martedì 16 febbraio 2021



2001

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Le Colonel Chabert. Introduction, chronologie, bibliographie sélective par Pierre-Jean Dufief. Notes et analyses du texte par Noëlle Resta Flandin, Napoli, Loffredo Editore, 2001 («Grands Auteurs»), pp. XLII-110; 1 CD audio.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Chronologie, pp. XI-XIII;

  Pierre-Jean Dufief, Introduction, pp. XV-XXXV;

  Bibliographie sélective, pp. XXXVII-XL, ill.;

  Noëlle Resta Flandin, Avant-propos, pp. XLI-XLII;

  Le Colonel Chabert, pp. 1-72;

  Analyse du texte, pp. 73-110.

 

  L’Introduction redatta da Pierre-Jean Dufief consente al lettore di cogliere gli aspetti essenziali del racconto balzachiano, che l’A. sviluppa tenendo sempre in dovuta considerazione non soltanto il contesto storico politico, ma contemporaneamente il programma e i fondamenti estetico-ideologici che stanno alla base del sistema-Comédie humaine. Alcuni temi, come, ad esempio, il mito napoleonico, il ritorno dell’eroe creduto morto e sepolto vivo, l’impossibile felicità coniugale, la questione, quanto mai attuale, della ricerca dell’identità perduta e mai ritrovata, sono analizzati dall’A. in maniera pertinente: a suo giudizio. Le Colonel Chabert «obéit à une structure cyclique faisant du héros un personnage très moderne» (p. XXV), una vittima (forse inconsapevole) di quel dramma giuridico e affettivo che è la vita.

 

 

 

 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, [da La Pelle di zigrino e Le Cousin Pons], in AA.VV., Pagine etrusche, a cura di Giuseppe M. Della Fina, Roma, Edizioni Quasar, 2001.

 

 

 

 

Edizioni bilingue.

 

 

  Honoré de Balzac, Addio. Traduzione di Renato Mucci con un saggio di George Sand, Milano, Mondadori, 2001 («Oscar classici», 485), pp. 143.

 

  Per la traduzione, cfr. 1994.

 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il Capolavoro sconosciuto seguito da Gambara, a cura di Paola Conti. Traduzione Luisa Artioli, Milano, Tascabili La spiga, 2001 («I David», 47), pp. 93.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Prefazione di Geno Pampaloni. Traduzione di Luca Merlini e Carlo Montella, Firenze, Passigli, 2001Le occasioni»), pp. 60.

 

  Cfr. 1983 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Il Colonnello Chabert, traduzione e apparato didattico a cura di Sergio Calzone, Torino, Edisco, 2001 («I Liocorni»), pp. 160; ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Sergio Calzone, Introduzione, pp. 9-25;

  Il Colonnello Chabert, pp. 27-125;

  Sergio Calzone, Lavoriamo sul testo, pp. 127-153;

  Scheda filmica, pp. 154-158;

  Bibliografia, pp. 159-160.

 

  Il romanzo è suddiviso in tre parti secondo il modello dell’edizione originale del romanzo pubblicato, con il titolo di: La Comtesse à deux maris, nel 1835,

 

  Nell’Introduzione all’opera, preceduta da una pagina che riproduce il Ritratto di Balzac di Seguin, Calzone ripercorre i momenti fondamentali della vita e della carriera letteraria dello scrittore francese, fornendo altresì l’analisi dei principali temi e delle strutture narrative del romanzo balzachiano. L’A. ritiene, in maniera forse troppo sicura, che questo romanzo, come la maggior parte dei testi della Comédie humaine, collocano Balzac nel territorio dell’invenzione storica entro cui il romanziere si erge non come figura di cronista scientifico e rigoroso, ma come «moralista che si indigna contro il male e parteggia scopertamente per l’onestà e, soprattutto, per la nobiltà d’animo» (p. 17).

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonello Chabert. Introduzione di Paolo Tortonese. Traduzione di Irma Zorzi, Milano, Fabbri Editore, 2001I classici del romanzo storico»), pp. 120.

 

  Cfr. 1994 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Un episodio durante il Terrore. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Roberto Rossi, Milano, Garzanti editore, (aprile) 2001 («I grandi libri», 847), pp. LXII-91.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, pp. VII-LXII;

  Il colonnello Chabert, pp. 1-69;

  Un episodio durante il Terrore, pp. 71-90.

 

  Le Colonel Chabert e Un Épisode sous la Terreur hanno goduto, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, di un’attenzione particolarmente rilevante da parte della cultura editoriale italiana. Portato sullo schermo nel 1994 da Yves Angelo, Le Colonel Chabert ha sempre tenuto desto nei lettori un interesse particolare. Nella sua Introduzione ai testi, Binni mette in luce l’«atmosfera pirandelliana» (p. LVI) che pervade il romanzo, sottolineando l’inaspettata quanto straordinaria modernità dell’opera. Di fronte ad un modello sociale chiuso ed ostile, Chabert, dichiarandosi disponibile a morire una seconda volta, si rivela eroe in maniera duplice per aver incarnato «il più straziante, razionale e lucido dei comportamenti» (p. LVII) di fronte alle ragioni pragmatiche e utilitaristiche di una realtà che non esita a «far uscire di scena» colui che non è disposto a tollerarne e ad accettarne le regole.

 

 

  Honoré de Balzac, La donna di trent’anni. Traduzione di Gianna Tornabuoni. Introduzione di Paola Dècina Lombardi, Milano, Mondadori, 2001Oscar classici», 235), pp. 224.

 

  Cfr. 1992 e successive ristampe

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Renato Mucci, Novara, De Agostini, 2001Gedea capolavori»), pp. 167.

 

  Cfr. 1983 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Giorgio Brunacci, Milano, Garzanti, 2001I grandi libri»,25), pp. LXI-174.

 

  Cfr. 1984 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Traduzione Enza Minnella. Nota biografica, presentazione e note di Susanna Fava, Milano, Tascabili La Spiga, 2001I David», 22), pp. 141.

 

  Cfr. 1996.

 

 

  Honoré de Balzac, Ferragus, con una nota introduttiva di Italo Calvino. Traduzione di Clara Lusignoli. Note di Claudia Moro, Milano, Oscar Mondadori, (aprile) 2001 («Oscar classici», 533), pp. XIX-147.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Italo Calvino, La città-romanzo in Balzac, pp. V-X; [cfr. 1973];

  Cronologia della vita e delle opere principali, pp. XI-XVII;

  Bibliografia essenziale, pp. XVIII-XIX;

  Ferragus, capo dei Dévorants, pp. 1-122;

  Postfazione, p. 123;

  Claudia Moro (a cura di), Note, pp. 125-146.

 

 

  Romanzo complesso dal punto di vista sia strutturale che tematico, Ferragus, primo capitolo della trilogia di testi che formano l’Histoire des Treize, dove risalta con particolare intensità lo stridente rapporto tra la società e alcune enigmatiche figure poste ai margini di essa, fu pubblicato, nella sua prima edizione originale, a puntate, nella «Revue de Paris» tra il marzo e l’aprile 1833. La forza della scrittura balzachiana trova, nella ricchezza delle digressioni che costellano così frequentemente il tessuto narrativo, il suo tratto peculiare e distintivo. «Far diventare romanzo una città» costituisce, secondo Calvino, «l’impresa cui Balzac nel momento in cui comincia a scrivere Ferragus si sente chiamato» (p. V). Concepire ed elaborare il «poema topografico di Parigi» sostenendo la sua particolare suggestione di creatura mitica, significava, per Balzac, tradurre in forma letteraria quell’intuizione che egli «per primo ebbe della città come linguaggio, come ideologia, come condizionamento d’ogni pensiero e parola e gesto» (p. VII).

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Lanfranco Binni. Traduzione di Anna Premoli e Francesco Niederberger, Milano, Garzanti, 2001 («I grandi libri»), pp. LXI-549.

 

  Cfr. 1974 e successive ristampe.

 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Felice Accame, Il testo teatrale, le disgrazie di Balzac e l’umorismo sui socialisti, «Hortus Musicus. Trimestrale di musica antica», Bologna, Anno II, numero 6, aprile-giugno 2001, pp. 68-68.

 

  Tra le ragioni, tutte in parte condivisibili, che inducono l’A. a dichiarare, in forma quasi lapidaria, proprio all’inizio di questo lucido intervento: «Non amo andare a teatro» (p. 68), v’è senza dubbio quella riconducibile alle procedure di stravolgimento testuale e ideologico operate, per ragioni diverse a seconda dei tempi e dei mutati gusti del pubblico, nei confronti di opere che il loro autore sarebbe difficilmente disposto a riconoscere come proprie.

  Il caso della recente edizione di Mercadet l’affarista di Balzac (1840) affidata a Ernesto Calindri e portata sulle scene nel 1998 è, a giudizio dell’A., esemplare: riducendo drasticamente l’articolazione formale della commedia dai cinque atti originali a due tempi, «tagliando via personaggi interi, comprimendo certe argomentazioni e riducendo all’osso certi rapporti, la vicenda risulta semplificata, certe sfumature banalizzate e i caratteri dei personaggi fortemente stilizzati. [...] Spiace che anche a Balzac – conclude Accade – sia toccata l’applicazione di questa legge onnipervasiva che, per la via maestra della televisione, giocando al ribasso dell’intelligenza dello spettatore, impone faciloneria sbrigativa, pressappochismo e superficialità, e, soprattutto, l’abiura di ogni tentazione critica» (p. 69).

 

 

  Umberto Artioli, Pirandello allegorico. I fantasmi dell’immaginario cristiano, Bari, Laterza Editori, 2001.

 

  Riferimenti a Séraphîta.

 

 

  Alfio Bernabei, Com’è sovversivo il romanzo, «l’Unità», Roma, 4 ottobre 2001, p. 29.

 

  Byatt parla all’Istituto di Cultura Italiano di Londra, affiancata da Mario Vargas Llosa e Daniele del Giudice. Al centro dell’incontro, l’uscita del primo volume di una serie «multidisciplinare e multiculturale» dedicata al romanzo. «Sono rimasta scioccata quando Franco Moretti (coordinatore del progetto) mi ha chiesto se volevo contribuire con un saggio su Cime Tempestose», dice Byatt. «Ho risposto che gli avrei dato un’occhiata. Ma quando ho riguardato il libro, ho scoperto che per me era morto. [...]. Così mi sono detta: chi voglio leggere con piacere? Chi è uno scrittore che non capisco? Ed ho subito pensato ad Honoré de Balzac che, dal punto di vista della lingua inglese, è all’opposto di Emily Brontë. Se ne parla, ma non si legge e non è capito. Mi sono detta: vorrei guardare a Balzac dal punto di vista di oggi». Byatt si è sentita pungolata anche per un altro motivo: «Negli anni Ottanta ho esaminato diversi dottorati sul romanzo ed ho cominciato ad incontrare la frase: “Balzac credeva che la realtà fosse come un muro di mattoni e poteva descriverli tutti”. Gli studenti citavano questa frase, tutti, ed era chiaro che nessuno di loro aveva letto Balzac. Credo che avessero preso la frase da Stephen Heath (autore di saggi su Flaubert e Balzac) che a sua volta pare l’avesse presa da Roland Barthes. Era un’espressione inadeguata sulla prosa di Balzac. Partendo da qui mi sono detta: posso guardare a Balzac e lavorarci sopra».

 

 

  Mariolina Bertini, Splendori e miserie delle traduzioni balzachiane, in AA.VV., L’artefice aggiunto. Trenta scritti sulla traduzione, a cura di Dario Voltolini, «L’Indice dei libri del mese» (Dossier n. 7), Torino, Anno XVII, n. 5, Maggio 2001, p. VI.

 

  Segnaliamo all’attenzione del lettore questo intervento di Mariolina Bertini sulle fortune e le sventure della traduttologia balzachiana in Italia compreso tra i trenta contributi di questo utile ed interessante dossier dedicato ai problemi della traduzione (soprattutto letteraria).

  Neppure la recente ricorrenza del bicentenario della nascita ha favorito il miglioramento della presenza e della diffusione delle opere di Balzac nel nostro Paese, che ancora lamenta la mancanza di una traduzione integrale dell’intera sua produzione narrativa. A questa imperdonabile lacuna si aggiunga che nonostante alcuni illustri scrittori (da Grazia Deledda a Camillo Sbarbaro, da Attilio Bertolucci ad Andrea Zanzotto) si siano cimentati con successo nella trasposizione di alcuni celebri romanzi della Comédie humaine nel nostro idioma, il terreno della traduzione balzachiana resta disseminato di insidie che non sempre qualche nostro più recente traduttore è riuscito ad evitare.

 

 

  Lanfranco Binni, Introduzione, in Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Un episodio durante il Terrore ... cit., pp. VII-LV.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Massimo Blanco, Il canone occulto. I colori della “Comédie humaine” di H. de Balzac. Tesi di dottorato. Supervisore: prof. Massimo Colesanti, Roma, Università La Sapienza, 2001.

 

 

  Veronica Bonanni, Balzac, Bandello e la tradizione della novella. Tesi di dottorato. Tutori: proff. Sandra Teroni, Alessandro Maxia, Università degli studi di Cagliari, Facoltà di Lettere e filosofia – Letteratura comparata, 2001.

 

 

  Gabriella Bosco, Balzac, una vista sul Novecento, «La Stampa-Ttl Tuttolibri», Torino, 17 marzo 2001, p. 5.

 

  «Forse le opere si formano nella nostra mente nello stesso misterioso modo in cui i tartufi crescono tra le profumate pianure del Périgord». Lo scrisse Honoré de Balzac nel 1829, nell’introduzione alla Physiologie du mariage. Voleva spiegare in che maniera era germinata nella mente «dell’autore» l’idea di quel libro, in seguito «all’iniziale e sacrosanto terrore che l’Adulterio gli aveva provocato». Il risultato doveva essere «una canzonatura del matrimonio: due sposi si amavano per la prima volta dopo ventisette anni di vita coniugale».

  Al di là delle battute simpatiche, è una vera scoperta il Balzac teorico del romanzo di cui ci parla Mariolina Bongiovanni Bertini nel saggio introduttivo alla raccolta di prefazioni del grande scrittore, Poetica del romanzo, curata da Daniela Schenardi per Sansoni: una di quelle scoperte che possono illuminare a nuovo un autore, spesso banalizzato in nome della sua celebrità.

  All’immagine classica dello scrittore del reale, che indaga a fondo la società per ritrarla in orchestrato affresco sulla pagina, si sostituisce gradualmente quella molto più nuova e decisamente più interessante di un romanziere ben altrimenti smaliziato sui complessi ingranaggi della macchina letteraria, in virtù – scrive Mariolina Bongiovanni Bertini – di una «divertita consapevolezza delle convenzioni e delle contraintes del gioco letterario che nulla ha da invidiare alle più sofisticate avanguardie novecentesche».

  E a verifica del fatto che non è l’entusiasmo della specialista a far scaturire un’affermazione tanto forte (la Bertini, nota studiosa di Proust e Balzac, sta curando un’ampia scelta della Commedia umana), la dimostrazione di questo Balzac capace di articolare il suo lavoro di romanziere su molteplici registri passa per un’indagine stringente attraverso i primi scritti, quelli in particolare pubblicati sotto pseudonimo per i Cabinets de lecture o, ad esempio, il bizzarro testo autobiografico mai portato a termine e sconosciuto al grande pubblico che ha per titolo Une heure de ma vie, par Lord R’Hoone (anagramma di Honoré).

  E’ questa una frammentaria novella scritta nel marzo del 1822, in cui il narratore – che è un giovane scrittore momentaneamente privo di ispirazione – racconta un suo vagabondaggio nelle gallerie del Palais Royal, ora attratto da una giovane sconosciuta, ora commosso dalla tristezza di un mendicante, scoprendo quanto sia più interessante lo spettacolo offerto dalle strade della metropoli rispetto a quello che gli spettatori vanno a cercare a pochi passi da lì, al Théâtre Français. «Prefigurazione del senso della futura Comédie humaine» secondo Roland Chollet, specialista di Balzac molto utilizzato per le sue note dalla Bertini, ma anche spunto per una riflessione tutt’altro che banale sul concetto di storia da raccontare: è molto più avvincente quella che illustra l’intus dell’uomo, e i motivi che lo hanno portato a compiere determinate azioni, piuttosto che «l’arida pittura dei fatti e delle gesta» di quell’uomo, scrive Lord R’Hoone.

  Viene così alla luce un altro degli aspetti interessanti di Balzac: il suo declinarsi in numerosi eponimi. Ancora una volta egli si rivela estremamente anticipatore sui tempi, già molto avanti nell’indagare sui misteri dell’identità. Ma almeno un punto va ancora segnalato, che salta fuori da questa appassionante e imprevedibile raccolta di testi teorici: l’importanza della «seconda vista» per Balzac, in altri termini la sua teoria sulla capacità dello scrittore di genio di trapassare il reale con l’immaginazione e percepirne concentrata l’essenza, infinite trasfigurazioni simili alle magiche fantasmagorie dei nostri sogni, «aspetto intuitivo e prerazionale della creazione artistica, fortemente intriso di energia erotica», scrive Mariolina Bongiovanni Bertini.

  Oltre al dialogo ininterrotto che Balzac intrattiene con i lettori, per informarli sulla crescita della sua creazione, l’evoluzione del cantiere, il formarsi del tartufo.

 

 

  Michel Brix, Pour un réexamen des cadres de l’histoire littéraire du XIXe siècle: l’opposition romantisme/réalisme, «Studi Francesi», Torino, 134, Anno XLV, Fascicolo II, maggio-agosto 2001, pp. 268-283.

 

  p. 275. La réalité se révèle trop complexe pour se laisser enfermer dans une représentation; quelqu’effort d’exactitude et de précision qu’on y mette, le réel fait toujours éclater les cadres où l’on voudrait le faire tenir.

  C’est aussi ce qu’épouvre Frenhofer, le peintre du Chef-d’oeuvre inconnu, qui voulait rendre compte de la nature dans ses moindres détails. L’art résulte d’un choix, sinon d’un mensonge, et toute représentation se caractérise autant par ce qu’elle oublie que par ce qu’elle donne à voir. […].

  Le Père Goriot illustre le caractère erratique de nos jugements sur le monde: même quand Goriot dit la vérité sur lui-même, on pense qu’il ment; les personnages interprètent des indices mais, victimes de leurs préjugés, se trompent tout le temps. Même constat dans La Rabouilleuse, où les «disettes» – rumeurs qui courent la ville – ne servent de véhicules qu’à des erreurs. […].

  pp. 282-283. La Comédie humaine illustre l’écart séparant les choses elles-mêmes et les impressions nées des choses. Mme Vauquer regarde sa pension comme un château alors qu’aux yeux de tout le monde l’immeuble s’apparente plutôt à un taudis. Les mêmes objets peuvent être appréhendés de façon radicalement différente, à proportion des «passions» que ressentent les observateurs. […].

  Tout au long de La Comédie humaine, Balzac montre que les individus modèlent la réalité selon leurs désirs et leur fantaisie: une femme suivie dans la rue, la nuit, allume l’imagination et attire comme magnétiquement l’esprit du promeneur; elle paraît jeune, belle, voluptueuse, avant de révéler, à la clarté blafarde d’une porte cochère, sa nature de petite bourgeoise sans séduction, et qui plus est effarouchée de se sentir suivie.

  L’histoire d’une société se fonde chez Balzac dans la peinture des illusions qui affectent les hommes et les femmes qui composent cette société. Les significations que l’on accorde à la réalité environnante peuvent varier à l’infini et surtout elles ne sont jamais les mêmes d’un individu à l’autre. Ces différences constituent le grand moteur de La Comédie humaine: le romancier ne cesse de se faire «autre», de plonger son lecteur dans des intériorités nouvelles, pour que ressorte la multiplicité des points de vue qui sont portés sur le réel. Le monde suscite autant d’images différentes qu’il y a de sujets qui le contemplent. Balzac – et c’est pour cette raison (et non pour d’hypothétiques tendances mystiques) qu’on l’a souvent décrit comme un «visionnaire» – s’est assigné la tâche de montrer les caractères multiformes de la création vue à travers le prisme d’un maximun d’intériorités. Le romancier de La Comédie humaine n’a cessé d’élire domicile dans les cerveaux et de rendre compte de la vision du monde qu’ils secrètent. Ce que chaque être humain appelle la «réalité» est le fruits ‘une reconstruction des choses selon les désirs et l’intériorité de l’observateur. Et le conflit entre toutes ces appréhensions différentes du monde explique la marche de la société française: c’est en tout cas une des leçons essentielles de La Comédie humaine et, sous le rapport de l’histoire littéraire, un trait fondateur de la modernité esthétique.

 

 

  Milly Buonanno, Balzac, in La fiction Tv in Europa: quarto rapporto: Eurofiction 2000, Roma, Rai-Eri, 2001.

 

 

  Italo Calvino, La città romanzo in Balzac, in Honoré de Balzac, Ferragus ... cit., pp. V-X.

 

  Cfr. supra.

 

 

  Carlo Carena, La biblioteca dell’imbalsamatore, «Il Sole-24 Ore-Domenica», Milano, N. 200, 22 luglio 2001, p. V.

 

  A metà Ottocento la collezione del signore di Villenave comprendeva 1.820 autografi, fra cui quelli di Bossuet, di Rousseau, di Mirabeau, di Sade, «le trop célèbre auteur de Justine», come si legge nel catalogo allestito quando fu venduta. Victor Hugo ha l’accortezza di legare tutti i suoi manoscritti alla Bibliothèque Nationale di Parigi; morto Balzac, invece, il 25 e 26 aprile del 1882 la vedova mette in vendita tutti gli autografi della Comédie humaine, che l’autore aveva gelosamente conservati; li acquista in blocco il visconte Spoelberch de Lovenjoul, a eccezione di quello dell’Eugénie Grandet, che gli sfugge e che tenta vanamente d’inseguire fino ad Anversa: è così che tutto Balzac si trova ora all’Institut de France, a cui il visconte lo legò, tranne la Grandet finita alla Pierpoint Morgan Library.

 

 

  Laura Caviglieri, Strutture narrative de “Le Centenaire” di Honoré de Balzac. Tesi di laurea, Relatore: prof.ssa Maria Bertini; correlatore: prof.ssa Françoise Fiquet, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere moderne, Anno accademico 2000-2001.

 

 

  Raffaele de Cesare, Capuana e Balzac, «Annali della Fondazione Verga», 14-1997, Catania, 2001, pp. 49-115.

 

  In questo denso studio intitolato Capuana e Balzac, che segue di alcuni anni l’altra suggestiva indagine sulle Tracce balzacchiane nell’opera di Verga, Raffaele de Cesare raccoglie e presenta per la prima volta in maniera organica e precisa il ricco repertorio di tutti i riferimenti che lo scrittore siciliano fa dell’opera di Balzac lungo quasi mezzo secolo, dal 1866 al 1906. Dall’esame dei documenti prodotti (e molto spesso trascritti opportunamente in versione integrale), emerge una certezza incontestabile e, per alcuni versi, sorprendente: che «la vasta informazione della Comédie humaine, la capillare influenza esercitata da essa nell’opera di Capuana, l’ammirazione profonda e quasi incondizionata di lui per Balzac si presentano come sicuri dati di fatto ai una incontrastabile potenza» (p. 50).

  Gli inizi di questo fecondo incontro intellettuale tra lo scrittore italiano e Balzac risalgono agli esordi letterari di Capuana tra il 1864 e il 1868 per poi svilupparsi con maggiore incisività negli anni 1878-1880, a Milano, attraverso l’intensa attività giornalistica al «Corriere della sera».

  La prima testimonianza del rilievo assunto dalla lettura dei romanzi balzachiani per la sua formazione di narratore è fornita da Capuana in Come divenni romanziere. Confessione a Neera che costituisce la premessa alla seconda edizione di Homo (1888). In queste pagine di simulata indignazione, Capuana ricorda il suo apprendistato letterario maturatosi attraverso la lettura di quelle «ostiche pagine balzachiane» che gli infusero «nelle vene il mortifero veleno della novella e del romanzo» (citaz. a p. 51). Capuana fu assiduo lettore delle opere di Balzac, e una preziosa testimonianza di questa seduzione da lui provata nei confronti del romanziere francese è fornita dall’insieme delle Oeuvres complètes pubblicate da Lévy e acquisite, per via diretta o indiretta, dallo scrittore italiano tra il 1866 e il 1880. La totalità di questi testi, ricomposti da de Cesare in ordine cronologico secondo l’anno di entrata nella biblioteca di Capuana, è conservata nella Biblioteca comunale di Mineo.

  Erede della secolare tradizione epica occidentale, La Comédie humaine si annovera, come l’Iliade e l’Odissea, tra gli «immortali capolavori poetici» che sono, allo stesso tempo, «importanti documenti di storia» (citaz. p. 60). Nel 1877, Capuana pubblica la sua prima raccolta di novelle (Profili di donne) e in uno di tali profili: Ebe, de Cesare ritiene «assai probabile che l’autore abbia trasferito una reminescenza de Le Lys de la vallée» (p. 62). Col ritorno a Milano, Capuana intensifica la sua attività giornalistica al “Corriere della sera”: in un articolo su Une page d’amour di Zola – in cui il critico riconosce un fedele discepolo balzachiano –, egli non attutisce il suo entusiasmo per Balzac quale supremo cesellatore di una «possibile storia naturale dell’uomo» (citaz. p. 65), quale immensa espressione di “artista pensatore” che «ha decomposto e analizzato tutte le passioni, tutti i vizi, tutte le virtù, tutte le debolezze, tutte le miserie di questa civiltà democratica sorta sulle rovine del vecchio mondo aristocratico» (saggio su Gavarni, citaz. p. 69). Il 2 febbraio 1880, Capuana pubblica sempre nel “Corriere della sera”, il suo primo saggio interamente dedicato a Balzac: muovendo dall’Histoire des oeuvres de H. de Balzac di Ch. Spoelberch de Lovenjoul, il critico, sempre attento alle problematiche e alle esigenze estetiche della letteratura italiana contemporanea, documenta, in questo studio, più rigorosamente, quella «entusiastica ammirazione per le dimensioni e la potenza della creazione narrativa dello scrittore francese» (p. 76). Frequentatore assiduo del salotto della contessa Chiara Spinelli Maffei, Capuana ebbe altresì l’occasione e il privilegio di consultare il dossier (manoscritto e bozze di stampa) relativo a Les Martyrs ignorés che Balzac stesso aveva offerto alla «petite Maffei» nel 1837. Il 2 gennaio 1881, Capuana (sorta di genetista ante litteram) pubblica nel “Fanfulla della domenica” l’articolo intitolato Un autografo del Balzac dedicato alla storia redazionale di questo racconto. Tra il 1882 e la fine del secolo, i riferimenti a Balzac contenuti nella produzione critica capuaniana si fanno meno frequenti e piuttosto disorganici. Tuttavia, nella trattazione intitolata Spiritismo (1884), Capuana vede in Balzac una delle massime espressioni di «allucinazione artistica» (citaz. p. 91), mentre nella recensione del Fuoco di D’Annunzio (15 marzo 1900), egli definisce l’autore della Comédie humaine come una sublime manifestazione del sacrificio per l’arte.

  La particolare attenzione che Capuana consacrò allo studio dei Martyrs ignorés trova un riscontro importante nelle tracce messe in luce da de Cesare nella tessitura del Marchese di Roccaverdina, dove, puntualizza l’A., si annodano «alcuni fili di provenienza balzachiana» (p. 100) riconducibili tanto ai Martyrs ignorés quanto a Louis Lambert e a Séraphita.

  L’ultima grande testimonianza dell’appassionato interesse di Capuana per Balzac è presente nei capitoli dedicati allo studio del romanzo storico e del romanzo di costumi contenuti nella sezione Il Romanzo e la novella del secolo XIX (posteriore al settembre 1902) inserita nella monumentale opera Il Secolo XIX nella vita e nella cultura dei popoli edita da Vallardi. Evidenziando nella struttura e nelle forme del romanzo balzachiano la «meravigliosa simbiosi fra la psicologia dei personaggi e l’ambiente in cui essi vivono» (p. 106), Capuana, celebrando insieme a Balzac la grandezza di Flaubert, non interpreta la Comédie humaine come un «edificio elevato con piano prestabilito prima di gettarne le fondamenta», poiché «si scorgono qua e là evidentissimi i segni delle saldature di novelle e racconti che la intenzione dell’autore avrebbe voluto far apparire fuse e senza sbavature di sorta alcuna» (citaz. p. 107).

 

 

  Pietro Citati, Balzac. Il misterioso genio che a lungo inseguì il danaro e il successo, «la Repubblica», Roma, 14 gennaio 2001, pp. 34-35; ill.

 

  Negli anni Trenta del secolo scorso, l’Impasse du Doyenné, una stradina vicina al Louvre, sembrava inventata dalla immaginazione sinistra di Balzac e di Dickens. Durante il giorno, alle finestre per strada non si vedeva nessuno. Le case erano nascoste dall’ombra scurissima che le alte Gallerie del Louvre gettavano fino a terra: la tenebra, il silenzio, l’aria glaciale, la profondità cavernosa del suolo le trasformazioni in cripte o in tombe viventi, abitate da rari fantasmi. Verso sera, chi si avventurava in cabriolet si domandava cosa vi accadesse durante la notte, quando arrivavano i ladri e le prostitute, e i vizi di Parigi, «avvolti dal mantello della tenebra», si scatenavano in tutta la loro furia. Nel 1835, al numero 3 dell’Impasse du Doyenné abitarono tre giovani romantici francesi: Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Arsène Houssaye; freschi, lieti, leggeri, qualche volta pieni di denaro, quando un'improvvisa eredità scendeva gioiosamente sul loro capo. La sera, davano cene, balli, feste in costume, vecchie commedie. Altri giovani romantici giungevano da ogni angolo di Parigi; e mentre si avvicinava il rosa e il verde del mattino, il rumore diventava così fragoroso e incessante, che nessuno, negli appartamenti vicini, riusciva a dormire. Théophile Gautier aveva ventiquattro anni. Quando parlava, lasciava trasparire una lieve ed infantile eco socratica: guardava con occhi pieni di una delicata rêverie da gatto; ed era accompagnato ogni istante da un vento da Mille e una notte. Sebbene fosse lieto, era una natura esiliata nel mondo reale, che avrebbe voluto possedere, già su questa terra, qualche paradiso rivelato. Non aveva passioni, perché le passioni, diceva Baudelaire, «scandalizzano i puri Desideri, le graziose Melanconie e le nobili Disperazioni che abitano nel regno sovrannaturale della poesia».

  Quell’anno, Théophile Gautier pubblicò un romanzo: Mademoiselle de Maupin. Balzac lo giudicò un «vero evento»: volle conoscere Gautier, e lo invitò nella sua nuova casa di rue de Batailles, al Trocadéro. Era un lungo viaggio. Sul muro del giardino stava scritto: LABSOLU, mercante di mattoni; Gautier, che conosceva quanto il caso influenzi l’arte dei titoli, immaginò che Balzac vi avesse trovato lo spunto per la sua Recherche de l’absolu. Aveva tre parole d’ordine – segretissime, che quasi nessuno conosceva – per penetrare nella casa, dove Balzac si nascondeva dai creditori sotto il nome di «vedova Durand». Al portiere, disse: «E’ arrivata la stagione delle prugne»: al domestico accorso al suono della campana: «Porto dei ricami dal Belgio», e finalmente, giunto all’'ultimo e più geloso dei segreti, rivelò all’ansioso valet de chambre che «Madame Bertrand era in buona salute».

  L’appartamento era ancora incompiuto. Quando Balzac lo accompagnò nella visita, Gautier scorse sulla parte nuda di una stanza una scritta a carbone: «boiserie di palissandro»; su un’altra: «Gobelin»; su una terza: «specchio di Murano»; e su una quarta «quadro di Raffaello». Il salotto realizzava il fastoso sogno orientale – rosso, bianco e oro – del padrone di casa. C’era un camino in marmo bianco e oro: un immenso divano turco in cachemire bianco: dalle pareti scendevano una stoffa rossa e una mussola di seta delle Indie; un lampadario d'argento dorato e un candelabro a sei braccia, ognuna delle quali con sei candele, gettavano una luce trionfale su molte fioriere elegantissime, piene di rose rosse e bianche.

 

***

 

  Erano le dieci di mattina. Balzac, che si era alzato a mezzanotte aveva appena finito di scrivere. Indossava il suo famoso saio di flanella bianca, legato alla cintura da un cordone; esso simboleggiava ai suoi occhi la vita claustrale a cui l’enorme mostro che lo possedeva – il romanzo – lo aveva costretto. Nemmeno una goccia di inchiostro ne macchiava il candore. Dal saio, usciva un collo d’atleta e di toro: rotondo come una colonna, bianco come la seta. Il viso rivelava i segni di una salute violenta e sanguigna. Gli occhi gettavano una luce ardentissima. Malgrado le veglie e i sonni grevi, pesanti e convulsi, il fondo era puro e azzurro, come quello di una ragazza; e incastonava «due diamanti, illuminati da ricchi riflessi d’oro».

  Balzac portò Gautier nello studio, dove gli mostrò le sue bozze – di cui era fierissimo. Dall’inizio, dalla metà o dalla fine di una frase, linee rette muovevano verso i margini, a destra, a sinistra, in alto, in basso, verso sempre nuovi incisi. Croci semplici, croci reincrociate come quelle di un blasone, lettere greche o francesi si mescolavano alle cancellature. Pezzi di carta, incollati o fissati con spille, decoravano i margini: pieni anch'essi di cancellature, perché ogni correzione veniva subito, a sua volta, corretta. Gautier provò una specie di terrore sacro. Lui scriveva con una penna lieve, sinuosa e brillante i suoi bellissimi feuilletons, i suoi romanzi piacevoli, e non correggeva quasi mai lo stile setoso.

  Quelle bozze così lavorate e stratificate assomigliavano a un libro cabalistico. Gli pareva che Balzac non possedesse il dono naturale della letteratura: quel dono che rendeva così lieti i suoi occhi da gatto. Balzac gli rivelò che qualche volta, per amore della impossibile perfezione, guastava tutto: figure secondarie balzavano in primo piano; e con un colpo di penna doveva abolire spietatamente il lavoro furibondo di quattro o cinque notti.

  Poi il trafelato valet de chambre servì il pranzo. Balzac fu di una allegria folle. Mentre parlava, giocava col coltello o la forchetta. Aveva delle mani bellissime, bianche, da prelato, con le dita piccole e grassocce e le unghie rosse e brillanti. Gautier le ammirò, e Balzac fu molto più lieto che se avesse elogiato l’ultimo dei suoi romanzi. Ogni bottiglia di vino aveva la sua storia, che Balzac raccontava con una verve che non lasciava respiro. Quel vino di Boreax aveva fatto tre volte il giro del mondo: quel Chateauneuf-du-pape era appartenuto a Talleyrand; quel rum usciva da una vecchissima botte, che l’Atlantico aveva trascinato per un secolo. Vennero le pere. Erano enormi, luminose e si scioglievano in bocca: secondo Balzac, gli facevano benissimo alla salute: e ridendo ne mangiò cinque o sei.

  La conversazione non si arrestò mai. Non era una vera conversazione. Balzac non era un causeur capace di sfiorare con leggerezza le cose, senza varcare la soglia del sorriso e dell’allusione. Aveva un’eloquenza irresistibile: Gautier non poteva rivolgergli obiezioni: Balzac lo annegava nelle parole; allora tacque per ascoltarlo, e la conversazione si trasformò in un fluviale soliloquio. Balzac parlò di tutto: un aneddoto mondano, una riflessione filosofica, un’osservazione di costume, una notazione letteraria, uno scherno contro Sainte-Beuve, la descrizione di un paesaggio. Intanto il volto si colorava, gli occhi diventavano luminosi, la voce cambiava inflessione. A volte, rideva fragorosamente. Era il riso di un Dio infantile, divertito dallo spettacolo bizzarro delle marionette umane, che capiva il diritto e il rovescio di ogni cosa: la polarità fondamentale dell’universo. Obbediva a una specie di ebbrezza interiore: dipingeva a tratti rapidissimi, con un grandioso talento buffonesco, le fantasmagorie e i personaggi mostruosi, che danzavano nella camera nera del suo cervello. Per un istante, Gautier ebbe paura di quel riso quasi sinistro. Poi riprese ad ascoltare la voce piena, bronzea, di un timbro ricco e potente, che a volte rivelava una strana dolcezza. All'improvviso Balzac disse: «Scriverò le Mille e una notte dell’Occidente». Il pranzo era finito.

  Qualche giorno dopo, Balzac andò all’Impasse du Doyenné a trovare Gautier e Nerval. Erano le undici di mattina. Sembrava sfinito dall’aria fresca, come un Vulcano che fugge dalla fucina. Cadde su un divano: mangiò pane, burro e sardine, cibo che adorava, poi si addormentò, pregando di svegliarlo dopo un’ora. Gautier immaginava la veglia dell’ultima notte, le battaglie con i personaggi, la lingua francese e le bozze; e lo lasciò dormire. Balzac si risvegliò al crepuscolo: il cielo era grigio. Balzò in piedi e coprì Gautier di ingiurie: gli urlò che era un traditore, un ladro e un assassino. Gli aveva fatto perdere diecimila franchi, perché da sveglio avrebbe avuto almeno l’idea di un romanzo: gli aveva fatto perdere un milione, perché doveva incontrare un editore, una duchessa, una principessa, una regina. Poi il furore di Balzac si calmò, e i bei colori da ragazza riapparvero sulle guance riposate.

 

***

 

  Quando quindici anni dopo Balzac morì, sfinito dalla propria forza, distrutto dal suo lavoro di onnipotente creatore, Gautier pensò a lungo a quel primo incontro e a quelli che l’avevano seguito. Nel 1858, pubblicò un bellissimo feuilleton su L’Artiste. Come Baudelaire, che scrisse nello stesso periodo su Balzac, pensava che era stato «una prodigiosa meteora», «un Oriente bizzarro ed eccezionale», «un’aurora polare che aveva inondato il deserto ghiacciato con le sue luci fiabesche». Amava moltissimo la Parigi della Comédie Humaine. «Non c’è stradina perduta, passage infetto, via fangosa e nera, che non diventi sotto la sua penna un’acquaforte degna di Rembrandt, piena di tenebre formicolanti e misteriose dove scintilla una tremolante stella di luce». Adorava la sua arte del particolare: «Balzac accentua, ingrandisce, ispessisce, sfronda, aggiunge, ombreggia, illumina, allontana o avvicina gli uomini e le cose, secondo l’effetto che vuole produrre. Depone fondi cupi e sfregati di bitume dietro le figure luminose, mette fondi bianchi dietro le figure brune. Come Rembrandt, appunta un lustrino di luce sulla fronte o il naso del personaggio. Qualche volta, nelle descrizioni ottiene dei risultati fantastici e bizzarri, mettendo, senza dir nulla, un microscopio sotto l’occhio del lettore. Allora i particolari appaiono con una nettezza sovrannaturale, una minuzia esagerata, degli ingrandimenti incomprensibili e formidabili: i tessuti, gli squami, i pori, le villosità, i grani, le fibre, i capillari, prendono un’importanza enorme, e fanno di un viso insignificante una specie di maschera chimerica».

  Gautier sapeva di non possedere il genio di Balzac: nemmeno una piccola parte del suo genio; e leggeva e frugava i libri della Comédie Humaine che raccontavano la sua giovinezza, per comprendere come quella «prodigiosa cometa» si fosse formata. Lesse La pelle di Zigrino, Louis Lambert, Facino Cane. Nell’agosto 1819, a vent’anni, Balzac aveva abitato a rue Lesdiguières, in una mansarda. Seduto vicino alla finestra, lasciava scivolare gli occhi su un paesaggio di tetti bruni, grigiastri, russi, d’ardesia, di tegole, coperti da muschi gialli e verdi: le «savane di Parigi». Talvolta, la sera, dei raggi luminosi, che sfuggivano dalle imposte mal chiuse, sfumavano e animavano le nere profondità di questo paese. Le luci pallide dei lampioni gettavano dal basso riflessi giallastri e attraverso la nebbia, proiettando sulle strade le deboli ondulazioni dei tetti accostati, oceano di flutti immobili.

  Tre soldi di pane, due soldi di latte, tre soldi di salame gli impedivano di morire e tenevano il suo spirito in una condizione di lucidità estrema. L’affitto costava tre soldi al mese: bruciava ogni notte tre soldi d’olio, puliva da solo la mansarda, portava camicie di flanella per spendere poco in lavanderia, indossava il vestito soltanto per andare in biblioteca. Spesso raggiungeva il cimitero del Père-Lachaise, e dall’alto della collina, come Rastignac, guardava e dominava Parigi. Stava alzato di notte, tra i gelidi soffi del vento che entravano dal soffitto e dalla porta, coperto da un pastrano, avvolto in uno scialle, con in testa un berretto di merino rosso fasciato di ovatta. Ogni innocente attimo di distrazione gli sembrava rubato al lavoro, perché una grande idea sconosciuta lo occupava. Si svegliava al buio, ferocemente allegro e orgoglioso di essere solo al mondo, ma appena seduto al tavolino, davanti alla pagina bianca, non sapeva cosa fare di sé. Scriveva una tragedia in alessandrini su Cromwell. Giunto alla scena madre, una scena che immaginava tenera e sublime tra il Re e la Regina d’Inghilterra, non riusciva a far parlare i suoi personaggi.

  Spesso, la sera, malvestito come un operaio, si mescolava ai loro gruppi. Afferrava così precisamente i particolari fisici di ogni persona, che andava subito oltre. Vivere la vita di ogni individuo, sostituendosi a lui, «come il derviscio delle Mille e una notte prendeva il corpo e l’anima delle persone sulle quali pronunciava le sue parole magiche». Tra le undici e mezzanotte, incontrava un operaio che tornava con la moglie e il figlio dall’Ambigu-Comique e li seguiva fino a boulevard Beaumarchais. Prima parlavano della commedia che avevano visto; la madre tirava il bambino per mano senza ascoltare né i suoi lamenti né le sue domande; marito e moglie contavano il danaro che avrebbero ricevuto l’indomani e lo spendevano in mille modi diversi; lamentavano il prezzo eccessivo delle patate, la lunghezza dell’inverno, i debiti col panettiere. «Ascoltandoli — scriveva Balzac — sposavo le loro vite, mi sentivo i loro stracci sulla schiena, mettevo i piedi nelle loro scarpe sdruscite; i desideri, i bisogni, tutto passava nella mia anima, e la mia anima passava nella loro ... Lasciare le mie abitudini, diventare un altro attraverso l’ebbrezza delle facoltà mentali, giocare a volontà questo giuoco; tale era la mia distrazione. A che devo questo dono? Una seconda vista? L’abuso di una simile qualità potrebbe portarmi alla follia? Non ho mai ricercato le cause di questa potenza; la possiedo, e me ne servo, ecco tutto».

  Quante volte Gautier rilesse le pagine meravigliose di Facino Cane. Gli sembrava che spiegassero il mistero del genio di Balzac, che aveva così a lungo inseguito. Come Visnù, Balzac possedeva il dono di avatara: cioè poteva incarnarsi in corpi differenti e viverci quanto voleva; soltanto che il numero degli avatara di Visnù era dieci, mentre quelli di Balzac non si potevano contare. Sebbene vivesse nel diciannovesimo secolo, Balzac era un veggente: un «visionario appassionato». Questo spiegava la differenza tra loro. Lui non era un veggente né un visionario: era soltanto, come diceva il suo amico Baudelaire, «UN PERFETTO UOMO DI LETTERE».

 

  I Pensieri del giovane Théophile, Ibid.

 

  Non esistono edizioni moderne dei bellissimi feuilletons letterari ed artistici di Théophile Gautier. Le Castor Astral ha pubblicato mesi fa, nella collana Les inattendus, l’edizione del feuilleton su Balzac, a cura di Jean-Luc Steinmetz (pagg. 136, 78 franchi). In Italia, è appena uscita la traduzione delle Prefazioni e degli Scritti teorici di Balzac, sotto il titolo Poetica del romanzo, con una bella introduzione di Mariolina Bongiovanni Bertini (Sansoni, traduzione di Daniela Schenardi, pagg. LXX436, lire 86.000).

 

 

  Ivan Coppola, Le scienze occulte nell’opera di Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: prof. Anne-Marie Olivier, Università degli studi di Cassino, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, anno accademico 2000-2001, discussa il 26 marzo 2001.

 

 

  Antonio Debenedetti, Sarrasine tra l’angelo e il demonio, «Corriere della Sera», Milano, 12 maggio 2001, p. 54.

 

  Ci sono i monumenti millenari e le porpore cardinalizie. C’è via del Corso e ci sono i vicoli bui del centro storico. Ma è davvero Roma la città dove giunge, nell’inverno 1758, lo Sarrasine, protagonista di uno dei più bei racconti moderni sull’angelo dell’illusione e il demone della disillusione? Inutile chiederselo. Tanto più che Balzac presentava questa sua novella come la polemica risposta francese a Hoffmann, a quanto dello scrittore tedesco aveva fatto Walter Scott attribuendogli l’invenzione di un nuovo genere fantastico. Sarrasine, giovane e promettente scultore, trascorre i primi quindi giorni nella città dei papi ammirando statue, affreschi e quadri. Fin quando, guidato dal destino e dalla giovinezza, va a teatro (Balzac nomina esplicitamente l’Argentina) e durante lo spettacolo si innamora della prima donna, la corteggiatissima Zambinella. Né sospetta che, sotto le seducenti parvenze femminili, si nasconde in realtà un uomo, un protetto del cardinale Cicognara. Con Balzac il reale e l’imprevedibile, che scorre nelle vene del reale, non subiscono astratte mutilazioni. La vita per venir narrata non ha bisogno di scendere a patti con le semplificazioni del razionale: la forza del raccontare travolge ogni ostacolo formale, strutturale e psicologico. L’esistenza, le sue contraddizioni e i suoi portenti divengono una miniera cui lo scrittore attinge con un estro affabulatorio senza rivali. Tutto può accadere e tutto davvero accade. Tre colpi leggeri, battuti a una porta, bastano così a Balzac.

  I brividi dell’erotismo si confondono, a tutto vantaggio della leggibilità, con quelli del genere nero.

  Dopo essere stato invitato a avvolgersi in un ampio mantello, nascondendo per maggior sicurezza gli occhi sotto l’ala d’un cappellaccio da bucaniere, il fremente Sarrasine verrà condotto a cospetto della Zambinella. Con quale esito? L’intento di Balzac, stupendamente realizzato, è quello di costruire una contro favola libertina dove la trasgressività e la morte trionfino sul genere a lieto fine. “Tu mi hai spopolato la vita di tutte le donne” griderà Sarrasine morendo, dopo aver scoperto che la Zambinella è in realtà un “evirato cantore”.

 

 

  Andrea Del Lungo, Fenêtres à l’envers (perversions effractions pénétrations), in Collectif, Envers balzaciens, textes réunis par Andrea Del Lungo et Alexandre Peraud, «La Licorne», Poitiers, n. 56, 1er trimestre 2001, pp. 87-102.

 

  Questo studio è stato presentato del Convegno sul tema: Envers balzaciens. Journées d’étude des jeunes chercheurs balzaciens (Bordeaux dal 26 al 27 novembre 1999).

  Per il suo valore connotativo e per il suo ruolo di spazio liminare, l’immagine della finestra riveste in Balzac una funzione specifica nel duplice movimento di passaggio tra il dedans e il dehors e di «lieu par excellence du contact amoureux, de l’éclosion du désir, de la construction du fantasme».

  Da questo punto di vista, la rappresentazione della “femme à la fenêtre”, così diffusamente presente nell’immaginario letterario balzachiano, induce Del Lungo a riconsiderare i valori simbolici (e ideologici) delle fenêtres in alcuni testi della Comédie humaine, mostrando le forme e le funzioni della loro perversa opacità che in molte occasioni «revèlent plutôt de l’ordre de la dissimulation, de l’obstacle, voire de la séparation». Le considerazioni formulate dall’A. in merito al carattere fortemente trasgressivo assunto da questo topos letterario in tre testi: La Maison du chat-qui-pelote, Une double famille, La Peau de chagrin, consentono di svelare la suggestiva rete di rapporti che legano tra loro le opere esaminate. Nell’eccitare la curiosità e il voyeurisme dello spettatore, la finestra apre verso l’interno uno spazio minaccioso in cui lo slancio e le tensioni della passione si esauriscono progressivamente nella negazione di ogni possibile contatto con l’oggetto del desiderio, con la creatura femminile che, trasformatosi in opera d'arte, può soltanto riflettersi nello specchio rovesciato di una fatale perversione e dare accesso al solo envers della realtà che si rivela come la terribile rappresentazione di uno spazio intangibile.

 

 

  Mariella Di Maio, I due sogni di Balzac, in AA.VV., Dire il politico. Dire le politique. Il ‘discorso’, la scrittura e le rappresentazioni della politica, a cura di Bruna Consarelli, Padova, CEDAM, 2001, pp. 107-120.

 

  L’A. offre in questo studio una interessante lettura ai Sur Catherine de Médicis (romanzo composto di tre racconti: Le Martyr calviniste, La Confidence de Ruggieri e Les deux rêves), un’opera tenuta ingiustamente in ombra dalla critica (anche più recente) in cui si riflette il vivo interesse di Balzac per la civiltà del secondo Cinquecento francese alla luce del suo non ancora pienamente maturato italianismo che si perfezionerà soprattutto all’indomani dei suoi viaggi in Italia a partire dal 1836.

  È senza alcun dubbio la figura di Caterina de’ Medici ad attrarre in maniera preminente il romanziere: essa diviene infatti un modello sempre più centrale della sua riflessione politica e sociale tra il 1830 e il 1842. Se in Catherine de Médicis, scrive l’A., Balzac fornisce una «lunga argomentazione sull’assolutismo monarchico e sulla necessità dell’assolutismo, come unica garanzia dell’unità e della sovranità della nazione» (p. 108), questa figura serve parallelamente allo scrittore per introdurre argomentazioni la cui modernità risiede proprio nell'attenzione posta sulla tematica rivoluzionaria vista come ineluttabile lacerazione da un passato che era, nel bene e nel male, garanzia di unità nazionale. Grazie al mito retrospettivo di Caterina e di Robespierre, Balzac presenta dunque uno «studio sincronico del periodo della Riforma, di quello della Rivoluzione e delle conseguenze sulla realtà attuale» avvalendosi della mediazione straordinaria del sogno che «interviene per rendere comprensibile il presente, che altrimenti non lo sarebbe» (p. 119).

 

 

  Raffaele Donnarumma, Satira e romanzo. “Un fulmine sul 220” di Gadda, «Allegoria», Milano, XIII, n° 17, 1, 2001, pp. 133-138.

 

  Le pagine famose della Meditazione milanese sulla realtà come «grumi di relazioni, gomitoli o grovigli di relazioni logiche» erano già state scritte: eppure, se spiegano il garbuglio e il non-finito del Pasticciaccio, spiegano meno bene l’abbandono del Fulmine in quanto romanzo. Qui, infatti, i singoli nuclei di realtà si propongono come irrelati; o, più precisamente, come legati solo in modo estrinseco e meccanico. Il gioco delle parentele e delle conoscenze incrociate dovrebbe consentire di tenere insieme le storie dei diversi personaggi, entro i confini di una Milano trasformata in tribù endogamica. È il principio già balzacchiano o generalmente ottocentesco della metropoli come luogo naturale del romanzesco e, insieme, garanzia dell’unità dei diversi destini. Questo principio presuppone una metafisica: quella di una realtà in sé romanzesca, cioè in sé degna dell’attenzione che ci chiede un’opera d’arte, e in sé strutturata come racconto. Gadda, con tutta la sua ammirazione per i romanzieri classici, ha perduto però la loro metafisica. La realtà gli si scompone sotto gli occhi; e il suo crollo porta con sé il crollo del romanzo classico. Così, a proposito dei legami fra personaggi, leggiamo nella prima stesura della seconda redazione del capitolo iniziale (e già questo fa capire la complessità del modo di lavorare di Gadda) [...].

  A salvarsi dall’aggressione della satira è, insieme ad Elsa, proprio Adalgisa. Ma è una salvezza parziale e risibile. Il valore della sua vitalità si perde fra i disvalori di una Milano stolta e insopportabile. Perciò, neppure con il suo graduale affermarsi nel procedere della stesura Adalgisa diventa un protagonista-catalizzatore, intorno al quale fatti e persone si raccolgano e sotto il quale si subordino. Al contrario, esso è un centro di irraggiamento, un punto di fuga da cui si dipartono episodi o inserti che se ne allontanano progressivamente, allentando i loro legami di origine: basti leggere il divertentissimo ritratto del defunto marito, con le sue falotiche imprese entomologiche in Versilia. Il personaggio, dunque, non ó più un centro stabile di organizzazione della materia, ma lo spunto della sua deriva; oppure, semplicemente, non è un centro e non riesce a egemonizzare i rapporti della trama. A partire dal vecchio Goriot, dagli ospiti della sua pensione e dalle sue figlie, Balzac concatena le tappe dell’iniziazione di Rastignac al mondo; con Adalgisa, Gadda va da troppe parti per arrivare da una parte qualunque. E mentre Balzac sottopone a verifica i valori del giovane studente di legge (l’amore, la pietà, la volontà di affermarsi), Gadda si blocca prima. La decostruzione del romanzo si spiega così con l’assenza di una dialettica interna fra valori e disvalori, a cui Gadda satirico non crede; e con l’impossibilità di coordinare frammenti di vita nudi di ideali e che perciò si esibiscono nei loro rapporti puramente meccanici. L’orizzonte non è più quello del senso che il romanziere realistico, sia pure in modo drammatico e contrastato, ricreava; ma un orizzonte di non-senso la cui vista, a furia di irrisioni, non può essere sostenuta sino in fondo.

 

 

  Lucette Finas. La Certosa letta da Balzac, trad. dal francese di Mariolina Bertini, «L’Indice dei libri del mese», Torino, Anno XVII, N. 1, Gennaio 2001, pp. 12-13.

 

  Honoré de Balzac, Su Stendhal, seguito dalle Lettere di risposta di Stendhal, a cura di Francesco Fiorentino e Maria Grazia Porcelli, pp. 130, Lit. 20.000, Lisi, Taranto 2000.

 

  Ecco, nella sua completezza, un libro di cui si avvertiva l’esigenza. Al centro, con il titolo al plurale Studi su Beyle, plurale ripreso dal francese, campeggia il lungo articolo che Balzac dedicò alla Certosa di Parma nel terzo e ultimo numero della “Revue parisienne”, il 25 settembre 1840. Questo testo, accuratamente annotato, è preceduto da un’introduzione di Francesco Fiorentino, acuta analisi dell’analisi balzachiana, e seguito dai tre abbozzi che ci restano della lettera di ringraziamento di Stendhal di cui non s’è mai ritrovato l’originale.

  Non riprenderò qui gli aspetti più noti del saggio balzachiano – l’abbondanza degli elogi, il dovere di giustizia che Balzac si impone anche nell’entusiasmo, la sua attenzione al carattere essenzialmente politico, anzi, machiavellico, della Certosa, gli ampliamenti e i tagli ch’egli suggerisce a Stendhal in nome dell’unità di composizione, ma mi limiterò ad affrontare l’appassionante puntualizzazione proposta da Francesco Fiorentino nella sua introduzione.

  Fiorentino individua nel comportamento critico di Balzac “una contraddizione che contribuisce non poco alla sua grandezza di critico letterario. Nell’esercizio anche feroce della critica, egli non smette nemmeno per un momento di essere romanziere”. Nonostante la sua passione per l’esattezza, preferisce al particolare propriamente storico quello romanzesco, più significativo ai suoi occhi: “Sembra continuamente sovrapporre le leggi della verosimiglianza del romanzo storico a quelle del ‘vero’ della ricostruzione storiografica”. Al declino di Walter Scott – la cui influenza, fortissima in Francia negli anni venti dell’Ottocento, si attenua all’inizio degli anni trenta – sopravvive, intatta, l’ammirazione di Balzac che non rinnegherà mai l’eredità del romanziere scozzese: “La sua ambizione sarà quella di riuscire, grazie a sostanziali innovazioni, a essere all’altezza del grande modello”. Si potrebbe suggerire, senza esagerare troppo, che Balzac legge i romanzi del suo tempo attraverso il modello scottiano: “Quale che sia il numero degli accessori e la molteplicità dei personaggi, scrive nelle sue Lettres sur la littérature, il romanziere moderno deve raggrupparli, come fa Walter Scott, l’Omero del genere, in base alla loro importanza, subordinarli al sole del suo sistema, che si tratti di un interesse o di un protagonista, e guidarli, come una brillante costellazione, in un ordine preciso”. È proprio in nome di queste regole che Balzac proporrà a Stendhal di correggere l’inizio e la fine della Certosa. Dopo aver analizzato le ragioni estetiche, ideologiche, politiche e private che dettano a Balzac il suo saggio, Fiorentino ricorda che sono le sue riserve sullo stile di Stendhal che hanno fatto mettere l’accento (un po’ ingiustamente, oserei dire) sui limiti della sua comprensione della Certosa. E conclude: “Evidentemente proprio lì risiede la differenza irriducibile: non quella che divide uno scrittore dal suo critico, ma quella che oppone uno scrittore a un altro scrittore”.

  I tre abbozzi che possediamo della lettera perduta presentano, con alcune varianti che non ci è possibile esaminare qui, un certo numero di punti su cui l’autore insiste particolarmente. Per tre volte, ad esempio, con finta e gioiosa umiltà, Stendhal deplora la sua solitudine letteraria e dice di essere “un orfanello abbandonato sulla strada”. Sostiene che, appena ricevuta la rivista, ha “ridotto di 4 o 5 pagine le prime 54 pagine della Certosa”. Insieme o isolatamente, gli abbozzi affermano la rapidità dell’esecuzione (il romanzo dettato in sessanta-settanta giorni), proclamano l’amore per Ariosto, Fénelon, Montesquieu e ... Gouvion St Cyr, o per la “divina Principessa di Clèves”, il desiderio di raccontare: 1° con un’idea, 2° con chiarezza quello che avviene in un cuore. E ancora, Stendhal dice il suo disprezzo e il suo odio per La Harpe, le sue reticenze davanti allo stile di Chateaubriand che gli pare ben riassunto dall’espressione “la cima indeterminata delle foreste”. Confessa la sua ripugnanza a ritoccare quel che ha scritto (“il ritocco è il mio orrore”), riconosce che moltissime pagine sono state stampate tali e quali, così come le aveva dettate, confessa il suo amore eccessivo per la logica, e la quotidiana lettura del Codice civile “per trovare un tono”. Considera necessari l’abate Blanès e altri personaggi “che non servono a niente ma che toccano l’anima del lettore ed eliminano l’aria romanzesca”. Non ha paura di dichiarare che i versi di Racine, di Voltaire ecc. “occupano il posto che era legittimamente dovuto a piccoli fatti autentici”. Avrà lasciato, nella lettera spedita a Balzac, la frase sulla prosa di Walter Scott “inelegante e soprattutto pretenziosa”? Correggerà lo stile della Certosa, almeno afferma di volerlo fare, ma sarà per far piacere a Balzac, non per autentica persuasione. “Lo stupefacente articolo, che nessuno scrittore ha mai ricevuto da un altro scrittore”, non avrà scosso le convinzioni di colui che vede “la futura storia delle lettere francesi nella storia della pittura” e profetizza con certezza che sarà letto nel 1880.

 

 

  Francesco Fiorentino, «La Duchesse de Langeais» et la critique de la passion romantique, in Collectif, Balzac et le Romantisme, «L’Année balzacienne», 2000, Troisième série, 1, Paris, Presses Universitaires de France, 2001, pp. 223-229.

 

  L’A. riflette sulla dialettica dello scontro tra le strategie amorose di Montriveau e quelle della duchessa. In entrambe, è possibile rilevare sia una «métonymie du désir» sia «une metaphore de la guerre» (p. 228) attraverso cui la passione assume nuovi significati: «cette passion, scrive l’A. nelle sue osservazioni conclusive, est un attentat à l’unite du corps, à l’unité de la personne, donc à son identité. La négation de l’identité est la condition d’une régression à cet état présémiologique prévu par la passion romantique» (Ibid.).

 

 

 Paola Fraschini, Balzac melodrammatico. Il limite dell'espressività, «Materiali di estetica», Milano, Cuem, 4, 2001, pp. 271-279.

 

  In questo saggio, di Paola Fraschini riflette sul concetto di rappresentazione in Balzac: nel contesto apparentemente realistico di una trasposizione letteraria della realtà attenta ad ogni minimo particolare del quotidiano, lo scrittore sonda e porta alla luce il sostrato invisibile dei significati e dei valori profondi che informano le manifestazioni sensibili proprie dell’esteriorità e delle apparenze. Balzac, osserva l’A., «parte dal presupposto che il mondo dello spirito e quello della rappresentazione non coincidono; da qui il tentativo di rendere il reale, ciò che viene rappresentato, denso di richiami. Questo tentativo appartiene a un’estetica che aspira all'espressionismo, si fonda sull’accentuazione e sull’iperbole» (pp. 275-276) rese manifeste attraverso l’energia e l’eccesso di una scrittura che riflette l’immaginazione melodrammatica del romanziere.

 

 

  Angelo Z. Gatti, Balzac dissolve l’ideologia di Mao e seduce la piccola sarta cinese, «La Stampa-ttL tuttoLibri», Torino, Anno XXV, N. 1253, 31 marzo 2001, p. 3.

 

  [...]. Essi scoprono l’individualismo: Balzac parla loro dell’insorgere del desiderio, della passione, dell’amore. Amano entrambi la Piccola Sarta, ma sarà Luo a possederla e con i libri trovati intende istruirla. Le visite alla casa di lei per leggerle Balzac sono «pellegrini della bellezza» e l’angolo appartato dove i due innamorati fanno i bagni nel torrente è «la caletta della felicità»: lei si tuffa dall’alto di un masso volando «come una rondine». La favola termina con un finale a sorpresa e a due uscite: una riguarda la Piccola Sarta ormai emancipata, l’altra è relativa ai libri. E la frase che chiude il libro, ricavata da Balzac, spazza via ideologie, rieducazioni e propaganda.

 

 

  Bruna Ingrao, Economic life in Nineteenth Century novels. What economists might learn from literature, in G. Erreygers (ed.), Economics and Multidisciplinary Exchange, London, Rouledge, 2001, pp. 7-40.

 

 

  Steven Johnson, Complessità urbana e intreccio romanzesco, in AA.VV., Il romanzo. A cura di Franco Moretti. Volume primo. La cultura del romanzo, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001, pp. 727-745.

 

  pp. 737-738. Non vi è dubbio che lo sguardo pubblico della città si sia fatto strada nel romanzo francese prima di Flaubert. Nelle Illusioni perdute Balzac ambienta una scena all’opera, dove il suo ambizioso eroe si mette in mostra davanti a un’eterogenea schiera di personaggi del romanzo: valutandoli, e venendo da loro valutato, come altrettanti oggetti di un’asta (in seguito Flaubert avrebbe preso alla lettera questa metafora in una famosa scena dell’Educazione sentimentale). È un ruolo adatto alla vita pubblica in un universo narrativo governato dalla doxa, dalle vicissitudini del bel mondo. Si compare in pubblico per farsi un nome, per mettersi in posa. Come scrive Franco Moretti a proposito di Illusioni perdute, «A dare un senso a quel che accade non è più la chiusa interiorità dell’eroe, ma appunto la “società”: che lo scruta, ne parla, prende atto della sua mutata fortuna». [...].

  I personaggi di Balzac scendono in strada quando vogliono far colpo. Per loro la strada è lo spazio pubblico della teatralità, palcoscenico di mosse e contromosse. E i momenti svolta – persino quelli che comportano lo smascheramento in pubblico – restano ancorati agli interni anche più di quanto non accada in Dickens. I personaggi della Cugina Bette vagano senza meta per la città, tuttavia quasi tutte le scene cruciali si svolgono in sala da pranzo o in salotto. Nei momenti davvero importanti, le narrazioni diventano agorafobiche.

  Nella città autorganizzantesi non basta che vi sia gente per strada: bisogna anche che le azioni siano governate dal caso. Non si può parlare di autorganizzazione se l’interazione è stata orchestrata in precedenza. Di solito si parla di caso a proposito degli intrecci della Commedia umana, ma ancora una volta la polisemia della parola può ingannare. Il «caso» di Balzac è quello della ruota della roulette. La città si stende davanti ai protagonisti come un tavolo da gioco al casinò: si sa che di solito il banco vince, si desidera ugualmente correre il rischio. Quello di Balzac è ben più di un discorso figurato: nella Commedia umana il gioco d’azzardo è quasi un’epidemia e la speculazione di borsa dilaga (nella Cugina Bette, l’amante di Hulot, Valérie, trasforma la propria rendita in una piccola fortuna giocando in borsa – una scena che si adatterebbe benissimo alle pubblicità di oggi sugli investimenti nel mercato azionario). Il «caso» dell’autorganizzazione [...]. Il caso genera ordine a un livello superiore.

 

 

  Mario Lavagetto, In una città dai mille romanzi, in Dovuto a Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 2001 («Temi»,108), pp. 134-148.

 

  La produzione narrativa balzachiana, quale rappresentazione di una nuova civiltà urbana in perpetuo movimento, riveste un’importanza fondamentale nella formazione estetico-letteraria dello scrittore italiano. Mario Lavagetto ci conduce alla ricerca e alla scoperta delle «tracce di letture balzachiane lungo l’intero arco della riflessione critica e teorica di Calvino» (p. 137), il cui interesse per le forme narrative del romanziere francese assunse una particolare rilevanza a partire dagli anni 1958-59. Dallo studio sui paradigmi metaforici legati alla rappresentazione antropomorfica di Parigi presente nel saggio su Ferragus (1973) sino alle riflessioni sui meccanismi della costruzione del racconto Les Petits bourgeois (1981) e nel Chef d’oeuvre inconnu (1988), Calvino ci ha insegnato a vedere, nel corpo della Comédie humaine, una sorta di «gigantesco, debordante dispositivo di dilatazione» (p. 144), in cui «il mondo interiore del Balzac fantastico» include «il mondo interiore del Balzac realista, perché una delle infinite fantasie del primo coincide coll’infinito realistico della Commedia umana» (da Visibilità, in Lezioni americane, citato a p. 148).

 

 

  Paola Leoncini, Honoré de Balzac: “Le centenaire, ou les deux Béringheld”. Tesi di laurea. Relatore: Prof.ssa Alessandra Temperani, Università degli studi di Firenze, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, 2001.

 

 

  Giovanni Macchia, Il pubblico come protagonista: Balzac e la mitologia del romanzo, in I fantasmi dell'opera. Idee e forme del mito romantico, Torino, Bollati Boringhieri, 2001 («Saggi»), pp. 101-127.

 

  I legami tra Balzac e il pubblico furono sempre molto stretti e continuamente alimentati dalla originalità e dalla intensità della scrittura romanzesca. Delle esperienze iniziali delle Oeuvres de jeunesse, in cui egli ambiva a crearsi l’aura di scrittore popolare puntando in maniera quasi esclusiva sulla propria abilità descrittiva, «resterà fedelmente, in Balzac, il piacere nascosto di esplorare [...] essenze e forze demoniache, irrazionali e misteriose» (p. 109) attraverso, appunto, le vicende romanzesche.

  Balzac afferma dunque il proprio Romanticismo nell’amore dello straordinario che fa «fermentare una visione ravvicinata della realtà» (p. 113): si tratta, in altri termini, di conquistare in reale grazie al romanzo, nella consapevolezza del fatto che reale e romanzesco sono la stessa cosa. Il fascino dell’opera balzachiana risiede quindi nella sua illimitata modernità: «addentrarci, sostare, sperderci nel gran labirinto della Comédie humaine non è esercizio che ancor oggi possa deludere o condurre ad operazioni sbagliate» (p. 126). Il rifiuto del romanzo-capolavoro “manzoniano” e il ritorno dei personaggi sono, a giudizio di Macchia, i principi fondamentali che sostengono e che alimentano la concezione e il ritmo del romanzo di Balzac e che determinano, all’interno di un universo narrativo dove ogni frammento è parte di un tutto in perenne movimento, l’affermarsi in una letteratura dell’estensione e della profondità.

 

  Cfr. 1967.

 

 

  Paolo Mauri, Quelle cose viste da Hugo cronista del dolore, «la Repubblica», Roma, 10 settembre 2001.

 

  Il pathos maggiore, tuttavia, Hugo lo raggiunge nella pagina giustamente celebre che racconta la fine di Balzac. «Il 18 agosto 1850, mia moglie, che era stata in giornata a visitare la signora Balzac, mi disse che Balzac stava per morire. Accorsi immediatamente». Balzac era da tempo malato di cuore e la malattia era presto degenerata. Le ultime ore sono drammatiche: i medici lo hanno ormai abbandonato, la cancrena avanza, il fetore è insopportabile. L’occhio di Hugo rivede gli arredi della stanza, i quadri magnifici di Porbus e di Holbein, la mente rievoca l’ultimo allegro incontro. Balzac morì durante quella notte a soli cinquantun anni. Al funerale il ministro degli Interni Baroche disse a Hugo: «Era un uomo notevole». E lui: «Era un genio».

 

 

  Franco Moretti, Il secolo serio, in AA.VV., Il romanzo ... pp. 689-725.

 

  p. 703. Balzac, seconda parte delle Illusioni perdute (1839): Lucien de Rubempré sta scrivendo (finalmente!) il suo primo articolo, che costituirà una vera e propria «rivoluzione nel giornalismo». È la chance che egli attende dal giorno che è arrivato a Parigi. Ma nelle pieghe di questo episodio se ne annida poi un altro: il giornale è a corto di articoli, servono dei pezzi, subito, non importa su cosa, basta riempire gli spazi bianchi; e un amico di Lucien, introdotto da una virgola senza pretese, si mette anche lui a scrivere. È quasi l’idea platonica del riempitivo romanzesco: un brano che riempia un po’ di spazio, nient’altro. E invece, il pezzo tappabuchi colpisce un gruppo di persone che poi, dopo mille giravolte, suggellano la rovina di Lucien.

  È il mondo di Balzac. Come nel butterfly-effect di cui parla la teoria del caos, l’evento iniziale può ben essere insignificante, ma il sistema entro cui si verifica – l’universale sovradeterminazione della grande città – è così ricco di variabili da ingigantirne gli effetti oltre ogni aspettativa. Tra l’inizio la fine di ogni azione c’è sempre qualcosa che si mette in mezzo, un vettore narrativo imprevisto, una «terza persona» che persegue i suoi fini particolari, e finisce col deviare il corso delle cose verso una direzione inaspettata: e così, anche gli episodi più ordinari ed innocui diventano capitoli un romanzo (ma questo, in Balzac, non è sempre piacevole ...).

 

  pp. 715-717. Il legame tra esseri umani e cose concepito come una necessità: Madame Vauquer, dove «non è nemmeno accennata una separazione tra il vestiario e il corpo, e non sono posti confini tra la nota fisica e il significato morale. Ora, questa inseparabilità di persona e cosa è anche tipica di quella grande ideologia politica del primo Ottocento che fu il pensiero conservatore. In Adam Muller, scrive Mannheim, le cose sono «prolungamenti delle membra del corpo [...] fusione di persona e cose» (e sembra di leggere Auerbach su Papà Goriot) [...].

  Nel fondersi con il «paesaggio, casa, mobili, suppellettili» i personaggi della Comédie Humaine restano come intrappolati nei decenni (se non nei secoli) trascorsi: non per nulla, le più grandi descrizioni di Balzac riguardano di norma persone anziane, la cui vita non è più suscettibile di cambiamento. Balzac «concepisce il presente come storia, come il risultato della storia», scrive sempre Auerbach: «i suoi personaggi e le sue atmosfere, per quanto attuali siano, sono sempre presentati come fenomeni scaturiti da avvenimenti e da forze storiche». [...].

  Non che Balzac sia tutto qui, naturalmente, c’è anche l’altro, la narrazione inarrestabile che ricorda la hegeliana «furia dei dileguare», o la pagina del Manifesto sull’«incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni della società borghese». Ma accanto al Balzac di Marx c’è quello di Auerbach, e questa mescolanza di narrazione borghese e descrizione conservatrice ci fa capire una verità importante sul romanzo del secolo (e forse sulla letteratura in generale): esso dà il meglio di sé nel forgiare un compromesso tra sistemi ideologici diversi.

 

 

  Valeria Nieddu, “La femme abandonnée” de Honoré de Balzac. Tesi di laurea. Relatore: Prof.ssa Margherita Botto. Università degli studi di Bergamo, Facoltà di Lingue e letterature straniere, Istituto di Lingue e letterature romanze, anno accademico 2000-2001.

 

 

  Alberto Ottaviano, Il colonnello rifiutato di Balzac, «Giornale di Brescia», Brescia, 28 luglio 2001, p. 30.

 

  Due tranches de vie nella Francia post-rivoluzionaria. Li traccia Honoré de Balzac con Il colonnello Chabert e Un episodio durante il Terrore, racconti lunghi inseriti nel grande affresco sociale costituito dalla sua Comédie humaine. Il primo appartiene alla sezione delle «Scene della vita privata» della raccolta dei romanzi di Balzac, il secondo alle «Scene della vita politica». I due racconti sono ora pubblicati insieme nella collana tascabile dei «Grandi Libri» Garzanti, con un’ampia e approfondita introduzione di Lanfranco Binni che traccia un profilo storico-critico di Balzac e della sua opera (traduzione di Roberto Rossi 10.500 lire). Il colonnello Chabert, apparso la prima volta nel 1832 con altro titolo, trova la sua versione definitiva nel 1844. Racconta la vicenda di un eroico ufficiale dell’Impero napoleonico che. dato per morto in battaglia ma miracolosamente scampato torna dopo molti anni per riprendere il suo posto. Ma le cose sono cambiate: l’Impero non c’è più e nessuno vuole credere alla sua identità; tanto meno la moglie che ereditate le sue sostanze, si è risposata con un conte della Restaurazione. Inutili anche i tentativi di giungere a una transazione finanziaria con la consorte. Il colonnello rifiutato decide allora di «morire» un’altra volta e si ritira accettando una vita da vagabondo senza nome. I conflitti di interesse e l’egoismo spietato sono i veri protagonisti del racconto, come annota Binni, «la loro forza è invincibile e condanna alla sconfitta chiunque agisca sulla base di valori diversi». L’atmosfera pirandelliana del racconto ha giovato al suo successo anche presso i lettori contemporanei. La novella è stata portata due volte sullo schermo nel 1943 da René Le Hénaff e nel 1994 da Yves Angelo con Depardieu come protagonista. Più breve del precedente e pubblicato la prima volta nel 1830 il racconto Un episodio durante il Terrore narra con suggestive atmosfere di suspence, una vicenda che coinvolge due monache e un abate nei giorni successivi all’esecuzione di re Luigi XVI

 

 

  Graziella Pagliano, Il giornalismo, in Fra norme e desideri. Ricerche di sociologia della letteratura, Roma, Aracne, 2002 [1998], pp. 89-101.

 

  Balzac e il matrimonio, pp. 101-170.

 

  Nel primo di questi contributi, l’A. si interroga sulle relazioni tra giornalismo e letteratura sulla base di alcuni romanzi dell’Ottocento, tra cui Illusions perdues di Balzac, dove il testo letterario «prende a proprio argomento il giornale e intorno ad esso struttura sequenze e sviluppa significati» (p. 89). Strettamente dipendenti dall’interesse economico, i meccanismi dell’editoria e del giornalismo descritti da Balzac mettono in gioco la nozione stessa di realtà: una realtà che «si fonda su un gioco di specchi, sul gioco di immagini che ogni individuo percepisce e insieme crea offrendosi allo sguardo dell’altro» (p. 91).

  In Balzac e il matrimonio, l’A. riflette sui contatti e sulle distanze ipotizzabili tra letteratura e ideologia assumendo come punto di riferimento della propria analisi Honorine, un racconto dove vengono presentati, nel contesto immaginario inventato dal testo, tre modelli possibili (il modello costrittivo, il modello paternalistico e quello liberista) del rapporto di coppia eterosessuale e, in particolare, del matrimonio. Rispetto a questi modelli, scrive G. Pagliano, il personaggio di Honorine esprime soprattutto «la sofferenza per una intimità coniugale priva di amore e di rispetto» (p. 168): la particolare costruzione del testo consente inoltre di «operare di continuo non solo la comparazione dei modelli ideologici tra di loro, ma fra essi e la parola degli attori e fra parola e comportamenti non detti dai personaggi» (p. 169). Da questo punto di vista, conclude l’A., l’operazione letteraria espone «il modello ideologico alla delimitazione e alla interrogazione, mediante proposte di sostituibilità relative al contesto, e le saggia rispetto alla progettualità e alla attuabilità dei progetti» (Ibid.).

 

 

  Graziella Pagliano, Da tiranno a maestro: le metamorfosi letterarie del padre fra Ottocento e Novecento, in AA.VV., Identità di genere nella lingua, nella cultura, nella società, a cura di Franca Orletti, Roma, Armando Editore, 2001, pp. 115-134.

 

  Riferimenti a: Eugénie Grandet, Le Père Goriot.

 

 

  Isabella Panducci, Balzac, Les contes philosophiques. 1830-1831. Tesi di laurea. Relatore: Prof.ssa Elena Del Panta, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere, 2001.



  Carlo Pàris, I Contadini di Balzac. Romanzo, 2001 [?].

 

 

  Maria Grazia Paturzo, Balzac e ‘Point de lendemain’: plagio o riscrittura?, «Studi Urbinati. B. Scienze umane e sociali», Urbino, anni LXXI-LXII, 2001-2002, pp. 509-514.

 

  Crediamo non essere del tutto fuori luogo affermare che, tra i diversi atteggiamenti propri del modus operandi balzachiano a livello narrativo, e come peculiare (e, in determinate circostanze, quasi obbligata) operazione estetica di creazione letteraria, la ripresa e il riutilizzo di materiali provenienti dalle più disparate galassie della finzione romanzesca rappresentano un dato importante e significativo su cui è quanto mai opportuno e fecondo riflettere.

  In quest’ottica, la Comédie humaine si rivela come «un’opera densa di implicazioni intertestuali» (p. 509), di morceaux di testi che Balzac inserisce e riplasma negli affreschi della sua variegata produzione narrativa con sfumature linguistiche e semantiche nuove ed originali. Esemplare, a questo proposito, è la myse en abyme di una sequenza testuale di Point de lendemain di Vivant Denon in un capitolo della Physiologie du mariage intitolato Principes de stratégie, su cui Giovanni Macchia aveva già avuto occasione di riflettere in un saggio pubblicato nel 1965 (cfr. Balzac e il libertino, in Il Mito di Parigi). In questo studio, M. Paturzo fornisce una convincente analisi delle trasformazioni balzachiane del testo di Denon, sottolineandone gli stravolgimenti tanto linguistici quanto ideologici rispetto all'opera di riferimento: in Balzac, osserva l’A., è manifesta la volontà di «cancellare i momenti di maggior erotismo» (p. 512) del racconto settecentesco e di modificarne l’impianto descrittivo (e licenzioso) al fine di consegnare ai lettori della propria epoca un prodotto nuovo, più accessibile e più concretamente legato alla realtà. Appropriandosi di «un conte libertin raffinato e seducente – conclude l’A., l’autore della Physiologie du mariage sembra farne uno strumento, una lente di ingrandimento che possa ammonire e, perché no, anche provocare un pubblico nuovo, il cui stile di vita appare imborghesito fino all’inverosimile e i cui pensieri sembrano ‘inorridire’ all’idea di un possibile cedimento alle lusinghe amorose; idea del tutto concepibile e affatto ‘naturale’ per la raziocinante epoca dei Lumi» (p. 514).



  Michela Perini, Un romanzo giovanile di Balzac: “Annette et le criminel”. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Ludovica Cirrincione D’Amelio, Viterbo, Università della Tuscia, Facoltà di Lingue e letterature straniere moderne, Anno accademico 2000-2001, pp. 139.

 

 

  Antoine Piazza, Romanzo fiume. Traduzione di Emilia Gut, Roma, Robin edizioni, 2001.

 

  p. 29. Bering si raddrizzo all’improvviso, alzò il mento come se cercasse un viso familiare nella massa di viaggiatori sul marciapiede di una stazione. Il suo sguardo si fermò su parecchie scrivanie, e capii che il direttore aveva bisogno solo di pochi secondi per collegare un collaboratore alla sua opera. Le sue labbra si animarono e sentii un mormorio incomprensibile e soffocato: non era altro che la banda sonora di una intensa prestazione cerebrale.

  - Non ci sfugge niente, - disse alla fine. – Qui, per esempio, facciamo l’inventario della famosa collezione del Cousin Pons. In seguito interverranno alcuni esperti che dovranno farne una valutazione. Appena ricevuto il loro rapporto, il Presidente stesso riunirà un gruppo ristretto al quale ho il privilegio di appartenere, e deciderà sull’opportunità di una vendita all’asta. Quel giovane con la cuffia studia tutte le registrazioni della Castafiore, il vicino fa il conto degli amanti di George Sand, quello là raccoglie le amanti di Victor Hugo. Sulle due scrivanie là in fondo stanno cercando di salvare quel po’ di Balzac che si trova in Horace de Saint-Aubin.

 

  p. 49. - Propongo semplicemente di rendere a Pézenas le spoglie di uno dei suoi figli più illustri: il dottor Benassis.

  - E chi sarebbe costui?

  - Il dottor Benassis, - riprese Béring senza voltarsi, - è quel benefattore di un villaggio di montagna che Balzac mette in scena in Le Médecin de campagne. È nato a Pézenas da dove è andato via giovanissimo per studiare presso gli oratoriani prima di raggiungere Parigi. Lì ha accumulato tanti di quegli errori e sciocchezze da giustificare la vita oblativa condotta in seguito in una regione misera delle Alpi del Delfinato. Passò anni a compiere buone azioni: donò senza riserve il denaro della sua eredità, ricostruì lentamente il paese, valorizzò i territori più inospitali, senza mai equilibrare le spese attraverso gli incassi delle visite mediche. Morì nel pieno vigore degli anni, al capezzale dei poveri che tentava di strappare alla morte. Alla sua gloria è stato innalzato un vero mausoleo. Un semplice decreto del governo potrebbe togliere questo glorioso figlio di Pézenas alla fredda umidità degli abeti ... E questo a grande vantaggio della sua città che non mancherà di dare all’illustre figlio un’ultima dimora davanti alla quale si raccoglieranno numerosi curiosi ...

 

 

  Susi Pietri, Le don de l’envers. «Une passion dans le désert» de Balzac et «Un artiste de la faim» de Kafka, in Collectif, Envers balzaciens ... cit., pp.

 

  La figura dell’«envers» rappresenta un motivo ricorrente della Comédie humaine e un principio formale che si impone a tutti i livelli del testo balzachiano: Une passion dans le désert di Balzac e Un artiste de la faim di Kafka raccontano, da questo punto di vista, due esperienze liminari, ai confini di una animalità vista, appunto, come rovescio dell’umanità. È proprio nell’animalità che la scrittura interroga e definisce ciò che per definizione risulta essere imponderabile e inesprimibile: «le don incandescent de la vie animale – osserva l’A. – comme envers de l’humain [...] contamine les hommes crûment animalisés, lo provençal balzacien épris d'amour fou pour Mignonne, le jeûneur kafkaien devenant bête dans sa cage parmi les bêtes des écuries. En même temps, ces dédoublements sauvages d’un don contagieux se redoublent par le don réfléchi, labyrinthique de la parole». Entrambi i racconti affrontano dunque la riflessione del duplice (e incompatibile) dono dell’arte e della vita: in questo senso, «l’écriture sur le ‘double don’ se déplie par cette volonté d’une coappartenance intenable dans la distance toujours renaissante, elle est la forme de cette volonté scindée, à la limite du paradoxe».

 

 

  Elena Randi, Corporeità e ascesi: l’idea del gesto in Balzac, in Anatomia del gesto. Corporeità e spettacolo nelle poetiche del Romanticismo francese, Padova, Esedra editrice, 2001 («Saggi e materiali universitari», 5. Serie di storia del teatro), pp. 112-151.

 

  Nel denso e acuto capitolo dedicato a Balzac, l’A. riflette sull'importanza del movimento corporeo nella Comédie humaine, alla luce, soprattutto, di alcuni testi fondamentali, quali, ad esempio, La Théorie de la démarche, la trilogia del Livre mystique, Massimilla Doni, Le chef-d’oeuvre inconnu e La peau de chagrin. In queste opere, emerge con particolare intensità la dialettica tra «intus» e «foris», fra la sostanza più profonda e sublime del pensiero e dello spirito e le loro proiezioni (o corrispondenze) sensibili nei caratteri, nelle modalità, nei ritmi e negli ambienti propri sia dell’esistenza mistica di alcune creature predestinate, sia della vita quotidiana. In nessun caso, comunque, l’esame della gestualità è fine a se stesso, ma «costituisce il pretesto per affrontare problemi di ordine più vasto: estetici, psicologici, gnoseologici, morali, metafisici» (p. 136). Se nei romanzi e nei racconti balzachiani, la vita sotterranea «si rivela spesso attraverso particolari mimici» (p. 128), nel gesto, come in ogni altra forma di linguaggio umano, lo status interiore non si manifesta mai per intero, in maniera totalmente spontanea, poiché non appena «la riflessione [...] entra in contatto col gesto, fa di esso un linguaggio ‘in frammenti’, un idioma, pertanto, slegato dall’Unità celeste, smembrato, composto di segmenti fra loro incomunicanti» (p. 126).

  Obiettivo dunque del grande artista, che non dovrà mai farsi coinvolgere affettivamente dall’oggetto rappresentato, è «trovare la Forma capace di esprimere la vita interiore delle cose, Forma che non coincide affatto con quella della ‘prima apparenza’, ma che deve contenere in sé anche la vita passata del soggetto raffigurato e la vita dell’Universo che si riverbera in esso» (p. 141).

 

 

  Rinaldo Rinaldi, Balzac in Gadda. Tecnica della citazione multipla nella «Cognizione del dolore», in L’indescrivibile arsenale. Ricerche intorno alle fonti della «Cognizione del dolore», Milano, Edizioni Unicopli, 2001 («Parole allo specchio/studi e testi», 5), pp. 87-153.

 

  Nell’opera narrativa di Carlo Emilio Gadda, la presenza di Balzac si rivela «tanto più rilevante quanto meno esibite o agevolmente tracciabili ne risultano le linee, di volta in volta affidate a risonanze multiple e a suggestioni quasi tipologiche più che a precise sintonie testuali» (p 91). Se l’unica opera gaddiana in cui si fa esplicito riferimento a Balzac, citato come l’autore di Eugénie Grandet, è il Racconto italiano di ignoto del Novecento (1924), l’ampia ricerca condona da Rinaldi individua con pertinenza il ricco mosaico delle strutture tematiche e ambientali, dei nuclei testuali e delle sintonie stilistiche che legano La Cognizione del dolore a molti romanzi della Comédie humaine Les Paysans, Le Médecin de campagne, La Rabouilleuse, Le Lys dans la vallée, per non citare che alcuni tra gli esempi più significativi. L’analisi condotta dallo studioso attraverso un costante riferimento ai testi mostra singolari «analogie tra l’opera di Gadda e la produzione narrativa suggestiva del romanzo balzachiano nella Cognizione del dolore ricomponendo e sovrapponendo i fantasmi di Balzac ai propri e facendoli emergere alla superficie «potenziati nella loro verità» (p. 143).

 

  Cfr. 1996.

 

 

  Vittorio Saltini, Quel che si perde, Milano, Feltrinelli Editore, 2001 («I Narratori»).

 

  p. 82. O, qui a Pescia, nel retro del caffè della piazza. Dove si rifugiava, un poco ogni giorno, il pretore Nicolai, che amava anche citare la sentenza di Balzac: ‘C’è chi s’è fermato sulla soglia del suicidio, al ricordo del caffè dove va tutte le sere a giocare la sua partita a domino’.

 

 

  Edoardo Sanguineti, Ideologia e linguaggio. A cura di Erminio Risso, Milano, Feltrinelli Editore, 2001.

 

  Butor, “une machine mentale”.

 

  Stiamo al giuoco comparativo, sino in fondo, come in un buon manuale, e mettiamoci a leggere, ancora una volta:

 

  L’idée première de La Comédie humaine fut d’abord chez moi comme un rêve […] auxquels il faut céder.

 

  Non propongo nemmeno di calcolare questa pacifica, scientifica oggettività, in tutta la sua reale portata: basterà calcolare il tono, che è poi il fermo, uniforme tono di tutta quella ventina di pagine che formano l’Avant-propos del 1842, in cui Balzac manifesta il suo problema di scrittore, “en essayant” – sono sempre sue parole – “de parler de ces choses comme si je n’y étais pas intéressé”. Balzac, ad ogni modo, cede agli imperativi e alla tirannia della sua chimera. È passato un secolo, e la posizione si è rovesciata. Lo scrittore può ben concepire un piano immenso, può tentare di abbracciare, come leggevamo in Miller, con il suo “compendio enciclopedico” incarnato nella sua persona (ma qui continuiamo a citare sempre i termini arcaici di Balzac), “à la fois l'histoire et la critique de la Société, l’analyse de ses maux et la discussion de ses principes”, può persino giungere a mutare ancora in realtà il suo sogno, la sua chimera, può continuare a proporsi come specchio della società e della storia [...]. Le “divisions si naturelles” di cui discorreva Balzac, prestando tutta l'attenzione del caso all'incredibile aggettivo (“si naturelles”!), potremmo anche ritrovarle in Miller, e senza troppa fatica, usando buone schede; potremmo anche divertirci a ricomporre tutto il corpus dell’opera sua secondo le solide categorie della vie privée, de province, parisienne, e via dicendo; potremmo ripetere che occorre collocare, sempre che le schede continuino ad essere buone davvero, accanto agli (sic) Études de moeurs (“qui forment l’histoire générale de la Société, la collection de tous ses faits et gestes, eussent dit nos ancêtres”: e questa volta occorre prestare attenzione, tutta l’attenzione del caso, al bellissimo inciso estremo, perché già l’“ancêtre” Balzac sapeva rinviare ai suoi “ancêtres”), gli Études philosophiques e analytiques: si otterrebbero sempre eccellenti indici e registri, e anche le diseguaglianze e le lacune riuscirebbero assai comprensibili e facilmente giustificate (proprio perché “nos ancêtres”, sono “nos ancêtres”, e non c’è scampo). Ma a mediare il tutto occorre poi inventare quelle affatto inedite “scènes de la vie d’un artiste”, sotto le quali ormai si sussumono, per complessa che possa riuscire, per ogni altro riguardo, la struttura, univocamente, e dunque assai caoticamente e anarchicamente, intanto, con tutti i loro contenuti particolari, tutte le altre categorie, condizionate e prospetticamente deformate, alienate insomma, da questa misura inaudita e, in ultima analisi, grottesca: la “ragion dell'arte”.

 

 

  Jean Starobinski, Raphaël, Louis, Balthazar, in Azione e reazione. Vita e avventure di una coppia. Traduzione di Carmelo Colangelo, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001 («Saggi», 844), pp. 178-196.

 

  Il grande processo di polisemizzazione che ha riguardato la coppia verbale «azione-reazione» nel corso della storia intellettuale occidentale costituisce l’oggetto di studio di questo pregevole volume di Jean Starobinski. Si tratta, più particolarmente, di verificare «i diversi valori che la parola «reazione» ha assunto a partire dalla sua invenzione medievale» e di portare alla luce i diversi passaggi e i grandi incroci disciplinari che hanno reso questo concetto «un tracciante o un marcatore» (cfr. Prefazione, p. 7) culturale.

  L’uso insistente di questa coppia verbale e «il frequente impiego isolato della parola «reazione»» rappresentano, da questo punto di vista, in Balzac, «un tratto di stile» (p. 4) su cui l’A. riflette in maniera specifica nel capitolo quinto focalizzando la sua attenzione su quattro opere: La Peau de chagrin, Louis Lambert, La Recherche de l’Absolu e, nell’ultima parte, Adieu. Prendendo a prestito dagli scienziati il loro lessico, Balzac, osserva Starobinski, accoglie e utilizza il tema dell’azione e della reazione, promovendo «le proprie prospettive filosofico scientifiche sull’anima, il corpo, il mondo fisico e i destini dell’uomo» (p. 180).

 

 

  Marco Stupazzoni, Echi italiani del bicentenario balzachiano, «Quaderni del C.R.I.E.R.», Supplemento al n. 4, Moncalieri, C.I.R.V.I., 2001, pp. 145.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Introduzione.

  Echi italiani del Bicentenario balzachiano.

  Aspetti biografici.

  Balzac e l’Italia.

  Balzac e il romanzo: forme poetiche e ideologiche.

  Edizioni italiane delle opere.

  a) Edizioni in lingua originale.

  b) Traduzioni italiane pubblicate in volume.

  c) Traduzioni italiane pubblicate su Cd-Rom.

  d) Edizioni e traduzioni italiane consultabili in Internet.

  e) Edizioni radiofoniche.

  f) Estratti.

  Informazioni, studî e riferimenti critici.

  a) Monografie.

  b) Studi compresi in monografie.

  c) Studi compresi in miscellanee e in opere a carattere generale.

  d) Studi pubblicati in riviste.

  e) Informazioni e riferimenti critici tratti dalla stampa periodica.

  f) Riferimenti critici tratti da opere multimediali e da siti Internet.

  g) Tesi di laurea.

  h) Conferenze, corsi e seminari universitari.

  i) Recensioni e segnalazioni.

  j) Varia.

 

 

  Donatello Viglongo, Ricerche su Dante (Per una diversa lettura della Divina Commedia), «Sotto il velame», 11, n. 2, Febbraio 2001, pp. 194-208.

 

  In questo studio, dove l’A. traccia un bilancio dei recenti orientamenti della critica dantesca, è presente, nel primo paragrafo (Dante e Balzac, pp. 194-195), un sintetico resoconto del convegno su «Balzac e l’Italia» (Roma, 1999). L’A. si sofferma, in particolare, sui rapporti tra lo scrittore francese e Michelangelo Caetani che fu un «innovatore nella non lunghissima ma neppure breve linea interpretativa poi detta esoterico-iniziatica-tradizionale» (p. 194) della Divina Commedia.

 

 

 

 

Conferenze, Seminari e Corsi universitari.[1]

 

 

  Arnaldo Ballerini, Body’s experience and depression: ‘La Peau de chagrin’ by Balzac, in 5ème Conférence Internationale de Philosophie et Psychiatrie, Paris, juin 2001.

 

 

 Bruno Coppola, L’essere sociale e le forme della sua rappresentazione: Balzac, Marx, Università degli studi di Napoli, Facoltà di Lettere e filosofia – Didattica della filosofia, anno accademico 2000-2001.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Eugénie Grandet; Papà Goriot, La pelle di zigrino.

 

 

  Maria Gaetana Di Maio, Il pensiero sociale e politico di Balzac, Università degli studi di Roma Tre, Anno accademico 2000-2001.

 

 

  Alessandra Ferraro, Il realismo nel romanzo francese dell’Ottocento, Università degli studi di Udine – Letteratura francese, Anno accademico 2001-2002.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Le Père Goriot.

 

 

  Francesco Fiorentino, L’invenzione della provincia. Balzac and Co, in AA.VV., Paradigmi e dinamiche provinciali. La cultura della provincia fra Russia e Occidente, Università degli studi di Bergamo, 5 dicembre 2001.

 

 

  Tiziana Goruppi, Il gioco delle apparenze, Università degli studi di Pisa, Facoltà di Lingue e letterature straniere – Storia della cultura francese. Anno accademico 2001-2002.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Traité de la vie élégante.

 

 

  Franco Guerzoni legge Balzac, Contorno, Giacometti, Modena, Fondazione Collegio San Carlo, 26 marzo 2001.

 

 

  Marie-Thérèse Jacquet, Écrire «le coup de foudre», Università degli studi di Bari, Facoltà di Lettere e filosofia, Anno accademico 2000-2001.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Le Lys dans la vallée.

 

 

  Maria Giulia Longhi, Figure e poetiche della follia nella letteratura francese (1830-1930), Università Statale di Milano, Lingua e letteratura francese, Anno accademico 2000-2001.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac: Adieu.

 

 

  Barnaba Maj, La città e il cuore dell’uomo: categorie e riflessi della modernità, Università degli studi di Bologna, Facoltà di Scienze della formazione – Filosofia della storia, Anno accademico 2000 2001.

 

 

  F. Mazzonis, Il secolo borghese: la Francia dalla Restaurazione al 1914, Università degli studi di Teramo – Storia contemporanea, Anno accademico 2001-2002.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Eugénie Grandet.

 

 

  Lionello Sozzi, Pavese: da Balzac a Proust. Comunicazione presentata al Convegno internazionale: Cesare Pavese (1908-1950) il 24 ottobre 2001, Torino – Santo Stefano Belbo, Salone Nobile del Castello.

 

 

  Lionello Sozzi, Spazio e tempo in “Illusions perdues” di Balzac, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e filosofia – Letteratura francese 1 (Modulo 2), Anno accademico 2001-2002.

 

 

  Carlo Testa, Rivette, Balzac e le imprudenze dell’arte, in Trans-Figurazioni. La Pittura nel Cinema, Roma, Università degli studi di Roma Tre, Facoltà di Lettere e filosofia, 13 dicembre 2001.

 

 

  Silvia Turzio, Il corpo a pezzi: scrittura e fotografia nell’Ottocento, Università Statale di Milano, Anno accademico 2000-2001.

 

  Dalla Bibliografia: Balzac, Le Chef-d’oeuvre inconnu.

 

 

 

 

Eventi televisivi.

 

 

  Balzac. Miniserie. Con Gerard Depardieu, Jeanne Moreau, Virna Lisi, Fanny Ardant. Regia di Josée Dayan, ReteQuattro, 24 dicembre 2001, ore 22.30.



[1] Cfr. anche 2000.



Marco Stupazzoni

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