrittive. Gli era arrivata lo stesso la notizia di una stroncatura dell’ultimo libro intitolata ironicamente «Grandezza e decadenza di Honoré de Balzac».

  Invece di lasciarsi scoraggiare, Balzac decise di tentare una carta decisiva, quella che avrebbe potuto rovesciare per sempre la sua incerta sorte. Sarebbe bastato rimettere in funzione le miniere d’argento sarde da tempo abbandonate. L’idea gliel’aveva data un commerciante di Genova, un certo Giuseppe Pezzi, che si era anche impegnato a mandargli dei campioni di minerale da analizzare. Lo scrittore non li aveva mai ricevuti e, nei momenti di pessimismo, temeva che Pezzi avesse deciso di agire da solo.

  Prima di salpare per la Sardegna, aveva deciso di passare a salutare George Sand nel castello di Nohant. Voleva anche sgridarla perché aveva lasciato bruscamente il suo amico Jules Sandeau. Ma quando l’aveva trovata sola vicino al focolare, assorta nel suo sigaro, gliene era passata la voglia. Nei momenti di massima concentrazione, la Sand assumeva un’aria stupida. Al contrario del suo visitatore non aveva nemmeno un capello bianco, ma le era venuto il doppio mento. Aveva dei bei pantaloni rossi e delle pantofoline gialle molto civettuole, ma i suoi grandi occhi erano pieni di tristezza.

  Man mano che l’ascoltava, Balzac si convinceva che le loro vite erano quasi identiche. Entrambi lavoravano follemente. Lei andava a dormire alle sei e si alzava a mezzogiorno. Lui si coricava alle diciotto per svegliarsi a mezzanotte. Tuttavia, mentre discutevano sulla necessità di emancipare le donne, Balzac aveva dovuto ammettere la virilità dell’amica: era diventata praticamente un uomo. «La donna attira e lei respinge e, se fa quest’effetto a me che sono molto uomo, deve farlo anche sugli uomini che mi somigliano. Sarà sempre infelice».

  La tristezza di queste meditazioni era stata attenuata dalla scoperta di un nuovo tipo di narghilé, l’houka, in cui bruciava un tabacco profumato che alleggeriva il peso della vita e rendeva più limpida la mente. Peccato che l’effetto svanisse appena l’houka si spegneva. In ogni caso, Honoré sognava di assuefarsi alla nuova droga per sfuggire alla tirannia del caffè che lo sosteneva nelle interminabili notti di lavoro. Sempre alla caccia di nuovi lussi, sognava di inserire in cima alla canna dell’houka che si sarebbe comprato il pomo del suo celebre bastone da passeggio tempestato di turchesi donati dalle sue ammiratrici.

  Cullato dalla speranza, faceva il misterioso anche con l’amata quanto tradita contessa Hanska. «Mi è impossibile parlarvene perché sono vincolato al segreto più assoluto». Con la sua eloquenza aveva travolto amici e famigliari, e persino il suo sarto e il suo medico, che per l’ennesima volta gli avevano aperto il portafoglio per finanziare la spedizione.

  Aveva viaggiato arrampicato sull’imperiale della diligenza per cinque giorni. A Marsiglia aveva le mani talmente gonfie che riusciva appena a tenere in mano la penna. Per risparmiare mangiava pane e latte. Nel lurido alberghetto in cui si preparava a partire era assediato dai dubbi. «Se la mia impresa fallisce, mi butto a corpo morto nel teatro».

  Sbarcato ad Ajaccio dovette passare cinque giorni in quarantena. I sardi temevano che il colera, manifestatosi mesi prima a Marsiglia, li raggiungesse. Lì rischiò la pelle per difendere un asino assalito da una muta di molossi. Solo la sciabola di un giovane sottotenente riuscì a salvarlo. Non sapendo come ammazzare il tempo andava a leggere Richardson nella biblioteca comunale. I corsi gli sembravano dei selvaggi sovranamente pigri. La cultura era totalmente assente. Non esistevano teatri, né giornali, né circoli. «Godo di un incognito assoluto. Non hanno idea di cosa siano la letteratura e la vita». La casa natale di Bonaparte era una “povera baracca”, ma ciò non faceva che esaltare il coraggio dell’imperatore, con cui Balzac si identificava.

  Per approdare in Sardegna ci vollero cinque giorni sul barcone dei pescatori di corallo. La caccia al tesoro si stava rivelando più faticosa del previsto. Costretto a mangiare un’atroce zuppa di pesce, dormiva all’aria aperta, tormentato dalle pulci. L’isola gli apparve, come riferisce lui stesso, molto primitiva, ma la delusione peggiore lo attendeva ad Argentiera, dove doveva scoprire che una società si era già assicurato lo sfruttamento delle miniere.

  Riassumendo brutalmente il suo fallimento, scriveva alla contessa: «Sono stato in Sardegna, non sono morto, ho trovato il guadagno che avevo intuito, ma il genovese se ne era già impadronito». Poi aggiungeva, citando una celebre battuta di Molière: «Non sgridatemi, perché bisogna consolare i vinti. Vi ho molto pensato durante questo viaggio avventuroso e ho immaginato che mi avreste ripetuto spesso: Cosa diavolo andava a fare in quella galera?».

 

 

  Giuseppe Scaraffia, Il poeta ha fatto crack, «Il Sole 24 Ore. Domenica», Milano, N. 275, 5 ottobre 2008, p. 33.

 

  Non bastava dire al portinaio: «È arrivata la stagione delle prugne!». Bisognava ribadire al cameriere: «Porto trine dal Belgio». E concludere con il valletto: «Madame Bertrand sta bene». Solo così si poteva arrivare al lussuoso appartamento dove Honoré de Balzac viveva in fuga incessante dai creditori Per nulla scoraggiato dalle ingombranti pendenze, lo scrittore continuava a vivere da signore e a dimenticarsi di pagare l’affitto. Balzac sosteneva di saper riconoscere la tipica scampanellata del creditore. In quei casi tutta la casa cadeva in un silenzio rotto solo dai passi dell’importuno che si allontanava deluso. A volte però quelle precauzioni non bastavano e Honoré si trovava costretto a fuggire da una scala segreta sul retro. Un espediente seccante che oltre tutto, si lamentava, lo costringeva a sentire gli effluvi emananti dagli alloggi della servitù. Balzac d’altronde era un habitué dei debiti, contratti fin dall’inizio della sua difficile carriera. Una volta solo la generosità di un’amante, la contessa Guidoboni-Visconti, che aveva saldato i suoi debiti all’istante, l’aveva salvato dalla polizia che aveva fatto irruzione da lei per arrestarlo.

 

 

  Francesco Spandri, Il romanzo Luigi Filippo, in Francesco Fiorentino, Anna Maria Scaiola, Francesco Spandri, Paolo Tortonese, Il romanzo francese dell’Ottocento a cura di Anna Maria Scaiola, Bari, Editori Laterza, 2008 («Manuali Laterza», 261), pp. 37-69.

 

  Il Realismo romantico: Balzac, Stendhal.

 

  Al romanzo scottiano del passato Balzac e Stendhal sostituiscono il romanzo del presente. All’analisi intimista l’esplorazione sociale. In più, la realtà quotidiana diventa per loro oggetto di rappresentazione seria (Auerbach 1946; ed. 1956). Non sottomesso alle costrizioni di una poetica, come si è detto, il genere romanzesco ha infatti continuato a espandersi fin dalla seconda metà del Settecento superando le forme classiche e inglobando le più diverse tecniche espressive. Esso si rivela ora prodigiosamente adatto a raccontare la società post-rivoluzionaria, società di individui più liberi nel disporre della propria esistenza ma anche più deboli nel realizzare i propri desideri, esposti al conflitto e alla delusione.

  Fondatore del Realismo letterario in epoca romantica, Balzac sottrae il romanzo a quel limbo nel quale il culto secolare dei generi nobili (tragedia, epopea, poesia lirica) lo aveva relegato. L’autore della Comédie humaine cambia «le condizioni del romanzo come Napoleone aveva cambiato le condizioni della guerra» (Barbey d’Aurevilly). Nessuno prima di lui aveva nutrito la gigantesca ambizione di esplorare in modo minuzioso la realtà sociale contemporanea per estrapolarne le leggi e i meccanismi di funzionamento. Nessuno prima di lui aveva sviluppato la propria facoltà visionaria fino al punto di creare un universo verbale leggibile come una grande metafora della condizione umana. Nessuno prima di lui aveva parlato un linguaggio capace di abbracciare tutto, dal fascino dei paesaggi ai meccanismi dell’industria cartaria, dalle verità eterne alla qualità del mobilio. Balzac è insomma uno scrittore che vive dentro la sua epoca, ma la sua opera è fuori dal suo tempo: «il Romanticismo è in Balzac, ma Balzac non è nel Romanticismo» (Curtius 1923; ed. 1999).

  La tripartizione della Comédie humaine in Etudes de moeurs (Studi di costumi) – composti (sic?) da sei «Scene»: della vita privata, della vita di provincia, della vita parigina, della vita politica, della vita militare e della vita di campagna –, Études philosophiques (Studi filosofici) e Etudes analytiques (Studi analitici) è rivelatrice: colui che con un centinaio di romanzi e quasi 2.500 personaggi al suo attivo è divenuto per tutti l’archetipo del romanziere amava parlare di «effetti sociali», di «cause», di «princìpi». Voleva essere un pensatore, un moralista, uno storico. In termini moderni si direbbe: un sociologo. Un sociologo convinto che il reale sia conoscibile ma anche per così dire fuori controllo, e che il destino umano non sia riducibile al progetto liberale e all’ottimismo borghese. In ciò risiede appunto la portata critica della Comédie humaine.

  Sotto questo titolo che fa gravitare nell’orbita dantesca la memoria del lettore, Balzac raggruppa l’insieme dei suoi romanzi, esclusi quelli giovanili, a partire dalla loro riedizione parigina (1842-1848), nel quadro di una operazione al tempo stesso commerciale e intellettuale. L’espressione Comédie humaine appare per la prima volta nel 1839 in una lettera all’editore Hetzel. Si tratta, appunto, di una commedia umana e non più divina, come quella di Dante, in quanto tutto si gioca nell’al di qua, nel teatro del mondo sociale. Il lettore non assisterà a una ascesa dall’Inferno al Paradiso, ma a una discesa verso argomenti bassi (il denaro, la prostituzione, ecc.). Inoltre, il termine «commedia» suggerisce il prestigio del modello teatrale.

  In effetti, Balzac non comincia la sua carriera scrivendo romanzi. Si sente, e non è certo il solo nel suo secolo, maggiormente attratto dal genere drammatico, consacrato dalla tradizione occidentale. Di questa predilezione la sua opera reca una traccia ben visibile, basti pensare a un testo come Les Émployés (Gli impiegati, 1837), dove prevalgono lunghi dialoghi teatrali. Ma colui che diventerà lo scrittore più rappresentativo della Monarchia di luglio, e tra i più rappresentativi della letteratura francese, non è tagliato per l’arte della scena. Gli riesce meglio rifornire i Cabinets de lecture. I suoi primi romanzi – giovanili ma non di principiante, testi che costituiscono una straordinaria scuola di tecnica romanzesca – sono scritti spesso in collaborazione e pubblicati sotto pseudonimo. Essi mettono a frutto le esperienze di un autore solitario: l’Honoré senza editori né lettori degli anni 1818-1822. Nel 1825, uno stanco Balzac si lancia in imprese industriali di vario tipo (una fonderia di caratteri e una tipografia) il cui fallimento sarà all’origine di una condizione di difficoltà finanziaria che lo perseguiterà per buona parte della sua dispendiosissima esistenza.

  «I grandi uomini appartengono alle loro opere» (La cousine Bette [La cugina Bette], 1846): investendo nel suo lavoro tutto se stesso, l’autore della Comédie humaine inaugura un modo nuovo di intendere la letteratura che, lungi dal configurarsi come un semplice «mestiere», si scopre essere un qualcosa di totalizzante, un’attività di sistematica dissipazione delle proprie forze, una specie di martirio volontario del romanziere, di cui testimoniano la corrispondenza e in particolare le lettere a Mme Hanska. Durante gli anni di maggiore produttività (dopo il 1830), Balzac offre di sé il ritratto di uno scrittore forsennato, insonne, assillato dalle scadenze. Al pari del vecchio pittore Frenhofer di Le Chef-d’oeuvre inconnu (Il capolavoro sconosciuto, 1831), ossessionato dall’idea di bellezza, l’arte è per lui una tentazione d’assoluto. Eppure, a differenza di quanto avverrà con la generazione di Flaubert e di Baudelaire, poi con quella di Mallarmé, egli non insegue l’idea di un magistero esclusivamente letterario. Siamo infatti vicini alle origini del volontarismo borghese e la Storia è ancora aperta, invece di essere compromessa, svuotata di ogni promessa, come sarà dopo il 1848.

  La Comédie humaine rappresenta l’ultimo e incompiuto stadio di un lunghissimo processo di maturazione. I germi di tale progetto ad un tempo enciclopedico e sintetico sono il frutto, come dice l’enfatica «Avvertenza» (1842), di un «sogno», di una «chimera» tradottasi in realtà. Ma questa «chimera» risale a ben prima del 1842. Balzac concepisce infatti la sua opera sotto forma di serie e di insiemi fin dalle «Scene della vita privata» (1830-1832) e dalle Études de moeurs (1834-1836), cui avrebbero dovuto far seguito le Études philosophiques (1835-1840) e le Études analytiques; e si potrebbe risalire ancora più indietro, al 1825, cioè a quella Histoire de France pittoresque in cui, superando la prospettiva scottiana, ogni capitolo avrebbe dovuto nelle intenzioni dell’autore corrispondere a un romanzo, ogni romanzo a un’epoca. Se a ciò si aggiunge che fin dal Père Goriot (Papà Goriot, 1834-1815) Balzac applica la tecnica del ritorno dei personaggi — Rastignac, figura dotata di uno spessore mobile, riappare una ventina di volte, dalla Peau de chagrin (La pelle di zigrino) a Splendeurs et misères des courtisanes (Splendori e miserie delle cortigiane) – si capisce che La Comédie humaine è un’opera familiare e multiforme, un mondo parallelo al mondo reale, dunque credibile perché ricco di vita. Grazie a questa tecnica destinata a di-ventare celebre, Balzac scopre il modo di unificare ciò che è ancora da scrivere e prende coscienza dell’unità profonda di quel che ha già scritto; ogni romanzo esce dal suo isolamento per costruire un puzzle. Soprattutto, nasce uno spazio biografico immaginario nel quale il personaggio non è conoscibile se non grazie ai tasselli costruiti da una finzione stratificata e plurale. Ma il senso rivoluzionario dell’operazione balzachiana si raccoglie nell’idea stessa delle Études de moeurs e in quella complementare delle Études philosophiques.

  In effetti, così come la realtà è bifronte, bifronte sarà anche il romanzo: di questa realtà a doppio fondo il romanziere deve saper cogliere il lato più evidente e il versante più profondo, gli effetti di superficie e le cause remote. Dovrà riprodurla e reinventarla. Fin dalla Physiologie du mariage («Fisiologia del matrimonio», 1829), serie di meditazioni «statistiche» sul matrimonio, l’autore annuncia il progetto di un’opera fondata su una teorizzazione filosofica. In altri termini, procedimento realistico e pensiero interpretante dovranno innestarsi l’uno nell’altro. Balzac getta una luce sinistra su una società mossa ma al tempo stesso devastata dalla passione. Il pensiero, il sentimento uccidono, sono agenti di distruzione, angeli sterminatori dell’umanità. È in questa prospettiva che va letta l’affermazione che figura nell’«Avvertenza» della Comédie humaine: «Scrivo alla luce di due Verità eterne: la Religione, la Monarchia». L’autore ritiene che solo la religione, accompagnata da una forma statuale forte, possa ridurre il potere distruttivo del pensiero umano. Se Balzac non si lascia sedurre dalle nostalgie repubblicane, se dopo la Rivoluzione di luglio si allontana dal liberalismo e si «converte» alla causa del trono e dell’altare, è appunto per prendere le distanze dall’opportunismo di una borghesia che sta diventando repressiva, e per contestare una modernità che destabilizza l’individuo.

  I suoi romanzi giovanili offrono l’immagine di uno scrittore attento alla moda letteraria del momento e ai gusti di un pubblico che chiede emozioni, violenza ed esotismo. La complessa architettura della Comédie humaine disegna il profilo di un artista ebbro di totalità, di un romanziere appassionato di filosofia, di un uomo di lettere assetato di scienza, allora in piena espansione. L’«Avvertenza» del 1842 insiste infatti sull’importanza delle scienze naturali: un principio di analogia lega «Animalità» e «Umanità», «Natura» e «Società». Ispirandosi al metodo del naturalista Geoffroy Saint-Hilaire, Balzac dichiara che, come le «Specie Zoologiche», anche le «Specie Sociali» si differenziano in funzione dell’ambiente nel quale si sviluppano. Il regno animale è tuttavia infinitamente più uniforme e costante dell’universo sociale. Quando Balzac ricorre alla metafora del «segretario» che scrive sotto dettatura della società, ciò che colpisce è incontrare una simile professione di umiltà in un autore che non si accontentava affatto della storia evenemenziale. Raccontare il sociale nella sua varietà e nelle sue trasformazioni significa infatti per lui liquidare le odiose «nomenclature» di nomi, fatti e date tanto care ai cattivi storici e lasciar spazio alla «storia del cuore umano». In altre parole, Balzac si propone di censire tutte le specie sociali nella loro interazione con l’ambiente ma al fine di estrarre le leggi che governano l’insieme. Forte di questo progetto, il romanziere-scienziato rende omaggio a Scott che ha innalzato il romanzo, come lui scrive, «al valore filosofico della Storia» ma, al tempo stesso, enuncia la sua ambizione più antica: quella di costruire un sistema di romanzi capace di tessere «una storia completa» dell’uomo sociale.

  Il criterio sintetico della tipizzazione è ciò che permetterà a Balzac di realizzare il suo ideale. In effetti, il personaggio-tipo è il modello di un genere, è un personaggio che raccoglie in sé i tratti di un’intera «classe» (prefazione di Une Ténébreuse affaire). Il tipo generalizza l’individuale e individualizza il generale. Lo scrittore ricerca ciò che la realtà comporta di tipico. Ma il tipo non si giustificherebbe senza la legge dei grandi numeri. Esso suppone cioè l’esistenza di un ambito pubblico nel quale i vari attori si sono riassorbiti in una società uniforme, analizzabile in termini statistici. In questo senso alcuni personaggi balzachiani possono essere considerati il risultato di un approccio matematico della realtà, essi significano doppiamente, al quadrato: Gobseck è Gobseck ma è anche l’oro, César Birotteau la probità infelice, Goriot l’amore paterno. C’è da aggiungere che Balzac tipizza non solo gli esseri con i loro gesti e le loro parole ma anche i luoghi (per esempio la casa Grandet), gli avvenimenti e le situazioni. Decisivo è quindi nell’economia dell’opera il ricorso sistematico al procedimento oggettivante della descrizione, attraverso il quale l’esterno e l’interno si legano secondo un rapporto di simbolica reciprocità.

  Impossibile dar conto del ricchissimo repertorio offerto dalla Comédie humaine. Tuttavia su alcuni temi e bene soffermarsi. Innanzitutto il tema del fantastico. Lettore di Hoffmann e seguace de misticismo di Swedenborg e di Saint-Martin, Balzac elabora un’idea visionaria della realtà nella quale non è lo sguardo del personaggio ad alterare il reale ma è il reale nella sua complessità a offrirsi al personaggio sotto forma di mistero. In altri termini, 1 epifania della realtà ha di per sé un carattere fantastico. La Peau de chagrin (1831), vero e proprio centro della Comédie humaine in quanto lega le Etudes de moeurs alle Études philosophiques, attraverso «una fantasia quasi orientale dove la vita stessa è descritta alle prese con il Desiderio, principio di ogni Passione», ruota attorno a un talismano magico che si sottrae alle leggi scientifiche, e che non è altro se non la metafora della società parigina del 1830. Il giovane protagonista, Raphaël de Valentin, sta per rinunciare alla vita quando un antiquario (figura salvatrice o tentatore mefistofelico?) gli regala una pelle di zigrino che ha la virtù di soddisfare ogni desiderio di chi la possiede. Questa, però, a ogni richiesta si restringe, e abbrevia così la vita, di cui è un simbolo. Ma il patto faustiano è ormai cosa fatta. Accettando la pelle, Raphaël rientra nella realtà, in quella società parigina del 1830, misteriosa e terrificante, che lo schiaccerà. Da questo momento per lui il quotidiano diventa eccezionale e la realtà un incubo. La sua vicenda illustra il dilemma filosofico che ogni individuo deve affrontare: vivere meglio ma senza piaceri, oppure vivere intensamente esaurendo il proprio capitale energetico. Intensità e durata non possono coesistere. Ma negare il desiderio equivale a rifiutare la vita. Balzac denuncia le devastazioni prodotte nell’individuo dalla passione, ma al tempo stesso glorifica la presenza nell’uomo del desiderio. I saggi praticano una sana economia delle forze vitali, gli uomini tendono invece ad autodistruggersi. La Peau de chagrin è anche, sotto questo aspetto, un bilancio ideologico del 1830, una grande allegoria politica sulla Monarchia di luglio, regime della dilapidazione, della dissipazione, della dispersione, della perdita: tutti i poteri e tutte le convinzioni si equivalgono, tutti i valori vengono dissacrati, regna sovrano il disincanto (a prova, il banchetto offerto dal banchiere Taillefer nella prima parte del romanzo). Raphaël de Valentin, «anima ancora innocente» costretta a giocarsi in una bisca gli ultimi spiccioli rimastigli, è una delle tante vittime di un potere che ha abiurato le sue origini rivoluzionarie.

  La visione di un reale enigmatico da restituire nell’opera d’arte non può non richiamare un altro tema essenziale della Comédie humaine: Parigi, moderna Babilonia, divinità divorante, luogo degli affari, della politica e della commedia sociale. L’Ottocento è, in Francia, il secolo che vede la città invadere la letteratura: il fatto è che nella città si condensano, in senso baudelairiano, i tratti rivelatori della vita moderna (nel Père Goriot il giovane Eugène de Rastignac impara a conoscere i meccanismi sociali esplorando i quartieri della capitale). La visione dantesca che apre La Fille aux yeux d’or (La ragazza dagli occhi d’oro, 1834-1835) dimostra che Parigi è governata da due leggi: la legge dell’«oro» e la legge del «piacere». Esse inglobano tutte le sfere sociali di una realtà urbana allora in pieno sviluppo, segnata da un incipiente capitalismo e abitata da una nuova aristocrazia: i banchieri. Un duplice rapporto di attrazione e repulsione lega Parigi alla provincia. In effetti, alla Francia d’antico regime si è ormai sostituita la Francia dei dipartimenti e dell’accentramento amministrativo. Il romanzo balzachiano racconta questa nuova gerarchia riconoscendo alla realtà provinciale e all’«ambizioso di provincia» pieno diritto di cittadinanza.

  Pubblicata nel 1833, la seconda e più importante delle «Scene della vita di provincia», Eugénie Grandet, sposta l’asse della rappresentazione dal centro alla periferia. In scena è il destino di una donna schiacciata da un padre che concentra tutta la sua energia nel possesso dell’oro. Eugénie ha una natura angelica, è uno di quei «cuori puri» che ignorano il potere del dio Denaro. Grandet fa pensare invece all’avaro della tradizione teatrale (Molière): mania, senso del ridicolo. Ma Balzac è più interessato ad analizzare l’avarizia intesa come passione legata a un’epoca precisa. Grandet è infatti un uomo d’affari lucido e intraprendente, pronto ad approfittare di tutti i regimi politici, dalla Rivoluzione alla Restaurazione. È attraverso di lui che l’incipiente capitalismo moderno parla il suo linguaggio più puro. Per di più, avendo a forza di risparmi, astuzie e ostinazione ammassato un patrimonio gigantesco, ha in sé qualcosa di fantastico: è la quintessenza dell’individuo desiderante, un Vautrin di provincia. Considerato a ragione l’emblema del romanzo realista, Eugénie Grandet offre la visione pessimistica di un mondo soffocante e senza umanità. Balzac lo ha privato di ogni romanticismo. Persino la tecnica che egli impiega sembra «cospirare» contro l’insorgere di ogni promessa di vitalità: la narrazione cede il passo a lunghe e minuziose descrizioni; la lentezza, l’attesa, la noia proprie della vita provinciale si trasmettono immancabilmente al lettore («monotono», «monotonia», «malinconia», «malinconico» sono termini ricorrenti).

  Le Père Goriot tratta magistralmente la teoria-madre dell’usura vitale associando a essa il tema del denaro. Il romanzo, che verrà dapprima incluso nelle «Scene della vita parigina» poi nelle «Scene della vita privata», intreccia i destini degli attori principali che occupano la scena della Comédie humaine (Eugène de Rastignac, Vautrin, Gobseck, ecc.) e getta le basi di una vasta quanto sconsolata epopea borghese. Ritorna il Rastignac della Peau de chagrin, ma a vent’anni, cioè nel momento del suo ingresso a Parigi. L’invenzione di un personaggio come Vautrin — essere satanico che conosce i segreti del mondo, poeta dell’azione che proclama la forza indomabile dell’io, figura che unisce il sapere, il volere e il potere, e che mette il successo al di sopra della legge e il piacere al di sopra della morale – regala a questa epopea il prestigio che emana dall’elemento fantastico. Goriot è un commerciante che ha fatto fortuna durante la Rivoluzione, un padre disprezzato dalle figlie, Anastasie e Delphine, alle quali ha dedicato tutto il suo amore e i suoi averi. Questo «Cristo della paternità» che muore nell’indifferenza universale è pronto a «comprare» il loro affetto: «Il denaro dà tutto, anche le figlie», confessa malato a Rastignac. Ma il denaro non è solo l’inferno della vita moderna, esso riveste pure un ruolo metafisico: è la metafora del desiderio umano. Il principio balzachiano del fatalismo delle passioni non induce infatti l’eroe a risparmiarsi, a fuggire la realtà, al contrario, lo spinge a optare per la condizione mortale. Contrariamente all’usuraio Gobseck, protagonista dell’omonimo romanzo (1830) pubblicato nella prima serie delle «Scene della vita privata», diversamente dall’antiquario della Peau de chagrin, Goriot, più simile allo scienziato Balthazar Claës (La Recherche de l’Absolu [La ricerca dell’Assoluto]) e al pittore Frenhofer (Le Chef-d’oeuvre inconnu), non è capace di capitalizzare energia. Egli appartiene a quella categoria di personaggi che non sanno dominare le loro passioni. Il suo destino illustra la legge che presiede al funzionamento delle esistenze d’eccezione e mette in scena la linea di forza di tutta La Comédie humaine.

  Il 1836 vede la nascita del roman-feuilleton che permetterà a Balzac di rivolgersi a un pubblico nuovo. Innovazione cruciale e problematica. Solo un anno dopo esce infatti la prima parte di Illusions perdues (Illusioni perdute, 1837-1843), romanzo che mette al centro ma nella sua dimensione più prosaica il mestiere di scrittore. Non si tratta più di rappresentare il genio mistico alle prese con l’assoluto come in Louis Lambert (1832); si tratta invece di analizzare la natura del fenomeno letterario nel mondo moderno: commercializzazione, industrializzazione, circuiti d’influenza, potere dei giornali. Da questo punto di vista, perdute sono le illusioni dell’aspirante scrittore Lucien de Rubempré. Questo «figlio del secolo», che da Angoulême muove alla conquista di Parigi, frequenta l’ardente cenacolo di Daniel D’Arthez, si avvilisce nelle compromissioni del giornalismo e dopo folgoranti successi cade in miseria per essere infine salvato da una strana figura di avventuriero, Carlos Herrera – che non è altri se non Vautrin –, ha tutti i tratti dell’eroe romantico che vede morire le illusioni della giovinezza: il genio, la letteratura. Lucien non riesce a realizzare niente di ciò che attendeva dal mondo e da se stesso. Subisce e Parigi e la provincia senza mai arrivare a conoscerle. Non ha nulla del Rastignac che agisce nel Père Goriot, al quale, al contrario, Parigi schiude le porte del mondo. Illusions perdues smaschera tutto: il giornalismo, il commercio librario che sfrutta i giovani talenti, un’intera società dove i valori culturali sono asserviti al denaro. Esso sembra fin dal titolo proiettare su tutta La Comédie humaine la lunga ombra della sua generale demistificazione. [...].

 

 

  Robert Louis Stevenson, Due libri in tasca, la ricetta segreta di ogni scrittore. Traduzione di Claudia Verardi, «la Repubblica», Roma, 9 marzo 2008, pp. 42-43.

 

  Come ho detto, erano tutti e tre studenti degni eli grande nota, ma quest'ultimo era il più ragguardevole. Ricco, affascinante, ambizioso, avventuroso, diplomatico, grande lettore di Balzac e, fra tutti gli uomini che io abbia mai conosciuto, il più simile a uno dei personaggi di Balzac. Egli conduceva una vita — ed era accompagnato da una sorte avversa — che avrebbe potuto essere rappresentata nella Comédie humaine.

 

 

  Marco Stupazzoni, «Jane la Pâle» (et autres «Romans de jeunesse») dans la censure de l'Index ecclésiastique (traduit de l’italien par Sylvie Accornero), in AA.VV., Autour de «Wann-Chlore» ... cit., pp. 177-195.

 

  Dans les Romans de jeunesse, les affirmations, les thèmes et les parties du texte où l’écrivain montre qu’il transgresse de façon grave et manifeste non pas tant – et non seulement – les préceptes dogmatiques et doctrinaux mais plutôt les principes et les enseignements moraux du catholicisme sont résolument condamnés. L’exaltation indécente de l’amour profane et des passions sensuelles, la représentation dénigratoire du clergé, la désacralisation blasphème des textes sacrés, tels que la Bible, des sacrements et des cérémonies religieuses, constituent, selon les consulteurs, des motifs suffisamment fondés pour réprouver et condamner. Les témoignages réunis dans les rapports des censeurs sont, à cet égard, nombreux et exemplaires. […].

 

 

  Marco Stupazzoni, Bibliographie raisonnée. La réception de «Wann-Chlore», in AA.VV., Autour de «Wann-Chlore» ... cit., pp. 197-228.

 

  Inutile de taire le fait que, en ce qui concerne Wann-Chlore – comme la quasi totalité des Premiers romans, d’ailleurs – le silence a longtemps dominé ainsi qu’un ostracisme évident de la critique non seulement française.

  Ce n’est qu’à partir de la seconde moitié du XXe siècle que la clairvoyancc d’une nouvelle génération — pionnière — de critiques balzaciens (de M. Bardèche à P. Barbéris et, plus récemment, R. Chollet, A. Lorant, Th. Bodin, S. Vachon) a permis de redécouvrir et de redonner toute sa valeur à un roman, Wann-Chlore, jusque-là enfoui sous la poussière de l’indifférence et du mépris.

 

 

  Laure de Surville, Balzac mio fratello. Introduzione di Daria Galateria. Traduzione di Roberta Ferrara, Palermo, Sellerio editore, 2008 («Il divano», 264), pp. 181.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Daria Galateria, Rancori, pp. 7-29. [Cfr. supra].

  Nota, p. 30;

  Balzac mio fratello, pp. 31-178.

 

  pp. 33-34. Credo di avere un dovere verso mio fratello e verso tutti: rendere noti dei dettagli che oggi sono la sola a conoscere e che consentiranno di scrivere una biografia fedele dell’autore della Comédie humaine. Gli amici di Balzac mi hanno esortato a troncare sul nascere tutte le leggende che non mancano mai di fiorire intorno ai nomi illustri e a prevenire gli errori che potrebbero prendere piede riguardo al carattere di mio fratello e alle circostanze della sua vita. Ho capito che era meglio dire la verità finché parecchie persone erano ancora in grado di attestarla.

  La Comédie humaine non ha suscitato meno censure che elogi. Ancora di recente dei critici l’hanno condannata in nome della religione e della morale, due argomenti a cui ricorrono sempre i nemici dei grandi uomini. Non so se ci sia mai stato, in Francia, uno scrittore di costume che non fosse accusato di dare scandalo. Mi domando che opere potrebbero nascere dai severi principi che si vogliono imporre agli autori. Balzac ha creduto che il romanzo di costume non potesse fare a meno dei contrasti e che non bastasse dipingere la virtù per ammaestrare gli uomini. Se coloro che sostengono il contrario si mettessero all’opera, riuscirebbero a dimostrare che aveva torto? ...

  Non ho il potere né la volontà di contestare simili giudizi e non pretendo di difendere mio fratello. Il tempo, che ha reso giustizia a tanti uomini di genio criticati o insultati dai contemporanei, gli assegnerà il posto che gli spetta nella letteratura francese. Rimettiamoci a questo giudice, il solo che sappia essere imparziale e infallibile.

 

 

  Hippolyte Taine, Nuovi saggi di critica e di storia. Balzac, in Scritti di critica e storia. Stendhal e Balzac. A cura di Marco Nuti, Firenze, Editrice Clinamen, 2008 («Biblioteca Clinamen», 12), pp. 39-96.

 

  Scrive Marco Nuti nell’Introduzione ai testi (pp. 7-14):

 

  Il contributo su Balzac, che va a formare il primo studio dei Nouveaux Essais de critique et d’histoire, del 1865, raccoglie una serie di articoli pubblicati il 3, 4, 5, 23 e 25 febbraio 1858 in «Le Journal des Débats», focalizzati sull’analisi dello spirito, dello stile e del mondo sociale dello scrittore francese, così come dei suoi grandi personaggi e della sua filosofia. Le pagine di Taine costituiscono il primo organico studio critico dell’opera del creatore del ciclo romanzesco della Comédie Humaine. Ad eccezione dell’opera di Laure Surville, sorella dello scrittore – Balzac sa vie et ses oeuvres d’après sa correspondance –, pubblicata qualche settimana prima degli articoli di Taine, i critici erano stati, fino a quel momento, degli spietati detrattori: che si trattasse di accusarlo di immoralità, di basso materialismo o di sciocco misticismo, a Balzac veniva contestata la mancanza di coerenza e di dignità romanzesca. Persino l’elogio funebre di Hugo non riuscì a risollevare le sorti di un’opera classificata nei ranghi della poco lusinghiera letteratura di appendice. Il saggio di Taine venne allora prontamente in suo soccorso, quantomeno per restituirne la dignità letteraria.

  La novità del saggio tainiano scaturisce dalla volontà di delineare i contorni di un Balzac creatore, di vedere in lui l’interprete lucido e attento della realtà della vita moderna. Nonostante la successione di punti di vista diversi (legati alla pubblicazione in articoli essi stessi susseguenti), lo studio su Balzac non separa l’uomo dall’opera, tradendo per un istante l’evasione verso l’aneddoto biografico, così spesso rimproverato a Sainte-Beuve: «Pour comprendre et juger Balzac il faut connaître son humeur et sa vie». Ma è all’immagine di un Balzac visionario che Taine sembra maggiormente legato. È ben noto come l’epiteto di Balzac voyant cederà il passo, nella seconda metà del XIX secolo, all’immagine di Balzac quale fondatore del realismo. Il merito di Taine è di non voler sacrificare nessuna di queste due dimensioni essenziali presentandoci un Balzac ora visionario ora realista, visionario perché realista e realista perché visionario. È nella natura del mondo che rappresenta e nel modo di percepirlo che, per Taine, Balzac coniuga l’intuizione visionaria alla osservazione realista. L’insistenza sull’originalità e l’unità della personalità creatrice rivela una particolare fecondità: corrisponde non solo allo scrupolo di studiare in Balzac un caso particolarmente significativo di temperamento creativo ma anche all’esigenza di non omettere alcuna dimensione del carattere, di tratteggiarne un inventario schematico da cui dedurre un principio euristico. Si tratta, insomma, di restituire Balzac nella sua integralità.

  Se Corneille aveva descritto la generosa epopea dell’eroismo, Balzac – secondo Taine – è maestro nella descrizione della trionfante epopea della passione: è soprattutto con Shakespeare che il paragone si fa calzante poiché Balzac, come Shakespeare, parla dei più grandi scellerati e dei più grandi monomani. E Balzac è un maestro d’espressione. Ancora una volta il saggio di Taine (seppur con alcuni compiaciuti momenti di fine sarcasmo) apporta una salubre e robusta opposizione alla tradizione critica del tempo secondo cui Balzac era un pessimo scrittore. [...].

  Balzac fornisce a Taine lo spunto riflessivo per la costruzione di una teoria della modernità. Il saggio su Balzac evoca la frenesia della Parigi contemporanea e il ruolo che essa gioca nella vita della nazione come luogo di realizzazione delle ambizioni individuali. L’idea balzachiana per cui l’ambizione è la molla – il principio avrebbe detto Montesquieu – della società moderna, è penetrata ampiamente nella filosofia di Taine. Se ne trova una formulazione esemplare ne La philosophie de l’art, quando, per evocare il ruolo dei sentimenti dominanti di un’epoca nell’universo di un artista, Taine passa in rassegna le grandi epoche storiche e parla di età democratica moderna in cui il personaggio dominante è l’ambizioso sognatore in preda al mal du siècle.

  Balzac figura quindi positivamente nello scacchiere dì Taine, sebbene non occupi, nel suo panthéon, il ruolo privilegiato riservato al ben più ammirato Stendhal (pp. 12-14).



  Luigi Tassoni, Il lettore se deve immaginare. Balzac, in Il viaggiatore visibile. Come leggere i romanzi, Roma, Carocci editore, 2008 («Lingue e letterature Carocci», 83), pp. 27-39.

 

  [...] chi volesse leggere Le chef-d’oeuvre inconnu di Honoré de Balzac potrebbe tener conto che si trova sì davanti a un gioiello concentrato in meno di quaranta pagine, ma anche che la semplice e breve storia che riguarda nientemeno che il famoso pittore Nicolas Poussin da giovane lo costringerà a capire perché il puntiglio iniziale dei rallentamenti e delle interruzioni punta in effetti al vero tema del racconto, tende come una freccia verso un’immagine indescrivibile finale, invita ad approfittare di quegli effetti risultati dall’accostare, confrontare, differenziare. Giustappunto effetti è una parola che nel testo sentiamo echeggiare sapientemente.

  Sarai tu, lettore, disposto a immaginartela per come ti viene raccontata? E a partire da questo magari immaginare altro? Se sì, caro lettore, dovrai anche accettare che il vero protagonista non è il famoso Poussin, nonostante sia il primo personaggio a comparire nella storia, così come il vero tema si dilata su spazi davvero interessanti, insospettati e addirittura ancora non del tutto esplorati, al di là della storia in sé, e tanto intriganti da aver incentivato interpretazioni tra le più varie e spesso di grande qualità, non solo per un’attenzione specialistica. [...].

  Non tutti i lettori sono uguali, e ogni lettore può, se vuole, adattarsi alle pretese di volta in volta differenti di un testo narrativo: così anche in questo caso il capolavoro è sconosciuto. Dal momento in cui il narratore pretende che il lettore ricorra a una fantasia guidata da cognizioni generali (qui riguardanti il mondo dell’arte), gli assegna un ruolo arbitrario e basato sull’intuito, sull’incompletezza, sull’indeterminazione, in quel sottile confine del significato che sta fra ordine e caos, definito e indefinito. Ciò che pensa il lettore non è proprio ciò che gli vuol far pensare il narratore.

  In tre momenti del nostro racconto il narratore sembra pretendere troppo: quando ci chiede di immaginarci il vegliardo simile a un dipinto di Rembrandt, ma vivente, animato; quando ci chiede attenzione intorno alle descrizioni di Frenhofer riguardanti la bella immagine sconosciuta; quando ci chiede di immaginare la relazione fra l’inquietante ammasso di materia cromatica su una tela e il piedino mirabilmente dipinto. In tutti e tre i casi sarebbe lecito che tu e io, lettore, ci domandassimo: ma siamo davvero sicuri che il narratore intenda la stessa cosa che io sto immaginando? E se no, perché mi lascia in questo spazio oscillante fra il visibile e l’invisibile? La risposta ognuno se la darà da solo, prendendosi lo spazio che vuole.

  Fino ad anni recenti abbiamo ritenuto che il lettore fosse un testimone muto, adeguato alla fascinazione del piacere della lettura. E invece oggi ci rendiamo conto che non tutti i lettori sono uguali e che, riguardo all’opera narrativa, ogni racconto pretende (e non prevede), chiama a sé, separa dal gruppo quel tipo di lettore che abbia la capacità di compiere un certo numero di operazioni di spostamento lungo la tela di ragno del racconto, percorrendola piuttosto che rimanere invischiato in essa (e testimone muto). Nel racconto di Balzac, il lettore che la narrazione pretende nelle linee guida delle sue intersezioni è, ad esempio, attento alle ripetizioni e alle simmetrie; è disposto a perdere il filo a causa delle interruzioni; è pacificamente adagiato lungo il tempo unico dell’azione; è scettico ma incuriosito dai discorsi sull’immagine del vegliardo; è affascinato dal nesso, non sempre oppositivo, immagine-realtà-immaginazione; è sfiorato da un’enunciazione di caos inteso non come fuga dall’ordine ma come non figurativo nato dall’eccesso di materia cromatica sovrapposta alla forma.

  Sono solo alcuni punti (tanti ne potrai aggiungere), ma sufficienti, spero, a convincerci che i dubbi di Frenhofer non sono tutti finiti nel tremendo rogo, e che la sua insoddisfazione per una realtà convenzionale presunta in natura generi uno scenario imprevisto per la mente moderna. Ogni aspettativa spinge sempre al di là delle apparenze del bello, del finito, del formale, della verità e del senso.

 

 

  Giuliano Vigini, I numeri, «Corriere della Sera», Milano, 28 dicembre 2008, p. 36.

 

  Nel ricordo di Raffaele de Cesare, grande studioso di Balzac scomparso in questi giorni (al solo 1836 della vita dello scrittore aveva dedicato migliaia di pagine, lasciando anche un’esemplare ricerca su La prima fortuna di Balzac in Italia, Aragno), riproponiamo una questione avanzata nel 1972: quando è nato Balzac, il 20 (come registrato allo stato civile di Tours) o il 16 maggio 1799 (giorno di sant’Onorato), come scrive la sorella Laure (Balzac mio fratello, Sellerio)?

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi Universitari.

 

 

  Allo! Paris! Il libro d’artista da Manet a Picasso nella collezione Mingardi (10 marzo-11 maggio 2008), Parma, Palazzo Bocchi Bossi.

 

  Gustave Doré, Les Contes drolatiques.

 

 

  Maria Bertini, Arti letterarie e musicali dal Medioevo all’età contemporanea, Università degli studi di Parma, Facoltà di Lingue e letterature straniere, Anno accademico 2008/2009.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Un episodio sotto il Terrore.

 

 

  Elena Del Panta, Balzac, il romanzo-palcoscenico, in AA.VV., La manipolazione della forma nella letteratura francese dell’Ottocento, Padova, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Romanistica, 19 giugno 2008, ore 17,30.

 

 

  Francesco Fiorentino, “Il colonnello Chabert” di Honoré de Balzac, in AA.VV., Davanti alla legge. Immaginare il diritto, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Facoltà di Giurisprudenza, Sala degli Angeli, 4 novembre 2008, ore 15,30.

 



[1] Segnaliamo inoltre: Onorato di Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Grazia Deledda. Revisione di Laura Berna, Clelia Mussari, www.liberliber.ir/biblioteca/b/balzac/eugenia_grandet. Progetto Manuzio, 5 agosto 2008, pp. 91 in formato PDF. [Milano, Mondadori, 1936 («Biblioteca Romantica», 7)].

 

[2] Cfr. 1986.

[3] Cfr. H. Corbin, Face de Dieu, face de l’homme. Herméneutique et soufisme, Flammarion, Paris 1983.

[4] Cfr. M. Eliade, Mefistofele e l’androgine, trad. it. di E. Pinto, Edizioni Mediterranee, Roma 1983.



Marco Stupazzoni

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