martedì 13 ottobre 2020



1980

 

 


 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert. Traduzione di Michele Lessona, Torino, UTET, (novembre) 1980, pp. 83.

 

  Per la traduzione, cfr. 1946; 1947; 1955; 1959; 1969. Edizione fuori commercio.


 

  Honoré de Balzac, La pantera, in AA.VV., Otto racconti per mille immagini. Riduzioni e disegni di Alarico Gattìa, Milano, Libreria della Famiglia, 1980 («I sempreverdi», 32), pp. 15-28.


  ‘Mise en scène’, in forma di fumetto, di Une passion dans le désert. Il testo è introdotto dalla nota seguente (p. 17): «Da un racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), uno dei massimi e più fecondi scrittori francesi dell’800. Lavorò per ventun anni, notte e giorno, all’opera in cui raccolse la sua immensa produzione di narratore la “Commedia umana”. Morì, stroncato dall’immane fatica, a soli 50 anni». Sempre a p. 17, si dà voce allo stesso Balzac, il quale dichiara: «L’episodio ste sto per narrarvi mi fu suggerito da uno strano incontro che feci al famoso “Circo Martin”, spettacolo che richiamava a Parigi una quantità di pubblico entusiasta. Mi trovai per caso accanto ad un tipo, privo di un occhio, dall’aspetto di ex militare, reduce da tutte le campagne di Napoleone. Costui, ogni qualvolta il signor Martin si esibiva con non comune coraggio nella gabbia delle belve, ridacchiava con una tale aria di tranquilla superiorità che finì per incuriosirmi. Finito lo spettacolo, lo invitai a bere qualcosa nei pressi degli “Invalides” ...».



  Honoré de Balzac, L’elisir di lunga vita. Melmoth riconciliato. Traduzione di Giovanni Bottiroli, Tivoli, Edizioni Tivoli, 1980, pp. 144.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Margherita Galante Garrone, Roma, Edizioni Paoline, 1980 («4 Colori/Classici», 2), pp. 134.

 

  Cfr. 1954; 1956; 1959.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. I due poeti. Un grand’uomo di provincia a Parigi. Le sofferenze di un inventore. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti Editore, 1980 («I grandi libri», 36), voll. 2, pp. XX-324; 332.

 

  Cfr. 1973; 1976; 1979.

 

 

  Honoré de Balzac, Il medico di campagna. Traduzione di Andrea Zanzotto. Introduzione di Ferdinando Camon, Milano, Garzanti Editore, 1980 («I grandi libri», 184), pp. XXII-231.

 

  Cfr. 1977.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Introduzione di Vittorio Lugli. Traduzione di Marise Ferro, Torino, Giulio Einaudi editore, 1980 («Nuova universale Einaudi», 42), pp. XX-573.

 

  Cfr. 1964

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

 

  Maria Grazia Accorsi, Il melodramma melodrammatico, «Sigma», Anno XIII, n. 1, 1980, pp. 109-127.

 

 

  Ernesto Baldo, Tutto il cinema televisivo parte da Rossellini, «Radiocorriere TV. Settimanale della Radio e della Televisione», Torino, Anno LVII, Numero 39, 21-27 settembre 1980, pp. 46-48.

 

  p. 48. Rossellini parlava spesso di Balzac, e la predilezione par Balzac non è casuale. Perché tra il metodo Balzac e il metodo Rossellini la somiglianza è evidente. Il metodo è questo fornire al personaggio, di fantasia per Balzac, storico per Rossellini, la maggior quantità possibile di dati. Il metodo Balzac-Rossellini ha un doppio risultato: garantisce al personaggio il massimo della verità, inserendolo in un sistema reale di segni veri, reali e immediatamente riconoscibili e garantisce poi allo spettatore il massimo di identificazione, offrendo al personaggio un quotidiano che corrisponde, mutati i luoghi e i tempi, al quotidiano dello spettatore e quindi, in ampi limiti, fa che l’uno si rispecchi nell’altro.

 

 

  Roland Barthes, Nella stanza enciclopedica l’uomo fa a pezzi il mondo, «La Stampa-Tuttolibri», Torino, Anno VI, N. 11, 22 Marzo 1980. P. 3.

 

  La nostra letteratura ha impiegato molto tempo prima di scoprire l’oggetto: è necessario arrivare a Balzac perché il romanzo non sia più, semplicemente, lo spazio di puri rapporti umani, ma anche di cose e usi destinati a recitare la loro parte nello sviluppo delle passioni: senza i suoi moccoli, le sue zollette di zucchero, il suo crocifisso d’oro avrebbero potuto Grandet essere avaro (letterariamente parlando)?

 

 

  Roger Caillois, Un esempio: Balzac, in La forma del romanzo. Traduzione di Alfonso Zaccaria, Palermo, Sellerio editore, 1980 («La civiltà perfezionata», 34), pp. 161-192.

 

  Il romanzo più ambizioso.

 

  Oggigiorno si ammette volentieri che il romanzo di Balzac deriva dal romanzo popolare e non dal romanzo classico: nella stessa maniera in cui il teatro di Molière è uscito dalla farsa più che dal teatro letterario.

  Quasi tutte le opere di Balzac, a cominciare dalle prime, quelle che ha ripudiate, Argow le Pirate o Jeanne la Folle (sic), continuano il romanzo popolare di Ducray-Duminil, per la Francia, e il romanzo «nero» di Mathurin, di Lewis o di Anne Radcliffe, per l’Inghilterra. Esse si collocano assai lontano dai romanzi realisti di Restif de La Bretonne di cui Balzac solo più tardi apparirà come un emulo più dotato e più ambizioso. In ogni caso, Le Centenaire è molto più vicino a Melmoth, che plagia, di quanto Le Lys dans la Vallée non lo sia a La Princesse de Clèves, con cui pretende di rivaleggiare.

  Il romanzo classico francese (La Princesse de Clèves o Manon Lescaut) appare all’esame come una sorta di tragedia in cinque atti raccontata invece che messa in scena. Lo scenario non è mai descritto per se stesso, gli eroi hanno un fisico astratto e intercambiabile (se il lettore è informato che Manon è «affascinante», egli resta però ignaro del colore dei suoi occhi); le peripezie sono ridotte all’osso; i personaggi infine sono poco numerosi.

  Il romanzo classico è senza dubbio liberato dalle unità di luogo e di tempo; ma rimane affatto interiore ed esemplare: pittura di un’anima, studio di una crisi. Balzac intende descrivere un mondo, e descriverlo sistematicamente, se non (egli ne è persuaso) scientificamente. Il suo disegno è l’opposto di quello di Madame de la Fayette, dell’abate Prévost, di Benjamin Constant. Egli dichiara di fare concorrenza allo stato civile. Vale a dire che si applica a moltiplicare i personaggi ed a individualizzarli. Prende in prestito da Walter Scott l’idea di far rivivere lo «spirito di un’epoca». Ne Les Chouans, è convinto di raccontare «un avvenimento istruttivo per tutti i popoli». Non dubita un istante della portata fondamentale del suo ruolo di romanziere.

  La serietà delle sue ambizioni porta Balzac a premeditare la struttura di un’opera enciclopedica. Lavora almeno a ripartirne le differenti narrazioni in determinate sezioni. La distribuzione che adotta, che volentieri si riterrebbe come semplicemente comoda, appare presto come multidimensionale: valida per più tagli di realtà. L’autore ne dà lui stesso avvertenza nella Prefazione: ciascuna delle parti, afferma, «ha un suo senso, un suo significato, e rappresenta un’epoca della vita umana. Le Scènes de la vie privée raffigurano l’infanzia, l’adolescenza e le loro manchevolezze, così come le Scènes de la vie de province raffigurano l’età delle passioni, dei calcoli, degli interessi e dell’ambizione. Poi le Scènes de la vie parisienne offrono il quadro dei piaceri, dei vizi e di tutte le cose, sfrenate che eccitano i costumi che sono propri delle capitali in cui è possibile incontrare insieme l’estremo bene e l’estremo male. Ciascuna delle tre parti ha il suo colore locale ecc.». Più avanti egli guarda alle Scènes de la vie de campagne come alla «sera di questa lunga giornata». In tal modo abbozza una sorta di complessa architettura il cui principio, eretto a sistema, ispirerà costruzioni come l’Ulisse di Joyce, in cui il significato dei capitoli è determinato da un vero quadro di concordanze.

  L’edificio doveva essere completato da due opere segnalate dal piano del 1845 e i cui titoli sono dei più istruttivi: Monographie de la vertu e Dialogues philosophique et politique sur les perfections du XIX siècle. I due titoli mettono l’accento, il primo sullo spirito etico, il secondo sullo spirito moderno dell’impresa balzachiana. In effetti, è nel confronto, se non nell’identificazione, dei detti due termini che risiede l’apporto essenziale di Balzac alla storia delle idee. La sua critica di Walter Scott è, a tal riguardo, dimostrativa. Quanto al suo partito preso di natura etica, esso gli appare come la giustificazione stessa della sua attività: «La legge dello scrittore – scrive nella Prefazione de La Comédie humaine – ciò che lo fa tale, ciò che, non ha timore a dirlo, lo rende uguale e forse superiore all’uomo di Stato, è una decisione qualunque sulle cose umane, una dedizione assoluta a dei principî». È ancora più esplicito in una lettera a Hippolyte Castille: «Moralizzare la propria epoca è il fine che ogni scrittore si deve proporre, sotto pena di non essere altro che uno che fa divertire la gente».

 

  La città favolosa.

 

  Balzac è tra i primi ad ammettere l’esistenza di miti moderni. Ne riconosce molto presto l’importanza. Può anche darsi che sia lui il creatore dell’espressione. La usa ne La Vieille Fille, quando afferma che i miti moderni sono ancora meno compresi dei miti antichi, e sostiene che la loro forza è ancora più considerevole. Questi miti contemporanei non sono sentiti come immaginari; al contrario, all’immaginazione appaiono come ovvi. Vi si crede macchinalmente. Fanno parte della somma di immagini che ognuno accetta senza nemmeno pensarci. Fra queste, figura per l’appunto una rappresentazione favolosa di Parigi, che i romanzi di Balzac, come del resto quelli di Eugène Sue e di Ponson du Terrail, hanno particolarmente contribuito a mettere in circolazione. Precisata e diffusa per mezzo dei libri, l’immagine è abbastanza convincente per assillare la sensibilità collettiva e per fargliela apparire come vera, in ciò propriamente mitica.

  I romanzi di Balzac vengono scritti nel tempo in cui le capitali europee assumono, ad un tratto, le dimensioni e l’aspetto che gli si conosce oggi. La loro popolazione si decuplica, i loro edifici si moltiplicano e si complicano. Nascono i primi grandi magazzini; il mondo degli affari, della finanza, dell’industria acquista un’importanza sconcertante. È l’epoca in cui si costituiscono le fortune dei Rothschild, dei Fould, dei Pereire. Al tempo stesso, il proletariato urbano si moltiplica, come una tappa dall’esistenza semiclandestina. Tali e tante novità approdano ad una trasformazione totale dello scenario della grande città, e ne fanno il luogo d’elezione delle avventure e delle tragedie che gli scrittori fino a poco tempo prima proiettavano in un passato stilizzato o in contrade poco conosciute. L’eroe vi è esposto ad ogni sorta di pericolo. Il passante che incontra è forse un nemico camuffato. La lettera che riceve lo attira in qualche trappola. Parimenti, proprio nella grande città le passioni sono più varie, più accese, più criminali. Dei diversi fatti che accadono, i giornali portano ogni mattina al romanziere le spaventose conseguenze. Un eroismo inedito si manifesta, la cui grandezza quotidiana spetta a lui rivelare.

  In Francia il fenomeno appare come una conseguenza del ruolo svolto da Parigi durante la Rivoluzione, allorché le «giornate» decidevano della sorte della nazione e Parigi con tanta fermezza imponeva alla provincia la sua volontà ed il Terrore. Quella Parigi che i Girondini si sforzavano invano di ridurre, come essi dicevano, ad un ottantatreesimo della sua influenza. L’opera di centralizzazione amministrativa, proseguita sotto l’Impero, fece il resto. Sembrò che tutto venisse da Parigi, che tutto vi confluisse. Lì soltanto poteva e doveva compiersi tutto quanto pretendeva di essere di urta qualche portata, di un qualche valore, di un qualche lustro. Nel campo puramente letterario, l’acclimatazione del romanzo di avventure, poi la sua trasformazione in romanzo poliziesco, lavoravano nella stessa direzione.

  Come Baudelaire, Balzac si mostra sensibile allo scenario urbano. Ammira Fenimore Cooper, ma i pericoli della grande città li ritiene più interessanti di quelli della foresta o della savana. Lì risiedono la vera efferatezza e i più minacciosi, più loschi, più insidiosi pericoli. Come ha dimostrato Régis Messac, l’atmosfera del romanzo del XIX secolo nasce dalla trasposizione nella cornice della città delle meno incerte distese della prateria o della giungla tuttavia popolate dalle innumerevoli trappole che gli Indiani tendono ai pionieri o ai cacciatori di pellicce. In Splendeurs et Misères, Balzac lo mette in piena luce: «La poesia del terrore che gli stratagemmi di tribù nemiche in guerra spargono in seno alle foreste americane, e di cui ha tanto approfittato Cooper, si applica ai più piccoli dettagli della vita parigina. I passanti, le boutiques, le vetture di piazza a cavalli, una persona in piedi ad un crocicchio, tutto offriva ai numerosi uomini a cui era affidata la difesa del vecchio Peyrade lo stesso enorme interesse che presentano nei romanzi di Cooper un tronco d’albero, una tana di castori, una roccia, la pelle di un bisonte, un canotto immobile, del fogliame a fior d’acqua».

  In Le Père Goriot, Vautrin aveva spiegato a Rastignac i vantaggi della capitale: «Parigi, vedete, è come una foresta del Nuovo Mondo in cui si agitino venti specie di popolazioni selvagge, gli Illinois, gli Huron, che vivono dei prodotti derivanti dalle diverse classi sociali ... Voi avete a che fare con la città più compiacente che esista al mondo. Se le orgogliose aristocrazie di tutte le capitali d’Europa rifiutano di ammettere nelle proprie fila un milionario infante, Parigi gli tende le braccia, accorre alle sue feste, mangia i suoi pranzi e trinca con la sua infamia ...».

  Non si tratta di una testimonianza isolata. Nel 1854, Alexandre Dumas pubblica Les Mohicans de Paris, romanzo dal titolo che si commenta da sé. Nello stesso scorcio d’epoca, Eugène Sue invoca le medesime referenze e si lancia nella medesima impresa [...].

  In effetti, il romanzo poliziesco non è più concepibile senza lo scenario urbano. Questo, in particolare, ha ricevuto una parte del suo mistero dalla creazione della polizia segreta. Con essa, il contrasto tra l’ordine ed il crimine cessa d’essere una lotta franca e ben circoscritta. Straripa dal suo proprio campo e fa irruzione nella vita di ciascuno. Precisamente un romanzo di Balzac, Une ténébreuse affaire, permette di comprendere al meglio il tipo di smarrimento che getta sui costumi questa diabolica invenzione — la polizia invisibile. Essa porta con sé un elemento permanente di diffidenza e di insicurezza. L’opinione pubblica è inquieta, se non indignata. Quando in Inghilterra, sotto il governo Peel, per combattere un’ondata di criminalità, viene proposta al Parlamento l’adozione della polizia segreta, si grida che mille assassini in più sono preferibili ad un simile rimedio. Ma l’interesse non è inferiore all’errore: è appassionante, in un racconto di fiction, vedere all’improvviso svelarsi quale poliziotto colui che sulle prime era stato preso per un mendicante o un orologiaio. L’immaginazione decuplica la realtà. Balzac tende a rifare Vidocq e presta ad un suo personaggio, Vautrin, alcuni tratti del forzato diventato capo della polizia. Niente di più significativo, a tal riguardo, del modo in cui Léon Gozlan si estasia sulle qualità dei segugi, quando, a proposito dei rapporti tra Balzac e Vidocq, riferisce in quale stima li tenesse il romanziere: «ammirava soprattutto – egli dice – la divinazione propria dei più sottili fra tutti gli spiriti, che hanno il fiuto acuto del selvaggio nel battere le piste di un criminale basandosi sull’indizio più fuggevole, o anche su nessun indizio. Una voce parla loro. Sono scossi da un tremito nervoso, come il rabdomante sulla roccia che ricopre la falda d’acqua a trenta metri sotto terra, e gridano: eccolo là il criminale, credete, eccolo là». Quanto ai Mémoires di Vidocq, per apocrifi che siano, conobbero in libreria un successo eccezionale, e dei più sintomatici. Ne derivano i romanzi di Eugène Sue e di Ponson du Terrail, Les Mystères de Paris e Rocambole. Ne deriva anche, in parte, Splendeurs et Misères des courtisanes. Ne era già derivata la Histoire des Treize, cospiratori in marsina, che tengono sotto il loro occulto dominio una capitale descritta in due riprese nel corso dell’opera.

  Fin dall’uscita di Ferragus, l’autore, Balzac, traccia di Parigi un ritratto lirico e fisiognomico (come lui stesso dice). Si ripropone di definire la personalità di ogni via, le une disonorate o infami, le altre nobili o semplicemente rispettabili. Fornisce esempi di strade assassine, laboriose, mercantili. A tutte scopre delle qualità umane. In Parigi vede «il più delizioso dei mostri». E subito precisa: «Mostro completo, d’altronde!». Lo descrive al risveglio: «Tutte le porte sbadigliano, girano sui cardini come le membrane di un grande gambero di mare, invisibilmente manovrate da trentamila uomini o donne, dei quali ciascuno o ciascuna viva in uno spazio di sei piedi quadrati, vi abbia una cucina, un laboratorio, un letto, dei bambini, un giardino, non ci veda bette, e deve tutto vedere. Insensibilmente, le articolazioni scricchiolano, il movimento si comunica, la strada parla. A mezzogiorno, tutto è vivo: i camini fumano, il mostro mangia; poi ruggisce, poi le sue mille zampe si agitano. Che bello spettacolo! Ma, o Parigi! chi non ha ammirato i tuoi foschi paesaggi, le tue filiere di luci in fuga, i tuoi vicoli ciechi, profondi e silenziosi, chi non ha ascoltato i tuoi mormorii, tra mezzanotte e le due del mattino, non conosce ancora alcunché della tua vera poesia, né dei tuoi bizzarri ed ampi contrasti ...». Il suo entusiasmo non difetta di espressioni enfatiche: Parigi è «una mostruosa meraviglia, una sorprendente accozzaglia di movimenti, di macchine e di pensieri», la «testa del mondo», la «gran cortigiana», la mutevole regina delle città, vestita di manifesti, e che non ha nemmeno un cantuccio tutto per sé, tanto compiacente si mostra con vizi della nazione francese».

  L’analisi che apre La Fille aux yeux d’or è più ambiziosa: non è più lo scenario ad interessare l’autore, ma i generi di vita, le passioni, i mutui rapporti delle diverse classi di persone che compongono la popolazione di una grande città. Parigi, stavolta, è «un vasto campo incessantemente mosso da una tempesta di interessi sotto la quale turbina una messe di uomini che la morte falcia più sovente che altrove e che rinascono sempre molto fitti, i cui visi contratti, storti rendono l’anima da tutti i pori, e anche i desideri, i veleni di cui sono impregnati i loro cervelli; non dei visi, bensì delle maschere: maschere di debolezza, maschere di forza, maschere di miseria, maschere di gioia, maschere di ipocrisia; tutte estenuate, tutte punteggiate dai segni indelebili di un’ansimante avidità». Parigi rende deformi i suoi abitanti, li modifica perfino nel ritmo della loro esistenza: la maturità è loro interdetta. La città li precipita senza mezzi termini dalla gioventù alla decrepitezza.

  Questa «natura sociale sempre in ebollizione» è un vero inferno. Balzac sottolinea che bisogna prendere l’espressione alla lettera: «Ritenete come vera la parola – grida –, là tutto fuma, tutto brucia, tutto risplende, tutto ribolle, tutto fiammeggia, evapora, si spegne, si riaccende, scintilla, spumeggia e si consuma». Traccia allora un quadro terribile dell’esistenza condotta da ognuna delle categorie sociali nei vari gironi di una siffatta geenna. Ne denuncia mirabilmente la sordida ferocia e le infinite complicazioni. Ricchi e poveri, artisti e commercianti, operai ed avvocati, tante specie originali di cui il romanziere non confonde né i costumi né i bisogni. Ma la nuova civiltà che la metropoli ha appena instaurato, impone loro una doppia legge, valida per tutti: la ricerca cieca, avida ed impaziente dell’oro e del piacere, chiave di tutte le passioni. È essa a fare l’unità di un tale universo ed a dare al «vasto laboratorio di godurie» come un privilegio decisivo e funesto: «Questa visione della Parigi morale prova che la Parigi fisica non potrebbe essere diversa da come è ...». E più esplicitamente: «Dunque il movimento esorbitante dei proletari, dunque la depravazione degli interessi che stritolano le due borghesie, dunque la crudeltà del pensiero artistico, e gli eccessi del piacere incessantemente cercato dai grandi, spiegano la normale bruttezza della fisionomia parigina».

 

  L’eroe intelligente e brutale.

 

  Splendeurs et Misères des courtisanes non raccontano solamente l’ultima incarnazione di Vautrin. Illustrano la sua apoteosi. Certo, in Le Père Goriot, il ritratto del personaggio è già completato. Non gli mancano che le dimensioni. La sua morale è interamente formulata nei discorsi con cui tenta Rastignac. Allora, ammonisce gravemente il giovanotto che la volontà costituisce la condizione principale dei successi nella bella parte che lo convince a svolgere contro tutti i suoi simili: «Vedete se potete alzarvi tutte le mattine con maggior volontà del giorno precedente». Non gli nasconde le difficoltà della riuscita e l’ostinazione che occorre all’ambizione per trionfare: «Una fortuna rapida è il problema che in questo momento si ripropongono di risolvere cinquantamila giovani che si trovano tutti nella vostra condizione. Voi siete un’unità di quel numero. Giudicate quali sforzi vi toccherà fare e quale accanimento richiederà la lotta».

  Non ci sono che due partiti da prendere: la «stupida obbedienza» o la rivolta. Vautrin ha scelto: dopo la lettura delle Memorie di Benvenuto Cellini. Vi ha appreso, confessa, «a imitare la Provvidenza che ci uccide a casaccio e ad amare il bello dovunque si trovi». Inoltre, egli ha ben riflettuto sulla condizione attuale del disordine sociale. Ha deciso di approfittarne, di mettersi al di sopra di tutto, anche al di sopra delle leggi. Questo ribelle appare, senza alcun dubbio, come un romantico, ma non come un debole, un sognatore o un velleitario. Non è un vinto, ma un conquistatore. La poesia non è per lui un’evasione dalla realtà, è un invito ad impossessarsene: «Io sono un grande poeta. Le mie poesie, non le ho scritte; esse consistono in azione e sentimenti». Non c’è onestà, né di principi né di virtù. Ci sono solo avvenimenti e circostanze. Tocca all’uomo superiore di piegarli ai suoi disegni. Così, dalla pensione Vauquer, l’evangelo della volontà di potenza si presenta senza oscurità né crepe. Ma l’apostolo manca di stile e di prestigio. È un (sic) sfruttatore mediocre ed indigente, che si profonde in facili giochi di parole ed in grossolane battute, i cui gesti ed i cui discorsi sono intrisi di un’inesprimibile volgarità. Non cresce di statura se non nel momento in cui la polizia lo arresta, quando, al colmo del furore, egli comprende in un baleno che i poliziotti, per farlo capitolare, attendono solo il più lieve pretesto. Si calma subito, dando «prova della più alta forza umana». Balzac, allora, non gli lesina né i superlativi lirici né le comparazioni impressionanti, come quella della goccia d’acqua fredda che, in un batter d’occhio, dissolve il «vapore fumoso» capace di sollevare le montagne. Fa di Vautrin un simbolo, lo gabella subito per «il prototipo di tutta una nazione degenerata, di un popolo selvaggio e logico, brutale e duttile In un attimo, Collin divenne un poema infernale, in cui si dipinsero tutti i sentimenti umani tranne uno, quello del pentimento. Il suo sguardo era quello dell’arcangelo caduto che vuole ancora guerreggiare».

  Una simile trasfigurazione non avviene che nel momento in cui l’eroe scompare dal racconto, per presto risuscitare tuttavia sotto un aspetto infine alla portata del suo significato: il misterioso e possente eroe di Splendeurs et Misères, colui che nell’ombra esercita un dominio occulto e senza limiti. L’autore ha un bell’affermare che ha preso l’originale dalla realtà, quando scrive a Hippolyte Castille: «Vi posso assicurare che il modello esiste, che è di una terrificante grandezza, e che ha trovato il suo posto nel mondo contemporaneo. Quest’uomo è stato tutto ciò che è Vautrin, meno la passione che io ho dato a quest’ultimo». Non ha più importanza che l’eroe richiami questo o quell’avventuriero del tempo: Vidocq, finendo come lui capo della polizia; o Pierre Coignard, che s’introduce nei salotti di Parigi sotto il falso nome di conte de Pontis de Sainte-Hélène, e che fa da informatore ad una banda di ladri; oppure Anthelme Collet, a volta a volta generale, vescovo e filantropo, avviato al bagno penale verso il 1820, travestito da Monsignor Pasqualini come Vautrin da abate Carlos Herrera. Talune somiglianze vi sono con Les Misérables, Les Mystères de Paris, o con La Vengeance de Vasilika di Ponson du Terrail: ma non contano più che tanto. Vautrin, imperturbabile, onnisciente, padrone segreto di Parigi, acquista un senso mitico. Sulla capitale dispone dello stesso potere fantasmagorico e clandestino esercitato dall’associazione dei Tredici, e che il silenzioso Gobseck, ancorché ad un minor livello, ha saputo procacciarsi grazie all’usura (ed a lui succede, quando muore stremato e sconosciuto, Zacharius Marcas).

  Si sa che il tema svolge un ruolo fondamentale nella drammaturgia di Balzac. La grande città è un mondo ricco e denso, dove tutte le possibilità si realizzano e dove le passioni si esasperano fino al punto da scottare. Demiurghi mascherati e anonimi vi tramano senza posa macchinazioni inestricabili e decisive. Vautrin sta al centro di un tale arroventato universo. Ne è la figura principale, incarna al tempo stesso il male e il dono creativo dell’energia intelligente, Rubempré, nella sua lettera di addio, lo pone fra gli esseri d’eccezione, che sono pericolosi per la società così come dei leoni lo sarebbero per la Normandia: «Dotati di un immenso potere sulle anime tenere, essi le attirano e le stritolano. È bello, è grande nel suo genere. È la pianta velenosa dai ricchi colori che affascina i ragazzi nei boschi. È la poesia del male». Esiste la posterità di Abele e quella di Caino. Vautrin stesso amava ripeterlo. Caino è l’eterna ribellione. Vautrin è detto discendente di Adamo in tale linea maledetta. «Fra i demoni di questa filiazione, se ne trovano di tanto in tanto di terribili, organizzati su vasta scala, che riassumono tutte le fono umane e che somigliano a quegli irrequieti animali del deserto la cui esistenza esige gli immensi spazi da essi là trovati».

  Rubempré s’inganna: parimenti, Vautrin s’illude quando immagina che sarebbe pienamente felice se potesse condurre una vita patriarcale in una grande tenuta degli Stati Uniti, vivendo come un pascià e facendo a volontà i suoi comodi. Di tali creature, al contrario, non se ne concepiscono più nella solitudine ed in mezzo a spazi vuoti. Sono lo stato moderno, la civiltà industriale e le grandi città che le fanno nascere. Non sono prodotti della natura, bensì della società. Lo scrittore ha perfettamente compreso che non poteva collocarli se non nel cuore delle capitali. Anziché constatarli li inventa. Anziché osservarli, li suppone. Sembra che sia come obbligato a dedurli. E siccome occorre mettere di fronte al mostro un eroe che lo combatta, Balzac, descrivendo la forza dell’universo urbano quale si andava formando in quel tempo, fu indotto a concepire dei personaggi sufficientemente magnificati per potere, senza perdervisi, errare nel più temibile labirinto e affrontarvi con qualche fortuna i pericoli inediti e sempre rinascenti che abbondano nelle sue vie senza uscita.

 

  Il ritorno del mito.

 

  Il romanzo moderno, l’affresco al tempo stesso ampio e dettagliato con cui Balzac, in una maniera affatto sorprendente si sforza di raffigurare la complessità sociale del suo tempo, non prolunga una letteratura occupata per intero da descrizioni atemporali, sottomessa a mille convenzioni arbitrarie ed accademiche. Il tentativo non appare più la traduzione diretta di una realtà immediatamente offerta: la realtà ha ancora bisogno del sotterfugio della letteratura per esprimere il quotidiano e l’abituale. Più che alla vita, le finzioni inventate dal romanziere moderno si ispirano ad altri romanzi. Talché egli evoca i dati più strani, forse i più gratuiti, per insediarli da sovrani in un ambiente apparentemente banale, dove ciascuno si guadagna la vita e di cui quasi nessuno vede anche l’opulenza inesauribile, l’impietosa e nuova intensità.

  Balzac ha molto vivamente sentito la novità dell’ambiente malefico e come incandescente che compone la grande città. Lo giudica pestilenziale in senso proprio e in senso figurato. Al punto che contrappone, con la sua ben nota costanza, la provincia a Parigi, e introduce l’antagonismo dei due stili di vita perfino nelle varie ripartizioni della Comédie humaine. Tuttavia accade qui lo stesso che per le sue convinzioni politiche: conservatore, partigiano dell’ordine, difensore del trono e dell’altare, egli esalta degli ambiziosi, dei refrattari, degli avventurieri. Maledice la mostruosità di Parigi, ma poiché essa lo ossessiona, la esagera e la rende seducente. Ne è sedotto lui stesso: Parigi, secondo una sua espressione, è la «città dei centomila romanzi». Che può sperare di più un romanziere?

  Non è soltanto un visionario. Piuttosto, la sua visione deriva dalia più scrupolosa osservazione. La sua geografia parigina è ragionata, quasi deduttiva. Alloggia ogni volta i suoi eroi nel quartiere che loro meglio corrisponde in base ad una tavola di concordanze presa in prestito da Lavater. Descrive allora quel quartiere con altrettanta meticolosa esattezza di quanta ne metta per descrivere qualche grosso borgo di una tranquilla provincia. Sono finiti i ditirambi, le imprecazioni e le metafore ispirate. Il contrasto è stupefacente, ma si spiega proprio con la natura del mito: Parigi è una totalità. Il suo fascino sta nell’essere indivisibile. Ogni particella di Parigi, considerata a parte, ridiventa immediatamente provinciale e Balzac, descrivendola, uno scrittore realista. Solo l’incommensurabile suborna a tal putito la lucidità da fargli confondere fantasia e realtà, da fargli cioè accettare il mito. Questo non è un semplice racconto, un’invenzione arbitraria, senza radice né valore. Gli occorrono, per imporsi, per «far presa», delle solide basi e delle condizioni favorevoli. È anche importante che esprima una data situazione, che proponga una soluzione vitale, una sorta di prestigioso precedente che sembri giustificare un’azione seducente, temeraria, a cui l’inerzia sociale resiste, ritenendola colpevole.

  Il mito balzachiano di Parigi incoraggia una specie di ambizione fredda e disincantata, quasi cinica, che rifiuta i valori accreditati e che, al tempo stesso, spinge l’ambizioso ad ogni sacrificio per aprirsi un varco nella società. Ma la volontà di potenza di cui lo si rappresenta armato mal si coniuga con un distacco fondamentale che la rende senza scopo e che rovina la gioia che il conquistatore dovrebbe ricavare dalla sua vittoria. Lo scrittore romantico decideva di rifuggire una società che lo schiacciava e lo sbeffeggiava. Questa società, uscita dalla tempesta rivoluzionaria e dal progresso tecnico, è per l’appunto quella di cui la grande città costituisce il simbolo aggressivo. Così essa fa orrore al poeta, che insorge contro i valori e le gerarchie che vi vede rispettati. Preferisce la torre d’avorio, la storia, la vita interiore, la fantasticheria, nei casi estremi la pazzia e il suicidio. Il nuovo eroe – Julien Sorel, Rastignac o Rubempré – assume l’atteggiamento inverso: gioca secondo le regole. È risolutamente moderno, si sforza di diventare il padrone di una società il cui codice egli rifiuta di riconoscere, ma che tanto più lo affascina.

  Balzac non è il solo a mettersi su questa strada. Si sa qual posto abbia in Baudelaire il concetto di modernità. Si conosce del pari l’importanza dei «Tableaux Parisiens» ne Les Fleurs du Mal. Non ci meraviglierà di vederci rendere uno stupefacente omaggio al romanziere nella conclusione del Salon du 1846: «Il meraviglioso ci circonda e ci abbevera come l’atmosfera: ma noi non lo vediamo ... Perché gli eroi dell’Iliade arrivano soltanto alla vostra caviglia, o Vautrin, o Rastignac, o Birotteau, - e voi, o Fontanarès, che non avete osato raccontare al pubblico i vostri dolori sotto il frac funebre e convulso che indossiamo tutti; e voi, o Honoré de Balzac, voi, il più eroico, il più singolare, il più romantico ed il più poetico di tutti i personaggi che avete tratto dal vostro seno».

  Balzac considera il romanzo come la forma letteraria più idonea allo spirito del secolo, la più adatta a darne la sintesi epica, quella che Baudelaire chiama la «traduzione leggendaria della vita esteriore». Il romanzo fornisce in ogni caso un’espressione della società, che agisce su un pubblico sempre più vasto e sensibile. Vale a dire che con esso la letteratura diventa a sua volta una forza sociale. La letteratura non è più soltanto arte ed ornamento, illustrazione e divertimento. Non assomiglia più ad opere prodotte da specialisti per la soddisfazione di pochi. Abbandona l’estetica per la drammaticità, campo in cui il romanzo, che è solo in apparenza un genere letterario nel senso classico della parola, assume ben presto un’importanza fondamentale, quasi esclusiva. Non pretende, non mira essenzialmente ad una bellezza atemporale, e si rivolge alle masse. Senza dubbio si ripropone di tradurre una realtà effimera e mutevole. Ma nello stesso tempo contribuisce a trasformarla, dando al lettore coscienza dei problemi dell’epoca, obbligandolo ad esaminarli, suggerendogli l’atteggiamento da assumere, proponendogli l’esempio di una determinazione impressionante. Balzac è all’origine di un simile modo di usare il romanzo. Certamente, questo non è il mito. Ci manca molto per esserlo. Non è che una sorta di degradazione profana, senza coerenza né autorità riconosciuta. Nondimeno i suoi eroi, come quelli dei miti, portano all’individuo le garanzie di cui ha bisogno per decidersi ad agire, talvolta per almeno immaginare la condotta che lo nobiliterebbe ai suoi stessi occhi.

 

 

  Bonaventura Caloro, Centotrenta anni fa moriva il grande Honoré de Balzac: proviamo a rileggere la sua storia. «Cercate il mondo? Sta nella mia testa», «il Resto del Carlino», Bologna, 18 agosto 1980.

 

  Ricorre oggi il 130.mo anniversario della morte di uno dei maggiori scrittori francesi dell’Ottocento: Honoré de Balzac. Pochi scrittori, come lui, hanno saputo far rivivere sotto la loro penna il mondo cui appartennero e nel quale vissero. Lui stesso, senza alcuna presunzione, lo diceva: «Ho portato tutta una società nella mia testa». Ed è vero. Leggere Balzac è come rievocare l’Ottocento francese, il secolo più ricco di talenti, più fulgido di storia, più evoluto e progredito nelle diverse innovazioni. Honoré de Balzac lo seppe dipingere con mano maestra in un affresco che ha pochi eguali per la precisione dei connotati, per la fedeltà al costume, per l’immensa varietà di personaggi che portò sulla scena. Ne era consapevole e non se ne meravigliava. «Se la società, nella quale ho avuto la ventura di vivere avesse bisogno di uno storico — soleva dire — non potrebbe trovare meglio di me il segretario».

  Honoré de Balzac nacque in provincia, che — come notava François Mauriac — è la vera fonte dei grandi scrittori, per essere abituati a vivere in continua e franca comunicazione col prossimo. Honoré venne alla luce nell’ultimo anno del Settecento, quando la Francia si disponeva, con le grandi vittorie di Napoleone, a diventare impero. La sua nascita ha luogo a Tours, capoluogo della Turenna, che scorre sulla Loira ed è ricca di floridi e rigogliosi vigneti. Tanta esuberanza della natura sembra che si ritrovi in Balzac.

  Oggi Balzac pare più vivo ancora di ieri. L’occasione dell’anniversario della sua morte non poteva passare inosservata all’attento ed acuto cultore di biografie, quale è Maurice Bardèche, che ha fatto uscire in queste settimane, per i tipi di Julliard, una delle sue opere migliori: «Balzac». In 700 nutrite pagine la figura dello scrittore risalta nitida ed attraente. Tutto di lui viene narrato con minuziosità di particolari e ricchezza di episodi e di aneddoti, non senza una vena di sincero realismo.

 

Temperamento oscillante.

 

  Sin da ragazzo Honoré appariva dotato, ma non sapeva quale carriera intraprendere. Ma cosa fare a Tours, che viveva di riflesso della lontana Parigi, dove si svolgevano eventi di grande portata? Il suo temperamento era oscillante, come attraversato da debolezze e da tentazioni, delle quali non si libererà mai. Aveva bisogno di denaro, e per tenere qualche soldo in tasca, si rassegnò a far da segretario ad un avvocato. Nel contempo però scriveva le «Notes philosophiques». Erano note un po’ saccenti, che ebbero il buon effetto di rivelarlo a se stesso e agli amici, che lo incoraggiavano di continuare. Due anni dopo, il padre, messo in pensione, portava la famiglia nelle vicinanze di Parigi, a Villeparisis. Vi si respirava già l’aria della capitale, con i suoi fermenti, le sue attrazioni e le attese di grandi rivolgimenti.

  Balzac era più a Parigi che a Villeparisis. Egli annusava i tempi, e nulla tralasciava per aprirsi una strada. In collaborazione con due amici, scriveva il primo romanzo: «L’héritière de Birague». Era un racconto sciolto, gustoso, ma di stile incerto. Non ne rimase soddisfatto. Ma ciò che più lo preoccupava era la mancanza di denaro. La sentiva come l’incubo che ti fa passare le notti bianche. E, per di più, voleva diventare ricco. «La ricchezza è fonte di grandi privilegi», gridava agli amici, che lo rimproveravano, dandogli del provinciale e del piccolo borghese. Ma Balzac non vi da-va peso. Un bel giorno, spinto da quel suo miraggio, fece la grossa spesa di acquistare, un po’ a contanti e un po’ a prestito, una stamperia, la «Laurens», sperando di farci molti soldi e di mandarla avanti con ogni sorta di espedienti. E intanto non tralasciava di scrivere un’opera, che si richiamava ai suoi primi amori filosofici, la «Phisiologie (sic) du mariage», alla quale non venne meno un certo successo, che su Balzac ebbe l’effetto opposto a quanto si sarebbe sperato: abbandonò i temi di sapore scientifico e si dedicò alla narrativa.

  Con una laboriosità prodigiosa fece uscire una serie di romanzi: prima «Les chouances» (sic), poi «La peau de chagrin», seguiti, sempre a breve distanza da «Le colonel Chabert», «Le Médecin de campagne», «Eugénie Grandet» ed infine, a 35 anni, nel 1834, la migliore delle sue opere: «Père Goriot». Attraverso quest'ultimo romanzo la sua arte s’ora perfezionata: la figura del protagonista riusciva nitida, brillante e quanto mai viva, quasi parlante, per usare una metafora. Egli la sapeva far muovere nel suo tempo, nell’umore delle genti, negli stenti e in un’epoca di marasma, di grave crisi, d’ogni ordine, politica, sociale, economica, quale quella lasciata da Napoleone.

  Dopo «Père Goriot» la penna di Balzac non si concedeva tregue, e riprendeva con la solita lena la successione delle opere: «La recherche de l’absolu», «Le Lys dans la vallée», «Les (sic) Illusions perdues», «Splendeurs et misères des courtisanes», «La cousine Bette» ed altre.

  Una tale ampiezza di lavori, creati in meno di vent’anni, ha dell’incredibile. Un comune filo logico li lega insieme come tessere di un meraviglioso mosaico. Balzac se ne rendeva conto, e dopo averci un po’ pensato, dava un nome all’insieme dei lavori, chiamandoli «La comédie humaine». Ma quale era la chiave di tanta straordinaria attività creatrice? Il suo biografo, Maurice Bardèche, ritiene che essa risieda nella sua «portentosa immaginazione». «E’ una dote — nota il critico — in un certo senso superiore al suo secolo, all’Ottocento, tanto che Carlo Marx intravede, leggendo i suoi romanzi, un presentimento dei pensieri che occupano la sua mente». Ma, a parte, lo stile, che non è sempre all’altezza del contenuto, emerge da ogni scritto di Balzac il sacro dono di far vivere nei suoi precisi connotati una figura umana e di saperla riportare nelle sue pagine. Basti l’esempio che gli offre la visita ad un banchiere: «Il suo sguardo — scrisse — ha qualcosa dell’avvoltoio e degli avvocati: è avido e indifferente, chiaro e scuro, brillante e cupo».

 

Perdutamente innamorato.

 

  Ma quale specie di uomo, in definitiva, è Balzac? si chiede il suo biografo. Occorre premettere che a trent’anni la sua vita s’era intrecciata con quella di una donna, una contessa polacca. Madame Hanska, che possedeva un castello in Ucraina, a Wierzschownia. Era una donna di carattere forte, coltissima, di cui Balzac si era perdutamente innamorato e ne era corrisposto. Invitato dalla contessa polacca, soggiornò per un breve periodo nel castello ucraino, da cui, alla fine di gennaio del 1848, si rimetteva in viaggio per far ritorno a Parigi, ove arriva il 15 febbraio. Una settimana dopo si avevano le tremende giornate che ponevano fine alla «royauté bourgeoise». «Le rivoluzioni rivelano — nota Bardèche — i caratteri. Quello di Balzac appare in piena luce ... Non è affatto l’affossatore della società borghese, come alcuni avevano creduto ... E’ sempre il piccolo borghese a farsi vivo in lui, ed a rimanere sgomento, terrorizzato, per quel che accade intorno a lui ... La paura gli serra la gola ... Nota che si scivola nella catastrofe ed è letteralmente smarrito ... “Non c’è più governo!” grida ... I biglietti di banca non hanno valore ... ed aggiungeva “E’ un governo composto di canaglie: i suoi componenti rubano nelle casse dello Stato. George Sand va a letto con i ministri ... Lamartine non osa dormire in casa, cambia ogni sera di domicilio. La corruzione, che è l’arma della mediocrità, dilaga ...”». Balzac si sentì perduto: «E’ Il rovescio delle mie povere fortune», notava con tristezza. Dinanzi a tanto disastro, seguì l’esempio di certi banchieri, che tentavano di rifarsi giocando in borsa. Anche lui fece lo stesso e passava molte ore a leggere i bollettini delle quotazioni. Ma non aveva fortuna. Fu costretto a chiedere prestiti e vi concorse anche il grande Rothschild. Ma ecco che, nel momento più acuto della sua crisi, gli venne in mente un’idea. Non ci aveva pensato sino allora: era una risorsa. Aveva scritto romanzi di successo, perché non tentare il teatro, che andava di moda? Ed allora si mise a scrivere, ispirandosi ai «Parents pauvres», un lavoro intitolato «La Marâtre», in cui metteva in scena l’odio implacabile della suocera contro la moglie del figlio, un tema che, per quei tempi, era di gran successo. E lo fu anche di denaro. Poi, riprendendo in mano «Père Goriot» ne fece una riduzione teatrale. Poi ancora una commedia in cinque atti, l’«Education du prince», ed infine un dramma storico, «Pierre et Catherine».

  Ma il denaro non gli bastava. Ed era obbligato ad aggiungere altre due opere: «Richard coeur d’éponge» e la «Folle épreuve», che grandi attrici e valenti attori portarono in scena. Ma Balzac era egualmente triste: scriveva lettere patetiche a Madame Hanska. Voleva rivederla o essere invitato al castello di Wierzschownia. Ma la donna rispondeva con missive garbate, ma fredde. Balzac era disperato. Tornava a scrivere ed a riscrivere con il cuore serrato dall’angoscia. Finalmente Madame Hanska si commosse, e lo invitò ad andarla a trovare. Balzac stava rivedendo un lavoro che era piaciuto a Théophile Gautier e lo voleva adattare per il teatro, chiamandolo «Le faiseur». Ritoccò qualche scena, completò l’ultimo atto, sicuro che la commedia sarebbe andata in scena prima della sua partenza. Ma intralci tecnici rinviarono la rappresentazione. Balzac non volle attendere, e il 19 settembre del 1848 partì per l’Ucraina. Giunse al castello stanco, malato. Madame Hanska lo curò amorevolmente, ma le sue condizioni peggiorarono. Balzac si consultò con i medici e decise di rientrare in patria. Ma prima di partire volle compiere un impegno d’onore, sposando Madame Hanska, che divenne — secondo l’uso francese — Madame Honoré de Balzac. Lasciò il castello il 14 aprile del 1850 ed arrivò a Parigi il 20 maggio, dopo un viaggio disastroso. Dieci giorni dal suo ritorno in casa, Rue Fortunée, I medici si dimostrarono assai preoccupati. Il dottor Louis, che non lo lasciava mai solo, disse agli intimi: «Non avrà che sei o sette settimane di vita». Ma lui, Balzac, era sempre lucido, scherzoso con gli amici che andavano numerosi a visitarlo.

  A peggiorare le sue condizioni interveniva la peritonite. Il 18 mattina il medico lo mise al corrente del suo stato. E Balzac chiese subito di ricevere le estreme unzioni. Verso sera un rantolo risuonava sinistramente nella stanza. Victor Hugo fece appena in tempo ad assistere all’agonia. Rientrato a casa, egli scriverà una delle sue più belle e travolgenti pagine nelle «Choses vues». Il 21 agosto un convoglio di terza classe trasportò la salma al cimitero. Honoré de Balzac non aveva che 50 anni.

 

 

  Ruggero Campagnoli, BartheS su BalZac e la marchesa pensosa, «Lectures. Quadrimestrale di studi su testi e tipologie culturali di espressione francese», Bari, 6, dicembre 1980, pp. 189-192.

 

  (Intorno a: R. Barthes, S/Z. Essai, Paris, Seuil, coll. «Tel Quel», 1970).

 

  p. 191. Ciò che allontana S/Z dall’«explication de texte» è il fantasma della modernità, che rappresenta un dramma reale di Roland Barthes, ma che non impedisce alla sua classicità repressa di esprimersi e sopravvivere. Tutto ciò che viene da questo fantasma può essere scartato senza danno, in sede di scienza letteraria; e ciò che per esso viene a mancare può essere aggiunto ugualmente senza danneggiare nulla, se non la falsa immagine che Barthes è riuscito perfettamente a dare di sé a tutti i nouveaux. Ma d è riuscito non per beffarli, ma perché lui stesso visceralmente ci ha creduto, cedendo certo anche alle lusinghe di una industria libraria che fa bieco mercato dello sciattume arcano. [...].

 

 

  Enzo Caramaschi, Balzac et Zola dans la perspective de Lukács, in AA.VV., VIIIe Congrès de l’Association Internationale de littérature comparée. Littérature comparée II ; Littératures de diverses cultures au vingtième siècle, Stuttgart, Bieber, 1980, pp. 637-642.

 

  Cfr. 1977.

 

 

  A. Deb., Balzac e Sartre in una scatola di libri per le scuole, «Corriere della Sera», Milano, 24 marzo 1980, p. 8.

 

 

  Raymond Escholier, Un logis de Balzac[1], «L’Esopo. Rivista trimestrale di bibliofilia», Milano, N. 8, Dicembre 1980, pp. 45-51.

 

  Le 10 août 1828, comme la nuit bleue envahissait le faubourg, un homme jeune, de taille médiocre, mais massif et large d’épaules, remontait la rue de Seine d’une marche hésitante, rasant les murs comme un voleur.

  Arrivé à l’angle de la rue des Marais-Saint-Germain, il tourna à gauche, fit quelques pas et s’arrêta devant une maison en retrait, composée de deux corps de bâtiment, reliés, au rez-de-chaussée, par un long vitrage.

  Devant la porte épaisse à un seul vantail, des colis de papier, des voitures à bras s’accumulaient. L’homme, jetant un long regard autour de lui, n’aperçut pas une ombre dans la petite rue étroite, illustrée par les souvenirs de Jean Racine et de la Champmeslé, d’Adrienne Lecouvreur et de Mlle Clairon. Alors, il souleva le heurtoir et entra.

  Un couloir sombre le conduisit à une porte entrebâillée. Il la poussa, jeta son chapeau au loin et, accablé, s’assit sur une pile d’épreuves.

  Par un grand châssis, qui prenait jour sur la cour intérieure, un rayon de lune s’écoulait dans la vaste pièce, argentant les tables à encrer, les presses à bras, les casses, les formes, amoncelées, désertées.

  Il y avait plusieurs jours que l’atelier était muet. Gobseck n’entendait pas prêter un liard à Balzac imprimeur, et, ce soir-là, le passif de la maison Balzac et Barbier s’élevait à plus de cent mille francs.

  Vainement, le malheureux avait battu le pavé de Paris toute la journée, visitant des usuriers et des amis, sollicitant des délais ou de l’argent. Il rentrait le gousset vide, l’estomac creux, l’âme aux abois.

  Traqué par ses créanciers, il se voyait couchant à Sainte-Pélagie, une nuit prochaine. Mieux valait en finir ...

  Tout à l’heure, en longeant la Seine, une seule pensée l’avait retenu ... Celle d’une femme, de sa Dilecta, à laquelle il devait, au moins, une lettre dernière, avant de faire le grand saut dans l’inconnu. M. de Balzac se leva. Cette lettre, il allait l’écrire.

  Dans la cuisine obscure, le jeune homme but un verre d’eau, avidement. Car il n’avait bu ni mangé depuis vingt-quatre heures. Ensuite, ayant allumé une bougie, il gagna sa chambre.

  Une surprise l’y attendait. Sur son bureau, une petite nappe avait été mise, et là, parmi quelques roses humides, étaient disposés un couvert, un pâté en croûte, des fruits, une bouteille de chablis.

  — Pauvre chère ! soupira Balzac. Elle est venue! ...

  Mais secouant la tête, il repoussa la nappe et plaça les victuailles sur la cheminée:

  Mieux vaut s’en aller à jeun, fit-il amèrement. Ça me donnera du coeur!

  Et, saisissant un feuillet qui traînait, Balzac commença d’écrire à sa Dilecta, à Mme de Berny ...

  Il se retourna. Dans l’encadrement de l’alcôve, entre les rideaux du lit, une femme grande et souple apparaissait.

  Dans sa robe de mousseline, ornée de grecques brodées, elle avait le charme défaillant de l’automne qui allait venir. Sous les coques brunes, crêpelées, ses grands yeux nocturnes avaient une douceur pressante. Un sourire voluptueux flottait sur ses lèvres.

  — Laure! s’écria Balzac. Je te croyais à Saint- Remy.

  — M. de Berny y est encore. Mais me voici. Je t’attendais.

  Et comme le jeune homme froissait la page commencée, elle l’arrêta:

  – Inutile. J’ai tout compris. Qu’allais-tu faire?

  Il tomba à ses pieds et sanglota. Puis il confessa sa détresse immense, ses inutiles courses de la journée, sa soif de mourir ... Mais elle l’embrassa comme un enfant:

  — Chéri, tu n’oubliais qu’une chose. C’est que ta vie est le gage de tes créanciers.

  Il courba la tête, atterré.

  Elle eut un rire léger, et, allant à la cheminée:

  — Monsieur Minet, il te faut faire honneur à ce pâté. Aussi bien, je m’invite. Car, moi-même, je n’ai pas soupé.

  Balzac s’assit, vaincu. Mme de Berny alluma deux autres flambeaux. A la lumière plus vive, les fers des reliures de Thouvenin s’animèrent, et la tenture de percale bleue, la tenture de leur nid, s’éclaira tendrement.

  Jamais, cette femme exquise n’avait paru plus jeune à son amant. Jamais, même aux jours lointains de Villeparisis, où il la plaisantait ingénument sur la quarantaine révolue.

  Elle revint prendre place auprès de lui, avec une langueur émue.

  Et, ce soir-là, ainsi que tous les soirs, tandis que son ami buvait et mangeait, «comme Schéhérazade, elle parla. Son récit mit l’âme apaisée à la porte du palais des songes».

  N’était-elle pas l’héroïne accomplie? Fille de Hinner, le harpiste de Marie-Antoinette, filleule du roi et de la reine de France, belle-fille du chevalier de Jarjayes, de ce vrai chevalier de Maison-Bouge, qui faillit enlever la reine captive; mariée très jeune à Gabriel de Berny, puis emprisonnée aux Madelonnettes, elle avait vu les divertissements de Trianon, le galant scepticisme de la Cour, l’orage révolutionnaire, la Terreur déchaînée. On lui avait confié les secrets des complots royalistes. Pour arracher à la mort son illustre marraine, Jarjayes l’avait prise pour complice ...

  Devant l’ami chéri dont elle mûrissait le génie naissant, Laure feuilletait les pages brûlantes de cette vie, mêlée à tant d’existences romanesques.

  Elle savait bien, la Dilecta, la très aimée, que, dans cette imagination ardente, les fantômes du passé dissiperaient les anxiétés de l’heure présente; et c’est pourquoi elle venait, ainsi que l’écrivit plus tard Balzac avec des larmes, «tous les jours, comme un bienfaisant sommeil, endormir les douleurs».

  Cette fois, elle parla de Versailles, du hameau et du pare champêtre tracé par Mique. Elle évoqua les troupeaux de brebis aux toisons éclatantes, aux toisons enrubannées de faveurs; les princesses recueillant les oeufs des poules de Houdan et du Gâtinais; les grandes vaches normandes aux robes immaculées, dont Mmes de Polignac et de Lamballe tiraient le lait ...

  Toute l’existence frivole de la cour travestie au goût des bergerades de Florian et de Boufflers, refleurissait avec les souvenirs de son enfance.

  Et, lorsqu’elle dit ce qu’elle savait des amours de M. de Fersen pour sa souveraine, sa voix suave frémit comme un chant ...

  Quand elle se tut, les grands jeux de Balzac, des yeux pailletés d’or, étincelaient. Sur cette face robuste, mais belle encore, sur ce front superbe, sur ces lèvres charnues, il y avait maintenant de la vie, une vie puissante, intense, dominatrice ...

  Il lui prit les deux mains et voulut cueillir entre ses dents le dernier grain de chasselas. Elle ne refusa point. Leurs bouches demeurèrent confondues ... Les flambeaux s’éteignirent ...

  Et voilà pourquoi Honoré de Balzac ne mourut point ce soir-là ...

 

 

  Biancamaria Frabotta, Una figlia d’Eva: il trionfo del marito, in Letteratura al femminile. [Itinerari di lettura: a proposito di donne, storia, poesia, romanzo, in copertina], Bari, De Donato editore, 1980 («Dissensi», 107), pp. 19-35.

 

  Tutti sanno che la letteratura lottava allora contro l’indifferenza generale causata dal dramma politico producendo opere più o meno byroniane, dove non si parlava che di colpe coniugali.

  Queste parole di Honoré de Balzac si trovano nel bel mezzo della narrazione di Una figlia d’Eva, romanzo pubblicato a puntate sulla «Revue de Paris» nel 1834 e poi in volume nel 1839.

  È questa un’opinione che frustra le speranze di chi, omologando le vicissitudini del matrimonio nel romanzo borghese alle trasformazioni della società e della famiglia nell’epoca corrispondente, spera di trovare nei romanzi di Balzac, maestro di realismo per Lukacs ma visionario per Baudelaire, riflessa e ingrandita dallo specchio letterario la ‘condizione’ femminile nella società francese della Restaurazione. L’adulterio sembra infatti più che altro una conseguenza del malvezzo byroniano, anche se Engels, nella notissima lettera alla romanziera Margaret Harkness, sottolinea il fondamento realistico dell’opera di Balzac, dove la grande dama, la cui infedeltà coniugale era solamente un mezzo per affermarsi adeguato alla compravendita che di lei si faceva nel matrimonio, cedeva il posto alla signora borghese che nel marito ora soddisfaceva solo il suo amore per la cassaforte e il guardaroba.

  L’adulterio è un tema che dilaga in Occidente con la novellistica medioevale, sconosciuto per esempio al teatro dell’età classica. Sacro più del matrimonio, nella romance medioevale, è il topos letterario che meglio si adatta alla mescolanza degli stili nel realismo occidentale, divenendo, secondo l’alternarsi delle tradizioni riprese, luogo di consacrazione o di definitiva degradazione dell’amore cortese.

  Balzac, che sembra dar retta a quanto gli scrittori hanno inventato prima di lui non meno che alle mutazioni sociali della sua epoca, tenta, in questo romanzo, attraverso il titolo biblico, di forzare la convenzione letteraria nella parabola illustrativa. Sin dall’antichità, del resto, nella narrativa, la vita interiore della donna, a proposito di faccende amorose, era sempre stata considerata più ricca e contrastata di quella maschile. Ma, al tempo suo, sembrava a Balzac che le infrazioni alla fede coniugale fossero più che altro soggetti per libri, riviste o teatri. [...].

  Il romanzo, breve e arioso come uno spartito musicale schubertiano, narra la vicenda delle due Marie, Maria Angelica e Maria Eugenia che arrivano in giovanissima età al matrimonio, dopo una pessima educazione familiare in cui la rigida moralità materna che di tutto le aveva private tranne che dei piaceri della musica viene esasperata e resa più deleteria nei suoi effetti dall’astensione paterna.

  Balzac che, come ogni autore classico mantiene una netta supremazia sui movimenti dei suoi personaggi, non esita a manifestare le sue paterne predilezioni, affetti, simpatie, rimbrotti nei confronti delle sue stesse fantastiche proiezioni. La bigotteria di una madre che considera pericolosa per le figlie perfino la lettura del Telemaco di Fénelon è indubbiamente riprovevole, ma non meno lo è la dichiarata impotenza del padre che si è lasciato defraudare della severità pedagogica senza nemmeno potergli sostituire l’illuministico precetto della ragionevolezza riservato soltanto ai figli maschi. Le due Marie invece, oggetto di benevola commiserazione ma anche bisognose di protezione, vengono strette in un rapporto di mutua solidarietà che nasce come autodifesa nell’ambiente familiare e viene poi conservata, a denti stretti, nell’imperversare del matrimonio che le affida a due uomini nemici fra di loro. Si prospetta così un classico parallelismo narrativo che contrappone questo femminile gemellare, l’interno delle due Marie, analizzato in monologhi, dialoghi e comportamenti caldamente condiscesi dallo scrittore a una serie di altre coppie che incarnano l’aggressione della società, un esterno che assedia, minaccia, costringe. Sarebbe un errore però pensare che questo interno così simbolicamente rappresentato sia una pura incarnazione del femminile, mentre il maschile caratterizzerebbe i tipi della società. In realtà il sesso dei personaggi trasmigra, nel pendolo aggressione-difesa, al di là della descrizione dei loro connotati sessuali. Le due imago parentali per esempio si prolungano nella nuova coppia di mariti che le sostituiscono ereditando da esse la originaria inversione dei ruoli, l’autorità come attributo della madre e la passività come attributo del padre.

  Quindi quando Maria Eugenia diventa signora di Du Tillet in colui che le dà il nuovo nome incontra, a detta dello stesso Balzac, la tirannia materna e la sua interdizione alla sessualità, mentre Maria Angelica sposa Felice di Vandenesse, felice di nome e di fatto che infatti affronta le difficoltà del matrimonio con il realismo di chi mescola l’affetto coniugale all’affetto paterno. Ma abbiamo visto a quale tipo (astensionistico-deficitario) di affetto paterno le due fanciulle sono state cresciute. La supremazia paterna, messa in dubbio all’inizio della narrazione, perché la stessa auctoritas dell’autore non subisca scosse, andrà riconfermata, mediante il racconto, alla sua conclusione, con lo scioglimento del nodo narrativo, come difficile riconquista e non come originaria certezza. In questo consiste l’enigma che il racconto è chiamato a sciogliere e insieme l’equivoco della sua rappresentazione realistica.

  Il matrimonio dunque non lascia inalterata la condizione di partenza delle due donne: il trasferimento e la biforcazione della tirannia-benevolenza dai genitori, depositari del loro primitivo immaginario, ai due mariti, spezza l’iniziale specularità delle loro vite. Felice di Vandenesse, uomo maturo, deluso dall’universo della politica, vittima lui stesso di un’educazione repressiva che ora gli fa rivalutare virtù come l’indulgenza e la fiducia, si propone di risarcire Maria Angelica della durezza materna: fa di lei una «donna felice», come suona il titolo del terzo capitolo. La assimila a sé, in un processo di progressiva simbiosi, come un Pigmalione discreto e misurato che intorno a lei inventa un Eden che proprio come il Paradiso dantesco, afferma romanticamente Balzac, la soffocherà di noia e di felicità.

  In ogni caso attenua la rigidità dell’interdizione e come un Giano bifronte, dalle fattezze di buona madre e di buon padre, ne prepara la disponibilità alla trasgressione nell’adulterio, ma contemporaneamente, per sé, ritesse la distrutta tela della strategia edipica finale.

  Maria Eugenia al contrario sposa un banchiere avido e senza scrupoli che la disprezza e la tiranneggia: divenendo la signora Du Tillet diviene una infelice sottile miniatura appena ricalcata su una superficie lucida asciutta, non «lubrificata», per dirla con Barthes. Si definisce non una moglie ma una schiava, l’attaccapanni del lusso del marito, pretesto per lui di ambizione e di vanità. «In questa terribile e sontuosa dimora sono in un deserto», confessa.

  La differenza dunque fra i due blocchi di personaggi, due genitori-due figlie/due mariti-due figlie è che mentre il primo quartetto costituisce un sistema chiuso, il secondo si apre. Infatti mentre nel primo l’unico elemento pericoloso, suscettibile di mutamento ma troppo debole era il maestro di musica (e in tutto il romanzo sarà mantenuta romanticamente l’equazione musica-poesia-amore, contrapposta alla routine bottegaia e finanziera della restaurazione), nel secondo si inserisce imprevisto e imprevedibile il comportamento di Felice di Vandenesse. Contemporaneamente nel racconto si introduce un enigma (perché Maria Angelica ha bisogno di soldi?), il cui scioglimento sarà anche l’approdo alla verità, la soluzione ermeneutica del romanzo.

  Du Tillet, materno, imbroglione e riprovevole sotto tutti i punti di vista viene fittiziamente e arbitrariamente sostituito all’innocenza dell’Autore, nel momento in cui interrompe la sospensione dell’enigma anticipando alla moglie la risposta (Maria Angelica vuole un prestito dalla sorella per dare soldi a un uomo che sarà presto chiuso in prigione). Ma la divina preveggenza dell’Autore non è scalzata: se Du Tillet sa più di quanto, a questo punto del racconto, ne sa il lettore, ne sa sempre meno dell’Autore e quindi è preda ancora più facile dell’ironia della narrazione. Sospettando la trasgressione, sospetta la disobbedienza, ma non ne conosce i modi, non essendo riuscito a penetrare negli accordi segreti delle due sorelle, nelle loro confidenze. [...].

  Il sogno infatti, introdotto nel primo capitolo dal maestro di musica, si dilata poi nella confessione di Maria Angelica, che come vuole la tradizione si esprime in un rudimentale monologo interiore: l’amore adultero di Maria Angelica è tutt’uno con il discorso che essa ne dà, un’esaltazione musicale, il desiderio di vivere doppiamente, fuori dalla realtà, per sé e nelle impalpabili emozioni dell’anima di un poeta, contrapposto all’asciutta realtà di Maria Eugenia.

  L’impazienza di Du Tillet di uccidere il sogno anticipando la verità e castrando il racconto alle sue prime battute dà modo al narratore di svelare l’antefatto psicologico degli eventi, diventando quindi funzionale alla trama.

  Maria Angelica costruita nella psicologia del vuoto, della mancanza, della carenza del piacere e dell’eccedenza del desiderio, come giustamente intuisce la preveggenza di carattere materno di Du Tillet, rompe le placide onde del suo matrimonio formulando «la domanda». Ma la chiave dell’enigma che la vita offre alla donna è la grande passione: è una massima di M.me de Staël e Balzac opportunamente la registra. Se quindi, l’adulterio si identifica con lo stereotipo letterario, l’essenza del matrimonio è riposta nel bagaglio gnomico-culturale fonte principale di ispirazione per la balzachiana psicologia della normalità. Il buon senso borghese gli suggerisce che le virtù teologali del matrimonio sono intelligenza, delusione ed esperienza: qualità tattiche, mercantili, sopravvissute alla crisi dei valori umanistici.

  Ecco dunque per l’eroe ridimensionato e rimpicciolito dalle trame del romanzo borghese lo spazio adatto a più casalinghe strategie: Du Tillet affronta la guerra del matrimonio con la tirannia e la repressione; Felice di Vandenesse, con le armi illuminate e temporeggiatrici dell’opportunità. Il primo momentaneamente più forte nelle dinamiche relazioni fra i due quartetti di personaggi è destinato al ridimensionamento; il secondo, apparentemente più debole, riconquisterà il potere perduto instaurando una più solida e temperata monarchia. Felice di Vandenesse, come l’Autore che con l’inventio vuole tenere uniti la gerarchia dei significati contro la autonoma tendenza dei significanti a disseminarsi nel testo, è costretto a subire, per poi dominarla, gli effetti della trasgressione.

  Infatti, scrive Balzac, la storia dei matrimoni ben riusciti è come quella dei popoli felici. Si scrive in due righe e non ha niente di letterario. Le giustificazioni psicologiche, sociologiche, morali che Balzac offre al suo pubblico per spiegare il tradimento di Maria Angelica sarebbero intollerabili banalità al di fuori della necessità strutturale del romanzo: l’incostanza della psiche femminile, l’eterna beatitudine che non è di questa terra, l’imprevidenza di Felice che appagando ogni aspirazione sopprime il sogno e il piacere fanno parte di quello che, a proposito di Balzac, Genette definisce il «verosimile artificiale».

  Ciò che più conta è altrove: è, per esempio, la catena relazionale che si stabilisce fra il narratore, il personaggio maschile meno inquinato («una specie di eroe di romanzo») e il personaggio femminile più permeabile alla falsa innocenza del discorso. Dal momento in cui, innamorandosene, Felice di Vandenesse «riconobbe se stesso in Maria Angelica di Granville», prende il via, come un corpo rotondo su un piano inclinato, lo slittamento metonimico. Dando per scontato che il modo psicologico di rappresentare il personaggio nel romanzo moderno si differenzia dal modo retorico della antica narrativa, nel momento in cui l’Autore diviene un personaggio, autobiograficamente reso nella rifrazione di tutti gli altri personaggi e accettando l’ipotesi di Jakobson per cui «l’autore realista opera digressioni metonimiche dall’intreccio all’atmosfera e dai personaggi alla cornice spazio-temporale», dobbiamo ora riconoscere che, con la mediazione di Felice, la relazione di contiguità avvicina quanto più è possibile, l’Autore al Personaggio Femminile, ansioso di «completare la vita», così come la scrittura preme per passare dall’antefatto allo svolgimento, dal discorso al racconto. Soltanto le donne conoscono l’arte di variare la felicità, mentre, abbiamo già visto, la felicità coniugale non si può raccontare. L’iniziativa passa da quel vice-autore o viceré che è Felice di Vandenesse alla sua creatura, la «donna felice», la statua che ha preso vita e da oggetto di protezione diviene soggetto di smaliziata emulazione.

  Nella famosa dichiarazione di poetica premessa a Facino Cane Balzac scrive che il narratore è colui la cui intuizione lo rende capace di vivere la vita dell’individuo su cui si esercita, e di sostituirsi a lui «come il dervis delle Mille e una notte assumeva il corpo e l’anima delle persone su cui pronunciava certe parole». Il che riferito alla connotazione sessuale del testo può tradursi con le parole di Roland Barthes che definisce la femminilità connotata come un significato destinato a fissarsi in più luoghi, un elemento migratorio «capace di entrare in composizione con altri elementi dello stesso genere per formare dei caratteri, delle atmosfere, delle figure, dei simboli».

  Qui la femminilità è la rincorsa alla sostituibilità, si presenti essa in veste maschile o femminile, con quanto viene nominato nella formula magica del racconto, ma è anche quella pluralità di impedimenti con cui l’Autore, nel testo classico, si preserva dall’assorbimento, dalla totale fusionalità, dalla perdita di sé. La femminilità è quello scoglio che si frappone fra il letterale e il traslato dando il via a quella infinita fuga di senso che fa di un testo un’opera d’arte, provocando però nell’autore ancora classico nonostante il realismo, un rapporto fortemente antagonistico con i suoi personaggi, sui quali è sempre più difficile mantenere una indisturbata tirannia. L’ideologia è l’estremo ricorso dell’autore per tenere a bada i suoi personaggi e per permettere alle ragioni della trama di prevalere sulle loro ragioni. L’intreccio romantico che permette al desiderio di esprimersi e poi di consumarsi si può dare solo finché l’Autore-Personaggio mantiene la debita distanza spaziale e temporale dagli altri personaggi. È quanto appunto fa Balzac con quel procedimento cui, non a caso, Bertolt Brecht guardava con disappunto. Balzac, dice Brecht, combina matrimoni fra le creature della sua fantasia come Napoleone faceva coi suoi marescialli e coi suoi fratelli.

  Inseguiamo dunque nel testo questa pericolosa trasmigrazione della femminilità e vediamo dove e perché l’Autore riesce a bloccarla prima che il realismo disgreghi il racconto stesso. [...].

  La fantasia violenta, annientatrice dell’opinione comune [...] rivela la forza dell’attrazione ma anche il panico ispirato dall’indeformabilità della donna: essendo di gomma il materiale della femminilità è anche ‘informabile’. Impertinente, astorico, quando esce dalla certezza della tradizione retorica, seduce all’identificazione, resiste alla rappresentazione, se non nella sfrenata licenza metonimica del realismo. Ma il realismo è un perfido ispiratore.

  Il discorso slitta ora su Raul (sic) Nathan, l’amante, colui, si era detto, che esiste soltanto nei romanzi. Il suo ritratto sembra rubato alla infinita galleria che custodisce il tipo dell’«uomo celebre»: da Molière a Girodet, da Chateaubriand a Byron. È certo un personaggio di questi autori a bella posta nominati, ma è anche la parodia di un personaggio di Stendhal, non nominato. Ha, come le pitture cinesi, qualcosa di originale, che piace alle donne. È un mestierante della penna pronto a prostituirla, non come Balzac per la sopravvivenza del ‘mestiere’, ma per l’intrigo politico. Come le donne si muove bene nella passione perché in fatto di passione «tutto è vero». Nessuno meglio di lui sa recitare la commedia degli affetti, ostentare false grandezze, adornarsi di inesistenti bellezze morali. Insomma non può come il genio, creare il falso dal vero, ma può, come colui che assomiglia al genio testimoniare la falsità del vero di una determinata epoca. Nathan non insegue, resistendole, la perduta femminilità della scrittura, ma è egli stesso soggetto femminile di menzogna, disordine. Impaziente, afasico, figlio della Moda e del Secolo geloso, incapace di appartenere a una sola donna dal momento che si confonde con tutte le altre. È l’autore mancato, mancante, che non teme la castrazione perché ha preventivamente trasferito la sua intraprendenza fallica nella sua creatura prediletta: Florina.

  Ed eccoci ancora preda dello scivolamento metonimico, esposti, con Florina, al massimo del rischio della non-identità.

  Interprete di infiniti stravolgimenti teatrali, Florina è il puro involucro, l’ ‘esterno’ ridotto alla sua scheletricità di gabbia buona per tutti gli usi e nello stesso tempo è il Fallo di cartone che lo scrittore mancato indossa come l’attrice il suo costume. È così naturale, scrive Balzac, supporre che quelli che spendono la vita a metter tutto fuori non abbiano niente dentro.

  La descrizione della sua casa segna il trionfo del feticismo di cui parla Brecht a proposito degli ambienti balzachiani: anche del suo corpo vediamo ciò che prima di noi i pittori hanno ritratto e ogni suo attributo si squaderna, nel senso della sovrabbondanza, ma piattamente, sulla superficie senza pieghe e orifizi, esterna e impudica della tela dipinta. Incancellabile messaggio sono gli alti stivaletti — lunghi e riempiti di cotone all’interno — con cui Florina cerca di dissimulare, in realtà esibendolo sadicamente, «il piede corto e grosso, segno incancellabile dell’origine oscura». Sul suo piede Florina aveva tentato tutto, tranne che l’amputazione: perché privarsi del potere di cui Nathan la fregia? Il suo piede, sineddoche per eccellenza feticista, rivela che il suo mondo è una eccezione: la sua vita è attraente e assorbe tutti coloro che si lasciano prendere, avvolgere da lei. Il meglio di sé è nella ripetizione delle sue gesta da commediante che portano il teatro, nell’epoca della trasmissibilità delle merci, alla massima laicità del circo invaso, al posto dei mitici eroi, dalle mime bardate come cavalli da maneggio. Lo scettro protettore che Nathan le ha ceduto la rende disposta a tutto sacrificargli tranne l’imprestato ornamento ed è ciò di cui Nathan abbisogna, dal momento che, attraverso il potere differito su Florina che appaga il suo piacere mettendolo a riparo dalla minaccia paterna, può penetrare il mondo, o, che è lo stesso, penetrare nel bel mondo. È ovvio dunque che nella casa di Florina il desiderio impera sovrano: là la nostalgia e il sogno di perduti paradisi «erano sacri come nella casa di un borghese l’onore e la virtù».

  Florina è la migliore propaganda delle qualità della merce: la sua dipendenza dalle leggi della società del mercato si valuta in franchi ed è questo suo essere quantitativo che la rende invece indipendente qualitativamente dall’amore: dove la valorizzazione dell’uso degli oggetti cede al loro valore di scambio la merce, eternamente riciclata, non cede mai alla consumazione definitiva. Come la legge del desiderio si appaga solo nella morte. E infatti quando i pignoranti entrano nella sua casa, novello santuario della compravendita, per farne l’inventario, è come se «Florina fosse morta».

  Quindi Florina è il più solido anello della catena simbolica che stringe il desiderio di Nathan, scrittore che si arrampica sulle mancanze della sua fantasia come il ragno sullo specchio, a Maria Angelica. «La fantasia di Raul univa l’attrice alla contessa come con un anello». E infatti l’anello si chiude là dove si apre: nel legame che unisce la donna caratterizzata dal desiderio di colmare la mancanza alla donna che esibisce invece una fittizia sovrabbondanza. Ma l’evocazione del potere non è innocua: mèta sognata da tutti, dopo aver sperimentato l’ebbrezza della fuga e dell’interscambiabilità, è il durevole prestigio che si fonda sulla nobiltà del sangue. Ovvero, dell’Edipo convenzionalmente riconosciuto e non ancora incrinato, non abdicato.

  «Vandenesse non era una donna», verità che non si può facilmente rovesciare nel suo contrario a differenza di molte pseudodeterminazioni del discorso balzachiano, dal momento che costa a Felice la sua iniziale sconfitta in un mondo dominato da una femminilità sempre più pervasiva.

  Ed ecco che la prima ragione dettata a Maria Angelica dal suo amore adultero è l’astuta menzogna con cui, esibendo la propria gelosia, aggira la possibile gelosia di Felice. Maria Angelica tripudia del trionfo su un uomo che fino allora le era sembrato tanto superiore. Comincia così un consapevole travaso di potere che dalle alte sfere di Felice (un Giove olimpico, il solo dio della mitologia che dicono immune da ogni sfortuna) attraverso Maria Angelica, anzi attraverso il riscoperto linguaggio dell’abbigliamento che da bene fondiario la trasforma in puro significante, viene assorbito da Nathan, dalla sua corrività di giornalista, uccello sul ramo, vaudevilliste, politicante. Maria Angelica procede nel suo piano — raggiungere la potenza castratrice di Florina attraverso il concavo specchio di Nathan, supplire la sua mancanza erodendo la pienezza di Felice —, con la regolarità di una sfera d’orologio regolata dalla molla. Priva della maschera di cui Florina si fregia sul palcoscenico, priva del suo alto stivaletto, incapace di alzarsi fino a Felice, ella si trasforma in ‘sgabello’ per Nathan-Florina. Alzando la coppia all’altezza di Felice, abbassa Felice fino a sé. Ed è per questo che la repugnanza di suo marito per Nathan non è un ostacolo, ma anzi «tanto meno degno di stima fosse stato Nathan, tanto più ella sarebbe stata magnanima». Non ci fu dunque amore più innocente e più puro, ma nessun amore era più sfrenato e delizioso nella fantasia, soprattutto quando a suo favore si schierano compatte le dame dell’alta società, appagate anche solo dalla vista del rovesciamento del teatrino edipico. Balza in primo piano il gioco degli sguardi, questa «luce dell’anima» che, come nelle antiche liriche provenzali, filtra dall’interno verso l’esterno attraverso gli occhi della persona innamorata. Vedere, scrive Starobinski, apre tutto lo spazio al desiderio, ma vedere non basta al desiderio. E Balzac: «solo i ladri, le spie, i diplomatici, tutti gli schiavi insomma conoscono l’aiuto e la gioia dello sguardo».

  Della luce che si riflette dagli occhi di Maria Angelica si avvantaggerà questa coppia metabolicamente neutra e quindi spugna assorbente di ogni lampeggiamento altrui. Ma le ragazze come Florina, leggiamo, non vedono mai altro che i risultati. Quindi una volta che verrà calato il sipario su di lei, illuminata solamente da riflettori artificiali, calerà il buio. Gli occhi di Maria Angelica sono invece «insaziabili»: divorano la realtà prima ancora di discernerla. Quindi emettono una luce che li rende splendidi, ma non migliora le sue facoltà visive Dovrà essere Felice infatti a «aprirle gli occhi» sulla realtà della sua insana passione, perché «non tutte le donne hanno la fortuna di vedere la vita com’è». Lo sguardo di Nathan è poi addirittura cieco, dal momento che vede solo con gli occhi di Maria Angelica, «luce della sua vita».

  Lo sguardo maschile di Felice è ben diverso: il suo colpo d’occhio è giusto e preciso, in quanto è disinteressato, autoalimentantesi. I due amanti saranno presto costretti a vedere ciò che non vogliono; i loro occhi, saranno l’uno per l’altro, un vuoto specchio. Diventeranno quindi fissi e immoti. Al trasgressore è riservato il buio del carcere di Clichy, anche perché ormai i suoi occhi non potrebbero vedere se non il fondo senza fine del baratro in cui è caduto il suo sogno rampicante. È conseguente che Nathan scelga allora, o faccia finta di scegliere, piuttosto che la caduta ai piedi del colosso, l’autoaccecamento, il suicidio. Man mano che il racconto procede verso l’inevitabile trionfo del marito i grumi narrativi si spostano dal tema della luce al tema del fuoco, così come si trasformano le stature dei personaggi e le loro rispettive proporzioni. La morte scelta da Nathan dovrebbe essere lenta, indolore, per asfissia, come quella di un bambino snervato dai singhiozzi. Il fuoco della sua ambizione si spegne nelle volgari esalazioni di un braciere di carbone e il riflesso di quelle braci sulla vita di Maria Angelica sarà catastrofico.

  Il riflesso della brace è come il realismo: illumina i bassifondi e gli scogli più che le cime dove fino allora s’era fissato lo sguardo. Ed è nel fuoco paterno che dà ancora calore, anche se non abbaglia più come un tempo, che si brucia la conclusione del racconto: il fuoco delle guance di Maria Angelica imporporate dalla vergogna, il fuoco che brucia le lettere colpevoli, le cambiali insolvibili, l’adolescenza consumata. La maturità che giunge a suo compimento con la strategia realista di Felice, semi-eroe casalingo che per tenere a freno la femminilità dirompente del romanzesco, pazientemente vi si adegua, è per tutti una sorta di umiliante sublimazione.

  L’epilogo scioglie infatti il più banale enigma dell’intreccio, il piccolo intrigo ordito da Maria Angelica per salvare il suo sogno amoroso, insieme all’enigma simbolico, il ristabilimento attraverso compromessi e diplomatiche mediazioni di un precario potere maritale, ironicamente contrabbandato come un trionfo, una guerra di conquista, un carro solare. Felice, come il segreto burattinaio con i suoi personaggi, muoverà i fili della vicenda da dietro le quinte, lasciando credere invece che la vicenda si svolga da sé, con naturalezza. Il suo raggio d’azione è però limitato; non può determinare i destini di sé e degli altri come un antico demiurgo, ma soltanto far sì che la moglie-bambina veda, con i suoi occhi, ciò che egli, consumato e disincantato stratega di mene pubbliche e private, sa e vede da tempo. Felice non può più riformare il mondo, stornarne su altre vie il destino: può solo proteggere questa sprovveduta fanciulla che si mette sulle strade del mondo in preda alla sua delirante, ingenua, disarmata vita interiore. [...].

  Ciò che del resto appare più evidente è che Nathan non è Julien Sorel: sarebbe dunque ridicolo che Maria Angelica si intestardisse a recitare la parte di Mathilde de la Mole. Nathan, giocato dalla astuzia del banchiere non è degno né di patibolo, né di carcere, ma, nell’anonimato di un ballo mascherato inseguirà, «come un cane cerca un padrone», Felice che occultato nella sua maschera si fa beffe del contagio castratore che emana da questa sbilenca coppia di meschini arrampicatori in una società rivoluzionata, ma non certo rivoluzionaria. Ma la semi-morale, in fondo agnostica e antieroica, cui felice si è adeguato per tappare le falle di una barca avariata, ridimensiona anche la sua supposta grandezza, fino a far sbiadire il suo nome proprio in un ruolo, e non tra i più esaltanti, il Marito. Alla festa mascherata, dove si prende la sua sottile rivincita sull’indegno rivale, si presenta travestito da donna, implicitamente dichiarando decaduta l’auctoritas patriarcale sostituita dal paternalismo borghese.

  Le due Marie ricompongono, ma a un livello mediano e dialettico con la società, il doppio gemellare che la trasgressione di Maria Angelica aveva spezzato, costringendo la sorella alla delazione presso il marito-padrone. L’ascesa di Maria Angelica al piedistallo del Marito è troncata un attimo prima della catastrofe: definita e perdonata come «una bambina» viene ora messa sotto protezione, anche se l’avventatezza della sua iniziativa giova però, all’inverso, a Maria Eugenia che cambia status e statura di fronte al marito-tiranno. Non sono più una bambina alla quale si possa far paura — dichiara. Sarà una moglie fedele e leale al patto che Du Tillet abbandoni il suo scranno di despota materno e, al pari di Felice, diventi «un buon padrone».

  L’ultima immagine che ci resta invece di Florina è quella di lei che di fronte al disinganno amoroso stringe fra le dita il vendicativo rasoio.

  È un epilogo dunque che potremmo definire riformatore: contrariamente alle grandi promesse della trama di sovvertire le relazioni che stringono fra di loro i personaggi base, tutto torna apparentemente come prima, con in più un trionfo del livellamento sul contrasto, del grigio sul rosso e il nero. La caduta della barra paradigmatica che distingue i sessi e le classi, il Personaggio Maschile dal Personaggio Femminile ed entrambi dall’Autore-Personaggio, complici, secondo Balzac, la cattiva letteratura, la cattiva musica, il cattivo teatro, la crisi della famiglia e della classe dirigente, viene faticosamente ritardata. Ma l’erosione metonimica del realismo ha ormai intaccato a tal punto le differenze che di esse non si può dare la metafora, né il simbolo. Se per caso a Nathan, dopo la débâcle, venisse in mente di idealizzare la sua Maria in una novella Beatrice, farebbe, gli suggerisce un amico pietoso quanto maligno, la figura «patetica e orrida del cieco che canta di fronte a una nicchia vuota».

 

 

  Vintila Horia, Un grande scrittore in opposizione al suo secolo e al mito dell’oro. Honoré de Balzac o la grandezza dell’anticonformismo, «Secolo d’Italia», Roma, 3 agosto 1980, p. 3; 1 ill.

 

  Due titoli riflettono perfettamente i due tempi in cui le opere sono state meditate e scritte: La Divina Commedia costituisce l’apogeo del Medio Evo, La Commedia Umana è la realistica descrizione di un’epoca postrivoluzionaria. I personaggi di Dante sono anime nell’al di là, punite per i loro errori e le loro ribalderie o ricompensate per la perfezione del loro comportamento in vita, e sono tutti testimoni di una società dominata dalla fede. I personaggi di Balzac sono, invece, «gli avanzi di una grande tempesta», frammenti d’anime dispersi nel mondo, resti dell’umanità travolta e frantumata dalla Rivoluzione. Il problema consiste nel sapere se tale umanità fatta a pezzi potrà un giorno o l’altro essere ricostruita e come. È questa la prospettiva che oggi ci apre, dopo più di un secolo, la rilettura della prosa di Honoré de Balzac, cittadino anticonformista, cattolico e monarchico, in un periodo disposto a ritornare, in piena Restaurazione, alle sfuriate napoleoniche – ghigliottinistiche.

  In fondo, il tema di La Commedia Umana — alla cui lettura mi sono ultimamente dedicato con curiosità e comprensione sempre più conclusive — è quello dell’uomo incapsulato da poteri che non scaturiscono dal di dentro, ma da forze destinate a sottometterlo, riducendolo a dimensioni di pigmeo interiore e di gigante esteriore. Infatti il secolo XIX è un tempo d’enormi imprese, di conquiste dello spazio, di arricchimento scientifico e tecnico, ma è anche tempo di fattori materiali, è il secolo delle banche che a poco a poco sottomettono alle loro esigenze e al loro volere gli stessi politici. La politica, in quanto espressione del permanente desiderio umano di convivere in una società organizzata, è controllata da qualcosa d’inesistente, utopico, simbolico, cioè dal denaro.

  Da questa mancanza di contatto con la realtà, da questa frattura antinaturale, avranno origine i drammi, ogni volta più intensi ed ingiusti, della storia contemporanea. Grandi corpi gonfiati di materia, ma assai piccoli se considerati dal di dentro, saranno i personaggi di Balzac, come il padre di Eugenia Grandet, viticultore di Saumur, nella valle della Loira, la cui fortuna cresce con gli anni sino a trasformarsi in una delle maggiori di Francia, ma ottenuta solo in conseguenza di speculazioni e di avarizia. Grandet era un uomo degno del suo cognome, grande, grasso, serio, di larghe spalle, un gigante di provincia, che soleva ritirarsi a sera in una camera per contemplare l’oro che aveva accumulato; o andava a visitare le sue proprietà, assisteva a vendemmie e mietiture, al solo fine di non farsi imbrogliare da nessuno, vivendo della caccia, del pane e del vino dei suoi contadini, distribuendo ogni mattina alla sua serva Nanon gli alimenti, molto scarsi, quelli e non più che sua moglie e sua figlia dovevano ogni giorno consumare. Tagliava persino il pane con le sue mani, distribuiva le candele, misurava la legna per il fuoco quotidiano, dominando e terrorizzando i suoi, in una casa anch’essa grande all’esterno, ma, come la sua anima, gretta all’interno. Grandet è l’avaro, tale e quale lo descrive Molière al termine del Rinascimento, il borghese che più tardi avrebbe fatto la rivoluzione e che, ai suoi tempi, agli inizi del secolo XIX, era già il padrone della Francia. L’uomo privo di fede e pieno di denaro. «Gli avari — scrive Balzac in “Eugenia Grandet” — non credono in una vita ultraterrena; soltanto il presente conta per loro. Questo pensiero getta una orrenda chiarezza sull’epoca attuale, mentre più che in ogni altro tempo il denaro domina le leggi, la politica ed i costumi. Istituzioni, libri, uomini e dottrine, tutto cospira per corrompere la fede in una vita futura, sulla quale l’edificio sociale si è fondato negli ultimi mille ed ottocento anni ... Quando tale dottrina sarà, traslata dalla borghesia al popolo, che sarà di questo paese?». Saggia domanda, alla quale è stata già data risposta, e non solo in Francia.

  Nel mezzo di quella spenta esistenza appare un giorno il nipote di Grandet, Charles, del quale si innamora Eugenia, sua cugina, come egli s’innamora di lei. La ereditiera ha altri due pretendenti, nella città, che la corteggiano per la sua fortuna. Ma Charles si presenta d’un tratto come l’immagine della grazia e dell’amore, soprattutto quando il padre si suicida a Parigi, vittima di sospetti maneggi bancari, così che Charles resta senza un soldo e si rifugia presso lo zio Grandet che si limita a consigliarlo di partire per le Indie, senza aiutarlo in alcun modo, impedito a ciò dalla sua stessa avarizia. È Eugenia che gli regala tutte le monete d’oro che possiede, piccolo tesoro accumulato durante molti anni, regali avuti da suo padre nei giorni dei compleanni e che era abituata a contemplare compiaciuta.

  I due giovani si giurano amore eterno e Charles s’imbarca allo scopo di fare fortuna, per poi ritornare e sposare la cugina. Ma passano gli anni e Charles, occupato a far denaro nelle colonie, raggiunte anch’esse dai vizi delle metropoli, si dimentica della cugina e alcuni anni dopo, rientra a Parigi per sposare un’aristocratica. Il disinganno di Eugenia sarà terribile, ma, una volta morto il padre, costretta ad occuparsi della immensa fortuna ereditata, scoprirà anch’essa il sapore dell’oro, sarà contaminata dalla ricchezza, perderà l’innocenza e si trasformerà, tale e quale, in un ritratto di Grandet.

  Nessuno più l’amerà e, quanto a lei, non amerà più nessuno. Si spegnerà a poco a poco fra il suo tanto denaro, vittima del male che corrode il mondo, erede del vitello d’oro su cui un giorno cadrà la furia del cielo.

  Sarebbe questa, più o meno, la conclusione di Balzac che affronta il problema in quasi tutti i suoi romanzi: il riflesso dell’oro sulle anime del suo secolo e la corruzione dello stesso; o il tentativo di alcuni di salvare quello che ancora si può salvare, come nel caso dei personaggi tanto misteriosi, tanto attuali nelle loro intenzioni, leggibili ne «Il rovescio della storia contemporanea», dove un gruppo diretto da madame de Chanterie, nel centro stesso di Parigi allora dominato da ciò che Rilke chiamerà più tardi Madame la Mort, è impegnato ad aiutare le vittime della rivoluzione borghese. Costituisce una piccola setta o un ordine laico, immersi profondamente nel religioso, in mezzo alle tante rovine che sembrano a molti invece brillanti successi e che condurranno alle guerre mondiali, alle rivoluzioni dei gulag, alle universali cospirazioni contro l’uomo, come porteranno teoriche libertà proclamate in nome dei diritti umani, ma tanta indifferenza di fronte alle tragedie autentiche, afghane o altre, immagini della futura perdizione del mondo.

  Davanti al falso progresso, che affligge gli scrittori del secolo XIX e terrorizza quelli del nostro, Balzac assume un curioso comportamento. Da una parte si sprofonda nel desiderio di dimenticare tutto, nel piacere ad ogni costo, tra tre o quattro amanti insieme (la vita amorosa di questo uomo è impressionante), il che lo porta alla tomba appena cinquantenne; dall’altra parte si dedica all’esoterismo, è discepolo ed ammiratore di Swedenborg, ricorda in alcuni suoi romanzi, come in Serafita o Alla (sic) ricerca dell’assoluto, questo tentativo di salvezza. Morirà così vittima del male del secolo, non senza aver lasciato la favolosa testimonianza de «La Commedia Umana».

  Mauriac dirà molto tempo dopo, commentando tale genere letterario combattivo e rivelatore: «Non v’è letteratura più compromessa di quella di Balzac». Compromessa significa, oggi, impegnata, anticonformista. Balzac, come tutti i grandi scrittori degli ultimi due secoli, testimoni delle rivoluzioni e delle più assurde cadute, fu uno scrittore in opposizione al suo secolo, disperatamente «engagé» in una lotta duplice: quella per rivelare la verità sul suo tempo e l’altra per cercare di costringere i suoi contemporanei ad imboccare un diverso cammino ascendente, se possibile. Ezra Pound non sarà altro che un continuatore di Balzac, giacché, come il suo maestro francese, scoprirà nel denaro e nell’usura le cause di ogni male.

 

 

  Jaroslav Iwaszkiewicz, Chopin nella Parigi di Balzac, «Rinascita», Roma, Agosto 1980.

 

 

  Primo Levi, Il salto della pulce, «La Stampa», Torino, Anno 114, Numero 223, 11 ottobre 1980, p. 3.

 

  Nei Contes Drôlatiques di Balzac, le suore del gaio monastero di Poissy spiegano a una candida novizia come si deva operare per distinguere se la pulce catturata sia maschio, femmina o vergine, ma trovare una pulce vergine è rarissimo, «poiché queste bestie sono scostumate, sono tutte sgualdrine assai lascive, che si danno al primo venuto». Nella coscienza popolare la pulce, come del resto anche la mosca, è imparentata col diavolo.

 

 

  Claudio Magris, Balzac in Germania, «La Nuova Rivista Europea», Trento-Milano, Anno IV, Numero 16, marzo-aprile 1980 pp. 97-99; 1 ill.

 

  Autore egli stesso di grandi romanzi, Goethe diffidava del romanzo, considerandolo, come rivelano alcuni passi delle sue lettere a Schiller, un’espressione di decadenza rispetto all’epos. L’artefice del Faust e del Meister, genialmente capace di rappresentare la centrifuga molteplicità orizzontale della vita moderna, non l’amava — anche se scorgeva lucidamente il suo avvento — e non amava neppure il genere letterario che nasceva e s’identificava con quella crisi, e che ne traeva anzi la propria ragion d’essere e le stesse linfe della propria grandezza artistica. Anche se si rendeva chiaramente conto del suo tramonto, Goethe guardava con nostalgia all’epica, a una rappresentazione letteraria che stringesse il brulicare della realtà in una totalità organica e unitaria e che desse espressione sia all’incessante proliferare della vita sia alla gerarchia di valori immanente a quel proliferare e chiamata a ordinarlo.

  Il romanzo, come dice un famoso passo di Lukács, è il genere letterario dell’espatriazione trascendentale, è «l’epopea di un mondo abbandonato da Dio»: è la forma narrativa adeguata al disordine di una realtà che si espande caoticamente, ignorando valori superiori all’accadere e ogni dimensione verticale dell’esistenza. Nel romanzo, diceva Hegel, l’idealità del cuore è costretta a riconoscere la prosa delle relazioni sociali e il dominio di quest’ultime, che assumono il ruolo svolto anticamente dal destino.

  Il romanzo è l’epopea secolarizzata e privata d’ogni orizzonte metafisico, è l’epopea borghese. La storia della fortuna di Balzac in Germania, tracciata con grande finezza e rigore da Wolfgang Eitel nel suo ottimo libro, è la storia esemplare dello scontro fra tradizione e modernità, della resistenza che una società per alcuni versi relativamente arcaica, qual’era la Germania dei primi decenni dell’Ottocento, oppone ad un universo letterario il quale rispecchia lo sgretolamento delle tradizioni e la demonica, distruttiva energia della borghesia e del suo danaro, ossia ad un universo letterario corrispondente a una società ben più sviluppata ed avanzata, com’era quella francese. Quando Balzac viveva e scriveva, il mondo tedesco non aveva una diretta ed intensa esperienza delle speculazioni in borsa e dell’aristocrazia finanziaria che dominano la narrativa balzachiana, le prime reazioni a Balzac, puntualmente documentate e sottilmente interpretate da Eitel, s’ispirano a una ripulsa moraleggiante, allo sdegno di vedere ogni idealità brutalmente demistificata e calpestata dal meccanismo sociale.

  In quest’atteggiamento negativo si possono distinguere due componenti. V’è il puro e semplice reazionarismo codino, che denuncia l’immoralità e lo spirito distruttivo «francese» delle nuove tendenze sociali e qualsiasi movimento che metta in pericolo l’immobilità dei rapporti politico-economici e delle convenzioni. Vi è tuttavia anche un pathos ben più profondo, che solo una volgare sociologia potrebbe considerare unicamente quale sovrastruttura o sublimazione ideologica di quel reazionarismo cui s’è accennato: l’avversione alla prosa in nome della poesia implica la denuncia di un’evoluzione sociale che bandisce l’idealità del mondo e priva la vita della patria trascendentale dell’idea, rendendola orfana di un valore e di un senso che la illumini.

  Il magistrale ritratto della fortuna di Balzac in Germania, offerto da Wolfgang Eitel, (Balzac in Deutschland/ Untersuchungen zur Rezeption des französischen Romans in Deutschland 1830-1930, Lang Verlag, Frankfurt a.M., 1979), rivela l’affascinante intreccio di ottusità conservatrice e nostalgia utopica che presiede all’ostilità nei confronti del romanzo moderno. Non sono soltanto i giornali ed i circoli più reazionari a rifiutare Balzac, anche i suoi romanzi ispirati all’ideologia più legittimista: la passione di verità del romanziere, che ritrae lucidamente la realtà sociale senz’addolcirla in base agli schemi ideologici ch’egli pure dichiara di professare, scandalizza coloro che dovrebbero solidarizzare con le sue prospettive politiche, ma che le vedono smentite (vedendo smentite, con esse, anche le proprie) dal realismo della sua rappresentazione. Pur con riserve e certo senza entusiamo (sic) Goethe riconosce la grandezza di Balzac, e in essa il segno di un mondo che travolge il suo.

  La documentazione di Eitel è rigorosa e vivace, bibliograficamente puntuale e saggisticamente discorsiva. Nella sua pagina rivivono, accanto a una folla di recensori ed esponenti minori e minimi, Eichendorff che sottolinea il carattere «informe» del romanzo e Vischer che cerca di salvare qualche frammento di libertà fantastica nello specchio infranto della riflessione interiore, Laube che esorta a scegliere la mercuriale e proteiforme mobilità del danaro quale motivo politico e Riehl che condanna l’amoralità cittadina e il livellamento «socialista» in nome di una «sana» ed organica comunità agraria. La storia di Balzac in Germania è un grande capitolo della storia dei rapporti fra la letteratura moderna e il potere, è il momento in cui al potere individualizzato — qual’era la corte, con la quale si era cimentato Goethe — si sostituisce il potere anonimo di un pubblico impersonale, di una massa di consumatori.

  Balzac, come Dickens, è un grande volto di questa nuova figura di scrittore, già anticipata dai romanzieri inglesi del Settecento e frenata per un breve periodo dal Classicismo tedesco; il libro di Eitel è un fine contributo alla comprensione di una storia che è ancora la nostra.

 

 

  Marta Morazzoni, “Peines de coeur d’une chatte anglaise” di Geneviève Serreau, «Letture», Milano, Anno trentacinquesimo, Quaderno 364, febbraio 1980, pp. 143-144.

 

  [...]. Dall’omonimo racconto di Balzac, favola-apologo ironizzante sul puritanesimo anglosassone visto con gli occhi smaliziati, gaudenti di un francese, Geneviève Serreau ha tratto una riduzione scenica di rara efficacia, che evidenzia i lati più squisiti del brano balzachiano e li adatta alla misura della rappresentazione con notevole finezza.

  Accanto alla bellissima gattina bianca Beauty, la cui intemperanza ed esuberanza giovanili sono imbrigliate dalla rigida e moralistica educazione inglese, fiorisce una deliziosa fauna parlante, dagli umori mutevoli e bizzarri, umanamente dominata da passioni, interessi, slanci e malinconie, il tutto sotteso da una trama di lucidissima ironia e dal piacere dell’irreale. Nel progredire della storia, l’affascinante Beauty passa dal mondo gretto dell’infanzia rigida e repressa, al grigiore di un matrimonio altolocato con un vecchio e gottoso “angora” di nobilissima origine e di altrettanto nobili finanze; ma qui si impone il colpo di scena nelle vesti dello squattrinato, affascinante Briquet, gatto d’oltremanica, che introduce l’altezzosa lady nel mondo dell’amore, scontando la sua audacia con la morte di un rivale per mano dei sicari che lo pugnalano sotto gli occhi della gattina. Dalla sua amara esperienza Beauty ricaverà un libro di memorie, che sveleranno le ipocrisie del mondo britannico e la cristallina, cavalleresca generosità del popolo francese.

  Al di là del significato della favola, l’insieme dello spettacolo usa soprattutto delle armonie e dei ritmi del racconto, molto più che della morale più o meno scherzosa ad esso connessa, e si dedica alla precisa strutturazione scenografica, al movimento di scena e alle assonanze quasi musicali dei dialoghi (l’intero spettacolo è recitato in francese) per ricreare l’incanto della fiaba borghese, con il paradosso e l’arguzia di un gioco di fantasia.

  Su fondali dipinti, che rimandano allo stile dei libri di favole (e in realtà sono tratti dalle illustrazioni di J. J. Grandville per Scènes de la vie privée et publique des animaux di Balzac [sic]), gli attori si esibiscono nascosti in fogge tra l’animalesco e l’antropomorfo, ora buffi, e impacciati, ora stranamente eleganti e sinuosi, soprattutto precisi e perfettamente coordinati, in un equilibrio di spazi che richiama, nella sua simmetria, l’armonica coreografia di un balletto. La prospettiva artefatta della scenografia assorbe figure e oggetti, facendo emergere i personaggi in azione come irreali apparizioni strappate allo sfondo.

  L’abilità degli attori del TSE, il gruppo franco-sudamericano che ha allestito il lavoro sotto la guida di Alfredo Rodriguez Arias, ha trovato la giusta ed equilibrata dimensione della commedia musicale, fatta della pura e semplice ricerca estetica, ma senza per questo ricorrere ad alcuna pesantezza o forzatura nella direzione di una comicità a tutti i costi. Del resto la cura dei particolari, dalla perfezione dei costumi, alla proporzione tra recitazione e musica, ha sostenuto l’esilissima linea narrativa trasferendo la sottile ironia moraleggiante dal racconto di Balzac nel gusto non superfluo della pura rappresentazione.

 

 

  Mario De Murtas, Storia di un viaggio sfortunato di Honoré de Balzac. Un intrepido cercatore d’argento fra i selvaggi della Sardegna, «La Nuova Sardegna», Sassari, Anno 90, N. 154, 4 luglio 1980, p. 3.

 

  L’idea era buona: estrarre il metallo prezioso dalle scorie abbandonate davanti alla miniera dell’Argentiera – Ma il tentativo di metterla in pratica comportò fatiche e disagi e una temeraria attraversata dell’isola tra «foreste vergini» e «uomini e donne che vanno nudi» - Amara conclusione: altri ci aveva pensato prima di lui e aveva già ottenuto la concessione.

 

  «Ho attraversato tutta la Sardegna e ho visto cose simili a quelle che si raccontano sugli Uroni e la Polinesia. Un intero regno deserto, dei veri selvaggi, nessuna cultura, savane di palmizi selvatici e di cisti ...». A evitare che qualche focoso sciovinista isolano decida di fare giustizia sull’autore di queste incaute parole, è il caso di affrettarsi a precisare che sono state scritte nel 1838, e che a scriverle non è stata persona sospetta di poco acume o di modesta intelligenza; sono infatti contenute in una lunga lettera del romanziere francese Honoré de Balzac alla baronessa Ewa (sic) Hanska, la stessa che Balzac avrebbe sposato dodici anni più tardi.

  Sarà segno di poco amore per la Sardegna o di parzialità verso la letteratura francese affermare che dopo tutto l’autore della «Commedia umana» poteva essere scusabile se si esprimeva in quei termini? Il fatto è che Balzac era venuto in Sardegna per motivi che ben poco avevano di letterario nel corso di quell’affannosa caccia alla ricchezza che, con risultati assai magri, occupava buona parte della sua esistenza.

  L’idea di dare vita a un’impresa economica in Sardegna, molto più originale allora che ai tempi del primo piano di rinascita, era venuta allo scrittore nel corso di una visita a Genova, dove aveva frequentato un mercante di quella città, Giuseppe Pezzi. Proprio il Pezzi aveva avuto modo di accennare a Balzac delle risorse minerarie sarde, aggiungendo che date le scarse conoscenze chimiche e metallurgiche dei romani e dei pisani che le avevano sfruttate, le montagne di scorie di piombo argentifero cresciute nel corso dei secoli fuori dalle miniere sarde dovevano ancora contenere percentuali d’argento tali da rendere economicamente, vantaggiosa la fusione con procedimenti moderni del minerale di scarto. Doveva trattarsi, con ogni probabilità, di un discorso accidentale come se ne sono sempre fatti nei salotti, e sarebbe rimasto tale con chiunque non avesse una marcata predisposizione per le forme, più arrischiate, di avventurismo imprenditoriale, come Balzac, appunto.

  Tornato a Parigi, Balzac ebbe modo di discutere questo progetto con il direttore degli studi della scuola militare di Saint Cyr, il capitano Carraud, inoltre, era amico del matematico e fisico Biot e entrambi assicurarono Balzac della bontà dell’idea, garantendogli che le scorie dovevano contenere infallibilmente almeno l’uno per cento di argento (almeno così affermava Balzac, ma forse esagerava). Non che il progetto in sé non fosso buono, ma tutti sanno che niente è più economicamente disastroso delle buone idee, e fra queste le buone idee sorrette dal conforto della scienza sono addirittura nefaste.

  Procuratosi quindi faticosamente la somma necessaria, il romanziere interruppe la composizione della «Fisiologia del matrimonio» (sic!) e si precipitò a Genova, con l’intenzione di raggiungere l’Argentiera. Il viaggio per mare doveva essere diviso in due tappe, da Genova ad Ajaccio e da Ajaccio ad Alghero. Secondo i programmi di Balzac la sosta in Corsica non doveva durare più di tre o quattro giorni, necessari a trovare un’imbarcazione che lo portasse ad Alghero; ne occorsero invece quindici prima che potesse trovare posto su una barcaccia di corallari diretti in Africa, e pare che si trattasse di due settimane piuttosto lunghe, da trascorrere con la sola distrazione di due noiosi romanzi inglesi recuperati per caso in una biblioteca della cittadina corsa; questo, comunque, doveva essere il minore dei mali.

  Dopo cinque giorni di navigazione piuttosto faticosa la barca dovette trascorrerne altri cinque davanti al porto; di Alghero, senza poter attraccare, per assolvere all’obbligo della quarantena, allora necessaria per la costante minaccia del colera. Nonostante fossero solo i primi giorni d’aprile pare che la primavera fosse insolitamente calda e che sole e insetti abbiano recato parecchi fastidi a Balzac, già piuttosto scontento del vitto costituito solo di zuppa di pesce. Finita comunque la quarantena e senza fermarsi che il tempo necessario per cambiarsi d’abito, Balzac si procurò un cavallo e si diresse all'Argentiera, dove raccolse alcuni campioni di minerale; quindi proseguì il viaggio per Cagliari, dove intendeva chiedere la concessione governativa per lo sfruttamento.

  Non si può non provare una pena sincera per un quarantenne corpulento, reso poco agile dalla vita sedentaria e che da quattro anni non montava a cavallo, costretto a cavalcate di 17 o 18 ore senza interruzione, aggrappato al collo del cavallo, attraverso «foreste vergini» e «un intrico di rami e di liane che vi avrebbero accecato, fatto saltare i denti, spaccato la testa». Se a questo punto parla di «uomini e donne che vanno nudi, con solo un lembo di tela lacera intorno ai fianchi», che si nutrono di «un orribile pane ottenuto riducendo in farina le ghiande di quercia e mischiandola con l’argilla», ha comunque diritto alla nostra simpatia.

  Né la conclusione del viaggio doveva essere più felice: appena arrivato a Cagliari, Balzac scopriva con costernazione che la sospirata concessione da cui dipendevano le sue speranze di ricchezza era già stata ottenuta da una società marsigliese e che a lui non restava altro da fare che ripartire per la Francia.

  Balzac non avrebbe più parlato della Sardegna, in nessuna delle sue opere si possono trovare riferimenti sia pure marginali, e anche in questo merita piena comprensione: è lecito immaginare che un’avventura simile dovesse essere piuttosto spiacevole anche da ricordare; in compenso trascurò da allora in poi le sue azzardate speculazioni, cosa che doveva giovare all’economia almeno quanto alla letteratura.

  Se infine riuscì a realizzare il sogno di arricchirsi, fu solo sposando la ricchissima baronessa Hanska, e anche questa volta non ebbe fortuna: la morte che lo colse pochi mesi dopo il matrimonio gli impedì di godere più a lungo di questa nuova condizione. Quanto al suo infelice tentativo in Sardegna, resta solo da aggiungere che proprio di questi tempi non sembra mai abbastanza apprezzata la categoria di imprenditori che ripartono dalla nostra regione più poveri di quanto fossero al loro arrivo.



  Romano Noli, “Riscrivere il mondo”: Honoré de Balzac (1799-1850), in Honoré de Balzac, La pantera ... cit., p. 11.

 

  Dostojévskij, Flaubert, Proust, Thomas Mann ed altri grandi hanno riconosciuto un maestro nel “provinciale” di Tours che, dopo anni di indifferenza e disprezzo da parte della “cultura” ufficiale parigina, si impose finalmente con due capolavori ancora insuperati nelle lettere francesi: Eugenia Grandet (1833) e Papà Goriot (1834). Ma dovevano ancora venire le centinaia di personaggi (alcuni davvero immortali) che popolano la sua Commedia umana, titanico sforzo di descrivere, nei suoi molteplici aspetti,la vita sociale del tempo. Il piano di lavoro prevedeva ben oltre cento libri! Non possiamo che ricordare le opere maggiori: Cesare Birotteau (1837), Illusioni perdute (1843), La cugina Betta (1846), I parenti poveri (1847) e le centinaia di splendidi racconti fra cui La pantera, illustrato in queste pagine. La Commedia umana fu un grandioso sogno: Balzac sapeva che non poteva avverarsi del tutto, ma lo inseguì, con la sua stupefacente capacità di lavoro, finché il suo cuore cedette. Il miglior epitaffio per lui è il giudizio del critico Sainte-Beuve: “Balzac è uno scrittore in preda alle sue opere”.

 

 

  Augusta Pedersoli, La fortuna delle “Illusions perdues”. Tesi di laurea. Relatore: Prof. Alberto Castoldi, Bergamo, Istituto universitario, Facoltà di Lingue e letterature straniere, anno accademico 1979-1980.

 

 

  Beniamino Placido, Balzac e l’imperatore, «la Repubblica», Roma, 26 giugno 1980.

 

  Uno studioso francese sostiene che, nell’opera del grande romanziere, Napoleone è sempre presente come un “alter ego” dell’autore.

 

  Ma di che parla? Qualche volta — nei momenti di felice incoscienza, o di spericolato coraggio ce la facciamo, questa domanda, di fronte a quegli universi immaginari che certamente ci parlano di una cosa, e di una cosa sola, ma non sappiamo qual è. [...].

  Ma accontentiamoci di domande più modeste, e tuttavia ugualmente enormi. Di cosa parla Balzac? Ecco finalmente un universo immaginario di cui cominciamo ad intravedere il centro segreto. Un impero della fantasia di cui stiamo forse per afferrare la chiave. La «Commedia umana»: diecine di romanzi che sono forse capitoli di un romanzo solo. Duemilacinquecento personaggi che sono, probabilmente, sfaccettature di un solo personaggio.

  Da tempo lo si sospettava. Adesso, chi ha la pazienza di attraversare un libro lungo e compatto, questo «Napoléon, Balzac et l’Empire de la Comédie humaine» di Saint-Paulien (Albin Michel, pagg. 501) ne ha quasi la certezza.

 

Sogno o incubo.

 

  Balzac ha costruito sempre e soltanto lo stesso personaggio. Ha raccontato sempre e soltanto la stessa storia. La storia di Napoleone, con il quale anzi si è sempre identificato, in una sorta di ossessione allucinata e testarda. «Ciò che lui ha cominciato con la spada, io lo porterò a termine con la penna».

  Tutto questo non ci sorprende. Era il 1815 e il 1848, la gioventù europea, quella francese in particolare, ha sognato Napoleone. E si sa benissimo che Napoleone, in forma di sogno o di incubo, è presente in Goethe, in Beethoven, in Stendhal, in Chateaubriand, in Manzoni, in Dumas, in Victor Hugo, in Tolstoj.

  Quello che sorprende è l’inflessibile coerenza del progetto balzacchiano. Tutto quello che «Lui» ha cominciato con la spada ... E cioè disarcionare i sovrani, scuotere i vecchi troni, costruire regni e imperi ex novo, riscrivere i Codici, ridisegnare i confini fra le nazioni, e dentro le nazioni, fra le classi sociali; bene, tutto questo Balzac tenta di farlo con la «Commedia umana». Ci è riuscito? Forse sì, almeno in termini personali. Se è vero, ed è vero, che, descrivendolo sul letto di morte, il 18 agosto 1850, Victor Hugo ebbe a scrivere: «Lo guardavo di profilo, e rassomigliava proprio all’imperatore».

  Non posso dimostrare quanto la tesi di Saint-Paulien sia convincente (non ne ho il tempo), posso dire che lo è. Ma proprio perché è convincente, è anche imbarazzante per i critici letterari, e cioè per noi tutti, perché tutti un po’ critici lo siamo. Ecco le «conseguenze» che da questa tesi «napoleonica» si possono trarre, e i connessi motivi di imbarazzo.

  Primo. Le grandi esperienze storiche di rottura non muoiono, non si lasciano assorbire facilmente. Napoleone è una esperienza di rottura, è una promessa, una garanzia di «rotture» ulteriori. Per questo non resta fermo all’isola d’Elba, non si fa schiacciare — malgrado ogni contraria apparenza — a Waterloo; non si fa rinchiudere – anche se così si dice — a Sant’Elena. Ogni tanto ritorna. Anzi, in un certo senso è sempre presente.

 

Sotto mentite spoglie.

 

  Ma perché questo suo ritorno non ecciti il terrore vigilante delle autorità costituite, bisogna che sia segreto, che sia clandestino. Che si presenti sotto mentite spoglie. Che non si faccia chiamare Napoleone Bonaparte, ma Lucien de Rubempré, o Rastignac, o Benassis ...

  La «Commedia umana» può essere una replica fantastica dell’Impero napoleonico, a patto che i censori e i lettori non lo sappiano. E che non lo sappia neppure quel censore petulante che è il critico letterario. E’ bene, anzi, che questo personaggio si abitui — sulla base di questo e di altri esempi — a subire fenomeni culturali, produzioni immaginarie che in tanto possono vivere, e sopravvivere, in quanto sono consumate in modo acritico, inconsapevole.

  Secondo: come dobbiamo giudicare questa ingombrante, imbarazzante presenza di Napoleone nell’opera di Balzac? E nell’opera di tutti gli imitatori, di tutti i continuatori di Balzac? Perché Balzac è un padre vigoroso. che ha fecondato tanta letteratura francese successiva.

  Nei suoi «Contadini» c’è già «La terra» di Zola». Nei suoi «Impiegati» ci sono già «I signori dalle mezze maniche» di Courteline. Il suo Vautrin precede li Valjean dei «Miserabili», come precede Rocambole come precede Fantomas. Il suo «Giglio della (sic) valle» è già «La porta stretta» di Gide. Questo in Francia. E fuori della Francia, quanto Balzac c’è in Dostjevskij? Quanto napoleonico Balzac non c’è addirittura in Conrad, che progetta (lettera ad André Gide del 20 agosto 1919) «un romanzo avente ad oggetto l’influenza di Napoleone sul bacino occidentale del Mediterraneo»?

  Come la mettiamo, con questa invadente presenza di Napoleone-Balzac? Ci facciamo prendere dalla commozione, ci alziamo tutti in piedi come bambini entusiasti per gridare «Vive l’Empereur!»? Sì; se proprio non sappiamo farne a meno. Ma non senza averci pensato un po’ sopra.

  Perché questo Napoleone fantastico che abita le pagine di Balzac (e dei suoi emuli) è un Napoleone ambiguo. Non meno ambiguo, del resto, del Napoleone reale, In carne ed ossa, del quale nessuno di noi può decidersi a dire – in coscienza – se era un cavaliere dell’ideale o un «Robespierre a cavallo», una reincarnazione di Carlo Magno o una replica di Luigi XIV (ricordo ancora un vecchio pamphlet demolitore apparso in Italia nell’immediato dopoguerra: «Leggenda e realtà di Napoleone» di Luigi Salvatorelli, che faceva a pezzi l’Imperatore).

  Ed è proprio in virtù di questa ambiguità che Napoleone funziona dentro la «Comédie humaine». E’ un Napoleone per tutti, e per tutte le stagioni. Perché può essere giocato insieme (e Balzac se lo gioca benissimo) come simbolo di libertà e come simbolo di autorità. Anzi, di autoritarismo. Questo Balzac che ama tanto il «piccolo caporale» liberatore, è lo stesso Balzac che dice: «Il potere e la legge devono essere affidati a uno solo. Chi vota discute. E un potere messo in discussione non esiste». E’ lo stesso Balzac che afferma, nel 1840: «gli operai sono l’avanguardia dei barbari».

  Insomma, è lo stesso Balzac che ha procurato tanti mal di testa ai critici letterari (quelli veri, quelli grandi) impegnati a dimostrare che, malgrado il suo evidente, smaccato «legittimismo», si tratta pur sempre di uno scrittore «di sinistra». Perché ne andrebbe del loro onore (e della nostra tranquillità) se gli scrittori che più amianto e apprezziamo non stessero politicamente dalla nostra parte.

  E se invece gli scrittori — anche quelli grandi — fossero semplicemente dei grandi mediatori «politici», dei conciliatori di opposte pulsioni, dei manipolatori di passioni contrastanti? Sarebbero per questo meno utili? Meno divertenti? Meno interessanti?

 

 

  Bruno Romani, Zola nel 1869, e non Engels nel 1888, alla scoperta del “caso Balzac”, «La Nuova Rivista Europea», Trento-Milano, 1980, pp. 111-115; ill.

 

  Il «caso Balzac», il caso cioè di uno scrittore che, come ebbe a dire Engels, fa costretto ad agire contro le simpatie di classe e i pregiudizi a lui propri, costituisce, da alcuni decenni, uno dei temi privilegiati da una parte della critica marxista. E, in generale, si attribuisce la «scoperta» ad Engels, da cui, poi, prese le mosse Lukàcs per la elaborazione della sua teoria sul realismo. Invece, il vero scopritore del «caso Balzac» fu Emile Zola, con un suo saggio critico scritto e pubblicato nel 1869. [...].

  Il saggio in questione apparve sul giornale «La Tribune» del 31 ottobre 1869, sotto il titolo generico di Causerie. E’ stato ristampato nel vol. X delle Oeuvres complètes, nella sezione Livres d’aujourd'hui et de demain (p. 912 e segg.).

  Analizziamo brevemente il testo di Zola. Egli prendeva lo spunto dalla pubblicazione dei primi volumi delle Oeuvres complètes di Balzac, iniziata dall’editore Michel Lévy, e svolgeva alcune riflessioni: di carattere generale su certi scrittori dei primi decenni del XIX secolo; di carattere più particolare sull’autore della Comédie humaine.

  Nei primi decenni del secolo, notava Zola, vi sono stati degli scrittori che si sono «rangés du côté du peuple; ils ont, par leurs écrits, achevé de tuer le passé et de révéler l’avenir; ils ont chacun apporté leur pierre à l’édifice de la société future». Accanto a questi, ve ne sono stati altri, «démocrates sans le savoir», che «ont cru travailler à réédifier les règnes morts, et ils l’on fait de telle sorte, qu’ils leur ont porté le dernier coup». E Zola aggiungeva: «Il y aurait une excellente étude à faire sur ces grands esprits qui ont era prècher un retour au passé et qui n’ont, en réalité, que hâté l’avenir. Le siècle était en eux, à leur insu».

  In questa famiglia di «grands esprits», Zola includeva Balzac: «Le cas est curieux. Voilà un homme qui, pendant les trente années d’una (sic) production incessante, s’est incliné chaque jour devant la royauté et le catholicisme. Voilà un homme qui a peut-être cru en mourant qu’il laissait un magnifique plaidoyer en faveur des rois et des prêtres. Et aujourd’hui, quand nous lisons les milliers de page qu’il a écrites, nous n’y sentons plus souffler qu’un large soufflé révolutionnaire. Ses agenouillements devant les trônes et les autels nous semblent une manie que nous lui pardonnons. A genoux, il brûle ce qu’il adore, sans même paraître s’en apercevoir. Il fait ses dévotios (sic) en homme dont chaque prière devient un blasphème. Lorsqu’il a affiché solennellement une profession de foi catholique et monarchique, le voilà qui écrit une oeuvre purement démocratique, dont la lecture conclut contre son Credo. Pure naïveté du génie. L’esprit emporte ce démocrate sans le savoir où il ne veut pas aller. L’ivresse de ses hautes facultés lui arrache la vérité, comme le vin fait parler les ivrognes. Et lui, d’ailleurs, ne sait pas qu’il a un secret au fond du coeur; il dit tout en croyant n’avoir rien à dire; il laisse aux générations un Balzac qu’il ne connait pas, un Balzac historien de la démocratie sous le premier Empire, la Restauration et Louis-Philippe».

  Zola cita, poi, diversi esempi di contraddizioni in cui è caduto l’autore della Comédie humaine, e nota: «Il faut aller au fond de cet esprit, pour avoir le mot de ses apparentes contradictions». In letteratura, Balzac era, per temperamento e per genio, un autocrate. «Sanguin, de nature riche et puissante, il aimait la volonté, la domination, l’ordre obtenu par le commandement d’un seul, les despotisme raisonné et utilisé. Aussi avait-il accepté la monarchie et le catholicisme comme deux excellents systèmes de gouvernement absolu». Ma vi era un altro Balzac, «celui qui étudie avec amour les misères des manants, qui a donné droit de cité en littérature au peuple et à la bourgeoisie, est bien le même homme, seulement le même homme enlevé à ses dogmes par le rayon fulgurant de la réalité. Son intelligence est trop haute pour faire de lui un fanatique. Quand le peuple passe et qu’il le voit dans son superbe élan, il se récrie d’admiration, il le montre grand, naïvement, parce que cela est et qu’il est un peintre de la réalité».

  Testo capitale. Zola mette a nudo la contraddizione di Balzac, reazionario in politica e democratico come romanziere, analizza tale contraddizione e ne spiega il superamento con il fatto che è un «peintre de la réalité». Non diversa la conclusione di Engels, là dove afferma che considera Balzac «come uno dei supremi trionfi del realismo». Ma Engels affermava questo nel 1888, cioè diciannove anni dopo Zola. [...].

  Vediamo, dunque, come il «caso Balzac» è stato trattato dai marxisti. Come ha notato Jean Bruhat nel suo saggio Balzac et la classe ouvrière française (inserito nel fascicolo della rivista «Europe» consacrato al Colloque Balzac, Janvier-Février 1965), Marx e Engels consideravano il romanziere francese come un precursore della concezione materialista della storia. Si spiega, in tal modo, il vivo interesse da loro portato a Balzac, ritenuto di gran lunga superiore a Zola. Testimonianze dell’interesse di Marx si trovano nel Capitale (citiamo dalla edizione italiana, Editori Riuniti, Roma, 1965). Così in Balzac che ha studiato tutte le sfumature della avarizia, il vecchio usuraio Gobseck è già rimbambito quando comincia a farsi un tesoro ammucchiando merci» (Libro Primo, Tomo Terzo, p. 33).

  A p. 65 del Libro Terzo, Tomo Primo, si legge: «Nel suo ultimo romanzo, Les Paysans, Balzac, che eccelle in generale per la profonda comprensione dei rapporti reali, descrive molto cautamente come il piccolo contadino, al fine di conservare la benevolenza del suo usuraio, presti a quest’ultimo gratuitamente servizi di ogni genere senza supporre di donargli alcunché, in quanto il suo lavoro personale non gli costa alcun esborso di danaro».

  Ciò che Marx lodava in Balzac, era la «profonda comprensione dei rapporti reali», quello che Zola aveva designato come «le rayon fulgurant de la réalité». E le osservazioni di natura economica e sociale sparse nella Comédie humaine costituivano per Marx oggetto di seria riflessione. In una lettera indirizzata il 14 dicembre 1868 a Engels Marx scriveva: «Nel Curé de Village di Balzac si legge quanto segue: ‘Se il prodotto industriale non fosse in valore il doppio del prezzo di costo, il commercio non esisterebbe’. Che ne dici?» (Briefwechsel, Berlin, Dietz Verlag, 1950, vol. V, p. 167). Inoltre, nei suoi ricordi la figlia di Marx riferisce i giudizi entusiastici che l’autore del Capitale aveva espresso a più riprese su Balzac.

  Questa ammirazione fu condivisa in pieno da Friedrich Engels. Un primo richiamo a Balzac, da parte di Engels, è contenuto in una sua lettera a Laura Laforgue in data 13 dicembre 1883: «Da lui si impara la storia di Francia dal 1815 al 1848 molto meglio che da tutti i Vaulabelles, i Capefigues, i Louis Blanc e tutti quanti gli altri. E che audacia! Quale dialettica rivoluzionaria nella sua giustizia poetica» [...]. Giudizio che coincide con quello formulato da Zola su Balzac «historien de la démocratie sous le premier Empire, la Restauration et Louis-Philippe».

  Ma le coincidenze di giudizio tra Zola e Engels sono ancor più vistose nel testo della famosa lettera inviata da Engels nell'aprile del 1888 a Margaret Harkness. [...].

  Il testo della lettera di Engels venne pubblicato per la prima volta nel 1932 sulla rivista «Linkskurve» da Lukàcs. Su di essa, Lukàcs costruì la sua nota teoria del romanzo realista che assumeva come modelli Balzac e Tolstoj. [...].

  A partire da quel momento, il richiamo a Balzac, «ce démocrate sans le savoir» (Zola), è diventato un luogo obbligato per molta parte della critica marxista e sociologica. Ma Zola non si professò mai marxista, e molti critici di questa scuola, a cominciare dallo stesso Engels, hanno sottolineato, nei suoi romanzi, la debolezza o incompiutezza della rappresentazione realistica. Eppure, fu proprio lui a scoprire per primo uno dei canoni essenziali del realismo, in arte e in letteratura. Dovremo, dunque, applicare a Zola la sua stessa formula, e dire di lui «ce marxiste sans le savoir»?

 

 

  Ulrich Schulz-Buschhaus, Il “Trattato della vita elegante”. Un ennesimo contributo al significato sociale del realismo di Balzac, in AA.VV., Letteratura e società. Scritti di italianistica e critica letteraria per il 25. Anniversario dell’insegnamento universitario di Giuseppe Petronio, Palermo, Palumbo, 1980, pp. 851-866.

 

  L’incompiuto Traité de la vie élégante, pubblicato nel 1830 in una serie di cinque brani nel giornale La Mode, non viene annoverato dalla critica fra le opere più significative dell’autore della Comédie humaine. Come gli altri lavori giornalistici di quell’epoca, saggi di un giornalismo aristocratico-mondano, esso è restato un po’ nell’ombra dietro le prime Scènes de la vie privée che — viste nella prospettiva dell’opera matura degli anni trenta e quaranta — naturalmente suscitano un ben altro interesse. Così lo stesso Barbéris, nel suo monumentale studio sul giovane Balzac, dedica al nostro frammento uno spazio piuttosto ristretto. Questa (pur sempre relativa) mancanza di attenzione critica si spiega facilmente poiché siamo soliti vedere, e certamente non a torto, il merito principale di Balzac nel trattamento serio, anzi patetico fino alla tragicità di temi spiccatamente borghesi. Il suo compito storico fu di raccontare, per esempio, la grandezza e decadenza di un mercante-fabbricante di profumi come se si trattasse di «grandeur et décadence» dell’impero romano. Se però invece della vita borghese, cioè vita professionale e di famiglia, scelse come tema la «vie élégante», Balzac non poteva pretendere allo stesso grado di originalità, ed è dunque logico che i numerosi scritti e romanzi rivolti alla «mondanité» siano tuttora considerati come qualcosa di meno autenticamente balzacchiano che — mettiamo — il César Birotteau o le Illusions perdues.

  Si spiega forse con questo stato di supposta marginalità che il Traité de la vie élégante — lasciato in disparte come elemento del cosmo balzacchiano — ci viene qualche volta presentato in un contesto nuovo che, almeno cronologicamente, non rimane indietro rispetto agli aspetti realistici della Comédie humaine, ma piuttosto li trascende partecipando già al simbolismo e decadentismo della Fin de Siècle. Così Roger Kempf, in un’antologia sul dandismo, ha avvicinato il trattato ai famosi saggi Du Dandysme et de George Brummell di Barbey d’Aurevilly e Le peintre de la vie moderne di Baudelaire, e certo non senza ragioni assai valide, poiché infatti Balzac stesso afferma di essere partito da una intervista (naturalmente inventata) di George Brummell, «ex-dieu du dandysme» esiliato a Boulogne. Ma, a guardarci bene, il frammento non quadra neppure in quel contesto di anticipato decadentismo; in ogni modo, messo così di fronte agli scritti di Barbey e Baudelaire, esso rivela dei tratti chiaramente distintivi che, visti dall’angolo della letteratura fin de siècle, risultano appunto caratteristici della Comédie humaine. Questi tratti che, malgrado il tema marginale, ci colpiscono un po’ di sorpresa come tipicamente balzacchiani, possono poi suggerire alcune ulteriori riflessioni sul realismo di Balzac. Essi invitano cioè a chiederci, da un lato, a quali modifiche venga sottoposta una tematica aristocratica entrando nella società borghese e, dall’altro lato, quale significato abbia questo adattamento per colui che, con tanta premura, se ne occupò. [...].

 

 

  Mario Scognamiglio, Balzac editore, «L’Esopo. Rivista trimestrale di bibliofilia», Milano, N. 8, Dicembre 1980, pp. 41-44; ill.

 

  Un mattino d’agosto del 1828, i pacifici abitanti di rue des Marais-Saint Germain, una delle strade più strette della vecchia Parigi, assistettero dalle loro finestre alla conclusione di una fra le più sofferte esperienze di vita dell’autore de La Comédie Humaine. Una piccola folla inviperita, minacciosa, faceva ressa davanti a una tipografia, reclamando ad alta voce da quel «f...» di monsieur de Balzac, proprietario della ditta, il saldo immediato dei loro crediti. Il povero Balzac, sulla soglia della bottega, pallido, avvilito, cercava di calmare il cartaio, il rilegatore e gli altri fornitori, assicurandoli che una banca gli aveva garantito un prestito, che avrebbe pagato tutti, ma quelli, impietosi, urlavano più di prima, vomitandogli contro i più offensivi epiteti delle Halles. Qualcuno allungò le mani, altri si avanzarono con evidenti cattive intenzioni... A Balzac non restò altro che la fuga, inseguito dalla turba inferocita.

  Com’è noto, Honoré de Balzac, più che il genio letterario, riteneva di possedere il bernoccolo degli affari. Convinzione, purtroppo errata, che gli procurò amarezze e disillusioni continue. Le sue sballatissime imprese commerciali lo condannarono, infatti, a una vita di stenti, angustiata dai creditori e da famelici usurai.

  Nel giugno del 1826, quando decise di diventare ricco facendo l’editore, Balzac aveva ventisette anni. Il suo aspetto fisico d’allora era molto diverso dall’uomo corpulento e un po’ goffo che la tela di Boulanger e il marmo di Falguière ci hanno tramandato. Era ancora il giovane elegante del dipinto di Deveria: fronte spaziosa, capigliatura folta e arruffata, bocca sensuale, occhi grigi, penetranti, bellissimi. Madame de Berny, la sua Dilecta degli anni più verdi, affascinante e voluttuosa malgrado i cinquant’anni vicini, lo amava appassionatamente, e Honoré si inebriava di questo amore dolce, incondizionato. La de Berny, figlioccia di Maria Antonietta e di Luigi XVI, ebbe un’influenza notevole sul grande scrittore. Per molti anni fu la sua amante, l’amica più fedele, l’ispiratrice di molte sue opere. Tutte le eroine dei suoi romanzi, infatti, trassero luce e calore dalla profonda umanità di questa donna incomparabile che Balzac non dimenticherà mai. «Si je vis, c’est par elle» scriverà, negli anni più maturi, riferendosi a Laura «elle était tout pour moi».

  Fu Laura de Berny a «prestare» allo squattrinato amante i quindicimila franchi necessari per l’acquisto della tipografia, e fu lei stessa a procurargli in fretta tramite influenti amici la licenza di esercizio. Balzac si associò a un pittoresco proto di nome Barbier, e pieno di entusiasmo e di buona volontà diede inizio alla nuova attività.

  Il primo lavoro commissionato alla Imprimerie de H. Balzac, e scrupolosamente eseguito, fu un orribile dépliant pubblicitario sulle Pilules antiglaireuses de longue vie, ou Grains de vie, seguito da altri volantini dello stesso tipo, stampati per conto di alcuni speziali e ciarlatani del Faubourg Saint-Germain. Fu stampata quindi una nuova edizione del Cinq-Mars di Vigny, immediatamente seguita da un Petit Dictionnaire des enseignes de Paris.

  L’azienda, purtroppo, si rivelò fallimentare sin dai primi mesi. I fornitori, accortisi della completa incompetenza del gestore, rifilavano alla tipografia materiali scadenti a prezzi esorbitanti. I clienti approfittavano spudoratamente della gentilezza del proprietario, inventando mille scuse per non pagare le fatture. Nel giro di un anno Honoré de Balzac si ritrovò letteralmente nei pasticci, ingolfato di debiti. Tentò di rimediare allargando l’impresa e aggiunse alla stamperia una fonderia di caratteri. Fu il disastro.

  Braccato dai creditori, tormentato da terribili emicranie, lo sfortunato editore tentò vanamente presso banche, amici, parenti, usurai, di ottenere prestiti per evitare il fallimento. A salvarlo dal carcere fu Laura, che riuscì a procurare il danaro necessario a tacitare i più accaniti creditori. Balzac, tuttavia, uscì rovinato da questa avventura, con circa centomila franchi di debito. Una cifra enorme a quei tempi.

  Per completare la nostra rievocazione dell’allucinante esperienza editoriale di Balzac, riportiamo nelle pagine che seguono un capitolo di un avvincente libro di Raymond Escholier (Logis Romantiques, Editions des Horizons di France, Paris 1930) [cfr. supra] nel quale, in chiave romantica, viene ricostruita l’ultima sera trascorsa da Balzac nella sua casa-bottega di rue des Marais. Lo scrittore, in preda alia disperazione, ha deciso di por fine ai suoi giorni; ma Laura, che ha intuito il dramma, interviene in tempo, riesce a dissuaderlo, a trasmettergli coraggio e fiducia. Quella che doveva essere l’ultima notte di Honoré de Balzac, si trasforma per incanto in una esaltante notte d’amore.

 

 

  Cesare de Seta, Pubblicità e grafica. 2. Le origini della pubblicità e la sua fortuna nell’Ottocento, in AA.VV., Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, 1980, Vol. V, pp. 883-884.

 

 

  Vittorio Strada, Il problema di «Delitto e castigo», in Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa. Nuova edizione accresciuta, Torino, Giulio Einaudi editore, 1980 («Saggi», 444), pp. 39-83.

 

 

  Jules Vallès, Un refrattario illustre, in I refrattari. Traduzione e note di Raffaele Fragola, Milano, SugarCo Se Edizioni, 1980 («Taco», 32), pp. 103-121.

 

  Le vittime del libro. Balzac, pp. 148-151.

 

 

  Marina Zito, La metafora estetica di Gobseck, in AA.VV., Studi e ricerche di letteratura e linguistica francese I, a cura di Gian Carlo Menichelli e Gian Carlo Roscioni, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1980 («Facoltà di Lettere e Filosofia. Pubblicazioni della Sezione romanza», VI), pp. 87-102.

 

  L’esigenza di riproporre uno studio di Gobseck emerge dalla constatazione del suo quasi totale oblio in questi ultimi anni, malgrado l’opera di Balzac costituisca un punto obbligato della francesistica. Peccato, perché la novella che ebbe come primo titolo Les dangers de l’inconduite può offrire un punto di riferimento prezioso, importante per lo studio della narrativa e dell’estetica balzachiana purché si parta dal presupposto che il versante simbolico della lettura e parte integrante della totalità dell’opera e che in esso non una metafora isolata ma tutto l’insieme delle situazioni permette di ipotizzare un piano diverso di significati e rilanciare l’interesse dell’indagine. In realtà il rinvio da una singola opera alle idee dell’autore acquista validità solo se convalidato dall’analisi testuale e finalizzato alla comprensione non di quelle idee ma della produzione artistica dell’autore nel suo insieme o almeno del semplice frammento considerato. Leggendo nelle considerazioni dell’usuraio Gobseck sull’oro e sull’usura le idee di Balzac sull’arte e sui suoi principi si colgono spunti teorici suggestivi e precoci rispetto a quella summa estetica che è l’Avant-Propos che vedrà la luce solo dieci anni dopo. [...].

  Sia in senso assoluto che relativamente agli altri avari e usurai de La Comédie humaine, Gobseck ha la caratteristica di non mantenere le promesse del suo ruolo: infatti egli sembra risolvere in maniera umanitaria e didascalica quei postulati iniziali di ordine somatico e psicologico che ne avevano permesso la classificazione. Il nucleo di questo ribaltamento è il rapporto con l’avvocato-narratore che indubbiamente trae gran vantaggio dal sodalizio con l’avaro anche se può a sua volta fornirgli occasioni vantaggiose. Per individuare la parabola del protagonista bisogna tener presenti non solo i suoi momenti di apparizione ma i modi in cui questa di volta in volta ha luogo. [...].

  Balzac comincia a prestare al personaggio il suo modo di guardare la vita: da scienziato e da attore, cioè da chi contempla ma insieme interviene, manipola. [...].

  Con gli occhi di Gobseck il lettore partecipa ora alle due storie esemplari, parallele e opposte, delle donne da lui incontrate: Fanny Malvaut, poi moglie di Derville; e la dissoluta contessa Anastasie Restaud nata Goriot. Già da questi incontri risalta — e valga come anticipo tecnico — l’atteggiamento didascalico di Gobseck, particolarmente per la freddezza nei riguardi di Fanny che gli aveva ispirato una momentanea simpatia. L’alternanza delle sue reazioni va da un momento di commozione [...]: Gobseck non è una macchina, è un uomo, o meglio un animale tutt’altro che insensibile, disposto a giocare con la sua preda, a risparmiarla magari per torturarla meglio dopo: egli è istinto e intelligenza. [...].

  È necessario trasferirsi ora dal personaggio all’autore per evidenziare i presupposti estetici indispensabili alla ipotesi di lettura proposta. Si sa che un tipo di indagine può portare ad asserire che tutte le novelle delle Scènes de la vie privée «ont un but moral», ma è anche vero che in quasi tutte le opere scritte in questa seconda gioventù che va da Les Chouans alla Peau de chagrin Balzac fa scivolare delle palesi meditazioni di ordine teorico. Già nella Physiologie du mariage, parlando dei prédestinés assistiamo a un trasferimento su un piano estetico […].

  Ma più ancora di questi esempi sporadici, una novella dello stesso periodo fornisce spunti di lettura simbolica analoghi a quelli che formano l'oggetto di questo studio: Le chef-d’oeuvre inconnu [...]. Nel modo in cui è strutturata la novella essa ha la forma di un esorcismo letterario: l'artista, sembra dire Balzac, non deve essere un teorico. In questa ottica per la teoria c’è spazio solo nella metafora.

  È ciò che accade in Gobseck: qui le idee prendono un loro corpo, una autonomia verificabile nelle cause e negli scopi. Esaminiamo prima i discorsi del protagonista e poi le impressioni che egli genera. […]. L’oggetto di Gobseck non sono tanto les lettres de change, les billets, les effets, sfaccettature variabili di ciò che essi nel loro complesso rappresentano, l’or. Con esso, l’usuraio-capitalista si dimostra al centro della sua società. Analogamente l’oggetto di Balzac, la sua arte, gli permette un rapporto pivotale con la società del 1830 e afferma il valore positivo del mestiere di scrittore. [...].

  D’altronde, con un ribaltamento di rapporti, Gobseck si paragona a un peintre [...], cioè a un artista in senso lato. Quando si riportano le impressioni che altri hanno di Gobseck, si ha la riconferma che non tanto i dati biografici, l’oggetto di indagine o i mezzi ma l'atteggiamento mentale lo rendono intercambiabile con lo scrittore. […]. I termini- usati permettono di immaginare Balzac allo specchio e Gobseck nella lastra: il gioco dell’apparenza e della realtà, la piccineria dell'usura e la grandezza dell’arte, la speculazione delle idee e quella del danaro risaltano come il recto e il verso di un documento la cui linea di demarcazione passi attraverso la sostanza stessa del foglio. In verità il comportamento di Gobseck, «semblable à un savant médecin» [...] permette la proporzione Balzac: estetica= Gobseck: usura e la puntualità di corrispondenze si conferma nello sbocco che aprono i giudizi di valore sulla società. [...].

  Gobseck permette di individuare la consapevolezza di Balzac che l’artista trova una soddisfazione nell’opera in sé indipendentemente dai vantaggi: le pene trovano nell’arte stessa un compenso. Questa interpretazione del comportamento di Gobseck avvalora la tesi che ogni scrittore «écrit pour se dire» per chiarirsi innanzi tutto a se stesso. Le metafore audaci [...] rendono partecipe il testo esaminato di quello slargamento dei confini narrativi che ha fatto parlare di dimensione metafisica del romanzo balzachiano e mettono a fuoco un pudore ancora vivo di fronte a qualunque forma di manifesto letterario. Il mistero che avvolge in genere le situazioni balzachiane investe qui le ragioni dell'arte: Gobseck non è un autoritratto, non c’è in lui un trasferimento delle caratteristiche o delle esperienze come in Louis Lambert o ne Le lys dans la vallée e purtuttavia, anzi a maggior ragione, si può dire che questa breve novella è un esempio valido non solo della tecnica ma dell’estetica di Balzac. […].

 

 

  Émile Zola, La letteratura e il denaro, in Il romanzo sperimentale. Traduzione di Ida Zaffagnini. Introduzione di Ennio Scolari, Parma, Pratiche editrice, 1980 («Archivi», 2).

 

  Il senso del reale.

  La formula critica applicata al romanzo.

  «Les Chroniques parisiennes» di Sainte-Beuve.

  Chaudes-Aigues e Balzac.

  Jules Janin e Balzac.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Eugenia Grandet di Honoré de Balzac. Traduzione e riduzione radiofonica di Belisario Randone, Radiodue, 7-23 gennaio 1980, 15 puntate.

 

  Cfr. 1970.

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Mercadet l’affarista: da Le faiseur di Honoré de Balzac. Adattamento di Luigi Lunari, 63 carte. Copione teatrale non pubblicato.

 

 

  Sarrasine. Presentazione di Beppe Bergamasco e Ulla Alasjarvi, Compagnia sperimentale drammatica, Torino, “Luglio in piazza 1980”, 7 luglio 1980.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Papà Goriot, di Honoré de Balzac. Adattamento televisivo di Jean-Louis Bery. Personaggi ed interpreti: Papà Goriot: Charles Vanel, Rastignac: Bruno Garcin, Vautrin: Roger Jacquet, Delphine de Nucingen. Monique Nevers, Anastasia de Restaud: Elia Clermont. Clara de Beauséant: Nadine Alari, Duchesse de Langeais: Barbare Laage, Bianchon: François-Louis Tilly, Signora Vauquer: Renée Gardes, Sylvie: Annie Savana, Christophe: Paul Rieger, Victorine Taillefer: Katy Fraysse, Signora Couture: Marie Mergey, Signorina Michonneau: Renée Delmas, Poiret: Georges Sever, Conte de Restaud: Guy Kerner, Maxime de Trailles: François Timmerman, Marchese de Adjuda-Pinto: François More-Giafferi. Regia di Guy Jorré. Produzione RTF. Rete 1, 4 e 5 luglio 1980.

 

 

 

Sceneggiati televisivi.

 

 

  Il grande amore di Balzac, Rete 1, 20-27 luglio 1980.

 

  Cfr. 1978.



  Splendori e miserie delle cortigiane (Francia, 1975). Regia di Maurice Cazeneuve. Attori:‎ Corinne Le Poulain, Bruno Garcin, Georges Géret, Holger Löwenadler, Ivan Desny.


  Serie televisiva trasmessa da numerose emittenti private (RTI, QuintaRete, ecc.) tra il febbraio e il novembre 1980.



[1] Cfr. R. Escholier, Logis romantiques, Paris, Editions des Horizons de France, 1930.



Marco Stupazzoni

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