domenica 15 novembre 2020



1986

 

 


 

Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Le Père Goriot, in Giuliana Bertoni Del Guercio, Le Roman français au XIXe siècle. I. Hugo – Stendhal – Balzac, Milano, Principato, 1986 («Società Cultura Linguaggi. Sezione francese»):

 

  1/ La pension Vauquer, pp. 172-178;

 

  Introduction au texte, pp. 172-173.

 

  2/ Les personnages, pp. 179-186;

 

  Introduction au texte, pp. 179-180.

 

  3/ Un matin de brouillard à la pension Vauquer, pp. 186-196;

 

  Introduction au texte, pp. 186-188.

 

  4/ A l’Hôtel de Restaud, pp. 196-201;

 

  Introduction au texte, pp. 196-197.

 

  5/ Le «secret» du père Goriot, pp. 201-207;

 

  Introduction au texte, pp. 201-202.

 

  6/ La proposition de Vautrin, pp. 207-214;

 

  Introduction au texte, pp. 207-208.

 

  7/ L’esprit de la paternité, pp. 214-217;

 

  Introduction au texte, pp. 214-215.

 

  8/ Les fils se resserrent, pp. 217-222;

 

  Introduction au texte, pp. 217-219.

 

  9/ L’arrestation de Vautrin, pp. 222-227;

 

  Introduction au texte, pp. 222-223.

 

  10/ Une violente querelle, pp. 227-231;

 

  Introduction au texte, pp. 227-228.

 

  11/ La mort de Goriot, pp. 232-238;

 

  Introduction au texte, p. 232.

 

  12/ Au père Lachaise, pp. 239-240.

 

  Introduction au texte, p. 239.

 

  Segue: Suggestions pour un travail sur les textes, pp. 241-270.

 

 

  Tiziana Goruppi [a cura di], La leggenda di Napoleone. Brani su Napoleone di Stendhal, Balzac, Nerval, Hugo e altri, Pisa, 1986, pp. 160.


 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Emanuela Gatti, Milano, Alberto Peruzzo Editore, 1986 («“Biblioteca Peruzzo”. I grandi narratori»), pp. XIV-210.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Federica Almagioni, Honoré de Balzac. Note biografiche sull’autore, pp. V-XII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Giuseppe Gelato, Presentazione dell’opera, pp. XIII-XIV;

  Eugenia Grandet, pp. 1-210.

 

  Il romanzo è suddiviso in sei parti secondo la ripartizione presente nell’edizione originale Béchet del 1833-34; non è riportata la dedica ‘A Marie’.

 

  Giuseppe Gelato, Presentazione dell’opera.

 

  Nella classificazione dei romanzi di Balzac che costituiscono la Commedia umana, Eugenia Grandet, pubblicato nel 1833, appartiene alla sezione Scene della vita di provincia, in cui lo scrittore descrive, con un realismo che a quei tempi era considerato audace, la vita delle piccole città, capovolgendo l’immagine convenzionalmente idilliaca che di esse aveva dato la letteratura romantica. A Balzac infatti non interessava la salubrità dell’aria e la quiete di quelle cittadine, ma la vita vera (e soprattutto i vizi) di chi vi abitava, e che doveva conoscere bene, essendo anche lui nato in una città di provincia, ma che doveva sembrargli di una meschinità asfissiante da quando si era completamente integrato nella vita di Parigi, la “città tentacolare” dove anche i vizi più turpi non erano privi, ai suoi occhi, di una certa grandezza: quella demoniaca grandezza che costituisce il fascino di un’altra sezione della Commedia umana, quella dedicata appunto alla vita parigina.

  La cittadina in cui si svolge la vicenda di Eugenia Grandet è Saumur, nella regione della Loira, e il vizio preso di mira è l’avarizia, che nel vecchio Grandet, ricchissimo commerciante, giunge al punto di costringere la figlia Eugénie a una vita di stenti. Mite di carattere e molto devota a Dio e all’autorità paterna, la più ricca ereditiera di Saumur accetta questa vita come un dovere, indifferente ai molti pretendenti che le ronzano attorno.

  Ma purtroppo essa non è insensibile all’amore come sembra, e ciò aggiunge altra infelicità alla sua vita, perché ingenua com’è, non si accorge di quanto cinico sia il cugino di cui s’innamora e al quale offre tutti i suoi risparmi perché egli possa partire per l’India, credendo che davvero manterrà la sua promessa di sposarla al ritorno.

  La critica è unanime nel ritenere Eugenia Grandet uno dei più romanzi di Balzac, soprattutto perché in esso lo scrittore si abbandona, senza digressioni sociologiche e moralistiche, al piacere di narrare, e perché tra le righe della sua prosa formalmente fredda e obiettiva non riesce a nascondere la commozione per il triste destino della sua eroina, la cui ingenuità mette in risalto, per contrasto, la spietatezza dei due principali personaggi maschili, nei quali l’avidità di denaro soffoca ogni altro sentimento.

  Naturalmente questa poetica commozione (veramente eccezionale in Balzac, prosatore per eccellenza) non infida per nulla il suo crudo realismo, anzi lo mette maggiormente in risalto, rendendo molto più efficace di qualsiasi discorso sociologico la descrizione di quella società di provincia che ha come unico credo l’accumulazione del denaro: in realtà esso è il credo (assieme a quello della difesa dell’ordine costituito) di tutta la Francia in quell’epoca. Ma in quell’ambiente ristretto, dove non hanno mai fermentato altri ideali, esso raggiunge i livelli parossistici di un vero e proprio culto pagano del denaro, come dimostrano le bellissime pagine in cui Balzac descrive la morte del vecchio Grandet. Il lettore capisce subito che in quell’ambiente è irremediabilmente votato alla sconfitta chi, come Eugenia, crede in altri ideali, tra cui quello che più si oppone al culto del denaro: l’amore.



  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Renato Mucci, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1986 («Tesori della narrativa universale»), pp. 173.

 

  Cfr. 1950 (per la traduzione); 1983.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Traduzione dal francese di Giorgio Brunacci, Milano, Garzanti Editore, 1986 («I grandi libri Garzanti», 25), pp. XXII-173.

 

  Cfr. 1984.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Luigi Martin, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1986 («I grandi della letteratura»,86), pp. 301.

 

  Cfr. 1968 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot e Un tenebroso affare. Traduzioni di Renato Mucci e Maria Ortiz, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1986 («Tesori della narrativa universale»), pp. 397.

 

  Cfr. 1982.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. Traduzione di Carmela Fava. Note biografiche sull’autore di Federica Almagioni. Presentazione dell’opera di Giuseppe Gelato, Milano, Peruzzo Editore, 1986 («I grandi narratori»), pp. X-198.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Federica Almagioni, Honoré de Balzac. Note biografiche sull’autore, pp. V-IX. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Giuseppe Gelato, Presentazione dell’opera, p. X;

  La pelle di zigrino, pp. 1-198.

 

  Non ci sembra che il lavoro di traduzione sul romanzo filosofico balzachiano sia stato sempre condotto con perizia e nel rispetto della fedeltà al modello originale.

 

  Giuseppe Gelato, Presentazione dell’opera.

 

  Questo romanzo, pubblicato nel 1831, è certamente il più anomalo fra tutti quelli di Balzac, lo scrittore passato alla storia della letteratura come il padre del realismo: si tratta infatti di un romanzo fantastico, che lo scrittore in un primo tempo pensò di ambientare in Oriente, come sappiamo da un’annotazione contenuta in una raccolta di Pensieri, soggetti e frammenti di Balzac pubblicata a Parigi nel 1910.

  Ma il grande scrittore non era il più adatto a scrivere racconti esotici, l’unica realtà capace di stimolare la sua vena creativa era quella della Francia del suo tempo, e così non solo La pelle di zigrino (che nel sottotitolo è definito romanzo filosofico) è ambientato a Parigi, ma vi ritroviamo un personaggio già incontrato in altri romanzi della Commedia umana: Rastignac, il gaudente che consiglia, al protagonista, il giovane Raffaello, di affogare nei piaceri le sue pene d’amore, per le quali voleva suicidarsi. Ma dopo tre anni di bagordi egli si ritrova povero e disperato e pensa di nuovo al suicidio, ma mentre vaga di notte per la città in attesa che gli venga il coraggio di buttarsi nella Senna scopre la misteriosa bottega di un mefistofelico antiquario che lo convince ad acquistare una magica pelle di animale esotico che si restringe ogni volta che il suo proprietario soddisfa un desiderio. Questa pelle diventa un’ossessione per Raffaello, che a un certo momento si trova al punto in cui la pelle: si è tanto rimpicciolita che basterà la realizzazione di un solo altro desiderio perché essa scompaia del tutto...

  Come lo stesso Balzac annota nei già citati Pensieri, soggetti e frammenti questa magica pelle è “l’espressione pura e semplice della vita umana”, e i vani tentativi di allargare la pelle che Raphaël compie, simboleggiano l’ineluttabilità del destino.

  A questa vicenda fantastica fa da sfondo la Parigi reale del tempo di Balzac, descritta in tutti i suoi ambienti, e l’intento dello scrittore non si discosta da quello di tutti i suoi altri romanzi: descrivere la vita reale e fustigare i costumi del suo tempo. Molti critici si sono divertiti a riconoscere in molti personaggi della Pelle di zigrino dei personaggi reali, tra cui il grande pittore Eugène Delacroix.

  Sembra che ispirate a personaggi reali siano anche le due donne del romanzo: Fedora, la donna senza cuore per la quale Raphaël tenta il suicidio e Paolina la donna dal cuore appassionato che lo ama senza esserne all’inizio riamata, e desiderando la quale egli vede giungere alla consumazione la pelle di zigrino e quindi la sua vita. Ma importa davvero sapere chi realmente fossero questi due stupendi personaggi nei quali Balzac ha immortalato i due opposti aspetti dell’eterno femminino?

 

 

  Honoré de Balzac, Racconti. Il colonnello Chabert – La messa dell’ateo – L’interdizione, Milano, Centro Diffusione Cultura, 1986 («I grandi geni della letteratura universale»), pp. 205.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Il colonnello Chabert, pp. 5-85;

  La messa dell’ateo, pp. 87-110;

  L’interdizione, pp. 111-204.

 

  Viene riproposta la traduzione di questi tre testi balzachiani fornita da Michele Lessona nel 1946 (Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese).

 

 

  Honoré de Balzac, Séraphita. Con un saggio di Franco Rella. Traduzione di Lydia Magliano, Trento, Reverdito Editore, 1986, pp. 253.

 

 

  Honoré de Balzac, Séraphita. Traduzione di Laura De Bernardinis, Teramo-Roma, Tilopa Edizioni, (ottobre) 1986 («La gloria», 4), pp. 199.


  Struttura dell’opera:

 

  L’Editore, Presentazione, pp. 5-7;

  Séraphita, pp. 9-195.

 

  Trascriviamo integralmente il testo che forma la Presentazione al romanzo balzachiano:


  Lasciamo volentieri allo studioso, al filologo, il cómpito di indagare intorno agli interessi metafisici di Balzac, di indicarci a quale recondita loggia sia stato affiliato, o per quali esoterici rami sia disceso. Quel che a noi qui soltanto interessa è la «sua» Séraphita, opera sublime ispirata dall’immagine celeste della creatura che ognuno reca in sé — nascosta, ma non sopraffatta dalla stampa corporea — fin dalle dimenticate origini: dell’essere, non ancora uomo o donna, che nasconde il proprio segreto dietro quello stesso velo che preservò il silenzio e il dolore di Iside, e che in ogni tempo impedì all’impuro l’accesso al proprio volto originario. Velo che, nello svolgersi delle epoche, si tinse del «peccato» dell’epoca, così che di volta in volta esso ebbe il colore della mâyâ, della ybris, del diritto naturale negato e oggi, all’alba della libertà, della coscienza desta soltanto per il sonno delle grevi cose dell’esistere.

  E appunto la connotazione di questo nostro tempo, centrato sulla libertà di essere liberi in Terra o asserviti alla Terra, senza la minaccia di dèi vindici o di imperiose visioni, ma con la possibilità inesauribile di scegliere tra l’intelligenza del capo e quella del cuore, ci consente ad osare di scostare un po’ quel velo per intravedere il volto di colui che Balzac chiama Séraphitüs-Séraphita: dell’angelo sorridente in ognuno per amore dell’altro: uomo per la donna, donna per l’uomo, dalla sua androginica unità unificante i due sulla via dell’amore sacro, che si annuncia come la più alta mèta per l’attuale « intelligenza » umana, in cui fede e pensiero vogliano risposarsi per il concepimento del nuovo essere che apprenda ad amare, nell’altro la propria identità, ed in sé, quella dell’altro.

  Neppure l’obsolescenza delle dottrine del visionario Swedenborg, cui Balzac, forse un po’ didascalicamente, si riferisce per dare il sostegno di un’autorità alla sua trama, riesce a diminuire la vivezza intemporale della vicenda, che, Balzac, con la sua capacità di immaginare la commedia umana, di penetrarne l'anima — soprattutto quella femminile, fino ad esserne il commosso custode — supera di gran lunga la dottrina che espone, tanto che la sua arte conduce al presentimento — né oscuro, né visionario — dì un’obiettiva, seppur misteriosa, realtà.

  Questa realtà si invera quando l’audacia e l’intelligenza (Wilfrid, nel racconto), l’intuizione e la devozione (Minna), si elevano oltre il troppo-umano che ne distingue la polarità maschile e femminile, per unirsi nell’Amore (Séraphitüs-Séraphita) che solo chiude il circuito tra il Superiore e l’Inferiore, donando la sua unità a ciò che era diviso.

  L’uomo e la donna, insieme, ricompongono l’androginia delle singole anime laceratesi durante la caduta sulla terra, attimo per attimo potendo ricomporre la distanza che li separa l’uno dall’altra come dal cuore di se stessi.

  Il racconto di Balzac allude a tutto ciò, ma è preferibile sia la sua poesia a suggerire quel che in fondo è indicibile, che non vuole essere commentato, ma immaginato e praticato come una realtà più forte dell’aspetto sensibile e contingente del mondo.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Traduzione di Anna Premoli e Francesco Niederberger, Milano, Garzanti Editore, 1986 («I grandi libri Garzanti», 57), pp. 549.

 

  Cfr. 1968 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Francesco Saba Sardi, Milano, Sonzogno Editore, 1986 («I classici dell’erotismo»), pp. 351.


  Struttura dell’opera:

 

  Francesca Saba Sarti, Introduzione, pp. 5-14. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Splendori e miserie delle cortigiane, pp. 15-349.

 

  In questo volume, sono raccolte le traduzioni delle prime tre parti di Splendeurs et misères des courtisanes: Ester felice; Quanto costa l’amore ai vecchi; Dove conducono le cattive strade che riproducono le versioni fornite da Galeazzo Falconi nel 1909 e pubblicate dagli editori milanesi Fratelli Treves.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Traduzione di Vincenzo Acanfora, Milano, Peruzzo Editore, 1986 («Biblioteca Peruzzo. I grandi narratori»), Voll. 2, pp. 240; 220.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Federica Almagioni, Honoré de Balzac. Note biografiche sull’autore, pp. V-XII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Giuseppe Gelato, Presentazione dell’opera, pp. XII-XIV;

  Splendori e miserie delle cortigiane, vol. I, pp. 3-240; vol. II, pp. 3-220.

 

  La suddivisione in capitoli presente in questa traduzione e la loro titolazione rimandano all’edizione di Splendeurs et misères des courtisanes pubblicata dall’editore De Potter nel 1844. Non è né tradotta né trascritta la dedica del romanzo al principe Alfonso Serafino di Porcìa.

 

  Giuseppe Gelato, Presentazione dell’opera.

 

  Un soggetto troppo scandaloso: così l’editore Girardin di Parigi giudicò il progetto di Balzac di scrivere un romanzo sulla vita di una cortigiana, che lo scrittore gli aveva esposto nel 1835. Le rassicurazioni dello scrittore che avrebbe trattato il soggetto con la serietà di cui aveva dato abbondantemente prova nei suoi numerosi romanzi precedenti convinsero l’editore a pubblicare la prima parte del romanzo (il cui titolo era Splendori e miserie delle cortigiane) nel 1836, ma poi il timore dello scandalo riprese il sopravvento, e non se ne fece nulla. La stessa cosa avvenne nel 1838. La prima parte venne finalmente pubblicata nel 1839, mentre le altre tre uscirono rispettivamente nel 1843, nel 1846 e nel 1847.

  I timori dell’editore si rivelarono infondati, perché il romanzo non ebbe guai con la censura e suscitò nel pubblico assai meno scandalo di quello che avrebbe suscitato, nel 1848, La signora dalle camelie di Alessandro Dumas figlio! Ma ciò che offendeva il puritanesimo ottocentesco era il fatto che il romantico Dumas si era apertamente schierato dalla parte della cortigiana eroina del suo romanzo, mentre nulla di simile aveva fatto il realista Balzac, nel 1842, che nella prefazione generale della Commedia umana (il complesso degli 85 romanzi di cui Splendori e miserie fa parte nella sezione Scene della vita parigina) avrebbe spiegato che egli descriveva i tipi umani (le specie sociali come le chiamava lui) con lo stesso rigore scientifico e lo stesso distacco con cui gli zoologi descrivono le specie animali.

  Per descrivere l’ambiente della malavita e della prostituzione in cui Esther, la cortigiana, muove i primi passi della sua carriera (che avrà il suo apice nel lussuoso appartamento di un barone di cui diventa la mantenuta) Balzac non si accontentò di consultare dei trattati sociologici, ma sembra accertato che si fosse messo in contatto con Vidocq, famoso ladro e falsario di quel tempo, poi diventato confidente della polizia.

  Ma, anche se descritta con tanto puntiglio realistico e senza partecipazione emotiva da parte dell’autore, Esther finisce col diventare un personaggio romantico proprio come la protagonista della Signora dalle camelie: anch’essa, infatti, è una cortigiana riscattata dall’amore e dalla morte, che si dà per non essere riuscita a cambiare vita, cosa che, ai suoi occhi, la rende indegna dell’uomo che ama, che è Lucien de Rubempré, il protagonista del romanzo, un uomo giovane ma già provato dalle delusioni della vita, dovute anche alla debolezza del suo carattere.

  Secondo il progetto originario di Balzac, il romanzo avrebbe dovuto limitarsi a questa storia, che invece occupa solo le prime due delle sue quattro parti: infatti, nelle lungaggini della pubblicazione sempre rinviata, Balzac aggiunse le altre due parti, che hanno rispettivamente per protagonisti Lucien (che deve difendersi dall’accusa di avere ucciso Esther) e Vautrin, il forzato evaso che nelle prime due parti giganteggia come un autentico genio del male che, sono le false vesti di un religioso, soggioga non solo il debole Lucien, ma anche Esther, e che nella quarta parte ricompare con un altro travestimento.

  Splendori e miserie delle cortigiane è quindi un romanzo complesso che va oltre a ciò che promette nel titolo, ma che appunto per questo affascina ancora il lettore di oggi, che vi trova, riuniti in un unico libro, un romanzo d’amore, uno poliziesco e uno d’avventure, tutti scritti con la stupenda concisione di stile che è uno dei maggiori pregi di quel grandissimo scrittore che è Balzac.

 

 

  Honoré de Balzac, Teoria della andatura. A cura di Franco Rella, Venezia, CLUVA Editrice, (settembre) 1986 («Limina»), pp. 85.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Teoria della andatura, pp. 5-59;

  Note, pp. 60-66;

  Franco Rella, Notizia, pp. 61-81. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Federica Almagioni, Honoré de Balzac. Note biografiche sull’autore, in Honoré de Balzac, Eugenia Grandet ... cit., pp. V-XII.

 

  Cfr. 1985.

 

 

  Federica Almagioni, Honoré de Balzac. Note biografiche sull’autore, in Honoré de Balzac, La pelle di zigrino ... cit, pp. V-IX.

 

  Cfr. scheda precedente.

 

 

  Federica Almagioni, Honoré de Balzac. Note biografiche sull’autore, in Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane ... cit., pp. V-XII.

 

  Cfr. schede precedenti.



  Gabriele Armandi, Manzoni visto da Goethe, Poe e Balzac, in AA.VV., Manzoni tra storia e attualità. A cura di Giancarlo Galeazzi, Ancona, La Lucerna, 1986, pp. 84-92.

 

 

  Roland Barthes, Scrivere la lettura. Traduzione di Nicolò Pasero, in AA.VV. Saggi sull’estetica della ricezione, a cura di Carlo Arcuri, «L’Immagine riflessa», Genova, Anno IX, N. 1, Gennaio-Giugno 1986, pp. 71-74[1].

 

  Non v’è mai capitato, leggendo un libro, d’arrestarvi di continuo nella lettura, non per disinteresse, bensì per afflusso d’idee, di stimoli, d’associazioni? In una parola, non v’è capitato di leggere sollevando la testa?

  E’ questo tipo di lettura, allo stesso tempo irrispettosa, perché interrompe il testo, ed affascinata, perché vi ritorna e se ne alimenta, che ho cercato di mettere per iscritto. Per farlo, perché la mia lettura divenisse a sua volta oggetto d’una nuova lettura (quella dei lettori di S/Z), ho dovuto evidentemente intraprendere la sistematizzazione di tutti quei momenti in cui “si solleva la testa’’. Detto altrimenti, interrogare la mia propria lettura significava cercar di cogliere la forma di tutte le letture (la forma: unico luogo della scienza), o ancora: definire una teoria della lettura.

  Ho preso allora un testo breve (era necessario, data la minuziosità del da farsi), il Sarrasine di Balzac, novella poco conosciuta (ma Balzac non lo si definisce precisamente come l’inesauribile, quello di cui non si è mai letto tutto, salvo vocazione esegetica?), e, questo testo, ho senza posa cessato di leggerlo. La critica funziona abitualmente (non è un rimprovero) vuoi al microscopio (illuminando pazientemente il dettaglio filologico, autobiografico o psicologico dell’opera), vuoi al telescopio (scrutando il grande spazio storico che circonda l’autore). Io ho rinunciato a questi due strumenti: non ho parlato né di Balzac né del suo tempo, non ho trattato né della psicologia dei personaggi né della tematica del testo né della sociologia dell’aneddoto. Rifacendomi ai primi exploits della camera oscura, capace di scompone il trotto d’un cavallo, ho in un certo qual modo tentato di filmare al rallentatore la lettura di Sarrasine: il risultato, credo, non è né pienamente un’analisi (non ho cercato di cogliere il segreto di questo strano testo), né pienamente un’immagine (non penso di essermi proiettato nella mia lettura; o, se è il caso, ciò avviene a partire da un luogo inconscio che è ben al di qua di me stesso”). Che cos’è dunque S/Z? Semplicemente un testo, il testo che scriviamo nella nostra testa quando la solleviamo.

  Tale testo, che bisognerebbe poter chiamare, con una sola parola, un testo-lettura, è malnoto, perché da secoli noi ci interessiamo fuor di misura all’autore, e per nulla al lettore; la maggior parte delle teorie critiche cerca di spiegare perché l’autore ha scritto la sua opera, in base a quali pulsioni, quali costrizioni, quali limiti. Questo eccessivo privilegio accordato al luogo da cui è partito l’opera (persona o Storia), questa censura operata nei confronti del luogo dove essa va e si disperde (la lettura) determinano un’economia molto peculiare (benché già antica): l’autore è considerato come il proprietario sempiterno dell’opera, e noialtri, i suoi lettori, come dei semplici usufruttuari; questa economia implica evidentemente una tematica d’autorità: l’autore, si pensa, ha dei diritti sul lettore, lo costringe a un determinato senso dell’opera, e questo senso è naturalmente il senso valido, vero: di qui una morale critica del giusto senso (e della sua mancanza, il “controsenso”): si cerca di stabilire quello che l’autore ha voluto dire, e in nessun modo quello che il lettore sente.

  Per quanto certi autori ci abbiano essi stessi avvertiti che eravamo liberi di leggere i loro testi a modo nostro, e che in fin dei conti si disinteressavano alla nostra scelta (Valéry), noi percepiamo ancora male fino a qual punto la logica della lettura differisce dalle regole della composizione. Queste ultime, ereditate dalla retorica, son sempre riferibili a un modello deduttivo, cioè razionale: a tratta, come nel sillogismo, di costringere il lettore a un senso o a una soluzione: la composizione canalizza; al contrario la lettura (il testo che scriviamo in noi quando leggiamo) disperde, dissemina; o almeno, di fronte a una storia (come quella dello scultore Sarrasine), vediamo bene che un determinato percorso obbligato (quello della “suspense”) lotta incessantemente in noi con la forza dirompente del testo, con la sua energia digressiva: alla logica della ragione (che fa sì che questa storia sia leggibile) si mescola una logica del simbolo. Tale logica non è deduttiva, ma associativa: associa al testo materiale (a ciascuna delle sue frasi) delle altre idee, delle altre immagini, degli altri significati. “Il testo, il solo testo”, ci dicono, ma il solo testo non esiste: v’è immediatamente, in questa novella, in questo romanzo, in questa poesia che leggo, un surplus di senso, di cui né il dizionario né la grammatica possono render conto. E’ di questo surplus che ho voluto delineare il perimetro, mettendo per iscritto la mia lettura di Sarrasine.

  Io non ho ricostruito un lettore (voi o me), ma la lettura. Vale a dire che ogni lettura deriva da forme transindividuali: le associazioni generate dalla lettera del testo (ma dov’è questa lettera?) non sono mai, per quanto si faccia, anarchiche; sono sempre prese (colte e inserite) in determinati codici, in determinate lingue, in determinati elenchi di stereotipi. La più soggettiva delle letture che si possa immaginare non è mai altro che un gioco condotto a partire da determinate regole. Da dove provengono tali regole? Certamente non dall’autore, che non fa che applicarle a modo suo (che può essere un modo geniale, per esempio in Balzac); visibili ben al di qua di lui, tali regole provengono da una logica millenaria della narrazione, da una forma simbolica che ci dà corpo ancor prima della nostra nascita, in una parola da quell’immenso spazio culturale del quale la nostra persona (d’autore, di lettore) non è che un passaggio. Aprire il testo, fondare il sistema della sua lettura, non è dunque solo esigere e dimostrare che lo si può interpretare liberamente; è soprattutto, e in modo assai più radicale, arrivare a riconoscere che non esiste una verità oggettiva o soggettiva della lettura, ma solo una verità ludica; e non basta: il gioco non va inteso qui come una distrazione, ma come un lavoro — dal quale tuttavia sia svanita ogni fatica: leggere è far lavorare il nostro corpo (si sa, a partire dalla psicanalisi, che questo corpo travalica di molto la nostra memoria e la nostra coscienza) al richiamo dei segni del testo, di tutti i linguaggi che lo attraversano e che formano come la profondità cangiante delle frasi.

  Mi rappresento abbastanza bene la narrazione leggibile (quella che possiamo leggere senza dichiararla “illegibile”: chi non capisce Balzac?) come uno di quei manichini finemente ed elegantemente articolati di cui i pittori si servono (o si servivano) per imparare a “schizzare” le differenti posizioni del corpo umano; leggendo, anche noi diamo una certa posizione al testo, ed è per questo che esso è vivo; ma questa posizione, che è invenzione nostra, è possibile solo perché fra gli elementi del testo esiste un rapporto regolamentato, insomma una proporzione: io ho tentato di analizzare questa proporzione, di descrivere la disposizione topologica che conferisce alla lettura del testo classico, nel medesimo tempo, il suo decorso e la sua libertà.

 

 

  Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, a cura di R. Tiedmann, Torino, Giulio Einaudi editore, 1986 («I Millenni»), pp. XXII-1110.

 

 

  Giuliana Bertoni Del Guercio, «Le père Goriot», in Le roman français au XIXe siècle. I. Hugo, Stendhal, Balzac ... cit., pp. 165-286; 307-321.

 

  Honoré de Balzac (Tours 1799-Paris 1850), p. 166.

 

  De famille bourgeoise, décidé à faire fortune à Paris, Balzac effectue son premier apprentissage en littérature en écrivant, sous des pseudonymes et souvent en collaboration avec d’autres auteurs, des romans qu’il méprise lui en premier, inspirés du genre «noir» d’influence anglaise, au goût de l’époque. En 1829, Les Chouans, roman historique reconstruisant un épisode de la Révolution, est la première de ses œuvres signée de son vrai nom. Mais il est bientôt intéressé par l’analyse de la société de son temps, sur laquelle il accumule les expériences et les réflexions les plus variées: elle devient l’objet fondamental de sa production.

  En 1830 il publie la première série des Scènes de la vie privée, recueil de six épisodes où les personnages sont déjà situés dans des milieux précis, et où la description du milieu devient déjà une explication du caractère. Une seconde série des Scènes de la vie privée, où à la description s’ajoute l’action dramatique, sera publiée en 1832. Un foisonnement d’idées, de personnages, de situations commence à s’organiser sur deux plan, à travers des œuvres conçues en même temps: a) la description de la société dans ses aspects les plus divers, b) la réflexion sur les explications possibles de l’existence humaine, telle qu’elle est vécue dans la société. Ces deux aspects de la production de Balzac seront présents tour à tour ou simultanément dans tous ses romans, et sont à la base de la structure globale de La Comédie Humaine (titre général de l’œuvre de Balzac).

  En 1831 il publie La peau de chagrin, et en 1832 Louis Lambert (exemples se rapportant au deuxième type de production, de même que les deux séries des Scènes de la vie privée se réfèrent au premier).

  En 1833 Eugénie Grandet est reconnu comme un chef d’œuvre. Dans ce roman l’analyse des mœurs de la province s’associe à l’analyse d’un personnage en proie à une passion destructrice: c’est le premier exemple d’une organisation du roman selon un ‘statut’ qui tend à le faire sortir de l’état ‘flou’ où il se trouve. Mais c’est entre 1833 et 1834 qu’au cours de la composition du Père Goriot, à travers le «retour des personnages» (bon nombre d’entre lesquels déjà présents dans les Scènes de la vie privée et dans La peau de chagrin) Balzac a la révélation de la structure de La Comédie Humaine (titre qui n’apparaîtra qu’en 1842). En fait la plupart des 96 romans qui prendront place dans cet ensemble organique et grandiose, feront partie des romans du premier type, sous le titre d’Etudes des (sic) mœurs (divisées en sections: Scènes de la vie privée, Scènes de la vie de province, Scènes de la vie parisienne, Scènes de la vie militaire). Un nombre beaucoup plus réduit mais assez important, ira se placer sous le titre d’Etudes philosophiques, tandis que les Etudes analytiques, conçues dans le projet originaire, resteront sans développement.

  Victime lui-même d’une passion d’écrire qui joue chez lui le même rôle que les divers types de passion qui dévorent ses personnages, Balzac meurt de travail à 51 ans.

 

  Introduction.

  Balzac en 1835, pp. 167-171.

 

  Le père Goriot, publié d’abord en quatre livraisons dans la «Revue de Paris» de décembre 1834 à février 1835, sort en volume en mars 1835. A cette époque, Balzac est dans sa pleine maturité d’homme et d’écrivain, il a accompli son difficile apprentissage de provincial dans le monde parisien des lettres, où il a acquis une place reconnue malgré l’hostilité d’une certaine critique et, surtout après Eugénie Grandet, il est devenu romancier célèbre (la première édition du Père Goriot sera épuisée en quelques jours).

  Pour comprendre l’importance de ce roman, dans la production littéraire de Balzac et dans la culture de son temps, il faut néanmoins reconstruire dans ses grandes lignes l’itinéraire suivi par l’auteur vers une structure ‘totalisante’ de son univers de fiction par rapport à une vision ‘totalisante’ et unitaire de la réalité.

  Balzac commence à publier sous son nom en 1829 (il a trente ans; auparavant il avait employé plusieurs pseudonymes, pour des œuvres qui ne sont pas entrées dans La Comédie Humaine), avec un roman historique inspiré de la révolte de la Vendée sous la Terreur (Les chouans, premier titre Le dernier chouan). Mais il abandonne vite le roman historique, genre particulièrement cultivé par les romantiques français […], pour d’autres formes de narration, qui reflètent deux types d’analyse, souvent convergeant dans les mêmes œuvres avec une mise en évidence plus ou moins accentuée de l’une ou de l’autre.

  1. D’une part, l’analyse qui naît d’un énorme intérêt pour la structure de la société dans tous ses aspects, des plus voyants aux plus cachés, et qui s’exerce à l’intérieur des groupes, des familles, des couches différenciées (différenciées par milieu et par appartenance à un certain degré de l’échelle sociale). Cette analyse s’applique à une période historique (l’époque contemporaine) qui est ressentie par l’auteur comme une période inépuisable de transformations dans les mœurs, les sentiments, les attitudes psychologiques et sociales après les grandes secousses de la Révolution et de l’Empire.

  Des exemples de ce type d’analyse peuvent être donnés par: Physiologie du mariage (1829), étonnante étude du mariage en tant qu’institution bourgeoise vue surtout du côté de la femme; Scènes de la vie privée (1830), série de tableaux du monde contemporain, plongés dans les deux dimensions de la vie privée et de la situation politique et sociale, à travers un mélange de descriptions minutieuses et de commentaires de type moral; La femme de trente ans (1832): Eugénie Grandet (1834), dont nous parlerons plus loi.

  2. D’autre part, Balzac reprend la tradition du conte fantastique (illustre surtout par l’allemand Hoffmann et, en France par Nerval) mais lui impose un changement fondamental. Le fantastique est l’occasion d’une réflexion philosophique qui, à partir d’éléments mythiques et métaphysiques pénétrés dans la réalité quotidienne, analyse les conséquences dans la vie humaine de la passion, surtout quand elle prend les dimensions d’une recherche qui va au-delà des limites matérielles.

  Des exemples de ce type de production sont: La peau de chagrin (1829), mythe de la passion qui brulé la vie et évocation du monde brillant de la société mondaine de Paris qui encourage ce gaspillage de soi; Louis Lambert (1832), analyse de la violence destructive des forces intérieures quand, entrant en contact avec une dimension métaphysique illimitée (l’univers), elles désagrègent la structure extérieure, physique, du protagoniste; La recherche de l’absolu (1834), drame d’une obsession abstraite mais de type passionnel, qui grandit jusqu’à la destruction de tous les personnages.

  Ces deux filons de recherche ne sont pas séparés. Non seulement parce que les deux recherches sont menées de front (comme l’indiquent les dates de publication), mais surtout parce qu’ils trouveront leurs liens réciproques dans un pian solidement structuré, dont l’auteur aura d’abord l’intuition, ensuite la conscience accomplie. C’est justement en travaillant autour du Père Goriot que se présente à Balzac la révélation d’une construction organisée à divers niveaux, représentant une réalité totale où tout se tient, et dont la signification a plusieurs degrés de profondeur.

  En même temps que La recherche de l’absolu, Balzac écrivait Eugénie Grandet (1834). Ce roman, dont le succès fut immédiat, a contribué fortement à mettre au point la technique de construction du roman balzacien, et à rendre évidents quelques-uns de ses aspects fondamentaux. Tout d’abord, la technique de présentation du milieu où va se passer l’action, avec un procédé qui, d’une vue générale (la ville de Saumur), par un mouvement de rapprochement, conduit l’œil du lecteur à s’arrêter sur les lieux précis des événements, d’abord sur l’extérieur de la maison de Grandet, de sorte que, à l’apparition du personnage de Grandet, on possède déjà toute une série d’indices sur l’atmosphère physique et psychologique de l’histoire. Dans cette atmosphère le personnage plonge naturellement, comme son émanation et son élément de détermination, l’une et l’autre s’influençant mutuellement.

  La description du personnage, aussi minutieuse que la présentation du milieu, suit le même procédé: on va de l’extérieur à l’intérieur, à travers toute une série de détails qui de l’aspect physique et de l’habillement, des gestes et tons de la voix, conduisent aux traits du caractère et aux indices de la passion fondamentale, qui dirige les point de vue des rapports sociaux, elle aussi minutieusement reconstruite à travers les actes quotidiens aussi bien qu’à travers les renseignements (sur les origines de la richesse de Grandet, sa façon de conduire les affaires, les intrigues des grandes familles de Saumur autour de l’héritière Eugénie, etc.). C’est un aspect de la société contemporaine (la bourgeoisie de province et le processus d’accumulation des capitaux fondés sur la rente agricole) qui se révèle, en même temps, une étude de la passion obsédante (la jouissance physique de l’or, qui fait de l’avarice une émotion plutôt qu’une abstraction).

  Enfin, le jugement moral sur la force destructive des sentiments et des valeurs humaines de la part de cette passion, jugement qui perce dans la narration et qui situe le narrateur à l’intérieur de l’histoire, énonceur, acteur et juge en même temps.

  Ces aspects du roman balzacien trouvent dans Eugénie Grandet une réalisation parfaitement équilibrée et permettent de voir dans la production précédente les anticipations et les réalisations d’un modèle qui se répètera avec un grand nombre de variantes dans des situations différentes, contribuant peu à peu à définir le tableau général.

 

  Le tableau général: «La Comédie Humaine».

 

  En effet, c’est le tableau général ce dont Balzac a conscience à partir de 1834, quand il écrit à Mme Hanska (celle qu’il appelle l’étrangère et qu’il épousera quelques mois avant sa mort) une lettre où le plan de la Comédie Humaine (expression qui apparaîtra seulement en 1839) est exposé dans tous ses détails, avec le partage des romans présents et futurs en trois répartitions disposées dans un ordre hiérarchiquement significatif: 1) Etudes des mœurs (où «l’histoire du cœur humain sera tracée fil à fil», et «l’histoire sociale» sera «faite dans toutes ses parties»): 2) Etudes philosophiques (où seront révélées «les causes» dont les «mœurs» sont «les effets»); 3) Etudes analytiques (qui affronteront «les principes» sur lesquels se fonde la «pensée de l’auteur»).

  Et pourtant, l’élément fondamental de cette intuition n’est pas dans la tripartition (qu’il ne réussira pas à réaliser), mais dans la structure des Etudes des mœurs, où Balzac donne l’impression d’avoir effectivement réalisé l’ambition de représenter «tous les effets sociaux, sans que ni une situation de la vie, ni une physionomie, ni un caractère d’homme ou de femme, ni une manière de vivre, ni une profession, ni une zone sociale, ni un pays français, ni quoi que ce soit de l’enfance, de la vieillesse, de l’âge mûr, de la politique, de la justice, de la guerre, ait été oublié» (lettre à Mme Hanska).

  Un autre aspect donnera sa cohérence et sa valeur significative à la Comédie Humaine, et est présent d’une façon implicite dans tous les romans précédant Le père Goriot: c’est l’aspect idéologique qui sera à la base de la construction cyclique.

  C’est un aspect complexe, formé de plusieurs éléments.

  Nous avons parlé de l’intérêt qui conduit Balzac à analyser la société de son temps dans ses aspects extérieurs et intérieurs. Cette analyse part d’une évaluation morale qui se renforce à chaque roman. Les rapports qui s’établissent à l’intérieur de la société, sous la Restauration et encore plus sous la Monarchie de Juillet, apparaissent dominés par l’intérêt, l’avidité, l’hypocrisie, la cruauté. Les puissances reconnues comme ‘valeurs’, pour lesquelles on est disposé à toute dégradation et à toute compromission avec la conscience morale, sont l’argent et le pouvoir; le plaisir domine les actions et les comportements. Ce sont les lois de la société bourgeoise, qui, d’ailleurs, sont fondées, comme celles de la nature, sur une classification inexorable. De ce point de vue, la conception idéologique de Balzac apparaît influencée par le naturaliste Geoffroy Saint-Hilaire (à qui il dédie Le père Goriot), qui affirmait qu’il n’y a en nature qu’un seul «patron» sur lequel tous les êtres ont été créés, mais que l’influence du milieu a favorisé l’évolution des différentes espèces animales. Transférée de la nature à la société, cette conception permet à Balzac d’affirmer deux choses importantes: que le caractère unitaire de toutes les expressions de la vie rend possible soit l’effort pour créer un univers complet où tout est lié, soit les tentatives pour arriver à travers la pensée (force fondamentale) à réaliser le rapport avec l’univers; que tous les personnages de cet univers complet sont liés à leur milieu, dans un classement qui permet de les définir comme éléments typiques des différentes ‘espèces sociales’.

  Le tableau complexif de la société est noir et ne permet aucun espoir. Balzac renonce donc explicitement à l’utopie: toute nostalgie qui perce çà et là pour une société révolue, loin de représenter une marque idéologique et politique précise (type ‘ancien régime’), semble plutôt le rêve d’une vie plus simple et plus authentique, qui oppose aux «convulsions» de Paris le calme de la ‘province’ (et pourtant, Eugénie Grandet est là pour détruire cette illusion et la reléguer dans le halo suggestif des ‘souvenirs de famille’, idéalisation d’une situation difficile telle la famille de Rastignac, composée de personnages dépourvus de relief).

  Et pourtant, le jugement moral, la réaction indignée, l’appréciation pour les attitudes attribuées aux personnages est un fil qui accompagne et lie la narration dans tous les romans, les interrompant parfois, mais le plus souvent vivant à leur intérieur, comme une présence vitale. C’est la dimension du roman «populaire», commune aussi à Hugo (surtout dans Les misérables), fondée sur la manifestation directe de ses sentiments de la part du narrateur/auteur, typique des écrivains romantiques.

 

  «Le père Goriot» dans «La Comédie Humaine».

 

  Avec Le père Goriot apparaît pour la première fois d’une façon consciente l’instrument principal de la cohérence du plan global de La Comédie Humaine, cohérence qui permet la construction d’un monde complet, dont les segments ne meurent pas à la fin de chaque roman, mais continuent à vivre, s’insérant dans le tissu des rapports réciproques d’une foule de personnages agissant dans des situations différentes. C’est le ‘retour des personnages’ qui d’un roman à l’autre reprennent le fil de la structure de plus en plus articulée de l’œuvre œuvre globale. Dans Le père Goriot nous pouvons citer un grand nombre de personnages, essentiels ou secondaires par rapport à l’histoire, agissant dans la narration Rastignac, Mme de Béauséant, Mme de Langeais, le comte de Marsay, Maxime de Trailles, l’usurier Gobseck), et d’autres qui apparaîtront dans des romans successifs (le père Taillefer, Victorine Taillefer, le baron de Nucingen, Bianchon et surtout Vautrin), et dont l’importance sera plus ou moins grande dans chaque roman.

  Autre aspect du Père Goriot qui relie ce roman à la production précédente, et qui reste à l’arrière-plan de la Comédie Humaine: une présence métaphysique subtile et implicite, mais pour cela non moins perceptible, aussi perceptible que les sensations physiques transmises par les descriptions détaillées des milieux et des personnages. Quelques indices sont jetés dès le début (l’aspect sinistre du quartier où est située la pension Vauquer, la présence ambigüe du chat qui précède l’entrée de Mme Vauquer dans la salle à manger); mais ce sont surtout les fils mystérieux qui lient Vautrin è une puissance redoutable dont la nature reste longtemps cachée et jamais ouvertement explicitée, et autour de laquelle les destinées des autres personnages sont en quelque sorte mises en jeu.

  Cela montre le rapport qui existe entre un roman qui se veut ‘objectif’ dans la représentation du milieu, des personnages et de l’histoire (dans le sens que la ‘vraisemblance’ de la fiction par rapport à la vie réelle porte celle-là à faire ‘concurrence’ à la deuxième), et un fond métaphysique et idéologique qui ‘interprète’, conditionne et traduit la réalité dans un modèle qui suit ses propres règles.

  Mais l’élément fondamental (le plus lié au ‘personnage’ Balzac) en commun avec les autres grands romans de La Comédie Humaine est le caractère obsédant de la passion, force vitale mais destructive, qui conduit à l’abjection, même quand elle naît de l’un des sentiments les plus naturels et les plus nobles de l’homme, tel l’amour paternel (incarné par le protagoniste Goriot).

  Cette insistance sur l’étude de la passion, a-t-on dit, est une étude que Balzac conduit en réalité sur lui-même, première victime de son obsession d’écrire, qui l’a possédé jusqu’à l’épuisement, et l’a tué à 51 ans, après avoir écrit, en peu plus de vingt ans, presque une centaine d’œuvres.

 

 

  Réflexions sur «Le père Goriot», pp. 271-282.

 

  La structure de la narration.

 

  Le roman n’est pas divisé en chapitres. C’est un fleuve qui coule sans interruption, et dont Balzac n’a identifié que quatre parties, qui en réalisent la charpente non segmentée, mais structurée selon un plan aux grandes lignes. En partant des ‘lieux’ et des ‘milieux’ par rétrécissement et approfondissement, le centre de la narration se déplace peu à peu sur les personnages principaux (Rastignac, Vautrin, Goriot).

 

  1) La dimension temporelle.

 

  […]. Conclusion, pp. 273-274.

 

  Le rapport entre la dimension temporelle et la dimension physique (exprimée en ‘pages’) du roman, et le rapport entre la mise en place de la situation et l’action se correspondent, dans le sens qu’aux deux première parties de type ‘statique’ (ou apparaissant comme telles) correspondent une période de temps plus longue et un nombre de pages plus ample, tandis qu’aux deux autres parties fondées sur les ‘actions’ (surtout la troisième) correspondent des périodes plus brèves et un nombre de pages plus restreint, avec pourtant deux longues séquences de discours direct, qui font dilater le temps narratif.

  La grande quantité d’expressions de temps distribuées le long du roman permettent de fixer les étapes de la narration, malgré leur caractère assez flou (il est parfois difficile de déterminer l’identité de plusieurs «lendemain» et d’expressions telles que «deux jours après», «un soir»). Mais à une scansion temporelle à peu près objective correspond une dimension de ‘la durée’ narrative qui a des aspects plus ou moins éclatés ou restreints selon une logique qui est fondée sur le passage de l’intérieur vers l’extérieur des personnages et des événements. Cela produit différents niveaux de signification et de participation émotive et idéologique à l’univers de la fiction romanesque.

  Le temps et la durée apparaissent donc, bien qu’à l’intérieur d’une dimension limitée (moins de trois mois d’une année précise), des éléments qui ne suivent pas les règles conventionnelles de la vie réelle, mais celles qui sont dictées par le monde imaginaire de la narration.

 

  2) La dimension spatiale.

 

  L’action du Père Goriot se développe dans un espace clairement identifié, distribué dans trois quartiers de Paris: le Quartier Latin, la Chaussée d’Antin et le Faubourg Saint-Germain. Mais seulement le premier est décrit d’une façon détaillée. La présentation, du début du roman, des «rues serrées entre le dôme du Val-de-Grâce et le dôme du Panthéon», n’a pourtant pas une valeur descriptive. […].

  La description a une apparence d’objectivité qui la fait définir comme ‘réaliste’, c’est-à-dire apte à donner un ‘effet de réel’. Cela est certainement exact, car la capacité perceptive du lecteur est mise en mouvement, et qu’il ‘voit’ la pièce délabrée, ‘sent’ les odeurs qui émanent des objets, en ‘touche’ la matérialité crasseuse, ‘respire’ l’«air fétide» auquel Mme Vauquer est habituée. Mais toute cette évidence physique est en fonction d’une autre évidence, que le narrateur indique d’une façon explicite, quand il dit que «toute sa personne (de Mme Vauquer) explique la pension, comme la pension implique sa personne».

  Les sensations de dégoût transmises par cette description expliquent non seulement le caractère de Mme Vauquer, mais en même temps ceux de tous les personnages, l’abjection de Mlle Michonneau, la résignation douloureuse de Victorine Taillefer, l’indifférence obtuse de Goriot pour tout ce qui ne touche pas directement sa ‘passion’, et, surtout, la révolte et l’impatience ambitieuse de Rastignac. Seulement Vautrin semble ne pas être justifié, dans son attitude, par le milieu de la «pension bourgeoise» qu’il regarde avec supériorité, mais, justement, cette non-correspondance augmente l’intérêt pour le personnage, et donne un plus grand relief au mystère qui l’entoure et à la force qui émane de lui. Le dénouement de son itinéraire narratif donnera ensuite un sens précis à sa présence dans ce milieu.

  La salle à manger de la pension Vauquer, où se nouent tous les fils de la narration et où se déroulent les événements les plus importants du récit (scènes de présentation et de renseignement sur les faits et les ‘bruits’ extérieurs, scènes qui relient et qui délient les rapports, scènes-mères de l’action dramatique) est donc un lieu-signe, chargé de significations psychologiques, idéologiques, sociales et morales. C’est ici que Vautrin instruit Rastignac sur les dessous de la société, qu’il peut comparer misère et puissance et appuyer sur le bouton de l’ambition du jeune homme afin de réaliser sa propre révolte et exprimer l’ambigüité de ses sentiments. C’est ici que viennent aboutir les trahisons et les compromissions du petit et du grand monde, et qu’explose le contraste criard entre passion paternelle et égoïsme filial, à l’intérieur d’un contraste social également criard. Une seule misère semble unir les deux univers dans cette salle sordide.

  Les ‘beaux quartiers’ sont représentés par deux salons de la Chaussée d’Antin (ceux de la comtesse de Restaud et de la baronne de Nucingen) et par le salon de Mme de Beauséant, le représentant le plus brillant du Faubourg Saint-Germain. Ici la description est bien plus sobre et la structure de la composition différente de celle qui a été employée pour la pension Vauquer. Aucune description des quartiers, aucun mouvement de rapprochement. On part de la cour des hôtels (pour l’Hôtel de Nucingen, on ajoute quelques détails qui de la façade vont aux structures intérieures pour en mettre en relief la mièvrerie de mauvais goût), et on pénètre à l’intérieur, pour s’arrêter sur tout ce qui excite l’admiration et la convoitise de Rastignac. Dans le cas des salons, la description est étroitement liée à la narration, elle ne la précède pas. C’est à travers le regard d’Eugène et à travers ses émotions (exaltation, orgueil blessé, rage, espoir) qu’on découvre un milieu où règnent le luxe et l’aisance d’un code raffiné, indéchiffrable par les exclus, et dont la misère morale n’apparaît que par ‘éclairs’.

  Lié aux salons, le théâtre est l’autre espace où se développe une partie importante de l’action. Dans ce lieu public le monde des deux types de salons (celui de la Chaussée d’Antin et celui du Faubourg Saint-Germain) se trouvent en présence, dans un jeu de regards et de gestes qui va d’une loge à l’autre et qui, à l’intérieur des loges, mêle les cartes et échange des propos allusifs.

  Mais un espace bien plus grand, qui contient tous les autres, est donné par Paris, espace physique et symbolique qui ouvre et ferme le roman. Le cimetière du Père Lachaise est un lieu terminal, celui où se conclut l’itinéraire narratif du protagoniste à l’intérieur du récit, où se termine aussi l’«apprentissage» d’Eugène de Rastignac. En tant que tel, il a un relief évident. Mais c’est l’endroit où apparaît visiblement, comme un être vivant à dompter, le Paris qui, tour à tour, est apparu dans le roman comme une prostituée, un enfer et un lieu de délices. De là la narration semble repartir, espace ouvert et champs de bataille, lieu-signe par excellence.

 

  3) Les contenus de la narration.

 

  […]. Dimension sociale, dimension idéologique, étude de la passion sont les trois plans fondamentaux où s’articulent les contenus du Père Goriot, étroitement liés entre eux et formant un tout dans le tout de la Comédie Humaine. Ce roman en est un fragment, mais un fragment central de la grande fresque conçue et, enfin, presque totalement réalisée par Balzac, projet idéologique, avant même (et plus que) représentation réaliste de la société française de la Restauration et du Second Empire.

 

  4) Les personnages.

 

  Dans le cadre tracé, il y a des figures de grand relief et d’autres représentant en même temps une fonction et une instance narrative ayant la forme d’une destinée en train de se déterminer. […].

  Nous avons vu aussi que Rastignac remplit une fonction explicite dans la narration: c’est le personnage à travers lequel le narrateur permet au lecteur de passer d’un milieu à l’autre, d’entrer dans le secret des protagonistes du «drame» annoncé dès la première page. Grâce à son expérience directe et aux potins qu’il peut recueillir dans le salon de Mine de Beauséant, le drame nous est dévoilé dans tous ses aspects, et placé dans la logique du Paris mondain, dont l’apparence raffinée cache la brutalité la plus impitoyable. Rastignac est donc le porte-parole du narrateur, et il représente à la fois un regard et un personnage en action dont l’attitude provoque des déplacements dans le déroulement de la narration, surtout à cause de son rapport avec les femmes. Nous touchons là un élément central de la représentation sur les deux plans, social et humain, qui se joue autour de Goriot (le drame de la paternité). Dans son effort pour ‘parvenir’, Rastignac est bien résolu à utiliser les femmes comme moyen de réussite sociale. Mme de Beauséant, Mme de Restaud, et enfin Delphine de Nucingen, sont des pions, tour à tour envisagés, employés ou abandonnés, de son jeu. Dans ce système, encouragé de tous côtés par des conseillers expérimentés (Mme de Beauséant, Vautrin et même Goriot), prend place Victorine Taillefer, atout de Vautrin dans son pian à la fois criminel et passionnel. Les hésitations d’Eugène entre Delphine et Victorine sont donc le moteur de deux mouvements contradictoires chez Vautrin et chez Goriot, et provoquent des réactions externes et internes au conflit qui déchire Rastignac, en réalisant l’accélération de l’action (à laquelle se lie étroitement le dénouement de l’itinéraire de Vautrin). […].

  Les personnages féminins sont donc essentiels pour la détermination du cadre du Père Goriot; elles représentent des types humains assez caractérisés par leur rôle social, surtout Mme de Beauséant et les deux filles de Goriot. […].

  Vautrin est le personnage le plus complexe et le plus significatif du roman. La présentation que le narrateur fait de lui au début du roman donne une idée de force physique et de vitalité, appuyées sur une apparence de gaieté et de cordialité de ‘bon vivant’ qui contraste avec les habitués de la pension Vauquer. L’ambigüité du personnage est pourtant dévoilée dès le début par le narrateur, à travers des anticipations de jugement […] et est confirmée peu à peu, surtout grâce au rôle d’observateur attentif et de plus en plus ‘concerné’ de Rastignac. […].

  Vautrin, dont l’expérience, la force de caractère, l’esprit de révolte et la capacité de pénétrer les pensées et les conflits intérieurs de ses interlocuteurs le placent au-dessus du milieu où il vit, entretient des liens mystérieux avec un autre type d’Humanité […]: liens dangereux et puissants, entourés d’un mystère que le lecteur entrevoit sans le mettre complètement à jour. C’est surtout grâce à cette ambigüité du personnage de Vautrin – ambigüité sur plusieurs plans – que Le père Goriot entre dans la structure de La Comédie Humaine au niveau le plus profond. […].

  Goriot revêt essentiellement deux aspects contrastants qui éclairent le caractère obsédant et total de sa passion. Un aspect constant d’hébétude et d’idiotie qui fait de lui un vieillard incapable de réactions aux événements, indifférent aux drames qui éclatent autour de lui et à sa propre condition de misère et d’abrutissement; il ne réagit pas aux offenses et ne semble pas comprendre la fonction de souffre-douleur qu’on lui attribue à la pension Vauquer. Et pourtant, la seule évocation de deux noms dans une conversation qui le voit totalement absent le transforme complètement dans en être extrêmement réactif et ému. Cette transformation dans la première partie du roman se réalise par éclairs (confirmant donc toutes les hypothèses possibles), mais prend de plus en plus d’extension à partir du moment où Rastignac entre dans sa confidence. C’est un passage progressif d’une situation marginale du personnage à la place centrale de la narration, et de l’inertie au déchaînement passionnel culminant dans la longue agonie. Goriot est vu d’abord surtout à travers le regard ému de Rastignac, qui vit sa dernière expérience d’altruisme et de générosité; mais ensuite il est de plus en plus présenté à la première personne, s’exprimant directement dans ses propos, évoquant sa vie: le passé lointain, où ses filles «n’étaient qu’à lui»; le passé le plus proche, où il avait été dépossédé de leur présence; le présent de l’affreuse mort solitaire, sans aucun contact physique avec elles […]. Le personnage acquiert une grandeur qui finit par occuper tout l’espace narratif, s’inscrivant dans le mot «drame» avec lequel le roman avait commencé.

 

  Les formes de la narration, pp. 281-282.

 

  Dans Le père Goriot le pacte établi entre auteur et lecteur est imposé dès la première page, à travers l’appel ironique a quelqu’un qui «enfoncé dans un moelleux fauteuil» tient «ce livre d’une main blanche»; on s’adresse directement à ce ‘lecteur imaginaire’ […] lui disant quel type d’attente il doit avoir pour l’histoire qu’on va narrer (c’est «un drame» qui fera verser «quelques larmes»). Mais c’cst Balzac lui-même en tant qu’auteur implicite qui introduit son histoire par une affirmation qui détermine l’optique précise dans laquelle il faut affronter la lecture: «Ah! Sachez-le. Ce drame n’est ni une fiction ni un roman». Cette position initiale donne un caractère objectif à la représentation détaillée du milieu et des personnages qui occupe les premières pages. Néanmoins, […] au-dessous de cette apparence d’objectivité les liens entre les deux éléments de cette représentation milieu et personnages, mettent à nu d’une façon explicite une structure idéologique, un ‘plan’ narratif qui émane de la présence de l’auteur. A partir de là, les formes de narration se précisent. Tout d’abord, à travers une espèce de ‘dédoublement’ du caractère ‘omniscient’ du narrateur – un narrateur qui connaît tout de l’histoire et qui nous la décrit d’un point de vue externe au déroulement des faits. La présentation de Paris, de la pension Vauquer et de ses habitants semble se suivre selon ce type d’écriture, mais quant aux renseignements sur les antécédents de l’histoire, on nous donne seulement ce qui peut être connu par quelqu’un d’interne à la pension Vauquer (les antécédents explicités se réfèrent aux seuls événements qui concernent la pension Vauquer dans les dernières années de sa vie), comme si le narrateur se plaçait parmi les pensionnaires; ce procédé permet de maintenir le mystère sur le passe des personnages et d’avancer de simples hypothèses sur leurs vicissitudes précédentes (le lecteur est ‘mis’ dans la situation sans en avoir la clé). En plus au personnage de Rastignac est attribué le rôle de ‘deuxième’ narrateur, celui qui, à travers son expérience, nous renseignera sur ce qui se passe en dehors de la pension. […].

  Dans Le Père Goriot on ressent donc une présence de l’auteur qui a comme but la dissimulation du caractère ‘fictif du roman, la négation du roman comme fruit de l’imagination d’un auteur. En réalité, le point de vue principal reste toujours celui du narrateur, qui voit et représente la scène, renseigne sur les déplacements et les attitudes des personnages, suit Eugène dans ses expériences, décrit et commente ses réactions. Le discours indirect reste à la base de la narration, et est continuellement utilisé, même dans les passages où prévaut le discours direct (dialogues), à travers la représentation des modalités qui réalisent les actes de parole dans les dialogues (regards, tons de la voix, gestes, expressions du visage, rythmes, pauses, etc.). C’est le ‘point de vue’ externe qui garde la prééminence.

  Mais le discours direct joue un rôle particulièrement important dans ce roman. C’est au moment des repas à la pension Vauquer, ou dans les conversations des salons que l’action avance, s’arrête, se précipite. Et plusieurs discours de grande ampleur (Vautrin et Goriot, mais aussi Mme de Langeais et Delphine) donnent à la narration un caractère de ‘vie vécue’, soit du point de vue de la dimension temporelle, soit du point de vue des rapports qui s’établissent entre action et construction des personnages. Et d’ailleurs, le long délire de Goriot, interrompu seulement par des remarques de modalités et l’enregistrement des mouvements des assistants, est un élément-clé de la narration.

  Le discours intérieur caractérise surtout le personnage de Rastignac; cela est naturel, parce que Rastignac est le personnage dont la formation représente un des centres d’intérêt de la narration. A travers le discours intérieur, presque toujours dans sa forme ‘rapportée’ (avec la médiation du narrateur), apparaissent les contradictions morales de l’«apprentissage» à la vie mondaine qui donnent au narrateur (dans ce cas, plutôt auteur implicite) l’occasion d’exprimer ses réactions et ses commentaires destinés à susciter l’indignation du lecteur.

  Le lien auteur implicite/lecteur est d’ailleurs visible, bien qu’il soit dissimulé formellement à travers le mélange des plans (description, dialogue, action, commentaire implicite et explicite). Pour le saisir, il faut suivre un doublé itinéraire de lecture; a) d’abord analyser le roman dans ses aspects fondamentaux et dans sa progression linéaire; b) ensuite le considérer d’une manière complexive dans sa valeur de signe (valeur significative). La valeur de signe est définie idéologiquement par rapport au cadre sociale de référence du roman – présenté explicitement et/ou implicitement – et à la structure générale de la Comédie Humaine, telle que Balzac est en train d’élaborer au moment de la rédaction du Père Goriot, et dont le roman donne d’importants aperçus.

 

  Segue: “Le père Goriot” et son auteur dans l’iconographie, pp. 283-286.

 

 

  Andrea Calì, «Facino Cane» de Balzac: essai d’interprétation intratextuelle, in La narration et le sens. Études sur Barbey d'Aurevilly, Villiers de l’Isle-Adam, Maupassant et Balzac, Lecce, Milella, 1986 («Collana del Dipartimento di Lingue e letterature straniere dell'Università degli studi di Lecce», 10), pp. 131-154.

 

  Pour déchiffrer Facino Cane, la plupart des critiques ont choisi comme point de départ le prologue du conte, dont la nature éminemment référentielle-autobiographique, représenterait une garantie suffisante pour une «bonne» interprétation du texte tout entier. […]. Sur quoi repose cette volonté quasi unanime D’assigner une priorité herméneutique au prélude du récit, en oubliant presque totalement le reste du texte? […] D’entrée de jeu, nous voilà devant un problème capital dans le domaine de l’analyse littéraire et particulièrement important dans le contexte de Facino Cane, problème qui peut être ramené à la question que Roland Barthes se posait au moment d’approche de l’écrit : par où commencer? […].

  […] nous proposons de choisir comme point de départ la narration de Facino Cane, c’est-à-dire la dernière section de la nouvelle qui semble révéler, même si d’une façon énigmatique, l’origine et la cause de la cécité du protagoniste, de la perte de sa fortune, de son, pouvoir, de son nom, de son titre. […].

  La vie de Facino Cane est […] marquée par la folie d’un amour illicite. Ici, il importe surtout de constater que l’objet de désir n’est pas introduit par le nom propre, mais désigné par un embrayeur pronominal (« elle » Par conséquent, lorsque «Bianca» apparaît, quelques lignes plus loin, au niveau sémantique est renforcée l’idée déjà implicite, que la personne à laquelle «elle» et «Bianca» renvoient n’est qu’un simulacre de quelqu’un d’autre. Pareillement, le mari de Bianca n’est jamais nommé, mais il est appelé par le mot italien «sposo», un lexème générique qui ne qualifie guère le personnage dans les termes de sa propre identité, mais à partir de la position sociale et légale qu’il revêt par rapport à sa femme. Or, si le mari et l’épouse, dans cette relation à trois, son désignés en tant que remplaçants d’un autre couple (une hypothèse accréditée en plus par les italiques de elle et de sposo, qui soulignent ces deux signes comme appartenant à un code textuel particulier, à déchiffrer pour en saisir la signification), il est naturel de se demander de qui ils sont substituts. C’est la passion avouée du protagoniste pour l’or qui nous offre un premier indice révélateur […].

  […] l’objet-fétiche imbu de la faculté d’assurer l’existence de Facino Cane, vaut aussi comme un lien entre les deux personnages. En outre l’or, qui est — par sa nature même — le moyen d’échange et de circulation par excellence, substitutif de l’objet réel de désir en un système économique fondé sur le binôme demande-satisfaction, peut aussi remplacer autre chose.

  Par là, nous voulons avancer l’hypothèse que l’obsession du héros pour ce métal précieux (une véritable psychose dont il ne réussit pas lui-même à s’expliquer l’origine) est l’effet d’une substitution métonymique: l’or remplacerait quelque chose (ou quelqu’un) que Facino Cane ne peut (ou ne veut) pas reconnaître consciemment en tant qu’objet réel de son appétit, c’est-à-dire la figure maternelle. Non que le texte affirme ouvertement cette identification, qui doit donc être assumée uniquement comme une conjecture prudente; néanmoins, si l’on relit le premier événement du récit, on y découvre une structure qui pourrait corroborer notre interprétation. En fait, le lexème «Bianca» ne se borne pas à renforcer, sur le plan sémantique, le statut de son référent comme pur simulacre, mais il atteste également un lien, sur le pian descriptif, avec le mot «or», grâce au sème en commun. Une chaîne de signifiants commence à se détacher du texte: «Bianca» est rattachée sémantiquement, à «elle», «or» est associé descriptivement à «Bianca», « mère » est reliée métonymiquement à «or», «elle» remplace grammaticalement « mère ». C’est justement cette circulation qui nous permet de lire l’histoire de l’amour de Facino Cane pour une femme mariée comme un événement donc d’une intensité dramatique potentiellement beaucoup plus élevée; et c’est toujours cette structure circulaire qui nous autorise à imaginer un drame caché, où le véritable objet de la passion du héros est sa mère et où le «sposo», par extension, est son père. […].

  Il faut pourtant signaler que le désir, de la part de Facino Cane, de posséder l’objet d’amour (Bianca/mère) se doublé de la volonté, simultanée et contradictoire, de perdre cet objet et d’être puni de mort pour cette transgression […].

  Le récit, de Facino Cane devient progressivement l’histoire paradoxale d’un homme rendu plusieurs fois impuissant par sa propre soif de suprématie et de possession ; de ce thème se nourrit aussi le troisième épisode de la nouvelle mettant en scène le protagoniste qui, ayant perdu tout son or, revient secrètement à Venise pour y retrouver Bianca […].

  2. Si un drame de désir et d’interdiction, de possession et de perte est réitéré dans l’histoire de Facino Cane et si, comme on voudrait le suggérer, la répétition de cette scène constitue le récit tout entier, la forme de ce conflit est essentiellement identique à celle du complexe d’Oedipe. Or, l’identification de ce « triangle», à savoir d’une scène définie par une impulsion conflictuelle entre le désir de satisfaction et la peur d’une perte loin de résoudre l’énigme produite par le texte, nous permet de déplacer les termes de la question: qu’est-ce qui pousse Facino Cane à recréer ce qui constitue le drame primordial de sa propre mort?

  A ce propos, il est intéressant de remarquer que la narration du protagoniste se présente comme le compte rendu d’une série d’événements presque totalement dépourvu de dialogues, de citations, d’actes de parole de tout genre. Ce qui se passe est relaté à travers un échange de regards et chaque événement est décrit comme un jeu spectaculaire où l’acte d’observation, de la part du héros, coïncide avec son incapacité à comprendre ce qu’il regarde, alors que tout échange linguistique intersubjectif, propre à s’interposer dans les faits qu’il expérimente, est complètement absent. Ce qui arrive est déterminé uniquement du point de vue de Facino Cane, à partir de la position spécifique et constante qu’il a dans la scène triangulaire: c’est de là qu’il observe les autres et qu’il est observé par autrui. Cette primauté de la vision sur le langage est très importante pour comprendre l’origine du «désir de répétition» de la part du héros. […].

  L’absence quasi totale d’actes de parole dans la narration de la vie de Facino Cane semble, par conséquent, indiquer qu’il n’était pas «dans le langage », en tant qu’acteur de cette expérience dramatique. Autrement dit, la suite des répétitions de la scène primitive constituant l’histoire de l’existence du héros pourrait être un effet de son incapacité à se rappeler quelque chose ou, mieux, de sa volonté de l’oublier. […].

  Le drame existentiel de Facino Cane, repris maintes fois, débute par un acte de possession et se termine par l’effroi du démembrement physique, de la mort, de la perte de l’intégrité de soi en tant que sujet; pareillement, la possession répétée d’autrui, de la part du narrateur, coïncide avec la perte de sa totalité, avec un morcellement métaphorique qui scinde son identité, en le rapprochant de la mort […].

  Si l’histoire de la vie du héros est constituée par la réapparition altérée d’une scène inoubliable de son passé, la réitération incontrôlée de cette histoire signifie nécessairement que le narrateur ne réussit pas, lui non plus, à oublier quelque chose, sans doute le même drame liminaire qui hante le protagoniste.

  Cette identité hypothétique de l’objet de désir chez les deux acteurs semble être renforcée lorsque le narrateur, se trouvant en présence de trois musiciens, se sent particulièrement attiré par Facino Cane […].

  Structuré comme un abîme infini de réitérations dont les dénouements constituent les commencements et dont les incipit forment d’autres conclusions, le texte ne commence ni ne s’achève jamais vraiment. D’ailleurs, les deux actants eux-mêmes font allusion à cette structuré «en abyme» en se décrivant comme les personnages du même texte littéraire — les Mille et une Nuits —, dont chaque épisode est enchâssé dans la section finale de l’épisode précédent […]. :

  Le cadre de référence que le narrateur reconnait finalement comme l’incipit réel de son histoire est donc étrange, indéfinissable, non localisable: c’est un encadrement qui, par définition, n’a pas de limites, ne possède aucun dedans ou dehors identifiables, aucun début ni aucune fin repérables.

  Le narrateur et Facino Cane sont, donc pris au piège dans la structure abyssale du texte, une forme qui ne se borne pas à subvertir l'antinomie commencement/conclusion, mais qui met en doute la légitimité de tout autre binôme oppositif, apparemment établi par la narration. […].



  Monica Maria Campesi, Vautrin: il grande criminale e la criminalità urbana nella prima metà dell'ottocento. Tesi di laurea. Relatore: prof.ssa Tiziana Goruppi, Università degli Studi di Pisa, 1986.

 

 

  Vito Carofiglio, Il “grand jeu” in Balzac, «Lectures», Bari, 18/1, 1986, pp. 217-230.

 

  1. Son diverse, per numero e qualità, le opere balzacchiane dove il tema delle carte divinatorie, è affrontato in modo non secondario, e talvolta anche narrativamente determinante, nella Comédie humaine. Di esse, Les comédiens sans le savoir, La Rabouilleuse e Le Cousin Pons meritano attenzione. Tali opere si possono leggere, è ovvio, ciascuna separatamente e ciascuna in un sistema di riferimenti; in questo secondo caso, il tema appare rilevante per molti riguardi; l’enunciazione narrativa esplode, o decade, in enunciazione filosofica e antropologica. Più in generale, il trattamento del tema «magico» nella super-realistica (o super-visionaria, come si vorrà) Comédie humaine non è uno qualunque, se esso fonda e crea le «Etudes philosophiques», e di queste in particolare il romanzo Sur Catherine de Médicis, dedicato alla speculazione filosofica (o ciarlatana) dell’alchimia e delle scienze occulte. Qui sarebbe troppo pesante l’intento di costituire un quadro organico e unitario di un sistema di pensiero e rappresentazione del tema «magico». Del resto, mi è già accaduto di mostrare il percorso zig-zagante della «rêverie» — ovvero della potente costruzione — balzacchiana, in uno studio pubblicato proprio nel n. 1 di «Lectures» (maggio 1979). Di tale lavoro riprenderò, qui adeguandola ex novo, l’attenzione pronunciata per il romanzo che è l’ultimo scritto da Balzac, Le Cousin Pons, densa opera e diabolica, ove si scatena una, non così altrove reperibile, pessimistica immaginazione di vicende «mostruose», date per mimetiche della realtà parigina durante la apoteosi e il declino della Monarchia di Luglio.

2. Un diavolo d'artista, Pons, musicista, povero in canna ma ricchissimo di una collezione d’arte d’ogni genere lentamente costruita nella sua vita, e sua vera unica passione, è fatto preda di rapaci mostri che l’assalgono da ogni dove, da ogni strato sociale: il motto politico «enrichissez-vous!», che ha dinamizzato la società, universalmente invasa dalla febbre borghese, sembra ormai divenuto diabolico. Gli affetti familiari, il rispetto sociale, la solidarietà nella malattia, sono stravolti, calpestati. Una macchina terribile anima gli individui, e tutti sembrano «genialmente» portati ad arricchirsi, perfino le portiere. Per l’appunto, una portiera «geniale» (in Balzac, come diceva Baudelaire, perfino le portiere appaiono «geniali»), madame Cibot, che guarda e serve la casa di Pons, ci si vuole mettere pure lei, nell’opera di spoliazione. Che farà? Per decidersi, vorrà consultare un’indovina, una cartomante.

  Balzac avanza coi dovuti riguardi, facendo precedere la scena della consultazione da un capitolo non equivoco [...], intitolato

 

Traité des sciences occultes.

 

  Il discorso storico che sostiene il «Traité» introduttivo dell’«histoire» dell’indovina Fontaine, la regina delle indovine balzacchiane, è l’ampliamento delle parti storico-teoriche omologhe del romanzo Sur Catherine de Médicis (la parte che interessa specificatamente, «La Confidence des Ruggieri», è del 1836). Ma fra quest’opera e il Cousin Pons (che è del 1847) ci sono la Rabouilleuse (1842) e poi Les Comédiens sans le savoir (1845). Nella Rabouilleuse, c’è una donna dedita al gioco del lotto: è madame Descoings. Si badi ai giochi fonetici simbolici o occulti: Descoings non è tanto da Des-coings, che vorrebbe dire Delle-cotogne, bensì — piuttosto — da Des-coins, cioè Dei-conii e degli angoli speciali di carte (entrerebbe così nel campo semantico di moneta e in quello di carte da gioco).

  La Descoings:

  La Descoings se tirait les cartes, s’expliquait ses rêves et appliquait les règles de la cabale à ses mises.

  Cioè, semplicemente, applicava le regole note in Italia come quelle della Smorfia napoletana, per giocarsi i sogni con numeri al lotto. La Descoings taceva tutto da sé: sognava e, oniromante, interpretava i suoi sogni; inoltre, cartomante, si tirava le carte e le leggeva; quindi, aritinomante, ne ricavava numeri cabalistici por la lotteria. Arriva la vincita fortunata per le sue «speranze magiche»? Sì, ma qui poco importa quando.

  La Cibot, nella sua epoca, al gioco del lotto non può giocare, perché tale gioco è stato soppresso. Come fare a coltivare sogni di fortuna alimentati socialmente e politicamente? Si può, infatti, fermare la Ruota della Fortuna senza provocare turbamenti nella direzione delle speranze?

  Ebbene, la ricchezza per la Cibot è là, al piano di sopra — e il suo detentore è un uomo ormai mezzo abbattuto dalle perfidie familiari. La Cibot vuol sapere se un giorno potrà diventare una «bourgeoise». Sapere come? Il gioco del futuro è piuttosto nelle mani e nella visione dell’indovina — madame Fontaine è la santa dell’abisso, sempre disponibile al «petit-jeu», ma anche, benché più raramente, al «grand jeu», al «gioco» totale. I protocolli preliminari sono nel discorso d’autore: l’arte divinatoria (l’«astrologie judiciaire») è ormai in declino nella sua qualità di «scienza» posta ai vertici della speculazione e della società; ormai ne sono detentori individui grossolani, che pur tuttavia hanno doni mirabili: essi appartengono alle classi popolari, e ricevono consultanti di ogni classe sociale, anche uomini politici e uomini d’arme. [...].

  In effetti, entra in moto un sottosistema del miracolo, oleato dalla parola della Fontaine e sostenuto dal discorso teorico-trattatistico-referenziale: uno e biduo è il miracolo immediato, la resurrezione della vita pregressa e la prescienza di una vita a delinquere secondo il senso dell’oroscopo. La magia della Fontaine è nella sua scienza del futuro, in quanto «sorcière», o, più nobilmente, in quanto operatrice dell’«astrologie judicière», altrimenti detta divinazione, per mezzo e contezza di carte.

  Al «grand jeu», dunque. È la richiesta fatta dalla Cibot alla Fontaine.

  Innanzitutto la scena fisica. La topica è quella nota, o riconoscibile come tipica.

  Una specie di antro della sibilla, in pieno cuore di Parigi antica e popolare, al Marais, con arredi e strumenti del mestiere divinatorio, rappresenta, in urbana ed eloquente fissità, il potenziale dell’ultravisione. Distintamente, la vecchia è una megera (e, classicamente, una Parca). Suoi soli compagni animati, depositari di spirito (maligno, ovviamente), sono un rospo d’enorme grandezza e una gallina nera vecchia di anni e arruffata. Essi hanno nome: Astaroth, lui, Cleopatra, lei (esso/essa). [...].

  Che accade? Gli occhi «intelligenti» (così è detto) del rospo ispirano medianicamente l’indovina, e i movimenti dell’animale fra le carte esposte (o disposte) sul tavolo tracceranno il senso della lettura delle stesse. Caduta in transe, con voce cavernosa e gli occhi rovesciati, madame Fontaine andrà oltre la lettera (i segni) delle carte e coglierà lo spirito oracolare: le è di sostegno un vecchio libro magico, «un grimoire».

  A differenza del «petit jeu», che si limita alla lettura mantica delle carte (senza ricorso a stravolgimenti medianici), il «grand jeu», presuppone due condizioni di comunicazione: il contatto con le forze oscure, profonde, infernali, dell’uomo, e il contatto col libro scritto, che di esse è come il codice (o la Bibbia «nera»). [...].

 

 

  Pietro Caruso, Chi era Luis (sic) Lambert il «genio precoce» raccontato da Honoré de Balzac?, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Roma, Anno 90, n. 8, 10 gennaio 1986, p. 9.

 

  Il genio precoce. Il sosia dello scrittore, a proposito di un romando di Honoré de Balzac.

 

  Qualcosa di insopportabile promana dall’uomo geniale. Ma la sensibilità letteraria e l’efficacia dello stile di Honoré de Balzac ci consegna nel semisconosciuto romanzo «Luis Lambert» alcuni tratti memorabili dell’«enfant prodige», di un genio precocissimo. E’ veramente esistito Louis Lambert che nel breve romanzo di Balzac appare fin dalle prime pagine come un eroe trascurato solo dalla ignavia e dalla superficialità dei suoi tempi? Forse Louis è il «doppio», per usare un termine psicanalitico di Honoré; forse è più banalmente l’emergere di un ricordo dell’adolescenza e di una trasfigurata profonda amicizia giovanile. Pubblicato nella collana tascabili della SugarCo, questo romanzo è anzitutto uno dei risultati prodotti dalla incollatura di molti frammenti dell’esperienza culturale di Balzac che fu poliedrica, aperta a tutte le novità che in cinquanta anni sconvolsero la Francia e l’Europa fino alla metà del secolo scorso. «Louis Lambert» è anche la descrizione realistica della condizione educativa dei giovani in quel tempo; di quelli che attraverso la vita dei collegi e dei noviziati avrebbero poi ricoperto i posti di responsabilità. Quanta tristezza, miseria materiale e morale nell’autoritarismo pedagogico che talvolta è dei maestri laici non meno di taluni istitutori religiosi. Se il giovane Torless conobbe l’asprezza e il rigore del collegio prussiano strutturato secondo logiche militaristiche Louis Lambert ed il suo amico fecero diretta conoscenza del collegio di Vendôme con le distinzioni di età e di ceto Minimi, Piccoli, Medi e Grandi. «Tutto portava l’impronta monastica. Ricordo, tra gli altri vestigi dell’antico istituto, l’ispezione che subivamo tutte le domeniche. Eravamo in alta uniforme, allineati come soldati, in attesa dei due direttori, che, seguiti dai provveditori e dai maestri, ci esaminavano sotto il triplice aspetto del vestiario, dell’igiene e della morale».

  Il romanzo racconta che Louis Lambert fu individuato da Madame de Staël e che ella stessa si facesse influenzare così favorevolmente da quel giovane genio da concedere la sua benevolenza per consentire al suo «Mosè salvato dalle acque» di entrare a fare parte del collegio di Vendôme ... ma può un animo precocemente fiorito al sole pallido della cultura reggere gli urti e le intemperie della ignoranza? Al collegio di Vendôme dunque le amare inquietudini di Lambert e del suo «doppio» Honoré sembrano riempire con qualcosa di eroico gli squallidi stanzoni dove si condensava la vita dei ragazzi nello studio e nutriti della coatta vita di gruppo. Non mancava il precettore munito di verga per punire le intemperanze dei fanciulli ... in una Francia che aveva cancellato Rousseau e le sue teorie educative ancor prima delle innovazioni della «rivoluzione dei cittadini». [...].

  Il fascino della mistica, dell’immaginario e del fantastico mostra come il «doppio» di Honoré, Lambert, sia intriso nella poetica di Balzac ... comincia a delineare la sensibilità con la quale il «doppio» entra a pieno titolo nella letteratura moderna dove irrazionale ed epico danno luogo ad una versione mitica dell’Inconscio.

 

 

  Raffaele de Cesare, La prima fortuna di Balzac in Italia (1830-1850). I. (1830-1836), «Aevum», Milano, Anno LX, fascicolo III, settembre-dicembre 1986, pp. 506-612.

 

  Fitta e agguerrita è la schiera dei critici che, dalla fine del secolo scorso ad oggi, si è accinta ad esaminare i rapporti fra Balzac e l’Italia in tutti i vari aspetti che la rete complessa di tali rapporti propone e impone agli studiosi.

  La cultura italiana di Balzac e la presenza dell’Italia nella Comédie humaine, le esperienze biografiche e intellettuali connesse ai numerosi viaggi lungo la Penisola, alle amicizie e alle conoscenze transalpine del romanziere; l’accoglienza fatta dal pubblico italiano all’opera balzacchiana nel corso di oltre un secolo e mezzo e le risonanze d’ogni genere che i soggiorni dello scrittore hanno avute fra noi, sono stati tutti argomenti che la critica, al di qua e al di là delle Alpi, ha sottoposto al vaglio di una indagine, più o meno accurata e minuziosa, lungo molti decenni e attraverso numerosi contributi eruditi. [...].

  Dalle indicazioni bibliografiche [...] segnalate sembrerebbe che questo campo di lavoro sia stato ampiamente dissodato e che poco rimanga ancora da scoprire in una ricerca i cui caratteri hanno l’aria di essere ormai definiti e la cui visione d’assieme, almeno ad un primo colpo d’occhio, appare chiara nelle linee generali che la compongono.

  Eppure, a ben guardare, le cose non stanno esattamente così. E, come spesso accade davanti a problemi che solo apparentemente sembrano risolti, molto resta ancora da fare e da scoprire. In via d’esempio, notevole è ancora il materiale archivistico, edito e inedito, che può essere catalogato, utilizzato o posto in miglior luce; ancor più cospicua la messe che può essere raccolta da uno spoglio sistematico della stampa periodica italiana cui è tuttora indispensabile procedere prima di poter dire avviato alla sua conclusione lo studio del balzacchismo italiano. E non vogliamo parlare, beninteso, del bilancio complessivo dell’accoglienza italiana al romanziere francese dal 1830 ad oggi, lungo, cioè, tutto l’arco temporale occupato da tale accoglienza (argomento vastissimo alla cui compiuta trattazione non basterà forse una fatica di alcuni decenni o di una intera schiera di ricercatori); pensiamo solo alle conclusioni che possono emergere da una inchiesta su quella ventina d’anni che separa il primo accenno all’opera balzacchiana registrabile in Italia dall’ultimo necrologio apparso alla morte del romanziere francese: in una parola, dal 1830 al 1850. Non più di una ventina d’anni che sembrerebbero già coperti dalle ricerche del Gigli e che sono invece tutti ancora da precisare nelle loro fittissime articolazioni.

  A colmare questa ultima lacuna, il presente lavoro vorrebbe disegnare un quadro – il più possibile esauriente – della fortuna cisalpina di Balzac: di tutto ciò che i suoi contemporanei italiani hanno dello o scritto in qualsiasi sede e in qualsiasi occasione, pubblica o privata, a proposito della personalità umana e intellettuale del romanziere; vorrebbe redigere, insomma, quel repertorio, preciso e circostanziato in ogni sua voce, della diffusione della Comédie humaine fino alla morte del suo illustre autore.

  L’ambizione – che ora si è dichiarata – di presentare tale quadro è quella di tratteggiarlo in lutti i suoi particolari, anche minimi e apparentemente trascurabili, nella molteplice varietà delle sue sfumature. Ma avvertiamo subito i lettori che non ci facciamo alcuna illusione sulla perfetta riuscita di tale proposito.

  La raccolta delle fonti – per quanto iniziata da noi già da una cinquantina d’anni e continuata senza grandi interruzioni fino ad oggi – è ancora largamente incompleta: molti epistolari e diari e memorie di scrittori italiani fra il 1830 e il 1850 ci sono rimasti sconosciuti; molte cronache e opere letterarie di questo stesso ventennio ci sono sfuggite; ben lontano dall’essere concluso è infine il lavoro di spoglio della stampa periodica italiana in questo stesso periodo: dal Lombardo Veneto alle Due Sicilie, dal Regno di Sardegna agli Stati del Papa.

  Ma, come ho già detto in altre occasioni, ricerche siffatte hanno la completezza solo come una meta ideale e irraggiungibile. E, ad un certo momento della vita – soprattutto allorché le ombre della sera cominciano a scendere – è necessario rischiare ogni accusa di lacunosità e di incompiutezza pur di presentare ciò che si è fatto: ammannare, per così dire, la messe come si è onestamente raccolta e rimettersi al giudizio del pubblico, anche se la propria coscienza di studiosi ci assicura che la provvista, ancora frammentaria, potrebbe rivelarsi più copiosa con la paziente attesa di molti altri lunghi anni. Ma questi anni saranno poi concessi nell’incerto destino della nostra esistenza? Nel dubbio del futuro e nel tormento dell’opera incompiuta, tanto vale offrire umilmente il frutto delle proprie fatiche qualunque esso sia. Altri, più tardi, e meglio, aggiungeranno nuovi dati, completeranno gli esistenti. A noi, in ultima analisi, basterà aver additato il tracciato di una strada e aver cominciato a percorrerlo.

  Il materiale che qui presentiamo è stato organizzato secondo un criterio strettamente cronologico.

  Questo criterio – di applicazione automatica per ogni documento datato e per i giornali (ma già per le riviste, talora uscite in ritardo sulla loro scadenza periodica, esso pone qualche problema ...) — non è scrupolosamente attuabile per le opere librarie, la cui data di pubblicazione rimane spesso incerta nel giorno e nel mese, e, meno che mai, per quelle testimonianze inedite, sprovviste di indicazione precisa i cui termini di redazione possono oscillare da un anno all’altro.

  Tuttavia esso è il criterio che ci è sembrato il più legittimo per ricostruire la storia di una fortuna letteraria, ed è questo che – ripetiamo – abbiamo cercato di praticare con il maggior rigore e non senza laboriose verifiche di cui non è il caso di parlare (esse sono ben note ad ogni studioso). Nei casi, peraltro, in cui non è stato assolutamente possibile determinare la data precisa del documento ne abbiamo registrata la citazione o al termine dell’anno a cui appartiene o al termine del periodo in cui è circoscrivibile.

  Per ragioni di ordine e di chiarezza, abbiamo comunque ritenuto opportuno, nell’àmbito di ciascuno di questi venti anni, di disporre, quando necessario, talune suddivisioni interne che possono essere così schematizzate.

  All’inizio d’ogni anno, abbiamo riservato una prima sezione, a se stante, (a), alle edizioni in francese dei testi balzacchiani allestite in Italia. Una seconda sezione, (b), è stata dedicata alle traduzioni. Una terza, (c), alle rappresentazioni delle opere teatrali di Balzac (quelle degli adattamenti e dei rifacimenti teatrali dei romanzi, dovuti a commediografi francesi – il più delle volte mediocri e singolarmente indipendenti dall’originale narrativo che prendevano ad imitare – non hanno trovato posto nella bibliografia. Infine, l’ultima sezione, (d), appartiene ai saggi, alle recensioni e ai riferimenti critici; alle allusioni e alle citazioni estratte da lettere, diari, memorie e da ogni altro tipo di documento emerso nel corso della ricerca.

  Ogni voce della nostra bibliografia critica, quale che sia la sezione alla quale appartiene, è corredata di tutte le referenze tipografiche che ci è stato dato di rintracciare. L’assenza del numero dell’annata o del fascicolo, dell’indicazione delle pagine o d’ogni altro riferimento non è imputabile a noi (salvo casi che saranno indicati di volta in volta) ma solo alla mancanza di questi stessi dati nei periodici o negli altri documenti registrati.

  La bibliografia che segue è stata concepita nella maniera più estensiva possibile. In altre parole, abbiamo abbondato nella citazione dei testi e, molto spesso, li abbiamo riprodotti integralmente anche se essi erano di dimensioni molto ampie e anche se essi erano stati precedentemente trascritti in altri studi e ricerche. Il lettore giudicherà forse eccessiva tale preoccupazione di dare estratti così lunghi o trascrizioni complete di articoli e di notizie, magari già noti. E, forse, avrà ragione. Ma il nostro intento è stato anche quello di offrire qui, nella sua interezza testuale, l’insieme del materiale che ci è accaduto di raccogliere. Se tale proposito potrà lasciare qualche perplessità sotto la prospettiva scientifica, non ci sembra essere dubbio che otterrà il consenso per la sua utilità pratica, la nostra raccolta venendo a costituire così un vero e proprio corpus balzacchiano destinato a fornire un più agevole strumento di lavoro.

 

 

  Raffaele de Cesare, Le «Père Goriot» et ses premiers lecteurs italiens (1835-1837), «L’Année balzacienne», Paris, Presses Universitaires de France, Nouvelle série, n. 7, 1986, pp. 225-235.

 

  L’accueil du public italien au Père Goriot, au cours des cent cinquante années qui nous séparent de la première publication de l’œuvre, a été si imposant qu’il serait tout à fait impossible d’en retracer convenablement les traits dans une communication telle que celle-ci. Des éditions du texte français, une vingtaine de traductions, plusieurs essais critiques, des centaines d’articles, des milliers d’appréciations, de citations plus ou moins détaillées ou de simples renvois parus dans les revues et les journaux italiens, de 1835 à aujourd’hui, témoignent largement de la densité et de la persistance d’un intérêt intellectuel si vaste et si varié qu’un examen d’ensemble, aussi sommaire soit-il, ne saurait se concevoir dans les limites qui nous sont imparties ici.

  Il est donc nécessaire de choisir, entre les phases différentes qui constituent et qui précisent la fortune italienne du Père Goriot, une période particulière, qui, tout en présentant une certaine unité, soit susceptible d’être étudiée d’une façon satisfaisante dans le cadre restreint de cet exposé. Je choisis celle qui me paraît se caractériser par une portée historique majeure, et j’attirerai votre attention sur l’accueil qui a été réservé au roman par ses premiers lecteurs transalpins, entre 1835 et 1837. La première date, qui, comme tout le monde le sait, est celle de la parution du roman, s’impose d’elle-même; quant à la seconde, sans marquer d’une manière aussi précise un moment fondamental dans l’histoire de la diffusion italienne du Père Goriot, elle n’est pas arbitraire et correspond à peu près à un tournant du succès du roman au-delà des Alpes, qui n’est pas sans importance.

  C’est à partir de 1838, en effet, que les adaptations dramatiques du Père Goriot, jouées en français ou dans des traductions italiennes, envahissent littéralement les scènes des théâtres de la Péninsule, de Milan, de Venise, de Trieste, de Gênes, de Rome, de Naples et même des petites villes de province.

  Ces représentations ne font, bien sûr, qu’accroitre la résonance du Père Goriot auprès du grand public italien, mais elles défigurent à tel point les caractères du roman — parfaitement méconnaissable dans ces atroces remaniements — qu’on est amené à se demander s’il s’agit d’une résonance «balzacienne» ou d’autre chose. En d’autres mots, les revues et les journaux italiens qui rendent compte de ces spectacles et qui jugent l’agencement de l’action ou les exploits des acteurs, s’occupent bien plus des étranges solutions dramatiques créées par Théaulon, Decomberousse et Jaime, ou par Ancelot et Paulin (dont la pièce a toutefois laissé beaucoup moins de traces en Italie) que de l’œuvre authentique de Balzac qui, parfois, de l’aveu même des rédacteurs de ces comptes rendus, est complètement ignorée.

  C’est ainsi que la vogue de ces adaptations, qui explose vers 1838 dans tous les théâtres d’Italie, et qui va durer pendant une dizaine d’années, grosso modo jusqu’en 1847, et, d’autre part, un certain revirement de la critique pour le roman en lui-même, noyé, pour ainsi dire, dans la vague des romans ultérieurs de Balzac, sévèrement jugé ou carrément oublié, concourent à fixer, autour de 1838, le début d’une deuxième étape dans le développement de la fortune du Père Goriot.

  L’ensemble des caractères de cette nouvelle phase déterminant, ainsi qu’on vient de le dire, une coupure suffisamment nette avec la période précédente, peut justifier, je crois, mon propos d’aujourd’hui de circonscrire la rapide enquête qui va suivre autour des années 1835-1837.

  Le Père Goriot avait à peine paru en librairie, dans la première édition de Werdet (le 2 mars 1835), que la voix d'un écrivain italien se faisait déjà entendre pour faire, d’un ton ferme et enthousiaste, les plus hauts éloges du roman.

  C’est la voix de Giovanni Ruffini, un jeune patriote génois que la participation à une conjuration contre le gouvernement piémontais et la menace d’une condamnation capitale avaient obligé, dès 1833, à se sauver en Suisse. De Berne, le 30 mars 1835, il écrit à Gênes, à sa mère (qui venait de lui envoyer une considérable somme d’argent) les lignes suivantes:

  «Va voir chez Gravier [un libraire de Gênes] s’il n’y a pas dans son cabinet Le Père Goriot par Balzac. Je viens de le lire et il faut que tu le lises. C’est l’idolâtrie d’un père pour ses filles ingrates, qui lui sucent goutte à goutte le sang, c’est une espèce de Lear bourgeois, l’idéalisation la plus sublime de l’amour paternel. J’en veux à Balzac de n’avoir pas choisi l’idéalisation de l’amour maternel, bien autrement puissant et délicat. J’aurais pu lui fournir, à ce propos, un type, si l’on pouvait exprimer ce que le cœur sent. Au reste, tu peux lire, en toute sûreté, ce qui est de Balzac. Il surprend la nature sur le fait, il est prestigieux de vérité».

  L’invitation à la lecture du Père Goriot devient, pour ainsi dire, publique dans les pages d’une des plus importantes revues milanaises, le Ricoglitore Italiano e Straniero, ce même 30 mars 1835. Voici ce qu’un collaborateur anonyme de la revue écrit dans la rubrique des «Notizie letterarie epilogate»:

  «Ce roman parut d’abord dans quelques numéros de la Revue de Paris. Nous ne pouvons le louer en tout, car il y a des parties qui ne le méritent pas à cause de l’excessive prolixité et de quelques autres défauts propres à l’auteur. Il faut, cependant, considérer cette nouvelle production comme une superbe et sévère leçon pour les parents qui sont aveuglés par l’amour de leurs enfants et pour les enfants qui s’en montrent ingrats».

  Moins d’un mois après ce jugement, qui demeure encore passablement vague et superficiel, le 25 avril 1835, un rédacteur littéraire du Figaro, journal milanais de littérature, beaux-arts, critique et spectacles, qui signe B. (et qu’on peut identifier comme étant Giacinto Battaglia) publie dans ce périodique un premier compte rendu, plus détaillé et précis, du roman.

  Après avoir esquissé un résumé essentiel du récit, il fait allusion aux reproches d’immoralité que la critique française a adressés à l’auteur, coupable d’avoir peint avec des teintes outrées, l’«impudeur et l’audace du vice» de la société parisienne. De son côté, à ce blâme d’ordre moral, il ajoute (mais là aussi se faisant l’écho des critiques français) celui, plus littéraire, d’une tendance trop poussée aux descriptions minutieuses qui retardent le développement de l’action et en atténuent parfois l’intensité. Mais, ces réserves avancées, le journaliste italien tient aussi à souligner l’«ampleur» du tableau créé par Balzac, «éclairé — dit-il — de tout le prestige des plus riches beautés poétiques», dramatisé par cet amour paternel qui est le sentiment le plus haut du cœur humain.

  La minutie des descriptions reprochée à Balzac par Battaglia devient, au contraire, un sujet d'admiration pour Giuseppe Sacchi, qui, en mai 1835, rédige une annonce du Père Goriot dans l’Indicatore Lombardo, autre important recueil littéraire paraissant à Milan: «Le Père Goriot», écrit-il, « est le dernier ouvrage enfanté par le très fécond génie de Balzac. Il a voulu peindre les frénésies de l’amour paternel ainsi que le fit jadis Victor Hugo dans le Triboulet du Roi s’amuse». Après quelques remarques sur l’agencement de l’action du roman, telle est sa conclusion: «Ce tableau de la vie parisienne contemporaine est traité comme une peinture flamande. Balzac, en ceci, est peintre et grand peintre».

  Le même Ricoglitore Italiano e Straniero qui, le premier, a annoncé aux lecteurs italiens la parution du Père Goriot, le 30 mars 1835, consacre au roman balzacien, quelques mois plus tard, en août 1835, un compte rendu très long, très circonstancié, et dithyrambique jusqu’à l’emphase. Signé Luigi B-a (abréviation d’un nom que je n’ai pas pu reconnaître), il occupe cinq pages d’une composition serrée et, du commencement à la fin, il ne tarit pas d’éloges sur le roman. Dominé par un sentiment «gigantesque» de la paternité et par les manifestations de l’ingratitude la plus révoltante, frémissant de vérité et d’humanité, paré des «magnificences de la prose descriptive», Le Père Goriot est en effet, pour L. B.-a, un authentique chef-d’œuvre digne d’un grand écrivain.

  Il est naturellement impossible de citer cet article dans sa totalité, mais je voudrais au moins en traduire ici quelques passages qu’on lit au début. Ils montrent, mieux que tout commentaire, le degré d’admiration du critique italien vis-à- vis de l’ouvrage balzacien:

  «Le sentiment qui prévaut dans ce roman, d’une manière gigantesque, est l’amour paternel; un amour paternel, toutefois, si dévorant, ardent, extraordinaire, qu’il pourrait être jugé, par quelques lecteurs au caractère sévère et indomptable, comme un témoignage de faiblesse morale, et, par d’autres, au tempérament mou et lymphatique, comme féroce et délirant.

  Mais, quelque jugement qu’on puisse porter sur la nature de ce sentiment, il n’est pas moins vrai que les superbes qualités littéraires et les vues murales répandues un peu partout, font de cette œuvre d’observation, d’analyse, rigoureusement structurée, un excellent livre de récréation pour l’esprit, hautement instructif. Seul, M. de Balzac sait joindre intimement et concilier la morale avec le drame sans presque laisser entrevoir l’intention qui s’y cache et sans ennuyer ni refroidir le lecteur avec des capucinades qui sont toujours très stériles d’effets».

  Si les témoignages de la presse italienne que nous avons énumérés jusqu’ici nous confirment l’accueil très favorable rencontré par Le Père Goriot chez les hommes de lettres italiens, d’autres faits attestent que le roman a joui aussi, en Italie, d’un succès qui dépasse de beaucoup les limites d’une audience purement critique et qui, sans trop forcer le mot atteint une véritable popularité.

  Dès décembre 1835, à quelques jours de distance l’une de l’autre, paraissent à Milan deux traductions différentes du roman. Celle qui est annoncée la première par la «Bibliografia Italiana», sous le titre de Scene della vita parigina. Papà Goriot, et qui est publiée par l’éditeur Gaspare Truffi dans sa collection des «Romanzi e curiosità storiche di tutte le nazioni» (troisième série, vol. 40 et 41), appartient à un traducteur anonyme, n’a pas de préface et a été réalisée d’après l’édition originale […].

  La deuxième, sous le titre Papà Goriot. Scena parigina pubblicata da Balzac, est éditée (avant le 23 décembre) par le libraire Pirotta dans la collection des «Romanzi storici e d’altro genere de’ più celebri scrittori moderni ...» (deuxième série, vol. 4 et 5). Elle est due à L. M. (initiales de Luigi Masieri, traducteur professionnel assez connu dans ces années), et est également établie d’après l’édition originale. Elle s’ouvre sur une préface de l’éditeur italien (rédigée peut-être par le même Masieri) où, à la suite de quelques considérations générales — d’ailleurs assez confuses — sur Iles tendances dominantes du roman contemporain vers l’analyse psychologique et l’anatomie morale, on reconnaît à Balzac une admirable puissance d’observation et de pénétration, bien qu’elle soit parfois poussée à ses conséquences extrêmes et, je cite, «transcendantales». Le Père Goriot n’est pas, peut-être, entièrement exempt de ce défaut ; mais, déclare en conclusion l’auteur de la préface, il est tellement riche de beautés littéraires qu’il mérite d’être présenté au public italien auprès duquel le plus grand succès lui sera certainement assuré.

  A vrai dire, aucune de ces deux traductions ne saurait satisfaire un lecteur d’aujourd’hui. A titres divers, elles sont toutes deux franchement médiocres. La traduction anonyme est l’œuvre d’un homme qui travaille à la tâche et qui, sans bâcler tout à fait son travail, l’accomplit sans entrain ni intelligence. En général, il traduit le texte français mot à mot sans élégance, sans finesse et, souvent, non sans erreurs ni méprises ni lacunes. La version de Masieri est, au contraire, celle d’un traducteur qui se piqué d’être un homme de lettres et qui se croit par conséquent autorisé à intervenir sur le texte, le modifiant à son bon plaisir, tantôt atténuant, tantôt forçant l’expression balzacienne. De plus, il alourdit le style de Balzac, si naturel, si immédiat, si vrai dans la description des intérieurs, dans les réactions des personnages, dans l’agencement de la péripétie, par un langage boursouflé, prétentieux, désuet. Masieri non plus n’évite pas, de temps en temps, les fautes ou les contresens et, de surcroît, ne se fait aucun scrupule d’éliminer des passages qu’il juge irréligieux, indécents ou trop risqués, susceptibles d’alarmer la censure autrichienne toujours en éveil, ou la pudeur de ses lecteurs.

  La parution de ces deux traductions — quelle que soit leur valeur à laquelle nous venons de faire allusion — ne fait, naturellement, que relancer l’intérêt pour Le Père Goriot et en accroître la diffusion aussi bien dans les principales villes des Etats italiens (où elles sont mises en vente à grand renfort d’annonces publicitaires) qu’à Milan même. Désormais, ce sont ces deux traductions qui amènent, sans distinction, les grands journaux quotidiens de la Péninsule ou les hebdomadaires de variétés littéraires, de spectacles et de modes, à grand tirage, à s’occuper du roman.

  Le 13 février 1836, c’est le tour de l’austère Gazzetta privilegiata di Milano, feuille officielle du Royaume Lombard-Vénitien, qui, par la plume d’un collaborateur littéraire, Defendente Sacchi, rend compte de la traduction anonyme publiée par l’éditeur Truffi. Dans un style quelque peu pâteux, mais rehaussé par une admiration réelle et chaleureuse pour Balzac, il définit le romancier comme

  «le chef le plus puissant de la nouvelle école littéraire française, qui se propose de peindre la vie intérieure de l’homme et qui, non seulement retrace les actions et les événements de la vie, mais sonde les caractères, pénètre dans le cœur humain et découvre, par une fine analyse, l’origine des sentiments et des passions».

  Il proclame, de surcroît, que Le Père Goriot est l’un des plus beaux romans de Balzac; et il clôt son compte rendu sur ce jugement non moins exalté que formel: «Balzac est le plus grand connaisseur du cœur humain».

  Deux jours après, le son de cloche solennel de la Gazzetta privilegiata di Milano se double de celui, plus discret mais non moins admiratif, du Corriere delle Dame, recueil milanais de modes et de variétés littéraires, moins frivole, pourtant, que son titre ne le dit. Un rédacteur anonyme, en signalant la traduction du Père Goriot faite par Masieri et éditée par Pirotta, deux mois auparavant, tient à affirmer, dès le début de son compte rendu, que le roman est un «beau livre», et que Balzac s’y montre comme «l’un des plus heureux peintres de mœurs de notre siècle, l’un de ces rares génies à qui il est donné d’interroger le cœur des hommes et de lui faire parler le langage de la vérité».

  Dépourvu de toute bienveillance est au contraire le ton dont se sert Nicola Corcia pour signaler Le Père Goriot aux lecteurs du Royaume des Deux-Siciles. Dans un long article sur les «Progressi della stampa in Francia. Anno 1835», imprimé dans le recueil napolitain Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti en novembre-décembre 1836, le journaliste ne voit en effet dans Le Père Goriot qu’«un roman d’une réalité commune». Ce qu’il y a d’amusant toutefois en ceci, c’est que cette définition négative n'appartient pas à Corcia, mais qu'elle a été reprise, à la lettre, d’un article français de la Revue des Deux Mondes (avril 1836) signé A.C.T. (André Cochut, peut-être).

  Nous retrouvons les louanges — et des louanges presque outrées — en remontant la Péninsule pour revenir à Milan, quelques mois plus tard. Toujours dans cette Gazzetta privilegiata di Milano qui s’est déjà distinguée dans le concert d’éloges décernés au Père Goriot, le 23 avril 1837, Antonio Piazza (un journaliste très à la page à Milan, entre 1830 et 1840) arrive à déclarer, contre tout patriotisme d’antichambre, qu’«une traduction du Père Goriot vaut mieux, pour le plaisir de la lecture, que le texte original d’un poème italien que personne n’achèterait même par ordre de son confesseur, et que personne ne lirait même si on lui en faisait cadeau!».

  Un écho — plus réservé mais non moins réel de cet engouement pour le roman balzacien — se fait encore entendre en fin d’année 1837, dans les pages du long essai qu’Ignazio Cantù consacre au romancier français et publie dans le Ricoglitore Italiano e Straniero de novembre-décembre 1837. Dans un contexte qui n’est pas partout indulgent vis-à-vis de Balzac et qui, au contraire, lui est nettement hostile à plus d’un endroit, il ne peut pas se passer de juger très favorablement Le Père Goriot. Après en avoir donné un résumé attentif et détaillé qui occupe quelques pages, il souligne la «tragique beauté» de la scène de la mort de Goriot, regrettant que l’étendue du passage l’empêche de le reproduire intégralement.

  Quelques mots pour conclure ce rapide exposé. Suivant les données enregistrées jusqu’ici, il est donc possible d'affirmer qu’entre 1835 et 1837, Le Père Goriot a fixé fortement l’attention des lecteurs italiens : une attention passionnée, se nourrissant d’une ferveur qu’il n’est pas exagéré d'appeler enthousiaste, et qui, tout en se propageant un peu partout en Italie, se montre particulièrement intense à Milan. Ici — dira en mars 1838 un collaborateur de la Gazzetta privilegiata di Milano en employant une image assez insolite — «ce roman, soit dans le texte français soit dans les traductions italiennes qu’on en a faites, a parcouru, de porte en porte, la ville entière». Toujours à Milan, dans la presse périodique de 1837 et de 1838, il n’est pas rare de rencontrer, pour désigner Balzac, la périphrase «l’auteur du Père Goriot» remplaçant le cliché, jadis bien plus répandu (et dont le romancier s’est tellement plaint ...) du «père d’Eugénie Grandet».

  Tout le monde se souvient de la page initiale du Père Goriot où Balzac se demandait si son «histoire dramatique», si typiquement parisienne, pourrait être, sinon appréciée, tout au moins comprise au-delà des barrières de la capitale. Le succès immédiat et presque unanime — du moins jusqu’à 1838 — du Père Goriot auprès du public italien contemporain, si étranger aux mœurs privées de Paris et à ses mystères, ne constitue-t-il pas la meilleure réponse — et la plus catégorique — à la question que Balzac, plus ou moins sérieusement, se posait?

 

 

  Jean-Jacques Chevallier, Honoré de Balzac (1799-1850), ossia l'ambiguità della «Comédie humaine», in Storia del pensiero politico. III: Un’epoca di transizione (1789-1848), a cura di C. Galli, Bologna, Società editrice Il Mulino, 1986 («Le vie della civiltà», 7/III), pp. 123-124.

 

 

  L’avant-propos; Balzac e Bonald, Ibid., pp. 125-129.

 

 

  Potere, Ibid., pp. 129-133.

 

 

  Società, Ibid., pp. 133-136.

 

 

  Lucio Chiavarelli, Ah denaro, denaro cosa non si fa per te, «Corriere di Firenze. La Città», Firenze, Anno II, 23 marzo 1986.

 

  [...]. Oltre il realismo dell’osservazione sociale, oltre l’idea fondamentale dello stretto rapporto tra uomini e l’ambiente in cui vivono, c’è nei grandi personaggi di Balzac (e non v’è dubbio che Mercadet sia tra questi) una zona d’ombra, una potenza oscura che li domina (e che è, come ci ha mostrato Ernest Curtius, la componente fondamentale della ‘Commedia umana’). La modernità senza tramonti di Balzac è anche in questa componente diabolica, non vistosa si badi, ma proprio per questo motivo incancellabile. Ed è questo il motivo per cui i personaggi di Balzac (non le sue commedie, purtroppo) riescono a fondere quasi, sempre psicologia e passione, quei rapidi slanci del cuore e quelle incancellabili impronte d’una predestinazione negativa a cui non ci si può sottrarre.

  Questa componente che definirei come ‘quietamente diabolica’ è stata intuita e spesso ben resa dall’interpretazione di Vittorio Caprioli. È la novità più importante, è la giustificazione di questa nuova edizione d’un testo che aveva già avuto in Tino Buazzelli (e ancor più in Antonio Gandusio, che sarebbe bene ricordare anche nella dedica del programma) interpreti forse superiori agli stessi creatori del ruolo in Francia.

  Caprioli mi ricorda per la finezza e l’abilità del tratteggio certe livide incisioni del Daumier, in cui la contrapposizione ombra-luce avviene per paziente, minutissimo accumulo di particolari. [...].

 

 

  Bianca Maria Covezzi, “L’Enfant maudit” de Balzac. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue e letterature straniere, 1986.

 

 

  Lucien Dällenbach, La lettura come sutura. Problemi della ricezione del testo frammentario: Balzac e Simon. Traduzione dal francese di Paola Ciccolella, in AA.VV., Saggi sull’estetica della ricezione ... cit., pp. 87-99[2].

 

  [...] Ora se ogni testo, necessariamente, comporta i suoi buchi da riempire, è certo che il loro numero e la loro complessità differiscono secondo i casi, rendendo più o meno agevole — automatica o problematica — l’attività di giuntura. Per dimostrarlo senza stare a ripetere le ricerche sulle quali mi baso e che sarò peraltro condotto ad interrogare al termine delle mie analisi, mi è sembrato sensato esaminare, nel mio rapporto alla lettura, lo statuto del frammentario in Balzac e in Claude Simon. Se la scelta del romanzo simoniano, in questa ottica, non ha bisogno di legittimazione, non si può dire altrettanto per il riferimento a Balzac che, in questo contesto, può sorprendere. Per giustificarlo brevemente, mi basterà richiamarvi alla memoria l’episodio de La Muse du département sul quale mi soffermerò.

  Nel salotto dell’eroina (Dinah per gli intimi, per gli altri Madame de Bandrave), una ventina di ospiti si trovano riuniti in onore di due Parigini in provincia: Lousteau il giornalista e il dottor Bianchon. Arriva il postino, che porta a Lousteau poche pagine, in bozze, di un mediocre romanzo nero pubblicato sotto l’Impero: Olympia ou Les Vengeances Romaines. A questo punto si improvvisa un gioco di società simile all’indovinello, e che, da ludico, diventa serio: esso consiste nel ricostruire nella sua integralità il romanzo a partire da ciò che ne resta: le qualche pagine spaiate lette ad alta voce da Lousteau e commentate dai due Parigini, che si impongono naturalmente come animatori del gioco. Ciò significa che l’interesse dell’episodio risiede, da una parte nel contrappunto ironico che si instaura tra una costante (il testo in brandelli di Olympia oggettivato dalla sua tipografia) e, dall’altra, nella tematizzazione di una lettura che riesce a ricomporre i frammenti – a legare il testo e a renderlo intelligibile – eliminando a poco a poco tutti i fattori di illeggibilità.

  Per quanto poco ci si interroghi sui procedimenti che, all’occorrenza, hanno permesso di passare dal discontinuo al continuo, dalla mancanza alla pienezza, dai ruderi di un edificio all’armonia di un monumento restaurato, si può constatare che, ben lungi dall’operare alla cieca, il lavoro di ricomposizione è andato avanti grazie a diverse conoscenze che l’hanno informato sottobanco e, in qualche modo, “istruito” nella sua avanzata. Nel novero di queste conoscenze, menzionerei oltre alla competenza linguistica di cui dispone in teoria il ricettore,

  a) una memoria del testo, che specula sulle sue ridondanze per costruire un campo semantico unificato;

  b) una memoria dei testi che, a seconda che si specifichi come conoscenza della sintassi narrativa, conoscenza dei testi convocati dal testo, conoscenza del suo stile, del suo genere, e dunque del contratto di lettura che sottoscrive, permette rispettivamente di derivare a partire dal nucleo della grande frase narrativa (Soggetto-Predicato) una tematizzazione, una qualificazione, delle funzioni e dei “circostanti”, di scoprire un ordine delle parti secondo il tipo di legame a priori che è quello della dispositio, e inoltre di chiarire il testo a partire dal suo intertesto, di situarlo secondo il criterio del livello stilistico, di omologarlo ad altri testi facendolo entrare in una classe e ricollocandolo in una cornice istituzionale — in breve, di riportare lo sconosciuto al conosciuto, sacrificando in anticipo quello che questo sconosciuto potrebbe avere di unico ed irriducibile;

  c) una memoria del testo della cultura, che permette di trarre beneficio da una determinata caratteristica dell’opera (ricorso a un certo tipo di illustrazione, traccia di un certo tipo di censura) per situarla storicamente c localizzare il suo autore.

  Nella misura in cui esse fanno assegnamento su di un già letto per ridurre l’indeterminazione e colmare le lacune del testo, queste diverse memorie appaiono come altrettanti codici di decifrazione (décodage) indispensabili al lavoro di ricostruzione. Si osserverà che i codici, oltre a collaborare o a darsi il cambio per puntellare la lettura — poiché quest’ultima salta su un altro piano di articolazione non appena viene bloccata a tale o talaltro livello – danno luogo qui ad una serie di induzioni e deduzioni che obbediscono in maniera assolutamente esemplare ai due fondamenti della poetica balzacchiana: la legge di causalità e il principio di analogia. La prima, secondo cui “tutto si deduce, tutto viene concatenato. La causa fa indovinare un effetto, come ogni effetto permette di risalire a una causa” [...], può essere invocata a piacere per mettere in correlazione grandezze di ogni natura e inferire o derivare un elemento a partire da un altro. La seconda, secondo cui “tutto è in tutto, ciò che significa: tutto nella natura è analogia”, permette, in ogni circostanza, di ravvicinare elementi disparati, di speculare sui loro legami di parentela, e di concepire ogni unità significante, non come un’entità discreta, ma come indice o sintomo d’altra cosa — da cui il grande uso dell’estrapolazione, che domina di diritto e di fatto la struttura simbolica del segno balzacchiano. Nello stesso modo in cui in Balzac vedere è sempre vedere più e altra cosa di ciò che si vede, leggere, secondo la stessa logica, è sempre percepire una profondità invisibile sotto una superficie visibile. In altre parole: ciò che autorizza Lousteau ed il suo accolito Bianchon a dirigere la lettura, è un sapere e un savoir faire che dipendono dalla loro padronanza dei codici e dal loro talento ermeneutico. In effetti solo la loro competenza a riconoscere i segni (tecnica) e a costituirli in sintomi (intuizione, dono della seconda vista) permette loro di rilegare le membra disjecta del testo, di ordinarle, di suturare le loro falle — in pratica, di mutare una realtà frammentaria in una totalità significante. Partecipando alla stessa episteme della biologia nascente, la lettura, secondo Balzac, si rivela strutturata sul modello della semeiotica medica. Bianchon è un buon lettore, innanzitutto e reciprocamente, perché è un buon medico. Quanto a Lousteau, è prima di tutto alle sue qualità di uomo di lettere [...] e di “fabbricatore” di testi, che egli deve il suo ruolo di iniziatore. Coniugando tecnica e nosografia, scienza e arte, la lettura è fondamentalmente una diagnosi. Come si può leggere nella versione pre-originale del nostro episodio: “Bisogna aver meditato sul corpo di questa opera sconosciuta per comprenderne i brandelli; bisogna essere anatomista per divertirsi in un cimitero!” [...].

  Resta il fatto che i fruitori presenti non leggono e non legano tutti come Lousteau e Bianchon. Benché conosca anche lei i codici, l’eroina ha un’altra trovata ancora per unificare il corpo spezzettato del testo: lo allucina. Poiché la forza del desiderio in lei prende il sopravvento sul già letto della memoria, lei riesce a riempire i buchi più rapidamente e in modo più massiccio di chiunque altro [...].

  Ciò che permette alla “storia di andare avanti” per Dinah e che dopo tutto la “fa andare avanti”, è che Dinah ha riempito i buchi riversandovisi, li ha investiti, nel senso analitico del termine, ed è caduta nella trappola dell’identificazione, che lei stessa ha tramato. Il progresso di questo movimento identificatorio si tradisce nell’impeto e nel trascinamento (emportement) sempre più rapido di una lettura sempre meno critica. Se Dinah reclama il seguito con sollecitudine crescente, e perché nella sua lettura non incontra più resistenze in altre parole il testo frammentario, per lei, è diventato trasparente, chiaro — e inesistente come testo.

  Ora, se il clivaggio manifestato fra una lettura distanziata (quella di Lousteau e di Bianchon) e una lettura identificatoria (quella di Dinah) sembra attestare se non un rapporto di esclusione, almeno una concorrenza fra ciò che informa l’una e l’altra (e cioè la padronanza dei codici e la sottomissione all’immaginario), è interessante notare che, nel nostro episodio, la lettura fantasmatica non sembra contraddire la lettura illuminata né darle man forte quando la memoria dei codici viene meno, ma, piuttosto, compierla dopo essersi appoggiata su di essa. Il Romanzesco oblige, si dirà. E’ possibile. Ma quello che bisogna anche vedere, è che i codici possono servire qui come aiutanti dell’immaginario, perché sia l’una che l’altra lettura, in un certo senso, si effettuano alla maniera della riscoperta, in quanto il testo mette tutto in opera perché il suo rapporto al lettore abbia luogo su uno sfondo di familiarità. E’ sintomatico, a questo proposito, che il testo si presenti come uno stereotipo del genere (un testo parodico è per sua definizione un testo ipercodificato) e che metta in scena un cliché: il famoso triangolo marito-donna-amante. Già letto, già visto, se non già vissuto... il testo e la vita quotidiana si ri-specchiano c possono passare l’uno nell’altra senza soluzione di continuità, fantasmi compresi. Ma a queste considerazioni di ordine generico e tematico se ne può aggiungere un’altra, che le corrobora al livello che ci interessa qui in modo più particolare: si tratta del fatto che i buchi del testo lacunoso, anche se ostacolano un po’ la lettura, non la mettono mai in questione in quanto attività cumulativa e integratrice. A mano a mano che i vuoti si colmano gli uni dopo gli altri, le isotopie possono costruirsi, gerarchizzarsi e sussumersi in una unità di senso superiore, senza che l’equivalente ideale o rappresentativo di una sequenza ne venga minimamente danneggiato. Anche se esse si costituiscono per salti, l’omogeneizzazione e la totalizzazione del senso non si vedono mai seriamente intaccate. Ora è risaputo: una lettura che non conosce vere e proprie soste e le cui attese sono sempre soddisfatte finisce necessariamente, secondo la “legge dell’eccetera” individuata da Gombrich [L’art et l’illusion], per procedere a ruota libera e suscitare l’illusione di realtà.

  Operando a mia volta una falsa rottura, mi chiederò adesso cosa ne è dei buchi ne La Comédie Humaine. Nella misura in cui il romanzo dell’Impero non è ancora il romanzo di Balzac, la questione dei vuoti si pone allo stesso modo nell’uno e nell’altro testo? Ed essa si pone di fatto per il testo balzacchiano?

  Sul problema di sapere se il nostro episodio possa essere letto riflessivamente come un apologo della lettura che Balzac sottoscriverebbe senza riserve — perché questa è la questione che si impone —, la risposta mi sembrerebbe variare in funzione del termine di paragone al quale lo si rapporta. Se quest’ultimo è La Comédie Humaine presa nel suo insieme, il suo carattere di totalità frammentaria è stato già abbastanza sottolineato dalla critica e da Balzac stesso perché sia necessario insistervi. Sappiamo che per il romanziere, ogni romanzo del ciclo costituisce “solo un capitolo del grande romanzo della società” [...] e che ai suoi occhi, la sua opera consiste tanto nella composizione dei “bianchi” che li fa giocare fra loro, quanto nella scrittura dei romanzi stessi considerati isolatamente. Sappiamo anche fino a che punto questo modo di strutturazione continuo e discontinuo al tempo stesso — ma forse non è stato detto sufficientemente che il processo di ritorno dei personaggi è un principio di legame che implica la rottura — rafforzi l’illusione di realtà. Dunque non ritornerò su questo punto.

  In compenso, se si prende come termine di riferimento La muse du département o un altro romanzo di Balzac, non ci si potrà non accorgere che, ben lungi dal lasciare questo compito al suo lettore, l’autore ha legato il suo testo come lo facevano Lousteau e Bianchon: riempiendo i vuoti della storia con un discorso esplicativo che serve da cemento interstiziale e la cui armatura è fornita ancora qui da quelle due chiavi ermeneutiche — o piuttosto da quei due passe-partout — che sono la legge di causalità e il principio di analogia. Da qui a concludere che Lousteau e Bianchon, che fanno coppia, sono più un autoritratto di Balzac in quanto scrittore, che un’immagine del lettore di Balzac, c’è solo un passo che la celebre “ode a Cuvier” de La Peau de Chagrin ci invita a compiere; se Cuvier è “il più grande poeta del secolo” [...] vuol dire evidentemente che egli ha saputo ricostruire, a partire da un fossile, la forma intera di una specie scomparsa — che ha ricostituito un mondo a partire da una traccia.

  Ora se l’ambizione di Balzac, come quella di Cuvier, è di servirsi del modello analogico per ricostruire gli anelli che mancano alla catena e comporre, a partire dai residui, un testo senza resto, la lettura di tale testo non può che porre problemi. Se è vero che l’effettuazione immaginaria, il legame e il piacere del testo sono funzioni dei suoi vuoti, non ne deriverebbe che quanto più un testo colma le sue brecce, tanto più esso indebolisce la sua struttura di richiamo e perde di interesse? Ammesso il fatto che il testo balzacchiano abbia un tale orrore del vuoto (o un tale desiderio di completezza) che otturi tutti i suoi punti di fuga e si dia già legato e già interpretato al lettore, non dobbiamo dedurne che il testo dovrebbe sfuggirgli di mano? Una tale conclusione, è chiaro, conduce ad una impasse. Per uscirne, il miglior ricorso è ancora quello di supporre che, a dispetto delle apparenze, il testo debba comportare sempre dei buchi da qualche parte, poiché tale è lo scotto che ogni testo deve pagare e questo è ciò che insegna la legge del simbolico.

  Al livello dell’enunciato, si pensi alle conseguenze della tecnica di taglio del romanzo a puntate e alla struttura di preparazione-dramma, che accrescono sospensione e suspense; si evocherà ugualmente la tensione tipicamente balzacchiana fra concreto e astratto, caso singolo e legge generale. Al livello dell’enunciazione, si evidenzieranno le contraddizioni di un narratore a cui accade di “tagliarsi” e — Leerstelle questa volta irriducibile, anche se Balzac ha una teoria per tutto — il segreto di una scrittura per la quale non c’è metalinguaggio.

  Ora avviene che, come lo rivelano queste rapide indicazioni, 1) il testo balzacchiano non è senza falle e 2) la compiutezza balzacchiana è un mito destinato precisamente a nascondere queste mancanze; quindi siamo naturalmente portati a interrogarci sulle condizioni di funzionamento di questa mistificazione e sulle incidenze del suo funzionamento (o del suo non-funzionamento) sulla lettura.

  Per il lettore contemporaneo di Balzac, è evidente che la pretesa di compiutezza sostenuta da La Comédie Humaine poteva soltanto essere tutta apparenza, nella misura in cui essa veniva sostenuta da un’altra pretesa totalitaria, quella avanzata dall’ideologia in vigore. Essendo proprio dell’ideologia di non avere apparenze, poiché la sua funzione è appunto quella di mascherare i difetti del sistema (sistemi del sapere inclusi), è inconcepibile che una lettura non conforme si sia potuta trovare alla portata di un lettore assoggettato alle stesse istanze epistemiche e ideologiche che governano il testo balzacchiano: poiché la concordanza fra le due pretese si è realizzata, l’efficacia del mito non poteva che essere totale — il che vuol dire che il lettore colmava automaticamente i vuoti senza accorgersi della loro esistenza. Ma qualora una “uscita” fuori da questa cornice di referenza si rivelasse possibile e, allo stesso tempo, la concordanza si trovasse messa in crisi, lo sguardo esterno puntato dal lettore su La Comédie Humaine, non avrebbe l’effetto di distruggere il mito, di metter in luce le falle esistenti, di scavarne altre e, per questa ragione, di dare impulso ad un’altra lettura?

  Ovviamente sono costretto a rinunciare a dire in questa sede, cosa questa lettura potrebbe essere. Ma dal momento che la continuità del senso è riconosciuta come finzione, si intuisce che essa rischia molto di ricondurre il testo balzacchiano ai suoi brandelli di origine e di rilegare questi ultimi secondo altri principi, diversi da quelli dell’ermeneutica dell’autore. Perché, se per noi il testo de La Comédie Humaine si è come screpolato, è appunto perché il discorso autoriale che teneva tutto insieme, oggi non quadra più. Infatti i due pilastri dell’ideologia (della poetica) che c alla sua base, hanno perduto, per il lettore del XX secolo, buona parte della loro credibilità. Avendo non poche ragioni di diffidare del senso (del senso comune ...) e delle relazioni causali che ne costituiscono l’articolazione essenziale, il lettore moderno non saprebbe fare a meno di avanzare, rispetto all’onnipresente “perché” balzacchiano, un sospetto che equivale a una rottura della connivenza. Anche la legge dell’analogia universale non scappa a questa crisi di fiducia: piuttosto che tenute insieme da infinite parentele, le cose sembrano stare sulle loro, sparse e senza parlare quasi più.

  Si dirà allora che il lettore contemporaneo non si sente più in grado di tappare i buchi che Balzac, forte della sua “filosofia”, colmava agevolmente o — il che è probabilmente la stessa cosa — che per questo lettore contemporaneo, tutto è diventato poroso, opaco e frammentario? [...].

 

 

  Nicola D’Antuono, Balzac e Georges Ohnet: due fonti e alcuni aspetti del romanzo «Una vita», in Amore e morte in “Senilità” e altro su Svevo, Salerno, Pietro Laveglia Editore, 1986 («Mappe/letteratura», 1), pp. 121-140.

 

  Cfr. 1977.

 

 

  Giorgio Giorgi, Esempi di realismo fantastico in H. de Balzac, «L’Altro Regno», Pescara, Anno II, N. 9, 1986; successivamente in Percorsi nel Fantastico, Rimini, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 1997, pp. 219-224 (da cui citiamo).

 

  [...] due racconti balzachiani L’albergo rosso e La grande Bretèche. Sono difatti due brevi e tipici contes cruels, che sono però già sufficientemente indicativi della grande arte di Balzac, di quella capacità di affabulazione che non ha forse rivali nella letteratura francese. [...].

  Considerando proprio la produzione letteraria fantastica di Balzac, è vero che in essa l’aspetto soprannaturale è sovente subordinato a quello realistico, ma non è certo questa particolare struttura narrativa che confina il fantastico balzachiano ad un livello inferiore rispetto a quello degli autori “nordici”. Sono semplicemente modi diversi di intendere e di impostare un racconto soprannaturale.

  Questi due contes cruels mi forniscono l’occasione e insieme l’alibi per proporre al pubblico italiano appassionato di letteratura fantastica, quella parte importante, anche se non cospicua, dell’immensa produzione balzachiana, che costituisce una mirabile quanto originale fusione tra realismo e fantastico.

  Ogni opera letteraria, non importa se di genere fantastico o storico-mimetico, cerca di contrabbandare per vera una storia più o meno fittizia (Borges ha più volte espresso tale opinione). Semplicemente, il racconto realistico è concepito in modo da fare dimenticare il più possibile al suo lettore e talvolta anche al suo creatore, l'aspetto immaginario, fittizio, in una specie di concorrenza con la “cronaca”. Se la storia è raccontata in modo così aderente alle possibilità del reale, ciò dipende, oltre che dalla tematica, anche dallo stile; lo stesso Balzac nota nella prefazione alla prima edizione de La peau de chagrin: «... il ne s’agit pas seulement de voir, il faut encore se souvenir et empreindre ses impressions dans un certain choix de mots, et les parer de toute la grâce des images ou leur communiquer le vif des sensations primordiales».

  Il racconto fantastico invece conserva maggiormente alla realtà sorprendente che mette in scena, il suo carattere problematico: per ciò che è troppo strano senza esserci completamente estraneo, il racconto fantastico ci offre una repentina possibilità, una verosimiglianza inquietante. Allorché il lettore di un racconto realistico finisce per annettere alla sua coscienza l'aspetto veridico, reale, il lettore di un racconto fantastico non è incitato che a riconoscere la probabilità [...] di una storia singolare che egli non può credere ciecamente ma neanche rigettare interamente, poiché si tratta di fatti che la ragione giudica “impossibili” ma che un’arte sottile presenta al suo intimo come “incontestabili” («le coeur a ses raisons que la raison ne connaît pas»). Similmente al possessore della pelle di zigrino che si interroga sulla natura del suo talismano («Est-ce une plaisanterie, est-ce un mystère?»), il lettore del racconto fantastico, reso perplesso da fatti che vengono a turbare la sua coscienza abituale, deve rimanere sino alla fine in uno stato di instabilità intellettuale, di incertezza tra ragione e sentimento, in preda ad una sorta di ansia inesplicabile, ad una sorta di vertigine interiore.

  Anche se alla ricerca del realismo, Balzac, in virtù di un intelligente eclettismo, ha saputo meravigliosamente fondere le due modalità del racconto, per offrire l’immagine di una società di cui voleva essere al contempo lo storico e il poeta tragico. Il fantastico balzachiano viene quindi ad innestarsi nel reale, ma non in modo artificiale, poiché Balzac lo ritrova, radicato nello stesso spettacolo che intende rappresentare. Invece dell’immagine prosaica e rassicurante che producono le abitudini e la quotidianità, Balzac ci propone la visione più complessa ed inquietante di un mondo pieno di «bizzarri ed ampi contrasti», brulicante di drammi ignoti e di crimini anche solamente morali e quindi più sottili, più venefici [...].

  Balzac è dunque il poeta di una civiltà decadente, viziosa e violenta, dipinta con colori fantastici, proprio perché solo il fantastico è in grado di esplorare a fondo situazioni paradossali crudeli, sentimenti estremi che fanno, come dice ancora Balzac, «bondir le coeur de dégoût». Proprio perché il fantastico è consustanziale alla fecondità ed all’intensità di simili visioni che nascono, invece e purtroppo, dal reale.

  Il lato fantastico-nero è, cronologicamente, il primo ad apparire in Balzac. Già nel 1822 lo scrittore, a 23 anni, sotto l’influsso degli autori inglesi di romanzi neo-gotici, pubblica cinque romanzi neri. Centenaire, influenzato da Melmoth the Wanderer di Maturin, Le vicaire des Ardennes, ispirato al celebre The monk di Lewis, L’Héritière de Birage (sic) che è invece meno fantastico dei precedenti ma ugualmente tenebroso, Clothilde (sic) de Lusignan ou le beau juif, che si svolge nel Medioevo dei trovatori e dei tornei ma che ci fa anche entrare nelle camere di tortura. Infine, Jean-Louis ou la fille retrouvée continua la tradizione nera dei precedenti, ma con meno pregi artistici. Nella stessa vena si pongono La dernière fée ou la lampe merveilleuse (1823), Annette et le criminel (1824), Jane la pâle (1825). A questi romanzi giovanili vanno aggiunte almeno altre quattro opere fantastiche della maturità: La peau de chagrin (1831), Louis Lambert (1832), Séraphita (1835), Melmoth reconcilié (1836), opera che ci rivela un Balzac esoterico, che aspira alla luce con il ritorno alle verità della “tradizione”, con un misticismo alla Swedenborg che anticipa certe pagine di Meyrink.

  Ciò nondimeno il fantastico dinamicizza l’opera intera di Balzac, influisce su di essa in maniera stabile anche se indiretta ed è testimone delle inquietudini profonde dell’autore, della sua sete di conoscenza assoluta, del suo bisogno appassionato di decifrare nella realtà quotidiana quei valori più impalpabili ma più singolarmente autentici e quelle nascoste atrocità che sono parte indissolubile della visione balzachiana delle relazioni umane. Louis Lambert è la storia, come dirà Flaubert, di un uomo che diviene pazzo a furia di pensare a cose intangibili. Si presenta quindi come uno dei primi romanzi fantastici incentrato sulle proprietà soprannaturali del linguaggio. Séraphita è invece un romanzo dai toni mistici, ove viene abbordato il tema dell'androgino e che influenzerà, nel nostro secolo, Marcel Schneider. Anche Balzac non si sottrae alla regola che vuole che alla vicenda soprannaturale sia sempre sottesa una chiave simbolica: in La peau de chagrin il talismano è appunto un simbolo poiché tutta l'avventura del protagonista, Raphaël, tende a dimostrare il restringimento irreversibile della realtà, così come la percepiamo, davanti alle forze oscure delle allucinazioni, individuali o collettive, che a poco a poco modificano e dominano i pensieri e quindi le azioni.

  Tutte queste opere fantastiche costituiscono, di fatto, il piedistallo di quel monumento che è La comédie humaine. Con La comédie humaine non sarà tanto agli aspetti terrificanti del mondo cui Balzac farà appello, quanto alla diversità, pure creatrice di mostri dei caratteri dell’uomo. Maggiormente, rispetto alle opere realistiche, quelle fantastiche rivelano con evidenza un Balzac visionario, frequentatore delle tenebre, uomo che senza essere né mistico né ateo, esita tra Dio e Satana, tra il desiderio di perfezione e il soffio della potenza. Il fantastico di Balzac non è fatto di scene triviali ove lupi mannari, ghouls o succubi si disputano il finale; è invece costruito a misura d’uomo ed è il canto poetico delle sue imperfezioni e delle sue inquietudini. Il fantastico di Balzac non distilla la paura o l’orrore e non fa uso di effetti sofisticati per épater le bourgeois, ma piuttosto insinua nel lettore una riflessione inquieta, una insidiosa interrogazione sulle illusioni, sulla fragilità e sulle miserie dell’esistenza e della realtà sensibile. E se Balzac è conquistato dal fantastico, è proprio perché sente che il soprannaturale ha le radici in questa realtà.

  Prima ancora di Baudelaire, di Mérimée, di Maupassant, di Villiers de l’Isle-Adam, Balzac ha con successo innestato il fantastico sul tronco della vicenda realistica poiché aveva indovinato che il fantastico poteva e doveva essere alleato all’esplorazione dei sentimenti di una società vista e sentita come decadente.

  Oltre un secolo prima della moderna evoluzione del genere fantastico e del riconoscimento del suo carattere contestatorio, dirompente, Balzac, per evocare la morbosità di un mondo corrotto e corruttore, mescola le tinte fantastiche alle reali per fare meglio risaltare queste ultime e per colorare con una luce apocalittica la sua vasta rappresentazione di splendori e miserie della commedia umana.

 

 

  Giovanna Grassi, Balzac in viaggio per Budapest, «Corriere della Sera-Roma», Roma, 11 giugno 986, p. 24.

 

  Domani alle 20.30 [all’Accademia Ungherese di via Giulia in Roma], l’appuntamento è per quanti seguono il binomio «cinema e letteratura». [...] si vedrà, infatti, Illusioni perdute diretto dall’ungherese Gyula Gazdag tratto dal romanzo di Balzac che fa parte della seconda sezione del ciclo della «Commedia umana». Il libro è stato spostato agli anni Sessanta su un adattamento dell’autore cinematografico [...]. Il Luciano Chardon di Balzac, giovane bello e di spiccate tendenze letterarie a Parigi, nel film si chiama Laszlo Sardi e a Budapest vive la sua odissea di aspirante scrittore compromesso con il potere e che, alla fine, ritrova la propria dignità quando, però, è ormai troppo tardi perché, in passato, per fare carriera ha scritto alcune critiche contro la sua coscienza.

 

 

  Barbara Maffiodo, La “medicina delle passioni” nel Piemonte ottocentesco (1815-1859). Introduzione di Umberto Levra, Torino, Fondazione Camillo Cavour, 1986.

 

 

  Franco Moretti, La prosa del mondo, in Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti editore, 1986 («Strumenti di studio»), pp. 204-285.

 

  «Parvenir».

 

  [...]. Spetta a Jacques Collin, qui nei panni del «canonico Carlos Herrera», formulare il giudizio storico su cui poggia l’universo balzachiano. Nelle Illusioni perdute, osserverà Lukács, l’«epoca degli ideali» non finisce, come in Stendhal, con la manifesta vittoria dei suoi nemici: si dissolve da sé, si «nega», si «smentisce» con la pirotecnica inversione di ogni valore nel proprio contrario. «Non esistono principi, esistono solo circostanze»: è di nuovo Jacques Collin («Vautrin»), che parla al suo primo discepolo. I principi non servono più a fissare le fonti e gli scopi del potere: a renderlo «legittimo». Sono semplici mezzi — parole, insomma — per conquistarlo, e realizzare così «quella parola che rincasando, recavate scritta sulla fronte, e che io, Vautrin, ho saputo decifrare: Arrivare!» (Père Goriot, «L’ingresso nel mondo»).

  Parvenir! La fulminea diffusione di questa metafora indica un nuovo stadio nella storia della formazione individuale. Dell’autonomia stendhaliana, di quel continuare a sentirsi vincolati, pur tra menzogne e accomodamenti, alle proprie «leggi del cuore», non c’è davvero più traccia. Lucien de Rubempré è già un uomo-radar, eterodiretto: «Siete classico o romantico?» e lui: «Chi sono i più forti?» (Illusioni perdute, «I sonetti»). Un legame ideale, quale che sia, incepperebbe quella «meravigliosa capacità di adattamento» ammirata in lui dalla marchesa D’Espard; rischierebbe di appannare la scintillante versatilità del giornalista di successo. Basta dunque, con il «fantasma del dovere»; e basta anche con quella felicità nella cui orbita si concludeva il Meister [...].

  Questa serena accettazione del limite [...], a quell’imperioso verbo di moto — Parvenir! — non basta più. Esso esige un idolo nuovo, e lo troverà nella mobilità sociale: nella mobilità sociale come fine in sé. Non più mezzo per raggiungere qualcos’altro — per conferire armonia alla propria personalità, ad esempio, impresa che fa desiderare al «borghese» Wilhelm Meister di essere «nobile». E neanche, come nell’immaginario napoleonico di Julien Sorel, premio e conseguenza di «grandi azioni» — o altrimenti un che di equivoco e quasi vergognoso. Con Balzac, ogni esitazione viene meno, e il desiderio di successo appare per la prima volta come un impulso perfettamente «naturale», che non esige giustificazione alcuna: mentre il sistema sociale, dal canto suo, appare legittimo appunto perché rende possibile la mobilità individuale. Che poi questa accentui diseguaglianze e ingiustizie, è ormai secondario: non è l’accordo sui principi a caratterizzare il nuovo criterio di legittimità, ma la possibilità «termidoriana» di soddisfare interessi immediati, concreti, particolari.

  Viene così meno l’antitesi di formazione e socializzazione, l’alterità di «anima» e «seconda natura» della Teoria del romanzo. L’eroe balzachiano desidera solo ciò che nel mondo già esiste, e non deve più decidere se accettare o meno le regole del gioco, ma impararle meglio degli altri. Si ripensi al Rosso, dove le varie tappe dell’ascesa sociale di Julien erano messe in prospettiva dall’episodio, squisitamente stendhaliano, del «ritorno in camera» di Julien: inebriato ma dubbioso, e solo, e di notte, egli dibatte tra sé e sé il senso da dare agli eventi, e si interroga sulla legittimità della propria condotta. Nelle Illusioni perdute, i medesimi passaggi vengono commentati da un episodio di segno opposto: il ritorno in società di Lucien, circondato da un’intera panoplia di simboli di status (vestiti, cavalli, carrozze, donne ...). A dare un senso a quel che accade non è più la chiusa interiorità dell’eroe, ma appunto la «società»: che lo scruta, ne parla, prende atto della sua mutata fortuna.

  Ammalianti per come sanno arricchire ogni spostamento sociale di mille echi, rifrazioni e contro-spinte, questi episodi sono come tanti termometri sparsi nella Comédie Humaine: misurano l’ascesa dei singoli, e anzi ci dicono che «misurare» e «giudicare» sono ormai una cosa sola. È l’atto di nascita del «realismo» balzachiano: simbiosi di penetrazione intellettuale e indifferenza etica. Esso si propone come la cultura di un mondo dove valori e significati sono davvero e sempre «relativi», poiché hanno come unico fondamento le relazioni di forza tra le parti: relazioni instabili e spesso enigmatiche, da rimettere continuamente a fuoco. E una valutazione che perde ogni spessore etico, ogni tensione finalistica — ma è anche costretta ad acquisire una intelligenza del dettaglio, un’acutezza, una capacità di previsione prima sconosciute. Giacché il mondo della mobilità sociale avrà nuovi vizi, ma anche nuove grandezze: e quella nuova parola d’ordine, cui è il caso di prestare ancora un po’ di attenzione.

  «Arrivare» — d’accordo. Ma «dove»? Questo non solo non è detto, ma ci viene suggerito che la domanda stessa sia puerile. Come per il denaro, infatti, il fascino della mobilità sociale risiede nell’illimitatezza: non si tratta di raggiungere una posizione, per quanto elevata — «Napoleone» — ma di sentire che si potrebbe diventare «qualsiasi cosa». È l’euforia della società «aperta», dove tutto è relativo e mutevole, e nasce dunque il bisogno, un po’ paradossale, di un termine-chiave tanto più suggestivo quanto più indeterminato. «Arrivare», appunto, cui si affianca ben presto un fratello gemello — «successo» — che deve anch’esso la sua fortuna a un nocciolo semantico sfuggente, indefinibile. Persino la grammatica si fa scivolosa di fronte a questa parola: dobbiamo dire che una cosa «è» un successo? o forse che «ha» successo? o che è «di» successo? E quando poi passiamo al contenuto concettuale, i problemi non fanno che aumentare. [...].

  Per chiarir meglio la contrapposizione, prendiamo una delle antitesi di fondo delle Illusioni perdute: D’Arthez, la grande letteratura — Lucien, il giornalismo. [...]. Esse [le opere di D’Arthez] non sono frutto del «talento» — parola dall’etimo mercantile, che alla sola vista di Lucien sale alle labbra di tutti — bensì del «genio». Il quale sa sottrarsi alle regole del gioco, e cambiarle, perché sa darsi uno scopo, ci dice lo stesso D’Arthez (Illusioni perdute, «Un primo amico»): e ogni qual volta «le bizzarrie del destino lo allontanano dalla meta», il genio sa riprendere il cammino con «pazienza», «lotta», e «volontà».

  Se però il lettore delle Illusioni perdute impara qualcosa sul tema del successo, non è grazie alla storia di D’Arthez (che Balzac, oltre tutto, si guarda bene dal raccontare per esteso). L’eroe della mobilità sociale è l’altro, è Lucien: che con il suo talento soddisfa e convalida il gusto esistente, anziché mutarlo: e ne ottiene un’affermazione che non è certo né profonda né duratura. In compenso, è fulminea [...].

  Al contrario, il successo allontana dal potere, poiché quest’ultimo esige quella stabilità, quel radicamento durevole che il successo, con la sua rapidità, vorrebbe invece annichilire. Rastignac, che in un romanzo futuro diventerà ministro degli Interni, non ha mai un vero successo; Lucien, che lo ha, e folgorante, non accederà mai all’universo del potere.

  Insomma: il «successo» — questa parola così in-districabile da ogni idea di mobilità sociale — rivela di essere estraneo, e anzi inversamente proporzionale al «potere». A quali meccanismi sociali fa dunque capo, e a quale «tempo» della storia?

 

  La furia del dileguare.

 

  Dettaglio curioso, Balzac non ci spiega mai le «ragioni» del successo di Lucien: ne riproduce un paio di articoli, ma è inutile cercarvi la chiave della sua improvvisa fortuna. Essa infatti non risiede nel contenuto del suo lavoro, ma nella sua forma: in quella nuova attività intellettuale, su cui Balzac si diffonde per decine e decine di pagine, che è il giornalismo d’opinione — e che anziché evitare i tratti effimeri del successo li potenzia, li incoraggia, o forse addirittura li inventa.

  Se si vuol raggiungere il successo in un sol giorno, infatti, bisognerà ben affidarsi a ciò che un giorno solo è destinato a durare. Più che nel mondo del «potere», o del «capitalismo» (come vuole Lukács: il che è vero, ma vago), Lucien ci introduce dunque nell’universo della moda. Se nei suoi articoli non troviamo la spiegazione del suo successo, ciò avviene appunto perché la moda, osserva Simmel, «è indifferente in quanto forma nei confronti dei significati dei suoi contenuti particolari». Ne consegue una «noncuranza per le norme oggettive della vita» che la rende veicolo ideale di un’affermazione rapidissima, sì, ma anche incapace di durata o profondità [...].

  Rivisto in questa luce, Lucien de Rubempré ci appare infine per quello che è — un articolo di moda: scoperto, lanciato sul mercato, trionfante, logoro, gettato via. È una parabola repentina, assolutamente tipica del «successo» metropolitano, e che modifica alcuni elementi sostanziali della struttura del romanzo di formazione. È la prima volta, per cominciare, che il protagonista del racconto si identifica senza residui con lo «spirito del tempo». [...].

  L’unico modo per costruire se stesso — e anche il modo migliore per autodistruggersi. Quella stessa duttilità che gli permette di essere costantemente «al passo coi tempi» gli impedisce anche di costituirsi come individualità permanente: lo condanna a non poter mai essere «se stesso». Prima o poi, tutti i personaggi che gli sono vicini scoprono che, di Lucien, non ci si può fidare. Perché è egoista? Certo. Ma ancor più perché, al fondo, Lucien non esiste non esiste come persona. È un essere puramente sociale, un «figlio del secolo», una figurina trasparente che riceve tutto il suo colore da forze immensamente più grandi di lui, e che di lui hanno bisogno solo per poco: per una «stagione», non di più. [...]. Proprio quei luoghi del «capitalismo» balzachiano dove la modernità è più scintillante e dinamica, e le promesse di mobilità sociale più invitanti — proprio quei luoghi dove sembra doversi realizzare l’essenza dell’individuo moderno ne preparano, in realtà, la catastrofe. [...].

 

  «Non mi si può nascondere nulla».

 

  Chi racconta una storia, nella Comédie, ne sa sempre molto di più di chi la vive. Ma dove risiede, questo narratore dai mille occhi, e come è entrato in possesso delle sue informazioni? È una domanda che vale per ogni narrazione — storica, oltre che letteraria — e l’originalità di Balzac sta nell’aver saputo combinare le due posizioni estreme sull’argomento. La prima la incontriamo nelle Lezioni sulla filosofia della storia: la «considerazione storica», scrive Hegel, compie un progresso decisivo quando diviene «memorialistica» di personaggi come il Cardinale di Retz o Federico il Grande:

  [...]. Solo quando si è in alto si può avere una giusta visione delle cose, non quando si è data un’occhiata dal basso, attraverso uno stretto spiraglio.

  L’immagine conclusiva evoca, per contrasto, la posizione opposta. Bachtin:

  [...] la vita squisitamente privata che entrò nel romanzo era per sua natura chiusa: la si poteva conoscere soltanto spiando e origliando. [Estetica e romanzo].

  Di qui, varie soluzioni: «l’uso delle categorie giuridico-penali, come forme per scoprire e rivelare la vita privata» [...]; ma soprattutto il ricorso al punto di vista del servo («eterna “terza persona” nella vita privata dei signori, il servo è il testimone per eccellenza»), dell’avventuriero e del parvenu [...].

  Società civile, dunque: e chi, se non Balzac, è stato il poeta di questa proteiforme creatura? Eppure, proprio nella Comédie, dove la «conoscenza della vita privata» assume un’intensità mai più eguagliata, la tesi bachtiniana della «visione dal basso» non regge alla prova dei fatti, e sembra piuttosto nel giusto Hegel: «Solo quando si è in alto si può avere una giusta visione delle cose». «Vedere», per la mentalità ottocentesca, è più che mai un attributo del potere [...]. Il motto di Balzac — «far concorrenza allo stato civile» — appartiene a questa tendenza; narrare significa assumere il punto di vista del potere, e magari superarlo.

  Ma quale potere? Non ci si lasci ingannare dalla metafora dello stato civile: il luogo dell’onniscienza, nella Comédie, somiglia a una banca, non a un ministero. Quelli che «conoscono la vita come essa è» — i referenti sociali del «narratore» balzachiano — sono figure come Jacques Collin, «il banchiere dei forzati», o come l’usuraio Gobseck, vera potenza finanziaria semi-legale [...].

  Questo sguardo irresistibile e implacabilmente «realistico», che nasce dalla società civile e la domina, non ha alcun bisogno di «spiare e origliare»: gli basta porger l’orecchio al coro che si leva da Parigi [...].

  Per sapere qualcosa, la polizia balzachiana deve camuffarsi, girovagare, corrompere, minacciare: a Gobseck, basta aprire la porta. Il «sistema dei bisogni» che è la società civile ottocentesca non è per lui — come per lo stato hegeliano — una turbolenza ignota e minacciosa: gli si rivela con assoluto candore perché, appunto, ha bisogno del suo denaro. Ne ha bisogno per continuare a vivere, per poter essere quello che è: senza Gobseck, o Jacques Collin, o qualcuno come loro, non potrebbe insomma esistere il racconto balzachiano. Se tutti i re silenziosi e ignoti tirassero i cordoni della borsa, addio Comédie Humaine.

  L’importanza di questa realtà sotterranea ma onnipotente, del resto, è stata spesso messa in luce dalla critica. Ma quando ho detto che, se non ci fosse un Gobseck, non esisterebbe neanche il racconto balzachiano, non mi riferivo tanto al ruolo dell’usuraio all’interno della trama, quanto alla sua funzione come punto di vista sulla trama. Personaggio mediocre, è invece un eccellente punto d’osservazione: in termini narratologici, il suo vero mondo non è nella storia ma nel discorso, come del resto si conviene ad ogni narratore.

  Ma si può andare ancora oltre. Più che a dei «punti di vista» sulla vicenda, Gobseck o Jacques Collin fanno pensare a delle vere e proprie «categorie trascendentali» del racconto balzachiano. Non è che ce lo fanno vedere «meglio»: è che, senza di loro, non potremmo vederlo affatto. La trama della Comédie, questo mondo che diventa via via sempre più complesso e ingovernabile, dove s’intersecano e si perdono destini eterogenei ed estremi, e ogni principio si annebbia, e ogni desiderio si rovescia nel suo contrario — tutto ciò poteva ben restare mero caos, rumore, insensatezza magmatica. Se così non è, e ne scaturisce il grande intreccio della Comédie Humaine, è appunto perché Balzac collocò il suo narratore sulle spalle di quella classe sociale che gli parve l’unica capace di «vedere» questo nuovo mondo: di riconoscervi un ordine, e poterlo raccontare. Se insomma, a cominciare da Marx, nessuno ha mai lesinato elogi alla borghesia ottocentesca per ciò che ha saputo «fare», Balzac, in modo un po’ atipico, la ammira, e se ne serve, per ciò che essa ha saputo «fare», Balzac, in modo un po’ atipico, la ammira, e se ne serve, per ciò che essa ha saputo vedere. [...].

  E così il luogo narrativo della «maturità» si sposta, rendendo definitivo quello che in Stendhal e Puškin era solo un accenno dubbioso e contraddittorio. La maturità abbandona la «storia», rinuncia a intrecciarsi con la vita e guidarla: quelle «massime» che, nel Meister, conferivano saggezza al dialogo fra i personaggi, in Balzac le incontriamo solo nel mondo disincarnato del discorso del narratore. Non più coronamento di una crescita, e neanche saggezza scaturita direttamente dal racconto, la maturità balzachiana si fonda su una frattura: sul suo essere e rimanere estranea al mondo della narrazione. Come Lucien non diventerà mai adulto, così Jacques Collin e Gobseck non possono esser mai stati giovani. Non c’è termine medio tra «giovane» e «adulto», non c’è passaggio né sviluppò, ma solo antagonismo: come tra «successo» e «potere», «illusione» e «scetticismo», «passione» e «realismo».

  Tutte antitesi da leggere in parallelo: e non per nulla il primo termine di ogni coppia rimanda alla «storia» balzachiana, e il secondo al «discorso» della Comédie. Ne vien fuori l’idea che la maturità sia tanto più compiuta e efficace quanto più lontana e impermeabile al ribollire dell’esistenza moderna. Maturità come ritirata dalla vita, insomma: esito paradossale e inquietante di un’accelerazione storica che sembrava traboccare di promesse, e rivela invece un volto minaccioso. [...].

  È l’immenso circolo vizioso della Comédie, dove quella «maturità» così estranea alla vita è ciò che ci permette di «vederla», la vita moderna — di vederla come «spettacolo meraviglioso», che ci rende impossibile ogni distacco, ci fa dimenticare ogni conoscenza, ogni «saggezza per sempre» in favore del «giubilo» e del «lamento», della «prossima volta», del prossimo atto [...]. Circolo senza fine, o forse equilibrio e compromesso tra le esigenze, altrettanto imperiose, della vicinanza e del distacco, della partecipazione appassionata e della conoscenza affidabile, Circolo senza fine: torniamo dunque alla sostanza della visione balzachiana, alla fonte di quel «movimento doloroso» che scuote la Comédie Humaine: e cerchiamo di capire un po’ come funzioni, il «capitalismo» balzachiano.

 

  Capitalismo e narrazione.

 

  [...]. Con Balzac le cose cambiano ancora una volta, e ogni atto dell’esistenza quotidiana — ampliare un negozio o trovare un lavoro, ma anche comprare degli stivali o salutare un passante — diventa d’improvviso complicatissimo e imprevedibile, denso di promesse, o minacce, o quanto meno sorprese. [...].

  Luogo emblematico di questa fitta «trama» di rapporti, la metropoli – Parigi, dove si svolgono i romanzi fondamentali della Comédie Humaine: Parigi, «città dai centomila romanzi» (Ferragus). Al suo centro, se pure ne ha uno, la Borsa di allora: luogo dell’azzardo e della truffa più che del calcolo razionale, Balzac vi celebra, come è stato detto, l’equivoco connubio «del capitale e del caso». [...]. Di qui non si scappa, sembra dirci lo stesso Balzac. che consegna all’oblio un tema narrativo pure così popolare ed efficace come la «fuga» dell’eroe. Di qui non si scappa — questo universo a maglie fitte è una trappola, un mondo di agguati, di battute di caccia. Tutte metafore che rivelano come l’immagine balzachiana del nuovo ordine sociale sia indelebilmente connessa al subitaneo avvento del capitalismo, anziché al suo «sviluppo» o addirittura, come in Lukács, «trionfo». Che un usuraio la spunti sempre su un profumiere che s’è montato la testa, o un banchiere su un giovane intellettuale indolente, non basta, evidentemente, per parlare di «consolidamento» del capitalismo: con buona pace delle tesi marxiste più diffuse, in Balzac manca proprio la «prospettiva» storica di lungo periodo [...].

  Ma il capitalismo della Comédie non ha ancora nulla di regolare o prevedibile, e con quasi magica preveggenza Balzac individua, nelle Illusioni perdute, quella forma produttiva — la moda — che più a lungo, e in effetti ancor oggi, conserverà i tratti anarchici e febbrili del primo capitalismo. Fascino del nuovo e discredito del vecchio, alternarsi enigmatico di successo e catastrofe, campo di scontro tra personalità scintillanti e prive di scrupoli: se si vuol vedere nel capitalismo un gigantesco e avvincente sistema narrativo, davvero non c’è niente di meglio che osservarlo attraverso il «filtro» della moda.

  Sul piano diacronico, insomma. la moda accoglie ed accentua i tratti tumultuosi — la «narratività» — del primo capitalismo. Ma sul piano, diciamo così, «spaziale», essa agisce in senso contrario, e permette di imbrigliare il senso di minaccia di cui modello in miniatura dei nuovi rapporti sociali, essa li rende infatti concretamente rappresentabili — visibili. Attenua il disorientamento di questo mondo strettissimo ed enorme; strappa a quel Minosse della mentalità ottocentesca — il «mercato» — la sua remota e sfingea anonimità. Grazie alla griglia della moda, Balzac può concepire una totalità sociologica in sé completa, dove è di nuovo possibile seguire il percorso di una merce, o di un uomo, dalla nascita alla morte. Massimo esempio di tale condensazione sociologica, vero «mercato» o borsa valori della Comédie Humaine, il salotto balzachiano. [...].

  Sì, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono la Comédie Humaine da tutte le narrazioni precedenti. Se ogni episodio del ciclo rende «più acuta la coscienza del presente» (come, secondo Simmel, fa la moda), ciò avviene perché ne rende avvertibile la precarietà, la fuggevolezza. L’episodio balzachiano è un vettore implacabilmente volto verso il nuovo, oltre il quale fa già baluginare un «nuovo» ulteriore, quasi a sospingere non solo il presente, ma anche il futuro non ancora realizzatosi nella dimensione del passato. Si pensi al primo colloquio tra Lucien, ancora poverissimo e ignoto, e Lousteau: bastano poche righe a far presagire, al di là del trionfo futuro di Lucien, anche la sua caduta.

  È proprio la «furia del dileguare» che la Fenomenologia attribuisce allo spirito moderno; e Balzac, convinto, come Hegel, che «le epoche felici siano le pagine bianche della storia», non è certo prodigo di felicità verso i suoi eroi. E neanche verso i suoi lettori, cui non concede mai la soddisfazione della sequenza narrativa ben conclusa, del significato evidente e stabile: ci son sempre delle scadenze che premono, dei fili in sospeso, dei punti di vista diversi da cui valutare l’accaduto — è sempre difficile, con la Comédie, interrompere la lettura nutrendo una qualche ragionevole certezza.

  Questo mondo in cui non c’è nulla di duraturo è, di nuovo, il frutto dello scetticismo balzachiano: assai più convincente nella retorica narrativa che non nelle massime profferite dal narratore. Convincente? Meglio, imperioso. Se ci è difficile interrompere la lettura, è perché la nostra percezione del testo — sempre sensibile al nuovo, e pronta ad abbandonarlo per un’altra novità ancora — ha finito con l’assomigliare più del previsto a quella di chi «vive» dentro l’universo della moda e dell’azzardo. Non è il contegno di un osservatore; non è il distacco da cui soltanto, per Balzac, può nascere la conoscenza. La promessa di imparare qualcosa dal cieco avventurarsi di Lucien de Rubempré non è stata mantenuta: non poteva esserlo, perché la trama di Balzac ci costringe ad andare avanti con una foga che rende impossibile l’interpretazione, e che dopo un po’ ricorda molto da vicino l’incedere fin troppo inconsapevole del suo giovane eroe.

  Non è la «conoscenza», la meta della Comédie Humaine: non lo era nel caso del narratore, non lo è nella costruzione dell’intreccio. È piuttosto una disposizione percettiva, che metterà salde radici nella cultura moderna, retta da un desiderio divorante per il nuovo in quanto tale, a prescindere da ogni altra considerazione. [...] È nato il bisogno di una narrazione allo stato puro — senza inizio e senza fine, come appunto la Comédie Humaine. [...].

 

  Sulla genesi della tolleranza.

 

  Quei giovani rinserrati come ragni in un vaso, o l’immagine ricorrente di Parigi come «arena» di lotte all’ultimo sangue, vanno però ben al di là della narratologia. Fanno capire che Balzac intende concentrarsi su quella nuova situazione — la lotta per l’esistenza — che da Malthus in avanti si impadronisce come poche altre del pensiero ottocentesco; e che, prima del darwinismo sociale, non allude tanto alla guerra del lupo e dell’agnello, ma a quella tra lupo e lupo (o agnello e agnello). [...].

  Vivono nelle stesse aree, abbisognano dello stesso cibo, sono esposti ai medesimi pericoli ... qui, più che a degli avversari, viene da pensare a degli amici. E in effetti Balzac ha tracciato il più grande e problematico affresco dell’amicizia moderna, di questo sentimento che non stringe più l’uno all’altro due soli individui, all’insegna della complementarietà, e, spesso, con un forte benché celato sottofondo erotico — ma che si fa più aperto e indefinito, nutrito insieme di disponibilità e di indipendenza, consono ad una gioventù incerta di sé, e alla ricerca di qualcuno che, come uno specchio vivente, l’aiuti a riconoscere le proprie fattezze.

  Il lettore delle Illusioni perdute ricorderà le molte pagine dedicate a questo mutuo scrutarsi, riconoscersi, scoprire che si appartiene «alla medesima specie». Ma il mondo aperto della metropoli, che ha reso possibile tale sentimento, finisce ben presto — «non esistono cinquantamila impieghi redditizi» con lo stritolarlo. Il Cenacolo, reincarnazione dell’armonia organicista della Società della Torre, è una fervida e marginale bugia: la verità dell’amicizia e del suo contrario, nelle Illusioni perdute, la diranno il mondo del teatro e del giornalismo, dove persone che abbisognano dello stesso cibo ingaggeranno una lotta senza esclusione di colpi.

  Per questa via la tematica «sentimentale» dell’amicizia si trasformerà in quella — «politica» — della convivenza. Come sopravvivere e come comportarsi, di fronte al conflitto generalizzato della concorrenza? Quale sarà l’ethos più consono alla nuova società mercantile? Eh dove nasce, e di che pasta è fatto il valore della «tolleranza»? [...].

  L’equanime rigore di D’Arthez dovrebbe essere ben superiore ai modi sbrigativi e mercenari degli altri due — e invece è vero il contrario. I pezzi di Lousteau e Blondet appaiono a Lucien (e probabilmente ad ogni lettore) «pieni di buon senso e giusti»: sono polemiche feroci, ma assai bene argomentate. L’articolo di D’Arthez (che Balzac non «trascrive»), quando viene letto dal suo migliore amico, Michel Chrestien (che non sa che Lucien si è limitato a firmarlo), lo spinge ad andare in cerca di Lucien e a sputargli in taccia — «Ecco l’onorario del vostro articolo» — proprio per difendere l’idea del giornalismo come «sacerdozio rispettabile e rispettato» cara a D’Arthez (Illusioni perdute, «La settimana fatale»), Lucien lo sfida a duello, e da questo punto in poi il suo destino sarà segnato.

  Certo, può essere una delle tante incongruenze della Comédie Humaine. Ma non escluderei che sia un modo assai efficace di suggerire che chi si vuol porre, come D’Arthez, al di sopra del grande meccanismo della concorrenza, non solo non vi riesce, ma ne accentua il lato puramente distruttivo; mentre chi lo asseconda, e sia pure nelle forme più grette, come Lousteau e Blondet, si trova costretto a confezionare dei prodotti intelligenti e, tutto sommato, civili. [...].

  Bisogna dunque, innanzitutto, imparare a «vedere» l’interesse, a riconoscerlo ovunque si manifesti: e a reggerne la vista. Con fare imperterrito, Balzac ci costringe a familiarizzarci con il nuovo impulso. Lo fa trapelare in ogni azione, in ogni momento. Lo ingigantisce in «passione» melodrammatica. Lo indurisce nella crudeltà fredda che circonda Goriot morente, quando nel giro di cento righe Restaud, Anastasie, Delphine, e infine Madame Vauquier (sic) adducono tutti ottime ragioni per negare l’ultimo saluto al moribondo, o compiere l’ultimo furto ai suoi danni. Sequenza decisamente implausibile, per la perfezione che vi raggiunge l’egoismo, ma proprio per questo indicativa della volontà, da parte di Balzac, di imprimere in modo indelebile nella nostra mente non solo la violenza, ma anche la fondatezza, la «ragionevolezza» del nuovo particolarismo. All’esclamazione da strozzina di Madame Vauquier — «Sia giusto, signor Eugène: è la mia vita!» — né Rastignac. né il narratore, né, credo, il lettore sanno più che cosa ribattere.

  Date queste coordinate sociologiche, la Comédie Humaine dovrebbe essere il massimo esempio del romanzo così come l’ha concepito Michail Bachtin. In accenni non molto frequenti, ma decisivi, Bachtin riconduce infatti la «polifonia» dell’universo romanzesco alla nuova situazione creata dal capitalismo: che moltiplicando le «voci» entro l’universo sociale, e ponendole tutte su un piano di potenziale parità, le costringe a incontrarsi e a misurarsi: a dialogare. E da questo scambio incessante e antidogmatico scaturisce, secondo Bachtin. il nuovo ethos che il romanzo introduce nella vita moderna: un atteggiamento spirituale curioso, aperto, duttile, sperimentale. [...].

  Innanzitutto, suggerisce Balzac, un mondo caratterizzato da interessi in conflitto e ideologie eterogenee può, sì, generare «polifonia» e «dialogo»: ma non è detto che questi rappresentino la conseguenza principale di tale stato di cose. Nella Comédie, dunque, la pluralità aperta dell’universo capitalistico si traduce — più che in «parole» — in azioni. Di ogni possibile «punto di vista» Balzac vuole anzitutto illuminare il radicamento materiale. Mostrarcelo come una forza attiva, che si scontra con altre forze, e nella collisione qualcuno vince, qualcuno perde — e la voce di chi perde, per inciso, esce per sempre dal grande coro della polifonia. [...].

  Se infatti il «corso del mondo» diventa — come appunto nella Comédie — un processo grandioso e spietato, che il singolo non può in alcun modo contrastare, ma con cui deve pur tuttavia convivere, allora due sono le possibilità. O si è fatti di ferro, come Jacques Collin, e sarà lo scetticismo: capire tutto e tutti, senza legarsi mai a nulla e nessuno. Oppure si è fatti, come Lucien, di una lega più leggera: e allora questa lucidità amorale (che naturalmente non ha nulla a vedere con la tolleranza) è inattingibile, e per coesistere con la minaccia non è bene acuire lo sguardo, ma annebbiarlo. È la terza e ultima lezione di giornalismo che Lucien riceve, ma che non sa capire. Dopo aver scritto contro Nathan e a suo favore, gli spiega Blondet, è bene sedare gli animi con un terzo articolo, in cui Lucien dovrà «non dire niente»: riassumere i suoi pezzi precedenti, cogliervi qua e là qualche pecca, aggiungere qualche inoffensivo luogo comune e, soprattutto, evitare di prendere posizione. [...].

 

  Narrare.

 

  Torniamo alla «settimana fatale» di Lucien de Rubempré. Volendo trascriverla come sequenza di opposizioni paradigmatiche, essa suonerebbe, all’incirca, nel modo che segue. Lucien ha un solo vero amico, D’Arthez; deve trattarlo come un nemico; questi gli risponde da amico, riscrivendo la recensione; ma così facendo, il più grande amico di D’Arthez (e quindi, fino ad ora, anche di Lucien) tratta Lucien come un nemico; Lucien lo sfida, ne viene ferito a morte, e costringe di fatto Coralie a morire per lui. Per converso: oltraggiato da Michel, Lucien cade fra le braccia di Rastignac e de Marsay; questi, che sono forse i suoi più accaniti nemici, si comportano qui come i suoi più veri, e anzi unici amici. [...].

  Siamo alla svolta decisiva della vita di Lucien, sta per scoccare l’ora della verità: e Lucien — cosa, a prima vista, del tutto logica — adotta un paradigma «forte» di lettura degli eventi, l’opposizione inconciliabile di «amico» e «nemico». Ma questa opposizione è falsa, giacché tutti i personaggi sono l’una e l’altra cosa insieme, e a definirli in modo univoco se ne tradisce l’essenza. E oltre che falsa, è distruttiva: chissà, Lucien potrebbe forse ancora salvarsi, e se non vi riesce è appunto perché proietta sugli eventi un paradigma troppo drastico.

  Con la sua cecità e il suo autolesionismo Lucien dimostra — debolezza fatale, nel mondo della Comédie — di non saper essere realistico. Come già la «tolleranza-transigenza», cui è del resto apparentato, il «realismo» balzachiano si fonda sul rifiuto delle contrapposizioni troppo nette. Consapevole che il «corso del mondo» non si fisserà mai su nessuna figura, esso vede ogni conflitto come un passaggio obbligato, ma transitorio: e che non deve impegnare più che tanto. «Non esistono principi, esistono solo circostanze». In termini strutturali: essere realistici significa negare l’esistenza di paradigmi stabili e chiaramente contrapposti.

  [...] la destabilizzazione paradigmatica della Comédie implica anche un momento, come dire, «costruttivo». È disillusione e, insieme, nuova illusione — più esattamente: fascinazione dei sintagmi. Ed è del tutto logico che sia così: giacché quanto più si indebolisce e si sconquassa la classificazione paradigmatica di un universo narrativo — tanto più l’ordine di un testo, il suo significato, verrà a dipendere interamente, e quasi maniacalmente, dal procedere incessante dell’intreccio.

  Per intenderci meglio, prendiamo un episodio che ricorre pressoché identico in Balzac e Maupassant (e che inoltre, ruotando su un adulterio, presenta un tipico caso di classificazione destabilizzata), e vediamo cosa ci dice un’analisi delle varianti. Nella Cousine Bette, dunque, l’impiegato Marneffe decide che il modo più rapido di far carriera consiste nell’irrompere, gendarmi al seguito, là dove sua moglie sta commettendo adulterio col suo superiore Hulot; e così, trent’anni dopo, Bel-Ami. Ma la funzione della scena all’interno dell’intreccio è esattamente opposta. In Maupassant essa permette a Bel-Ami di ottenere il divorzio [...] e di rovinare il ministro degli Esteri, accrescendo così il proprio potere. [...]. In Balzac, viceversa, la trovata di Marneffe complica l’intreccio: invischia Hulot in ricatti d’ogni genere, costringe a coinvolgere personaggi fin qui secondari, a tradire gli amici e ingraziarsi i nemici. Insomma: aumenta la «narratività» del testo e rende sempre più remota, implausibile e caotica una qualche sorta di classificazione conclusiva.

  [...] il duello balzachiano non mette finalmente di fronte i due «veri» nemici, ma rende ancor più indefinibili le ragioni del contendere, e oscura la fisionomia delle forze in campo: è pericoloso, e crudele, senza essere né nobile né chiarificatore.

  Stando così le cose, è comprensibile che, nella Comédie Humaine, tutti si sforzino di battersi a duello per interposta persona: che sia Valerie Marneffe, la spregiudicata sposina piccolo borghese con cui la cugina Bette rovina la famiglia che l’ha umiliata, o l’amico ignoto di Jacques Collin che — provocando ecc. ecc. ccc. — dopo un giro che coinvolge una mezza dozzina di personaggi metterà a disposizione di Rastignac una cospicua eredità. Il conflitto assume insomma una forma quanto più possibile mediata, in ossequio alla massima — «tratta gli uomini come dei mezzi» — che risuona nella Comédie ogni volta che ci si avvicini al tema del potere.

  Ma dove ognuno vuol ridurre il prossimo a proprio strumento, è inevitabile che qualcun altro stia già apprestando per lui un identico destino. In un labirinto di prospettive in conflitto che ricorda la tragedia giacomiana — se non fosse che lì l’universo sociale è angusto e immobile, e precipita in carneficina, mentre in Balzac è in espansione perpetua, e la morte non s’accompagna di necessità alla sconfitta — ogni personaggio della Comédie, lo voglia o non lo voglia, lo sappia o non lo sappia, è sempre al tempo stesso causa ed effetto di una trama infinitamente policentrica, e che nessuna mano invisibile indirizza verso il bene comune[3]. [...].

  E si riprenda le Illusioni perdute: qui la giornata campale è già divenuta «settimana» fatale, e il «fato» non si manifesta come estrema semplificazione paradigmatica, ma nel movimento opposto, un brusco riconvergere ed assommarsi di ambiti eterogenei — la competizione sul lavoro (i giornalisti), il conflitto amoroso (Madame de Bargeton, Lousteau), la lotta politica (liberali e monarchici), l’ostilità di casta (la vecchia aristocrazia, i dandies), il nudo interesse economico dei creditori, e perfino l’amicizia intransigente dei membri del Cenacolo.

  Sequenze come questa ci fanno capire che, nella Comédie Humaine, nessun evento è mai «semplice»: son tutti composti, sovradeterminati da innumerevoli forze che agiscono secondo progetti diversi. E poiché qualcuna di loro è sempre in moto, ogni momento dell’esistenza, anche quello all’apparenza più pacifico e «classificato», può trasformarsi in evento romanzesco. [...].

  Se dunque, con la Comédie, «il romanzo diventa sociologico», ciò non accade perché Balzac ci «mostra» innumerevoli banchieri, editori o negozianti: ha ragione Lukács, su questo, Balzac non «descrive» ma «narra», e si serve della sociologia per la costruzione dell’intreccio. Per modificare, anzi, la concezione stessa dell’intreccio narrativo, che non è più «violazione» delle leggi del mondo, ma loro piena e irresistibile entrata in vigore.

  Di qui, anche un nuovo tipo di eroe romanzesco. Lucien de Rubempré non è il protagonista di uno dei più grandi romanzi dell’Ottocento perché dotato di caratteristiche ritenute significative in sé e per sé [...] — ma perché non ne possiede nessuna, e proprio questa sua trasparenza permette di percepire con maggiore nettezza la grande partita degli sfondi sociali che si gioca attraverso la sua persona. Tutti «investono», tutti «puntano» su Lucien, o contro di lui: la sorella e la madre, i giornalisti e i filosofi, i dandies e gli impresari, le donne, i vecchi, i santi, le canaglie ... La sua bellezza immacolata, la sua intelligenza duttile e impressionabile, esigono entrambe una determinazione dall’esterno — una spinta, è il caso di dire, che lo scaraventi in primo piano, a recitare il dramma di un successo raggiunto senza merito, e senza colpa troncato. Il romanzo di Lucien non esisterebbe a prescindere dal reticolo sociale entro cui si muove: ma ciò non implica che le sue avventure siano, per dir così, al servizio di quello sfondo sociologico, mero strumento di «informazioni attendibili». [...].

  Se dunque la prima cosa che colpisce, leggendo Balzac, è lo straordinario ampliamento dell’ambito sociologico del romanzo — la novità davvero epocale della Comédie consiste nell’aver subordinato questo mondo così vasto e così pieno alla forma della narrazione. Persino le «descrizioni», come ha visto benissimo Auerbach, sono qui dei racconti condensati; e se in Balzac non riusciamo mai a isolare delle grandi «pagine» a sé stanti, o delle scene esplicitamente «simboliche» (come è invece la norma del romanzo), ciò accade appunto perché, nella Comédie Humaine, la volontà classificatoria – istituire dei paradigmi – ha ceduto il passo al fascino che emana da una catena ininterrotta e indistricabile di sintagmi.

  Torniamo così, per un’altra via, a un punto già affrontato: prende forma, con Balzac, un atteggiamento nuovo, una percezione della realtà refrattaria all’analisi, e letteralmente stregata dalla pura narrazione. [...]. Da questa narrazione complessa e avvincente è divenuto impossibile uscire: anziché essere uno strumento della conoscenza, essa le si è posta contro, e getta una luce inedita e inquietante su quella «conoscenza storica» che fu il grande vanto del secolo passato, e certo anche dello stesso Balzac. [...].

 

  Il mondo della prosa.

 

  Diversamente dal solito, nella Comédie Humaine la morale tende a precedere la favola anziché scaturirne. Il giudizio su un personaggio o su un ambiente, e a volte persino i tratti essenziali del loro destino, ci vengono spesso comunicati prima della sequenza narrativa che li vedrà protagonisti. E in un certo senso questa inversione vale anche per la Comédie Humaine nel suo complesso: La pelle di zigrino, che è tra le prime opere del ciclo, preannuncia con tanta chiarezza il senso di tutto quel che seguirà che, dovendo enucleare i grandi temi dell’opera balzachiana, la critica si volge quasi automaticamente alla storia di Raphaël de Valentin — sul cui sfondo, in effetti, i «centomila romanzi» che verranno appaiono come mera proliferazione narrativa di una situazione-base già definita e valutata per l’essenziale. [...].

  Quanto meno un racconto ci spinge a una presa di posizione, a un «commento», tanto più riesce a catturare il nostro interesse. Si ripensi alle Illusioni perdute sullo sfondo del Rosso.

  Per giungere al successo, Julien Sorel e Lucien de Rubempré devono entrambi rinnegare alcuni valori fondamentali.

  Ma mentre il testo stendhaliano è costruito in modo da attrarre sempre l’attenzione sul conflitto tra azioni e ideali, e il racconto si ferma di continuo per permettere quel «dialogo» a tre in cui narratore e lettore soppesano le scelte dell’eroe, in Balzac accade il contrario: se Lucien tradisce un amico, o passa al campo monarchico, noi non ci interroghiamo sulla legittimità delle sue scelte: ci interessa solamente sapere che cosa — narrativamente — ne verrà fuori. La problematica del valore si trasforma in desiderio di suspense, e un voltafaccia non suscita reazioni «etiche», ma solo l’attesa, strettamente «narrativa», per quella vendetta che, prima o poi, non potrà mancare.

  Ed è forse proprio la vendetta — che alla fine del ciclo, nella Cousine Bette, acquista dimensioni da incubo — il tema più adatto a fissare il senso ultimo della trama balzachiana. Essa ci fa capire che, in un universo stretto e competitivo, ogni azione è come il sassolino della favola: si trasforma sempre in valanga, generando una miriade di echi e risposte che non è più possibile né controllare né contrastare. Ogni azione, una volta compiuta, non può più esser disfatta, annullata. È il trionfo del principio della prosa come già la intendeva la retorica classica [...].

  «Diretta in avanti» [...] la prosa della Comédie Humaine pone dunque la storia, e l’esistenza individuale, sotto il segno dell’irrevocabile. Quel futuro verso cui la suspense narrativa attrae il nostro sguardo non è più il tempo delle speranze, o delle promesse: è un futuro cui si è costretti da un passato che non concede tregua. [...].

  E chissà: forse questa «costrizione al futuro» ha prodotto risultati ancor più grandi di quelli realizzati da versioni più razionalistiche e umanitarie dell’idea di progresso; e per certi aspetti questa storia che avanza a passi da gigante, ma alla cieca e quasi senza meta, ha qualcosa di straordinariamente affascinante. Ma c’è un punto in cui suona a vuoto: il momento — ben noto a ogni eroe di Balzac, e a ogni suo lettore — in cui, senza preavviso, e quasi senza motivo, sopravviene un’enorme stanchezza.

  Lucien de Rubempré che resta a letto fino a mezzogiorno, il lettore che lascia lì il libro e non riesce più a riprenderlo in mano — perché lo fanno? Per le mille ottime ragioni che Balzac saprebbe snocciolare, ma in realtà per una sola. Perché quella corsa interminabile da apprendisti stregoni può andar bene per un sistema, per una società, ma non più per un individuo. O questi sa uscire dal gioco, e mettersi al margine della corrente (ma è molto molto difficile), oppure ne sarà stremato. Persino Vautrin ne esce sconfitto, e Nucingen sfiora la rovina, e Gobseck impazzisce: e se questa è la sorte dei «re invisibili e silenziosi», figuriamoci gli altri. Proprio perché prese tremendamente sul serio il carattere sistematico e sovrapersonale della storia contemporanea, Balzac si trovò insomma a smantellarne una delle massime illusioni: che progresso sociale e sviluppo individuale procedessero paralleli, come quelle rotaie luccicanti e protese all’infinito di cui il secolo andò così fiero.

  È al grande mito del Faust che Balzac pone la parola fine. Con la Comédie Humaine, l’idea che l’umanità possa esser pensata «come un sol uomo» si dissolve, e anzi: questa società così dinamica e pulsante mostra con assoluta chiarezza di non essere «fatta per l’individuo». Non c’c da dolersene più di tanto: discutendo del Meister abbiamo visto che un mondo «a misura d’uomo» impone un dazio enorme, e forse intollerabile, alla coscienza moderna. Balzac ha il merito di averci mostrato il costo del modello contrario, della società illimitatamente «aperta». È un’antitesi che accompagna tutti i momenti della vita, e si ripropone persino nel modo in cui si muore: per una sorta di soffocamento, come Ottilie e Edoardo nelle Affinità elettive, giacché in un mondo troppo ben protetto l’aria finirà col mancare — o per apoplessia, come Goriot, a dimostrare che l’organismo umano va fatalmente fuori tempo rispetto all’inarrestabile battito della vita collettiva.

  Ho detto più volte che il finale è l’aspetto più irrisolto della Comédie, nel tutto come nelle parti. E la ragione ultima è forse questa, che sul versante delle trasformazioni sociali esso è semplicemente inconcepibile, poiché non è più dato vedere alcuna meta che le possa appagare — mentre sul versante del singolo è sì immaginabile, ma coincide ormai con quell’evento, la morte, che meno di ogni altro può esser visto come uno scopo largitore di senso. Ulteriore svolta nella storia del romanzo di formazione: il racconto della gioventù non è più la forma simbolica che permette di «umanizzare» la struttura sociale, come nel Meister, né, come nel Rosso, di metterne in questione la legittimità culturale. Serve soltanto a porre in rilievo la vigorìa disumana e incurante del nuovo mondo, che ricostruisce — quasi fosse un’autopsia — dalle ferite inflitte all’individuo.

  La società dell’«individualismo possessivo» — a volersela immaginare, come fece Balzac, nella sua forma «pura» — è dunque quella in cui l’individuo è esposto alle minacce più crudeli: e la «stanchezza» evocata più sopra, l’improvviso «averne avuto abbastanza» della vita, o della lettura, è forse il segno cifrato, la reazione spontanea a questo stato di cose. È un ritrarsi dalla vita: esito inatteso ma forse inevitabile di una vera e propria indigestione di vitalità. È un nuovo dilemma della coscienza borghese, che Balzac colloca al limite estremo della sua opera. Per Flaubert, sarà il punto d’avvio. [...].

 

 

  Modesto Panizza, Mercadet il faccendiere di Honoré de Balzac, «Letture», Milano, N. 3, 1986, p. 247.

 

  Nelle sue opere teatrali, come nei suoi romanzi, procedendo dall'analisi realistica e dallo studio dei caratteri, Honoré de Balzac ha voluto rispecchiare uno dei momenti della grande storia dell’uomo e della società, dei suoi vizi, delle virtù, delle passioni, e contemporaneamente offrire una specie di trattato dei principi che di tale società regolano il movimento. Il teatro era presente in Balzac già nella narrativa, nel disegno a tutto tondo dei personaggi, nella prevalenza del dialogo sull’azione, nel posto fatto all’ambientazione; come provano, del resto, le numerose riduzioni teatrali dei suoi romanzi. Comunque cinque furono le sue produzioni teatrali; Vautrin (1840), Le risorse di Quinola (1842), Pamela Giraud (1843), che non ebbero successo; questo invece arrise a La matrigna (1848). Ad essa fece seguito L’affarista («Le faiseur»), in cinque atti, allestito postumo nel 1851 e mai integralmente per il suo volume torrenziale. Nonostante alcuni difetti di costruzione, esso è una delle opere più incisive del teatro realistico francese. C’è chi vi ha visto qualche elemento autobiografico che avrebbe reso più facile l’identificazione e quindi l’approfondimento del personaggio. Si sa tuttavia della passione per gli affari che ha dominato la vita di Balzac, trascinandolo in imprese economiche quasi sempre rovinose.

  L’opera era stata per oltre un secolo ignorata dai comici italiani, fino a che Virginio Puecher non lo aveva allestito al Piccolo Teatro nel 1959 nell’interpretazione di Tino Buazzelli. Adesso due Mercadet si raffrontano dopo che l’affarista (più esattamente corretto in faccendiere nell’aggiornata, ammiccante traduzione di Caprioli e Ambrogi) ha assunto il volto e la voce di Vittorio Caprioli. L’ampio materiale è contenuto in due tempi agili, scoppiettanti: ad esempio è stata soppressa tutta la prima scena. Mercadet è un uomo di pochi scrupoli, capace di tutto. Quando lo si crede finito, improvvisamente è di nuovo sulla cresta dell’onda. La sera si mette a letto rovinato, la mattina si risveglia milionario. Somma, sottrae, moltiplica, divide, calcola, fa progetti che sono tante trappole per chi ci cade; nel suo appartamento nel centro di Parigi vi è un continuo andirivieni di creditori, venuti a reclamare i loro diritti c che tuttavia sono sviati, raggirati, ammansiti da un’abilità diabolica. Entrano furibondi, decisi a sequestrare ogni cosa, a portarlo in tribunale, a farlo mettere in prigione, ma cinque minuti dopo ridono con lui ed escono a braccetto. Arrivano ruggendo e se ne vanno belando. Anche la figlia per Mercadet è un affare: annunciare ai creditori il matrimonio della sua pupilla con il rampollo di un'agiatissima famiglia, vuol dire rincuorare chi avanza quattrini e rimandare di qualche tempo le pressanti richieste di pagamento. Aveva avuto un socio che un giorno era fuggito portandosi via la cassa e lasciandolo nei guai. Ebbene, alla fine del secondo atto, quando la matassa è così complicata da non poter capire più la soluzione dell’intreccio, ecco che il vecchio cameriere annuncia il ritorno del fuggitivo.

  Come regista Caprioli punta sul ritmo, sui colpi di scena, sottolineando la vena ironica del testo. Quale attore esibisce una interpretazione gustosissima, diversa da quella «rabelesiana» di Buazzelli, ma non meno efficace. Ritaglia un faccendiere di ben più congeniale astuzia napoletana, in grado di incantare il manipolo dei creditori con un significativo inarcar di ciglia, con una sapiente pausa discorsiva, con improvvisa e simulata ritrosia.

  Honoré de Balzac, Mercadet il faccendiere. Rappresentato dalla Compagnia Vittorio Caprioli; libero adattamento di S. Ambrogi e V. Caprioli; regia V. Caprioli; scene Salvatore Michelino.

 

 

  Walter Pozzi, “Le Chef-d’oeuvre inconnu” e la sua fortuna critica. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Alberto Castoldi, Bergamo, Istituto Universitario, Facoltà di Lingue e letterature straniere, Anno accademico 1985-1986.

 

 

  P. Pruzzo, Caprioli reinventa l’affarista del grande Balzac, «Il Secolo XIX», Genova, 10 gennaio 1986.

 

 

  Franco Rella, L’atopia erotica. Saggio su «Séraphîta», in Honoré de Balzac, Séraphîta ... cit., pp. 207-251.

 

  1. La marginalità del centro.

 

  Il 17 novembre 1833 Balzac visita l’atelier dello scultore Bra: lì davanti all’immagine di un angelo in un gruppo rappresentante la Vergine con il Cristo bambino, «ho concepito, egli scrive, il più bel libro, un piccolo volume di cui il Louis Lambert sarà la prefazione: un’opera intitolata Séraphîta. Séraphîta, sarà le due nature in un solo essere, come Fragoletta, ma con questa differenza, che io immagino che questa creatura sia un angelo giunto alla sua ultima trasformazione, che infrange il suo involucro per ascendere al cielo; è amato da un uomo e da una donna, ai quali egli dice che essi hanno amato, l’uno e l’altro, l’amore che li legava, vedendolo in lui, l’angelo purissimo, ed egli rivela la loro passione, lascia loro l’amore, sfuggendo alle nostre miserie terrestri. Se posso, scriverò questa bella opera a Ginevra, accanto a te. Ma la concezione di questa tonitruante Séraphîta mi ha stancato, in quanto mi mette alla frusta da due giorni».

  Ma la stesura non avviene, come egli aveva sperato, di getto accanto a Madame Hanska. Il libro lo impegna a più riprese, per più di due anni, sovrapponendosi alla riscrittura del Louis Lambert, e alla scrittura de Le Lys dans la vallée, in uno sforzo continuo tanto che egli può affermare che «questo libro mi uccide e mi schiaccia. Ho tutti i giorni la febbre. Mai concezione più grande si è levata davanti a un uomo. Solo io so ciò che ci metto, vale a dire la mia vita». Finalmente il libro è terminato. Balzac spedisce il manoscritto a Madame Hanska. perché «Séraphîta siamo noi due», insieme a un vecchio manoscritto del 1823 o del 1824, il Falthurne, una sorta di incunabolo di Séraphîta, rilegati nella stoffa di un abito dell’amata. memoria di un momento particolarmente intenso del loro rapporto d’amore.

  Balzac ha indicato così la centralità di questo testo all’interno della sua vita in due modi: uno, indicando già nella dedica del libro a Mme Hanska, che questa Figura è stata sognata da lui «fin dall’infanzia»; in secondo luogo legandola appunto a una esperienza amorosa di cui il libro dovrebbe illuminare il senso e il valore.

  Balzac ha indicato anche con precisione la centralità di questo testo all’interno della sua opera, in quanto esso sarà «l’ultimo quadro degli Studi filosofici» così come Le Lys dans la vallée, «sarà l’ultimo quadro degli studi di costume». Uno «indicherà la perfezione terrestre e l’altro la perfezione celeste».

  I due romanzi, insieme a Le Médicin (sic) de campagne, sono inoltre l’abisso più profondo in cui Balzac abbia gettato lo sguardo, investendo nella sua esplorazione «più notti, denaro, pensieri». L’opera, «angelica per gli altri», diventa così per lui, «diabolica», l’espressione più compiuta della sua tensione faustiana di «cercatore d’assoluto», preso nella tentazione ineluttabile di «sorprendere il senso nascosto dell’immenso affollamento di figure» che popolano il suo tempo.

  E l’abisso di fronte al quale il «doppio» di Balzac, prima di Le Lys e di Séraphîta, Louis Lambert, era regredito nella «gabbia» della follia o dell’ebetudine, dopo aver cercato in un tentativo di autocastrazione di risolvere la tensione erotica che lo spingeva oltre i limiti delle cose, per cercare in esse il segreto che solo l’amore del pensiero poteva svelare. In Louis Lambert, come negli altri cercatori d’assoluto, questo amore del pensiero si perverte in un amore per il pensiero che conduce allo scacco.

  Balzac questa volta è sicuro di essere andato oltre quei limiti. Di aver spinto il desiderio al di là della fissazione nelle passioni, che pietrificano l’individuo legandolo all’oggetto stesso della sua passione, a far corpo con esso, a diventare dunque a sua volta una sorta di oggetto.

L’immensa folla di figure, il basso continuo del mormorio della città, quella sorda armonia che Balzac sapeva contenere tutte le voci, è prossima a svelare il suo segreto. I mille dei che abitano il mondo del moderno sono ormai vicini allo loro epifania. Per questo Balzac afferma di aver scritto il libro «più crudele» che abbia mai scritto, così «elevato al di sopra di Louis Lambert, come L. L. era elevato sopra Gaudissart», il racconto, in stile quasi «drôlatique» sulle avventure e disavventure di un commesso viaggiatore.

  Un’opera crudele per «le faiseur», per lui, per Balzac, che, come vedremo, porrà con essa al centro di tutta la sua opera, della Commedia umana, una tensione vertiginosa che finirà per sfiorare il vuoto. Séraphîta, infatti, è l'immanenza di una verità, come il quadro di Frenhofer, come la musica di Gambara, a cui Balzac, per impossibilità sua e del suo tempo, non riuscirà a dare evidenza razionale: un’espressione dunque a ciò che egli pure ha compiutamente veduto.

  L’opera rimane per lo più incompresa dai critici e dai suoi lettori, sia da quelli che vedono in Balzac il compilatore del regesto degli atti e dei comportamenti del suo tempo, in una sorta di immane e disordinato accumulo di cose e di situazioni, sia da quelli che iniziano a scorgere in lui un visionario. Ma un’opera esprime la sua grandezza anche per la sua capacità di resistere alle letture «sbagliate», a manifestare la sua verità anche attraverso l’errore delle interpretazioni.

  Jacques Borel definisce Séraphîta un’eccezione nell’opera di Balzac, uno dei grandi critici balzacchiani, Maurice Bardèche. afferma che Séraphîta è un libro «marginale» e «fallito». Anzi, tutto il Livre mystique, «è sovrapposto alla Comédie humaine»; un coronamento a cui essa non conduce. D'altronde, anche Le Lys dans la vallée è, per Bardèche, un«aérolite (...) che Balzac non riuscirà mai a classificare nella sua opera».

  Dunque i due libri che dovevano essere il coronamento, l’uno degli studi di costume, l’altro degli studi filosofici – il centro della Commedia umana, di cui il Séraphîta e il Libro mistico erano a loro volta il centro: il centro del centro – sono libri inclassificabili e marginali.

  Sono dunque, Séraphîta, il Libro mistico, e Le Lys dans la vallée, un margine posto paradossalmente al centro di un immenso territorio narrativo: sono dunque opere utopiche.

  Quando una linea di confine viene posta al centro e non nell’estrema periferia, là dove essa è quasi invisibile, questa linea allora non solo ridisegna la mappa del territorio, scopre avvallamenti e rilievi fino allora invisibili e inconoscibili, ma sconvolge le abitudini dei suoi abitatori. [...].

 

  2. Una storia d’amore.

 

  Séraphîta è una storia d'amore. È una strana storia d’amore triangolare che vede una fanciulla, Minna, innamorata di un bellissimo giovane, e un uomo, un cercatore di assoluto, con un oscuro passato e con l’aspirazione di giungere attraverso il pensiero e l’azione a dominare il mondo, innamorato di una fanciulla, giungere attraverso questo amore alla rinuncia della sua tentazione faustiana.

  Di fatto Minna, e Wilfrid, amano lo stesso essere: Séraphîtus-Séraphîta. Amano lo stesso essere come uomo e come donna. Questo essere dunque contiene in sé la polarità che si manifesta nel mondo attraverso la dualità sessuale. Ma questa polarità non è che l’immagine di un’altra polarità, ancora più fondamentale, quella fra spirito e materia, che attraversa, secondo Balzac (e secondo una lunga tradizione di pensiero), l’uomo, l’essere di confine tra materia e spirito.

  Nel romanzo compaiono soltanto altri due personaggi, il pastore Becker, che rappresenta l’incapacità della religione istituzionale di cogliere la verità che solo attraverso il mistico si presenta agli occhi di chi sa vedere. E il vecchio servitore di Séraphîtus-Séraphîta, che rappresenta la fede ingenua, primordiale: quella che non chiede nulla, e che si appaga nel credere.

  Di fatto la storia si svolge fra l’intuizione amorosa, il sapere del sentimento, di Minna, e il sospetto, il sapere come ricerca di Wilfrid, che non a caso nelle prime stesure balzacchiane aveva il nome di Henry Faust. Entrambi, con i loro mezzi si avvicinano, corteggiano. Séraphîtüs-Séraphîta, giungendo, attraverso questa tensione erotica, al sapere dell’amore, alla conoscenza delle segrete corrispondenze che legano tutti gli esseri e gli eventi del mondo in un unico senso segreto, e infine all’esperienza stessa dell’amore. Infatti, attraverso questa iniziazione, essi potranno amarsi reciprocamente dello stesso amore che prima investivano nello strano duplice essere.

  Un essere duplice, amato da un uomo e da una donna non può che essere, come d’altronde lo stesso Balzac sottolinea richiamando Fragoletta, un androgino. E Balzac richiama i caratteri di questa «stranezza», quasi ad ogni pagina. Eppure Séraphîta non è compiutamente un androgino. Non lo è, in primo luogo, perché è amata, senza equivoci, come compiutamente uomo da Minna, e come compiutamente donna da Wilfrid. Se Wilfrid, infatti, ha qualche dubbio questo deriva dalla sua anima faustiana, che lo spinge a scorgere nel diverso, nell’essere che sempre gli si sottrae, e che ci consegna calore e gelo al tempo stesso, un demone. L’ambiguità dunque si sposta non sulla natura sessuale di Séraphîta, ma piuttosto sulla sua natura: terrestre, o celeste, o demoniaca.

  Potremmo dire, in un certo senso, che Séraphîta svolge nei confronti di Minna e Wilfrid la funzione di «animus» e «anima» che sarà studiata, un secolo dopo da Jung.

  D'altronde, se Séraphita non è compiutamente l’androgino, sia pure nel senso platonico-aristofaneo, la sua apoteosi finale la strappa anche dall’aura della sofianità, tipica per esempio di Novalis, a cui Balzac allude in uno degli aforismi del Louis Lambert, quando propone di rovesciare il detto giovanneo il «verbo si fece carne», nel suo inverso: la carne, la terrestrità si farà logos, verbo, spirito. Infatti Séraphîta ascende al cielo non trasformando la sua carne, ma sublimandola: divenendo compiutamente un angelo, un serafino, un «egli», un «lui».

  Ma questa attenzione di Balzac nel sottolineare i caratteri della «stranezza», dell’«atopicità» di Séraphîta, sottraendoli però alla sfera della sessualità, è un doppio indizio. Da un lato Balzac spinge il lettore nella direzione di una dimensione esoterica e compiutamente angeologica. Dall'altro, però, questo risulterà essere anche il segno di una rimozione che, forse più di ogni altra cosa, spiegherà l’apotesi finale di Séraphîta, e la sua traduzione da mito a allegoria.

 

  3. Tempo di profeti.

 

  Buona parte di Séraphîta è dedicata all'esposizione delle teorie di Swedenborg. Già Louis Lambert si era iniziato a Swedenborg. e questa lettura gli aveva procurato l’interessamento di Mme de Staël, che gli aveva pagato gli studi. Anche a questo proposito la critica si è affannata ad attenuare questo rapporto. Da un lato, per esempio, secondo Borel, il misticismo di Balzac non sarebbe autentico, in quanto derivato dall’osservazione di «stati morbosi, dall’isteria, e anche dall’alienazione (...) che aprono la strada alla mitomania e alla suggestionabilità». Gli stati d’animo «mistici» di Balzac, sarebbero «insozzati di organicità», senza la rimozione della corporeità che, secondo Borel, sarebbe invece tipica del misticismo «vero». Strano misconoscimento davvero, questo, della natura dell’esperienza mistica, che, proprio in quanto esperienza, si distingue dal sapere concettuale, per il fatto dunque di muoversi attraverso il corpo e la corporeità.

  D’altronde Borel, con perfetta inconseguenza rispetto alle sue promesse, dichiara che l'influenza swedenborghiana non può che essere modesta, in quanto «Swedenborg diventa profeta sotto l’influsso di una coscienza malata».

  Ma è ancora una volta Balzac a indicare con chiarezza il luogo di Swedenborg all’interno della sua speculazione. «Lo swedenborgismo, come scrive in una lettera a Mme Hanska, non è che una ripetizione nel senso cristiano di antiche idee, è una religione, con l’incremento che io vi faccio dell’incomprensibilità di Dio».

  Le «antiche idee», a cui Balzac fa riferimento, sono, come suggerisce Gauthier, le idee della gnosi, a cui Balzac ha forse alluso già nei suoi progetti giovanili di una storia della chiesa delle origini. La lettura accertata di Swedenborg. di Saint-Martin (se Séraphîta è il romanzo di Swedenborg, Le Lys dans la vallée, contemporaneo a Séraphîta, è il romanzo di Saint-Martin), di Boehme, attraverso Saint-Martin, che ne è il traduttore francese, e la lettura probabile del libro di J. Matter, Histoire critique du gnosticisme et de son influence sur les sectes religeuses et philosophiques (Paris 1828), si riallacciano alla scoperta delle corrispondenze naturali, fatta attraverso la lettura giovanile di Leibniz, del panteismo, a cui Balzac si era avvicinato attraverso una lettura di Spinoza assai prossima a quella della Frühromantik tedesca, e infine ai suoi infiniti vagabondaggi attraverso ogni campo del sapere che lo hanno avvicinato alla letteratura esoterica antica, da Pitagora all’orfismo, e moderna, per esempio attraverso Agrippa, Paracelso. Cardano. [...].

  Ciò che lo attrae in Swedenborg è l'idea che il mondo visibile non è che una traccia, una scrittura geroglifica, attraverso la quale noi dobbiamo giungere all'invisibile, al mistero che costituisce la realtà del mondo e della vita. E se Swedenborg ha riconosciuto il carattere «esoterico del femminile», Balzac ha riconosciuto nella donna uno dei massimi misteri dell’esistenza. il punto «intermedio fra l’angelo e l’uomo», in quanto già nell’androgino primitivo e originario, nella coppia sofianica Adamo-Eva. la donna rappresenta «tutte le cose relative all’amore, e conseguentemente della vita, poiché la vita proviene solo dall’amore». Questa potenza dell’amore «è il nucleus, il cuore più intimo dell’essere umano».

  Le religioni storiche sono essenziali all’ordine della società, ma solo l’amore può scoprire, al di là di quest’ordine, la verità.

 

  4. La geografia dell’irreale.

 

  Curtius ha scritto il più grande libro su Balzac nel 1923 mettendo Balzac in relazione ad un contesto apparentemente estraneo: quello della filosofia e della poesia del romanticismo tedesco. C’è da chiedersi oggi se sia possibile leggere Balzac senza un altro spostamento, non solo geografico, ma temporale: senza la teoria dell’immagine che troviamo nei testi di Jung e soprattutto di Henry Corbin. se è vero «che la chiave di tutta la Commedia umana sta nel primato dell’immaginazione» attraverso la quale Balzac giunge «ad acque profonde» che in prima istanza sembrano essere estranee «alla sua esplorazione» della società del suo tempo.

  Ed è attraverso una lettura della potenza noetica dell’immagine. qual è quella elaborata da Corbin in prossimità della gnosi iranica e islamica, che possiamo chiarire il mistero del luogo di Séraphîta.

  Séraphîta è ambientato in Norvegia. Le spiegazioni che sono state date per quest’ambientazione sono del tutto inattendibili, e questa certamente non poteva essere, come è stato detto, motivata da un omaggio a Swedenborg che era invece svedese.

  La scelta avviene perché la Norvegia è un luogo estremo, molto più dell’Oriente che già era meta di viaggi e di racconti. Avviene anche perché la Norvegia, nell’immaginazione di Balzac, è un paese incolore, e bianca è la percezione dell’essere in Plotino.

  Una distesa di ghiaccio, un deserto bianco, e l’ascesa su di un monte inaccessibile, fin dove, in una sorta di «dolce terrore», Minna, nella luce iridata del sole, si trova in un luogo intermedio fra abisso e abisso: l’abisso del cielo e l’abisso della terra. E in questo luogo intermedio che Minna ha la percezione «che il poco che apprendiamo delle leggi del mondo visibile ci fu scoprire l'immensità dei mondi superiori». È qui che Minna coglie un fiore strano, che non cresce in nessuna parte conosciuta della terra. È qui che apprende dalla voce di Séraphîtüs, che il sapere è anamnesi, ricordo.

  Lo stupore e l’icredulità (sic) del pastore Becker e di Wilfrid, i quali credono che l’ascensione abbia avuto luogo soltanto quando Minna esibisce la prova del fiore che non cresce in nessun luogo, indicano che nulla di questa esperienza di Minna appartiene «alla Terra empirica accessibile al controllo neutro delle percezioni sensibili». Appartiene invece alla terra immaginale, che «è il luogo degli accadimenti dell’anima. Senza di questa, essi non hanno più un luogo: “non hanno più luogo”». [...].

  In questo mondo intermedio, mondo delle «immagini metafisiche» la «forma immaginale» è al contempo «forma percepita e organo della percezione visionaria», allo stesso modo che Sophia, nel caso di Balzac Séraphîta, è luogo immaginale e organo teofanico. [...].

  Abbiamo visto che Séraphîta è, nella Commedia umana, una atopia: un margine «medio» all’interno del grande corpo dell’opera balzacchiana. un limite [...]. Il romanzo atopico è esso stesso collocato in un luogo atopico, che già era presente nel Falthurne, e che ritroveremo nel Lys dans la vallée. [...].

 

  5. La prima parola della gnosi.

 

  Chi è dunque Séraphîta? Androgino, donna angelo, oppure un demone, come sospetta Wilfrid? Questo «strano fiore umano» è, come dice lo stesso Séraphîtüs a Minna, «un proscritto lontano dal cielo; e come un mostro lontano dalla terra».

  La «creatura misteriosa», la «strana persona che vive nel castello» è dunque un proscritto, un esiliato, che vive la realtà del mondo come una «allucinazione».

  È per questo stato di estraneità alle cose abituali del mondo che Séraphîta scorge nell’«universo naturale delle cose e degli esseri», tra le «innumerevoli forme della natura», l’universo «sovrannaturale delle similitudini e differenze»; che coglie nella fragile creatura umana una potenzialità che nemmeno agli angeli è stata data, quella di essere essa stessa il termine medio fra «l’universo finito visibile» e «l’universo infinito invisibile». L’uomo, infatti, nella sua esistenza unisce ciò che è «inconciliabile per la vostra filosofia».

  Wilfrid, di fronte alle parole di Séraphîta, ha l’impressione di «una luce su un mondo di rovine», Egli, «il caino a cui restava una sola speranza e che pareva cercare qualche assoluzione ai limiti della terra», è iniziato con Minna a una esperienza che gli permette di vedere, attraverso le rovine mondane, «le nuvole di un sapere», che si riflette sul mondo nell’azzurro di un «crepuscolo del mattino».

  Wilfrid è iniziato, con Minna, a questo sapere che li trasforma in «navigatori in cerca dell'oriente», nei viaggiatori che vanno «attraverso le tenebre spesse delle astrazioni» della razionalità umana, verso un sapere che è amore, che è sentire: che è luce che illumina d’un tratto l’anima rendendola straniera a ciò che l’ha, fino a quel momento, occupata.

  Wilfrid e Minna diventano dunque stranieri al mondo, come straniera, e proscritta era Séraphîta prima della sua trasfigurazione. Ma «straniero» è «la parola chiave che risponde insieme a un sentimento e a una vocazione». [...].

  Questa parola primaria, fondamentale della gnosi, è quella che introduce al misticismo, di cui Balzac, traccia una vera e propria tradizione nella Préface du «Livre mystique». Qui. dice Balzac, l’autore non ha inventato nulla. Si «è sprofondalo nel mare e ha colto le perle vergini per la collana della sua madonna», esattamente come i trovatori e i Minnesänger, che secondo una tradizione sarebbero gli eredi di occidentali di questa cultura. [...].

  Il «peristilio» del Livre Mystique è intitolato proprio alla «prima parola della gnosi». È un racconto su I proscritti.

  Dante, il proscritto politico (come Wilfrid) e spirituale, colui che è andato scrivendo «ciò che amor mi ditta», che ha cioè teorizzato la parola e il sapere dell’amore, è a Parigi, insieme a Godefroid, in cui «l’amore spirava anche nella miriade di riccioli biondi che cadevano sulle sue spalle». In lui «la bellezza che, nelle figure femminili ci procura delle emozioni inesauribili (...) si sposava a delle tinte maschili, a una potenza ancora adolescente, che formava dei deliziosi contrasti». Godefroid è «un angelo», appunto, dall’aspetto androgino. L’angelo e il poeta, i proscritti, sono a Parigi per ascoltare Sigieri, «il dottore che sviluppava meravigliose teorie relative alle simpatie», ai «fenomeni dell’amore» alle «repulsioni istintive» e alle «attrazioni che disconoscono le leggi dello spazio». Nell’uomo, diceva egli, «queste sfere creano un mondo intermedio tra l’intelligenza bruta e l’intelligenza angelica». [...].

  Il racconto termina banalmente con il rientro, che non ha corrispondenza nella storia fattuale, di Dante a Firenze e con il ricongiungimento di Godefroid con la madre. Non è un grande racconto, ma è una delle innumerevoli tracce che Balzac ha disseminato nella sua opera della «prima parola della gnosi». Gambara è proscritto nel suo sogno, Frenhofer è esiliato nella sua follia, che, come vedremo, autentica veggenza. Proscritta è Véronique, ne Le curé de village, esiliata dal mondo dal suo pentimento. Proscritti, e portatori di una tensione che li spinge al di là del profilo chiuso del mondo oggettuale, sono anche Goriot, Raphaël. Proscritto è anche il grande criminale, una delle figure più straordinarie di tutta l’opera balzacchiana, Vautrin, che è anch’egli «un angelo decaduto».

  Infatti solo colui che è «radicato nell’assenza di luogo», solo colui che è nella condizione «atopica» dello straniero, del proscritto, dell’esule, è in grado di scoprire, al di là del profilo consueto delle cose e del mondo, il segreto che queste contengono: a volte celandolo e a volte svelandolo.

  La condizione «atopica» è dunque la condizione di un sapere nuovo. È la condizione della conoscenza del segreto.

 

  6. Agli dei ignoti.

 

«Dio vuole dei», scriveva Novalis. Diis ignotis, agli dei ignoti, è la parola che conclude la Préface du «Livre mystique». Ma gli dei, nel moderno, sono, come sapeva Balzac, e come ripeterà Aragon, diffusi e occultati ovunque. Come conoscerli, come arrivare ad essi, e come, dunque, attraverso la loro visione dare una risposta alle grandi domande che costituiscono la gnosi? Vale a dire le questioni che vertono su «che cosa sono io adesso? dove sono? perché sono venuto in questo basso mondo, dove mi sento estraneo e esiliato?».

  La risposta della gnosi è che se «io soffro il male, appartengo al bene». È una risposta che è ripetuta anche da Balzac. La donna conosce istintivamente il bene, perché ha «intelletto d’amore», l’uomo può conoscere come la donna, quando la malattia e la sofferenza abbiano sospeso le leggi della «ragione solo ragionante». Félix, nel Lys dans la vallée, a Mme de Mortsauf che gli chiede: «Come mai sapete queste cose? Siete dunque stato donna?», risponde: «La mia infanzia è stata una lunga malattia».

  E questo è un sapere che conduce oltre lo spazio occupato dalle passioni «volgari»: «Gabrielle, perché era donna, Etienne perché aveva molto sofferto e meditato percorsero subito queto (sic) spazio», come scrive Balzac ne L’enfant maudit.

  Ma Balzac non si limita a tracciare i lineamenti di un sapere altro rispetto al sapere mondano. Cerca questi tratti proprio all’interno di questo stesso sapere. Infatti, come scrive Curtius, «la conoscenza è il punto di incrocio di tutte le direzioni spirituali del mondo balzacchiano. Al di là dei rapimenti di eros, al di là dell’esaltazione dell’istinto di potenza, si eleva la vita spiritualizzata del conoscere», la sua via particolare alla gnosi, al sapere.

  L’atteggiamento di Balzac di fronte alla scienza, e alla tecnica del suo tempo, non ha riscontro nel suo secolo. Infatti la «condizione moderna» ruota da un lato intorno all’esaltazione della scienza come «il grande racconto del progresso», e d’altra parte intorno al grande «buco nero» in cui sembrano inabissarsi le cose che svaniscono per far posto al «grande nuovo che deborda da tutte le parti».

  «L’atteggiamento di Balzac, scrive ancora Curtius, nei riguardi della scienza può essere compreso soltanto con il suo imperioso bisogno di conoscenza assoluta». E come Novalis aveva affermato che «il reame del poeta deve essere nel cuore stesso del suo tempo», così Balzac trova la sua patria nella realtà e nella società del suo tempo, nella «contemporaneità» (che Baudelaire chiamerà più esattamente «moderno»). [...].

  Parigi è infatti «una splendida carica di intelligenza», un «oceano», «un’armonia assoluta» in cui è possibile percepire «il frastuono del mondo» e la «poetica pace della solitudine». [...].

  Balzac è convinto, come Marx, che la scienza del moderno, le grandi innovazioni tecniche e tecnologiche, siano una sorta di alchimia giunta finalmente a dispiegarsi in tutto il suo potere: nulla resta fermo, e tutto si trasforma sotto il suo tocco. I paesaggi, le cose, i soggetti sono in questo mutamento, che li porta verso nuove realtà, a disegnare un nuovo orizzonte del sapere e della vita.

  Ma questa ricerca degli «dei ignoti» del nostro tempo sembra non condurre, a differenza di Séraphîta, ad una patria ultima e definitiva di pacificazione. L’abisso che è in ogni azione, in ogni gesto, in ogni istante della nostra vita, può spingere il «saggio a perdere la sua ragione» in una vertigine senza fine [...].

 

  7. Dissonanze.

 

  Ne Le chef d’oeuvre inconnu il giovane Poussin incontra nello studio di Porbus un vecchio con «un che di diabolico nella figura», che critica la pittura di Porbus perché è fredda della morta rigidità di un cadavere. L’arte deve cogliere, invece, «lo spirito, l’anima, la fisionomia delle cose», e raggiungere in tale modo «la bellezza che è una cosa severa e difficile», perché si riuscirebbe così a tenere dentro una figura la vita che «deborda» e «fluttua nebulosamente all’intorno».

  Quando Porbus e Poussin giungono a vedere il «capolavoro sconosciuto» a cui Frenhofer sta lavorando da anni, non vedono nulla se non un intrico di righe tormentate, e, come un relitto di un’altra epoca, un piede, meravigliosamente disegnato, traccia della maestria rappresentativa, che per loro Frenhofer ha tradito spinto dalla sua follia.

  Per loro il quadro non rappresenta nulla, così come impossibile e indescrivibile è la musica di Gambara, così bizzarra, che, per parlarne «ci vorrebbero parole nuove». Gambara, quando è ubriaco, suona senza pensarci una musica stupenda, secondo i canoni tradizionali, ma non appena egli «vede» l’armonia a cui tende con tutto il suo spirito, si esprime in una spaventosa cacofonia.

  Gambara è certo di se stesso. Quando lo spirito «gli appare» tutto «gli sembra in fiamme». Vedo, egli dice, «le melodie faccia a faccia», che «irraggiano» attraverso «l’antagonismo necessario a ogni opera». Il consiglio che viene dato a Gambara è simmetrico alla delusione di Porbus e Poussin di fronte al «capolavoro sconosciuto» di Frenhofer: «se invece di cercare di esprimere delle idee, e di spingere all’estremo il principio musicale, ciò che ci fa superare i limiti, cercaste semplicemente di risvegliare in noi delle sensazioni, sareste meglio compreso». Ma Gambara, che ha «la chiave del verbo celeste», non può rinunciare ai «concerti di angeli» perché gli uomini non possono capirli. E finirà nella miseria, suonatore ambulante, accompagnato da una moglie che prima l’ha tradito e poi è tornata da lui, nei caffè parigini, così come Frenhofer finirà nel rogo della sua opera.

  Balzac sembra intimorito dalla sua stessa idea, che sarà ripresa da Thomas Mann nel Doktor Faustus, là dove il coro angelico sarà espresso dalla massima dissonanza che si esprime anche nel riso dei demoni, nell’esito ultimo, infernale appunto, di un amore della conoscenza, che diventa, come dice Balzac, «impero tirannico e geloso del pensiero sui cervelli che sono presi d’amore per esso».

  Balzac ha letteralmente anticipato la poetica di tutte le avanguardie del Novecento, ritraendosene come di fronte a una «deviazione». Ed è in Massimilla Doni, che questa sua coscienza e questo timore vengono alla luce. Anche «il fuoco del piacere» può collegare al ciclo, come «l’anima, l’intelligenza, il cuore, i nervi, e tutto ciò che nell’uomo produce uno slancio». Cataneo raggiunge una sorta di orgasmo mentale (e fisico) quando sente l’accordo di due voci, o di una voce con uno strumento. Viceversa è proprio l’amore casto di Emilio e di Massimilla, che si rivela «infecondo», e che sviluppa una sorta di ebbrezza oppiacea, «più violenta dei fatti», ma confinata in un’armonia che non ha esito. Viceversa l’estremo della passione spinge alla dissonanza, che è negazione dell'armonia, ma che è di fatto un’armonia superiore, perché ci mette di fronte alla cosa stessa, e non a un suo mero segno.

  Séraphîta sembra l’estremo tentativo compiuto da Balzac per affermare le «ragioni» dell’armonia contro il potere della disarmonia e della dissonanza. Ma in Séraphîta l’antagonismo, che è alla base di ogni esistenza e di ogni realtà, non è superato, ma soltanto sublimato. Questa sublimazione nasconde un segreto. E il motivo del segreto è un filo che corre lungo tutta l’opera e la vita di Balzac.

 

  8. La valle felice.

 

  Le Lys dans la vallée non è soltanto l’opera in cui Balzac ha più direttamente comunicato le esperienze decisive della sua infanzia e della sua adolescenza. È anche l’opera che egli ha voluto, come abbiamo visto, connettere organicamente più di ogni altra all’esperienza narrativa e filosofica di Séraphîta. Per questo Le Lys è rimasto, per la critica, altrettanto «inclassificabile» di Séraphîta, ma può condurci, forse, più in prossimità del «segreto».

  Se Séraphîta è il romanzo di Swedenborg, Le Lys è il romanzo di Saint-Martin, il «filosofo sconosciuto». Ugualmente forte è la prossimità con l’idealismo tedesco, per esempio nella profezia della vita futura di Félix, che ripete la visione di Enrico di Ofterdingen di Novalis.

  Félix, dunque, arriva, attraverso mille peripezie, alla «valle» in cui è Henriette, «con i sensi intelligenti dell’amore», con quel sapere che è delle donne e della malattia e della sofferenza. È preso da un «doppio amore» per la donna, amore fisico e spirituale, che egli ritiene inseparabili, in quanto «anche l’anima ha un sesso», è «visibile e palpabile».

  Insieme, Felix e Henriette, tendono all’ideale dell’androgino, che è «la viva espressione di due anime libere che si compiacevano nel formare idealmente quella meravigliosa creatura sognata da Platone, conosciuta da tutti coloro che hanno avuto la giovinezza colmata da un amore felice», e attraverso la quale si arriva ad amarsi «in tutti gli esseri e in tutte le cose che ci circondano».

  Ma solo il perfetto androgino sarebbe l’essere in grado di soddisfare sia l’amore spirituale che l’amore sensuale. Eccezione rarissima perché, come dice Balzac ne L’enfant maudit, [...] «di solito l’amore vuole uno schiavo e un dio», mentre i due fanciulli dell’Enfant maudit, realizzano «il sogno delizioso di Platone» e non c’era, nella loro unione, che «un solo essere divinizzato». Avevano realizzato l’angelo «con i piedi posati sul suolo». Avevano «compiuto quel bel sogno del genio mistico di Platone e di tutti quelli che cercano un senso all’umanità: facevano una sola anima, erano quella perla misteriosa destinala a ornare la fronte di qualche astro sconosciuto, una speranza per tutti». Infatti se «il significato dell’amore risiede nel superamento dell’individualità e nella mescolanza dei due nell’uno, l’unione fisica ottiene la sua simbolica sanzione» e l’amore autentico, fisico e spirituale, è «proprio la graduale fusione di due nature, che realizza l’androgino platonico».

  Il figlio sarà schiacciato dalla maledizione del padre, come Gambara o Frenhofer saranno schiacciati proprio dalla verità che essi avevano raggiunto.

  Henriette, Mme Mortsauf, rifiuta questo fine, l’androginia perfetta, e vuole un’androginia puramente spirituale. Si dà un ruolo di santa, che Félix finisce per accettare, prima legandosi a una donna che è solo sensualità e crudeltà, poi, dopo la morte di Henriette, traducendo il suo amore in volontà di potenza. «Mi risolsi. scrive, di proiettarmi verso la politica e la scienza, nei sentieri tortuosi dell’ambizione, di allontanare la donna dalla mia vita, e di essere un uomo di stato freddo e senza passioni, di rimanere fedele alla santa che avevo amato».

  Questa «fedeltà» all’amore della «santa», fatta di ambizione e freddezza è eccessiva anche per Balzac, che pure mette sulla bocca del santo curato de Le curé de village, i profitti e le rendite che Véronique avrebbe tratto, come un effetto secondario ma decisivo, dalla santificazione e dal suo pentimento. E, in effetti, che l’amore senza possesso «sia una esasperazione dei desideri», e quindi una sorta di deviazione, Balzac finisce per mostrarlo proprio nel Lys. Henriette, prima dell’ultima santificazione, esprime moribonda, con una crudezza estrema, il desiderio che l’angelizzazione assessuata aveva occultato ma non vinto. L’apoteosi che di Henriette ha scritto Félix, in una lettera a Natalie de Manerville, si rivela, nella risposta di Natalie a Félix, come un tentativo di seduzione, che viene rifiutato perché sostanzialmente falso, o perlomeno ambiguo, aprendo il romanzo a una lacerazione tragica e parodistico insieme: in una parola, paradossale.

  Se la vita è costituita da un antagonismo irresolvibile, questo si manifesta in primo luogo nella polarità sessuale, che non può appunto risolverlo, ma può soltanto trasformarlo in un (sic) figura in cui questa duplicità possa avere luogo in una sorta di strana e paradossale unità, che è quella dell’androgino. Il linguaggio della duplicità, del paradosso, non è quello della razionalità, e nemmeno quello della santità. È nel mito che la natura doppia si muta, e diventa una, pur mantenendo la sua duplicità. E Balzac è un grande creatore di miti, da Vautrin, alla Pelle di zigrino, a Goriot, a quasi tutta la sua opera, anche là dove questa sembra più chiusa all’interno di un vero e proprio furore descrittivo.

  Infatti non abbiamo realismo in Balzac, ma piuttosto un «effetto di realtà», che nasce dal delirio finanziario, dalle monomanie che spingono al di là dell’umano, in una dimensione di vera e propria oltranza mitica. Persino l’attesa del futuro, che caratterizza in altri scrittori l’ansia del progresso, è in Balzac la proiezione verso un invisibile, verso un mondo che sta sempre al di là del bordo opaco delle cose e delle azioni, ma che dà alle cose e alle azioni in loro un autentico contenuto di verità.

  È nel mito e nella tragedia che si esprime la duplicità del reale, che è in primo luogo, come abbiamo detto, duplicità sessuale, ma anche antagonismo fra visibile e invisibile, ciò che fa dire a Louis Lambert, molto prima di Nietzsche, che non esistono fatti, ma appunto le idee, le immagini, le interpretazioni dei fatti.

  Séraphîta è il testo in cui Balzac si approssima di più alla definizione della necessità del mito ed è anche quello in cui il mito viene dissolto in allegoria, disperdendo la tensione, l’antagonismo, la dissonanza in un’armonia che sembra allontanarci dalla realtà del mondo. Eppure è anche il testo come vedremo, che ci permette di cogliere questa «necessità» all’interno di tutta la Commedia umana. Prima che questo testo venisse preso in considerazione, per esempio da Curtius, la natura dell’opera di Balzac era rimasta totalmente disconosciuta, se non da altri scrittori, cercatori di assoluto, autentici viaggiatori, che viaggiano per amore del sapere e del viaggiare, come Baudelaire o Flaubert.

  E Séraphîta non ha ancora certamente svolto del tutto il suo compito.

 

  9. Il segreto.

 

  Perché Balzac arretra di fronte alla sua scoperta dell’androgina come fine: come meta da raggiungere per cogliere, attraverso di essa, l’antagonismo che costituisce la realtà del mondo?

  Ci sono numerose tracce nella Commedia umana, che fanno pensare che Balzac è arretrato di fronte a questa meta, perché l’androgina era una tentazione fin dal principio presente nella sua anima: come una tensione letteralmente diabolica, vale a dire come un principio di divisione e di ambiguità.

  Balzac, che talvolta, quando si nascondeva ai creditori, si faceva chiamare vedova Durand, e che ha firmato con questo nome più di una lettera, fa emergere tratti androgini nel suo alter-ego Louis Lambert, e nell’altro suo autoritratto, il Félix de Le Lys dans la vallée. Taddeo Paz ne La fausse maîtresse, dichiara che «nell’amore ha imparato a conoscere le gioie della maternità». L’eroico civilizzatore, il dottor Benassis ne Le medicin (sic) de campagne, ha «già conosciuto le gioie crudeli della maternità», ed è questo sentimento che viene «allargando a una sfera più ampia» quando decide «di diventare una suora di carità per tutto il paese».

  Lo stesso Vautrin nei confronti prima di Rastignac, e poi di Lucien, nelle Illusioni perdute e in Splendori e miserie delle cortigiane, finisce per «corrompere» la sua aspirazione ad una sorta di sterile paternità con un’omosessualità, che si caratterizza come una strana e perversa maternità, di cui troviamo traccia anche in un passo de Le Lys. «Mi amate santamente» chiede Henriette, e poi, incalzando Félix con le sue domande: «Mi amate come una madre?». E Félix risponde: «come una madre segretamente desiderata». Tratti androgini emergono, come abbiamo visto, anche nel Godefroid dei Proscritti, in Sarrasine. In una parola, in quasi tutti i testi in cui l’amore abbia un ruolo importante e significativo.

  Nel momento in cui Balzac, con Séraphîta, si avvia verso una visione filosofica dell’androginia, come fusione primordiale del maschile e del femminile propria della sigizia gnostica, in realtà egli rimuove questo «segreto» che percorre tutta la sua opera. [...].

  Balzac si è mosso qui all’indietro, verso una spiritualizzazione dell’androgino, mentre Novalis, per esempio, affermava che «quando si palpa un corpo umano si tocca il cielo». [...].

  Balzac ha percepito questo movimento. Ha posto l’androginia come fine del processo amoroso, del sapere dell’amore, di quella episteme ton erotikon che anche Platone aveva risolto, contro l’androgino di Aristofane, in una muta ed estatica contemplazione di una bellezza che non ha più in sé differenze. Ma, riconoscendo in sé la forza demoniaca dell’eros androgino, che deborda attraverso ogni sua pagina anch’egli, come Platone, cerca di contenerla attraverso il farmaco della filosofia. Séraphîta rinuncia alla paradossalità mitica per diventare uno figura compiutamente filosofica. Regredisce dal sapere di miti e figure, di cui è intessuta tutta l’opera di Balzac, per proporsi come la soluzione che tutti i testi della Commedia umana dichiarano impossibile.

 

  10. Nel museo del moderno.

 

  Nel mito. Narciso continua ad amare sé, e morire di questa follia amorosa; Dioniso continua ad essere ucciso dai titani, e a rinascere dalla sua morte; la pelle del Zigrino si restringerà ogni volta che Raphaël disperderà, nella tensione del desiderio, un soffio vitale. Il mito è una scoperta e una trasmissione di sapere, ma una trasmissione di sapere tutta particolare a cui nemmeno Platone, che pure ha ingaggiato con il sapere mitico una grande battaglia della verità, ha saputo rinunciare interamente. [...].

  Balzac, con Séraphîta, ha [...] tradotto la ricerca infinita della dimensione androgina, come luogo in cui la duplicità e l’antagonismo potessero essere insieme senza cancellarsi vicendevolmente, nell’allegoria angelica dell’ascesi di Séraphîta, cercando così di rimuovere la tensione terribile dell’androgino dentro di lui: di un’esperienza della duplicità sessuale, che rendeva ogni esperienza amorosa un’esperienza estrema, un rischio di uscire dai propri limiti. In una parola: una esperienza atopica.

  Balzac, dopo Séraphîta, si rituffa nel grande e magnifico museo delle strade, ad osservare la collezione di gesti, di cose, di andature, di atteggiamenti, che costituiscono la grande città del moderno come il luogo di un’esperienza di frammenti incomponibili fra di loro.

  Il mistico torna ad essere il «segretario della sua epoca», colui che ne registra accuratamente i tratti nello sterminato regesto di un’opera che cresce fino a diventare mostruosa, impensabile. Ma la moltiplicazione delle sue pagine viene a dirci esattamente quello che ci ha detto il capolavoro sconosciuto di Frenhofer o la musica ili Gambara. È la dissonanza che può cogliere la verità dell’irrappresentabile del reale metropolitano. Il fallimento dell’ascesi di Séraphîta all’armonia ci scopre, più di ogni altra cosa, il senso di un «corpo a corpo mortale», come dirà Benjamin, con il moderno, per cercare nel mutamento stesso, nella tensione e nella pluralità, i tratti di una verità fino a quel momento sconosciuta.

 

  11. Balzac fuori di sé.

 

  I critici si chiedono ancora oggi, in rapporto ad ogni opera balzacchiana, che non rientri all’interno di un canone ormai ampiamente usurato, «se Balzac non abbia avuto torto nel volere uscire dal suo dominio naturale» che è ovviamente quello dell’osservazione descrittiva.

  Bardèche avanza l’ipotesi che «esistano acque profonde in Balzac», che sono però «estranee alla sua esplorazione melodica della società». Viceversa, lettori come Albert Béguin, hanno trasformato Balzac in un visionario, che si muove soltanto in mezzo a «forze sovrannaturali», siano esse il «Denaro, il Potere, la Passione, L’Ambizione (...), Materia e Spirito, Vita e Energia, Inferno e Paradiso, Dio e Satana». I primi vedono i testi «esoterici» di Balzac come un’uscita da sé e dal suo ambiente naturale; i secondi vedono invece Balzac al di fuori del suo tempo, opponendolo, come un visionario isolato, ad altri cosidetti realisti come Flaubert. Una posizione mediana è assunta da critici come Borel, che [...] vedono nel misticismo balzacchiano una sorta di perversione, interna alla sua opera, ma riconducibile, in ultima istanza, al suo interesse per gli stati morbosi, e dunque come un episodio che può essere ricondotto all’interno del suo «dominio naturale ... Curtius è il primo grande critico di Balzac che tiene insieme entrambi i poli della sua opera, facendoli interagire e riverbare l’uno sull’altro. Ma anche Curtius non sfugge alla tentazione di isolare La commedia umana da alcune letture, come quella di Zola per esempio, che in realtà ne costituiscono una sorta di autentico complemento. Tutto ciò che produce uno slancio nell’uomo, «l’anima, l’intelligenza, il cuore, i nervi», lo «collega al cielo attraverso il desiderio», o anche «con il fuoco del piacere». L’uomo è, come abbiamo già visto, l’essere intermedio, creatura di mescolanza, fra il materiale e l’immateriale, il visibile e l’invisibile, la sensazione e il concetto. L’uomo è paradossalmente destinato a superare se stesso anche quando si accanisce nell’abitudine, in quanto anch’essa è una passione, anche se «una passione nana», che lo spinge oltre i suoi limiti. Come d'altronde, non esiste spiritualità che non sia destinata ad attraversare il campo della materia, ad incarnarsi in essa, a diventare passione, desiderio, cosa o amore per le cose. Il santo prete Bonnet, come abbiamo visto, mescola la missione e la redenzione di Véronique alle rendite. Parla della conversione di Farrabesche come una conquista, in termini, a dir poco, napoleonici: «Quest’uomo» chiede Véronique, «è la vostra prima vittoria?». «Sì» rispose. «La sua conquista doveva rendermi tutto Montégnac, e non mi sono sbagliato».

  Anche Séraphîta vive questa mescolanza. La sua spiritualità si mondanizza fino a sfiorare la civetteria nei dialoghi con Wilfrid, ed è soltanto nell’apoteosi finale che Balzac esce dal suo universo duplice per cercare di fissare definitivamente un solo aspetto di Séraphîta, l'aspetto angelico e spirituale, negando così al suo personaggio quell’infinita possibilità che è data all’uomo proprio per la complessità della sua natura.

  La semplificazione, e dunque l’allegorizzazione del personaggio, proprio perché esito di una tensione terribile, che rende la stesura di quest’opera la più impegnativa di tutta la Commedia umana, e proprio perché unica, non può essere sottovalutata. Balzac tenta di percorrere con Séraphîta fino in fondo la strada di quell’erotica del sapere che il primo romanticismo, soprattutto tedesco, aveva ereditato dalla grande tradizione mistica. E ne verifica il fallimento proprio nel programma di portare il mondo all’unità attraverso un’unità di linguaggio [...]

  Balzac, quando giunge al punto terminale della sua riflessione, non sa teorizzare che una angelicazione che è negazione della differenza: scissione fra il visibile e l’invisibile, che invece si trovano in unità conflittuale in tutta la sua opera.

  In questo senso la Commedia umana è una delle grandi articolazioni del tragico moderno, vale a dire dell’impossibilità di rappresentare in un linguaggio la tensione fra vecchio e nuovo, fra «anima» e «esattezza», fra «concetto» e «esperienza».

  Ma credo che anche questa lettura, che pure pone l’opera di Balzac ai vertici della riflessione e della produzione estetica del XIX secolo, sia riduttiva. Balzac, in realtà, mentre cercava di celebrare una tradizione che egli pensava potesse innestarsi sul pensiero del moderno, ne verificava anche la crisi e la debolezza. Il problema non era più, che Balzac ne fosse cosciente o no, quello di superare la disarmonia nell’armonia, ma di trovare nella disarmonia stessa un nuovo accordo. Il capolavoro di Frenhofer o la musica di Gambara sono esattamente questo accordo [...]. Il luogo di queste mille voci non è il paradiso a cui Séraphîta ascende dopo la rinuncia alla sua duplicità sessuale, ma lo spazio della metropoli, lo spazio in cui «nessuna armonia è assente». [...].

  Balzac ha posto giustamente Séraphîta al centro della sua opera, non in questo essa ne sia il punto terminale, ma proprio come il punto mediano di un viaggio, che dalla pluralità si muove verso l’unità, per riportarsi di nuovo nel mondo mutevole dei soggetti e delle cose. Nel mondo in cui ha luogo l’esperienza autentica di un sapere che ha vinto la tentazione di andare oltre le cose, e si fonda invece sull’amore per la cosa, che solo così viene strappata al suo statuto di mero oggetto condizionato e ci restituisce lo sguardo che abbiamo diretto su di essa, scoprendo che ciò che abbiamo scambiato per mera condizionatezza era in realtà la sua capacità di contenere in sé i limiti di tutto ciò che la può contraddire.

  Lo sguardo di questo «amore per la cosa» che abita in ciò che in prima istanza si dà come dissonanza, è l’atto atopico estremo. Non annulla utopicamente lo spazio in cui la cosa ha luogo, ma lo trasforma in un altro spazio: nello spazio della sua liberazione.

 

 

  Franco Rella, Notizia, in Honoré de Balzac, Teoria della andatura ... cit., pp. 61-81.

 

  1. Un’opera e un progetto.

 

  Nel 1839 l’editore Charpentier ripubblica la Physiologie du goût di Brillat-Savarin. Il testo è seguito dal Traité des excitants modernes di Balzac, che vi premette un “Preambolo”, contaminato, come egli stesso dice, “dalla pestilenziale malattia conosciuta sotto il nome di ANNUNCIO”, che doveva publicizzare la prossima pubblicazione della Pathologie de la vie sociale, e al contempo un programma, o meglio una “intenzione”, che evidentemente aveva attraversato tutta la vita di Balzac, e che rimarrà sempre presente in lui, anche se non sarà mai interamente compiuta.

“È dal 1820”, epoca della prima stesura della Physiologie du marriage (sic), scrive Balzac, “che ho formulato il progetto di concentrare in quattro opere di morale politica, di osservazioni scientifiche, di critica satirica, tutto ciò che riguarda la vita sociale analizzata in profondità. Tali opere, tutte iniziate e tutte allo stesso punto di esecuzione, devono intitolarsi Studi analitici, coronando la mia opera degli Studi di costume e degli Studi filosofici”.

  La prima di queste opere doveva essere costituita dall’Analyse des corps enseignants, analisi dei processi educativi del fanciullo fino all’età del matrimonio, che doveva costituire la seconda tappa degli (sic) Études analytiques con la Physiologie du marriage, già scritta. La terza tappa è la Pathologie de la vie sociale, ou Méditations mathématiques, physiques, chimiques et trascendentes (sic) sur les manifestations de la pensée, prises sous toutes le formes que lui donne l’état social, soit par le vivre et le couvert, soit par la démarche et la parole, etc. (Supposez trente etc).

  La quarta parte avrebbe dovuto essere la Monographie de la vertu. Ma, attorno a questo progetto “pullulano”, per dirla con Balzac, altre idee. Nel suo Album compaiono anche, per es., un Dialogue philosophique et politique sur la perfection du XIX siècle, e un Essais sur le forces humaines, che non sarebbero mai stati scritti. Con ogni probabilità perché essi erano già stati scritti in un piccolo saggio di “critique railleuse”, pubblicato in quattro puntate nel 1833 su “l’Europe littéraire”. Si tratta della Théorie de la démarche, saggio centrale dell’opera Patologia della vita sociale, come essa ci è effettivamente pervenuta.

 

  2. Un’opera e un intreccio di opere.

 

Le prime annotazioni relative alla Teoria dell’andatura risalgono al 1830. Ma Balzac comincia e porta a termine quest’opera in un momento particolare, vale a dire all’incrocio di una serie di altre opere, che costituiscono il corpo filosoficamente emergente della sua produzione: il suo momento più estremo e rivelatore.

  Nel settembre del 1832 scrive la Notice biographique sur Louis Lambert. Nel novembre dello stesso anno indirizza sulla “Revue de Paris” una Lettre a Charles Nodier, autore orfico e esoterico, che connette le emergenze mistiche del romanticismo francese all’aspetto più notturno ed esoterico del romanticismo tedesco.

  All’inizio del 1833, Balzac contemporaneamente corregge La pelle di zigrino, riscrive la Notizia biografica su Louis Lambert, con il titolo più appropriato di Histoire intellectuelle de Louis Lambert, e redige la Teoria dell’andatura. Vale a dire il complesso di opere che, insieme al Capolavoro sconosciuto e a Séraphita, costituiscono la dichiarazione filosofica e di intenzione poetica più complessa e articolata che egli ci abbia mai proposto.

  Il Louis Lambert, in particolare, è il tentativo di giungere attraverso il visibile (la dimensione “realistica” di Balzac!) all’invisibile con la forza del pensiero, perché il pensiero è una forza, e i suoi effetti sono terribili. Descrivere il visibile per giungere all’invisibile è il programma della Frühromantik. È l’intenzione di Balzac, come lo sarà di Flaubert e di Kafka.

  Sentiamo la descrizione di questo romanzo nelle parole di Flaubert, che aveva egli stesso scritto Madame Bovary “in odio al realismo”:

  “Sono terrorizzato in questo momento, e se ti scrivo forse è per non restare solo con me stesso, come si accende una lampada di notte quando si ha paura. Non so se mi capirai, ma è molto strano. Hai letto un libro di Balzac che si intitola Louis Lambert? L’ho terminato da cinque minuti; mi folgora. È la storia di un uomo che diventa folle a forza di pensare alle cose intangibili. S’è arpionato a me con mille ami. Questo Lambert è, pressapoco, il mio povero Alfred. (...). Ti ricordi che ti ho parlato di un romanzo metafisico (in progetto) in cui un uomo, a forza di pensare, arriva ad avere delle allucinazioni, al termine delle quali gli appare il fantasma dell’amico, per trarre la conclusione finale (ideale, assoluta) da premesse (mondane o tangibili)? Ebbene, questa idea è lì indicata, e di tutto questo Louis Lambert ne è la prefazione. Alla fine l’eroe vuole castrarsi per una specie di mania mistica. Ho avuto, in mezzo alle mie noie parigine, a diciannove anni, questa tentazione (ti mostrerò nella rue Vivienne una bottega davanti alla quale mi sono fermato una sera, preso da questa idea con un’intensità imperiosa), quando sono rimasto due anni interi senza vedere una donna (...). C’è un momento in cui si ha bisogno di farsi soffrire, di odiare la carne, di gettarle addosso del fango, tanto vi sembra schifosa. Senza l’amore della forma forse sarei stato un grande mistico. Aggiungi a questo i miei attacchi di nervi, che non sono che l’involontaria derivazione d’idee e di immagini. L’Elemento psichico allora salta al di sopra di me, la coscienza sparisce con la sensazione della vita. Sono sicuro che so cosa significa morire. Ho spesso sentito che la mia anima mi sfuggiva, come si sente il sangue che cola da una ferita. Questo diavolo d’un libro mi ha fatto sognare Alfred tutta la notte (...). È questo Louis Lambert che ha chiamato Alfred questa notte (...). Oh! come ci si sente prossimi alla follia certe volte, io soprattutto (...). Quel maledetto libro! Mi fa male; come lo sento!” [Lettera a Louise Colet del 27 dicembre 1852].

  Flaubert è terrorizzato dal Louis Lambert, perché egli è Louis Lambert, come lo è dunque, tanto più, Balzac. È la tragedia di una tensione, a cui non è possibile sottrarsi, che spinge ad andare oltre i limiti. Ma oltre questi limiti, a cui siamo trascinati da una forza, quella del pensiero, che è molto più grande di quella che viene investita negli affari di tutti i giorni, e a cui dunque non possiamo sottrarci, c’è la follia, vale a dire un antagonismo di forze di vita e di morte che conducono fuori dal sentiero che percorriamo abitualmente, in cui sono le cose di cui non possiamo appagarci.

  È “l’abisso che seduce”, scrive Balzac nella Teoria dell’andatura. Un abisso in cui il folle precipita, e che lo scienziato misura traducendolo in cifre. Nessuno sa chi di loro è più vicino alla verità. Il luogo che Balzac vuole occupare è quello che sta fra follia e scienza sull’orlo dell’abisso. È il punto di vista da cui possiamo scorgere che anche i gesti abituali tradiscono la tensione dell’altro. Che anche le cose, che abitualmente sembrano poterci pacificare con la loro consistenza, hanno un bordo oscuro, o sprigionano una luce che è la loro realtà metafisica. Forse nessuno può sottrarsi all’abisso. Anche la portinaia volgare, come nel Cugino Pons, può conoscere il brivido terribile di Louis Lambert, quando si spinge verso le cose, con la stessa terribile forza con cui Lambert si spingeva verso l’intangibile. È questa, infatti, la forza che porta oltre le cose, verso una realtà incognita.

  La teoria dell’andatura è un testo “leggero”, giornalistico. Come scrive Rose Fortassiere (sic) è “la versione laica, giornalistica, umoristica del Louis Lambert, la volgarizzazione di un pensiero esoterico”. Eppure, come scrive Castex, “mai Balzac è stato più serio”.

 

  3. Varie opere dentro un’opera.

 

  Prendiamo alla lettera Balzac. La Teoria dell’andatura è un trattato fisionomico: si tratta della fisionomia gestuale e del movimento.

  È il primo strato dell’opera, ovvero la prima opera dentro l’opera. È il Balzac, come ce l’hanno fatto conoscere, le storie letterarie. Il Balzac vorace osservatore di costumi, di modi di atteggiamenti, di fisionomie. Egli si mette sulla strada e osserva. Prima di tutto un grosso Monsignore che, passando, concede al suo osservatore “l’obolo di tutta la sua vita e un mondo intero di riflessioni”, in quanto ognuno di noi ha un minuscolo particolare “in cui trionfa l’anima, una cartilagine di un orecchio che arrossisce, un nervo che vibra, una maniera troppo significativa di serrare le palpebre, una ruga che si affossa intempestivamente, un tremito eloquente nella voce, una respirazione che diventa difficoltosa ...”. È un metodo indiziario, che si impara direttamente dalla strada, dall’osservazione, che ci permette di “scoprire un rimorso, un vizio, una malattia vedendo un uomo in movimento”.

  Ma Balzac va più lontano. È convinto che “i movimenti dell’uomo sprigionino un fluido animico”, che “il movimento comprenda il pensiero, che è l’azione più pura dell’uomo”. Egli deve spingersi dunque verso il secondo strato della sua opera, verso la definizione di quella che potremmo definire l’azione del pensiero. È il tema del dispendio, che troverà posto nella scienza ufficiale soltanto un secolo dopo. Se, infatti, possiamo risparmiare il nostro fluido vitale, amministrandolo come per esempio Fontanelle, “ogni movimento esorbitante” è però “di una prodigalità sublime”. Non esiste opera grande, una realizzazione soggettiva o collettiva, che non comporti questa dépense, questa prodigalità di sé, che ci avvicina inesorabilmente alla morte. D’altronde “il riposo”, vale a dire “il silenzio del corpo”, è atrofia, è anch’esso deviazione, morte. Il sonno, come aveva detto Nodier, “è morte intermittente”. Prolungato diventa pietrificazione dell’anima, congelamento del flusso, della vis humana, dell’intelligenza. Allora tacciono le tensioni che legano tutte le cose, che si stendono in una sorta di deserto: da loro non si sprigiona più alcuna luce e le corrispondenze diventano i giunti meccanici che legano gli oggetti che non comunicano più verità.

  La teoria dell’andatura è percorsa da questa segreta riemergenza di tematiche esoteriche, che troveranno espressione compiuta in Séraphita. Ambizione di Balzac è quella non di opporre il sapere di questa tradizione al sapere del moderno, ma di spiegare questo attraverso quella. Il “magnifico museo della strada” è il luogo vero della veggenza. La vita moderna, la sua scienza e le sue tecniche, ci permettono, come mai in passato, di giungere ai limiti oltre i quali si può guardare soltanto con una “seconda vista”, interiore, che non si instaura, come in Platone, accecando la vista dei sensi, ma piuttosto rendendoli più acuti.

  E questo è il terzo strato dell’opera. Se il movimento contiene il pensiero; se l’analisi del movimento può essere la scoperta del fluido “animico”, che ci mette in prossimità della verità, di parlare, per così dire “alle soglie di Dio”, nessuna epoca è caratterizzata dal movimento come quella del moderno.

  Balzac anticipa profeticamente le analisi che, da Benjamin a Bernam sono state fatte del moderno in termini di “movimento” e di “nuovo”.

  Siamo in un tempo in cui “ogni mattina si alza un numero incommensurabile di cervelli affamati di idee”, in cui nuovi linguaggi, come quello pubblicitario, sanno scavare nelle viscere del secolo più egoista per scoprire segrete simpatie, per cui si crede che “un’idea nuova sia più che un mondo”, perché essa “offre un mondo, senza contare il resto”. Ed è questo amore per il “nuovo”, un’autentica passione, che porta l’autore a collocare una sedia sul Boulevard e a guardare i passanti, a decifrare le ricchezze nascoste, ad andarsene con il tesoro di una nuova conoscenza, che è inseparabile dalla pluralità degli eventi, e che consiste nella scoperta abbagliante che tanto il movimento sociale è determinato, quanto esso scopre chances sempre nuove.

  Il genio dell’osservazione è “un genio multiplo”, plurale, in quanto scopre un sapere paradossale: il movimento nell’immobilità di forze uguali e contrapposte, l’assoluta necessità accanto all’assoluta libertà. Scopre, in una parola, un caos, un groviglio, che non può essere dipanato ma che deve essere espresso da una “nuova arte espositiva”.

  Ci vuole arte nel labirinto, ci vuole “metodo” nella follia che in qualche modo è implicita nel sapere paradossale. E questo è il quarto livello, o meglio la quarta opera nell’opera.

  La teoria dell’andatura è il discorso sul metodo di Balzac. Egli ci parla dell’illuminazione che folgora l’intelligenza con un’idea. Della lunga sedimentazione, quando essa si occulta e sembra inafferrabile, o sembra che noi abbiamo paura ad afferrarla e ci dedichiamo a passioni fugaci, a diversioni ridicole. Parla della sua riemergenza, quando tutto sembra organizzarsi attorno al suo centro, e si affollano mille fatti sepolti dentro di noi, che sono illuminati dalla luce dell’idea finalmente attiva. Tutto, come dirà Proust, sembra prima immerso in un lago nella notte in cui galleggiano figure informi, poi tutto si organizza in uno sguardo, in una prospettiva. Ma, come avvertirà Valéry, questo non garantisce nulla. Un folle, dice Balzac, spende la sua vita pensando al movimento uguale, ma con effetti così diversi, con cui apriamo o chiudiamo la porta. Interroga Dio senza successo, e precipita appunto nell’abisso della follia. Lo studioso prende la sua squadra e traduce l’abisso in cifre. Ebbene, “non c’è uno solo dei nostri movimenti, né una sola delle nostre azioni, che non sia un abisso in cui l’uomo più saggio non possa perdere la sua ragione, e che non possa fornire allo studioso l’occasione di prendere la sua squadra e di tentare di misurare l’infinito”. Non sappiamo chi dei due sia più prossimo alla verità. “Io, scrive Balzac, sarò sempre fra la squadra dello studioso e la vertigine del folle (...). Questa Toria (sic) non poteva essere fatta che da un uomo abbastanza audace per costeggiare la follia senza timore e la scienza senza paura”.

  Parole forse eccessive in quella che è stata definita forse l’opera più leggera della Commedia umana. Parole giustificate, come vedremo ben presto.

 

  4. Un’altra opera ancora.

 

  La Teoria dell’andatura termina con un motto “leggero” di Henri Monnier: Togliete l’uomo dalla società e lo isolerete. Motto quasi banale, ma che riporta l’attenzione su un fatto centrale nell’opera di Balzac. Per il Socrate platonico la filosofia e la conoscenza potevano aver luogo solo nella città, e così è anche per Balzac. E per costituire sapere all’interno del groviglio di voci e di conoscenze della città è necessaria l’ironia, ovvero quella che Balzac definisce una critique railleuse, che talvolta sfiora la caricatura, l’aneddoto, e che nella Teoria dell’andatura, ad un certo punto, sfocia nella satira politica.

  È un altro livello di lettura di questa operetta prodigiosa per la leggerezza del suo stile e per la densità dei suoi temi.

  “L’idea che allora mi colpì tanto vivacemente, idea a cui la science des riens è debitrice oggi della Teoria dell’andatura”. La prima lettura “leggera” di questa frase porta sull’autoironia di Balzac, che proponeva su un giornale letterario osservazioni futili, quadretti di osservazioni caricaturali, con il tono serio di uno scienziato dell’Accadémie (sic). Eppure questi “riens” attraversano tutto il testo e, alla fine, ne scoprono la dimensione tragica.

  Infatti, prima del motto conclusivo di Monnier, che dovrebbe tranquillizzare il lettore, abbiamo questa osservazione molto meno tranquillizzante. “Scavando in tutte le cose umane vi troverete l’antagonismo spaventoso di due forze, che producono la vita, ma che lasciano alla scienza soltanto una negazione come formula. Nulla sarà la perpetua epigrafe dei nostri sforzi scientifici”. Rien. “Ecco. Abbiamo fatto un certo cammino. Siamo ancora al punto del folle nella sua cella che esamina l’apertura o la chiusura della porta; relativamente al mio discorso: la vita o la morte”. Tutto è vanità ha detto Salomone; “ridi e bevi” ha detto Rabelais.

  Balzac, che voleva essere il “segretario della sua epoca” scrive questo “nulla” “sotto la dettatura del suo secolo”. Lo scienziato e il folle, uniti paradossalmente per un sapere che non può non essere paradossale, scoprono ciò che nessun altro sapere può scoprire: l’antagonismo irrisolvibile, che ci mette di fronte a un incognito che non sappiamo nominare altrimenti che come nulla. Flaubert, che si identificherà fino al terrore con Balzac, sognava di scrivere un’opera su nulla: una trama perfetta sull’abisso, che ci permettesse di spingere lo sguardo più profondamente dentro nulla.

  Siamo, a mio giudizio, nell’acme del tragico del moderno. Tutto il cosidetto “pensiero negativo” vi è già compreso. E Balzac è forse colui che si è spinto più avanti verso questo nulla, verso questo strano e terribile paradosso, tanto da veder continuamente emergere ai suoi bordi figure, atteggiamenti, positure, andature, traiettorie e peripezie. In questo senso è forse quello che ha meglio preparato la strada al nuovo falso agrimensore, che segnerà i contorni di una svolta, la possibilità stessa di trasformare il nulla in un paesaggio.

 

  5. Il testo.

 

  La Comédie humaine è la più grande sequenza narrativa che mai sia stata scritta. Honoré Balzac, nato nel 1799, inizia la sua attività letteraria intorno al 1820. Ma è nel 1830 che inizia ad affacciarsi in lui l’idea di quella che sarà appunto La commedia umana. Nei vent’anni che seguirono fu “un movimento esorbitante, una prodigalità sublime” di scrittura che lo portò alla più grande e complessa costruzione letteraria di tutta la storia dell’umanità. [...].



  Francesca Saba Sarti, Introduzione, in Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane ... cit., pp. 5-14.

 

  [...]. Va subito aggiunto che all’epoca di Balzac, nato nel 1799 e morto a soli cinquantun anni, nel 1850, dopo aver partorito ben centotrenta volumi, il romanzo di concezione, forma, stile, misura ottocentesche era in statu nascendi, e che anzi Balzac fu uno dei padri fondatori del genere. Il quale in lui ha una sua freschezza, una sua ferrea logica legata alla temperie dell’epoca. Balzac è stato infatti uno degli inventori o per lo meno perfezionatori del modulo realistico e veristico o naturalistico. Sì, lo so, i critici fanno sottili distinzioni tra queste categorie, ma in effetti esse rispondono a un unico criterio, quello della descrizione del “reale”, in altre parole di quella convenzione o pregiudizio cui si è convenuto di dare il nome di “realtà”; e il romanzo ottocentesco ha appunto la pretesa di scoprirla, è un sussidiario della conquista del mondo resa finalmente possibile dal tramonto della magia, dalla messa in ceppi della religione, dal trionfo della visione scientifica, e dunque dall’industria e dalla guerra moderna.

  Al realismo, la freschezza in questione è stata per qualche tempo ridata dal cinematografo, del resto difficilmente capace di levarsi al di sopra di “ciò che è”, dalla sua riproduzione; ma il realismo è stato definitivamente sputtanato dall’immane valanga di prodotti di consumo letterario che continuano a essere implacabilmente sfornati. Prodotti degeneri rispetto al naturalismo di Balzac? Sì, ma anche suoi eredi, non essendo mutata la concezione di fondo, la definizione e il possesso del “reale”; solo che nel frattempo il genere è diventato insulso, fatto com’è di fotografie della “realtà” condite di fiacche invenzioni. Ma questa è la letteratura dell’Uomo Massa, che ci volete fare: è l’unico genere che l’Uomo Massa possa apprezzare mancandogli il tempo di leggere davvero. Balzac, in altre parole, non è stato affatto ben servito dai suoi epigoni, i quali hanno imparato i trucchi del mestiere in buona parte proprio da lui, ma si sono dimenticati di metterci quello che in Balzac resta ancora oggi valido, ed è un’ansia di vivere che manca nei prodotti artificiosi che hanno nome best sellers.

  Al tempo di Balzac si parlava di “libri di successo”. E il nostro era abilissimo nel confezionarli. E, come sempre accade con le opere apprezzate da larghe folle, si finiva già allora per non distinguere, anche nel suo caso, il grano dal loglio, e soprattutto per metterci dentro quello che non c’era o c’era solo in proporzioni decisamente secondarie rispetto al semplice gusto di narrare. Un pregiudizio nel quale sono incappati, tra gli altri, Marx ed Engels. Quest’ultimo sosteneva che in Balzac si scorgeva la perfetta rispondenza all’ideale dell’estetica realista: “personaggi tipici in situazioni tipiche”. Né Engels si lasciava turbare dalle simpatie monarchiche e reazionarie di Balzac, perché questi avrebbe saputo mostrargli la “realtà” (ah, la dannata parolina che sta, a ben guardare, per “verità”!) “dell’evoluzione borghese”.

  Insomma, Balzac come sociologo. E c’è da chiedersi se gli antenati del socialismo reale sapessero davvero leggere o se nella pagina non ritrovassero soltanto i loro preconcetti, del resto reperibili tali e quali nel celebre critico ungherese György Lukács, morto non molti anni fa, il quale parlava, in Saggi sul realismo, di “profonda intuizione” balzachiana “del senso dialettico-progressista dell’evoluzione borghese”. Va detto, a tale proposito, che un qualsiasi Ludlum e Kenneth Follet o autrice della collana di romanzi rosa riescono a “intuire” altrettanto, e che a questa stregua ancor più profondo in “sociologia” è un John Le Carré. Certo è però che Balzac ha fornito l’esempio, ha promosso un genere, ha messo in opera un meccanismo che ancor oggi riesce a colpire con l’esemplare calettatura di pezzi, ingranaggi e rotismi, come è comprovato da questo Splendori e miserie delle cortigiane, composto da quattro parti uscite tra il 1839 e il 1847. Nella presente edizione manca la quarta parte, intitolata L’ultima incarnazione di Vautrin, per le ragione (sic) che dirò più avanti. Si noti che Balzac, forse il più fecondo e diluviale scrittore mai apparso sulla scena letteraria di ogni tempo e luogo, in quegli anni non ha composto solo questi testi, ma qualche decina di altri romanzi. Era un monstrum, insomma, che converrà vedere brevemente in azione. Era nato a Tours da un padre agricoltore che durante la rivoluzione francese era diventato fornitore militare; trascorse i primi anni in un collegio di Vendôme, e in collegio andò anche a Parigi quando i suoi vi si trasferirono.

  Nel 1816, a diciassette anni, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e divenne scrivano presso un avvocato prima e un notaio poi. Ma nel 1819 annunciò alla famiglia esterrefatta la sua irrevocabile decisione di diventare scrittore. E riuscì a convincere padre e madre a mantenerlo per due anni, affittandogli una stanza (in realtà, una lurida soffitta nell’allora popolarissimo e plebeo quartiere della Bastiglia), impegnandosi a tornare alla carriera notarile se non fosse riuscito a sfondare.

  E subito Balzac rivelò la sua vocazione di incredibile sgobbone. Nel giro di un anno, buttò giù un dramma in versi e alcuni romanzi alla Walter Scott, poi ebbe la fortuna di conoscere un certo Poitevin, fabbricante di romanzi “a peso”. Ora, all’epoca il romanzo aveva in larga misura la funzione oggi demandata alla televisione: riempiva la noia, saziava la fame di sensazione, portava in casa il “mondo”, e i romanzieri “a peso” erano legione. Sotto la ferula di Poitevin, il nostro cominciò a produrre, riuscendo a sfornare anche cinque o sei romanzi all’anno. Era, stando alle descrizioni dei suoi contemporanei e ai ritratti che ce ne restano, un uomo piccoletto, grassoccio, con la testa incassata tra le spalle, le braccia ridicolmente corte, le “gambe da bassotto”, non certo bello e tutt’altro che un atleta, il quale tuttavia era dotato di un’indomabile energia non solo lavorativa. Perché si rivelò anche uno straordinario, infaticabile amatore. E dove trovasse il tempo di fare tante cose, è un mistero che sfugge agli assai meno prolifici scrittori odierni (pur non mancando eccezioni, e basti fare il nome di Liala). Balzac infatti non si accontentava di pagine e donne: usava scrivere dalla mezzanotte alla metà del pomeriggio, concedendosi solo brevi soste; quattro ore di sonno, tre o quattro di svaghi per lo più erotici; e cibo abbondante, grasso e sapido, e vino generoso. Quest’era il ritmo della “macchina da scrittura” che aveva nome Balzac, e non può meravigliare che a cinquantun anni si ritrovasse con il cuore sfiancato, tanto che bastò una banale bronchite per spedirlo al creatore.

  Ebbe rapidissimo, delirante successo. Già nel 1829 si era affermato con Les Chouans, un romanzo sulla Vandea controrivoluzionaria; nel 1831 fu la volta del celeberrimo Pelle di zigrino, di Eugénie Grandet nel ’33, di Papà Goriot nel ’34; dal ’30 i suoi romanzi furono raccolti in serie; Scene della vita parigina, Scene della vita di provincia ... Che cosa piaceva nei suoi racconti? Indubbiamente il senso o sentimento dei tempi nuovi, e lo stesso Balzac se ne sentiva interprete più che semplicemente figlio. Era vissuto da ragazzo nel fulgore della gloria napoleonica, e il ricordo dell’Imperatore era rimasto ben saldo in lui; “Quel che egli ha cominciato con la spada,” affermava, “io lo compirò con la penna”. La descrizione senza peli sulla lingua, e compiaciuta, della vita allora moderna fu senza dubbio uno dei principali ingredienti del suo successo: perché Balzac fu un grande cronista, un registratore di eventi, tecniche, maneggi dell’alta finanza prassi poliziesche (e se ne troverà un’abile e completa descrizione in questi Splendori e miserie delle cortigiane); costatò ed esaltò lo strapotere del denaro nei tempi postrivoluzionari, celebrò il trionfo della borghesia e siccome la vittoria di questa sull’antico ordine feudalmonarchico comportava ed esigeva una “colonizzazione interna” oltre che nuove conquiste coloniali all’estero, l’epoca tollerava e anzi favoriva il moltiplicarsi di “spiriti audaci”, fuorilegge e delinquenti quando venissero pescati con le mani nel sacco, ma potenzialmente fondatori di imperi economici e ammirati e rispettati finché fossero sulla cresta dell’onda. Occorreva sfidare le vecchie regole, infrangere l’antico ordine, e i personaggi di Balzac lo facevano a ogni pie’ sospinto.

  A trovare “eccitanti” le sue opere erano soprattutto le donne della buona società e della borghesia alta e media, e già allora erano in buona parte le lettrici a decretare il successo di un libro o di un autore. Si riconoscevano facilmente nei suoi personaggi femminili, ma erano soprattutto attratte, come del resto i lettori di sesso maschile, dalla immediata riconoscibilità dei protagonisti e delle figure di contorno, clichés come Vautrin il “grande evaso”, Rastignac l’arrivista, papà Goriot l’amore paterno fatto carne, la cugina Bette tutta invidia, Grandet ovvero l’avarizia. E le cortigiane di Balzac sono proprio cortigiane, insomma nelle sue pagine si svolge un corteo di figure-tipo, ed è un’interrotta opera dei pupi di formato gigantesco, uno sterminato melodrammone (alla Verdi, tanto per intenderci) tradotto in prosa con sentimenti e situazioni perfettamente riconoscibili, con i characters inequivocabili, e pertanto in apparenza “veri”. E insieme, il disprezzo per la plebe, di-chiarata aprioristicamente immonda, e nel complesso la proclamazione dei valori borghesi e delle necessità di “elevarsi”. Donde l’esaltazione del protagonismo, del “primadonnismo”, del carisma. Ciò che fa di Balzac un nostro contemporaneo ad honorem. Ora, in lui si può vedere anche il critico della borghesia, tale malgré soi, ma significa forzare le tinte, attribuirgli un ruolo che non è il suo. E infatti i suoi contemporanei lessero in Balzac più che altro la glorificazione della pax inaugurata dalla Restaurazione, una pax affaristica, grossolana, “viziosa”, con molti aspetti negativi, ma quando mai la borghesia non è stata nonostante tutto innovatrice, rivoluzionaria? Il romanticismo non è forse lo “spirito nuovo”, con la sua carica di sentimentalismo, aggressività, arrivismo, modernità e insieme sfrenato amore per la tradizione? E siccome tutto questo il pubblico lo trovava in Balzac, salutava in lui il proprio ritrattista. E ammirava anche ciò che in Balzac c’era di nouveau riche: gli atteggiamenti da dandy, la carrozza con lacchè, le mazze da passeggio intarsiate di turchesi, lo sfarzo dell’alloggio strapieno di ornamenti, falpalà, oggetti d’arte di pessimo gusto, la brama di ricchezza, di dominio, e lo spirito imprenditoriale. Ed ecco infatti Balzac farsi stampatore, editore, speculatore, eccolo perennemente oppresso dai debiti, oscillante tra ricchezza sfrenata e incipiente fallimento economico, e sempre e comunque “affamato di vita”, come si diceva all’epoca. Oltre tutto, Balzac viaggiava: in Svizzera, in Germania, in Italia dove fu più volte, persino in Russia, a Pietroburgo. Ebbe amori disparati, specie con una contessa polacca, Evelina Hanska, con cui si incontrò in varie città europee e nel cui castello in Ucraina fu ospite; la sposò il 14 marzo 1850, e a piccole tappe, ormai sfinito, rientrò a Parigi dove giunse il 21 maggio e morì il 18 agosto.

  Balzac, ovvero il romanziere assoluto. Capace, voglio dire, di trasformare ogni cosa in “romanzo”, se stesso compreso e anzi in primo luogo. Balzac, personaggio centrale della sua “Commedia umana”, la raccolta di ben ottantacinque romanzi che aveva la pretesa di “descrivere il mondo intero”, apparsa nel 1842, e che gli assicurò, sostenuta com’era da un quartetto di editori, finalmente la tranquillità economica prima minata da avventatezze come la tentata speculazione sulle antiche, e ormai esaurite, miniere d’argento della Sardegna.

  Balzac, vestito di una palandrana bianca, inchiodato a tavolino a scrivere e scrivere, bevendo litri di caffè. Balzac che proclama la propria grandezza incompresa: i critici lo sottovalutano, l’Accademia di Francia lo snobbava, lo scontento Balzac non riuscì mai a essere uno degli “immortali”. Insomma, la sua opera è sempre, a ben vedere, autobiografica.

  Splendori e miserie delle cortigiane è un po’ la summa di tutto questo. I personaggi sono “a ripetizione”, gli intrighi si sprecano, i colpi di scena sono dietro ogni angolo. Il protagonista è il bel Lucien de Rubempré, che per la seconda volta tenta l’avventura parigina (c’era già stato nella ville già lumière, senza però riuscire a farsi strada, nelle Illusions perdues) da giornalista di bocca buona e dispostissimo al ricatto, con l’aiuto di uno strano abate spagnolo, Carlos Herrera, che gli promette successo e dominio purché gli si abbandoni passivamente. Inutile dire che questo Herrera è un personaggio di rito in certa letteratura più o meno “nera”. Lucien ama Esther, cortigiana romantica redenta dall’amore, che Herrera distacca da lui e persuade a chiudersi in convento. Perché vuole portare Lucien alla ricchezza vera, manovrandolo a suo piacimento, servendosene come di un cavallo di Troia. Ma, attenzione, Herrera non è Herrera. È un mostro, è il villain della tradizione romantica, in realtà un pericolosissimo evaso, Jacques Collin, più noto sotto il nome di Vautrin. È una figura che ha già fatto la sua comparsa nei romanzi di Sade ed è, più in là ancora, il macchinatore di inganni di antichissima memoria. Si tratta, in fin dei conti, del Briccone divino, il Reineke Fuchs, l’Ingannatore della favolistica tradizionale. Perché Balzac racconta favole, travestendole, certo, di moderno realismo, ma pur sempre favole. Ed è questo il segreto effettivo del suo successo. Alla favola sono indispensabili personaggi tagliati con l’accetta, e occorre una morale: personaggi senza sfumature, in bianco e nero, e una morale adatta, volta a volta, a ogni singola epoca. E la favola (le sue versioni più recenti sono la science fiction e la fantasy) è sempre e comunque di sicura presa. Il successo della narrazione, scritta o per immagini ferme o in movimento che sia, dipende dal saper riproporre i moduli della favola in versione o camuffamenti riconoscibili dal pubblico.

  Le cose, nei tre racconti sulle cortigiane, si svolgono in maniera prevedibile, e favolisticamente coerente: Esther tornerà a fare la cortigiana per amore di Lucien, vorrà suicidarsi dopo essersi concessa al vecchio banchiere, il barone di Nucingen dalla senile, violentissima passione (anche questo un topos della favolistica tradizionale: il vecchio innamorato, il corruttore della Bellezza e Purezza nel caso specifico ritrovata). Esther, anche questo va da sé, diventata ricca nomina suo erede Lucien, e poi si uccide. E ovvia è anche la caccia spietata che vien data a Herrera-Collin-Vautrin, donde fughe, inseguimenti, travestimenti, finché il finto prete spagnolo finisce in carcere sotto l'accusa di aver avvelenato Esther, e con lui Lucien suo presunto complice. Nella quarta parte, che qui manca, Vautrin, dopo la morte di Lucien, riesce ancora una volta a scapolarsela, ricattando la polizia e anzi divenendo capo della pubblica sicurezza, ufficio che terrà onorevolmente fino alla fine.

  Come si vede, Balzac ignora i mezzi toni; la sua produzione è “romanzesca”, più esattamente da fotoromanzo, sia pure di alta qualità. È la tipologia del feuilleton, che prescrive di non lasciare un momento di respiro (o di noia) al lettore: ogni pagina un fatto, insomma.

  Se qui abbiamo omesso l’Ultima incarnazione di Vautrin, è perché ci siamo serviti di una traduzione che risale al 1909, quando Splendori e miserie delle cortigiane venne proposta al pubblico italiano dai Fratelli Treves editori in Milano. È una versione che conserva intatto un delizioso sapore d’epoca, e che ha il pregio, pur nelle sue deformazioni, assurdità e malintesi (e ce ne sono parecchi), di rendere perfettamente, meglio di quanto forse non farebbe una più elegante ed esatta resa moderna, l’atmosfera della narrazione balzacchiana.

  Qui, nomi e cognomi sono italianizzati, e lo sono anche località, strade, situazioni. È un gustoso frutto della differenza che sussisteva, all’epoca, tra un italiano non ancora modernamente codificato, tuttora antiquato, non adatto ad accogliere contenuti moderni, e un francese già perfettamente attrezzato allo scopo, anzi tagliato su misura, in epoca postrivoluzionaria, postnapoleonica, pompière, per esprimere quel che la grande retorica dell’epoca (Victor Hugo, Vigny, Michelet, tanto per indicare alcune punte dell’iceberg) voleva proclamare con forza e furia.

  Se questa traduzione ha un pregio, è proprio quello di esprimere, con efficacia pari alla sua disinvoltura, il “disordine” che Balzac si proponeva di evocare. E lo faceva con il ricorso ai mezzi cui s’è già accennato: deprecazione, smaccata apostrofe, descrizione accurata, puntigliosa, del “male” (il “bene” è sostanzialmente noioso), invettiva, indagine psicologica di maniera, accumulo di descrizioni tecniche, di notazioni d’ogni genere, accavallamento di scienza esatta e sconcertante improbabilità di situazioni e personaggi, e attraverso, anzi nonostante tutto questo, riuscendo, in un modo che ha quasi del miracoloso, a edificare una struttura narrativa che sta perfettamente in piedi nonostante le mille deviazioni, le incongruenze, gli eccessi, le ridondanze, le sregolatezze alle quali si abbandonava. Ne veniva fuori un gran fiume lutulento, in cui il nostro pescava compiaciuto a piene mani per rifare il verso a se stesso, moltiplicando avventure, azioni, catastrofi, scandali, bellezze e tenebrori dei suoi personaggi di maggior presa, senza arretrare di fronte a contraddizioni e impossibilità. E calcando la mano sul morbosetto, il fascino di queste pagine consiste proprio nell’essere così zeppe, così fittamente ammobiliate, al punto da ricordare i salotti buoni dell’epoca, e il principale merito (a molti è apparso invece un demerito) della “informe forma” balzachiana consiste nel non sapersi e nel non volersi fermare, nell’essere preda di una vertigine accumulatori a, di un bric-à-brac illimitato.

  Accade così che la puttana si trasformi disinvoltamente in candido angelo, che la donna perduta trapassi nell’esatto contrario di se stessa, e l’onesta si travasi in quattro o quattr’otto nel proprio opposto, e che con estrema facilità si scada dal successo sociale al patibolo, come insegna la terza parte del corpus cortigianesco, il romanzo nel romanzone intitolato Dove conducono le cattive strade. Non sempre, come si è detto, Balzac è stato accolto con favore dalla critica, ed è innegabile che uno scrittore rispettoso dei dettami della poesia ha ben poco da imparare da lui. Ma molto ha da pescare ancora oggi, nel suo magma, il cinematografo; o meglio avrebbe se, soprattutto in Francia, non fosse bloccato dal rispetto per la pagina, se non considerasse Balzac un’intoccabile gloria patria. Dovrebbe prendere esempio dall’anonimo traduttore del 1909 al soldo dei Fratelli Treves, e imparare che una certa disinvoltura nella versione in immagini delle opere di Balzac sarebbe, non solo possibile, ma augurabile. Balzac è infatti una fonte inesauribile di spunti e trovate spesso di bassa lega – ma il cinema ne ha fame e sete. Stando a Théophile Gautier, i suoi personaggi “hanno in dote l’ardore vitale che animava lui stesso” (Historie (sic) du Romantisme, 1874) e Gautier soggiungeva che era per lo meno azzardato definire Balzac un “descrittore”, un “osservatore”, laddove la sua dote principale consisteva nell’essere “un visionario, e un visionario appassionato ... Tutte le sue narrazioni hanno tinte vivaci come quelle dei sogni”, e in esse è all’opera una straordinaria capacità di “fornire alla pura trivialità un manto di luce e porpora”. Non si può che essere d’accordo con l’autore del Capitan Fracassa, ma non si può dar torto neppure all’arcigno critico Charles-Augustin de Saint-Beuve (sic), il quale sosteneva che Balzac era incapace di dominare la sua materia ed era perennemente “in preda alla sua stessa opera”. E d’altra parte, come non vedere, in quest’ossessivo abbandono alla narrazione fine a se stessa, al puro gusto di mettere insieme storie, l’aspetto più straordinario e cattivante (almeno per noi, assai più smaliziati degli académiciens francesi, e non solo francesi) dei grandi calderoni in cui ribolle il magma balzachiano?

  Che Balzac scrivesse “male”, è certo. Ma che vuol dire? Che fosse confuso, è innegabile. Ma che importa? Ciò che conta è la carica vitalistica, la carne e il sangue grossolani che fermentano in queste pagine prive di grazia ma piene di estro.

  Resta da spiegare perché in questa collana dedicata all’erotismo sia stata inserita un’opera come Splendori e miserie delle cortigiane, che almeno a prima vista di erotico o pornografico ha ben poco. Qui non si descrivono quelli che i legulei definiscono, bontà loro, “congressi carnali”, e certamente a Balzac - che pure ha tentato il genere con i Contes drolatiques ovvero Storielle facete che vorrebbero ricalcare le orme del grande Rabelais – mancava del tutto il senso dell’umorismo, necessario per immergersi, senza apparire ridicoli, nel mondo postribolare; e gli mancava anche, nonostante tutto, il senso del tragico, indispensabile per far toccare con mano il carattere di trasgressione illimitata dell’erotismo, come pure la freddezza del trattatista capace di fame balenare, proprio mediante il distacco, il carattere sacrale. Ma, se si legge questo libro con attenzione men che superficiale, estraendone i molteplici succhi inespliciti, dei quali sovente lo stesso autore, tutto preso dalla febbre dell’accumulo, non aveva consapevolezza, si scoprirà che queste pagine sono pervase di un penetrante odor di sesso. Tutto qui ruota attorno al “vizio”, tutti sono viziosi, potenzialmente o attualmente tali: una regola alla quale nessuno si sottrae. Balzac depreca? Macché, e non vuole neppure che si deprechi. Non dichiara affatto inaccettabile né il sistema né i suoi viziosi sacerdoti, interpreti e attori, e avrebbe certamente dalla sua l’opinione di milioni e milioni di esseri umani oggi travolti dal consumismo, versione ultima, universale e dannata del divenire borghese.

  Ora, l’erotismo balzachiano di questo è fatto: è la volgare carnalità di un’epoca e di una capitale che era allora il riassunto del mondo “civile” e dalla quale emanavano gravi sentori di putrefazione. Grande è l’affinità tra queste pagine e l’atmosfera pesante, speziata, grassa, voluttuosa, digestiva, fermentante, delle ahimè scomparse Halles parigine, il grande, fetente, straripante mercato centralissimo, il ventre della metropoli eliminato negli anni settanta in nome di un malinteso igienismo sociale. Che Balzac non avrebbe di certo approvato, e basta leggere la sua compiaciuta ancorché apparentemente deprecatoria descrizione della rue de Langlade nella prima parte del pluriromanzo, quella intitolata Ester felice: un taudis, una raccolta di topaie che ancora non era stata abbattuta dal piccone “risanatore” dell’artiste démolisseur, quel Georges Eugène Haussmann che tra il 1853 e il 1870 per incarico di Napoleone III creò i boulevards e distrusse insostituibili testimonianze del passato. Ver è che conferì alla Parigi di ascendenza medioevale una fisionomia lussuosa, grandiosa (e permise alla mitraglia di spazzar via la “canaglia” in sommossa avanzante lungo le arterie diritte), cosa che avrebbe forse toccato il cuore di Balzac, ma tolse alla capitale della lussuria, del piacere, degli intrighi, dei sordidumi d’ogni genere, della ricchezza più o meno dubbia, dei nomi altisonanti, cristianissima e corrotta, il lezzo che è componente ineliminabile e fascinosa di quell’estremismo esistenziale che era poi lo specifico della narrativa balzachiana, quello che lo portava a confezionare un “grande magazzino” della natura umana, inventando assai più che ricalcando, e ad avvoltolarsi, mai sazio, tra le merci confuse e le cianfrusaglie sudice di cui traboccava.

  Certo che l’opera di Balzac è uno “specchio dell’epoca”: ma uno specchio che, con buona pace di moralisti e neomoralisti, sociali e politici, non comporta tanto la protesta o la deprecazione o l’umana, dolente partecipazione, quanto una complicità gioiosa e tetra insieme, una visione del mondo in cui tutto si corrompe e consuma – e non solo un regime capitalistico. Il senso della fine, dello spreco mostruoso che è la vita animale sulla terra, l’incessante succedersi di individui e generazioni, a me pare la vera chiave interpretativa di Balzac (e, va aggiunto, di ciò che si usa indicare col termine, vago ma insostituibile, di erotismo). Posto, beninteso, che di chiavi interpretative nel caso specifico di questo libro, e in generale dell’opera balzachiana, ci sia bisogno, dal momento che il godimento e il tormento di queste pagine si impone di per sé, indipendentemente dai loro presunti “messaggi”.

 

 

  Anna Maria Scaiola, Gli estremi si toccano: “La fille aux yeux d’or”, «Micromégas», Roma, Anno XII, fasc. 2-3, nn. 36-37, maggio-dicembre 1986, pp. 43-57.

 

  [...]. Il programma del grottesco di Hugo parrebbe invece sotteso nella postfazione alla prima edizione della Fille aux yeux d’or (1835), che si presta a mio avviso a un’indagine che tenga conto di criteri compositivi attribuibili direttamente all’elaborazione teorica di Hugo e ai principi costitutivi del dramma.

  In un articolo del 1830, Sur les moeurs du temps présent, Balzac assume il grottesco come categoria moderna, del presente appunto, con un aggancio alla “théorie du laid, du grotesque et de l’horrible». La ricostituzione della setta nella prefazione all’Hisioire des Treize è commentata; «Ce fut horrible et sublime».

  Nella postfazione di La Fille aux yeux d’or la sutura di comico e tragico è auspicabile, come ipotizzato nella prefazione a Cromwell, quale mezzo di cui dispone lo storico dei costumi per restituire alla società moderna le contraddizioni di un drame complet [...].

  Giustificano una lettura di questo romanzo breve o racconto lungo secondo alcune coordinate hugoliane fattori quali: il rapporto tra comico e tragico, grottesco e sublime; la descrizione della fisionomia composita dei personaggi; l’insistenza sulla bruttezza, fisica e morale, sul mostruoso, sul proteiforme, sulle interferenze tra i regni naturali; il tema della maschera; la nominazione dell’orrore; il dato della dismisura e dell’esorbitante; l’impiego sistematico dell’antitesi che si scioglie in ossimoro.

  L’accostamento sistematico dei contrari, il principio di contrasto, orienta la lettura […]

  Nella Fille aux yeux d’or i due inconcibilia dell’antitesi sono chiamati a toccarsi, a mescolarsi. Più i due termini si allontanano, accentuando l’alterità, più si avvicinano e ricompongono. Nella riunione degli opposti è la totalità, l’«infini»: dall’antagonismo, dalla lotta tra due forze contendenti dipende il movimento e la vita.

  È un organismo composito, il «mostro» Parigi a realizzare lo «scandalo», il paradosso dell’identità dei contrari in cui ogni elemento si fonde con il suo opposto in un’unità mobile, doppia in cui un polo non può funzionare senza l’altro [...]

  Il racconto oscilla e si articola nella tensione tra: oriente e occidente, dinamismo e immobilità, umido e caldo, scuro e brillante, luce e tenebra, tutto e niente, effimero ed eterno, diversità e uniformità, intellettuale e fisico, infanzia e vecchiaia, piacere e noia, vita e morte, debolezza e forza, amore ed odio, desiderio e disgusto, gioia e dolore, felicità e tristezza, brutto e bello, grottesco e sublime.

  Balzac prospetta una Parigi conflittuale come luogo della discordanza, come incontro dei contrari, ma è appunto per la sua stessa natura eterogena che la città può conciliare frazioni irriducibili in un’identità essenziale. Parigi è insieme una «monstrueuse cité» e «sublime vaisseau chargé d’intelligence»: da una parte brulicante palude, fogna dalle esalazioni putride e dal fango fetido; dall’altra attivo alveare che risplende di ricchezza, con salotti dorati, hôtels e giardini.

  Il narratore nel prologo persuade con autorità a vedere — «voyez», «examinez» — lo spettacolo dantesco di una città a gironi in moto perpetuo. Le bolge urbane vibrano per forze che si contrastano: la spinta ascensionale del denaro e dell’oro, la parallela ricerca del piacere, la contemporanea produzione del lavoro. Parigi, sublime e «monstre», è luogo dinamico del contrasto, che accoglie e in cui si affrontano tutte le classi: un inferno; un vulcano attivo; un organismo vivo dalla testa geniale e dagli intestini pieni di fiele e di escrementi; un cadavere ma obbligato al movimento.

  Gli occhi del titolo, la dedica di La Fille aux yeux d’or a Delacroix già invitano alla visione. La mediazione di un’immagine, la citazione di affreschi o pittori famosi (Raffaello, Tiziano, Rembrandt) contribuisce a completare, riconoscendolo, un ritratto scritto: la testimonianza della vista invoca una presenza da guardare. Il tema dell’esotismo orientale, il contrappunto dei colori alla Delacroix — il bianco all’oro, il nero al rosso e alla porpora, il nero al bianco, il bianco al rosso, il bianco al rosa —, dispongono alla contemplazione di un quadro. Il racconto stesso si offre come una commedia dell’arte (o un melodramma) cui assistere […]

  Il décor trasmette una fisionomia al suo personaggio: appunto un «peuple horrible à voir». «En voyant ce peuple», si visualizza, e insieme si spiega e motiva, una deformità. Lo sguardo su un processo di deformazione provoca un effetto di orrore, paura e persino disgusto. L’umano si trasforma in teatrale, i volti dei parigini si contraggono in maschere di cartone o di gesso. I colori falsi, da rappresentazione, di quei visi pallidi e spenti di cartapesta, tendono al livido, tra giallo, grigio con qualche tocco blu; le linee si complicano in rughe profonde, scavano ombre, si tendono, o enfatizzano una larga bocca; l’espressione fissa prima un appetito, una passione, un bisogno da consumare, poi la smorfia, l’impotenza, l’idiozia, l’abbrutimento.

  Il corpo si scompone e altera le sue proporzioni: le gambe dell’accumulatore di cariche per il gran spostarsi sono ipertrofiche e la bocca ingrandita; l’anima dei professionisti, degli uomini d’affari, a forza di parlare e discutere, si è materializzata in una laringe che la sostituisce: l’attività modifica gli organi e li riduce a una funzione. [...].

 

 

  Marco Stupazzoni, La poetica di Honoré de Balzac attraverso le prefazioni ai romanzi della “Comédie humaine”. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Liano Petroni, Bologna, Università degli studi, Facoltà di Lettere e filosofia, Corso di laurea in Lingue e letterature straniere moderne, Anno accademico 1985-1986.



[1] Questo saggio, comparso nel 1970 su Le Figaro littéraire, è stato ristampato in R. Barthes, Le bruissement de la langue, Paris, Seuil, 1984, pp. 33-36. [...]. Traduzione dal francese di Nicolò Pasero. [N. d. R.].

[2] Da: Problèmes actuels de la lecture (Colloque de Cerisy), 1982, pp. 35-47. Traduzione dal francese di Paola Ciccolella.

[3] La frase preferita di Jacques Collin — «mi assumo la parte della Provvidenza»: la dice sia in Père Goriot che nelle Illusioni perdute — lo condanna a non spuntarla mai. Dove tutti cercano di provvedere a se stessi, non c’è posto per «la» provvidenza; e quando, in Splendori e miserie delle cortigiane, Balzac impernia il racconto su due sole «provvidenze» in lotta fra loro, riesumando di fatto lo schema elementare del duello, scrive un romanzo noioso, che si accende solo allorché entra in contraddizione con le proprie premesse. [N. d. A.]. [...].



Marco Stupazzoni

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