giovedì 17 dicembre 2020



1991

 

 

 

 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduction et notes par Franco Petralia, Messina, G. D’Anna, 1991 («Classici stranieri commentati. Collezione diretta da Carlo Pellegrini», 10), pp. 155.

 

  Cfr. 1955; 1981. 

 

 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto. Traduzione di Ugo Persi, in AA.VV., L’artista allo specchio. Prefazione di Ugo Persi. Postfazione di Alberto Castoldi, Bergamo, Pierluigi Lubrina Editore, 1991 («Trompe-l’oeil», 13), pp. 61-88.

 

 

  Honoré de Balzac, La dimora misteriosa. Traduzione (dall’inglese) di Patrizia Tosi, «Giallissimo», Milano, N. 14. Supplemento a «Il Giallo Classico», N. 20, Febbraio 1991, pp. 131-142.

 

  Si tratta della versione italiana de La Grande Bretèche modellata su una precedente traduzione in lingua inglese del testo balzachiano.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugenia Grandet, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1991 («Tesori della narrativa universale»), pp. 169.

 

  Per la traduzione, cfr. 1950; 1983; 1986; 1987; 1988.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet, Torriana (FO), Orsa Maggiore Editrice, (giugno) 1991 («I classici dell’Orsa Maggiore»), pp. 205.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Eugénie Grandet, pp. 5-194;

  La Commedia umana. Prefazione di Honoré de Balzac, pp. 195-205.


  Per quanto riguarda Eugénie Grandet, siamo di fronte alla traduzione che, del romanzo balzachiano, ha fornito Giorgio Ficarra nel 1965 per l’editore Casini di Roma.

 

 

  Honoré de Balzac, Gobseck. Traduzione di Vera Salvago, Trento, L’Editore, 1991, pp. 80.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Luigi Martin, Milano, Fratelli Fabbri Editore, 1991 («Ex libris»), pp. 303.

 

  Cfr. 1968 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot e Un tenebroso affare. Traduzione di Renato Mucci e Maria Ortiz, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1991 («Tesori della narrativa universale»), pp. 394.

 

  Cfr. 1982 e successive ristampe.

 

 

  Honoré de Balzac, Sarrasine. Testo originale con riduzione scenica in italiano di Vito Carofiglio, Bari-Roma, Laterza Editori, 1991 («Biblioteca europea»), pp. 76.

 

 

  Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane. Traduzione di Marise Ferro. Introduzione di Pierre Citron, Torino, Giulio Einaudi editore, 1991 («Einaudi Tascabili Letteratura», 44), pp. XLV-573.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Pierre Citron, Introduzione, pp. VIII-XXXIX. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Id., Storia del testo, pp. XL-XLV. La traduzione di entrambi i contributi di P. Citron si deve a Sergio Toffetti;

  Splendori e miserie delle cortigiane, pp. 1-565.

 

  Per la traduzione, cfr. 1964. 

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Martin Albrow, Burocrazia, in AA.VV., Enciclopedia delle scienze sociali. Volume I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1991, pp. 591-605.

 

  p. 593. Honoré de Balzac nel romanzo Les employés (1836) affermò chiaramente che lo Stato o la Patrie avevano preso il posto del sovrano, e mentre Napoleone aveva frenato l’influenza della burocrazia, essa era stata organizzata in modo definitivo sotto il governo costituzionale.

 

 

  Renato Barilli, «Massimilla Doni»: verso il realismo. E Balzac liquida l’amor platonico, «Corriere della Sera», Milano, Anno 116, N. 78, 2 aprile 1991, p. 5.

 

  «Massimilla Doni» è un breve romanzo di Honoré de Balzac (proposto ora in traduzione italiana a cura di Giandonato Crico, Sellerio editore) che non spiccherebbe particolarmente, nell’opera smisurata del grande narratore francese, se non fosse che in esso si compie in modo esemplare il passaggio dal romanticismo al realismo. In entrata abbiamo un Balzac che frequenta ancora le maniere del «romance», della vicenda improbabile, affidata a personaggi inverosimili, unilaterali, stereotipati: in uscita, attraverso un avvenimento pressoché istantaneo di cui diremo, abbiamo la conversione efficace e compiuta a quel realismo di cui l’autore della «Comédie humaine» diventerà l’esponente di spicco. Beninteso, una conversione del genere non riguarda solo Balzac, ma ancor prima di lui l’avevano conosciuta due suoi fratelli maggiori, Stendhal e Manzoni (nati rispettivamente nel 1783 e nel 1785, mentre Balzac è del 1799, investito così del ruolo di inaugurare il nuovo secolo).

  Il carattere «romantico» di quella sua prova è propiziato dalla materia «italiana» di cui essa è fatta. L’autore, ci spiega il Crico nell’accurata nota introduttiva, aveva soggiornato tra Milano e Venezia, sul finire degli anni Trenta, quindi, rientrato in Francia, aveva scritto di getto quella ed altre brevi storie di ambiente cisalpino. Ora, si sa che i nostri cugini hanno sempre avuto di noi un’idea generica, come di gente dalle passioni elementari, generose, istintive, straripanti, affidate a una sorta di logica dei contrari, senza sfumature intermedie. In fondo, lo stereotipo di questa passionalità italiana «tutta d’un pezzo» era già stato coltivato dallo stesso Stendhal, e in effetti anche l’operetta balzacchiana, per più aspetti, potrebbe essere «firmata» dall’autore della «Certosa di Parma».

  La Massimilla Doni che dà il nome alla vicenda è una duchessa toscana colma di ogni virtù, fisica e morale: giovane, bellissima, di retto sentire, e perfino, lo scopriremo al termine di una palinodia, mossa da nobili sentimenti patriottici ed anti-austriaci. L’unico neo sarebbe il matrimonio di convenienza che l’ha legata anzi tempo a un nobile debosciato, il Cataneo, ma questi le lascia piena libertà, e così essa può accettare la corte di un giovane ugualmente titolato e dall’alto sentire. Emilio Memmi principe di Varese, patrizio veneziano, ovviamente spiantato, nonostante l’altisonanza del titolo. Ma i due non approfittano certo della circostanza, e anzi il principe, vittima dei caratteri aerei, spirituali, di quel legame, non osa ricondurlo a un vile e basso ambito carnale. Pertanto quella loro relazione si svolge «in bianco», in un clima di rarefatta sospensione.

  E’ così inevitabile che Emilio sfoghi i suoi sani impulsi fisiologici su donne meno nobili ed altolocate: per esempio, sulla cantante Clara Tinti, protetta dal Cataneo. Essa giunge a Venezia per condurvi una trionfale stagione d'opera alla Fenice, e negli intervalli dell’impegno professionale è pronta a tendere esche umorose al giovane principe. Il quale non vorrebbe cedere, fedele all’amore platonico che lo lega a Massimilla, ma, complici taluni «errori» che rientrano nel repertorio del romanzesco di tutti i tempi, non può evitare di indulgere alla cantante.

  Frattanto, l'inserimento della stagione lirica tra i materiali «italiani» del romanzo permette a quest’ultimo di affrontare un’altra bella fetta di idealità sconfinante. Ovvero, Balzac si tuffa in disquisizioni a non finire sui valori della musica, sugli incanti che la melodia esercita sugli animi, sulle lusinghe del bello e del sublime. Una tematica che del resto si unisce inevitabilmente a un altro ordine di riflessioni sublimi, concernenti, queste, il patriottismo, l’irredentismo, la lotta contro la dominazione straniera.

  E’ vero che i palchi della Fenice consentono all’autore di condurre già qualche incisiva indagine sociologica, qualche acuto «spaccato» sui modi di vivere in una Venezia patrizia e plebea, ricca e miserabile, ma i motivi di questo ambito sono pur sempre tenuti sullo sfondo, mentre in primo piano stanno i «tormentoni», etici ed estetici, in cui si dibattono Massimilla ed Emilio insieme ai comprimari del romanzo.

  Senonché tra questi compare a un tratto un medico francese (una proiezione dello stesso Balzac?), il quale, fedele alla sua professione, si dichiara «analista e materialista», capace oltretutto di cogliere a volo la strana impasse che blocca i due giovani (ma non solo loro, bensì, prima ancora, il decorso stesso della storia). Occorre cioè che quella loro relazione si consumi, che l’Idea scenda dal suo piedistallo, si cali entro le esigenze della terra e della carne. Come fare? Basterà ricorrere, ma per l’ultima volta, ai buoni uffici del «romance», ovvero a uno dei suoi ben noti stratagemmi, che consiste in uno scambio di persone. Basterà cioè convincere la cantante, la Tinti, ad accettare che per una sola notte la nobildonna la sostituisca nel talamo in cui avvengono gli amplessi con Emilio. Così il giovane, ignaro, crederà di soddisfare, al solito, i suoi bassi istinti, e di rimanere fedele all’amore intemerato per la donna ideale. Naturalmente, ciò implica che anche questa accetti il gioco, collabori in quel complotto «sui generis» contro la castità unilaterale dell’amante. Ed è anche inevitabile che il tutto prenda l’aria di un esperimento.

  Così avviene, e ne abbiamo subito le conseguenze, registrate in un epigrafico, e davvero molto stendhaliano, referto: «la duchessa era incinta». Questa constatazione dissolve di colpo le nubi del dibattito idealista che stagnavano fino a quel momento, rallentando la «storia», deviandola, impedendole di procedere, inducendola a disperdersi in rivi minori, improbabili e di maniera.

  La vicenda si chiude brutalmente, attorno al nudo dato di fatto, ma da quel momento la «Comédie humaine» potrà procedere sicura e inesorabile.

 

 

  Bruno Bassi, Letizia Caronia, Massimo Franceschetti, Claudia Miranda e Antonio Tadiotto, Circolazione e trasformazione dei valori in “Illusioni perdute” di Balzac, «Carte semiotiche. Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici», Firenze, Numero 8, settembre 1991, pp. 11-30.


  [...]. Il testo analizzato si trova nel primo capitolo della seconda parte di Illusioni perdute di Balzac. II resto del romanzo è stato deliberatamente trascurato nell’analisi, anche se lo si è tenuto presente per la verifica delle ipotesi avanzate sulla parte presa in considerazione. Nella prima parte del romanzo il protagonista Luciano Chardon, giovane e povero poeta di provincia, è partito dalla città natale Angoulême alla volta di Parigi insieme alla nobile Maria Luisa Anaïs de Bargeton, nata de Nègrepelisse, di cui è innamorato. Nel capitolo in questione Luciano si trova alle prese con la società aristocratica parigina, da cui vorrebbe venire accettato. Egli viene invitato all’Opéra dalla marchesa d’Espard, cugina dell’amata Luisa, e qui si trova faccia a faccia con i personaggi più in vista del bel mondo. Tra questi c’è il barone Sisto du Châtelet, spasimante di Luisa, che ha seguito la coppia da Angoulême.

  L’avventura di Luciano a teatro termina con una sconfitta: egli viene riconosciuto da tutti come provinciale e giudicato indesiderabile. Luisa lo abbandona, ed egli si ritrova, solo e squattrinato, a vivere nel quartiere più povero di Parigi.

  L’intero romanzo è la storia di una serie di tentativi di raggiungere il successo sociale. Luciano in particolare aspira al successo letterario, e in questo capitolo tenta di giungervi attraverso la sua accettazione da parte dell’aristocrazia. La sua impresa a teatro, il suo desiderio di eleganza, la sua smania di ricchezza e perfino i suoi amori si configurano come programmi d’uso rispetto al programma di base costituito dal raggiungimento del successo sociale. Una rappresentazione dell’universo assiologico che genera il testo dovrà quindi considerare come primaria la sua articolazione intorno alla categoria successo/fallimento, subordinando ad essa in vari modi le categorie relative agli altri valori in gioco.

  Questo universo non costituisce però il bersaglio principale della presente analisi, che si concentra invece sugli universi assiologici individuali e sociali che il testo mette in scena. Luciano, appena arrivato dalla provincia, tenta di adeguarsi al sistema di valori dell’aristocrazia parigina, ancora nuovo per lui. Alla fine del capitolo, la sua sconfitta prepara il passaggio ad altri sistemi di valori.

  Parigi e la provincia diventano così due spazi fisici e sociali in opposizione reciproca: questa opposizione, di natura semantica, si disvela nel testo come un vero e proprio conflitto tra i due sistemi di valori, messo in scena nel personaggio di Luciano e intorno a lui. Il capitolo considerato è ambientato interamente a Parigi, e il conflitto vi ha la sua espressione principalmente nell’inadeguatezza di Luciano, personaggio impegnato in modo un po’ maldestro in un processo di volontaria conversione dal primo universo al secondo. Più oltre si considereranno in maggiore dettaglio i valori intorno ai quali questa conversione fa perno.

  Come Luciano è il luogo attoriale del conflitto assiologico cui si assiste nel testo, il palco del teatro ne è il luogo spaziale. A teatro infatti Luciano viene messo a confronto diretto con l’aristocrazia, il che costituirebbe la sua prova qualificante, e sempre a teatro egli viene colto da una sanzione sociale pesantemente negativa.

  Il garante del sistema di valori della società aristocratica parigina è un Destinatore sociale. Questo Destinatore sociale non si manifesta direttamente. Nel testo troviamo invece una serie di attori individuali che agiscono di volta in volta come suoi delegati, e che sono autorizzati socialmente a svolgere questa funzione di rappresentanza.

  Abbiamo parlato di un universo assiologico come di un sistema di valori. Per rendere conto del meccanismo che regge il funzionamento dei valori nel testo, dovremo osservare da vicino il processo relativo a questo sistema. Nel testo analizzato tutto funziona come se i tipi di processo fondamentali fossero almeno due, che chiameremo valutazione e valorizzazione, e che proponiamo come categorie operative. Se ne tenta qui una breve definizione, mentre il resto dell’intervento conterrà diversi esempi che ne chiariranno l’applicabilità.

  Il primo tipo di processo, la valutazione, è il momento cognitivo della collocazione di un oggetto di valore all’interno di un universo assiologico. Si tratta di un processo interpretativo che porta all’attribuzione di un valore (positivo o negativo) ad un oggetto secondo modalità già codificate nel sistema. In altre parole, quando si verifica una valutazione il sistema prevede già il tipo di cui l’oggetto viene riconosciuto come occorrenza. In questo senso la valutazione presuppone un certo universo assiologico costituito. [...].

  Il secondo tipo di processo, la valorizzazione, è una pratica individuale di istituzione di valore. Si tratta di un processo generativo di investimento di valore su un oggetto in maniera non strettamente conforme alle prescrizioni del sistema assiologico, sia perché l’oggetto non si presta ad una classificazione all’interno dell’universo semantico preesistente, sia perché il soggetto sta sottoponendo a revisione il suo proprio universo assiologico. La valorizzazione può portare essa stessa ad una tale revisione dell’universo di riferimento. Possiamo distinguere casi in cui la revisione è strutturale, ossia interessa l’articolazione delle categorie o l’investimento timico, e casi in cui è quantitativa, e interessa un aumento o una diminuzione del valore del valore attribuito ad un oggetto. [...].

  La valutazione e la valorizzazione, entrambi processi individuali, possono venire socializzati mediante atti di comunicazione valutativa. In questo caso si riferiscono ad un universo assiologico collettivo, proprio di una cultura o di uno strato sociale. La circolazione sociale dei valori in casi di comunicazione valutativa è uno degli oggetti principali di questa ricerca.

  Il seguito del presente intervento affronta i diversi aspetti dell’analisi del testo che ci sono parsi pertinenti alla problematica del valore.

  La prossima sezione affronterà la relazione tra spazio e investimento di valori nella scena del teatro.

  Verrà poi affrontato il ruolo nel testo dell’oggetto-valore per eccellenza, il denaro, visto sia come un oggetto di valore di per sé, sia come figurativizzazione del valore del valore.

  Infine si considererà il valore nelle sue manifestazioni passionali, analizzando successivamente il funzionamento della vergogna e dell’amore, passioni che in questo testo appaiono complementari, agendo rispettivamente sulla valorizzazione e sulla svalorizzazione del proprio oggetto. [...].

 

 

  Giuseppe Bernardi, Il dramma sociale dell’aristocrazia nella «Duchessa di Langeais» di Balzac. La dama della rivalsa, «il Giornale-Lettere ed Arti», Milano, 5 maggio 1991, p. II; 1 ill.

 

  Il 1° settembre 1832 Balzac, firma un contratto con la «Revue de Paris», impegnandosi a fornire a quel settimanale quaranta pagine ogni mese. A ottobre egli consegna la Lettre à Nodier, a novembre un Voyage de Paris à Java, in cui elabora narrativamente le esperienze dell’amico pittore Auguste Borget, a dicembre e a gennaio del nuovo anno Les Marana, ma a questo punto, comprensibilmente forse, qualcosa si inceppa. Si può non avere voglia di produrre con sistematica cadenza, e le idee per sempre nuove storie possono esaurirsi, sciogliersi a volte come neve al sole, anche in uno scrittore che, con i creditori alla porta, ha imparato a conciliare la consapevolezza nella propria forza creativa con le scadenze del quotidiano.

  Più che scadenze del quotidiano sono in realtà colpe pregresse, conseguenze di iniziative imprenditoriali sbagliate, come la casa editrice, la tipografia. la fonderia di caratteri, giovanili progetti che l’hanno indebitato anche con l’aspra madre, già avara con lui di affetto nella sua infanzia e poi per sempre inflessibile esattrice. Comunque, ora l’editore della «Revue de Paris» lo tormenta per il ritardo, oltretutto Balzac ha il vizio di fare troppe correzioni sulle bozze, quindi per favore consegni secondo i patti e smetta di fare costosi interventi sul testo.

  Nel marzo 1833 esce così una sorta di prefazione programmatica al ciclo che egli promette di comporre sotto il titolo di Histoire des Treize, la stona del tredici affiliati a una fantomatica setta, la «Società dei Tredici», intorno a cui dovrebbero strettamente intrecciarsi, almeno nelle intenzioni, vicende apparentemente distanti e diverse tra loro. I lettori che amano i romanzi d’appendice ora vogliono anche letteratura gotica, e Balzac è pronto a servirli di barba e capelli.

  Tra il ʼ33 e il ʼ35 escono i tre macchinosi, disuguali e anche un po’ truci racconti che compongono la Storia dei Tredici. Il primo, Ferragus, è una storia ricca di colpi di scena, con escursioni di ambiente che vanno dalla famiglia altoborghese dell’arricchito agente di cambio, al mondo sotterraneo dell’ex galeotto che, in realtà ricchissimo, vive come un pezzente in sorda lotta con tutta la società, evocando già atmosfere dei futuri Misteri di Parigi di Eugène Sue. Il terzo, La ragazza dagli occhi d’oro, è la storia di una giovane bellissima posseduta da un oscuro destino, di un uomo innamorato che persegue tra mille difficolta il suo scopo e sembra raggiungerlo, di una dama misteriosa che tiene soggiogata a sè la giovano attraverso un legame perverso.

  Tra questi due romanzi brevi, o racconti, si pone La duchessa di Langeais, scritto per rivalsa. Non è usuale per Balzac parafrasare il reale, trasporre nell’invenzione elementi autobiografici, ma qui accade qualcosa di nuovo. Nel 1832 Balzac viene invitato a conoscere la marchesa di Castries, una donna piuttosto avvenente, trentacinquenne grande dame, che in seguito a una caduta da cavallo fa vita molto ritirata, legge libri e conversa amabilmente di letteratura. Balzac prende a frequentarla, le scrive lettere, se ne innamora: lei lo tiene sulla corda, il suo mal di schiena non le impedisce di lusingarlo, di irretirlo, di accoglierlo, pare. Invece no, è tutto un crudele gioco, che di colpo si svela, e Balzac è costretto ad andarsene ferito.

  Qui la marchesa di Castries diventa la duchessa di Langeais, mentre lo scrittore è Armand de Montriveau. L’azione non è cronologica. Si apre su un’isola mediterranea battuta dal vento, allargo dell’Andalusia, dove un generale francese, Armand, e venuto con le sue truppe a ristabilire l’ordine per incarico di Ferdinando VII. Armand, la cui vita è stata «un susseguirsi di poesie tradotte in azione» e che ha «sempre vissuto dei romanzi anziché scriverne», ha sentore che il severo monastero delle Carmelitane scalze arroccato sull'isola sia quello dove si è chiusa al mondo la sua adorata Antoinette. Ne ha trepidante conferma ascoltando nelle funzioni la segreta suonatrice d’organo che, manifestando sulle note ora raccoglimento pensoso, ora amarezza, ora la fuga nel ricordo, ora il rapimento nell’estasi della rinuncia, sembra quasi comunicare all’amante quanto le parole non potrebbero dire. Il drammatico colloquio con lei, che egli riesce a strappare alle rigide regole dell’ordine, non fa altro che precipitarlo nella disperazione, ed egli torna a Parigi.

  Solo a questo punto veniamo a conoscere il lungo antefatto della vicenda, quando quella pia monaca senza più identità terrena era la duchessa di Langeais, che teneva banco nei salotti e ammaliava con le sue civetterie il romantico Armand, disilluso dalla Restaurazione e appena tornato da strazianti avventure africane, respinto, tenuto in iscacco, egli non aveva speranza, finché lei stessa non fu conquistata dall’amore per lui. E qui era accaduto qualcosa di grottescamente ridicolo: essi dovevano finalmente incontrarsi; lui per un accidente, come capita, aveva ritardato; lei aveva pensato di averlo perso e, sconvolta, era fuggita nel remoto convento. Armand, ora che ha scoperto dove ella si trova, organizza un difficile rapimento con l’aiuto della «Società dei Tredici» (pretestuosamente ricomparsa), ma trova morta la sua amata, sopraffatta dal peso di sentimenti inconciliabili.

  Se si supera l’involontaria morale di questa storia, e cioè che non bisogna far tardi agli appuntamenti, il castigo assegnato alla duchessa di Langeais, ovvero alla marchesa di Castries, appare, come fa notare Jean Paul Sacy nella postfazione, duplicemente emblematico: è il dramma personale di una grande dame ed e il dramma sociale dell’aristocrazia divenuta inadatta, e come sconnessa, rispetto alle funzioni che hanno giustificato i privilegi di cui ha goduto. E Armand de Montriveau, membro della società segreta dei Tredici, connivente di quei grandi criminali, o ribelli, che Balzac non cessa di tratteggiare più con compiacimento che con riprovazione, appare come uno dei campioni dell’anarchico «disordine» balzacchiano, un interprete del faustiano progetto onnicomprensivo che è alla base di tutta la Comédie humaine.

  Honoré de Balzac, «La duchessa di Langeais», trad. di Vera Salvago, L’editore, pp. 176, lire 16.000.

 

 

  Storia della diavolessa, Ibid.

 

  Ispirato dalle «Cent nouvelles nouvelles» Honoré de Balzac aveva intenzione di scrivere «Cent contes drolatiques». La prima decina comparve nell’aprile del 1832, la seconda nel luglio dell’anno successivo, la terza nel novembre del 1837. Dopo lo scrittore francese abbandono il lavoro. «Un demone» appena pubblicato per i tipi di L’Argonauta, piccolo editore in Latina, è uno di questi racconti. In queste 70 pagine, tradotte da Enrico Badellino in vendita a lire 14.000, un immaginario processo contro un demone del genere dei succubi ovvero «diavoli femmine che usano le seduzioni e i piaceri dell’amore per corrompere i cristiani».

 

 

  Irene Bignardi, Basta un po’ d’amore per risvegliare l’arte, «la Repubblica», Roma, 16 novembre 1991, p. 26.

 

  La belle noiseuse, da Cannes alle sale in cui esce in questi giorni, ha perso due ore e si è conquistato un nuovo titolo, La bella scontrosa, che se richiama il suono dell’originale, in compenso non lo traduce fedelmente. Perché “noiseuse”, si era scoperto a Cannes vedendo il film di Jacques Rivette, significa scocciatrice, rompiscatole, con una parola di gergo franco-canadese. Per la cronaca dei record cinematografici, c’è da registrare il fatto che La bella scontrosa, nella versione originale, rappresentava il massimo possibile di lievitazione rispetto alla fonte letteraria: ventisette sono infatti le pagine del racconto di Balzac a cui si ispira Rivette per sviluppare il suo discorso sui rapporti tra l’artista e la sua materia.

 

 

  Giovanni Bogliolo, Papà Goriot, in Cinquantadue trame di capolavori della letteratura francese dell’Ottocento, Milano, Rizzoli Editore, 1991, pp. 98-109.

 

  La cugina Bette, ivi, pp. 110-116.

 

  La pelle di zigrino, ivi, pp. 260-265.

 

  Si tratta, in tutti e tre i casi, di ampie disamine riassuntive delle vicende che formano le trame dei romanzi balzachiani presentati.

 

 

  Mario Bonfantini, Stendhal e il realismo. Saggio sul romanzo ottocentesco. Seconda edizione, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1991, pp. 187.

 

  Cfr. 1958.

 

 

  Sauro Borelli, Bella e noiosa. Il mistero di Balzac secondo Rivette, «l’Unità. Giornale fondato da Antonio Gramsci», Roma, Anno 68°, n. 101, 15 maggio 1991, p. 18.

 

  [...]. C’era chi fino a ieri si chiedeva come da un racconto di Balzac di appena venticinque pagine (dal titolo Il capolavoro sconosciuto) si potesse ricavare un film di quattro ore piene. Jacques Rivette, prestigioso e già autorevole «moschettiere» della nouvelle vague, ha disvelato in modo solare l’arcano con la semplice proposta (in concorso) del suo nuovo, magistrale film La belle nuoiseuse (sic). [...].

  La traccia balzachiana si rifà ad una ambientazione secentesca; Rivette, invece, coadiuvato dai suoi abituali sceneggiatori Pascal Bonitzer e Christine Laurent, disloca il suo plot nella più ravvicinata attualità, così da trarre suggestioni e segnali di contiguo, immediato interesse. [...].

 

 

  Gabriella Bosco, Simenon geloso del suo Maigret, «La Stampa», Torino, Anno 125, N. 242, 9 Ottobre 1991, p. 17.

 

  Esce in Francia l’ultimo libro, dedicato a Balzac: come lui, temeva che i personaggi gli usurpassero la fama.

 

  [...]. Esce adesso, con il titolo Portrait-souvenir de Balzac (Ritratto-ricordo di Balzac, Ed. Christian Bourgois). Raccoglie testi disparati, di conferenze e trasmissioni radiofoniche sinora mai pubblicate, articoli scritti da ragazzo e poi messi da parte, brevi note sparse negli anni. Nei modi più diversi, tutti parlano del mestiere di scrittore. Di umore pessimo, quel giorno in cui era in collera con Maigret, Simenon stabilì di aprire il libro con acrimonia. Il romanziere sceglie il suo lavoro perché lo crede una vocazione, leggiamo; solo dopo scopre come sia, invece, «un rinnegamento di sé, una maledizione, una malattia».

  Il ritratto di Balzac, che dà titolo al volume, è un testo del 1960 scritto per la radio. «Un autore con cui non ho nessun punto in comune – esordiva pimpante Simenon – salvo forse l'abbondanza». Mentre poi quello che tratteggiava a fosche tinte leggendo vorace la corrispondenza più cupa di Balzac, era una sorta di dolente autoritratto per interposta persona. «Balzac non diceva che era snervante per lui seguire due innamorati per strada, Dei protagonisti voleva sapere tutto: dall’indirizzo al colore dei calzini. Il commissario fu ideato nel 1929 in un porto olandese perché non tardava a condividere i loro trasporti, le loro gioie e i loro strazi?».

  Simenon si scopriva uguale, lui che prima di poter iniziare un romanzo, dei suoi personaggi doveva sentirsi intimo al punto di conoscere il loro indirizzo e numero di telefono, i gusti, gli studi svolti, e persino numero e colore delle paia di calzini posseduti. «Geniale Rodin», diceva Georges Simenon. Qui sopra, il commissario Maigret. In alto a sinistra Honoré de Balzac, la cui statua in bronzo di Balzac si erge in boulevard Raspail tra la folla parigina, massa scura quasi senza faccia. Geniale perché «ben aveva capito come nel suo modello l’uomo non contava, o contava comunque meno delle creazioni uscite dalla sua penna». Una graduale perdita di sé di cui Balzac aveva sofferto divenendo «geloso dei personaggi» come fossero persone reali. [...]. Nel mettere insieme quest’ultimo volume, Simenon aveva fissa in mente la statua «quasi senza faccia» di Balzac. Il suo timore più grande era che Maigret avesse intenzione di rubargli, alla fine, anche l’immortalità. Il buon umore però l’aveva ritrovato, pensando che almeno un vantaggio sull’autore della Comédie humaine l’aveva conservato, una malattia in meno. Il voto di castità, «handicap» in cui il povero Balzac era caduto, credendolo necessario per poter vivere senza fastidio la vita affettiva dei suoi personaggi. No, quell’infame sacrificio lui proprio non l’aveva fatto. Sberleffo da trasmettere postumo al caro commissario.

 

 

  Josette Bovard, Il linguaggio meta-fonologico nell’opera narrativa di H. de Balzac nell’anno 1830. Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1991.

 

 

  Italo Calvino, La città-romanzo in Balzac, in Perché leggere i classici, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1991 («Oscar. Tutte le opere di Italo Calvino»), pp. 73-79.

 

  Cfr. 1973.

 

 

  Edmund J. Campion, Representations of Historical Reality in Balzac’s “Les Chouans” and Victor Hugo’s “Quatre-vingt-treize”, «Studi Francesi», Torino, 105, Anno XXXVI, fascicolo III, settembre-dicembre 1991, pp. 487-490.

 

  Honoré de Balzac’s 1829 novel Les Chouans and Victor Hugo’s 1874 novel Quatre-vingt-treize both deal with unsuccessful popular uprisings against the French Revolution Most critics have assumed that these two novels have little in common because Balzac admired the French monarchy whereas Victor Hugo favored a republican form of government in France. Several scholars have concluded rather hastily that Les Chouans and Quatre-vingt-treize express interpretations of the French Revolution which somehow mirror the political preferences of there two novelists.

  Such ideological approaches are highly problematic. If these novels are merely polemics for or against the French Revolution, they have become works of purely historical interest. It is not at all clear, however, whether Balzac and Hugo portrayed more sympathetically defenders or opponents of the French Revolution. […].

  Balzac’s Les Chouans and Victor Hugo’s Quatre-vingt-treize are problematic novels. In his 1955 book Der historische Roman […], Georg Lukács encouraged readers to consider almost exclusively the ideological content of these two novels. Althogh Lukács’ sociocriticism may well be a perfectly valid method for analyzing other novels based on historical events, it is singularly inappropriate for Les Chouans and Quatre-vingt-treize. Victor Brombert has written perceptively on Hugo’s «denunciation of ideology» in Quatre-vingt-treize. Brombert’s remarks apply equally well to Les Chouans. In both novels, ideologues, be they royalists like Lantenac or republicans like Corentin and Cimourdain, are highly usympathetic characters who believe that the need for military victory justifies crimes, deception, and exploitation. Balzac and Hugo drew their readers’ attention to the extraordinary suffering caused by a civil war. Most readers react with indifference to the political statements of Lantenac and Cimourdain. The emotional suffering of such characters as Marie de Verneuil, Michelle Fléchard, and Gauvain continue, however, to touch the hearts and minds of sensitive readers from diverse cultures.

 

 

  Pier Cardinali, Il colore della passione sulla tavolozza di Balzac, «il Resto del Carlino», Bologna, 1 novembre 1991, p. 13.

 

  [...]. Camicia bianca, gli occhiali in una tasca, viso olimpico e aria di gattone intelligente, Piccoli è visibilmente soddisfatto di un ruolo che lo ha immerso nelle pagine preziose di uno dei racconti meno noti e più straordinari di Balzac, quel Capolavoro incompiuto (uscito in Italia solo una decina d’anni fa, da Costa & Nolan) cui Rivette si è liberamente ispirato per La bella Noiseuse.

  Il rapporto pittore-modella ripete nel film il despotismo regista-attrice? «In un atelier c’è sempre un uomo vestito con una modella nuda — dice Piccoli [...].

  «A me interessava soprattutto sviscerare, dal racconto di Balzac, i sottili rapporti dell’anziano pittore in crisi con la moglie e la giovanissima modella», ha spiegato il regista del film in concorso a Cannes lo scorso maggio. Ricordano che «la pittura fa parte delle grandi tentazioni del cinema», pur consapevole che «Balzac è rigorosamente inadattabile al cinema (tutti quelli che ci hanno provato ne sono usciti scornati)», Rivette ha affrontato con tranquilla libertà la trasposizione del racconto, dilatando il veloce schizzo letterario (solo 25 pagine) in un cadenzato, e un po’ estenuante, affresco in celluloide; dove la storia del vecchio pittore seicentesco Edouard Frenhofer che sacrifica la missione artistica alla felicità domestica, lasciando incompiuto il capolavoro della sua vita, viene trasferita ai nostri giorni per caricare le ore di isolamento creativo e di “riemersione” familiare di una stessa, sfuggente inquietudine moderna. Se, in Balzac, il pittore distrugge l’opera (giudicata dagli ospiti «una nuvola senza forma») e si uccide, in Rivette l’arte trascurata non prende così direttamente la sua vendetta ma diventa una pasta di insidiosa, appiccicosa autorità che insinua le sue leggi anche nel più minuscolo interstizio dell’esistenza: l’artista si salva perché è già dannato. Dalla parca tavolozza del romanziere francese, il regista ha dunque ripreso il colore più infuocato, l’energia creativa: «Balzac — assicura Rivette — è il più grande “contenitore” di idee. E’ un altro Goethe».

 

 

  Vito Carofiglio, La mort, le culte et la parole dans “Le Médecin de campagne”, «Revue des Sciences humaines», Paris, n. 221, janvier-mars 1991, pp. 105-119.

 

 

  Vito Carofiglio, Sacrificio estetico in Balzac: “Sarrasine” e dintorni, «Athanor. Arti visive, letteratura, semiotica, filosofia», Bari, N. 2 – Arte e sacrificio, 1991, pp. 88-93.

 

  Non riesco a trovare postazione più idonea per definire «sacrificio», e attenermici senza sbandamenti, di quella che, per spiegarla a me stesso nell’ottica particolare qui assunta, mi suggerisce la novella di Balzac, dopo Barthes e Serres iperconsumata criticamente, Sarrasine. Che io abbia a ricordare, nello specifico campo estetico o in quello generale, un pensiero di Baudelaire: «L’art n’obtient ses effets les plus puissants que par des sacrifices proportionnés à la rareté de son but», o l’altro di Valéry: «Qui dit: Oeuvre, dit: Sacrifices. La grande question est de décider ce que l’on sacrifiera», Sarrasine, in cui posso aver colto l’importanza dell’idea e del trattamento del tema del sacrificio in relazione all’operare estetico, ancora quasi totalmente mi sfugge — cioè sfugge alla meccanica consequenzialità critica che si volesse derivare da quei pensieri.

  Meno si è visto in Sarrasine quello che mi sembra più congruo: il tema del sacrificio dell’artista, posto nella dinamica o dialettica fra realtà e illusione, fra lo specifico del suo pensare-operare creativo e la materia oggettiva cui sembra precisamente conformarsi o rinviare. Mi sforzerò di renderlo evidente.

  Perché non è Zambinella a dare il titolo al racconto di Balzac? Non è egli forse il personaggio enigmatico e inquietante che collega «cornice» e «nocciolo» della novella, la storia esterna dell’io narrante e quella interna da questo riportata in una condizione e per uno scopo precisi?

  Zambinella è certamente il personaggio più interessante dell’opera: da giovane (nella storia riportata) era stato una stella di prima grandezza nel firmamento canoro di Roma, era stata magica, affascinante, la sua voce nel canto lirico, ma la sua voce non era che voce di castrato, la sua natura era «mostruosa», «artificiale», e per l’ambiguità della sua presenza-voce si perderà lo scultore Sarrasine: e da vecchio poi (nella cornice narrativa) egli sconcerta con la sua apparizione spettrale: la sua visione da centenario cadaverico e ambulante nel pieno di una serata mondana, e nel mezzo di un concerto vocale, reca il senso della morte. Per questo personaggio da «romanzo gotico» Balzac richiama significativamente Ann Radcliffe, maestra nel genere «nero». Eppure esso non è personaggio eponimo. È eponimo Sarrasine. Per Balzac, dunque, il problema realmente centrale è lo scultore. Il titolo della breve novella balzachiana potrebbe essere ovviamente anche un diversivo — ma così di fatto non è.

  Potremmo ancora argomentare che Zambinella, artista castrato, ha positivamente conservato le sue «energie» vitali senza dissiparle nella sessualità, chirurgicamente inibita, e sublimata nel canto e nell’arte drammatica. Si sa quanto sia stato importante, fra il 1829 e il 1831 (Sarrasine è del 1830), il problema della «puissance vitale» per Balzac, coi modi per conservarla e i rischi di perderla (molte opere vi fanno riferimento, fra le quali alcune molto impegnative: Louis Lambert, La Peau de Chagrin). Eppure non è Zambinella, in un certo senso eroe «positivo», a dare il titolo alla novella. È Sarrasine.

  Ritengo infatti Sarrasine il personaggio che esprime, attraverso la crisi di riconoscimento dell’identità sessuale della persona da cui è attratto, il massimo del dramma di un artista: la tensione o il dissidio fra realtà e illusione. Da questo tipo di tensione o dissidio non è escluso certamente il personaggio Zambinella, ma questo personaggio rappresenta il paradigma anomalo del conflitto. È Sarrasine, invece, a rappresentare il paradigma perfetto dell’artista in bilico fra pulsione sessuale e mistificazione metaforica (mascherata) della sessualità.

  Zambinella è certamente cosciente di una dilacerazione fra estetica e vita (amore-sessualità-realtà) nella propria condizione di artista, sì da avvertire in termini allusivi il suo ignaro spasimante [...].

  Dunque, la vita di Zambinella è la non-vita dell’arte, ovvero è la vita che le/gli è fatta per l’arte e dall’arte, col concorso di qualcuno — uno o molteplice, on che l’avrebbe a ciò condannato/a. Condannare una persona all’arte e alla gloria non è farla entrare in un perverso circuito in cui un sacrificio è imposto per un effetto sovrano, sublime? Che cosa Zambinella ha scambiato di sé dolorosamente per raggiungere gli effetti sublimi della sua arte, la singolarità della sua voce, la sua femminilità in scena e fuori di essa? Zambinella ha scambiato, perdendola, la sua virilità — parli, funzioni e modalità di essa — per via di castrazione. Un perdere parte di sé, che è un guadagnare altro, e molto di più. È stato spontaneo lo scambio, fra deprivazione e risarcimento? Il testo parla di «condanna» alla gloria, emessa da on. Si svolgerà nominalmente — e altamente nella messinscena narrativo-simbolica — quell’on: sarà stato il principe Chigi, precisamente si saprà, con un po’ d’avventura nel diegetico-dialogato. È lecito pensare che in qualche modo ci fu anche parte di violenza sulla volontà dell’«operato» (la stretta del bisogno economico, la «cultura» dei meccanismi e usi della castrazione a fini artistici nello Stato pontificio confinante con quello napoletano, e altro ancora, che l’intertesto non detto potrebbe suggerire). La relazione fra arte e sacrificio comunque c’è — e come! — anche per Zambinella. Ma non è eponimo Zambinella.

  Il circuito sacrificale di Zambinella appare in Sarrasine anomalo e di grado inferiore rispetto al complesso sacrificale che attesta la vicenda dello scultore alle prese con l’artista del canto.

  Sarrasine è vittima di una significazione che avrebbe dovuto tenerlo in un pur minimo sospetto, poiché la fascinazione amorosa scaturisce all’interno di una «scatola magica» qual è l’universo teatrale, per definizione luogo dinamico dell’illusione della vita e assidua metafora del reale.

  Molt’altro miracolosamente dice il breve testo della novella, parendo incastonare tutto in un assetto ideologico permanente della Comédie humaine: la critica della società borghese, colta o adombrata nelle sue origini e sviluppi e nelle sue componenti sacrileghe (denaro-lusso-spreco-mondanità-tresche-assassini). Ma specificamente Sarrasine dice il sacrificio dell’artista ai suoi idoleggiamenti, ai suoi «idoli» fascinosi, non di rado perversi se non anche «mostruosi». Che la morte sopraggiunga, è nell’ordine delle cose. Il gioco dell’arte sfiora la morte, nella sua tensione estrema — e si potrà perfino ritenere, con un’arguzia efficace, che la morte dell’artista in istanza di scacco sia per lui (secondo le ultime parole di Sarrasine sotto i colpi dei sicari) «une faveur digne d’un chrétien». Resta da chiedersi, nel caso specifico, se «chrétien» designi l’artista soccombente al suo sogno d’amore e d’arte, oppure designi l’illustre mandante dell’assassinio, il cardinale Cicognara protettore di Zambinella in pericolo di vita.

  Una dannazione ovvero uno scotto accomuna Sarrasine e Zambinella: v’è su di loro una maledizione operante, efficiente per lo scultore, che viene immolato. Zambinella si nega a Sarrasine, perché non può deluderlo fisicamente: oggetto-persona già sacrificata all’arte, Zambinella non può uscire, se non a costo della vita — comunque improduttivamente —, dal suo statuto significativo, dal suo codice (di castrato, rispetto all’alterità ed eterosessualità dello scultore). Egli è difeso, fatto prigioniero, dall’apparato religioso-culturale-poliziesco cui appartiene il suo eminente protettore: gode dei vantaggi della sua condizione sessualmente ingloriosa e mistificata, risultato d’un artificio chirurgico e di un’educazione vocale nuova, ma non è libero di volersi, di amare e farsi amare secondo le regole e il codice dell’altro, che obbedisce alla natura e ha un’idea mimetica della propria arte come di quella dell’altro. Il suo sacrificio anatomico è anche un sacrificio della mente: la sua nuova condizione ha operato in lui una mutazione, o ha fatto meglio levare una pulsione sessuale, nel senso dell’ermafroditismo, che è il neutro del sesso e che non è «ni vrai ni faux», per dirla con Louis Marin. Anch’egli sente attrazione per lo scultore, ma è attrazione sotto forte censura, un’attrazione sacrificata alla maschera e al ruolo della femminilità, per bisogno d’arte.

  Sarrasine per l’immagine amata è pronto a sacrificare la sua stessa arte: «Veux-tu que je ne sois pas sculpteur?» Illusione nell’illusione — ma illusione possibile: rinunciare all’arte per amore (per l’amore) si può (come per altro), ma Sarrasine è in un circuito mistificato: offrendo il massimo di sacrificio per la sua divinità illusoria, scopre la potenza delle sue emozioni e delle sue decisioni — della sua passione e dei trasporti avversi cui può cedere per avventura. La rabbia omicida di Sarrasine, dinanzi all’identità svelata di Zambinella, non è un semplice raptus comprensibile come conseguente alla prova dell’inganno dei propri sensi e dell’immagine adorata, non è la mattia del disinganno amoroso: è il dispetto totale di un uomo-artista giunto alla certezza di una illusione fondamentale nella quale la verità dell’immagine non è la verità della vita ma quella dell’arte — dunque verità d’artificio, costruzione umana e non natura, frutto di creazione e non autenticità. La visione teatrale è risultata una visione mistificata, ingannevole e allucinata. Il problema dell’identità sessuale in Sarrasine è problema, non direi falso ma distorcente, rispetto all’altro.

  I termini mimetici entro cui si colloca la creazione della statua di Zambinella, fatta dallo scultore come riproduzione propria del personaggio di teatro, rendono più drammatico lo choc dell’identità vera: l’idea (la certezza, la passione) della mimesi artistica crolla dinanzi alla verità del modello, non più archetipo ma apparenza d’un essere che non è «ni vrai ni faux» ma non è nemmeno l’essere-oggetto della propria fantasticheria amorosa, del proprio «désir». Il disinganno di Sarrasine è la scoperta della maschera — ora la maschera è il segno e la necessità della funzione arte.

  La rivolta di Sarrasine alla scoperta lancinante significa che egli non accetta la scissione, la mistificazione, l’illusione: lo scultore assume correlativamente oggetto d’amore e arte come assoluti, totali e sostanziali, reali e veridici, ingenui e non traslati né in altro segno né in altro significato. Il tentativo di «uccidere» dapprima (mandare in frantumi) la propria statua illusoria è un atto simbolico, non realizzato, perché fallito, mancato: l’intenzione è mettere a morte un’immagine-creatura fallace. L’arte non si scambia con lo scherzo, bensì col godimento. Il senso della sfuriata — dell’impazzimento — di Sarrasine è di ordine parenetico: non si scherza con l’amore, «on ne badine pas avec l’amour» (avvertimento che qualche anno dopo, nel 1834, sarà il titolo di una commedia drammatica di Musset). Infatti, Zambinella confessa — messo alle strette — che tutto è stato uno scherzo ordito dai suoi compagni d’arte.

  Commedia impossibile, dramma incombente. Non si scherza né con la pulsione fallica né con quella estetica: un Sarrasine enfatizzato ed euforico a sproposito, e impedito dall’amor castrato, è un uomo-artista finito: la maschera irridente è un interpretante offensivo, un insulto morale, e il simulacro abietto rende abietta anche la statua dell’illusione mimetica. E non vale alla moderazione la delusione contemplante o il dubbio che la castrazione sia un’amputazione metaforica dal reale come condizione necessaria dell’attività estetica: a Sarrasine non consta l’antinomia sacrificio di sé/conquista di sé. Il vuoto, il neutro, l’altro di Zambinella, lo atterisce (sic). Lo atterra.

  La reazione di Sarrasine alla scoperta dell’identità di Zambinella può rivelare una forma di trattamento della crisi, in età romantica, dell’estetica classica e neoclassica relativamente alla teoria della natura mimetica dell’arte, ovvero dell’illusione realistica. L’episodio di Sarrasine-Zambinella, ambientato a Roma nella seconda metà del Settecento, può offrire più di un indizio per questa interpretazione: nella cornice classica e neoclassica della capitale pontificia il furore iconoclasta dello scultore francese può attestare un’istanza di superamento drammatico del teorema dell’arte cui si confà: arte = natura, arte = imitazione. Tale superamento, avvertito come risultato di un inganno dell’occhio, dell’apparato sensitivo, e della mente stessa, è l’atto di morte dell’artista-imitatore. La crisi sentimentale-estetica di Sarrasine e la sua morte violenta segnano il trapasso a un altro tipo di sensibilità e teoria estetica, per le quali in epoca romantica varrà l’imponenza del «rêve» e del suo «épanchement dans la vie réelle», come confesserà Nerval in Aurélia, secondo uno schema «narrativo» che ha più di una rassomiglianza con quello di Sarrasine, ma portando a una soluzione «positiva» il dramma dell’identità dell’attrice amata: la soluzione terapeutica e ultraconoscitiva della follia.

  Ma vediamo ancora in Balzac.

  Più di qualsiasi altra opera, a Sarrasine Balzac sembra accostare come «pendant» l’altra novella non meno nota, Le Chef-d’oeuvre inconnu (1837): la sconfitta finale di Frenhofer, pittore del Seicento, risponde a quella dello scultore del Settecento. La derealizzazione progressivamente operata dal pittore sul modello femminile reale, per dar forma sublime alla sua fantasticheria, è un processo diametralmente opposto a quello che è implicato dall’estetica classica vigente nel suo tempo (epoca di Poussin).

  Frenhofer ha esattamente un programma artistico visionario: egli sfuma la donna amata in confuse linee e segni e colori, senza compromesso col reale o archetipo (se non, forse ancora non definitivamente, per un piede ancora distinguibile). E l’arte appare come sacrificio totale della realtà, come l’amore è sacrificio totale. In arte occorre conseguire gli effetti del reale, non copiare modelli pur sublimi. «L’art n’est pas de copier la nature, mais de l’exprimer», dirà Frenhofer. Lo scandalo è evidente nel contesto relazionale (arte-teorie-pratiche-pubblico-committenti-modelli ...).

  Un nuovo teorema s’impone (romanticamente): l’artista insegue la «chimera», e l’amore vi soccombe. È l’altra indicazione che deriva dal racconto sul musicista (altro caso della serie in galleria), in Gambara (1837): Balzac non cessa di variare prospettiva per affrontare il fondamentale problema della creazione estetica. Ed è sempre in termini di sacrificio che si sviluppano le variazioni del tema, poiché l’artista, romanticamente inteso, è sempre disponibile al sacrificio, sacerdote e vittima in pari tempo di una relazione comunicativa con l’infinito che sente in sé e che percepisce nell’altro in modi drammatici. Forse è in ambito di estetica tedesca che si potrebbero trovare gli orientamenti filosofici più adeguati per mettere al centro della riflessione critica la figurazione dell’artista romantico: penso soprattutto a F. Schlegel.

  Tornando ora a Sarrasine, mi sembra di poter affermare che lo scultore è una specie di sciamano fallito, il cui assassinio assicura la permanenza di quel corpo mistico (mistificato) che è Zambinella-artista, di cui occorre preservare purezza, integrità (anomala, amputata), custodire l’intoccabilità. Sacra è la neutralità sessuale di Zambinella nella tipologia culturale cattolico-romana: il suo corpo è diventato un’essenza, e, in virtù della specifica venerazione subita, è divenuto invulnerabile-sacro. Sicché, in un corpo «mostruoso», la voce magica che affascina lo scultore è un mana — una difesa «sistemica» protegge quella voce-di-donna. E Sarrasine, che non comprende l’ordine a cui appartiene l’immagine adorata, è la perfetta vittima sacrificale di quell’ordine. La sua fine segna una catastrofe: massimo caos e disastro nel firmamento sonoro di Zambinella, e ritorno al punto di riposo, all’equilibrio assiale di corde che hanno già vibrato, quindi lasciate alla quiete e al silenzio. I due sensi, insomma, di χαταοτρφή si coniugano nel circuito sacrificale di questa novella-apologo, al confine incerto fra studio di «costume» e studio «filosofico» nell’opera di Balzac.

 

 

  Alberto Castoldi, Postfazione. Figure dell’«innommable», in AA.VV., L’artista allo specchio ... cit., pp. 213-241.

 

  Quando Berklinger e Frenhofer fanno la loro apparizione sulla scena romantica improvvisamente cambia il rapporto con le cose: si chiude il grande occhio prospettico lasciato in eredità dalla cultura rinascimentale, che aveva celebrato i suoi fasti ancora nella spericolata geometria degli architetti illuministi, e si dischiude invece, devastante come lo sguardo di Medusa, l’occhio romantico. [...].

  La polemica fra presente e passato s’incentra in particolare sulla contrapposizione fra linea e colore, che a sua volta sottende il dibattito sulla rappresentabilità del reale. A Goya che si chiedeva «Ma dove trovano le linee in natura? Per conto mio, posso distinguere solo fra corpi scuri e luminosi». Ingres poteva ribattere: «E tu, dove vedi il tocco in natura?». E questa polemica ad essere specificamente evocata nel Chef d’oeuvre inconnu balzachiano, ed a costituire lo spunto teorico e metodologico su cui divergono le opinioni di Porbus e di Frenhofer. Il primo, interprete di una tradizione tutta fondata sulla priorità del disegno rispetto al colore, ritiene che oltrepassare i limiti dell’arte significhi andare al di là delle limitazioni imposte dal disegno, su cui peraltro si fonderebbe la verità dell’arte: «Il disegno fornisce lo scheletro, il colore è la vita, ma la vita senza lo scheletro è qualcosa di più incompleto dello scheletro senza la vita». Frenhofer, invece, rimprovera a Porbus, osservando uno dei suoi quadrio (sic), Marie l’Egyptienne, di non aver saputo scegliere fra il sistema del disegno e quello del colore, né tantomeno di averli saputi amalgamare: bisogna essere in grado di dessiner en modelant, così che il contorno sia definito dalla pittura e non viceversa.

  Porbus tende a inserire la visione del reale in un discorso tutto ancorato ai precisi contorni lineari del disegno, alle sue tranquillizzanti certezze, per cui tutto il conoscibile è delineabile, circoscrivibile, e viceversa, ed è questa l’immagine della pittura maggiormente frequentata dallo stesso Balzac, che fa di Raffaello l’autore maggiormente citato nella sua opera [...]; la sfida di Frenhofer consiste invece nel privilegiare l’indefinito, al di là dei contorni, proposto dalla luminosità dei colori (Tiziano è citato nella Comédie 28 volte).

  La ricerca di Frenhofer trova la sua ragion d’essere nel rifiuto di proporsi come rassicurante mimesi, periplo, del reale, e nel costituirsi come avventura che salpando dal reale fa del proprio viaggio l’oggetto della sua testimonianza. La ricerca di un modello femminile, la fidanzata di Poussin, Gillette, per portare a compimento la propria opera, non costituisce dunque il riproporsi di un topos della pittura, ma l’evidenziazione estrema della novità del procedimento che essa implica. Frenhofer si congeda dal tradizionale impiego del modello, legato ad una concezione dell’arte come seduttività, come avveniva ancora nella Paysanne pervertie (1784) di Restif de la Bretonne, in cui il compito della pittura sarebbe quello di eccitare i sensi [...]. Frenhofer, invece, propone al giovane Poussin, che desidera conoscere i segreti della sua tecnica pittorica e contemplare il capolavoro cui egli sta lavorando, uno scambio concepito come una sfida, un potlach. È il maestro stesso di Frenhofer a inaugurare, e quindi fondare, il meccanismo dello scambio, cui legare la professionalità dell’arte, i suoi segreti. Mabuse, infatti, fa costante commercio della propria arte per soddisfare i propri piaceri: dipinge l’Adamo «per uscire dalla prigione in cui i creditori l’avevano fatto rinchiudere così a lungo»; il segreto del suo straordinario realismo ha un prezzo, ed è con lui che ha inizio la serie degli scambi incentrata originariamente sull’equivalenza arte-denaro: Frenhofer, a suo tempo, aveva «sacrificato la maggior parte dei suoi tesori per soddisfare le passioni di Mabuse; in cambio Mabuse gli ha consegnato il segreto del rilievo, il potere di conferire alle figure quella straordinaria vitalità ...». Anche Porbus ha dipinto un quadro, una Marie égyptienne acquistata da Maria dei Medici, la quale gli preferirà poi Rubens e sarà a sua volta costretta a vendere il quadro spinta dal bisogno di denaro. Ora è il giovane Poussin ad ottenere il diritto di contemplare il capolavoro di Frenhofer e di apprendere così i segreti della sua tecnica, offrendogli in cambio come modellala propria fidanzata. Frenhofer propone dapprima uno scambio in denaro, o di compensarlo con quadri, ciò che nella sua ottica è equipollente: «Venga pure il tuo giovane» dichiara a Porbus «gli darò i miei tesori, gli darò dei quadri del Correggio, di Michelangelo, del Tiziano». In precedenza gli ha acquistato lo schizzo da lui eseguito della Marie égyptienne di Porbus per due monete d’oro. Alla fine dovrà arrendersi all’obiezione di Porbus: «Ma non è forse donna per donna? Poussin non offre la sua fidanzata ai vostri sguardi?». In effetti per Frenhofer il ritratto femminile cui si sta dedicando non rappresenta un ideale di donna, ma è una donna («La mia pittura non è una pittura, non è una tela, ma una donna»), al punto da possedere un nome proprio, non più Belle-Noiseuse, ma Catherine Lascault.

  La resistenza opposta da Frenhofer all’esibizione del proprio quadro risiede nel rapporto che egli intrattiene con l’opera, in qualità di padre e amante [...].

  Il quadro di Frenhofer si presenta come «une muraille de peinture», una tela che non solo non rappresenta nulla ma è essa stessa indescrivibile, e perde così anche il proprio statuto di opera d’arte: Catherine Lescault da donna diventa «parvenza di donna» e infine «preteso quadro». Volendo trovare l’arte Frenhofer l’ha persa, è stato costretto a farla sparire. L’arte risulta incomprensibile perché è diventata ciò che è incomprensibile, ed il dramma dell’artista romantico consiste nel non riuscire a comunicare questo messaggio. Frenhofer dichiara per la verità che: «La missione dell’arte non consiste nel copiare la natura, ma nell’esprimerla!», ma questo progetto sconvolge per l’appunto la concezione di un’arte essenzialmente illustrativa secondo il legato della tradizione, per cui un critico sensibile ed esperto come Diderot poteva ancora compiacersi nel Salon del 1767 «della facilità con cui il pittore può fare un bel quadro di ciò che il letterato ha concepito». Non riferendosi più al reale il quadro ora rappresenta se stesso, mettendo così in crisi il ruolo deputato di lettore richiesto all’osservatore. Essere artista significa allora creare al pari della natura, divenire, come è detto nel testo d’altronde, di volta in volta Prometeo, Pigmalione, Orfeo, ma significa al contempo non poter più fruire del gigantesco serbatoio di riferimenti e modelli offerti dalla tradizione, spezzare lo stretto legame fra rappresentazione e descrizione.

  Balzac si fa qui interprete delle concezioni più radicali del pensiero romantico, che abbandona la teoria della mimesis per una teoria dell’entusiasmo, che trae forza dalla natura come unico elemento non ancora corrotto dalla storia. Il genio romantico ricorre sì all’imitatio naturae, ma non in quanto ne teorizzi la copia, bensì in quanto crea come la natura. [...].

  Di fatto però dal muro di colori che offre a prima vista il quadro di Frenhofer, emerge a più attenta osservazione un piede di donna [...]. Frenhofer ha studiato le opere di Tiziano, anatomizzandole strato dopo strato per impadronirsi del segreto del colore e della luminosità: la forma elaborata da Tiziano è il risultato delle infinite sovrapposizioni di colori; l’artista balzachiano invece procede à rebours, annullando la forma in una sequenza indefinita di strati. Il piede dunque è apparentemente l’unico superstite di un cataclisma che ha annientato l’immagine, in realtà dovremmo piuttosto vederlo come l’unica imperfezione rimasta in un procedimento di negazione del significato affidato alla lettura della rappresentazione, a tutto vantaggio di un’autonomia semantica del colore, fondata sulle sensazioni [...].

  La distanza che separa i moduli di decrittazione adottati da Porbus e Poussin, tutti legati ad una visione grammaticalizzante, da quelli che vorrebbe introdurre Frenhofer, e della cui novità non è ancora egli stesso del tutto consapevole, lo fa esitare di fronte all’incomprensione dei due osservatori: «Je n’aurai donc rien produit», egli afferma, ma è piuttosto un’interrogazione. Nulla sarebbe stato prodotto, esibito, sarebbe l’ennesimo fallimento di Orfeo; come Mabuse, il maestro di Frenhofer, aveva creato con il suo Adamo il primo uomo (di fatto per mancanza di vita soltanto ‘un uomo’), così egli avrebbe dovuto creare con Catherine Lescault la prima donna, ma il percorso intrapreso si starebbe rivelando un sentiero interrotto ..., la discesa all’Ade una via senza ritorno, che comporta l’annientamento di sè e della propria opera. Porbus e Poussin non vedono il quadro di Frenhofer poiché il loro sguardo, custode attento di una regola del vedere e di una teoria del sapere, presuppone un altro concetto di vita e quindi di verità, tutto ancorato al nomos, alla regola classica, per cui ciò che scorgono è solo «un piede delizioso», residuo irrisolto di un’ideologia estetica che postula l’anteriorità del modello rispetto all’opera.

  La frammentazione imposta da Frenhofer al corpo femminile equivale, invece, ad un processo di disintegrazione della tradizione, al dissolvimento di una grammatica del vedere, per liberare la forma da ogni tributo alla mimesi, dall’obbligo di significare altro da sè. Assistiamo allora al dispiegarsi di un procedimento di de-nominazione, di scollamento delle cose dal loro nome, per cui esse restano, ma il visibile viene ridefinito, rinominato, in un atteggiamento che sarà quello di Proust di fronte alle marine di Elstir [...]. Frenhofer ottiene questo risultato mediante un procedimento in cui l’effetto è visto attraverso il percorso delle cause, attraverso quell’anatomia del reale che fa di ciò che era interno, una volta esibito, un esterno, ma un esterno che si rivela la ‘causa’ di quella forma in cui la tradizione legata alla figuralità in termini di letteratura vedeva lo scopo dell’arte. [...].

 

 

  Raffaele de Cesare, Encore une lettre inédite de Balzac à Alessandro Mozzoni-Frosconi, «L’Année balzacienne», Paris, Presses Universitaires de France, nouvelle série, 12, 1991, pp. 53-57.

 

  A la lettre de Balzac à l’avocat milanais Alessandro Mozzoni-Frosconi du 10 octobre 1837 que j’ai publiée dans L’Année balzacienne 1978 je suis en mesure aujourd’hui d’en ajouter une deuxième, également inédite, adressée par l’écrivain au même destinataire le 27 décembre 1838.

  Cette deuxième lettre — autre épave d’une correspondance assez active entre Balzac et l’homme de loi milanais chargé des affaires Guidoboni-Visconti — est conservée à l’«Archivio di Stato» de Milan, au milieu de papiers divers relatifs au patrimoine des Guidoboni-Visconti, dans le dossier n° 979 (cote provisoire) du fonds Sormani-Andreani-Verri, récemment mis à la disposition du public par la libéralité de la dernière représentante de la famille, la comtesse Luisa Sormani.

  La lettre en question se rattache, ainsi que la précédente, à la vente des biens milanais du comte Emile Guidoboni-Visconti, dont la liquidation en cours depuis plus d’une année n’était pas encore terminée à la fin de 1838 et paraissait au contraire s’enliser dans des longueurs et des retards imprévus. Ainsi, dans cette missive, Balzac invite-t-il de nouveau l’avocat Mozzoni- Frosconi à toucher les sommes qui restent dues aux Guidoboni-Visconti et à les envoyer le plus tôt possible à Paris, où le comte et la comtesse en ont le besoin le plus urgent en vue d’un placement lucratif.

  Mais la lettre ne vise pas seulement ces questions d’intérêt ou d’argent. Devenu «milanais» presque à part entière après ses deux longs séjours de 1837 et de 1838, ayant laissé à Milan des amitiés sûres et des connaissances nombreuses, fêté, choyé dans les salons, flatté dans les gazettes, élevé aux «honneurs du Capitole» par l’aristocratie lombarde, Balzac n’oublie pas l’accueil reçu ; et il prie son correspondant de le rappeler au souvenir de quelques-uns de ces amis: le prince Alfonso Porcia, la comtesse Fanny Sanseverino-Vimercati sa soeur, et naturellement, la comtesse Eugenia Bolognini sa maîtresse. Il lui fait part aussi de la publication de la dédicace au prince Porcia de La Torpille, parue quelques jours auparavant dans le tome deuxième de l’édition Werdet; de celle à la comtesse Fanny Sanseverino-Vimercati de La Femme supérieure, déjà imprimée en septembre-octobre 1838 dans le tome premier de cette même édition Werdet; et il annonce en même temps son intention de dédier l’un de ses prochains romans à la comtesse Eugenia Bolognini — projet qui se réalisera en effet une dizaine de mois plus tard, en aout 1839, lors de la publication d’Une fille d’Eve. Enfin, il charge Mozzoni-Frosconi de prévenir Porcia que la réplique de la statuette de Puttinati dont il a fait cadeau à Damaso Pareto, expédiée il y a fort longtemps à cet ami génois (et peut-être par les soins mêmes de Porcia) n’est pas encore arrivée à destination. […].

  D’après une Note des frais ... et un Deuxième compte ... relatifs aux affaires Guidoboni-Visconti, où Mozzoni-Frosconi enregistre, jour par jour, tous les déboursements faits par lui pour son client, y compris l’affranchissement et les ports postaux des envois refus, il est possible de préciser le nombre et la chronologie des lettres envoyées par Balzac à l’avocat milanais, depuis le moment où ils firent connaissance, en février 1837, jusqu’à la fin de leurs relations d’affaires qu’il ne semble pas possible de prolonger au-delà de l’hiver 1838-1839.

  La liste que l’on est à même de dresser sur la base de ces deux documents atteint le chiffre de six lettres. Et le lot ainsi reconstitué n’est pas encore complet, car il faut y ajouter une septième lettre que Balzac n’a pas envoyée directement au destinataire, mais qu’il a incluse dans l’enveloppe d’une missive adressée, très vraisemblablement en octobre 1837, au baron Denois, Consul général de France à Milan, pour qu’elle fût remise à Mozzoni-Frosconi.

  Voilà cet inventaire tel que nous pouvons le rétablir aujourd’hui :

  1. Une lettre écrite de Paris (?), datée du 16 mai 1837, arrivée à Milan le 21 mai 1837.

  2. Une lettre écrite de Paris (?), datée du 11 juin 1837, arrivée à Milan le 22 juin 1837.

  3. Une lettre écrite de Sèvres, datée du 10 octobre 1837, arrivée à Milan le 20 octobre 1837.

  4. Une lettre écrite de Sèvres, sans date, mais remontant probablement au mois d’octobre 1837, incluse dans la lettre que Balzac envoie en même temps au baron Denois.

  5. Une lettre écrite de Paris (?), sans date (mais vraisemblablement rédigée autour du 15 janvier 1838), arrivée à Milan le 27 janvier 1838.

  6. Une lettre écrite de Paris (?), datée du 13 mars 1838, arrivée à Milan le 21 mars 1838.

  7. Une lettre écrite de Sèvres, datée du 27 décembre 1838, arrivée à Milan avant le 19 janvier 1839, jour où Mozzoni- Frosconi en accuse réception.

  Les lettres numérotées 3 et 7 sont celles qui ont été retrouvées à Milan dans l’«Archivio di Stato» et qui ont été publiées par moi, l’une dans L’Année balzacienne 1978, l'autre, à présent, dans ce même recueil. Les lettres numérotées 1, 2, 4, 5, 6, manquent encore à l’appel. Si elles n’ont pas été détruites et qu’elles se cachent dans quelque collection d’autographes ou dans des archives privées, il est toujours possible qu’une heureuse trouvaille, à Milan ou ailleurs, nous permette un jour de mieux éclairer cette expérience italienne de Balzac fondé de pouvoir et mandataire général d’Emile Guidoboni-Visconti: expérience qui s’avère bien plus active qu’on n’aurait pu le croire.

 

 

  Raffaele de Cesare, Quando Balzac riceveva una lettera ... (A proposito di Balzac e di Leonardo da Vinci), «Studi Francesi», Torino, 104, Anno XXXV, fascicolo II, maggio-agosto 1991, pp. 305-309.

 

  Ad una data che ci è impossibile determinare, Balzac riceveva da uno sconosciuto residente in Germania una lunga lettera di complimenti, di suggerimenti e di consigli, quale gliene pervenivano, a dozzine, d’ogni parte d’Europa e più diversi corrispondenti maschili e, ancor più frequentemente, femminili.

  Questa volta, il nome dello sconosciuto, forse un francese costretto per ragioni di salute a soggiornare in una cittadina tedesca, era compendiato dalle sole iniziali N. M.; il recapito – nella eventualità che Balzac avesse voluto rispondere era indicato «a Hanau, près de Francfort s./M.» all’indirizzo di « Monsieur H.D. Toussaint pour remettre à N. M.» ed il tema letterario proposto concerneva il progetto di un racconto intorno a Caterina II, Imperatrice di Russia, che il corrispondente invitava caldamente il romanziere a scrivere.  Una lettera, insomma, come tante altre, senza apparente rilievo, che, del resto, nemmeno il migliore studioso dell’epistolario balzacchiano, Roger Pierrot, ha ritenuto opportuno inserire nella sua eccellente edizione della Correspondance.

  La lunga missiva, si diceva, proponeva allo scrittore un romanzo sulla grande Caterina di Russia, da trattarsi non tanto sulla falsariga degli avvenimenti storici quanto, piuttosto, su di una trama di natura psicologica che indugiasse nell’analisi delle intima sofferenze morali di una donna eccezionale, inaccessibile e solitaria, a causa della sua posizione di sovrana autocratica, incompresa ed isolata nella sua grandezza, privata del conforto di quella solidarietà umana che, nelle condizioni di eguaglianza, chiunque riesce a trovare nel sodalizio col suo prossimo.

  Al termine della lunga esposizione tracciata per la realizzazione di questo disegno narrativo, lo sconosciuto corrispondente osservava giudiziosamente:

 

  Voilà, Monsieur, ce drame intime tel que je l’ai conçu. Je sens quo le désir de vouloir faire accepter son idée par quelqu’un qui n’y a point pris part doit paraître bien étrange; on aura quelque raison d’objecter que les inspirations poétiques ne se commandent pas, etc. Mais il me semble qu’il en est des œuvres littéraires comme il en est des productions de l’art: la donnée est peu de chose; c’est l’exécution qui est tout. Un jour, le prieur des Dominicains de S.te Marie de Milan vient chez Léonardo da Vinci et lui dit: «J’ai dans le réfectoire de mon couvent un grand mur blanc qui pourrait servir à quelque bonne fresque de votre façon. […]; mettez le Christ au milieu et ses douze disciples des deux côtés; voilà ma donnée, vous ferez le reste. Et Léonardo fit un chef-d’œuvre.. […]».

 

  Per quanto è noto, Balzac non ha mai scritto un romanzo su Caterina II; né, ch’io sappia, nelle non frequenti allusioni alla sovrana moscovita che si incontrano nella Comédie humaine o altrove, ha raccolto le suggestioni del suo ignoto corrispondente. Sul Settecento russo lo scrittore aveva, del resto, attraverso la contessa Hanska ed alcuni fra i suoi amici polacchi di Parigi, informazioni più dirette e più ampie di quante potesse offrirgliene il suo interlocutore; e, sia prima del settembre 1838 (termine ad quem a cui riteniamo far risalire la lettera citata) sia più tardi, i riferimenti alla grande imperatrice slava nell’opera di lui non sembrano in alcun modo collegabili alle indicazioni o alle riflessioni della lettera.

  Ma se Balzac ha lasciato cadere l’invito ad un racconto incentrato sulla vita morale di Caterina II, non ha invece dimenticato la parte finale dello scritto ricevuto, quella cioè relativa a Leonardo da Vinci e all’aneddoto attribuito al priore dei Dominicani del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano.

  Pochi giorni prima del 15 settembre 1838, nel corso dell’ampia prefazione all’opera collettiva de La Femme supérieure, La Maison Nucingen e La Torpille, edita da Werdet, esponendo al lettore le miserie del letterato, costretto a scrivere per le necessità quotidiane della sopravvivenza, bersagliato dalla critica, taglieggiato dalle preoccupazioni moralistiche e dalle esigenze ‘tecniche’ dei direttori di giornali e degli editori, affermava che, nonostante tutte queste drammatiche circostanze, la potenza creatrice del poeta, l’arte insomma — quando c’era veramente — riusciva ad avere il sopravvento su di ogni difficoltà per quanto insormontabile essa si presentasse. E ricordava, a tale proposito, l’aneddoto appunto di Leonardo da Vinci capace di dare armonia di dimensioni e luminosità di colori al suo Cenacolo entro gli spazi angusti di un pezzo di muro inutilizzato ed apparentemente inutilizzabile per la sua forma [...].

  Qualche pagina più avanti, nell’intento di spiegare l’apparente disordine ed il forzato frammentarismo della sua opera con le diverse esigenze degli editori e le richieste del mercato librario, Balzac ritornava sull’episodio leonardesco con un ironico inciso ed una immagine appropriata ad esso [...].

  L’analogia fra i due resoconti è talmente precisa anche nei suoi esiti stilistici (si raffronti fra l’altro l’uso comune del discorso diretto da parte del Priore domenicano) che non sembra lasciar sussistere dubbi sulla dipendenza del brano balzacchiano da quello della lettera dello sconosciuto corrispondente.

  Una conferma di tale ipotesi può esserci inoltre offerta dalla constatazione che né viaggiatori francesi in Italia, noti a Balzac, che di passaggio per Milano abbiano visitato il Cenacolo, né compilatori di enciclopedie, familiari allo scrittore francese (è noto il ricorso continuo che questi faceva alla Bibliographie universelle del Michaud) nelle loro notices sull’artista italiano, né Stendhal (una delle fonti primarie dell’italianismo di Balzac) che tante pagine ha dedicate a Leonardo da Vinci nella sua Histoire de la Peinture, né altri studiosi o dilettanti ottocenteschi d’arte che si siano occupati dell’opera leonardesca, a nostra conoscenza almeno, parlano dell’episodio o ne danno una versione che avvicinandosi così strettamente a questa, possa farci supporre l’esistenza di un’altra fonte pervenuta a Balzac e da lui utilizzata.

  Certo, è difficile escludere che Balzac possa essere venuto a conoscenza dell’aneddoto per altra via, direttamente nel corso dei suoi prolungati soggiorni a Milano nel 1837 e nel 1838. Esso doveva indubbiamente circolare, scritto o orale, in Lombardia o altrove (come mai, altrimenti, ne sarebbe venuto a conoscenza l’ignoto corrispondente dello scrittore?). Ma è chiaro che tale ipotesi sfugge ad una agevole verifica. E, francamente, ad essa preferiamo dar minor credito di quanto non meriti quella che ci suggerisce – nero su bianco – la lettera di N. M.

  E giacche stiamo parlando di Leonardo da Vinci, non ci sembra inopportuno chiudere questa breve nota con qualche osservazione sulla conoscenza che Balzac aveva dell’opera di lui e sui giudizi formulati intorno alle molteplici manifestazioni, nei campi più diversi delle lettere e delle scienze, del genio di questo celebre artista.

  Discreto intenditore delle arti italiane, Balzac ha incastonato, come è noto, sia nella Comédie humaine sia in altri suoi scritti, numerosi riferimenti a pittori, scultori, architetti del nostro paese, dal Medioevo ai giorni suoi. In questo campionario della cultura e delle curiosità artistiche del romanziere (sul quale, un giorno o l’altro, meriterebbe che uno studio attento e sistematico facesse miglior luce) Raffaello – dati ovviamente anche i tempi – è il nome più citato. Ma dopo di lui, e dopo Tiziano e Michelangelo, il nome di Leonardo, con una ventina di menzioni, è quello che ricorre con maggior frequenza, prima di Benvenuto Cellini e dei pur amatissimi Correggio e Sebastiano del Piombo.

  A lui, Balzac ha fatto cenno in numerosi suoi romanzi ed altrove, dal 1830 al 1849 – lungo quasi tutto l’arco della sua attività letteraria – con giudizi sempre di grande ammirazione. Dei suoi quadri ha voluto arricchire le raccolte che, da generazioni, adornano la villa veneta di Massimilla Doni o che, attraverso i più oscuri passaggi, per sottrazione o per acquisto, sono finiti a Issoudun nelle mani dei Descoings e a Parigi, nella collezione maniacalmente costituita da Pons. Sulla espressività dei lineamenti fini ed enigmatici delle sue figure sacre e dei suoi ritratti profani – preferiti da Balzac sull’insieme dell’opera pittorica leonardesca – ha voluto modellare i tratti di alcuni suoi personaggi femminili più cari alla sua fantasia di romanizere (sic). La contessa de Restaud, gli occhi scintillanti e il bel volto illuminato dall’amore, appare a Gobseck «semblable à l’une de ces Hérodiades dues au pinceau de Léonard de Vinci». La contessa de Mortsauf ha «un front arrondi, proéminent comme celui de la Joconde». La principessa de Cadignan possiede «un de ces fins sourires que le pinceau de Léonard de Vinci a seul pu rendre». Massimilla Doni, nel ricordo appassionato di Emilio Memmi, è «rêveuse et souriant avec finesse comme la Monna Lisa de Leonardo». Francesca d’Argajolo, ad una ingenua proposta di Rodolphe (che ignora ancora nome e condizioni sociali dell’interlocutrice) non può trattenere «un faible sourire qui donna l’expression la plus ravissante à son visage, quelque chose de fin comme ce que le grand Léonard a si bien peint dans la Joconde ...». L’ideale della bellezza femminile, quale è concepito, insieme ad altri grandi pittori del primo Cinquecento italiano, da Leonardo da Vinci, si riflette su tutte le meravigliose sembianze della giovane cortigiana Esther Gobseck. Il collo esile, bianco come il latte, di Modeste Mignon richiama «ces lignes fuyantes, aimées de Léonard de Vinci». Perfino in certe caratteristiche dell’abbigliamento femminile, Balzac prende a prestito elementi di ritratti leonardeschi, Gabrielle de Beauvouloir copre il suo svelto busto di adolescente di un corsetto che Leonardo da Vinci e Raffaello hanno fatto indossare alle loro Madonne e Sante. Louise de Chalieu dispone i suoi capelli dividendoli in due bande da una parte e dall’altra della fronte e li adorna nel mezzo con una piccola placca d’oro trattenuta da una catena per avete così «l’air de la belle Ferronière».

  Così come si presenta, questo catalogo non è in verità dei più persuasivi. A parte la presenza di alcuni clichés (il lettore avrà già notato la ripetizione di termini alquanto generici: «fin» e «finesse»), esso non va esente da errori. A Leonardo da Vinci, Balzac attribuisce infatti, nella scena ora citata di Gobseck, quell’Erodiade del Louvre che oggi è unanimemente assegnata a Bernardino Luini e, nella descrizione della collezione di Pons, quel ritratto di Carlo VIII (che è poi Carlo d’Amboise) appartenente invece ad Andrea Solari.

  Ma, francamente, questi due ultimi ci sembrano peccati abbastanza veniali, disavventure che non è lecito gravare di una eccessiva riprovazione e che un «dilettante» come Balzac divide del resto con tanti illustri tecnici e studiosi professionisti di storia dell’arte. Al di là di tali limiti, rimane il merito – che non è, mi sembra, da sottovalutare in un romanziere francese dell’Ottocento – del prolungato interesse e della costante ammirazione nutriti da Balzac per questo artista italiano: interesse ed ammirazione di cui abbiamo voluto illustrare un aspetto nelle pagine che precedono.

 

 

  Raffaele de Cesare, La prima fortuna di Balzac in Italia (1830-1850). VI. Supplemento, «Aevum», Milano, Anno LXV, fascicolo 3, settembre-dicembre 1991, pp. 643-690.


  [...]. Un centinaio di traduzioni; oltre ottocento riferimenti a Balzac cd alla sua opera, nell’arco di venti anni, costituiscono una massa veramente imponente di materiale. Ma, passando da una prima ricognizione sulla quantità ad un esame più attento di essa e ad una valutazione della qualità, vale ora la pena di domandarci: di che natura è questo materiale? Quale rilievo culturale assume e di quale valore letterario si riveste?

  Per ritornare alle traduzioni noteremo, in primo luogo che esse toccano quasi ogni aspetto della produzione di Balzac: romanzi, novelle, studi di costume, frammenti, lettere. In tutto, cinquantanove scritti che, ridotti a quarantotto per ciò che concerne romanzi e racconti della Comédie humaine, coprono di essa, in versioni integrali e parziali, circa la metà. Fra le traduzioni dalla Comédie humaine può stupirci negativamente l’assenza di opere per più di un riguardo significative delle ambizioni intellettuali dell’autore o rilevanti per la loro riuscita artistica, ma ci colpisce favorevolmente il fatto che il catalogo delle traduzioni comprende le prime gemme narrative delle Scènes de la vie privée (La Maison du chat-qui-pelote, Le Bal de Sceaux, La Bourse, La Vendetta, Une double famille, La Paix du ménage, Etude de femme, La Femme abandonnée, La Grenadière, Le Message, Gobseck), le varie parti di quella che diventerà più tardi La Femme de trente ans, un frammento del Contrat de mariage, Modeste Mignon. E il catalogo continua includendo alcuni grandi e piccoli capolavori delle Scènes de la vie de province (Ursule Mirouët, Eugénie Grandet, Le Curé de Tours, L'Illustre Gaudissart, Le Lys dans la vallée, la prima parte di Illusions perdues (Les deux poètes); talune opere maggiori e minori delle Scènes de la vie parisienne (Ferragus, La Duchesse de Langeais, La Fille aux yeux d’or, Le Père Goriot, César Birotteau, Pierre Grassou, Un épisode sous la Terreur, Une ténébreuse affaire, un frammento de La Cousine Bette); un aneddoto delle Scènes de la vie militaire (Une passion dans le désert); le due Scènes de la vie de campagne (Le Médecin de campagne, Le Curé de village); un folto gruppo di Etudes philosophiques (La Peau de chagrin, Le Chef-d’oeuvre inconnu, La Recherche de l’Absolu, un frammento di Massimilla Doni, la prima parte de L’Enfant maudit, Les Marana, Adieu, El Verdugo, Un drame au bord de la mer, L’Auberge rouge, L’Elixir de longue vie, Le Martyr calviniste, Les Deux rêves, ed infine, due episodi della Physiologie du mariage e due capitoli delle Petites misères de la vie conjugale.

  Alcune di queste opere appartenenti alla Comédie humaine hanno conosciuto un successo più vivo di altre. Può meravigliare, ma è Gobseck a risultare in testa alla lista, tradotto, integralmente o parzialmente, sei volte. Le Médecin de campagne viene subito dopo con quattro traduzioni (due dell’intero romanzo, due del capitolo sull’epopea napoleonica narrata da Goguelat). Seguono il Lys dans la vallée con una traduzione integrale e due traduzioni della scena finale sull'agonia e sulla morte di Madame de Mortsauf, Etude de femme con tre traduzioni dell’intero breve racconto, La Vendetta con due traduzioni complete ed una delle pagine introduttive. Due versioni integrali hanno avuto Eugénie Grandet, Le Père Goriot, La Femme abandonnée, La Grenadière, Le Message, Le Curé de campagne e Adieu. [...].

  Traduttori di mestiere o dilettanti, modesti artigiani retribuiti ad un tanto alla pagina o avventurosi letterati alla ricerca di un qualsiasi lavoro intellettuale (e, per le traduzioni dal francese, gli editori non mancavano di maestranze disponibili), essi ci hanno dato, salvo poche eccezioni, versioni libere, approssimative e disinvolte, largamente infedeli, mutilate di intere scene o di singoli passi narrativi, impoverite nelle sfumature psicologiche. E, come se non bastasse, deturpate di errori d’ogni genere e specie, controsensi, malintesi, sviste, provocati ora da una elementare incompetenza linguistica, ora da più ampie carenze culturali: difetti che, sommati gli uni agli altri, rendono in più di un luogo incomprensibile il testo o creano equivoci da sconvolgere letteralmente il pensiero dell’autore.

  Quando a questi traduttori di rango inferiore si sono sostituiti pubblicisti noti e già affermati negli ambienti letterari italiani, le cose sono certo andate meglio per un verso, ma anche peggio per un altro. Prendiamo il caso (che è però un caso limite) di Luigi Masieri, pubblicista lombardo di una certa notorietà, traduttore di Eugénie Grandet e di altre Scènes de la vie de province, del Père Goriot, del Vicaire des Ardennes e di César Birotteau. Con lui, gli errori e gli abbagli linguistici diminuiscono (senza peraltro scomparire), il corso della frase si fa più fluido, l’espressione meno impacciata (anche qui, non sempre, tuttavia). Ma lo iato fra testo e traduzione si allarga a dismisura. Considerandosi un letterato e convinto che gli sia consentito, per ragioni artistiche, di intervenire sul testo ogni qual volta esso gli appare difettoso, egli si crede autorizzato a sostituirsi all’autore francese, trasformando situazioni. smorzando o accendendo particolari narrativi, facendo man bassa su immagini, metafore, similitudini.

  Il caso del Masieri è, lo abbiamo detto, un caso limite e la sua traduzione-rifacimento del Vicaire des Ardennes è un’opera che, prima di ogni altra impressione, desta sbalordimento nel lettore. Ma non è un caso unico: quello di Giovanni Battista Bazzoni (l’autore, già troppo famoso, del Castello di Trezzo e di Falco della Rupe) non dà risultati sensibilmente migliori, quanto ad aderenza testuale, nella traduzione di Adieu. Luigi Carrer, a sua volta, dimostra una straordinaria disinvoltura nella sua (non firmata, ma più che probabile) versione dell’Auberge rouge, né al riparo da numerose osservazioni negative si pongono le versioni di Illusions perdues di Ignazio Cantù (fratello del più noto Cesare, e anch’egli poligrafo di qualche fortuna e collaboratore assiduo della «Rivista europea»); del Lys dans la vallée di Giannantonio Piucco (pubblicista molto attivo a Venezia) ; delle Peines de coeur d’une chatte anglaise (migliori le altre due della Vendetta e di Gobseck) di Antonio Piazza, giornalista affaccendato – e non dei minori – nella Milano della Restaurazione. [...].

  Passiamo ora all’esame riassuntivo di quei più di ottocento riferimenti critici a Balzac catalogali nella rassegna bibliografica, al fine di indicare – almeno per sommi capi – il loro carattere ed il loro significato nella prospettiva biografica o letteraria. La massa eterogenea di tali riferimenti si presta male ad un riordino compendiario, ma, con un po’ di buona volontà, non è impossibile procedere ad una classificazione sommaria e ad un giudizio sintetico di merito.

  E, per cominciare, rileviamo che, non dissimilmente da quanto ci è accaduto di osservare a proposito della vasta gamma delle traduzioni (comprendente tanta parte dell’opera balzacchiana), tutta la complessa personalità umana e letteraria dello scrittore è oggetto di una investigazione animata ed attira la curiosità viva della critica italiana. Come uomo, Balzac è noto, osservato, giudicato negli aspetti più appariscenti della sua vita pubblica e fin nei risvolti di quella privata. Grazie anche ai suoi soggiorni in Italia, alle persone che vi ha incontrate, alle confidenze che egli stesso ha fatte, di lui si sa molto o quasi tutto. Lo si è conosciuto personalmente, lo si è scrutato da capo a piedi nelle strade o nei salotti di Torino, di Milano, di Venezia, e ci si è soffermati con incuriosita attenzione sul suo viso pieno ed aperto, sui suoi occhi scuri, sulla sua tolta chioma nera, sul suo portamento spedito nonostante la tozza corporatura, sui suoi modi disinvolti, i gesti vivaci, l’eleganza vistosa del suo abbigliamento. Lo si segue ora nei suoi movimenti e nelle sue abitudini quotidiane e si rimane stupiti della sua conversazione inesauribile, brillante, spiritosa, della mobilità straordinaria delle sue reazioni. Si raccolgono e si discutono i suoi giudizi sulla letteratura e, in particolare, sull'Italia e sugli Italiani; si commentano i suoi gusti e le sue manie e, non senza umorismo, si raccontano le sue velleità di ipnotizzatore. I suoi più bizzarri casi personali sono resi pubblici con abbondanza di particolari. Ci si sbalordisce del prezzo straordinario del suo bastone da passeggio, si ammira la foggia del candido saio con il quale si avvolge in casa nelle lunghe sedute di lavoro, e ci si interroga persino sul fatto che, nelle serate di gala, porti la cravatta bianca «col controsenso de’ guanti neri» ...! E naturalmente, fra echi di verità e compiaciute esagerazioni, gli si fanno i conti addosso: a quanto alla riga di stampa mercanteggi con i direttori di giornali i suoi romanzi, a quanto li rivenda poi agli editori, a quanto, su tali guadagni — inconcepibili per un letterato italiano — incida il danno della contraffazione belga. Ancor più sottolineato, e con comprensibile stupore, è poi l’ammontare vertiginoso dei suoi debiti; né sono passati sotto silenzio i molti espedienti, variamente coronati dal successo, di cui si serve per sfuggire ai creditori o rinviare a tempi migliori i pagamenti dovuti. Di lui si raccontano gli aneddoti più strani (in gran parte, è vero, desunti dai trafiletti agro-dolci dei piccoli giornali parigini di varietà) di nascondigli, di furti, di aggressioni notturne, di improvvise fortune, di sorprendenti offerte matrimoniali. Su questo capitolo, invenzioni ed esagerazioni a parte, non pochi sono comunque gli aspetti autentici della sua segreta vita sentimentale che riescono a trapelare. A Torino c’è chi (come il marchese Felice Carron de Saint-Thomas) conosce il legame affettivo che unisce Balzac alla contessa Guidoboni Visconti e a Milano non lo ignora forse nemmeno un altro amico, il principe Alfonso Serafino Porcìa. Sempre a Milano, Cesare Cantù (che pure non appartiene al gruppo dei sodali italiani del romanziere) può, nel maggio del 1837, comunicare al Tommaseo, a Parigi, che Balzac stesso gli avrebbe confidato la correttezza dei rapporti con quella signora (Caroline Marbouty) che l’aveva accompagnato l’anno prima a Torino e che i Piemontesi si ostinavano a credere esser George Sand. Nel luglio 1843, non appena lo scrittore parte per raggiungere Eva Hanska a San Pietroburgo — il conte Venceslao Hanski essendo uscito da più di un anno e mezzo dalla scena del mondo – la stampa veneziana, milanese (e, successivamente, quella napoletana) dà notizia del viaggio e vi ricama ironicamente sopra. Tre anni più tardi, nel 1846, un parente italiano della contessa Hanska, Michelangelo Caetani, avrà l’occasione di incontrare la coppia a Roma, di frequentare assiduamente il romanziere e non solo di intrattenersi con lui di argomenti storici, letterari ed artistici italiani, ma di rendersi conto della natura del vincolo sentimentale che lega Balzac alla cugina polacca. Inoltre, allorché verso la fine del 1847 (lo scrittore è già ritornato in Russia) cominciano a circolare a Parigi le prime voci di un imminente matrimonio fra Balzac ed una ricca vedova, gentildonna «alemanna», i giornali italiani si affrettano a raccogliere l’eco di tali notizie che, più insistentemente, si diffonderanno e saranno rettificate nel 1848 e nei primi mesi del 1850.

  Alla morte, infine, dello scrittore, i numerosissimi necrologi pubblicati in Italia abbonderanno di particolari concernenti la biografia del romanziere, dalla rievocazione degli anni di collegio a Vendôme agli oscuri e difficili inizi parigini; dalle prime catastrofiche esperienze tipografiche a quelle letterarie dei romanzi di giovinezza; dalla contrastata conquista della celebrità (raggiunta trionfalmente presso il pubblico, negata, invece, negli ambienti della cultura ufficiale, onde non mancheranno allusioni all’ingiusto rifiuto dell’Accademia francese) alle gioie del matrimonio, alle soddisfazioni dell’agiatezza economica, perdute non appena raggiunte.

  In sintonia con le risonanze numerose della biografia di Balzac che si ripercuotono in Italia, la vita intellettuale dello scrittore è di comune notorietà al di qua delle Alpi. Il suo instancabile orario di lavoro, l’opera incontentabile di lima a cui sottopone i suoi manoscritti sono a notizia di tutti, e di Balzac non si parla solo dell’opera narrativa, ma anche di quella dell’autore drammatico e persino del saggista critico. Della prima si conoscono bene e si discutono oltre i romanzi della Comédie humaine che non sono stati tradotti in italiano, anche i racconti minori estratti dai Français peints par eux-mêmes e dalla Vie privée et publique des animaux, della seconda si recensiscono a lungo Vautrin e Les Ressources de Quinola mentre compagnie drammatiche italiane mettono in scena Paméla Giraud, della terza si segue con cura l’attività della «Revue parisienne».

  Giova poi aggiungere qui una considerazione d’ordine sociale che è di notevole rilievo. Alla conoscenza, alla diffusione e alla valutazione dell'opera balzacchiana concorrono persone della più diversa formazione intellettuale e appartenenti a ceti i più lontani fra loro. Taluni scrittori italiani, prosatori o poeti, fra i più grandi o i più in vista di questi decenni, si confondono con una folta schiera di giornalisti e di pubblicisti, redattori noti ed oscuri, collaboratori professionisti o occasionali di riviste e di giornali di numerose città della Penisola; e agli uni ed agli altri si uniscono patrioti impegnati, politici sospettosi e, soprattutto, membri di quel patriziato che, durante i viaggi al di qua delle Alpi di Balzac, lo ha accolto con calore ed ha stretto relazioni di amicizia con lui. [...]. Intanto, cominciamo col fare i nomi di quegli esponenti della cultura italiana, siano essi di primo o di rango inferiore, siano ancor oggi famosi o siano stati già dimenticati, che parlano, discutono, scrivono sul romanziere francese.

  Accenniamo solamente di sfuggita a Manzoni (che pure incontrò Balzac e lo giudicò in un ristretto cerchio di familiari e di amici) giacché il suo abituale riserbo lo distolse dal manifestare pubblicamente la sua opinione, ma indugiamoci a ricordare Niccolò Tommaseo, Silvio Pellico, Giovanni Berchet, Giuseppe Mazzini, i fratelli Giovanni e Agostino Ruffini, Massimo d’Azeglio, Cesare Cantù, Pietro Giordani, Atto Vannucci, Luigi Carrer, Terenzio Mamiani, Francesco Dall’Ongaro, Ippolito Nievo, Giovanni (sic; lege: Giuseppe) Rovani. E non dimentichiamo che, in Lombardia, Carlo Ravizza riprende spunti ideologici e situazioni narrative dal Médecin de campagne per il suo Curato di campagna mentre, a Napoli, quell’inesauribile romanziere che è Francesco Mastriani si dimostra grande conoscitore della Comédie humaine, ed un oscuro drammaturgo, Luigi Marta, porta sulle scene – quasi un plagio – tema, avvenimenti, personaggi della Vendetta.

  Fra i poeti italiani – minori quanto si voglia, ma allora rinomati – che celebrano in versi, vernacolari o in lingua, le gesta di Balzac (il più delle volte con intenti giocosi e in tono epigrammatico), elenchiamo i nomi di Giovanni Raiberti, di Gaetano Strigelli, e di Giulio Carcano; di Camillo Nalin, di Temistocle Solera, di Cesare Masini, di Norberto Rosa, di Arnaldo Fusinato, di Giancarlo di Negro, cui si aggiungono gli improvvisatori Giuseppe Regaldi ed Antonio Bindocci. Dei maggiori, solo Giuseppe Giusti alluderà con stizza al romanziere che è coinvolto nella generica condanna giustiana contro tutto ciò che è francese; mentre Giuseppe Gioachino Belli, che, al contrario, si apre con disponibilità alle voci più diverse provenienti dalla Francia, citerà Balzac unicamente per attribuirgli opere che spettano a Philarète Chasles e a Charles Rabou ...! [...].

  Premesso tutto ciò, cosa dire ora del livello critico di questi riferimenti, del vigore intellettuale, della penetrazione interpretativa che li contrassegna?

  Anche qui, il discorso non si discosta molto da quello già fatto per le traduzioni. Se, dal calcolo del numero dei giudizi e dalla indicazione generica dell’abbondanza di notizie intorno a Balzac, passiamo ad una analisi approfondita del loro significato e pregio letterario, dobbiamo confessare ancora una volta che il sentimento della delusione è quello predominante.

  Già, una grande parte delle cose che si scrivono su Balzac è di natura superficiale, riguarda fatti esteriori di poco o di nessun conto per una efficace valutazione dell’uomo e dello scrittore. Quando l’informazione non è fondata su aneddoti inventati e su indiscrezioni prive di autenticità, e, come tale, è pura maldicenza o gratuita malignità, essa s’arresta così sul piano di un pettegolezzo senza gravi conseguenze, ma anche senza alcuna incidenza critica.

  Poi, Balzac diventa spesso un pretesto per polemiche che lo concernono a torto, o solo in parte, ed è preso a bersaglio di giudizi semplicistici, privi di serietà e di oggettività. Vogliamo riferirci agli attacchi compiuti in nome di quello spirito nazionalistico italiano (sempre forte in ogni età, e più forte che mai in un periodo come questo, penetrato di rivalse antifrancesi), il quale prende di mira lo scrittore accusato di diffamare, nei suoi romanzi, il valore degli Italiani e colpevole di non aver saputo apprezzare, nel corso dei suoi soggiorni fra noi, le grandezze letterarie ed artistiche del nostro paese. Questa ventata di un nazionalismo provinciale e deteriore colpisce, duramente e a più riprese Balzac, soprattutto nel Lombardo Veneto, lungo il 1837, ma continua a soffiare anche altrove e negli anni successivi.

  Pensiamo, in particolare, al libello di Antonio Lissoni sulla Difesa dell’onore dell’armi italiane oltraggiato dal signor di Balzac nel quale l’autore delle Marana è denunciato come reo di aver offeso gli ufficiali italiani combattenti al servizio di Napoleone in Ispagna; e ricordiamo l’eco prolungata che il volumetto del Lissoni ebbe, quasi sempre a maggior odio dello scrittore francese.

  E ricordiamo l’articolo (velenoso se non fosse così maldestro) di Tullio Dandolo uscito qualche settimana prima, a Venezia. Qui, le armi cedevano alla toga, ma la violenza dell’accusa cambiava di campo, non di asprezza. Mancando l’occasione di rinfacciare a Balzac le sue colpe contro l’Italia militare, gli si rinfacciavano quelle contro l’Italia letteraria. E, complice un giudizio conviviale (infelice, forse, ma non assurdo) espresso dal romanziere francese sui Promessi sposi, si sottolineavano la sicumera tutta francese del suo giudizio, la sua incapacità morale ed estetica di apprezzare il capolavoro di Manzoni (ed anche quelli ritenuti tali di Grossi e d’Azeglio ...).

 A Balzac colpevole di non tenere in debito conto le glorie patrie cisalpine, militari e civili, si addossa altresì un altro crimine più grave e più generale. Quello di lesa-moralità che incita il narratore a descrivere una società grondante corruzione, rotta ad ogni vizio, disposta ad ogni compromesso; ad introdurre avvenimenti scandalosi; a mettere in scena personaggi intrisi di male.

  Lo scrittore diventa così la bête noire contro la quale bisogna combattere, in nome dei principii che garantiscono la sopravvivenza del vivere civile, una sacrosanta crociata. I giornali modenesi sono quelli che si distinguono di più nel promuovere una tale campagna e nel lanciare a Balzac ingiurie ed insulti, ma numerosi sono anche altri giornali di altre capitali italiane o di provincia che, sia pure con minore violenza dell’«Amico della gioventù», della «Voce della verità», del «Foglio di Modena», si fanno eco del grido di dolore che si leva dai buoni costumi conculcati dal cinismo del signor di Balzac. E dispiace dover ascrivere, fra queste voci di condanna. quella di Giuseppe Mazzini, sebbene proclamata in nome di un ideale, quasi religioso, di patriottismo e di austerità individuale. Altrettanto risolute sono le censure morali del Tommaseo e di Cesare Cantù; esse ci appaiono tuttavia meno dolorose perché dettate, nel primo, da una abituale mordacità, nel secondo, dalla pressione di una inintermittente ed ombrosa saccenterìa.

  Né basta. Gli accesi dibattiti contro il Romanticismo che esplodono in Italia all’inizio della Restaurazione e si prolungano fino alla caduta di Luigi Filippo, nel fare d’ogni erba un fascio degli avversari veri o presunti, non esitano a chiamare in causa anche Balzac e collocarne l’opera nella corrente novatrice, caratterizzata dal più sfrenato disordine intellettuale.

  Ad opera dei fautori della tradizione italiana, in nome del rispetto per la misura, l’equilibrio, il buon gusto, i romanzi dello scrittore francese diventano così oggetto di una valutazione tanto negativa quanto ingiusta. Fra approssimazioni ideologiche e confusioni storiche, Balzac è considerato da costoro un pericoloso rivoluzionario che, con altri esponenti della più recente scuola francese, si compiace di riprodurre scene terrificanti di orrori, di delitti, di sangue, di porre in primo piano personaggi socialmente traviati, ribelli o ex-lege che siano, di dipingere, con la tecnica dei colori forti, un mondo agitato dalla irrazionalità delle passioni.

  Naturalmente, queste non sono le uniche voci che risuonano in Italia su Balzac. Il concerto è fortunatamente più vario e, nell’orchestra, si distinguono di tanto in tanto esecutori più abili e di tocco più sicuro. Le accuse mosse a Balzac di disprezzare l’Italia militare, letteraria ed artistica, trovano uditori pronti a ribatterle e a giudicarle una montatura; i «classicisti» si scontrano con chi, testi alla mano, può stabilire le leggi del vero dimostrando quanto i modi della creazione letteraria balzacchiana siano diversi da quelli, per esempio, di Hugo e di Dumas; i «moralisti» si trovano di fronte a spiriti più tolleranti o più acuti che, anziché vedere nel romanziere il complice di una società degradata, fatua o colpevole, fanno di lui l’indagatore spietato ed il giudice impassibile di essa.

  Penetrando col bisturi del chirurgo nelle pieghe segrete del cuore umano, scoprendone ogni più inavvertibile battito — essi osservano — Balzac ricerca nei singoli individui, e nella società di cui uomini e donne d’ogni classe fanno parte, la verità. Che questa verità sia aspra e che distrugga miti cari e rassicuranti; che essa segni il tramonto delle illusioni più poetiche della vita è un fatto doloroso, ma che non dipende dal narratore. È un fatto vero, e ciò basta; ed è, anzi, un merito di lui averlo scoperto ed averlo denunziato senza pietà.

  Fra questi critici, più sereni e più avvertiti, qualcuno va anche oltre nel riconoscere i meriti di Balzac: costui non solo è giudicato lo specchio in cui si riflettono nitidamente i costumi della società francese negli anni dell’Impero, della Restaurazione e della Monarchia di luglio, ma è addirittura considerato, nella condanna che implicitamente traspare dalla spietata raffigurazione, la coscienza morale di essi.

  Balzac osservatore acutissimo del mondo che lo circonda, uno degli ingegni più splendidi dell’età nostra nella rappresentazione del reale: è questa per alcuni critici italiani (pochi, purtroppo, è vero) una definizione che fra tante polemiche extraletterarie, fra tante incomprensioni, fra tanti assurdi moralismi, riesce comunque a farsi strada fra noi, dal 1830 al 1850.

  Ancor più interessante è tuttavia un’altra definizione di cui troviamo la prima formulazione in un necrologio (peraltro mediocre) dello scrittore, redatto da Filippo Busoni, il 7 settembre 1850, per il «Cosmorama pittorico», giornale milanese: Balzac che «s’inebria del proprio miraggio», che «ha sintesi d’uomo allucinato», che «cede a visioni da sonnambulo». Isolata, inserita in un articolo di scarso piglio critico, e per quanto maldestramente formulata, questa definizione merita un accenno particolare: essa, infatti, si pone nella prospettiva luminosamente fissata da Baudelaire, e anticipa tutta una interpretazione giustamente cara agli esegeti più recenti della Comédie humaine. [...].

 

 

  Pierre Citron, Introduzione, in Honoré de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane ... cit., pp. IX-XLV.

 

  Il saggio introduttivo di Pierre Citron al romanzo balzachiano è preceduto dalla seguente nota:

 

  Honoré Balzac (il «de» comparve sul frontespizio dei suoi libri dopo il 1830) nacque a Tours, da famiglia borghese originaria del Mezzogiorno, il 20 maggio 1799 e morì a Parigi il 18 agosto 1850. Troncati nel 1819 gli studi di giurisprudenza e la pratica presso un notaio parigino per darsi alla letteratura, per dieci anni compose solo romanzi di carattere popolare, mentre tentava imprese editoriali dall’esito disastroso e cominciava così a contrarre quei debiti che non sarebbe riuscito a sanare in tutta la vita.

  La sua vera nascita letteraria è del 1829 con Les Chouans. Quattro anni dopo concepì il proposito di collegare i personaggi dei suoi romanzi in modo da costruire una «società completa». Il titolo della sua opera smisurata avrebbe dovuto essere Études de moeurs au XIX siècle, e gli studi sarebbero stati ripartiti in Scènes de la vie privée, Scènes de la vie parisienne, Scènes de la vie de province, cui si sarebbe accompagnata una serie di Études philosophiques. Infine, nel 1841 si fermò sul titolo generale La Comédie Humaine, quasi a indicare la moderna e profana vastità di fronte alla Divina Commedia.

  Per la verità, il collegamento dei suoi personaggi fu giudicato dal grande critico Charles Augustin Sainte-Beuve «una delle idee più false e contrarie all’interesse: ossia, far riapparire continuamente, da un romanzo all’altro, gli stessi personaggi, come comparse già note. Nulla nuoce maggiormente alla curiosità che nasce dal nuovo e a quel fascino dell’ignoto che fanno l’attrattiva del romanzo. Ci troviamo, a ogni passo davanti agli stessi volti». Marcel Proust, però, obiettò: «Sainte-Beuve disconosce qui la più geniale trovata di Balzac. Senza dubbio egli non la ebbe subito: qualche parte dei suoi grandi cicli vi si è trovata collegata solo “a posteriori”. Non importa. L’incantesimo del venerdì santo è un pezzo che Wagner scrisse prima di pensare a comporre il Parsifal e che vi inserì più tardi. Ma le aggiunte, quelle bellezze collegate insieme, i nuovi rapporti scorti improvvisamente dal genio tra le parti separate della sua opera che si raggiungono a vicenda, vivono congiunte e non potrebbero più venir separate l’una dall’altra, non sono una delle sue più belle intuizioni? La sorella di Balzac ci ha raccontato la gioia che egli provò il giorno in cui gli venne tale idea; e a me pare altrettanto grande che se l’avesse avuta prima di cominciare la sua opera. È come un raggio apparso d’improvviso, il quale si è posato su varie parti sin allora opache della sua opera, le ha unite, fatte vivere, illuminate; ma quel raggio è pur sempre scaturito dal suo pensiero».

  Sotto il titolo Splendeurs et misères des courtisanes sono raccolti i romanzi Esther heureuse (1839), A combien l’amour revient aux vieillards (1843) e Où mènent les mauvaises (sic) chemins (1844) e altri scritti minori. Chiude il ciclo La Dernière Incarnation de Vautrin (1847). Le Splendeurs narrano la seconda fatale andata di Lucien de Rubempré a Parigi (la prima aveva ispirato le Illusions perdues); la tragedia della cortigiana Esther, redenta e condannata dall’amore; le spericolate avventure del misterioso abate Carlos Herrera (alias Jacques Collin e più noto, già dal Père Goriot, come Vautrin, il forzato evaso). Esther si uccide per vergogna; Lucien de Rubempré per pentimento; Vautrin allora, eterno superstite, pensa bene di passare dalla parte delle forze dell’ordine, tanto delinquenza e polizia si combattono allo stesso modo. Un «giallo» tumultuoso e patetico, traboccante e irresistibile. «Il più grande dolore della mia vita? La morte di Lucien de Rubempré» disse Oscar Wilde, quando non sapeva ancora cosa gli preparasse il futuro. Non si può fare a meno di pensare che, alcuni anni dopo, sarebbe stato lui stesso Lucien de Rubempré.

 

  pp. IX-XXXIX.

I.

 

  Splendori e miserie (abbrevio il titolo), tra tutte le opere che formano La Commedia umana, è quella che ha impegnato Balzac più a lungo: dal 1835, se si considera il momento in cui nasce in lui la figura della protagonista, o dal 1838, se si parte dal primo frammento pubblicato, fino al 1847, data in cui viene portato a termine il lavoro. E inoltre quella che raggruppa il maggior numero di personaggi: 273, secondo il computo di Fernand Lotte – senza parlar degli anonimi. Ed è infine l’unica opera in cui vari protagonisti compaiono già come protagonisti di altri romanzi: Lucien de Rubempré in Illusioni perdute, Jacques Collin in Papà Goriot, Corentin in Gli Sciuani e in Une ténébreuse affaire dove figura anche Peyrade, Nucingen in La Maison Nucingen. Al punto tale che Balzac ha avuto bisogno di creare un unico personaggio di primo piano, cioè Esther Gobseck, e un numero relativamente scarso di personaggi di contorno: i tre guardiani di Esther, il poliziotto Contenson, e i criminali della quarta parte.

  L’azione, pur assai densa, è costruita con chiarezza. Un’ex prostituta, Esther Gobseck, riconosciuta ad un ballo nonostante la maschera, tenta di uccidersi perché il suo passato non venga rivelato all’uomo che ama, Lucien de Rubempré. La salva il protettore di Lucien, Carlos Herrera, un falso prete spagnolo sotto le cui spoglie si può facilmente riconoscere il criminale Jacques Collin, alias Vautrin, che la manda però in una sorta di educandato; restituita in seguito a Lucien, Esther sarà tuttavia obbligata a una stretta clausura, sorvegliata da un temibile terzetto: il cocchiere Paccard, la cameriera Europe e Asie la cuoca. Herrera vuole che Lucien ab- bracci la carriera diplomatica e sposi la figlia di un duca, e ha dunque bisogno per raggiungere i suoi scopi di ingenti somme di denaro. Tenterà perciò di spingere Esther tra le braccia di Nucingen e, aiutato da Europe e da Asie, di sottrarre in vari modi una vera fortuna al vecchio finanziere. All’inizio dandogli la possibilità di ritrovare Esther che ha intravisto una volta, poi convincendolo a pagare per lei debiti in realtà inesistenti, infine per ottenere, dopo una resistenza calcolata, il suo cedimento. Ma Nucingen per ritrovare Esther si è già rivolto a dei poliziotti: Corentin, capo di una polizia segreta, con i suoi subordinati Peyrade e Contenson, mette a punto una serie di operazioni contro Herrera e la sua banda e minaccia di impedire il matrimonio di Lucien. Varie peripezie finiscono con la morte di Peyrade e di Contenson, ma portano anche al suicidio di Esther: non potendo sopportare di essere consegnata a Nucingen mentre ama Lucien, si avvelena proprio quando stava per ereditare milioni di franchi dal suo pro-prozio, l’usuraio Gobseck. La morte di Esther provoca l’arresto di Lucien e di Herrera. Giocato dal giudice istruttore Camusot, Lucien denuncia il suo protettore e poi, tornato in cella, si impicca. Herrera, dopo un attimo di disperazione, si risolleva e getta la maschera. Manovrando abilmente tra Camusot e il procuratore generale Grandville da una parte, e dall’altra alcuni delinquenti ritrovati in prigione, aiutato inoltre da Asie che si rivela esser sua zia, Herrera riesce a far luce su tutta una serie di inchieste e a farsi nominare capo della Sûreté. A grandi linee, questa è la trama dell’opera, in realtà troppo complessa per poterne dare un riassunto dettagliato.

  Se l’azione di Splendori e miserie si innesta su quella di Illusioni perdute, dal momento che segue la carriera di Lucien, le due opere non sono state scritte una immediatamente dopo l’altra e la loro creazione risulta anzi intrecciata. Come in seguito Michelet si butterà nella Storia della Rivoluzione Francese senza aspettare di arrivarci cronologicamente nella Storia della Francia che già aveva in corso – Balzac, prima ancora di raccontare il primo passaggio di Lucien a Parigi e il suo ritorno ad Angoulême, pare quasi aver fretta di affrontare il secondo soggiorno del suo eroe nella capitale, posando subito la prima pietra di questo avvenimento successivo. Il ritorno a Angoulême di Illusioni perdute risulta composto quasi in contemporanea con le manovre messe in atto da Collin per estorcere un milione e mezzo di franchi a Nucingen in Splendori e miserie.

  Un’opera partorita nell’arco di una dozzina d’anni e che si trova ad essere contemporanea di altre cinquanta, gode ovviamente in qualche misura del loro riflesso. Può dunque essere compresa appieno soltanto da un lettore che tenga sempre ben presenti gli altri romanzi e gli altri racconti che hanno progressivamente lasciato la loro impronta nell’opera in corso di elaborazione.

  Dal Papà Goriot Balzac trae Vautrin, conservando al personaggio la sua astuzia, la cinica ferocia, lo spirito di rivolta e il suo modo d’agire preferito: prendersi cura di un giovane, concedergli la sua protezione, per potersi poi servire di lui. Rastignac infatti non poteva più reggere un ruolo simile: indurito dalla morte di Goriot, ha acquistato forza di carattere e non può più essere lo zimbello di Vautrin che ha influenza soltanto sui deboli. Può essere perciò questa una delle ragioni della nascita di Lucien, vero e proprio sostituto di Rastignac, come lui giovane provinciale, di propositi meno fermi, però più brillante e più ricco di fascino. Vautrin tenterà infatti di portare a termine con Lucien il colpo che ha mancato con Rastignac: fargli sposare una ricca ereditiera, cioè una giovane onesta ma poco attraente. Per lei Lucien dovrà rinunciare alla donna che ama, una donna infinitamente più conturbante, vera incarnazione della voluttà.

  In Gobseck (versione del 1835), Balzac comincia a porre i primi tasselli dell’inizio del suo romanzo, che uscirà con il titolo di La Torpille. La correlazione è evidente tra il nome di Esther e quello del suo pro-prozio, l’usuraio Jean-Esther. L’uno e l’altra sono inoltre dotati dello stesso potere magnetico. D’altronde Gobseck quando parla a Berville della sua nipotina, la «bella olandese», precisa che: «Le donne non si sposano mai nella nostra famiglia». È questo l’annuncio che Esther diventerà una cortigiana come sua madre e che la sua vita sarà posta sotto il segno della venalità, cioè di quell’oro che sta al centro di Gobseck e che dominerà parimenti la maggior parte di Splendori e miserie. Nello stesso istante, viene tuttavia da pensare ad un’altra dinastia di cortigiane messe in scena in precedenza da Balzac, quella da cui prende il nome lo studio filosofico intitolato Les Marana (si tratta di una famiglia in cui le donne sembrano non prendere mai marito, come del resto presso i Gobseck, visto che conservano il loro cognome da una generazione all’altra), e più precisamente alla coppia formata da Marana e dalla figlia Juana, ha madre, la cui vita si svolge alternativamente tra il fasto e la miseria, è preda di una violenta passione per «uno di quegli uomini con i capelli biondi, un uomo per metà femmina», una creatura debole: chiara prefigurazione dell’amore di Esther per Lucien.

  La Maison Nucingen, scritta poco prima di La Torpille, fornirà, oltre al personaggio del banchiere, l’atmosfera delle conversazioni dell’inizio e il tema, così profondamente balzachiano, dell’amore divorato dal denaro. In Le Cabinet des Antiques, nel 1839, Balzac mette in scena un affascinante giovane biondo, Victurnien d’Esgrignon, che la sua amante, la bella duchessa di Maufrigneuse, salva dal disonore intervenendo presso il re. La conclusione di Splendori e miserie vedrà lo scacco di un analogo tentativo da parte della stessa duchessa di salvare Lucien. In Casa da scapolo, il cinico Philippe Bridau si serve, come fa Herrera, di una ragazza leggera per entrare in possesso delle fortune di un vegliardo; così Bixiou, con una spiata, manda a monte il matrimonio di Philippe con Madame de Soulange, proprio come una lettera anonima di Corentin impedisce quello tra Lucien e Clotilde de Grandlieu. Vero è tuttavia che Balzac, probabilmente, concepisce l’idea di Splendori e miserie prima di quella di Casa da scapolo, e che può dunque trattarsi non tanto dell’influenza di un’opera sull’altra, quanto piuttosto della proiezione in entrambi i romanzi di una analoga situazione.

  Balzac non soltanto si ricorda dei propri romanzi ma anche di quelli degli altri, e non esita ad attingervi. Secondo Antoine Adam il rapimento di Lydie Peyrade spinta alla prostituzione, viene probabilmente da Mémoires d’un forçat di Raban e Marco Saint-Hilaire (1828), mentre l’asportazione per via chirurgica del «marchio» del forzato deriva invece da Julien ou le Forçat liberé di A. Ricard (1827). Due episodi sembrano infine tratti dalla Certosa di Parma che Balzac tanto ammirava. L’alternativa proposta da Esther a Nucingen: amica per sempre o amante per una sola volta, è la stessa che la Sanseverina aveva offerto a Ranuce-Ernest V; simile è anche la conclusione: per paura di sembrare stupidi, i due uomini scelgono la seconda soluzione perdendo così per sempre la donna desiderata: la duchessa va volontariamente in esilio, la cortigiana si avvelena. D’altronde, Anne-Marie Meininger ha notato che la scena in cui la contessa di Serizy brucia il verbale dell’interrogatorio redatto da Camusot, prova schiacciante contro Lucien, corrisponde a quella in cui la Sanseverina getta nel fuoco le prove raccolte dall’ufficiale di giustizia Rassi contro Fabrizio.

 

II.

 

  Splendori e miserie si presenta come il seguito di Illusioni perdute. Introducendo verso la fine di Illusioni perdute il personaggio di Carlos Herrera, Balzac rafforza infatti il legame tra le due opere. Mentre Lucien fornisce l’elemento di continuità tra l’una e l’altra. Eppure la sua situazione resta nei due romanzi profondamente differente. In Illusioni perdute Lucien agiva, spinto dall’ambizione e dalle sue speranze. Pur se influenzabile e debole di carattere, dimostrava infatti di possedere una certa volontà e un certo senso di responsabilità: l’arte significava per lui la più alta aspirazione dell’uomo. Era poeta e romanziere, e Balzac si spinge fino a sottoporre i suoi poemi al giudizio dei lettori. In Splendori e miserie la personalità e l’indipendenza di Lucien sono scomparse. Non pubblica più nulla, non scrive più, ha rinunciato a ogni forma di vita letteraria. Se si fa chiamare poeta, è ormai soltanto per abitudine. Nel momento in cui sta per uccidersi, sogna. Ma è una rêverie che non prende forma alcuna. Lucien esiste soltanto in superficie. In lui non restano più tracce di passione o di ambizione attiva. Soli sussistono il piacere e la vanità: Esther come amante e Clotilde come futura moglie. Anche con loro, del resto, egli agisce soltanto secondo le indicazioni di Collin che lo tiene completamente in pugno. Più che un protagonista, Lucien è il centro attorno a cui gravita una serie di personaggi che hanno tutti maggior rilievo di lui: è per lui che Herrera cerca di spogliare Nucingen; è grazie a lui che Herrera tiene in pugno Esther così come le Signore di Sérizy e di Maufrigneuse, e come in seguito anche la giustizia stessa; ed è ancora lui che Corentin attaccherà.

  Jean Pommier insinua che gli amori di Lucien e di Esther derivino da una novella di Musset, Frédéric et Bernerette, uscita nel gennaio del 1838, qualche mese prima della stesura di La Torpille; si tratta degli amori tra una ragazza un po’ allegra di umili origini e un giovanotto di buona famiglia: lei finirà per suicidarsi lasciando al suo amante una commovente lettera d’addio, ed anche lui tenterà di togliersi di mezzo. Ma spesso in Balzac, l’ispirazione, messa in moto da una lettura o da un episodio reale di fresca data, va a risvegliare ricordi più remoti, che da tempo stavano maturando nel subcosciente del romanziere. Qui, Musset non ha per caso risvegliato Shakespeare? Balzac sembra aver avuto in mente Romeo e Giulietta, gli amanti per antonomasia, separati da barriere sociali, che per una serie di accuse, fatalità, messaggi recapitati troppo tardi, vengono spinti entrambi ad un suicidio solitario, prima di ritrovarsi insieme in un sontuoso sepolcro. Questo è anche il destino di Esther e Lucien. Balzac, a Romeo e Giulietta, ci pensava proprio: i cani di Esther portano i loro nomi, e sono gli stessi nomi che vengono in mente a Lucien sul punto di uccidersi.

  Ma Musset e Shakespeare non mettono in scena che due amanti. In Splendori e miserie fa la sua apparizione il tradizionale triangolo formato dalla cortigiana, dall’amato bene e dal ricco protettore: il tema, presente nei prosatori del Rinascimento, è stato ripreso dallo stesso Balzac in La Belle Impéria, con cui comincia la prima decade delle Sollazzevoli istorie. In forma meno salace, lo si può ritrovare in Manon Lescaut come in Falbalas e, per tornare a Balzac, in Illusioni perdute con il terzetto Coralie-Lucien-Camusot.

  In Illusioni perdute Balzac aveva preso se stesso come parziale modello per il ritratto di Lucien. In Splendori e miserie fa morire il suo personaggio ancora giovane, proprio come muoiono — è Pierre Abraham che lo nota – i «fantasmi dello specchio» cui lo scrittore ha prestato i propri lineamenti: Valentin, Lambert, Savarus, Marcas o, in La Vieille Fille, Athanase Granson, anche lui suicida. In Splendori e miserie Balzac si è tuttavia allontanato dalla sua prima ispirazione: Lucien, gaudente e indolente, «effeminato dai (suoi) capricci», come lo definisce Jacques Collin, è divenuto l’opposto dell’ardore e dell’energia che animano il suo creatore.

  Le circostanze della sua morte sono state comunque tali da suscitare confronti con personaggi reali. In Balzac mis à nu, il giudice Lambinet afferma che il romanziere ha pensato al suicidio del giovane amante di Madame de Girardin, un certo Duranton: avvertita da un suo messaggio, la donna si sarebbe precipitata da lui e l’avrebbe trovato impiccato; da qui l’episodio in cui Madame de Sérizy si precipita alla Conciergerie. Lambinet è una fonte sospetta, e Antoine Adam ha dimostrato la fragilità dell’ipotesi. Anne-Marie Meininger si rivela meglio ispirata evocando il suicidio del libraio Sautelet, amico di Balzac, avvenuto il 15 maggio 1830: il giorno stesso in cui Balzac situa la morte di Lucien. Sautelet, debole, indolente, cioè pigro, aveva i tratti «di una bellezza dolce e regolare», nota Armand Carrel nella «Revue de Paris» del giugno 1830. Si era ucciso perché non poteva onorare la propria firma e anche per la rottura del suo fidanzamento con una ricca vedova. Pene d’amore, paura del disonore, debolezza: Lucien si ucciderà per identiche ragioni. Ma sono anche le stesse che motivano la maggioranza dei suicidi; e Sautelet, esattamente come Duranton, non si tolse la vita in prigione. Per quest’ultimo particolare Balzac, come mostra esattamente Antoine Adam, ha forse pensato al suicidio di un assassino, un certo Lesage, che si impiccò nell’aprile del 1839 a La Roquette. i particolari della morte figurano in due opere, entrambe intitolate Les Prisons de Paris, una di P. Joigneaux (1839), l’altra di Alboy e Lurine (1841), che Balzac ha probabilmente utilizzato.

  Di fronte a Lucien, Esther, l’unica tra i personaggi principali di Splendori e miserie che non svolge un ruolo importante in alcun’altra opera di Balzac. Ad un primo approccio, Esther appare molto semplice, quasi animale; sembra incarnare il tipo della «cortigiana innamorata» (La Fontaine ha scritto una novella in versi con questo titolo). Eppure è una figura assai complessa, addirittura sconcertante: in lei si assommano una prostituta parigina, un sogno orientale, e un angelo.

  Il personaggio della prostituta, evocato di sfuggita all’inizio del romanzo, prende tutta la sua ampiezza soltanto nell’episodio in cui Esther è costretta da Herrera a riprendere il suo antico stile di vita per sedurre Nucingen. Balzac sembra aver un po’ esitato tra la fille à numéro, che esercita il mestiere in una «casa», la «grisette», piccola operaia dai costumi un po’ liberi, e la ragazza di vita. Le filles à numéro sono quelle su cui c’era la documentazione più ricca. Antoine Adam e Jean Pommier spiegano infatti come Balzac abbia utilizzato il libro di Parent-Duchâtelet, De la prostitution dans la ville de Paris (1836). Lo scrittore se ne serve sia per alcune considerazioni generali -sull’opportunità di concentrare le prostitute in un unico quartiere nelle diverse città, sulla leggerezza delle donne pubbliche, sulla loro mortalità precoce – sia per notazioni sulla sofferenza che provoca in loro la visione di una madre di famiglia, per precisazioni sulla difficoltà che incontrano nel farsi togliere dalle liste, sul loro analfabetismo, sul grande attaccamento di cui danno prova nei confronti dell’uomo che amano, e sulle malattie che possono derivare loro da un’astinenza totale ed improvvisa. Altri elementi derivano dai Mémoires di Vidocq (1828) e da Les Vierges folles di Esquiros (1840). Elementi di Splendori e miserie si ritrovano parimenti in diversi romanzi contemporanei di «costume», spesso assai banali. Una scena all’Opéra apre Une vie de courtisane di Napoléon Landais (1833). In Louisa ou les Douleurs d’une fille de joie (1830), l’abate Tiberge (pseudonimo di Régnier-Destourbet) fa vivere in una casa chiusa la sua eroina che, sistemata poi da un benefattore in convento, ne esce per uccidersi il giorno del matrimonio dell’uomo che ama. Sarebbe tuttavia azzardato prendere simili elementi come vere e proprie fonti. Più verosimile un’idea avanzata da J. Pommier: Balzac avrebbe pensato all’eroina di Marion de Lorme di Victor Hugo (1829), che scrive: «E l’amore mi ha rifatto una verginità». Anche lei infatti, e prima di Esther, è stata rigenerata dall’incontro con l’amore; pur riconosciuta e importunata da giovani «viveurs», cerca tuttavia di celare il suo passato a Didier. Del resto, Balzac in La Torpille cita esplicitamente Marion de Lorme.

  Nella stessa Commedia umana, prima di Esther, vengono messe in scena diverse altre donne venali: cortigiane, come Euphrasie e Aquilina in La pelle di zigrino nel 1831 (faranno di nuovo la loro comparsa nel 1835 in Melmoth réconcilié), o la madre in Les Marana nel 1832-1833; ragazze di facili costumi come Caroline Crochard in Une double famille (1830), o Ida Gruget in Ferragus che, come in seguito Esther, non sopporta di vivere senza il suo amore scegliendo di uccidersi. Anche Suzanne du Val-Noble, in La Vieille Fille (1836), sceglie la stessa strada. E non dimentichiamo la bella Impéria delle Sollazzevoli istorie che, come Esther, si suicida per amore inghiottendo una perla contenente del veleno. A parte questo, nessuna di loro viene davvero messa in cattiva luce. Non si sa molto sui rapporti tra Balzac e questo genere di donne, chiara tuttavia risulta una certa simpatia nei loro confronti.

  Bisogna dunque cercare nella realtà? Secondo la Nouvelle Biographie théâtrale del 1826, c’era una giovane attrice, una certa Mademoiselle Esther, che faceva la comparsa al Vaudeville prima di passare al Gymnase: una biondina intelligente e gentile, ma priva di talento. C’era anche una celebre cortigiana d’alto bordo chiamata Esther Guimont. Ma non ci sono prove che Balzac le abbia davvero conosciute. All’origine, d’altro canto, Balzac come nome aveva pensato non a Esther, ma a Olympe: e subito si pensa a Olympe Pélissier, la celeberrima «demi-mondaine» con cui il romanziere avrebbe forse avuto un’avventura verso il 1830 o il 1831. J. Pommier si chiede inoltre se Esther, rinchiusa e votata esclusivamente al poeta amato, non sia una raffigurazione di Juliette Drouet che, dopo aver condotto una vita piuttosto libera, viveva notoriamente, dopo il 1833, in stato di volontaria semi-clausura per amore di Victor Hugo. Ma forse anche questa è una semplice coincidenza: prima ancora che cominciassero a circolare la notizia e le circostanze di questa relazione, Balzac aveva infatti già creato un’altra sequestrata per amore, Paquita Valdès, l’eroina di La Fille aux yeux d’or, nata all’Avana ma caucasica per parte di madre.

  Ci troviamo ora di fronte ad un secondo aspetto della natura di Esther, che condiziona largamente il tono generale di Splendori e miserie, e al contempo chiarisce alcuni fantasmi erotici di Balzac. Si tratta dell’Oriente, o dell’Asia, due nozioni che almeno parzialmente venivano a coincidere in molti romantici, ed in particolare in Balzac.

  Balzac aveva cominciato a sognare l’Asia da giovanissimo, stimolato dagli interessi del padre per la Cina. All’età di vent’anni, aveva rivolto la sua immaginazione all’idea del suicidio per eccesso di amore fisico, ed è probabilmente in quell’occasione che nasce in lui l’immagine degli amori asiatici e orientali. Se ne ritrova una traccia nel 1830, nel racconto, ambientato in Egitto, degli inquietanti amori tra un soldato e una pantera che si intitola Une passion dans le désert e, più ancora, nel 1832, nel Voyage de Paris à Java uscito sulla «Revue de Paris». Il tema si precisa e si sviluppa in La Fille aux yeux d’or, scritto nel 1834-35, prima di riemergere nel personaggio di Esther. Incontrovertibili coincidenze esistono infatti tra queste tre figure pur tanto diverse esteriormente: una donna giavanese che il narratore di Voyage à Java dice di aver sposata e poi perduta; Paquita, la lesbica dagli occhi d’oro; e Esther. Tutte e tre si vestono di mussolina bianca, hanno lunghi capelli neri e vengono paragonate, successivamente, a belve feroci, serpenti, gazzelle, colibrì. Vivono tutte in un’atmosfera di gelosia. E attorno a loro aleggia l’omicidio, soprattutto in forma di veleno.

  Se la giavanese mantiene in questo trio un ruolo un po’ appartato, Paquita e Esther hanno in comune diversi altri elementi. Sono entrambe eroine di avventure parigine. Generate da un padre di cui nessuno sa nulla – ma di cui nulla può far pensare che non fosse europeo – e da una madre orientale di dubbia moralità, hanno vissuto entrambe amori irregolari. All’inizio della storia sono sui vent’anni, ed incontrano l’uomo cui saranno avvinte da una passione assoluta e cui tenteranno di celare il loro passato. Ma entrambe subiscono, seppure in modo diverso, la stretta tirannica di un essere mostruoso e omosessuale: la marchesa di San-Réal, amante di Paquita, e l’abate Carlos Herrera. Demoni che le affidano a mani estranee che non esiteranno a ricorrere al coltello: il mulatto Christemio per Paquita, Paccard il piemontese per Esther. La madre di Paquita, la vecchia Concha, trova un corrispettivo nel personaggio di Asie. Due creature malvagie dagli occhi di tigre: la prima georgiana, l’altra giavanese (almeno nella versione del 1843, prima che Balzac pensasse di farne la zia di Jacques Collin).

  Esther, più precisamente, è ebrea. E con ciò rinvia ad altre due sconvolgenti bellezze della Commedia umana. Pauline Salomon de Villenoix, la fidanzata di Louis Lambert, e, in modo ancora più diretto, la Coralie delle Illusioni perdute, come lei appassionata amante di Lucien fino alla morte. D’altro canto, la lettura di Fortunio, un romanzo breve di Gautier del 1837, ambientato a Parigi ma in un contesto orientale, può aver suggerito a Balzac qualche dettaglio supplementare, come l’episodio del veleno, di cui la cortigiana innamorata, prima di prenderlo, prova gli effetti sul suo animale favorito. Ma l’unità del personaggio non è certamente totale. Per quanto riguarda Esther, come anche nel caso di Paquita, si assiste addirittura ad un curioso mutamento: è a volte bionda, a volte bruna. Come se in lei fossero presenti sia l’Europa che l’Asia.

  D’altronde Balzac sovrappone alle due figure dell’orientale e della parigina, quella, seppur meno insistita, dell’essere angelicato, la cui natura ideale bilancia la doppia sensualità della cortigiana e dell’asiatica. Esther, per l’assoluto che porta in sé, per lo spirito di sacrificio da cui è animata, risulta illuminata da un riflesso di Séraphita, il personaggio di serafino nato quasi contemporaneamente a lei. Vanno in tal senso la sua permanenza in convento, la conversione di cui parla nell’ultima lettera a Lucien, il passaggio a una fedeltà totale. A più riprese, sia per bocca di Nucingen, sia direttamente dal narratore, viene evocata a proposito di Esther la Bibbia, libro sacro e al tempo stesso orientale, e l’Esther biblica fornisce infatti al banchiere l’occasione per lanciarsi in grandi slanci lirici. Balzac ha tentato in tal modo di conferire un carattere sublime al suo personaggio: l’angelo Esther contrapposto al demone Herrera.

 

III.

 

  Nucingen, come Esther, fa la sua comparsa soltanto nelle prime due parti del romanzo. E la sua figura è prima di tutto quella del vecchio innamorato. Ma quando Balzac, nel 1843, scriveva le pagine in cui è presente il finanziere, aveva già delineato il piano generale dei primi volumi dell’edizione Furne, ed anzi cinque ne erano già usciti. Sapeva che La Maison Nucingen doveva figurare nello stesso volume di Splendori e miserie. Leggendo la seconda stesura, bisogna dunque tenere ben presente la prima. In Splendori e miserie Nucingen risulta connotato come finanziere soltanto grazie a rapidi tocchi e allusioni. Il suo cinismo e il suo carattere spietato emergono con chiarezza nel modo in cui schiaccia Falleix. Ma le dimensioni del suo potere non emergono clamorosamente, a meno che il lettore non si ricordi che Nucingen ha costruito la sua fortuna su tre fallimenti, due veri e uno falso, e che ha mandato in rovina centinaia e forse migliaia di persone. Qui Nucingen è un personaggio comico, anche se talvolta con qualche tratto patetico. Ma la sua comicità acquista il suo vero senso soltanto quando ci si ricorda che questo vecchio grottesco è, al tempo stesso, uno degli uomini più potenti di Francia.

  I possibili modelli del banchiere Nucingen sono stati già presi in esame nell’introduzione a La Maison Nucingen; e non vorrei più tornarci sopra. I finanzieri spiumati dalle loro amanti non offrono modelli abbastanza caratterizzati da poter essere ricordati. Certo si diceva che il banchiere tedesco Hubbard fosse stato mandato in rovina da Marie Bonaparte-Wyse, nipote di Napoleone, che aveva come amante del cuore un conte Potocki: Balzac allude a questo triangolo in una lettera del 15 luglio 1834 a Madame Hanska; ma il rapporto resta vago. Più certo invece è il fatto che Balzac, come nel caso di un altro vecchio libidinoso, il barone Hulot, creato in La cugina Betta tre anni dopo, proietta in Nucingen alcune delle ansie e delle inquietudini che gli erano proprie. Nel maggio del 1843 erano otto anni che non vedeva Madame Hanska. E pensava al matrimonio: il signor Hanski era morto alla fine del 1841. Ma l’attesa e la lontananza lo rendono inquieto, lo testimoniano le lettere. Come nel 1842, quando aveva creato il vecchio Rouget in Casa da scapolo, pensa ormai forse di non poter più essere un amante per la donna che ama.

  Malgrado il suo potere, Nucingen è solo uno strumento, come Lucien e Esther, nelle mani di Collin, alias Vautrin, alias Herrera. In Papà Goriot, come ricorda P.-G. Castex, Vautrin faceva riferimento a tutta una serie di modelli. Per intanto, non si ispirava affatto a Vidocq, visto che Vidocq costituiva già il modello di Gondureau, il capo della polizia. Quanto piuttosto a due celebri forzati evasi e nascosti sotto falsa identità: Pierre Coignard, pseudo conte di Saint-Hélène, e Anthelme Collet. Alcuni dei suoi aspetti avevano anche una probabile origine letteraria: il nipote di Rameau, in Diderot, disprezza la società e manifesta opinioni feroci sulla lotta per la vita e il potere dell’oro; Gaudet d’Arras, in Le Paysan perverti di Restif de la Bretonne, è un cinico e radicale corruttore della gioventù. Parecchi romantici avevano esaltato il masnadiere, ribelle a tutte le leggi: lo si ritrova in Schiller, Scott, Byron, Nodier, Hugo. Le Yaouanc ha sottolineato vari punti in cui Herrera si avvicina al Melmoth di Maturin, per i suoi interventi che modificano il corso della vita altrui, ed anche per la sua stessa vulnerabilità: la giustizia lo smaschererà servendosi del suo amore per Lucien, esattamente come l’Inquisizione si illudeva di tener Melmoth in suo potere attraverso la donna che amava. Balzac stesso aveva incentrato su Argow il pirata due opere giovanili, Le Vicaire des Ardennes e Annette et le criminel. E soprattutto, nella Storia dei tredici, aveva creato Ferragus, forzato evaso dalle innumerevoli identità, capo di una società segreta, che ama appassionatamente sua figlia. Il nome di Herrera è imparentato con quello di Ferragus: entrambi contengono l’idea del ferro; Herrera, d’altro canto, dichiara apertamente la sua volontà di essere, nell’interesse di Lucien, «come una sbarra di ferro». Il suo nome, in spagnolo, suona quasi come «herrero», che vuol dire fabbro. Egli forgia le anime duttili delle creature deboli che asservisce (Lucien, Calvi, La Pouraille, Biffon, Esther); e già nelle Illusioni perdute diceva di «modellare» o di «plasmare» gli esseri a suo talento. Bisogna ancora aggiungere, tuttavia, che uno zio della contessa Merlin, una gran dama che Balzac conosceva, si chiamava O’Farryl y Herrera, e inoltre che nelle sillabe del nome di Carlos Herrera, si possono ritrovare le sonorità di Bagos de Férédia, lo spagnolo dagli occhi di bragia murato vivo da un marito geloso in La Grande Bretèche, e che sta a rappresentare Monsieur de Hérédia, presunto amante della madre di Balzac.

  Le attività criminali di Vautrin in Papà Goriot figurano soltanto in filigrana: il lettore non ne vede mai il dispiegarsi. Nel 1840, in Vautrin, fanno la loro comparsa dei malviventi che ritroveremo alla fine di Splendori e miserie: Fil-de-Soie, già menzionato in Papà Goriot, Lafouraille, che diverrà La Pouraille. Vautrin lotta contro un poliziotto che è anche lui un ex bandito. E, come in Papà Goriot, e come in Splendori e miserie, protegge un giovane tentando di procurargli, grazie ai suoi maneggi, un ricco matrimonio: Raoul de Frescas, che ha incontrato per strada, come Collin incontra Lucien nelle ultime pagine di Illusioni perdute.

  Nel 1842 al più tardi, Balzac ha già l’idea dell’opera che stenderà nel 1847 con il titolo di La Dernière Incarnation de Vautrin: il grande criminale trasformato in grande poliziotto. Una metamorfosi del genere, del resto, vanta altri esempi nella letteratura romantica. Walter Scott in La Prigione di Edimburgo avava (sic) creato un personaggio di criminale divenuto secondino e poi governatore delle carceri, Daddy Rat, per il quale Balzac dichiara la sua ammirazione nella prefazione al Gars nel 1828. Una figura analoga era presente nel 1840 nell’opera buffa composta da Auger su un libretto di Scribe, I diamanti della corona. Anche gli individui che popolano i romanzi di Eugène Sue possono aver influenzato Balzac che, invidioso del trionfale successo dei Misteri di Parigi, il 31 maggio del 1843, già tutto immerso in Splendori e miserie, scriveva a Madame Hanska in toni divertiti ed amari ad un tempo, ma non senza una certa lucidità: «Sto facendo del Sue bello e buono». Il mostruoso «maestro elementare» si è sfigurato come Collin per sfuggire alle ricerche; il principe Rodolphe assume diverse personalità, conosce bene i bassifondi e protegge una prostituta dal cuore puro.

  Ma, essenzialmente, è a Vidocq o piuttosto alla sua leggenda che pensa evidentemente Balzac quando trasforma il suo forzato nel capo della pubblica sicurezza. Balzac aveva incontrato Vidocq nel settembre del 1834, provava per lui una certa simpatia e, secondo Léon Gozlan, gli piaceva sottolineare di avere un punto in comune con il poliziotto: il naso fesso, segno di un fiuto fuori dal comune. D’altronde Balzac, che un amico chiamava un giorno in una lettera «mio caro Vautrin», ha prestato al suo personaggio diversi suoi tratti personali: le sue velleità d’avventuriero («Oh! poter fare una vita da Moicano!», scriveva nel luglio del 1830 a Victor Ratier), il suo magnetismo, la sua energia, la sua mancanza di scrupoli quando si trattava di condurre in porto un affare importante.

  Ciò nonostante, la figura di Vautrin, in conformità alla tradizione romantica, acquista peso in relazione ad un essere mitico: è un’incarnazione del diavolo. Herrera, quando incontra Lucien, che lo scambia per un vero prete, gli dice: «Donatevi a Dio, come ci si dona al diavolo». Esther domanda al suo amante se Herrera è il diavolo; Lucien, nella sua ultima lettera, dà a Carlos del demonio. E Balzac stesso – non solo dunque i suoi personaggi – impiega il termine «demonio» per designare Collin. La letteratura dell’epoca, in realtà, è piena di personaggi qualificati come «demoniaci» o «diabolici» con una facilità eccessiva. Ma Collin è davvero la posterità di Caino, un «grandioso monumento al Male e alla Corruzione». Collin, cui in Papà Goriot si attribuiva uno sguardo da arcangelo caduto, è davvero demoniaco, poiché, come nota Max Milner, è un essere in rivolta, perché si sostituisce alla Provvidenza, perché agisce sempre nelle tenebre e nel mistero, perché recluta adepti che trasforma in complici risparmiando loro le sofferenze della solitudine. Con Lucien ha indiscutibilmente concluso un patto faustiano; in Splendori e miserie ritornano a più riprese espressioni come «cambiale del diavolo» e «patto infernale». Lucien, come Raphaël de Valentin, a partire dal giorno in cui è diventato proprietario della Pelle di zigrino, non appartiene più a se stesso: in cambio del denaro e del successo ha venduto l’anima al tentatore, ed ha imparato a sue spese, proprio come Raphaël, che non si può mai vincere su tutti i tavoli.

  E forse per il fatto che Vautrin è un diavolo, che Balzac fa di lui un prete, per aggiungere agli altri misfatti la bestemmia e anche per adeguarsi, nello spirito di quell’anticlericalismo che la Congregazione sotto Carlo X aveva largamente alimentato, alla tradizione romantica del prete infernale, illustrata dal Monaco di Lewis, da Claude Frollo in Notre-Dame de Paris, da Magnus in Lélia e dal Cardinal Cibo del Lorenzaccio. La figura del prete, nel romanzo popolare dell’epoca, ha spesso in sé qualcosa di sinistro, e Jacques Collin è reso ancor più inquietante dalla sua sottana, anche se si tratta di un mero travestimento. Il cattivo prete romantico è odioso sia per i suoi tortuosi maneggi sotterranei, sia per la lussuria. Aspetti che Collin riassume entrambi.

  Ma non si può eludere una questione essenziale: la natura dei suoi rapporti con Lucien. A Collin non piacciono le donne e si ritrova invariabilmente a proteggere dei giovani. Alla fine di Splendori e miserie viene presentato, senza possibilità di dubbio, come l’amante di Théodore Calvi il quale, esattamente come Lucien, non ha tendenze esclusivamente omosessuali. Collin è inoltre geloso degli amori femminili di Lucien e di Calvi, fino al punto di odiare Esther. L’amore di Collin per Lucien, nonostante tutto, è molto diverso da quello che prova per Calvi, perché Lucien realizza al posto di Collin tutto ciò che lui non riesce a fare: Collin vive per procura una vita mondana e lussuosa nella persona di Lucien. La sua passione risulta dunque sublimata, o pretende di essere soddisfatta anche sul piano fisico? Balzac mantiene a questo proposito una tale discrezione da giustificare la legittimità della domanda. Ma una frase di Lucien: «Sono io forse il primo ad aver rinunciato all’ambizione per scivolare lungo la china di un amore sfrenato?», a cui Herrera risponde: «Comprendo l’antifona», permette di capire la situazione. Se si aggiunge il fatto che Lucien e Herrera si dànno del tu (cosa che ritorna a tratti nell’ultima lettera di Lucien, dove pure, in linea generale, egli dà del voi al falso abate), e l’affermazione ripetuta della devozione materna di Collin per Lucien, si può concludere, senza ombra di dubbio, con il Le Yaouanc, che nella mente di Balzac il poeta e il forzato erano davvero legati da pratiche omosessuali. Conclusione questa che non avrebbe affatto stupito alcuni amici dello scrittore, come Théophile Gautier e Philarète Chasles i quali, uno nelle Lettres à la Présidente, l’altro nelle sue (sic) Mémoires, attribuiscono apertamente a Balzac tendenze omosessuali. D’altronde, relazioni simili tra un giovane scrittore e un diplomatico straniero che l’ha assunto come segretario non erano ignote alla società del tempo, come riferisce B. Tolley a proposito di Hippolyte Auger e di Sir William Drummond.

  Collin è riscattato dal suo indiscutibile amore per Lucien: lo si vede vivere senza posa per lui e attraverso di lui; alla sua morte si sente mancare, e grida che tutta Parigi gli dovrà render conto di quella vita. La passione si aggiunge così agli altri moventi della sua azione – forza vitale straripante, volontà di dominio, sete di vendetta verso la società tutt’intera. La morte di Lucien distrugge in lui una parte essenziale: egli perde la molla che alimenta la sua rivolta, e salta il fosso entrando nella polizia. Ma è anche per questo suo offrire un’immagine dell’amore maledetto che egli finisce per incarnare tutta la poesia del male che è, come scrive Balzac, «ignobile e grande». Se è l’amore a perderlo materialmente, gli conferisce anche la sua grandezza poetica.

  In verità, questo personaggio è inesauribile per la varietà, per la contraddizione stessa dei simboli che incarna e per i molteplici misteri che sussistono in lui: in nessun passo della Commedia umana la sua figura risulta compiutamente spiegata, ma zone d’ombra continuano a sussistere sia sulle sue origini che sui suoi crimini, ed anche sulle sue motivazioni profonde. In fin dei conti, come sottolinea infatti Pierre Barbéris, la sua azione è priva di efficacia, e ciò che riesce a portar a termine è irrisorio rispetto a ciò che è (come già succedeva per I Tredici). Questo potrebbe renderlo incoerente. E invece, contrariamente ai tanti arcangeli delle tenebre che popolano le opere romantiche, offre una figura perfettamente convincente per il suo spessore, ed anche per la sua stessa volgarità aggressiva e trionfante. Personaggio quasi costantemente inverosimile per la situazione in cui viene a trovarsi, suona costantemente giusto nei suoi atti e nelle sue parole. Come ha notato Thibaudet, Collin è, con Charlus, la figura di maggior levatura di tutto il romanzo francese.

  In Papà Goriot, Vautrin era solo. Con Splendori e miserie fanno la loro comparsa i suoi complici: l’allegro piemontese Paccard, e soprattutto la coppia formata dalla livida e viziosa Europe e dalla crudele avvelenatrice Asie, due delle figure più sconvolgenti tra quelle create da Balzac. Nell’ultimo episodio aggiunto a questa sequenza romanzesca, La Dernière Incarnation de Vautrin, Balzac esplora l’intero mondo del crimine. Lo scrittore ha tratto le sue informazioni in merito da varie opere, citate man mano in nota, la più importante delle quali, come osserva Antoine Adam, restano i Mémoires di Vidocq. Anche se un ruolo particolare, finora non evidenziato, va assegnato al Supplément a questi Mémoires, pubblicato dagli avversari di Vidocq: Balzac vi attinge dilettamente i nomi propri di quasi tutti i suoi criminali, senza farsi alcuna preoccupazione (cosa per lui assai semplice se, come pare, l’opera era stata proibita e ritirata dalla circolazione). A partire da questi nomi, in linea generale, crea personalità e avventure di finzione. Ma in qualche caso si è spinto anche oltre: Ruffard, stando al Supplément, era realmente un poliziotto in combutta con certi malfattori. Balzac, nel mondo del crimine, sembra aver voluto rivaleggiare in particolar modo con Eugène Sue, i cui Misteri di Parigi avevano dipinto – ed è questo senza dubbio il loro merito maggiore – criminali come Martial o lo Scheletro, e carceri come la Force. Tra i due, ovviamente è Balzac ad avere la meglio, per la varietà dei personaggi, e la potenza e la densità delle scene: è infatti riuscito a fare in modo che nessuno dei suoi personaggi – La Pouraille, il Biffon, Fil-de-Soie o Calvi – risultasse stinto in confronto a Collin o ad Asie.

  Di fronte, stanno schierate la polizia e la giustizia. Balzac le colloca su piani ben differenti. Sulla polizia si è documentato grazie a diversi memoriali d’epoca: quelli di Fouché (1824), di Peuche (1815-27), di Desmarest (1833), di Gisquet (1840). In Splendori e miserie le strutture ufficiali appaiono molto di rado, ad eccezione del prefetto di polizia che fa la predica a Peyrade, e di Bibi-Lupin, l’agente malfido, schierato in parte con Vidocq, in parte con Coco-Lacour, suo collaboratore e poi rivale e successore. Tutti gli altri appartengono, almeno per una parte delle loro attività, a una polizia parallela dalle attività marginali e irregolari. Anche se non esitano a ricorrere alle strutture ufficiali, utilizzandone in caso di bisogno le possibilità d’azione, Peyrade e Contenson giocano a fare gli investigatori in proprio. La cosa non desta poi troppo stupore, né all’epoca né in seguito. I poliziotti, qui, sono piuttosto degli agenti segreti.

  Nessuno ha finora indicato un possibile modello di Contenson, la cui carriera verrà precisata, in Madame de La Chanterie (prima tappa di L’Envers de l’histoire contemporaine), come quella di un nobile normanno, mezzo cospiratore, mezzo brigante da strada. Le origini del personaggio di Peyrade, per contro, sono state esplorate da Antoine Adam, ed individuate in un poliziotto realmente esistente, un certo Tourade, specialista in travestimenti (anche se Peyrade era stato creato nel 1841 in Une ténébreuse affaire, dove non si traveste per nulla), ed in un personaggio del romanzo di Lamothe-Langon L’Espion de police (1827), un nobile di provincia con una figlia che adora, ma non per questo meno vizioso e decaduto.

  Il loro capo, il temibile Corentin, è il personaggio che ricorre più costantemente nella Commedia umana: creato nel 1828- 29 in Gli Sciuani, compare ancora nelle ultime pagine di Splendori e miserie nel 1847, resistendo così un anno di più del comandante Hulot di Gli Sciuani, divenuto maresciallo in La cugina Betta nel 1846. Il fatto che nasca già nel primo romanzo firmato da Balzac, attesta il fascino esercitato sul romanziere dalla polizia. Corentin, che non sembra far riferimento a modelli precisi, pur se talvolta si vede anche lui attribuire qualche tratto di Vidocq, è soprattutto una trasposizione, a livello un po’ più basso, di Fouché, di cui è forse il figlio naturale e di cui conserva la profondità, l’astuzia, il cinismo. Uomini del suo genere, senza passioni salvo per la vendetta, fanno certamente orrore a Balzac. E che siano loro a difendere l’Ordine sociale a cui lo scrittore è così affezionato, può esser forse una scelta politica obbligata, ma ciò nonostante costituisce uno scandalo.

  Fortunatamente quest’Ordine protegge anche la giustizia. In merito all’ambiente degli alti funzionari e dei magistrati, Balzac ha forse derivato le sue informazioni da Joseph Lingay, segretario generale della Presidenza del Consiglio e da Justin Glandaz, suo vecchio compagno del liceo Charlemagne e avvocato generale dal 1841, con il quale Balzac riannoda i rapporti (se mai ci fu interruzione, cosa assolutamente non provata), almeno a partire dal 1843. In sua compagnia Balzac visita la Conciergerie il 13 dicembre 1845. Per quanto riguarda i giudici, lo hanno forse aiutato altre due persone: l’amico di gioventù Jean Thomassy, magistrato al tribunale della Seine nel 1828 e giudice istruttore nel 1829; e il suo vecchio padrone, il procuratore Guillonnet-Merville (suocero di Justin Glandaz), giudice istruttore fino al 1838, presso il quale Balzac si recava a cena regolarmente una volta all’anno. Nella sua vita lo scrittore aveva inoltre avuto rapporti, seppure episodici, anche con altri magistrati: Monsieur de Berny tra il 1822 e il 1831; Michelin e Choiselat, parenti di Berny; Galissot nel 1830-32; Durantin e L.-M. de Belleyme nel 1836, Margerand nel 1839; e inoltre con il presidente Mater, di Bourges, possibile modello di Monsieur de Clagny in La Muse du département; e con Raymond Nacquart, il figlio del medico. Ma si sa davvero troppo poco di tutti loro e dei loro rapporti con il romanziere, per poter trarre delle conclusioni.

  Balzac mette in campo figure di alti magistrati che ha volutamente tratteggiato come nobili e piene di dignità. Ma sono proprio assolutamente senza macchia? Non soltanto essi non sono al riparo delle debolezze umane che sono pronti a stigmatizzare negli altri (Esther abita nell’appartamento di Caroline de Bellefeuille, a lungo amante di Monsieur de Grandville), ma la natura delle loro funzioni li obbliga a transigere spesso con la giustizia e con le leggi a profitto della ragion di Stato. Tutti e tre chiudono gli occhi sul reato commesso da Madame de Sérizy quando getta nel fuoco i verbali dell’inter-rogatorio fatto da Camusot a Lucien; e parimenti partecipano o acconsentono alla nomina di un notorio criminale a capo della polizia. Grandville è certo capace di dar prova di carattere e di generosità ma, nonostante le cose che dice e a cui probabilmente crede, non è del tutto disinteressato: des Lupeaulx lo mette a nudo rivelandone l’ambizione di diventare un giorno pari di Francia. Non è così bassamente e scopertamente arrivista come Camusot, ma forse soltanto perché ha già raggiunto un grado più elevato nella gerarchia. Sul piano personale è incorruttibile, ma sta all’interno di un sistema corrotto.

 

IV.

 

  Le relazioni tra i personaggi di Splendori e miserie si delineano attraverso un certo numero di schemi che la vivacità stessa della storia tende a dissimulare, ma che pure costituiscono l’impalcatura del romanzo. Il primo, che si manifesta nelle prime due parti, è formato da Esther e Lucien da un lato e da Nucingen e Herrera dall’altro.

  I destini di Esther e di Lucien vengono costruiti da Balzac in modo rigorosamente simmetrico. Sono un po’ quelli degli eroi dei racconti fantastici, a cui il diavolo offre un’opportunità supplementare di vita, ma che alla fine si ritrovano dannati. In Splendori e miserie le loro esistenze risultano entrambe iscritte tra due punti: da una parte una velleità o un tentativo di suicidio causati dalla rivelazione del loro disonore, e in questa occasione verranno salvati dallo stesso essere diabolico: dall’altra un suicidio reale. Tra questi due avvenimenti, di cui il primo sembra una «prova» dell’altro, nel senso teatrale del termine, essi godono di una sorta di dilazione, occupata essenzialmente da una parentesi di felicità paradisiaca, così perfetta da assumere un carattere irreale, onirico o fantasmatico. Quando questa felicità svanisce, di colpo cadono, Esther come un aquilone, Lucien come Icaro. Si uccidono, per identica ironia della sorte, nel preciso istante in cui stavano per diventare ricchi e mettersi in salvo. I due sono giovani e di abbacinante bellezza, femminea in entrambi i casi. Una bellezza che nel paradiso chiuso che appartiene loro provvisoriamente possono consacrare l’uno all’altra, ma che nell’universo sociale, dal quale non possono in alcun modo astrarsi, sono invece costretti a vendere, Esther a Nucingen e Lucien a Collin.

  Ma è giunto il momento di domandarsi quale sia il senso del titolo del romanzo. Sul piano formale c’è tutta una serie di antecedenti: da Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza di Montesquieu a Servitù e grandezza militari di Vigny, passando per A splendid misery di Thomas Surr, romanzo inglese che non ha alcun rapporto con quello di Balzac per quanto riguarda il contenuto, ma che era stato tradotto nel 1807 col titolo di Splendeur et souffrance (Stendhal lo menziona nel 1810 nel suo Journal come Splendeur et misère). Lo stesso Balzac aveva intitolato nel 1810 Gloire et malheur il romanzo che oggi si chiama La Maison du chat-qui-pelote e, nel 1837, aveva pubblicato Grandeur et décadence de Cesar Birotteau. Ma il titolo Splendori e miserie delle cortigiane non sembra corrispondere esattamente al contenuto dell’opera, visto che Esther, che è poi la sola cortigiana in questione perché le altre (Madame du Val-Noble, Mariette, Lorine, ecc.) sono semplici comparse, muore alla fine della seconda parte. Bisogna dunque ritenere che il titolo abbia un valore poetico e non letterale, come capita talvolta in Balzac? Questa, forse, non è ancora una spiegazione sufficiente.

  Tutto diventa però chiaro se si considera che per Balzac le cortigiane sono due: Esther e Lucien. Può sembrare strano vedere la definizione applicata a un uomo. Eppure, nello stesso anno, il 1843, in modo del tutto indipendente da Balzac, Eugène Sue nei Misteri di Parigi (VI, 6) presenta Monsieur de Saint-Rémy come uno «di quegli uomini che sono per le donne quello che le cortigiane sono rispetto agli uomini; in mancanza di un’espressione più precisa, li potremo chiamare per così dire uomini-cortigiane». Certamente in Sue non si tratta di un omosessuale, ma di un uomo mantenuto dalle donne; ma l’idea della prostituzione maschile la si trova comunque in entrambi i romanzieri, e l’uso del termine «cortigiana» in questo contesto non forza oltre misura il linguaggio dell’epoca. In Splendori e miserie non solo il lato femminile di Lucien viene sottolineato da Balzac a più riprese, come del resto in Illusioni perdute, ma inoltre, a guardar bene, Lucien è la prostituta di Carlos Herrera che «ha asservito il corpo e l’anima di questo poeta così debole». «Ho venduto la mia vita. Non mi appartengo più, sono molto di più del segretario di un diplomatico spagnolo, sono la sua creatura», scriveva già Lucien alla sorella alla fine di Illusioni perdute. E Corentin dirà a Collin, con un gioco di parole ripreso dagli scacchi; «Avete perso la vostra regina». Interessante è l’impiego del termine al femminile. Se Lucien è una regina, perché non potrebbe essere una cortigiana? Tale interpretazione conferisce alla struttura del romanzo una rigorosa simmetria. Gli splendori delle due «cortigiane» sono ad un tempo esteriori (la vita lussuosa) e interiori (la felicità paradisiaca); esattamente come la loro miseria sta al tempo stesso nell’infelicità della loro caduta e nell’avvilimento in cui le precipita la loro condizione.

  Anche Nucingen e Herrera sono simmetrici: sono i protettori delle due «cortigiane». Più anziani, biecamente laidi, entrambi comprano la persona che desiderano, ne causano la morte, e questa morte provocherà in loro un immenso dolore. D’altronde l’amore è l’unica incrinatura di due caratteri inumani e incrollabili. La loro vita è puro calcolo, unicamente fatta di operazioni preparate con grande anticipo. E tutti e due sono ladri: dettaglio che Balzac tiene a sottolineare. Herrera, per convincere Esther a vendersi a Nucingen alla fine della prima parte, le dice: «Quest’uomo è un ladro della grande Borsa, si è comportato in modo spietato con un sacco di gente, si è ingrassato con i soldi delle vedove e degli orfani ...». Esther dal canto suo dichiara al barone: «Avete sgraffignato un bel po’ di milioni. Una puttana e un ladro, quale migliore intesa». Herrera dirà ancora a Grandville che Nucingen «è stato un Jacques Collin legale nel mondo dei soldi». Ma neanche Herrera disdegna le occasioni di guadagno tipiche del banchiere: specula sugli omnibus, «una novità di Nucingen», e mette centomila franchi in buoni del tesoro per non perdere gli interessi.

  Nucingen sparisce dal romanzo contemporaneamente a Esther, alla fine della seconda parte. Da allora in poi, l’unico personaggio che abbia una statura paragonabile a quella di Collin e tale da poterglisi contrapporre diventa Corentin: i due nomi hanno del resto sonorità simili, pur se inventati indipendentemente. Anche Corentin, ma su un altro piano, è simmetrico ad Herrera. Impiega i suoi stessi procedimenti, come lui si circonda di aiutanti di dubbia moralità; anch’egli infine è un giocatore per cui il modo di condurre la partita conta più del risultato. Entrambi hanno in comune con Nucingen il più assoluto cinismo, una totale indifferenza per il bene e per il male, e un generale disprezzo per l’umanità, che comprende soprattutto chi ha in mano il potere. In Splendori e miserie, e anche nell’insieme della Commedia umana, formano un triangolo di uomini che esercitano il loro potere sulla società nel suo complesso (in Balzac artisti, pensatori, scienziati, innamorati, possono anche essere dei personaggi di rilievo, ma sempre tuttavia su un piano individuale). Questi grand’uomini, che regnano sul Denaro, la Polizia, il Delitto, con tutte le complicità che esistono tra i tre poteri, sono i veri padroni della Francia. Loro hanno il potere reale, e controllano la Giustizia, l’Amministrazione, il Governo: Nucingen mette in moto il prefetto di polizia, Corentin fa far quello che vuole ai duchi di Grandlieu e di Navarreins, Collin si fa obbedire da Grandville. A loro nessuno osa opporsi, perché di loro si può sempre aver bisogno. Sono eterni, Balzac non li fa mai morire, né qui né altrove nella Commedia umana. Si collocano nel cuore della storia reale, pur restando appartati dagli avvenimenti – perché l’azione del romanzo, che avviene per tre quarti nei primi mesi del 1830, non preannuncia affatto (a parte rarissime e fugaci allusioni) il rovesciamento di Carlo X.

 

V.

 

  Più di tutti gli altri romanzi della Commedia umana, Splendori e miserie si avvicina al romanzo popolare. Si è ben visto che scrivendolo Balzac pensava a Eugène Sue. Le varie parti sono state composte a lunga distanza di tempo e in modo piuttosto affrettato; Balzac ha proceduto anche a qualche rimaneggiamento, da cui derivano alcune involontarie contraddizioni che sarebbe vano negare: Esther per dare la sua festa d’addio sceglie il giorno successivo al primo ballo dell’Opera (che si tiene in gennaio o in febbraio), e si uccide, due giorni dopo, un 13 maggio. Asie somministra a Collin uno pseudo-veleno, ma alla Force egli dorme come fosse in perfetta salute e la sua malattia comincia soltanto alla Conciergerie. Simili inavvertenze restano comunque rare, mentre non si può dir lo stesso delle inverosimiglianze. Alcune, tuttavia, sono semplici «licenze poetiche», ricorrenti in numerosi scrittori: Corentin che arriva da Peyrade quando c’è anche Herrera, travestito da giudice di pace; ed è ancora in Corentin che si imbatte Lydie Peyrade quando si aggira per le strade impazzita. Altre risultano più fastidiose e le più clamorose riguardano proprio Herrera: un prete-diplomatico che non ha rapporti con altri preti né altri diplomatici, né del resto può averli, eppure grazie a lui Lucien gode della protezione del Grande Elemosiniere e dell’Arcivescovado. E inoltre: come può essere concepibile il fatto che Herrera resti inattivo per quattro anni e, come per miracolo, alla fine di questo periodo, quando ha bisogno di denaro per pagare la terra di Rubempré, Nucingen incontri casualmente Esther e se ne innamori: oppure che Herrera, conoscendo la famiglia di Esther, e sicuramente anche l’esistenza di Gobseck e l’entità della sua fortuna, non pensi a trarre vantaggi da quella parentela, o almeno non provi a lanciarsi su quella pista. Del resto, quando è che ha conosciuto il nome di Gobseck? Il lettore ne viene a conoscenza in Splendori e miserie soltanto al momento in cui Collin lo «rigira» per trasformarlo in Van Bogseck, con un procedimento infantile e del tutto inverosimile. Anche Esther conserva tratti poco credibili: come è possibile che passino soltanto diciotto mesi da quando non sa ancora leggere e scrivere al momento in cui indirizza a Herrera la sua prima lettera, scritta in modo tanto perfetto? E Lucien come può venire a conoscenza di tutto ciò che Esther ha fatto per i tre damerini dell’Opera, dal momento che lei gli ha tenuto nascosto tutto della sua vita precedente?

  Balzac segue le leggi del romanzo popolare. La psicologia dei personaggi è abbozzata a larghi tratti, in modo da non sviare il lettore con eccessive sottigliezze. I colpi di scena sono moneta corrente e li ritroviamo tanto nella costruzione generale del romanzo, quanto all’interno dei singoli episodi: le peripezie dell’inseguimento di Esther da parte di Nucingen, le esitazioni della giustizia a identificare Collin. Brutalità e morte sono la regola. Esther, Lucien, Peyrade e Contenson muoiono di morte violenta. Vengono inoltre evocati tutta una serie di altri omicidi: del vero Herrera da parte di Carlos, dei coniugi Crottat da parte di La Pouraille e di Ruffard, dei possidenti di Nanterre da parte di Calvi (autore in precedenza di altri undici omicidi), del suo amante da parte dell’inglese che sostituisce Esther, cui si deve aggiungere l’esecuzione del pregiudicato Durut, amante di Europe. E ancora, per buona misura, l’apparizione in carne ed ossa del boia, l’attribuzione ad Asie di un legame con Marat (personaggio circondato da una sanguinosa leggenda secondo una tradizione che Balzac segue), ecc.

  Altrettanto degna di nota è la singolare fluidità dei personaggi, che concorre a donare all’opera il suo carattere fantastico. Certo, nei Misteri di Parigi il principe Rodolphe e Murph adottano travestimenti, e Polidori si fa passare per Bradamanti; nel Conte di Montecristo (cominciato dopo Splendori e miserie, ma portato a termine prima), Edmond Dantès, Villefort, Morcef, Benedetto e Cavalcanti cambiano d’identità. Ma non è nulla a confronto del mondo del crimine e della polizia di Splendori e miserie, dove tutti sono in costante mutazione: Collin, di volta in volta, diventa l’abate Herrera, Trompe-la-mort, il giudice di pace, William Barker, Monsieur de Saint-Estève, un militare; Esther, prostituta, ragazza di vita, cortigiana e angelo, è la Torpille, Madame Van Bogseck, Madame de Champy. Asie è Jacqueline Collin, ma anche una malese, Madame de Nourisson, Madame de Saint-Estève, la marchesa di San Esteban e un’anonima baronessa. Paccard si trucca, Corentin anche e altrettanto fanno Monsieur de Saint-Estève a casa di Lucien e Monsieur de Saint-Denis dal duca di Grandlieu; Peyrade è il padre Canquoëlle, Samuel Johnson e Monsieur de Saint-Germain; Contenson è il barone Bryond des Tours-Minières, un facchino delle Halles, un venditore ambulante, un agente di commercio, un mulatto. Bibi-Lupin si traveste da gendarme. Quattro dei criminali evocati nella quarta parte, Calvi, La Pouraille, Fil-de-Soie e La Biffe, sono specializzati in travestimenti e in cambi d’identità. Balzac pensa addirittura di travestire la duchessa di Maufrigneuse da carceriere, ma poi decide di lasciar perdere. Anche coloro che mantengono la loro personalità cercano di farsi passare per quel che non sono (Nucingen porta un parrucchino e si tinge per ringiovanire) o hanno una doppia vita: Monsieur de Grandville mantiene per dicci anni una doppia famiglia, Ruffard e Bibi-Lupin sono al tempo stesso poliziotti e criminali. Anche il linguaggio ne risulta coinvolto: Balzac ci fa sentire con chiarezza ricanto tedesco di Nucingen, quello inglese di Peyrade travestito, quello italiano di Calvi e di Herrera, e il misto di gergo e provenzale di Asie e di Herrera. Per queste ragioni, Splendori e miserie è davvero il romanzo della maschera e dell’astuzia: Lucien, Esther, Nucingen, Collin, Asie, Europe, Paccard, Corentin, Peyrade, Contenson, Louchard, Grandville, Camusot con la moglie, La Pouraille, Calvi e altri ancora manovrano tutti lungo vie più o meno tortuose per conseguire i loro fini. Si tendono trappole: da Bixiou a Esther al ballo dell'Opera, da Corentin a Collin da Peyrade, da Camusot a Lucien. E i segreti vengono traditi da un sorriso sfuggito a Lucien in casa di Nucingen, o a Peyrade travestito.

  Fluidità non equivale tuttavia qui a limpidezza. La materia di Splendori e miserie resta delle più torbide. Contrariamente alle leggi del romanzo popolare, nessun eroe si contrappone ai criminali, ai disonesti, agli ipocriti. Nessuna traccia del principe Rodolphe, dello scalpellino Morel o di Rigolette come nei Misteri di Parigi. Non ci sono Edmond Dantès, l’armatore o il capitano Morel, Haydée o Valentine de Villefort, come nel Conte di Montecristo. Soli, gli onesti Sechard restano isolati nella loro provincia. Tutto succede a Parigi, una Parigi dall’ambiente sociale estremamente semplificato: né lavoratori, né borghesi. Al di fuori della polizia e della giustizia, che formano un mondo separato, si confrontano due soli ambienti: il gran mondo e la malavita, con il «demi-monde» e i «viveurs» che fanno a tratti da tramite. Il resto, tutto cancellato. L’alto e il basso della scala sociale costituiscono, essenzialmente, la materia del romanzo. L’avvicinamento tra questi due poli conferisce a Splendori e miserie un doppio carattere melodrammatico e poetico. Eppure i due ambienti hanno un punto in comune. La loro Parigi, lo dice Collin, non è che fango. Non c’è neanche un personaggio davvero nobile e disinteressato – compresa Clotilde de Grandlieu. La più pura è Esther, una ex prostituta che torna a far la cortigiana con Nucingen. Tutti i grandi personaggi, tutti gli alti magistrati, penseranno soltanto a conservare il loro ordine, cioè i loro privilegi, e si prenderanno gioco della giustizia contribuendo a mettere un assassino a capo della pubblica sicurezza. Balzac mette qui davvero a nudo il cuore umano.

  Quest’opera di svelamento risulta particolarmente evidente in un campo specifico, a costo di allontanarsi dalle norme di un genere popolare che, pur nella sua violenza, conserva sempre un certo pudore: questa volta infatti, in modo molto più esplicito di quanto avesse mai fatto, e di quanto fosse mai stato fatto in un feuilleton o in un’opera destinata al grande pubblico, Balzac mette sotto i riflettori A sessualità, ravvivandone ulteriormente la luce grazie a successive puntualizzazioni. Lo richiedeva il soggetto stesso, si potrebbe osservare. Ma interi romanzi libertini, come il Faublas di Louvet, non contengono un solo termine equivoco, e procedono soltanto per via di allusioni complici e felpate. Non si può proprio dire che sia questo il caso nostro. Balzac evoca con chiarezza la realtà sociale della prostituzione, con le «case» di Madame de Meynardie, di Madame de Nourrisson, della Gonore, e con quella dove viene stuprata Lydie Peyrade; suggerisce l’esistenza di una prostituzione infantile: Esther è stata la «topina» di des Lupeaulx, e Asie dice che un tempo si concedeva «il lusso di farsi i ragazzini». Né lo scrittore sorvola sugli amori omosessuali, spiegando addirittura il significato di un’espressione gergale come «zia». Sono presenti le realtà fisiologiche, nel collegio Esther deperisce per il fatto di essere sessualmente frustrata; Balzac non nasconde che a Corentin non interessano più le donne, e che il sessantaquattrenne Peyrade «fa cilecca». Non più tenuta a freno dalla ragione, la sessualità prorompe con tutta la sua violenza: nel loro stato di follia Lydie e Madame de Sérizy dicono a questo soggetto «cose terribili». Gli stessi organi sessuali vengono evocati, anche se non citati esplicitamente. Non è affatto difficile leggere tra le righe di che cosa parli con tanta audacia Madame de Maufrigneuse nelle sue lettere a Lucien. Balzac spiega la costituzione anormale dei criminali, spiega che in gergo mutande si dice «montante»; evoca Nucingen «eccitato dalle sue pillole» oppure, lo mostra «diventar pallido senza pillole» per effetto di un bacio di Esther. A Nucingen che concupisce Esther fa dire da Asie: «Mi crederete ben capace di convincerla a lasciarvi libero il transito attraverso il Gran San Bernardo», malgrado le difficoltà che presenta il far passare la sua «artiglieria». E da Madame du Val-Noble che spiega i suoi rapporti con il falso inglese: «Scusa, credimi, l’amore per lui è come farsi la barba. Asciuga U suo rasoio, lo rimette nel fodero ...». Non si tratta però qui soltanto di uscire in spiritosaggini gratuite, ma di far vedere come siano le donne che praticano l’amore fisico come un mestiere, e che ne parlano senza imbarazzo. Il sesso prende una doppia dimensione fisiologica e sociologica. Anche se Balzac non gli dà mai peso quando si tratta di un vero amore, come quello tra Lucien e Esther. Perché, se non si lascia mai andare all’angelismo o al platonismo, se per lui, come per Hugo, il vero amore ha per lo più un aspetto fisico, quando ne parla evita comunque le immagini che potrebbero dar fastidio, lasciandole agli amori torbidi o venali. Cosa che rinvigorisce l’impressione, dominante nel lettore, di una generale sporcizia della società.

  La narrazione viene portata avanti con estremo virtuosismo. Balzac, dopo aver fatto ruotare tutto il suo inizio attorno agli amori della coppia Esther-Lucien, sopprime Esther alla fine della seconda parte, poi fa sparire anche Lucien alla fine della terza. Eppure, grazie a Collin, a Asie e a Corentin presenti fin dall’inizio, grazie ai magistrati introdotti nella terza parte, e a una serie di figure di criminali dallo straordinario rilievo, riesce a mantener desto l’interesse fino alla fine senza cadute, e senza mai far dimenticare i due amanti suicidi.

  Nessun elemento disorganico acquista davvero importanza, e l’opera mantiene la sua unitarietà, innanzi tutto grazie all’atmosfera polimorfa che viene via via definita, ed è poi quella del Male a Parigi, incarnato dalla maschera, dall’astuzia, dal sesso. In seguito grazie al personaggio di Vautrin, vera colonna del romanzo. Due movimenti fondamentali corrispondono nel romanzo alle prime due parti e alle ultime due. Intanto nel corso di un’azione che si sviluppa senza posa per Parigi, con inseguimenti, appostamenti, nascondigli, trappole, Collin gioca contro Nucingen e contro la polizia: vincendo il primo round e perdendo il secondo. In seguito, in una trama tutta chiusa all’interno del Palazzo di Giustizia e della prigione della Conciergerie, e che ammette soltanto evasi in fuga, gioca altre due mani contro la Giustizia: perde la prima per colpa di Lucien, e vince la seconda, almeno esteriormente, visto che si salva, libero e promosso, ma a prezzo di quella che era la sua vera ragion d’essere: la Rivolta. Non perderà tuttavia la sua energia: solo la indirizzerà diversamente.

  La progressione del racconto è costante: avvenimenti articolati nell’arco di oltre cinque anni occupano appena un po’ più di un decimo del romanzo; un periodo da sei a otto mesi ne prende circa i due quinti; il resto, ossia circa la metà del romanzo, si sviluppa in quattro giorni, tanto affannosamente pieni che Balzac ha persino avuto qualche problema – lo attestano le varianti – a far rientrare nel quadro tutto ciò che intendeva metterci.

  Questo romanzo cupo e agro è forse il più realistico e il più fantastico al tempo stesso di quelli scritti da Balzac. Le scarse preoccupazioni di verosimiglianza, la forza dei simboli, la diversità e il rilievo dei personaggi, la messa in causa della giustizia e della polizia, la presenza di criminali, l’uso del gergo, il fatto che tutto ruoti attorno a un forzato, lo apparentano a un altro grande romanzo popolare, la cui stesura iniziava negli stessi anni 1846-47, quando cioè Balzac porta a termine Splendori e miserie, ed il cui titolo era inizialmente una delle parole del titolo di Balzac, Les Misères: Victor Hugo in seguito lo avrebbe trasformato ne I miserabili. Ma Hugo ci si mostrava, come sempre, sorretto da un ottimismo di fondo rispetto alla trasformazione della società. In Balzac, al contrario, traspare la disperazione. Questo non lo rende tuttavia meno grande, solo, forse, più moderno.

 

 

  Paola Dècina Lombardi, Mosaico balzacchiano. La donna e la norma nella “Commedia umana”, con una nota di Claude Simon e un’appendice di testi e documenti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1991 («Università degli Studi di Reggio Calabria. Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro», 18), pp. 228.

 

  Struttura dell'opera:

 

  Claude Simon, A propos de Balzac. A Proposito di Balzac, pp. 6-7;

  [Introduzione], pp. 9-11;

  La Commedia umana ovvero «il grosso ‘imbroglio’ quotidiano», pp. 15-34;

  Memorie di due giovani spose: un romanzo laboratorio sulla condizione della donna, pp. 37-55;

  La donna di trent’anni. I conti che non tornano, pp. 59-77;

  Genesi del romanzo, pp. 78-79;

  Le déguisement della principessa de Cadignan: Vermeer in Balzac, pp. 83-114, ill.;

  Les Employés ou la femme supérieure: Balzac e l’amministrazione, pp. 117-141;

  Nota biobibliografica, pp. 143-151;

  Antologia: Dalla Corrispondenza (pp. 155-168);

  Da La Comédie humaine. Avant-propos (pp. 169-178);

  Dalla Physiologie du mariage (pp. 179182);

  Da Mémoires de deux jeunes mariées (pp. 183-190);

  Da La Femme de trente ans (pp. 191-204);

  Da Les Employés (pp. 205-212);

  Documenti: Dal Code Civil (pp. 215-217);

  Napoleone Bonaparte (pp. 218-221);

  Da L’Administration Générale du Royaume de France (pp. 222-225).

 

  Il volume, che presenta in apertura una nota di Claude Simon, raccoglie cinque saggi dedicati a Balzac: in essi, l’A. evidenzia un tratto comune, una prospettiva di analisi ben definita che si esplicita nello studio del rapporto, spesso conflittuale e irrisolto, tra la sfera individuale, le ragioni del singolo, e la norma, sia essa sociale, morale o religiosa. La metafora del mosaico utilizzata da Balzac in riferimento alla sua stessa opera e ripresa, non a caso, da Dècina Lombardi, risulta pienamente funzionale nel rivelare una rappresentazione del reale, in cui “i tasselli spesso corrispondono a episodi frammentari di biografie immaginarie che si completano attraverso i testi”, p. 23) e in cui la modernità (rivoluzionaria) dei contenuti viene bilanciata dall’esigenza programmatica di un “richiamo all’ordine”, come emerge chiaramente dall'assunto espresso nell’Avant-propos, dove Monarchia e Religione si configurano come i princìpi garanti della norma contro la dispersione dei frammenti.

  Privilegiando la figura femminile, l’analisi dei sentimenti quali l’amore-passione e l’amore eterno, l’A. focalizza la sua attenzione sul tema del matrimonio e, di riflesso, su quello della famiglia che, per Balzac, resta comunque sempre il cardine della società. In Mémoires de deux jeunes mariées, ad esempio, Balzac porta il suo interesse su un discorso amoroso problematico, stravolto e ostacolato da “ragioni di convenienza sociale, ma soprattutto (...) dalla difficolta di conciliare sentimento e norma, ideale e reale” (p. 41). Anche nello studio dedicato a Les secrets de la princesse de Cadignan, dove l’interesse è portato sull’influenza di Vermeer e dei pittori olandesi, è implicita l’attenzione per il rapporto tra individuo e norma, così come in Les Employés, dove Balzac denuncia la crisi dell’Amministrazione e dove sono presenti i temi del matrimonio e della famiglia evidenziati nel legame tra il singolo e il sistema di regole e di valori che lo condizionano.

 

  Trascriviamo di seguito alcuni passi tratti dal capitolo: Le déguisement della principessa de Cadignan: Vermeer in Balzac.

 

  [...]. Scritta di getto a Jardies, dove Balzac restò immobilizzato per parecchi giorni a causa di una caduta, Une princesse parisienne che più tardi entrò nella Comédie Humaine col titolo Les secrets de la princesse de Cadignan, [...] viene definita dall’autore “uno dei diamanti della sua corona” da non confondere coi tanti “brillocchi” della sua “bigiotteria” letteraria. Il che dimostra che la novella gli era particolarmente cara.

  La “commedia” inscenata dalla principessa e finalizzata alla conquista del giovane scrittore Daniel d’Arthez, tanto geniale quanto sprovveduto in materia di maneggi amorosi, nasceva da una specie di sottintesa scommessa, e di sfida, tra due amiche. Sullo sfondo c’è la Parigi del 1832 anno in cui, com’è noto, la destra cattolica e gli ultras legittimisti cercano di organizzare un focolaio di rivolta in Vandea. L’aristocratica protagonista del racconto non vi è affatto estranea, ma in un tiepido pomeriggio di primavera, passeggiando con un’amica nel giardinetto del suo appartamento in rue Miromesnil, pensa soltanto ad aprire il suo cuore.

  Ecco come ce la presenta Balzac in apertura di racconto: Diane de Maufrigneuse, sposata al principe de Cadignan che ha seguito la famiglia reale in esilio, dopo una vita piena di avventure amorose e di prodigalità che hanno dilapidato il suo patrimonio, benché ancora giovane si è ritirata dalla vita mondana. Vuole far dimenticare il suo tumultuoso passato e poter riacquistare agli occhi del mondo una sorta di verginità morale in vista del futuro matrimonio del figlio.

  L’amica, più giovane di qualche anno, è Madame d’Espard, “una donna alla moda” che pur di essere l’animatrice di uno dei salotti più ambiti della capitale non ha esitato – come scopriremo ne L’Interdizione – ad abbandonare i suoi figli.

  Le due donne rievocano i loro numerosi amori senza amore. “Tutti gli uomini che ho conosciuto erano senza innocenza, senza grandezza ...” confessa Diane cercando di convincere l’altra che nel suo cuore invecchiato sente un’innocenza che non è mai stata intaccata”. Dunque, nonostante tanta esperienza, c’è sepolto in lei “un primo amore che qualcuno potrebbe ingannare ...”. Di rimando, non senza una punta di malizia, Madame d’Espard le risponde che pur essendo entrambe abbastanza belle per ispirare una passione, non riuscirebbero a convincere nessuno della loro innocenza o della loro virtù. Poi, qualche giorno dopo, per metterla alla prova le propone l’incontro con Daniel d’Arthez, un poeta dalla vita “nobile e pura”.

  Diane de Cadignan riuscirà abilmente a conquistare il giovane ma – conclude maliziosamente Balzac – mentre da questo momento a Parigi non si parlerà più di lei, le pubblicazioni dello scrittore diventeranno sempre più rare.

  Dopo una breve introduzione sulle origini familiari della protagonista e sulle sue abitudini di vita, quelle precedenti molto Racchetate e quelle attuali molto riservate, tutta la novella appare costruita come una serie di quadri, di scene di interni, quasi fossero gli atti di una pièce teatrale. D’altronde, i motivi della finzione scenica, dal travestimento alla recitazione vengono più volte sottolineati. Diane è definita “la più grande attrice del nostro tempo” e la relazione che lentamente avvia con d’Arthez “una commedia” tragicomica “al cui confronto il dramma di Tartufo è un’inezia”. Questa commedia è tanto più un capolavoro, un’opera d’arte”, in quanto per rappresentare “l’idea”, cioè la purezza e la semplicità di una giovane alle prese con un innocente primo amore, e per ottenere “l’effetto” voluto sullo spettatore-interlocutore, la protagonista, attrice e autrice nello stesso tempo, utilizza diverse forme espressive: dalla letteratura alla musica, alla pittura, stravolgendone diabolicamente il fine.

  Per recitare nel suo nuovo ruolo, questo “Don Giovanni in gonnella”, incomincia col fare “un’indigestione intellettuale” di tutte le opere di d’Arthez e di quelle più recenti in campo letterario. Vuole infatti sfoggiare agli occhi della sua preda una grande altura e una tensione interiore verso le cose dello spirito. Ma ancora di più si preoccupa della sua immagine e del “déguisement” più adatto a impressionare positivamente il giovane inesperto. Così, per il primo incontro, una cena in casa di Madame d’Espard, Diane “considerata una delle più brave in fatto di toilette, che per le donne è la prima delle arti, aveva indossato un abito di velluto azzurro con grandi maniche bianche a sbuffo, il vitino in evidenza, una di quelle pettorine in tulle, leggermente arricciata e orlata di azzurro, che arrivava a quattro dita dal collo e copriva le spalle come nei ritratti di Raffaello. La cameriera l’aveva pettinata con dei mazzolini di erica bianca abilmente disposti in quella sua cascata di capelli biondi ...”.

  Se, come informa Balzac stesso, il modello dell’abito ricorda quelli delle donne di Raffaello, e in particolare de La velata, la scelta del colore, l’azzurro con qualche punta di bianco, che evoca l’abbigliamento tradizionale della Madonna, suggerisce una toilette tipicamente virginale. Cosa si poteva pensare di meglio per suggerire l’idea del candore e della purezza di una giovane “divenuta madre senza essere donna” e che più tardi si definirà “vergine e martire”!

  Una volta nel salotto dell’amica, Diane comincia a recitare “con una di quelle pose studiate ... offrendo agli sguardi tutto il profilo del corpo” ma, volendo anche apparire una donna semplice e tutta interiorità, vela i suoi gesti e fa parlare gli occhi. Sa infatti, l’abile attrice, che “tali abili dissonanze insinuate nella musica del suo amore falso o vero, produce seduzioni irrefrenabili ...”. Allora, le poche parole che pronuncia all’orecchio di d’Arthez le “zufola” come una soave musica.

  In occasione del secondo incontro, questa volta nell’intimità del suo salottino, dopo aver fatto ogni giorno varie prove “per scegliere una di quelle toilettes che esprimono un’idea e la fanno accettare attraverso la vista”, Diane opta per una armoniosa “combinazione di colori grigi, una specie di mezzo lutto”. Dopo aver suggerito l’idea del candore, l’attrice vuole ispirare l’idea “di una donna che restava in vita solo per qualche legame naturale, forse il figlio”. Anche stavolta, cosa si poteva pensare di più adatto per rappresentare una verginità martirizzata, una femminilità mutilata, dunque vedova, ma a metà, perché ancora viva e desiderosa di realizzarsi pienamente? Per completare tale ritratto suggestivo, Diane assume la posa di una donna che attende qualcuno con cui ha familiarità. Si fa infatti trovare a scrivere una lettera e, appena vede entrare Daniel, lo mette a suo agio mostrandogli una poltroncina mentre lei finisce la sua corrispondenza. Dunque lo guarda appena e resta al suo posto. È l’ennesima civetteria, e l’ennesimo trucco: proprio mentre introduce l’innamorato nella sua sfera privata lo tiene a distanza attizzandone la curiosità e la gelosia.

  Seguono altri incontri preparati da “letture in gran segreto” e prove di abiti. Ogni volta la principessa sfoggerà abilmente “cicalecci zufolati”, “voci emozionate”, “sguardi pieni di felicità, scrupoli, paura, fiducia, languore, desiderio vago e pudore da vergine”. E finalmente, dopo tanti maneggi volti a rendere ancora più agognata la conquista agli occhi dell’innamorato, arriva il momento “di avvolgere quel grand’uomo nelle liane inestricabili d’un romanzo”. Allora, una sera Diane si fa trovare pensosa, con un gomito appoggiato su un tavolinetto, “la bella testa intrisa della luce della lampada” mentre giocherella con una lettera che ripiega e s’infila nella cintura quando si accorge che il suo ospite l’ha notata sufficientemente per poterne fare argomento di conversazione.

  L’espediente della lettera serve ancora una volta all’attrice per assumere una posa assorta che suggerisce uno stato d’animo intenso e segreto. Stabilito così un clima di intimità con l’interlocutore di cui acuisce per la seconda volta la curiosità, trova il modo di snocciolare, prendendo a pretesto il contenuto di quelle righe, il suo cumulo di menzogne.

  Nei tre autoritratti che Diane de Cadignan propone a d’Arthez, nel déguisement progressivo che sceglie per realizzare il suo progetto, molti elementi concorrono a ricreare quel clima di semplice e serena intimità tipico di molti interni della pittura olandese del XVII secolo che in quegli anni s’andava riscoprendo in Francia.

  Quanto per Balzac fosse importante l’arte figurativa, lo testimoniano le numerose citazioni di opere e artisti di cui La Comédie humaine è disseminata. A volte è un pretesto per sfoggiare la sua conoscenza in materia e arredare le case dei suoi protagonisti con dei capolavori di cui volentieri indica il valore di mercato o il prezzo sborsato per conquistarseli alle aste che, è ben noto, egli stesso frequentava assiduamente. Altre volte, come ha giustamente notato Paul (sic) Laubriet, a Balzac piace trasformarsi in pittore e costruire novelle e romanzi come ritratti o composizioni corali.

  Nella Comédie, il dato pittorico ora serve da spunto alla descrizione, ora suggerisce un’espressione, un atteggiamento, una scena, o addirittura viene utilizzato per esprimere “una tonalità di ordine morale”. Che voglia comunicare l’impressione ricevuta da un’opera d’arte, o rendere più efficace la sua descrizione e accendere ancora di più l’immaginazione dei lettori facendogli vedere ciò che lui stesso vede, Balzac cita essenzialmente quei quadri e quelle sculture che il suo pubblico può facilmente riconoscere. Ne La princesse de Cadignan infatti, accanto a un artista universale come Raffaello troviamo citati due pittori contemporanei che all’epoca riscuotevano un successo sufficiente a farne accogliere le tele al Louvre: Girodet Trioson e Pierre N. Guerin. Nel racconto non troviamo invece un altro tipico procedimento balzacchiano: l’allusione a un genere pittorico che serve per suggerire un’ambientazione, dei costumi, delle fisionomie. È il caso della pittura fiamminga e olandese che Balzac ha associato frequentemente all’idea dell’intimità domestica e della realtà quotidiana.

  Eppure, come già detto, l’atmosfera e molti particolari dei ritratti che di sè la principessa offre a d’Arthèz, richiamano alla mente proprio quella pittura d’interni di cui all’epoca i fiamminghi e gli olandesi erano considerati gli specialisti e alla quale, come già detto, Balzac stesso altrove ha fatto volentieri allusione. Come d’altronde ha utilizzato il motivo della lettera d’amore, uno dei soggetti più praticati da Gabriel Metzu, Gerard Terborch, Gerard Douw, per citare i più noti, i cui quadri proprio in quegli anni venivano riscoperti e rivalutati. Ora, conoscendo la forza di evocazione che Balzac attribuiva alla pittura, non è difficile supporre che ad ispirargli il déguisement della principessa siano state proprio quelle loro figure femminili molto domestiche e pudiche.

  Nei “ritratti” della principessa c’è però una luce così particolare, una intimità così assoluta e nello stesso tempo un miscuglio di sensualità e di pudore virginale, che rende così intenso il messaggio da farci ipotizzare che, oltre ai quadri di genere, abbiano agito sullo scrittore le suggestioni di un artista allora pressoché sconosciuto: Jean van der Meer di Delft, noto anche come Vermeer.

  Se il modello dell’abito, il colore e l’acconciatura della principessa de Cadignan al primo incontro con d’Arthez ricorda i ritratti Jounge vrouw staande voor net spinet (La giovane donna in piedi davanti alla spinetta) e Jounge vrouw aan net spinet (Giovane donna seduta alla spinetta), le sue “pose” ulteriori (mentre scrive la lettera; seduta col gomito appoggiato a un tavolino, sotto alla luce che illumina i suoi capelli; in piedi, nel vano della finestra) e soprattutto le sue espressioni piene di “tenerezza pensierosa”, il suo modo di abbassare gli occhi “allungando le palpebre, con un movimento che rivelava il più nobile pudore”, risentono delle reminiscenze di altri quadri di Vermeer: Het blauwe vrouwtje (La lettrice in azzurro); Lezend meisje bij het venster (La lettrice di Dresda); le due versioni della Briefschrijfter (La dama che scrive la lettera); Jounge vrouw in Dienstmaagd (La donna con la sua cameriera); De liefdesbrief, (La lettera d’amore).

  Potrebbe poi non essere casuale che la protagonista della novella, così attenta alle sue toilettes nell’allestire la commedia, si chiami proprio come il personaggio di un quadro attribuito precedentemente a Nicolas Mäes, e soltanto nel 1907 restituito a Vermeer, il cui titolo francese è La toilette de Diane, dove la dea anziché una vergine dei boschi appare una Venus che si appresta alla sua “caccia” amorosa.

  Allora, come mai Balzac non ha nominato Vermeer nella Comédie humaine? Citarlo, non serviva al suo scopo perché, all’epoca, i suoi lettori non sapevano proprio chi fosse Vermeer. Ma c’è anche un’altra ragione e, per spiegarla, bisogna rifare il percorso di Thoré de Burger e spulciare nei cataloghi di vendita di opere d’arte nei decenni che precedono la stesura de I segreti della principessa de Cadignan. [...].

  Ecco, è proprio in questa confusione, vuoi per ignoranza vuoi per speculazione (i traffici di opere d’arte all’epoca erano così praticati da spingere Balzac a denunciarli più d’una volta) che sta la chiave del rapporto tra l’autore della Comédie e il pittore olandese. [...].

  L’amicizia e il sodalizio intellettuale tra Gautier e Balzac son ben noti, e ripercorrere le scelte, i gusti, le segnalazioni artistiche del poeta di Emaux et Camées, affidati ad articoli e saggi, si scopre che gli autori e le opere da lui segnalati hanno sollecitato anche l’interesse di quel “bon gros porc très plein d’esprit et très agréable a vivre” del suo amico.

  Nel 1839, nei mesi che precedono la stesura de Les secrets de la princesse de Cadignan, i rapporti tra Gautier e Balzac sono molto intensi: in febbraio, l’autore della Comédie progetta di scrivere una pièce teatrale in collaborazione con Gautier; in aprile, gli scrive proponendogli due suoi testi da pubblicare in feuilleton su “la Presse” di cui l’altro dirige la parte culturale; infine, il 2 giugno lo informa della caduta che lo obbliga a letto e lo prega di andarlo a trovare a Jardies. Durante quell’incontro si è parlato anche de La princesse de Cadignan, che Balzac dedicherà proprio a Gautier? Non lo sappiamo, comunque la sensibilità artistica di Balzac, il suo interesse per la pittura fiamminga e olandese, s’era sviluppata e indirizzata già prima di conoscere Gautier.

  Ha appena vent’anni, quando – come testimonia la lettera ad un parente – muore dalla voglia di procurarsi il biglietto d’invito per visitare la Galleria del Conte di Sommariva, celebre per tanti capolavori del Rinascimento italiano e per la pittura fiammingo-olandese. In questa collezione, La lettrice in azzurro andata all’asta nella già citata asta del febbraio 1839, entrò in occasione della Vendita Laperyère del 1825. Ma chissà quante altre volte, divenuto uno scrittore affermato, Balzac dovette aver visitato la Collezione Sommariva, e senza dover faticare per accedervi come ai tempi della soffitta di rue Lesdiguières.

  Più o meno a quegli anni risale la conoscenza di Balzac con Madame Vigée Lebrun, pittrice, moglie in prime nozze di Jean Baptiste Pierre Lebrun che a Parigi possedeva una importante Galleria d’Arte [...] che ha posseduto dei Vermeer da cui sono state tirate delle incisioni [...].

  Ci sono poi da prendere in considerazione le opere di Vermeer che Balzac avrebbe potuto vedere in altre città. A Vienna, dove si reca nel maggio del 1835 per incontrare Madame Hanska, la Collezione Miller von Aicholz possiede De Briefscbrifster, ossia la Jeune fille écrivant una (sic) lettre [...]. Ancora a Vienna, la collezione Czernin tra i suoi quadri conta De Schilderkonst, L’Atelier, dove un pittore visto di spalle ritrae la musa, ossia una giovane donna con un telo azzurro a mo’ di scialle sulla veste bianca, una corona d’alloro sui capelli biondi e, tra le mani, una tromba e un grosso libro. Non è un “déguisement” che ricorda la messinscena della principessa che aspira a diventare la compagna-musa dello scrittore d’Arthez?

  A Marsiglia invece, dove Balzac nel 1838 si reca di passaggio per la Sardegna, in casa della famiglia Dufour si poteva ammirare La dame et sa servante [...].

  Contro queste argomentazioni, portate a sostegno dell’ipotesi che alcune figure femminili di Vermeer abbiano ispirato a Balzac il “déguisement” della principessa de Cadignan, si potrebbe obiettare che avrebbero potuto essere sufficienti, per accendere l’immaginazione dello scrittore, i quadri dei pittori olandesi da lui più volte citati.

  Indubbiamente, come già detto, il tema della lettera d’amore, riferito a una dama che scrive o che riceve una lettera, lo si ritrova spesso con numerose varianti sia in Pieter de Hoog che in Gerrit van Douw, in Metzu e soprattutto in Terborch, il cui gusto e la cui sensibilità pittorica sono più vicini a quelli di Vermeer. E inoltre, a scorrere la produzione varia e assai eclettica di questi pittori, ci si accorge che, benché non citati altri loro quadri debbono aver stimolato la fantasia di Balzac Per esempio, da L’enfant malade di Metzu pare proprio essere ripresa nei minimi dettagli la descrizione della scena in cui, in Memorie di due giovani spose, Renée de L’Estorade disperata tiene tra le braccia il corpo quasi senza vita del piccolo Armand. E ancora, i numerosi ritratti di Van Douw che raffigurano artisti, studenti, astronomi e sapienti immersi nelle loro occupazioni sullo sfondo di stanze affollate di oggetti, ricordano tante figure balzacchiane, non ultimo il Balthasar Claës di La ricerca dell’assoluto.

  Ma ciò che distingue questi pittori da Vermeer è il loro realismo, il gusto della descrizione e il carattere della composizione sempre molto affollata di personaggi, animali e cose. Assai spesso l’architettura e il décor dei loro quadri sono così in evidenza da risultare sullo stesso piano dei personaggi raffigurati. Insomma, nei loro “ritratti” più che la persona singola sono importanti la condizione sociale, il ruolo familiare, l’occupazione, la quotidianità. Quanto alle donne anche se non presentano quella “lourdeur flamande” che dispiaceva a Gautier, e sono «assez polies», esse nascondono i loro capelli in pudiche cuffiette, e dai loro occhi non lasciano trasparire alcuna luce, alcuna emozione. Ad accompagnarle, c’è ora un paggio, ora dei genitori, ora la fantesca e il cagnolino. Insomma, raramente sono sole e guardano con intensità l’interlocutore come fanno le giovani donne di Vermeer. [...].

  Ad avvalorare l’idea di una corrispondenza tra alcuni ritratti di Vermeer e quelli che di sé Diane de Cadignan propone a d’Arthez è poi, soprattutto, l’atmosfera segreta ed ambigua che sentiamo sprigionarsi ugualmente da quegli interni secenteschi olandesi e dal salotto parigino. Come Vermeer nei suoi quadri, Balzac, diversamente dal solito, ne La princesse de Cadignan descrive appena l’ambiente in cui spicca la protagonista, casta e nello stesso tempo sensuale. L’attenzione è tutta portata su di lei, proprio come nei quadri del pittore olandese dove gli interni con la loro sobrietà rivelano l’appartenenza più aristocratica che borghese dei personaggi che li abitano. Vi si stagliano in primo piano le fanciulle in fiore, come le due suonatrici di spinetta, in tutto lo splendore della loro fisicità: i loro capelli biondi sono sempre valorizzati; le loro labbra socchiuse e il loro sguardo intenso esprimono un pensiero, un desiderio amoroso in cui si mescolano freschezza e sorridente malizia; e con la promessa, s’annuncia l’offerta d’amore.

  Come nei quadri di Vermeer, anche negli incontri tra Diane e d’Arthez, il tempo appare sospeso. Conta soltanto l’emozione sprigionata dalla protagonista che agli sguardi e ai gesti affida il suo mondo interiore. Alla dimensione della realtà quotidiana subentra quindi un’atmosfera fuori dal tempo dove la donna, pur nella sua solitudine, appare sovrana per l’energia spirituale che sprigiona, ovvero per la complessità ma anche l’ambiguità dei suoi sentimenti.

  Quanto sia ambiguo il comportamento di Diane de Cadignan, che agli occhi del suo quattordicesimo amante vuole passare per mezza vergine, Balzac non fa che sottolinearlo come d’altronde sottolinea l’ambiguità dell’amore facendo realmente innamorare la principessa dell’uomo di cui, per l’ennesima volta, vuole beffarsi.

  Anche Vermeer nelle sue due suonatrici pare sottolineare l’ambiguità del messaggio amoroso. Alle spalle di quella in piedi raffigura, in due quadri appesi alla parete, una assai simbolica “Cascata” di Allart Everdingen e un “Cupido”, probabilmente di Cesar van Everdingen, che al posto della freccia reca in mano un biglietto; dietro a quella seduta fa apparire invece La cortigiana di D. van Barburen, creando così una sottile allusione all’amore profano contrapposto a quello sacro, virginale, promesso dal sorriso della protagonista.

E la pièce recitata dalla principessa non è forse giocata proprio sul miscuglio di sacro e profano? [...].

  Ora, gli incontri di Diane e di d’Arthez non sono pause cariche di emozione che riscatta, insieme al passato della principessa, anche il suo astuto déguisement?

 

 

  Marco Diani, La révolution dans la forme: l’inscription immatérielle de l’argent chez Balzac, «Stanford French Review», Saratoga, 15-3, 1991, pp. 373-392.

 

 

  Marco Diani, Balzac e Marx di fronte alla burocrazia, «I Viaggi di Erodoto», Milano, Bruno Mondadori Editore, anno 5, n. 15, dicembre 1991, pp. 92-122.

 

  [...]. Per oltre un secolo dopo la sua morte, l’opera di «teoria politica» di Honoré de Balzac è stata in gran parte sottovalutata, incompresa o semplicemente ignorata. Questo disinteresse ha contribuito non poco all’abbandono di alcune delle sue più geniali e profonde intuizioni, che si rivelano oggi, a più di due secoli dalle rivoluzioni francese e americana e dalla creazione degli stati «centralizzati», vere e proprie profezie «scientifiche». Come il suo contemporaneo Alexis de Tocqueville, altro grande «incompreso», mano a mano che il modello di società «democratica e di massa» da essi così profeticamente analizzato si è venuto precisando, Balzac ha ritrovato ascolto e attenzione.

  Il progresso del concetto di burocrazia è strettamente intrecciato con quello della democrazia, ne è in realtà l’altra faccia, e come tale appare molto presto tra le riflessioni di Balzac che ha, in realtà, riscritto durante tutta la sua vita, ampliandolo fino alle gigantesche, eroiche proporzioni de La commedia umana, lo stesso libro, ogni volta ritornando, al di là della molteplicità degli interessi e dei temi apparenti, alla monotona continuità delle sue «idee madri». Egli stesso era ben cosciente della «modernità anacronistica» delle sue idee e del suo metodo d’indagine scientifico e, nullamente preoccupato del suo personale «insuccesso», scriveva senza il minimo imbarazzo ai suoi più convinti estimatori e amici: «Non credo tanto, ai giorni nostri, agli errori letterari dell’opinione pubblica. Sono dunque impegnato a ricercare con me stesso in quale manchevolezza sia incorso ... Il vizio che cerco credo sia nel dato stesso (del libro) il quale racchiude qualcosa di oscuro e problematico che non afferra lo spirito della folla. Avessi parlato unicamente della società democratica degli Stati Uniti, si sarebbe compreso subito tutto. Avessi parlato della nostra società democratica in Francia, quale si fonda al giorno d’oggi, ancora si sarebbe compreso bene il tutto. Ma, partendo dalle nozioni che mi forniscono la società americana e francese, ho voluto dipingere i tratti generali delle società democratiche di cui non esiste ancora un modello compiuto. E qui che lo spirito del lettore ordinario mi sfugge».

  C’è, in questa lettera [a Madame Hanska], tutto il programma della ricerca che Balzac, in particolare nell’ultimo decennio della sua vita, cercherà di completare con la redazione della sua analisi della rivoluzione.

  Con Gli impiegati, Balzac scrive il «grande romanzo» sulla burocrazia, riuscendo paradossalmente, nello stesso tempo, a inaugurare un nuovo filone letterario e a crearne il capolavoro incontrastato, che fornirà poi ispirazione a tutti coloro che lo seguiranno, da Flaubert a Kafka, e che non si limiteranno ai soli «romanzieri», ma a tutti i grandi riformatori e utopisti della nostra modernità, fino a Max Weber.

  Balzac non inventa una nuova forma letteraria: abbiamo visto come il «fondo comune dello stereotipo burocratico» esista in Francia da tempo e sia profondamente radicato nella coscienza collettiva della società del suo tempo: quel che Balzac riuscirà a compiere sarà proprio il superamento dello «stereotipo» burocratico e della sua banalizzazione, introducendo una utilizzazione più romanzesca, drammatica ed eroicomica al contempo, d’un materiale verbale e narrativo preesistente, e imprimendogli un segno del tutto originale che resterà impresso sul tema letterario così «creato». È Balzac stesso che ci avverte, nel caso non fosse sufficientemente chiaro: «non è un romanzo che scrivo», ma bensì l’analisi della nuova forma di potere che dominerà le società moderne, la mediocrazia. segnata dalla fine dell’individualità, la scomparsa dei valori tradizionali e l’avvento della società di massa. Balzac, scienziato sociale, ha visto quel che si sta costruendo sulle rovine della società pre-moderna: un’armonia tra due nuovi aspetti dell’essere sociale, uno che riguarda la soggettività degli attori individuali, la passione per il potere, l’altro che riguarda l’oggettiva iscrizione del segno del denaro, dell’oro che accieca e consuma.

  «Volere ci brucia e potere ci distrugge, ma sapere lascia la nostra organizzazione in un perpetuo stato di calma», dice uno dei suoi personaggi.

  Resta dunque il sapere. Nella letteratura moderna Balzac rappresenta uno degli esempi estremi di potere intellettuale allo statu nascenti, dotato di una visione profetica nella quale il motivo del denaro, dell’isolamento e delle tragiche conseguenze dell’individualismo moderno, dello scarto assoluto tra valori e «cose» assumono una centralità e un’importanza straordinaria, quasi a voler segnalare, anche soggettivamente, che la modernità è un’epoca di transizione, anzi è la transizione epocale per eccellenza. Non a caso si insiste sulla sua visionaria potenza, perché la conoscenza del sapere visionario può esistere solo nel campo dell’incommensurabile. dell’ineffabile, i cui elementi circondano, accerchiano tutti i romanzi di Balzac, per parafrasare la felice espressione di Stefan Zweig. L’accumulazione capitalistica e la concentrazione finanziaria, la rivoluzione politica, la nascita dello stato sociale e lo sviluppo della burocrazia, lo sbocciare di relazioni individuali e collettive completamente inedite: di questi temi Balzac ha scritto ancorando il suo pensiero ogni volta a un romanzo, obbligando poi i suoi lettori, a compiere il suo stesso sforzo d’analisi e d’individuazione del problema.

  Questo è infatti il paradosso, ancora largamente da scoprire, della profetica «modernità» di Balzac: possiamo chiamarlo un nostro contemporaneo non in virtù di una qualsivoglia «riscoperta» della sua opera, oppure a causa di un supposto «riflesso» realistico, ma perché solo oggi, infine, le società moderne arrivano alla soglia dei suoi quesiti e delle sue analisi. Anche, e soprattutto, si potrebbe dire a cominciare proprio dalla politica, perché Balzac, invece di manifestare un rimpianto per il passato, non perde mai l’occasione per esaltare la figura di Napoleone, geniale organizzatore e astuto rivoluzionario popolare, modello energetico di un’efficienza e di un’audacia tutte moderne: «Dopo il 1789, lo Stato, o la Patria, se si vuole, ha sostituito il Principe. Anziché dipendere direttamente da un primo magistrato politico, i commessi sono ili ventati, a dispetto delle nostre belle idee sulla Patria, degli impiegati del governo e i loro capi tentennano a ogni scossa di un potere detto Ministero che non si sa, oggi, se domani esisterà ancora. Poiché gli affari correnti devono pur esser sbrigati, c’è sempre una certa quantità di commessi che galleggia, indispensabile seppure licenziabile a ogni momento, e che vogliono conservarsi il posto. La burocrazia, potere gigantesco messo in moto da nani, è nata in questo modo. Se sottomettendo uomini e cose alla propria volontà Napoleone aveva arrestato per un momento l’influenza della burocrazia, questo pesante sipario piazzato fra il pensiero e l’azione, essa si era definitivamente organizzata sotto il governo costituzionale, necessariamente amico di ogni mediocrità, appassionato assertore delle pezze d’appoggio e, infine, pettegolo al pari di una piccolo-borghese» [Gli impiegati].

  La vicenda paradossale che per anni ha fatto di Balzac un legittimista monarchico-clericale, Balzac reazionario in politica e progressista in arte, andrebbe sfatata una volta per tutte e per sempre. La leggenda nasce, oltre che da innumerevoli quanto ambigue e contraddittorie dichiarazioni di Balzac stesso, da quelle lettere di Marx ed Engels sulle quali poi la scolastica di ispirazione marxista ha costruito dei cannocchiali così riduttivi da non riuscire più a leggere Balzac altrimenti. Scrive, per esempio. Engels a Miss Harkness: «Certo Balzac fu un legittimista politicamente; la sua grande opera è una continua elegia sull’inevitabile rovina della buona società; tutte le sue simpatie sono per la classe condannata a tramontare. Ma nonostante ciò, la sua satira non è mai così pungente, la sua ironia non è mai così amara come quando fa entrare in azione proprio negli uomini e le donne con cui più profondamente simpatizza, e cioè i nobili. E i soli uomini dei quali egli parla sempre con franca ammirazione sono i più recisi avversari politici ... Che quindi Balzac sia stato costretto ad agire proprio contro le simpatie di classe e i pregiudizi politici a lui propri, che abbia visto la necessità del tramonto dei suoi diletti nobili e li descriva come uomini che non meritavano alcuna sorte migliore, e che abbia visto i veri uomini dell’avvenire dove a quell’epoca era dato trovarli: tutto questo io considero come uno dei maggiori trionfi del realismo, e come uno dei tratti più grandiosi del vecchio Balzac».

  Questa lettura riconosce volentieri all’opera balzachiana il «progressismo» nell’analisi, individuandone al contempo le conclusioni limitate dall’immaturità teorica della sua epoca che, non permette, in altri termini, l’espressione scientifica della società capitalistica quale verrà presentata da Marx. Si osserva così un curioso oscillare della critica tra un Balzac progressista e uno reazionario, che arriva a prendere le forme caricaturali in cui autore e opera si trasformano in arena in cui s’affrontano «destra» e «sinistra», senza rendersi conto dell’involontaria ironia di ripetere cose già previste, fin quasi nei dettagli, da Balzac stesso: paradosso e ironia ancora maggiore, entrambe le «letture» riescono comunque a essere percettive del duplice, del molteplice, dell’infinito e sublime Balzac: al «progressista», che riconosce la fondamentale importanza dell’«economico» e diventa l’analista della «liquidazione di tutti i valori», dello sviluppo dell'industrializzazione, e che precede e annuncia Marx e il «materialismo», s’accompagna il genio letterario che pone i fondamenti dell’analisi scientifica della società, dato che la rivoluzione si compie nella forma.

  Balzac cerca costantemente di tessere e d'intrecciare due fili che sembrerebbero di natura differente, di capire come la spinta pulsionale verso il «potere» sia, congeni(t)almente, legata alla circolazione del denaro capitalista. Questi movimenti perpetui e incessanti. che richiedono la direzione di un vero «Paganini politico», formano il continuum de La commedia umana, sono l’essere ontologico dei nuovi dirigenti, il Dio brillante della nuova società rappresentata e amplificata dalla burocrazia.

  Se mai questo è un giudizio accurato, e non lo è di certo, nonostante la critica, marxista e no, ci si sia impantanata per un secolo, mai e poi mai lo si potrebbe applicare a Gli impiegati. Chi vi perde la partita? Il riformatore Rabourdin, certo, perché viene tradito da una congiura della congregazione; il fiero repubblicano Fleury. che viene licenziato; il delicato e patetico Minard, che fa fiori di carta insieme con la moglie, darà le dimissioni; e perfino l'opportunista per eccellenza, il vaudevilliste Bixiou. perfido, pigro e fantasioso, trova che non vale la pena di rincretinirsi nelle stanze di un potere senza centro. Ma non sono questi gli sconfitti: la loro fuoriuscita dal Ministero marca esplicitamente il loro ingresso nella storia, nella politica e nell’economia della «modernità». E, contrariamente a quanto potesse pensare il «vecchio Engels», Balzac ha una ben chiara visione politica, e una teoria della modernità politica, che appare ne Gli impiegati in tutta la sua forza. Una teoria i cui attori si chiamano Napoleone, dell’epico momento della Convenzione, modello di energia, composta in gran parte di giovani in cui «nessun sovrano deve scordare che la Convenzione seppe opporre all’Europa quattordici eserciti. La sua politica, così fatale per quelli che sostengono il potere cosiddetto assoluto, non era contraria al vero principio della monarchia, perché la Convenzione governava come un grande sovrano. Il nostro ministro, dopo dieci o dodici anni di lotta parlamentare, dopo aver scavato nella politica fino a esserne sepolto, era stato finalmente consacrato da un partito che lo considerava come il suo piazzista. Fortunatamente per lui era arrivato alla meta più verso i sessanta che verso i cinquanta. Se avesse conservato qualche residuo vigore giovanile, sarebbe stato stroncato. Invece, abituato a piegarsi, a tornare alla carica, a ritirarsi, poteva farsi bastonare a turno dal suo partito, dall’Opposizione, dalla corte e dal Clero offrendo loro la forza d’inerzia d’una materia, di volta in volta, molle e consistente; in altre parole traeva beneficio dalle proprie disgrazie». [Ibid.].

  Non di un romanzo storico, ma di un romanzo teorico si tratta.

  E per rovesciare fino in fondo l’argomento della lettera di Engels, diciamo pure che Balzac si pone di fronte al problema dello stato, dell’economia e del denaro non solo en poète, senza sapere veramente quel che fa ma con grande raffinatezza e cognizione teorica, en docteur en science sociale fin dagli anni quaranta. Strana coincidenza: gli anni durante i quali si getta totalmente nella redazione de La commedia umana, sono anche gli anni di elaborazione delle prime teorie di Marx ed Engels, in cui Tocqueville è già famoso per aver messo a nudo la Democrazia in America. Sono autori che hanno in comune l’epoca, ma soprattutto la volontà di analizzarne le strutture principali, fatte di elementi fino ad allora invisibili agli osservatori «volgari». Proviamo perciò, dopo tanti anni di «cecità», a rendere a Balzac quel che gli appartiene, anche se il lavoro degli altri gode del privilegio della «forma del discorso», della «scientificità», oltre che, naturalmente, dell’immensa influenza politica delle opere. Rovesciamo i ruoli prestabiliti, guardiamo al romanziere come al teorico della società, chiediamo al poeta di darci gli elementi stessi di comprensione della società. Ancora di più: partiamo dalle idee centrali della sociologia di Balzac per arrivare, alla fine del percorso, a una rilettura del «posto» occupato dalla burocrazia in Marx. In fin dei conti, è fin troppo comune applicare a Balzac la Volgata marxista, è il senso canonico. Magari scopriremo che è più interessante procedere nell’altro senso, andare a vedere in Marx passando per Balzac.

  Invece di limitarsi alla storia di un personaggio, di un protagonista, con Gli impiegati, Balzac riesce a scrivere il «romanzo di una classe sociale», come poi riuscirà nuovamente a fare, e non a caso, con i Paysans, che si può considerare come l’altro volet de Gli impiegati. Se Balzac procede decisamente a questa rottura del «patto romanzesco» allora dominante, la scelta non gli fu facile, e si rivelò ancor meno bene accetta dal «suo» pubblico: Balzac era andato troppo in là, troppo rapidamente, senza ritorno possibile.

  I numerosi palinsesti, le complicate vicende editoriali e le svariate edizioni e trasformazioni del corpo stesso del romanzo attestano il nascere e lo svilupparsi di questa geniale, modernissima e rischiosa intuizione in Balzac. Nel 1838 era apparsa una prima versione col titolo di La femme supérieure, centrando il suo romanzo sul personaggio principale di Celestine Rabourdin. uno dei numerosi capolavori di bellezza e di astuzia femminile che popolano La commedia umana. La pubblicazione era uscita a dispense, in feuilleton l’anno prima: «Ieri – scrive Balzac a Madame Hanska – dopo Heine ho incontrato sul boulevard Rothschild, vale a dire tutta l’intelligenza e tutto il denaro degli ebrei. Rothschild non ha potuto far a meno di dirmi: “Ma che fate?”. La femme supérieure aveva inondato la Presse durante quattordici giorni».

  Che Balzac non fosse soddisfatto del suo romanzo appare chiaro dall’insistenza con cui si giustifica con la sua étrangère, in una lettera di qualche giorno prima: «Leggerete tra qualche giorno La femme supérieure, e se mai ho avuto bisogno di un avviso serio e sincero su una composizione, è proprio su questa. Arrivano ogni giorno venti lettere di riprovazione al giornale, di persone che annullano i loro abbonamenti ecc., dicendo che non v’è nulla di più noioso, che sono delle chiacchiere insipide, e mi mandano queste lettere. Ce n’è uno, fra gli altri, che si dice mio grande ammiratore e non riesce a concepire la stupidità d’una simile composizione. Se è così, allora mi sono sbagliato gravemente».

  Ma piuttosto che ammettere uno sbaglio non commesso, e accettare il verdetto del pubblico, e la sua sconfitta, Balzac, sapendo bene che nomen est omen, si rende invece conto che, con lo sviluppo della burocrazia, siamo di fronte a una nuova, inedita e colossale scenografia che disegna lo spazio per la rappresentazione del dramma che avviene sul «teatro» del mondo nato dalla Rivoluzione: dramma senza protagonisti, dominato da una nuova unità temporale che abbraccia un lungo periodo della storia occidentale. Il protagonista del nuovo dramma deve essere al contempo collettivo e anonimo e le spalle della «bella Rabourdin» non possono sopportarne il peso: «La femme supérieure — scriverà più tardi Balzac – non esprime più il soggetto di questo studio dove l’eroina, pur essendo donna decisamente superiore, non è ormai che un accessorio invece d’essere il personaggio principale». Ma il personaggio principale del romanzo non ha più un solo nome, un volto riconoscibile, è una «macchina in movimento» dove si trovano «i tarli al lavoro», come recitano i titoli di alcuni capitoli.

  Ma come scrivere il romanzo sul «nulla»? Come far capire quel che avviene nella «civiltà divisionale dell’amministrazione» dove si vive con ventidue soldi al giorno, in lotta perpetua col sarto e col calzolaio, senza diventare null’altro che cretinizzato?

  Scrivendo l’attento e minuzioso studio di una divisione ministeriale francese attraverso la vita pubblica e i vizi privati dei suoi uscieri, impiegati, capi, direttori, segretari generali e ministri, senza tralasciare il ruolo delle relative famiglie, mogli, amanti, giornalisti e altri comprimari: Les employés, appunto. Sono loro i veri protagonisti, gli impiegati di uno Stato che non si sa bene che cosa voglia e dove sia, questa umanità umiliata e avvilita, perennemente sospesa: tra le classi, nella storia, nella sua stessa temporalità, che si chiama, in gergo impiegatizio, la «carriera». E per farlo, Balzac, il fisiologo, seguirà il consiglio dato da Cuvier a Stendhal: se volete sormontare la repulsione che ispirano certe bestie disgustose, studiate i loro amori, la loro intimità, i lati nascosti e inattesi del loro carattere. Balzac sa quanto sia grande, in natura come in società «la forza del tarlo che stronca un olmo scavandosi la strada sotto la sua corteccia» e con la sua scrittura tende a rendere possibile, in letteratura, la visione del microscopio per ingrandire e disegnare proprio quei tarli che riveleranno dei volti somiglianti a Mitral, a Gigonnet, a Baudoyer, a Saillard, a Gaudron, a Falleix, a Transon, a Godard e compagnia, cioè ai suoi impiegati. Trovato il modo di parlare dei tarli che brulicano negli uffici, rimane da trovare l’oggetto delle loro bramosie.

  Il potere. Ma dov’è il potere? La burocrazia, dice Balzac, «potere gigantesco messo in moto da nani», si annulla costantemente, attraverso continue messe in scena e rappresentazioni fin troppo teatrali, è un potere fatto a pezzi dalle ondate rivoluzionarie ovvero l’annullamento della realtà mondana e la sua sussunzione al mondo delle scartoffie, della polvere, dell’impersonalità, dell’alienazione totale. Gli impiegati parla di realtà, ma non è, come del resto quasi nessun altro romanzo di Balzac, un romanzo realista: vi aleggia dall’inizio alla fine un mondo fantastico, hoffmaniano, tratteggiato da assurdi calembours, manie, tics di ogni genere e sorta, gerarchie senza senso, un emporio moderno della ragione di Stato. È appunto questa la solitudine della modernità, in cui luce, ambienti, spazi e volumi sono «dematerializzati» e appaiono come segni e simboli di un potere microscopicamente invisibile ma estremamente oppressivo, in cui si combatte una guerra contro un nemico implacabile e invisibile. Da far perdere la ragione. O forse sarebbe meglio dire s/ragione. [...].

  Ne Gli impiegati, non si tratta più di rappresentare soltanto i grandi personaggi, «balzachiani» appunto nella versione stereotipa che ne abbiamo, che costruiscono o disfano fortune e destini colossali, come Grandet o Birotteau; non vi palpitano i colpi di genio dell’usuraio Gobseck o la suprema intelligenza del banchiere Nucingen. Siamo di fronte alla sterminata visione delle «armate burocratiche» che non esistevano in altri tempi, sotto la monarchia, all’aurea mediocritas degli impiegati, al Mistero della burocrazia, che attanaglierà dopo Balzac, e il suo eroe-riformatore, Xavier Rabourdin, tutto il pensiero sociale: «Profondamente turbato dalla miserabile esistenza condotta dagli impiegati. Xavier si era spesso domandato da dove venisse la crescente disistima del pubblico verso di essi: ne aveva cercato le cause, e le aveva trovate in quelle piccole, parziali rivoluzioni che erano state come il risucchio della tempesta del 1789 e che gli storici dei grandi movimenti sociali trascurano di esaminare benché, in realtà, proprio in ragione di queste i nostri costumi sono diventati quali essi attualmente sono». Ecco detto, in una frase, il programma teorico di Balzac: riuscire a mostrare, a estrarre dalle invisibili, microscopiche rivoluzioni, le cause dei grandi movimenti sociali e, soprattutto, del cambiamento dei costumi. Al centro della scena non possono più essere i «personaggi», ma le classi, con la loro storia, la psicologia e le mentalità collettive che costituiscono uno dei vertici dell’arte di Balzac.

  Le fondamenta nuove del potere e delle gerarchie sono però altrove, il potere non sta dove lo si cerca, ma al di fuori: ambiguamente nascosto al di sotto di tutto c’è l’oro, il denaro, il valore di tutte le cose. Nessuno ha forse sentito e descritto con altrettanta forza che Balzac il tormento collettivo costituito dal passaggio alla società capitalista e ai valori borghesi, e la profonda degradazione spirituale morale che accompagna questa evoluzione in tutti gli strati della società. Questa «ambiguità dei tempi» è l’ambiguità della società capitalista in costruzione: progressista nel senso del trionfo di metodi più moderni di produzione e di organizzazione, ma anche temibilmente inumano perché concentra tra le mani di un numero ristretto d’individui il destino di masse enormi della popolazione. Annullando tendenzialmente c sistematicamente le differenze sociali, rifiutando i «particolarismi» e i «localismi», la rivoluzione francese ha annunciato, in nome dell’«universale» uguaglianza, l’industrializzazione e la sua conseguenza «nascosta», la forma monetaria come equivalenza universale.

  La retorica del denaro e della libertà, del potere/volere e del desiderio, si sviluppa così con Balzac in una narrativa della società moderna tutta fatta di ambivalenze, di lati nascosti, di svolte brutali e conseguenze inattese. Questo codice binario, codice morale oltre che politico e intellettuale, si rende pienamente visibile ne Gli impiegati. Diventerà addirittura esemplare in altre opere di Balzac. in particolare laddove l’analisi verterà sulle «ambigue opposizioni» tra moderno e pre-moderno, tra aristocrazia e uguaglianza. tra industria e libertà, tra democrazia e rivoluzione, per non citare che gli esempi più appariscenti.

  Questa rivoluzione dell’universale, preparata dagli sconvolgimenti sociali e giuridici non si capisce però fino in fondo se non si tiene presente costantemente l’altro aspetto di essa: il convergere di una passione assoluta per il potere resa possibile dalla nuova incarnazione delle forze e delle correnti sociali in seno alla nuova società della «forma finanziaria». [...].

  Marx non solo parla degli impiegati come di ingranaggi avvitati a una macchina, ma, come Balzac, li identifica a una nuova specie meccanica, quasi a sottolineare anch’egli la tragicomica pesantezza del sistema [...].

  [...] Balzac e Marx insistono in particolare sulla distanza che si stabilisce tra uno Stato che diventa sempre più astratto e comune, sempre meno generale, che rappresenta tutti e nessuno che opprime la società civile, e che si perpetua senza sosta. A voler cambiare la macchina poco a poco, pezzo per pezzo, non si può sperare granché: «quando raccogliete una vite, un dado, un chiodo, un’asta di ferro, una rondella, un filo d'acciaio, non date loro alcun valore, ma il meccanico si dice: senza queste bazzecole la macchina non funzionerebbe». [La fisiologia dell’impiegato].

  In realtà, la macchina non funziona: Balzac è già condotto a considerare che per sopprimere l’«inutile ingranaggio» dell’apparato dello Stato, non si possa che «frantumare e ricostruire», grazie a un meccanismo di eccessiva semplicità che eliminerebbe la macchina senza rimettere in causa la centralizzazione burocratica che, al contrario, non potrebbe che trovarsene rinforzata. Papà Goriot, abbandonate tutte le illusioni dirà: «Gli uffici hanno la loro obbedienza passiva, come l’esercito ha la sua: sistema che soffoca le coscienze, annichila un uomo, e finisce, col tempo, per adattarlo come una vite o un bullone alla macchina governativa».

  Trent’anni dopo, la teoria dello Stato e della burocrazia di Marx sembra percorrere nuovamente il cammino già battuto dagli eroi di Balzac: come Rabourdin finirà stritolato dalla «macchina in movimento», Marx non arriverà mai a liberarsi dal pantano del proprio «piano di riforma». Quanto a Balzac, lui finirà «letteralmente» per sputarci sangue: «Ho avuto ieri [...] un violento accesso di sangue al mio tavolo. Dalle tre del mattino alle tre del pomeriggio ho corretto sei fogli de La comédie humaine (Les employés) dove dovevo intercalare dei pezzi presi da La Physiologie del’employé un libretto che non conoscete».

  Thomas Mann, tragico protagonista della conclusione della transizione epocale inizialmente descritta da Balzac, sembra rendergli l’omaggio dell’allievo al maestro: «dalla rivoluzione erano scaturite, come da una fonte comune, due correnti: una per gli uomini, affinché arrivassero a libere istituzioni, l’altra per il potere assoluto. A “libere istituzioni” nessuno credeva più [...] dato che la libertà è in intima contraddizione con se stessa, in quanto per mantenersi è costretta a limitare la libertà, quella dei suoi avversari, e pertanto ad annullare se stessa. Questa, si diceva, è la sua sorte ... Tant’è vero che tutto tendeva alla dittatura e alla violenza, poiché con la rovina delle tradizionali forme statali e sociali a opera della rivoluzione francese si era iniziata un’epoca che, consapevole o no, confessandolo o no, si avviava al dispotismo sulle masse livellate, atomizzate, prive di contatto e, come l’individuo impotenti». [Doctor Faustus].

 

 

  Roberto Escobar, La pellicola double face di Rivette, «Il Sole 24 Ore-Domenica», Milano, 8 dicembre 1991.

 

  [...]. Un capolavoro di Jacques Rivette? Molti critici transalpini sarebbero pronti a sfidare a duello chi la pensa diversamente (il film, tra l’altro, ha avuto il gran premio della giuria a Cannes). Forse non sembra del tutto all’altezza di tanta lode: tratto da un breve racconto di Honoré de Balzac, non manca certo di fascino. Ma è freddo, e di tanto in tanto, un po’ pretenzioso e impacciato. Si contano sulle dita di una mano i personaggi di La bella scontrosa: il Pittore, la Prima Modella, la Seconda Modella, l’Esordiente e il Mercante. Le due ore abbondanti del film passano volando, anche se tra i cinque non accade quasi nulla. Meglio, quel che accade giustificherebbe solo una storia di dieci minuti. E i restanti centoventi circa? Per essi Jacques Rivette mette in campo altri personaggi: il Doppio, lo Spazio, il Corpo, la Verità, la Morte, l’Ironia. Solo questi sono importanti. [...].

 

 

  Monique Fatta Leanza, Une approche du “Lys dans la vallée”, Catania, Tifeo stampa (Catania, G. Urzi), 1991, pp. 148.


  Struttura dell’opera:

 

  Introduction, p. 7;

  Genèse du “Lys dans la vallée”, p. 11;

  Thématique et structure, p. 41;

  Style et technique, p. 75;

  Morceaux choisis, p. 103;

  Bibliographie, p. 139.

 

 

  Simonetta Fiori, Pagate, pagate, qualcuno scriverà, «la Repubblica», Roma, 9 marzo 1991.

 

  E di debiti era vissuto Balzac, il quale scriveva di notte, nel proprio appartamento segreto o in casa di amici, pur di sfuggire alla stretta dei creditori. Il suo biografo Théophile Gautier lo ricorda ossessionato dal danaro, lo stesso danaro che domina tutta la Comédie humaine e che si rivelava capace di accendere la mente di Balzac anche al di là della letteratura. Tra i progetti ambiziosi o sventati da lui elaborati c’erano anche lo sfruttamento delle miniere in Sardegna e, nel contempo, l’impianto di circa centomila piante d’ananas sul terreno di casa. Ma lo scrittore non riuscì mai a raggiungere un sedimentato benessere.

 

 

  Franca Franchi, Le metamorfosi di Zambinella. L’immaginario androgino fra Ottocento e Novecento, Bergamo, Pierluigi Lubrina editore, 1991 («Trompe-l’oeil», 14).


L’estetica dell’ambiguità, pp. 103-126.

 

  [...]. Sarrasine (1830), che Michel Serres definisce come «un’analisi critica in materia d’estetica», si presenta sin dagli esordi come un testo all’insegna dell’ambiguità, rilanciata da tutta una serie di elementi antitetici che, propri ai personaggi via via introdotti nella novella come all’ambiente che li circonda, testimoniano dell’inattendibilità della storia che ci si accinge a seguire. Il titolo stesso del racconto, inducendo il lettore ad attendere la comparsa di una protagonista femminile, partecipa, esaltandolo, dell’aspetto enigmatico del testo [...].

  I due poli opposti, femminile e maschile, attorno ai quali si svilupperà la storia dei due artisti, Sarrasine e Zambinella, sono peraltro riproposti continuamente mediante l’accostamento-combinazione di termini quali il caldo e il freddo, la vita e la morte, il bianco e il nero. In una cornice misteriosa, Balzac introduce «un vieillard» che solo più tardi scopriremo essere stato in gioventù la celebre e bellissima cantante lirica Zambinella. L’«étrange personnage», oltre ad evocare contemporaneamente il vampiro, l’uomo artificiale, Faust, il conte di Saint-Germain o ancora Cagliostro, colpisce per le caratteristiche femminili del suo abbigliamento [...].

  Nel corso della narrazione viene rievocato il passato ormai lontano del vegliardo quando, con il nome di Zambinella e sotto vesti femminili, questi si esibiva nei teatri romani riscuotendo un enorme successo [...]. Zambinella è dunque un castrato, un artista che solo rinunciando alla sua vera natura può proporsi e prodursi sulla scena: l’artista e conseguentemente il suo prodotto, l’opera d’arte, perdono la caratteristica dell’autenticità per omologarsi al gusto del pubblico. Chiara risulta allora la denuncia di Balzac contro il principio dell’utile dominante nella società borghese che costringe l’artista ad una sorta di prostituzione. Di qui anche la necessità di leggere la castrazione e quindi l’impotenza come il riflesso metaforico di questa situazione di compromesso e allo stesso tempo di scacco che investe il mondo dell'arte e che nel racconto, viene rivisitata e arricchita di nuovi significati attraverso la vicenda personale di Sarrasine il cui destino è indissolubilmente legato a quello della cantante. Oltre a possedere un nome al femminile, lo scultore mostra una personalità dalle caratteristiche contraddittorie, individuabili nella compresenza di aspetti tradizionalmente propri alla natura maschile [...] e al mondo femminile [...]. L’aspetto ambiguo di Sarrasine, prima ancora di trovarsi compiutamente riflesso nel personaggio di Zambinella, della quale lo scultore si innamorerà perdutamente, trova il suo primo riscontro in Bouchardon che, al contatto con il protagonista, sembra mostrare tratti tipici del femminile. [...].

  Più volte ribadita è la volontà di Sarrasine di dedicarsi unicamente all’arte che, a poco a poco, assumerà per lui le caratteristiche deh amante ideale [...]. Significativo risulta allora non solo il coup de foudre per Zambinella ma la ragione primaria che lo ha motivato: la cantante infatti costituisce il modello vivente di quella bellezza ideale perseguita dallo scultore nell’arte [...].

  Nell’ottica balzachiana, l’ambiguità dell’arte non è però legata solo al suo statuto originario, ma anche al contesto storico in cui si esplica: Zambinella, la statua o il quadro, confrontandosi col mercato producono denaro e la ricchezza così prodotta reduplica a sua volta nei componenti della famiglia del «vieillard» questo marchio di ambiguità. In questo modo sembra infatti potersi comprendere il lungo prologo che, facendo da cornice al testo, presenta la misteriosa famiglia dei conti Lanty esaltandone la smisurata ricchezza. [...].

  La problematica affrontata in questa novella viene ripresa dallo scrittore in La fille aux yeux d’or (1834-1835), dove le tre isotopie enunciate in Sarrrasine («l’impuissance, l’art et l’or»), sono definitivamente tematizzate. Il tema saffico, attorno al quale si realizza e si conclude drammaticamente il romanzo non viene chiaramente esplicitato se non nell’epilogo della vicenda, e si insinua invece poco a poco lungo il corso della narrazione attraverso le descrizioni della camera «sensuale» ideata da Margarita marchesa di San-Réal per Paquita Valdès, o mediante la rappresentazione della sapienza amorosa con la quale Paquita, seppur illibata, riesce ad avvincere Henri de Marsay.

  Nel recuperare un tema caro alle trattazioni libertine, Balzac comunque se ne distacca privilegiando le componenti intellettualistiche. Paquita, «comprata» all’età di dodici anni dalla marchesa di San-Réal, vive in un universo artificiale e ben circoscritto, non sa leggere, non conosce il valore del denaro, si definisce essa stessa come oggetto, e l’unica dimensione che riconosce pienamente come propria è quella pulsionale-istintiva. Se, per una precisa operazione di occultamento, la marchesa Margarita apparirà solo alla fine del romanzo, strumentale risulta allora la funzione di Paquita all’interno del racconto, in quanto, configurandosi come la «creazione» e il «riflesso» della sua maîtresse, ne rilancia continuamente l’immagine. [...].

  La situazione «triangolare» [...] viene quindi recuperata da Balzac che presenta due personaggi, Henry de Marsay e la marchesa di San Réal, i quali, non direttamente coniugabili in quanto fratelli, esplicitano il tema del désir e quindi di un’ideale ricomposizione utilizzando lo stesso modello, vale a dire Paquita. La vicenda dell’archetipo platonico, annientato dalla separazione delle sue due nature, condannate poi ad andare alla ricerca l’una dell’altra, viene rivisitata da Balzac attraverso l’avventura di Henri e Margarita corrispondente ad una quête dell’altra componente di sè che ancora non conoscono.

  Le caratteristiche androgine di de Marsay sono d’altronde evidenziate sin dagli esordi, laddove Balzac attribuisce al protagonista non solo dei tratti fisici tipicamente femminili, ma anche una spiccata coquetterie che si manifesta in particolare nella cura raffinata e diligente che Henri dedica al suo aspetto [...].

  Il rapporto speculare tra Henri e Margarita si definisce ulteriormente nel comune desiderio di uccidere Paquita, la cui morte risulta funzionale al disvelamento del tema androgino sotteso al testo

  L’epilogo del romanzo vede dunque realizzarsi, da parte dei due fratelli, sia la consapevolezza della reciproca specularità, che la coscienza dell’impossibilità di realizzare la sintesi androgina. [...].

  Questa androginia mancata assume una precisa valenza simbolica se la si considera come la metafora intellettualizzata della contraddittoria situazione parigina che Balzac descrive minuziosamente agli esordi del romanzo [...]. «L’or et le plaisir» risultano essere per Balzac delle forze negative che attraversano tutte le classi sociali, costituendo anche per il ristretto ambito artistico ed intellettuale un potenziale deterrente alla continuità del lavoro creativo [...].

 

  L’androgino sublimato, pp. 127-139.

 

 [...]. E’ la lettura delle opere di Swedenborg a consentire la concezione balzachiana di un androgino totalmente spiritualizzato Séraphîta, (1835), in cui la doppia valenza sessuale, testimonianza di un’armonia originaria dell’essere secondo la versione platonica, si risolve in una neutralizzazione della sessualità stessa, sia maschile che femminile. Ma questo approccio alla tradizione mistica settecentesca, tramite i testi del suo esponente più illustre in ambito europeo, pervade gran parte dell’opera balzachiana, e ritroviamo la figura dell’androgino in varie opere della Comédie Humaine, quali La Cousine Bette, Louis Lambert, Le Lys dans la vallée, La Vendetta, Massimilia Doni. In particolare si dovrà far riferimento all’Enfant maudit (1831) per cogliere le modalità di elaborazione di quel discorso che troverà piena esplicitazione in Séraphîta. Qui, infatti, al riferimento al mito pagano di un essere che trovava nell’ostentazione e nella pienezza di una duplice natura, maschile e femminile, la propria perfezione, si sostituisce già la versione spiritualizzata adottata in ambito cristiano, di un androgino connotato essenzialmente come «manque» [...].

  Nel racconto infatti il giovane Etienne, «pur comme un ange», inevitabilmente si innamora, ricambiato, di Gabrielle, «une angélique enfant», la cui bellezza escludendo ogni altra possibile relazione può essere solamente paragonata alla «... séraphique et profonde beauté de l’Eglise catholique ...». Ed è proprio per il candore che li distingue, e contemporaneamente esclude ogni possibilità di una dimensione fisica del loro rapporto, che i due protagonisti finiscono per essere definitivamente assimilati e considerati come un unico essere [...]. A conferma dell’accezione essenzialmente spirituale che Balzac intende conferire al mito risulta determinante il momento conclusivo del romanzo dove la morte, mentre impedisce definitivamente ai due giovani di scoprire il mondo delle passioni che inevitabilmente si stava loro rivelando, permette idealmente di perpetuare la loro unione simbolica nell’aldilà.

  Le teorie e le riflessioni presenti nell’Enfant maudit trovano sotto l’influsso del pensiero teosofico swedemborghiano quella formulazione in chiave mistica di cui Séraphîta vuole essere l’esemplificazione [...].

  Nel romanzo il tema dell’androginia intesa come assoluta concidentia oppositorum si riassume per l’appunto in una creatura angelicata («en lui tour s’équilibrait») che assumendo indistintamente le caratteristiche femminili agli occhi degli uomini e quelle maschili al cospetto dell’unica donna, Minna, intende rendere maggiormente comprensibile quella che di fatto risulta essere la totalità divina della sua natura («un être élu», «un envoyé de Dieu»). Ma proprio per la sua specificità che lo rende unico, questo essere eletto resta lungo buona parte della narrazione una «mystérieuse créature», difficilmente decifrabile specie dai due giovani che appassionatamente l’amano. A Minna, che gli manifesta chiaramente la sua passione, Séraphîtus risponde esprimendosi con parole che alla fanciulla restano oscure [...].

  D’altra parte l’aspetto enigmatico del personaggio protagonista, segnalato da termini antitetici (il caldo e il freddo, la vita e la morte, l’amore e l’odio) e legati come già in Sarrasine e Fragoletta alla sua duplice natura maschile e femminile, viene ulteriormente ribadito dalla peculiarità del suo aspetto fisico [...].

  L’essere perfetto Séraphîtus-Séraphîta, fornendo una soluzione al misticismo romantico in termini di sublimazione, si traduce dunque in una creatura androgina asessuata, ma l’operazione balzachiana si fa interprete, nella macchinosità e verbosità del suo impianto, anche delle contraddizioni e delle rimozioni che era chiamata a sanare. L’assenza di una precisa connotazione sessuale in Séraphîta fa sì che le apparenze possano di volta in volta, in base agli osservatori coinvolti, risolversi in immagini maschili o femminili, a segnalare che è l’immaginario dell’osservatore, inteso come désir ad intenzionare un oggetto di per sè neutro, e che si connota dunque come inattingibile. Il superamento delle tensioni pulsionali, intese come disarmonia, si risolve allora paradossalmente nell’attivazione di un désir indefinito, di un’inquietudine insanabile, perché mai veramente colmabile. L’armonia che si vuole conseguire si rivela abitata dalla disarmonia, poiché la censura della pulsionalità si traduce nella negazione della sessualità, che a questo punto diventa però il perturbante: il rimosso che incessantemente «ritorna». E’ lo stesso Balzac ad affermare, d’altronde: «Ogni principio estremo porta in sé l’apparenza di una negazione e i sintomi della morte: la vita non è forse la lotta di due forze?».

  Questa contraddizione ci consente in particolare di cogliere il senso profondo della scrittura di Séraphîta: essa è destinata ad occultare i meccanismi pulsionali messi in atto da Balzac con Sarrasine. L’operazione si rivela però fallimentare, dato che è la scrittura stessa ad occultare con la sua ambiguità (metafora dell’androgino) il manque originario che la costituisce, per cui una nuova produzione di scrittura, per quanto orientata all’occultamento (sublimazione), non potrà che produrre altra pulsionalità, altra ambiguità. Il circuito non può essere spezzato, ed a questo punto possiamo comprendere perché la finzione romanzesca di Séraphîta richieda, per essere gestita, per gestirne la pulsionalità sottesa, il gelo, il bianco, la solitudine, il silenzio di un paesaggio invernale della Norvegia, il manque, insomma, in tutte le sue virtualità [...].

 

 

  Daniela Germani, Figure del femminile in Balzac. Tesi di Laurea. Relatore: prof. Alberto Castoldi, Bergamo, Istituto Universitario, Facoltà di Lingue e letterature straniere, Anno accademico 1990-1991.

 

 

  Monica Giachino, «Il famoso, forse troppo famoso Balzac» e la critica italiana (1830-1850), «Problemi. Periodico quadrimestrale di cultura», Roma, n. 91, maggio-agosto 1991, pp. 116-130.

 

  Una rassegna bibliografica che, esclusi i numerosi contributi di carattere aneddotico, intendesse segnalare le indagini utili a ricostruire e interpretare la fortuna di Balzac in Italia nel ventennio 1830-1850 risultava finora scarsa e per lo più di carattere frammentario. A sanare tale lacuna interviene il minuzioso lavoro di Raffaele De Cesare — La prima fortuna di Balzac in Italia (1830-1850) — in corso di pubblicazione a sezioni sulla rivista milanese «Aevum». Si tratta di una vasta e puntuale documentazione che in schede ordinate cronologicamente riproduce, spesso integralmente, altra volta in sunto, le posizioni della cultura italiana del Primo Ottocento nei confronti dell’opera balzachiana, dal dibattito in rivista a spunti e interventi critici rintracciati in altra sede (carteggi, archivi privati, note di diario). Questo rigoroso repertorio, risultato di un trentennale lavoro di ricerca, si pone come propedeutico ad una serie di riflessioni che, poste da De Cesare a clausola del materiale bibliografico, ne daranno l’interpretazione critica. Anche partendo da quel materiale e in attesa di quel più autorevole intervento, il presente lavoro intende porsi come un insieme di note scritte in margine alle vicende critiche di Balzac in Italia — dall’impatto iniziale nei primi anni Trenta al 1850, l’anno della morte — con una prospettiva che cerchi di individuarne alcuni aspetti portanti.

  Un rapido vaglio della stampa periodica che nel primo Ottocento si interessa di letteratura rivela, com’è noto, la condizione di subalternità della critica italiana a quella di Francia: dipendenza evidente anche in superficie, se gli interventi in rivista sono con frequenza riduzioni, sunti più o meno mediati, prelievi non sempre denunciati come tali o tout court traduzioni dal francese. In un’Italia che di fatto non esiste, in un mercato letterario ancora da organizzare e che a fatica cerca un interlocutore, è ovvio che la realtà culturale francese, agganciata a più compiuti e definiti referenti sociali, agisca in positivo e in negativo come punto di riferimento primo. Tale costante attenzione ai fatti di Francia fa sì che in Italia la risonanza dell’opera di Balzac in sede critica proceda parallela o con lieve scarto rispetto ai tempi francesi. Qualche dato: il 4 febbraio 1830 la «Gazzetta privilegiata di Milano» recensisce la Physiologie du mariage edita nel dicembre; è con buona probabilità la prima traccia della presenza di Balzac in sede critica italiana ed è, non a caso, una traduzione dal francese, ossia dell’ironica stroncatura pubblicata sulla «Gazette de France» a firma Ch. A. M. Colnet Du Ravel. Nel luglio del 1831 Giuseppe Sacchi sull’«Indicatore» stende una breve e severa nota in margine alla Peau de chagrin, immessa sul mercato francese solo il 1° agosto, ma preceduta da una frammentaria pubblicazione in rivista a scopo pubblicitario.

  L’attenzione della critica si mantiene costante negli anni Trenta, con delle punte in corrispondenza dei soggiorni di Balzac in Italia, per poi gradualmente distrarsi nel corso degli anni Quaranta. Le Père Goriot, per fare un esempio, edito sulla «Revue de Paris» tra il dicembre 1834 e il febbraio 1835 e in volume a marzo, viene recensito con sigla B. ad aprile sul «Figaro», a maggio da G. Sacchi sull’«Indicatore», ad agosto da Luigi B-a sul «Ricoglitore italiano e straniero» e inserito a dicembre, in due traduzioni diverse, nelle collezioni di romanzi di Truffi («Romanzi e curiosità storiche di tutte le nazioni», serie terza, voll. XL e XLI) e di Pirotta («Romanzi storici e d’altro genere de’ più celebri scrittori moderni per la prima volta tradotti nell’idioma italiano », serie seconda, voll. IV e V). Nel ’50 invece Balzac risulta per la critica italiana quasi un autore del passato. [...].

  In realtà almeno fino al ’47-’48 Balzac è ancora produttivo: continua da Furne l’edizione della Comédie Humaine, escono prima in feuilleton poi in volume romanzi come La Cousine Bette, Le Cousin Pons e La dernière incarnation de Vautrin, ultima parte di Splendeurs et misères des courtisanes. Ma alla critica italiana la sua fama pare «impallidita da un pezzo». Questo atteggiamento trova del resto ulteriore conferma in una serie di articoli, comparsi sullo stesso «Crepuscolo» tra l’agosto e l’ottobre 1853, che intendono fare il punto sulle condizioni e gli esiti del romanzo in Italia, tentandone una catalogazione per genere. L’anonimo estensore — in cui la critica ha riconosciuto ora Tenca, ora Giacomo (sic) Battaglia [...] — indica referenti stranieri in positivo o in negativo, cita Hugo, Scott, Chateaubriand, d’Arlincourt, Sue, Dickens, ma non Balzac [...].

  A gran parte della critica italiana, e non solo italiana, del suo tempo Balzac non piace. Non piace ma, come si vedrà, rappresenta un problema difficile da liquidare. [...]. Al di là infatti della maldicenza di Tommaseo che in una lettera a C. Cantù del ’37, deplorando le accoglienze riservate a Balzac di passaggio a Milano, faceva notare che a Parigi «è tenuto [...] per cosa ridicola e bassa», grande è la popolarità di Balzac in Italia come in Francia. Questa la testimonianza di Defendentc Sacchi in occasione del primo soggiorno di Balzac in Italia nell’agosto del ’36:

 

  Se Balzac si fosse inoltrato in Italia oltre Torino, e fosse venuto fino a Milano, avrebbe fatto un confronto delle due città rispetto a sé; e accresciuto nella compiacenza della propria gloria: a Torino avrà trovate le sue opere nelle mani di tutti, a Milano avrebbe trovato parimenti lette le sue opere in originale e le avrebbe anche vedute tradotte, riprodotte da quasi tutti gli stampatori, sebbene qualche volta un po’ storpiate; ne avrebbe vedute in tutte le raccolte [...].

 

  Si tratta di traduzioni — fitte soprattutto negli anni Trenta e più o meno lacerate da tagli e interventi censori — che trovano, non a caso, collocazione nelle numerose collezioni di romanzi di quegli anni, una sorta di odierne collane economiche, distribuite per lo più a dispense e per associazione e destinate ad un largo consumo.

  Se «la curiosità del pubblico è seco lui insaziabile» [...], Balzac ha, di contro, sia sul piano della biografia — il vezzo di quel de nobiliare, i guadagni, la vita mondana, i debiti — sia su quello degli esiti, giudicati non edificanti, della sua produzione, tutte le caratteristiche per non piacere alla critica italiana. Una critica che, disorientata dalle nuove forme che il mercato letterario va assumendo, bloccata nell’impasse di una valutazione fortemente moralistica ha per lo più in mente come univoco modello l’opera e gli atteggiamenti privati di Manzoni e della sua scuola. [...].

  Se, insomma, Manzoni divertendo istruisce, Balzac, avvince ma corrompe. [...].

  Ciò che soprattutto non funziona nella narrativa balzachiana — è l’equazione virtù: premio = vizio: punizione, che per buona parte della critica italiana di quegli anni è l’unità di misura da cui non si può prescindere. E in molti sono d’accordo con I. Cantù nel considerare Balzac una moda di stagione: da Tommaseo che sentenzia «né vivrà», a Carrer che sul «Gondoliere» del 12 gennaio ’39 scrive «lasciamo passare oltre il torrente; per gonfio e rumoroso ch’e’ sia non ci torrà a stagion fatta di calpestarne l’arido letto», al «Crepuscolo» che chiude il saggio in morte di Balzac dicendo: «ma dubitiamo assai che l’eredità da lui lasciata ai posteri gli valga l’onor della statua e l’epiteto di grande. La posterità da qualche tempo è severa e non sanziona le glorie se non in ragione del frutto che gli scrittori hanno recato alla società». Ed è significativo che questo saggio si apra sul plauso e l’ammirazione dei lettori contemporanei e si chiuda sull’oblio dei posteri.

  In realtà fin dai primi anni Trenta Balzac diventa per antonomasia il rappresentante di un modo degenerato di «fare letteratura» e catalizza, in una sorta di accumulo per strati, riserve o condanne critiche di più vasto raggio: quelle ancora resistenti, manifeste o sotterranee, per il romanzo come genere e soprattutto quelle verso la letteratura francese contemporanea, colpevole di essersi fatta merce. Da quella letteratura la critica italiana tende a prendere le distanze, opponendovi la produzione nazionale, ancora tendenzialmente sana. [...].

  In un mondo letterario dantescamente corrotto e dominato dalla cupidigia, Balzac sembra di fatto possedere concentrate, e anzi amplificate, tutte le connotazioni più deleterie del letterato contemporaneo; l’avidità di facili guadagni che produce una scrittura frettolosa che per la quantità deroga alla qualità; il desiderio di immediato successo che determina contenuti esagerati e inverosimili spacciati come reali, e che soprattutto pur di interessare e avvincere derogano alla morale. Vizi, questi, riconducibili ovviamente ad un’unica causa, che è poi la grande questione di quegli anni: la mercificazione dell’arte, l’impatto traumatico tra letteratura e leggi di mercato. [...].

  Se la condanna di una letteratura che per lucro e brama di successo va oltre i confini della morale è comune alla critica di Francia come a quella nazionale, in Italia ad allontanare da Balzac la comprensione e il plauso di chi di letteratura si interessa interviene un elemento in più, spesso non dichiarato ma fortemente operante: non poteva di fatto trovare consensi presso quel ceto intellettuale che si andava mobilitando a sostegno del processo di unificazione nazionale e che, una volta accettato il romanzo, intendeva farne uno strumento atto ad edificare il tessuto sociale, non a demistificarne i meccanismi. Di una sorta di realismo distruttivo parla, per fare un esempio, Giuseppe Mazzini in una lettera alla madre del marzo ’38, dove recisa è la condanna della coeva «letteratura piacevole» francese i cui campioni sono riconosciuti in Janin, Balzac, Sue, Soulié, Gozlan [...].

  La produzione balzachiana viene cioè a trovarsi, in qualche modo, nel posto sbagliato al momento sbagliato, e non è un caso che, franate le illusioni risorgimentali, trovi una maggiore, per quanto ancora confusa, fortuna in ambienti scapigliati e veristi [...].

  Nelle panie della «questione morale» — che inquina e asfissia indagini specificatamente formali — cade anche la critica a favore di Balzac, il cui impegno primo è quello di confutare l’accusa di immoralità. Di un’implicita funzione moralizzatrice della narrativa balzachiana parla, per esempio, Gaspare Aureggio nell’opuscolo De Balzac. Pensieri, edito nel ’39 per i tipi di Pirola [...].

  Alla più solida tradizione nazionale si richiama invece Luigi B-a, recensore per il «Ricoglitore» di numerosi romanzi balzachiani, cui aderisce senza riserve [...].

Lo stesso Ignazio Cantù, in più occasioni visceralmente avverso a Balzac, nel lungo saggio del ’37 – che è poi la sua prima esperienza di un’analisi articolata dell’opera balzachiana — dimostra, al di là del pregiudiziale rifiuto, un grave e non ammesso imbarazzo che si traduce in un atteggiamento critico diviso tra volontà di condanna e inevitabile ammirazione. E la sua monografia, sempre al limite della contraddizione, non trova di fatto un’unità d’impostazione se non nella preconcetta riprovazione dell’opera e delle vicende private di Balzac e nell’implicita incapacità di formulare un giudizio compatto. Dopo aver ironizzato con piacere nelle due prime sezioni del saggio sugli aneddoti più vulgati della biografia balzachiana — dai debiti alle vanità aristocratiche, al viaggio in Italia del ’37 segnato dall’interesse per la Milano mondana e dall’indifferenza per monumenti, pinacoteche e glorie letterarie nazionali — Cantù stila, nella terza sezione, una rassegna dell’opera. Alterna compiaciute censure a inevitabili consensi, parla di «difetti capitali», di «esagerazioni e inutilità», ma anche di «ingegno potente», di «luminose bellezze», di «interesse e movimento». Stronca del tutto o in parte testi quali Le Vicaire des Ardennes, la Physiologie du mariage, l’Histoire des Treize, ma plaude alla moralità di romanzi come Eugénie Grandet, Le Médecin de campagne, Le Lys dans la vallée. E in realtà pochi risultano i testi colpiti da recisa condanna. Sorprendentemente, però, nella sezione succesiva (sic) del saggio — Uno sguardo generale — laddove intende formulare una valutazione complessiva dell’attività di Balzac, Cantù dimentica i consensi appena accordati e costruisce una violenta invettiva che va a colpire sia l’immoralità dei contenuti sia la monotonia e la scarsa originalità delle tecniche narrative, e che si conclude con l’indicazione dei modelli da opporre a quella corrotta letteratura, ossia, oltre agli scontati Promessi sposi, il Marco Visconti, l’Ettore Fieramosca e il Castello di Trezzo. Ma è significativo che le condanne pronunciate in linea teorica in questa sede non trovino un proporzionato riscontro nell’analisi dei testi appena effettuata. Ad ulteriore conferma che una recisa condanna non esaurisce il reale pensiero critico di Cantù, quella stessa invettiva è preceduta da un’epigrafe che ne smorza i toni e che denuncia la difficoltà, e anzi l’impossibilita di formulare su Balzac un giudizio compatto. [...].

  A gran parte della critica italiana di quei due decenni, dunque, Balzac non piace, ma non riesce a risultare un autore facile da liquidare con un netto rifiuto e non solo per la popolarità e il successo di mercato. Paradossalmente, infatti, condanne e riserve critiche più o meno dosate convivono — nel medesimo letterato e nella medesima pagina — con il riconoscimento che Balzac è autore di grande genio e talento. Ed è un giudizio pressoché unanime. Attraverso le maglie della critica italiana di quegli anni, fitte di moralismi e prospettive patriottiche, qualcosa della grandezza di Balzac riesce cioè a passare. Di seduzione dello stile esercitata sull’immaginazione e sul cuore parla, per fare qualche esempio, Angelo Fava sul «Vaglio» del 15 aprile ’37; di «profondo talento, verità e finezza delle osservazioni» Gottardo Calvi sulla «Rivista Europea» del 28 febbraio ʼ39; di «potenza d’ingegno» e «acutezza di osservazione», «Il Crepuscolo» del 1° settembre ’50. E sono giudizi significativamente inseriti in interventi critici che sulla narrativa di Balzac avanzano grandi riserve. Anche Tommaseo, giudice severo di Balzac ma capace di valutarne il potere di coinvolgere il lettore, in un’annotazione del ’33 ammette: «il Ferragus di Balzac. Se la curiosità si potesse eccitare a più nobile fine, la letteratura sarebbe una vera potenza» [...].

  Ciò che soprattutto colpisce è l’abilità di descrivere, di avvincere lettore, la capacità di drammatizzazione non più esercitata sulla storia, secondo il modello scottiano, ma sulla quotidianità contemporanea. Si tratta ovviamente di caratteristiche che dovevano risultare di grande interesse per molti critici italiani, spesso narratori essi stessi. [...].

  A questi riconoscimenti corrisponde l’opinione, altrettanto diffusa, che la scrittura balzachiana presenti, in maniera più o meno dosata, gravi vizi, riconducibili non a carenza di capacità ma alla mentalità di mercato che la muove: la fretta di produrre genera intrecci non sempre convincenti, soluzioni trascurate e fa scadere la capacità di analisi in eccessiva minuzia descrittiva. Luigi Carrer, tra gli altri, intervenendo sul «Gondoliere» del 28 ottobre ’37, nota che al contrario di Walter Scott «i romanzieri francesi si slanciano arditamente sulla scena c poi a fatica raggiungono il loro scopo. Balzac, dotato di infinita facilità, non ha mai potuto creare uno scioglimento verosimile» [...]. Allo stesso modo Ambrosoli denuncia mancanza di misura e di proporzione [...].

  Il contrasto non risolto tra volontà di condanna e riconoscimento inevitabile delle capacità narrative che è alla base di buona parte delle analisi critiche di questi anni, produce irritate antipatie, ostentate indifferenze e fa di Balzac il bersaglio primo dell’ironia dei letterati contemporanei. Una calcolata indifferenza impronta, per esempio, la rassegna di novità editoriali francesi — Movimento letterario in Francia — che tra il 1838 e il 1839 Gottardo Calvi cura, in sei puntate, per la «Rivista Europea». Calvi chiama più volte in causa Balzac quale uno «dei principali maestri della così detta nuova scuola» di Francia e del «turpe mercato letterario» che ivi si consuma, ma evita di occuparsi, se non per accenni, di quanto andava pubblicando in quei mesi. Nel numero del 28 febbraio ’39 liquida in poche righe — divise tra la consueta condanna di una scrittura condotta con intenti da mercante e il riconoscimento che Balzac dimostra «come d’ordinario, profondo talento, verità e finezza nelle osservazioni» — i due volumi delle Études des moeurs comprendenti La Femme supérieure (ora Les Employés), La Maison Nucingen e La Torpille (prima parte di Splendeurs et misères des courtisanes). Con una nota in calce alla puntata quinta dà annuncio dell’uscita presso Souverain del Cabinet des antiques e promette di occuparsene nella puntata successiva, ma in quella sede, lamentando motivi di spazio, avverte di dover «passare sotto silenzio alcuni nuovi racconti o scene di Balzac» [...].

  Per conciliare posizioni critiche spesso divergenti anche all’interno della medesima pagina, si tentano alcune formule di compromesso, ovviamente riduttive, ma capaci di comporre quelle divergenze in un giudizio almeno accettabilmente compatto. La più accreditata e longeva, presente fin dai primi anni Trenta, parla di grande ingegno e talento sprecati perché incapaci di prendere forma in una scrittura dai fini edificanti. [...].

  Alle tre domande che sul «Ricoglitore» del dicembre ’37 Ignazio Cantò aveva posto a se stesso e alla critica — si è egli prefisso uno scopo grande e morale? Ha veramente raggiunto questo scopo? Ha meritatamente diritto ad una generale estimazione? — la maggior parte dei letterati di quei due decenni, bloccati tra morale e patria, non può dare che una risposta negativa. E Balzac resta un «pittore e gran pittore» di costumi, «il famoso, forse troppo famoso Balzac», fissato in una serie di giudizi che, fitti di incrinature, non sembrano in realtà convincere neanche quegli stessi critici contemporanei.

 

 

  Fausto Gianfranceschi, Rileggendo «Massimilla Doni». Quando Balzac scopri il seme del leghismo, «Il Tempo», Roma, Anno XLVIII, N. 112, 7 maggio 1991, p. 3.

 

  «Questa è la vita italiana: il mattino l’amore, la sera la musica, la notte il sonno». Una così bizzarra descrizione delle nostre abitudini appartiene alla novella «Massimilla Doni» di Balza e, riproposta da Sellerio con traduzione, introduzione e note di Giandonato Crico. Ho citato questa frase poiché il sapore principale del testo deriva dal curioso rispecchiamento della nostra immagine nazionale nella mente e nel cuore del grande scrittore francese.

  Anche Balzac ha compiuto — nel 1836-37 — il viaggio in Italia allora indispensabile per ogni spirito raffinato. E «Massimilla Doni» è il racconto, ambientato in Italia, che esibisce quasi subito le impressioni di quel pellegrinaggio (fu pubblicato in stesura definitiva nel 1839, e poi raccolto fra gli «Studi filosofici» della Commedia Umana).

  La trama, che si svolge nel 1820, narra l’amore difficile fra due giovani aristocratici, una fiorentina e un veneziano; difficile per il contrasto quasi insanabile fra amore ideale e amore carnale. Lui vede in Massimilla un essere troppo superiore ed è fisicamente paralizzato dalla soggezione, benché adori la nobildonna e sia ricambiato; invece una cantante tanto sfacciata quanto attraente ha maggior fortuna: il giovane ne è sensualmente travolto, provando poi vergogna per il tradimento verso Massimilla e addirittura disperazione. Alla fine tutto si aggiusta per merito di un medico francese, naturalmente razionalista. Resta nondimeno un velo di tristezza perché l’ideale, incarnandosi, in qualche modo si corrompe.

  Il nucleo «filosofico» del racconto sta nella persuasione dell’autore che «l’idea sarà sempre più violenta del fatto; altrimenti, il desiderio sarebbe meno bello del piacere, mentre invece è più forte, e lo produce».

  Ma al di qua di vicende e di principi così romantici, l’interesse del testo, come accennavo, deriva specialmente dall’ambientazione. Balzac si mostra entusiasta del nostro paese, non tanto per le bellezze naturali quanto per l’arte, la storia, il carattere degli abitanti. Non si contano i paragoni, in nostro favore, rispetto alla Francia o ad altre nazioni. I palazzi italiani meritano descrizioni da Mille e una notte; la nobiltà — anche se decaduta — è la più antica e fiera del mondo; la conversazione nei salotti italiani avvince — anche rispetto al notorio spirito francese — «per un’ironia molle e voluttuosa»; i tratti della donna italiana sono caratterizzati da un’«aria augusta».

  Nell’enfasi sanguigna di Balzac si mescolano osservazioni tanto generose quanto sottili insieme con la brillante presentazione di luoghi comuni, dettati dalla maniera quasi obbligata, per uno straniero, di giudicare gli italiani. In questa ottica convenzionale, i nostri costumi comportano «un continuo godimento e uno studio dei mezzi atti a consevarlo (sic), nascosto sotto un’apparente noncuranza. E’ una bella vita, ma costa cara, perché in nessun altro paese s’incontrano tanti uomini sfiniti».

  Saremmo soltanto degli esteti, intenti a coltivare le nostre passioni; perciò, asserisce Balzac, la donna italiana, quando è innamorata, si abbandona più di ogni altra (ma disgraziatamente per lo scrittore, la milanese Clara Maffei, che egli traspose per alcuni tratti nel personaggio di Massimilla dopo averne frequentato assiduamente il salotto, non volle cedere al suo corteggiamento).

  L’opinione convenzionale si riscatta quando Massimilla rivendica il primato degli italiani, non soltanto antichi, anche moderni, benché soggiogati politicamente: «Dal fondo della sua miseria. l’Italia regna grazie agli uomini eletti che pullulano nelle nostre città ... L’Italia regna ancora sul mondo, che verrà sempre ad adorarla».

  Massimilla svela qual è il sogno per la futura indipendenza nazionale: non il liberalismo borghese che ucciderebbe le arti, ma la rinascita di ogni repubblica italiana con i suoi nobili, il suo popolo e le sue libertà particolari per ogni ceto. «Vorrei le antiche repubbliche aristocratiche con le loro lotte intestine, le rivalità che produssero le più belle opere d’arte, che crearono la politica e misero in luce le più illustri casate principesche. Estendere l’azione di un governo su territori troppo vasti, vuol dire sminuirla».

  Si direbbe che Balzac abbia colto centocinquant’anni fa il seme del leghismo, sebbene le Leghe, oggi, non sembrino affatto preoccupate della promozione delle Arti e dello spirito aristocratico.

  Tornando alla convenzione, l’immagine più abusata (da Balzac a Thomas Mann, fino agli odierni periodici impegni per la salvaguardia) è lo splendido ma angosciante tramonto di Venezia, che «cadeva pietra dopo pietra, uomo dopo uomo». Tanto tempo dopo, alle soglie del Duemila, Venezia continua a tramontare, e sta sempre lì, meravigliosa nella sua decadenza. Che l’Italia sia il paese più ricco e duro del mondo, inesauribile nonostante i colpi del destino e i difetti dei suoi abitanti?

 

 

  Pompeo Giannantonio, Una nuova edizione de «I contadini» di Honoré de Balzac ripropone il tema della vita nei campi. Un mondo in trasformazione sotto l’incalzare dei tempi nuovi, «L’Osservatore romano», Città del Vaticano-Roma, 2 ottobre 1991, p. 3.

 

  Il problema della terra è antico, ma il suo inserimento nel mondo letterario come arena di contrasti sociali e dimora dei diseredati è relativamente recente. Con la rivoluzione industriale, accentuandosi la contrapposizione tra città e campagna, le disagiate condizioni di vita della società rurale richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica e il tema della terra, nell’Ottocento, entrò di prepotenza nel romanzo europeo con successo. Ma il Romanticismo, per l’attenzione che prestava al mondo popolare, non poteva trascurare la vita dei campi che di quel mondo era una parte tanto significativa. Georges (sic) Sand (1804-1876) impersonò più di tutti questa esigenza di conoscenza e di analisi del ceto contadino con il conseguente interesse per le loro ingrate fatiche e le loro innumerevoli sofferenze. Scrisse una serie di romanzi tipicamente campagnoli (La mare au diable [1846], François le Champi [1847], La petite Fadette [1849], Les maîtres sonneurs [1853]) e unanimemente le si riconobbe il merito di aver iniziato un nuovo genere letterario. Ma già in Francia Honoré de Balzac (1799-1850) aveva precedentemente, affrontato il racconto rusticano mostrando fra l’altro che per i contadini «la misère et leur raison d’état», anche se poi tratta con distacco i loro problemi di povertà e le loro illusioni di divenire proprietari in diversi romanzi (Le [sic] Chouans [1829], Le Médecin de campagne [1833], Le Curé du (sic) Village [1839], Les Paysans [1844]). [...].

  Alla base di questa tematica rurale si colloca, dunque, l’opera del Balzac, che fin dal 1829, descrivendo la ribellione della Vandea nel romanzo Gli Sciuani (Les Chuans [sic]) mette in risalto le condizioni di povertà della campagna. Questa analisi sul mondo contadino continua con Il medico di campagna (1833), Il curato del villaggio (1839) e I contadini (1844). Quest’ultimo, uno degli indiscussi capolavori dello scrittore, ci viene ora riproposto nella bella traduzione di Isabella Zoppi dalla SEI di Torino: operazione quanto mai opportuna per il suo non facile reperimento in libreria. Queste opere rusticane ben figurano nel ciclo narrativo della «Comédie humaine» (1829-1847) e meglio rappresentano nel gruppo degli «Studi di costume» la vita grama e disperata della campagna.

  Balzac, analista, studioso della società del suo tempo e attento osservatore delle vicende va considerato al di là della semplice attività di narratore, perché è innanzi tutto lo storico sociale di uno dei periodi più difficili della nostra storia, da cui si dipartono le componenti più qualificanti del nostro mondo contemporaneo: rivoluzione, liberalismo, democrazia, libertà, industrializzazione, uguaglianza, proprietà, capitalismo, parlamentarismo, lotta di classe, autonomie locali, sindacalismo. In questa realtà in fermento e in trasformazione lo scrittore si colloca dalla parte della conservazione e non nasconde le proprie simpatie per il passato.

  Se Balzac non è riuscito ad adeguare la sua visione della realtà all’inarrestabile trasformazione di una società agricola in società industriale ha tuttavia intuito che l’evoluzione di una società ubbidisce alla legge del divenire storico, per cui l’evoluzione di una società è strettamente legata agli scambi che si verificano nell’ambito delle sue classi sociali. Tale innegabile meccanismo è stato adeguatamente evidenziato nella descrizione dello scontro tra il contadino diseredato, emancipato dalla Rivoluzione ma abbandonato al suo destino di miseria, ed il ricco proprietario terriero ritenuto dal romanziere caposaldo della stabilità della nazione e della continuità della tradizione, mentre altri gli fanno carico di tutti i mali. In questa contesa, secondo Balzac, risiede l’avvenire dello Stato.

  L’antagonismo tra la borghesia avida e il proletariato agricolo straccione è al centro del racconto, che descrive l’ascesa sociale del nuovo ceto, mentre i rapporti tra le singole classi sociali si fanno sempre più difficili. Con la Rivoluzione nuovi ricchi sono venuti alla ribalta, ma il loro stile e la loro cultura non sono paragonabili a quelli della nobiltà, che pretendono sostituire.

  Questa visione pessimistica del conservatorismo di Balzac, che non accetta l’evoluzione dei tempi e si chiude in un gretto isolamento, si commuove dinanzi alla sorte dei contadini che si presentavano con «vestiti tagliati, le gambe di bronzo, le teste calve, i colori dei loro cenci stranamente stinti, gli strappi umidi d’unto, i rattoppi, le macchie, le stolte sfilacciate e scolorite», come uno scomposto armento di relitti umani, che destano pietà e inducono al rimorso. La commozione dello scrittore è sincera, ecco perché il racconto diviene appassionato e si colloca come fedele testimonianza di un mondo che si va sgretolando sotto l’incalzare dei tempi nuovi.

 

 

  Stefano Giovanardi, “L’altra amante” di Elisabetta Rasy, “trascrizione” di una novella di Balzac. Una stella nel canile, «la Repubblica», Roma, 5 gennaio 1991.

 

  Viene subito da chiedersi, una volta riemersi dal fittissimo ordito del racconto lungo di Elisabetta Rasy L’altra amante (Garzanti, pagg. 99, lire 21.000), cosa mai si proponesse l’autrice nello scriverlo. Il quesito, beninteso, non implica affatto un giudizio negativo; al contrario, è talmente connaturato all’operazione, che la stessa Rasy ha sentito il bisogno di dare delle spiegazioni in una breve Nota finale. Veniamo così a sapere, qualora non ce ne fossimo già accorti, che il racconto è una «trascrizione» della novella La fausse maîtresse («La falsa amante») di Honeré (sic) de Balzac («l’adattamento di una musica, nel corso del tempo, a uno strumento o a un complesso di strumenti diversi da quelli per cui fu scritta»), e che uno dei momenti di tale trascrizione va rintracciato nel «desiderio di trovare un equivalente, nell’ambito della scrittura, di quegli esercizi che ogni musicista fa quotidianamente sul suo strumento, come necessari esercizi di sopravvivenza, esercizi di respirazione, quasi, piuttosto che di ispirazione». [...].

  [...] qui del racconto di Balzac restano soltanto pochissimi elementi (neanche, direi, il puro scheletro), che a malapena si intravedono fra le maglie di una scrittura tesa a tutt’altro che a semplicemente «trascrivere».

  La fausse maîtresse è la storia di Thaddée Paz, un nobile polacco povero in canna che a Parigi lavora come amministratore e factotum per un suo amico fraterno, compatriota e marito della bella e ricca Clémentine, della quale anche Thaddée è perdutamente innamorato. Presumendo di essere ricambiato, e non volendo a nessun costo far del male all’amico, l’amministratore convince un’acrobata da circo a fingere di essere la sua amante, in modo da attirarsi il disprezzo di Clémentine; alla quale rivelerà il suo amore solo per lettera quando, arruolatosi nell’esercito russo, sarà infine partito per l’Uzbekistan, abbandonando sia l’amico sia la «falsa amante». [...].

  Quella che insomma in Balzac era una delle «scene della vita privata», ricca come tutte le altre di movimento e di follia, di colori e ironia, si trasforma qui in un grande e immobile e algido scenario metafisico, nel quale si celebra la «stasi» come forma privilegiata ed esclusiva dell’immaginario contemporaneo. [...].

  E forse a questo punto si può rispondere con maggior cognizione di causa alla domanda iniziale: manipolando la novella di Balzac, l’autrice si proponeva magari di trasferire in qualche modo la carica drammatica dal testo al contesto, dai conflitti interni alla trama narrativa a quell’unico, profondo conflitto che si stabilisce oggi fra lo scrittore e l’impossibile materia del suo narrare: elaborando così una puntigliosa e circostanziata omelia funebre dell’invenzione letteraria e della sua capacità di finzione.[...].

 

 

  Barbara Stefania Gnesi, Il linguaggio metafonologico nell’opera narrativa di Balzac negli anni 1833-34 (Ferragus; Le Médecin de campagne; Eugènie Grandet; L’Illustre Gaudissart; La Duchesse de Langeais). Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1991.



 Giuliano Gramigna, [su] Una passione nel deserto, in AA.VV., Alle forme estreme dell’amore. Convegno dell’Associazione psicoanalitica “La Pratica Freudiana”, Mantova, 3 (?) febbraio 1991. Cfr. scheda seguente.

 

 

  Giuliano Gramigna, Una passione nel deserto ossia: un amore meno che umano, «Il Piccolo Hans. Rivista di analisi materialistica», Milano, Media presse, n. 69, primavera 1991, pp. 7-21.

 

  «Credete che le bestie siano sprovviste del tutto di passioni? Sappiate che possiamo dare loro tutti i vizi propri al nostro stato di civiltà ...».

  Le frasi che ho citato, all’inizio del racconto balzacchiano Une passion dans le désert, che comparve sulla «Revue de Paris» nel dicembre 1830 (ancorché in coda al testo si legga: 1832), sono da prendere con qualche prudenza. Certo, la prima enuncia il tema stesso del racconto, appunto una «passione», una passion animale; ma quanto ai «vizi» che l’uomo civilizzato impresterebbe, o addirittura imporrebbe, alla bestia, per dir meglio, quanto al processo informativo, di imprinting magari corruttore derivante dal contatto umano, il testo di Balzac non dice proprio nulla. Semmai, esso fonda la propria originalità sulla sostanziale equivalenza fra umano e animale — a livello, appunto, della passione.

  Nello stesso tempo, si esclude dal ventaglio delle letture anche quella che configuri Une passion dans le désert come il referto di una perversione. Più che di fissazione regressiva, conviene parlare, qui, di una ricapitolazione originaria della sessualità — basti notare il dato, su cui tornerò, dell’«odore». Per il momento, si potrà dire che è sulla passion tout court che verte il discorso. Ma per chiarire i riferimenti a chi non abbia subito presente la storia di Une passion dans le désert, sommarizzerò rozzamente precisando che essa racconta dell’imprevedibile legame affettivo nato fra una pantera e un soldato francese, sfuggito nel deserto ai suoi catturatori arabi, durante la campagna d’Egitto di Napoleone; vero e proprio romanzo erotico, con tutti gli abbandoni e le intransigenze, fino alla conclusione funesta.

  Il titolino iniziale del racconto, che vale un poco da esergo, aiuta a indirizzare la lettura: «histoire naturelle d’une histoire surnaturelle» — se appena quel «surnaturelle» lo si capovolga in un «al di sotto», come del resto ho voluto intestare questo mio intervento: «un amore meno che umano», cioè sottratto alle convenzioni, alle garanzie, alla «riconoscibilità», che conferiamo in blocco con la semplice assunzione dell’etichetta di «amore umano».

 

  Sessualità e zoologia.

 

  Dunque, qualcosa che investe la periferia, o se si preferisce, il nocciolo, normalmente escluso, della questione. Quel che tenterò di fare sarà di vedere come si inscriva, nel racconto balzacchiano, la diversità non solo sessuale ma per dir così zoologica, ossia pertinente all’assegnazione ai diversi rami della grande famiglia dei viventi.

  Il che, in sostanza, significa interrogarsi su questo: c’è un desiderio che si possa qualificare animale, in quanto distinto da quello umano? Che cosa risponde, in concreto, il testo di Balzac a questa domanda? E come?

  Il carattere estremo, ossia abnorme, della passione su cui si regge il racconto, non discende soltanto dalla peculiarità della coppia inscenata (soldato/pantera, uomo/animale) ma dalle modalità del suo articolarsi; e secondo analisi corretta, trattandosi di una fiction, è nella strutturazione diegetica del racconto stesso che vanno via via rilevate, e identificate. Posso anche anticipare che proprio nella forma dello scioglimento della storia tale carattere si farà, tecnicamente, visibile.

 

  Funzioni della tecnica narrativa.

 

  In partenza, non è superfluo prendere atto del particolare schema narrativo adottato da Balzac in Une passion dans le désert: che è poi quello, a lui abbastanza familiare, del racconto dentro il racconto, di un racconto secondo incistato all’interno di un racconto primo.

  I rimandi che vengono alla mente sono quelli di Sarrasine e della Grande Bretèche. Anche se, rispetto a Sarrasine, il racconto primo o inglobante di Une passion è molto più esiguo, una semplice cornice, esso ha un punto di contatto essenziale con la storia della Zambinella: in entrambi i casi il «racconto contenuto» ha il carattere di pegno erotico. Esso viene offerto dal suo emittente (addirittura, in Une passion, dal suo estensore — il narratore extradiegetico, per usare la terminologia di Genette, mette in carta la «confidence du soldat», la vicenda quale gli è stata raccontata dal protagonista) come mezzo per ottenere alla fine i favori della donna incuriosita — intento peraltro mancato, in Serrasine (sic), come ognuno sa.

  Ma è proprio tale funzione di medium libidico deferita al racconto a connettersi, non casualmente, con i contenuti, ossia con i significati ultimi dei due testi: che peraltro riguardano entrambi qualcosa di eccezionale nell’ordine della passione, o come direbbe Balzac, di surnaturel.

  Livello diegetico e livello metadiegetico, che è appunto quello della vicenda del soldato e della pantera; racconto a sua volta, rispetto al primario, omodiegetico, giacché concerne un personaggio di quello ... come vedete sto baloccandomi un po’ con la terminologia genettiana, ma solamente per sottolineare che qui la scelta delle forme narrative ha a che fare con ciò che viene raccontato: internandosi di un doppio grado di distanziazione finzionale, il rapporto soldato/pantera sembra recidere supplementarmente i legami con la normalità di ciò che è diretto, immediatamente collegabile a un armamentario di dati.

  Intendo dire che anche la tecnica dei livelli disgradanti concorre a costituire il luogo nel quale possa prodursi l’abnorme, o come preferirei dire, il nostro caso forte. Esso si cerchia come nel fondo di un cannocchiale capovolto.

 

  Il luogo di Eros.

 

  Questo luogo diegetico ostentatorio ha peraltro un nome — un nome addirittura geografico!: è il deserto.

  Accanto a una giustificazione logica (dove potrebbe darsi, se non nel deserto, un connubio per dir così allo stato puro, uomo/belva), ne esibisce una metalogica della propria necessità.

  Certo è il luogo dove il soldato smarrito deve fare i conti con la presenza della pantera — eppoi addirittura farne ménage, mentre aspetta l’improbabile comparsa dei commilitoni; ed è pure il luogo (comune) letterario che consente a Balzac qualche envolée lirico-descrittiva, nel gusto, peraltro discreto, dell’«orientalismo» d’epoca. Ma esso è soprattutto — intendo ai fini di questa nota — un luogo dell’ordine simbolico, e lo dichiara l’ultima battuta del racconto, di bocca del vecchio soldato impazientito: «C’est le Dieu sans les hommes ...».

  Che va letto, io credo, così: il luogo, fuori dai limiti ma anche dalle protezioni costruiti dall’uomo, dove domina esclusivamente Dio: ma appunto, il dio Eros, padrone assoluto come la morte.

 

  Da una gatta a ...

 

  Una prima analisi linguistico-figurale del racconto porta alla luce il processo con cui Balzac umanizza la pantera, o per essere più precisi, la trasforma in «donna», in «amante», secondo i gradi crescenti della civetteria femminile. Già l’identificazione con una «gatta» («une chatte couchée sur le coussin d’une ottomane») l'ascrive a un’animalità domestica e in qualche modo antropomorfizzata — senza contare che «chatte» è appellativo del linguaggio erotico umano. Ma la successione è sempre più significativa: «petite maîtresse», «la plus jolie des femmes», «c’était joli comme une femme», «une vague rassemblance avec la physionomie d’une femme artificieuse», fino a «ma petite blonde» e all’attribuzione di una sovranità libidica incontestabile: «courtisane impérieuse», «sultane du desert».

  In parallelo, si snodano i rimandi ai campi della «grâce», della «mollesse», della «coquetterie». Le picchiettature del manto sulle zampe formano dei «jolis bracelets»; gli anelli bianchi e neri della coda brillano «comme pierreries»; la testa risalta con una «rare expression de finesse»; e a interrompere giochi e civetterie animali, in un punto nodale del racconto, erompe un «grondement» di autentica gelosia ...

  Il processo che ho indicato è piuttosto curioso perché in certo senso contraddittorio rispetto al fondo del racconto. Esso tende a una metaforizzazione dell’animale, a una riduzione finale della pantera in figura retorica del linguaggio amoroso — tanto d’«amor cortese» quanto di corrente intimità quotidiana; dove appunto l’amata, per inaccessibilità araldica o aggressività carnale, sopporta l’immagine della «bella fiera», della «tigre» o della «pantera», secondo terminologia vulgata.

  Su questa strada il racconto si fa normalizzatore; diventa, insomma, un discorso che «raffigura», secondo corrispondenze retoriche convenzionali, le strutture di un topos, appunto la «passione amorosa».

  Ma io credo che ciò sia deviante dal nocciolo duro della trovata balzacchiana. Non c’è dubbio che la pantera sia un simulacro, un Vorbild, qualcosa innalzatoci davanti a significare al posto di qualcosa d’altro. La sua potenza di immagine è testimoniata dal forte valore di stimolazione erotica visiva di cui si rivestono tutte le descrizioni che la riguardano. Ma il rapporto con ciò che essa scherma o sostituisce, non può essere illuminato dal «discorso di corrispondenze» cui accennavo poco fa.

  Si tratta, allora, di ritornare al nocciolo duro dell’invenzione — alla sua intenzione.

 

  La Cosa impenetrabile.

 

  Anticipando un momento, direi così: è l’intenzione di proporre la Cosa impenetrabile.

  Il primo incontro dei due «amanti» (il soldato e la pantera) avviene, non per caso, in una caverna dove il soldato ha cercato rifugio al cadere della notte: insomma, una caverna che potrebbe anche essere quella dell’allegoria platonica, perché in fondo che cosa vi ha luogo se non un atto di conoscenza, con le sue incertezze e i suoi errori?

  Ridestandosi a metà della notte, il soldato percepisce nel buio l’«accento alternativo» di una respirazione potente, la cui «energia selvaggia non poteva appartenere a nessun essere umano». Poi man mano, nero su nero, si disegna l’enorme massa di un vivente accovacciato a pochi passi di distanza.

  L’ospite della caverna si presenta appunto come Cosa impenetrabile non soltanto per effetto del buio, lo smarrimento naturale del primo risveglio, ben più per una sorta di refrattarietà a qualsiasi collocazione immaginaria.

  Il tratto non-umano dell’«énergie sauvage» si congiunge con quello di un odore «penetrante», «grave», che va riempiendo la caverna. Ma né l’urto né l’altro tratto sembrano preordinati a rinviare subito a una classificazione zoologica. Qui si installa un’entità indeterminabile, primaria, sottolineata proprio dalla dominante dell’odore — che istintivamente mettiamo in rapporto con quel passaggio freudiano del Disagio della civiltà sulla svalutazione dell’olfatto rispetto alla sessualità, nel corso dell’evoluzione dell’uomo.

  La pervasività dell’odore inatteso, con effetto dirò così estatico (esso non solo riempie il soldato di un terrore contiguo alla fascinazione — «quand l’eut dégustée du nez ...» — ma rappresenta per lui l’anticamera della conoscenza), è un segnale forte per il protagonista della storia non meno che per il lettore.

  Se la percezione di un accumulo d’energia vitale era stata effetto di una sensibilità prossemica, anch’essa in qualche modo animale, e l’olfatto poi chiamato in causa, di una specie di fulminea regressione — alla fine spetta alla vista di pervenire al riconoscimento della realtà: un riverbero di luna scopre nella caverna il manto picchiettato di una pantera.

  «Quel leone d’Egitto dormiva, arrotolato su se stesso come un grosso cane ...». La Cosa si è ritirata per il momento, dietro l’ordine dell’«histoire naturelle».

 

  Chi è il sedotto? Chi è il seduttore?

 

  È una domanda pertinente, anzi centrale all’intenzione di questa nota.

  Il primo atto seduttorio nasce, secondo il testo, come gesto disperato di difesa. La pantera s’avvicina al soldato, e questi la fissa con un’aria affettuosa, quasi per magnetizzarla, «e con un movimento dolce, amoroso, quasi avesse voluto accarezzare la più graziosa delle donne, le passò la mano lungo tutto il corpo, dalla testa alla coda, titillando con la punta delle unghie le vertebre del dorso ... La belva drizzò voluttuosamente la coda, gli occhi le si addolcirono ... Il soldato, rendendosi conto dell’importanza delle sue carezze, le raddoppiò così da stordire, da inebriare quella cortigiana imperiosa ...».

  È l’unica risorsa che il soldato abbia escogitato per prevenire un’aggressione della belva. Ma forse il testo si lascia sfuggire qualche cosa di più, quando accenna di volo a un effetto ipnotico di soggiogamento che la sola presenza della pantera esercita sul compagno occasionale. Poco oltre, davanti ai movimenti graziosi, e delicati, pieni di civetteria naturale, il soldato si troverà ad esclamare: «C’est comme une petite maîtresse!».

  Ma la funzione autoprotettiva dello sfruttamento della sensualità animale non dura molto. Carezze e lezzi diventano fine a se stessi, un gioco poi addirittura una passione («enfin il se passiona pour sa panthère»). Il rapporto muta, il seduttore scivola senza resistenze nel ruolo di sedotto. La pantera moltiplica le proprie esibizioni: folleggia («folâtrer» è verbo con intenzionalità erotica), salta, striscia, si raccoglie, si rotola ...

  È la messa in scena del desiderio della «sultane»: desiderio imperioso, esclusivo, come provano almeno due episodi. L’inseguimento del soldato, che tenta un ultimo scampo — inseguimento che si risolverà in resa totale, e non senza gratitudine, visto che è la pantera a salvare il suo partner dalle sabbie mobili addentandolo al colletto. E l’episodio dello scoppio di gelosia dell’animale, che non può tollerare che l’uomo, durante uno dei loro tête-à-tête, si distragga a seguire il volo di un’aquila. «Je crois, Dieu m’emporte, qu’elle est jalouse» commenta il soldato; e poco prima aveva ammesso: «il est flatteur d’avoir son premier amour».

  Momento cruciale, molto più di quanto non ammetta l’economia apparente del racconto; cruciale ai fini del discorso che abbozzo con la mediazione di un testo letterario. Ciò che la pantera significa qui è, né più né meno, che l’esigenza insopprimibile di vedere il proprio desiderio riconosciuto dall’altro. Frammezzo ai segni dell’esotismo dell’avventura, se si vuole di una «histoire naturelle sensationnelle», il lettore intravede non solo qualche forma della dialettica amorosa, ma, quantunque proiettata su uno schermo improprio, dell’articolazione del soggetto.

 

  Una Lustpumpe.

 

  Sto prendendomi troppi arbitri rispetto alla lettera di Une passion dans le désert? A meno che non sia piuttosto un arbitrio che ne riguarda lo spirito, ma che la lettera permette. In ogni caso questo è un racconto trompeur, e cercherò più avanti di spiegare che cosa intendo.

  Balzac dedica alla sua pantera una descrizione minuziosa o piuttosto un’inscrizione, cioè qualcosa che inscrive nella trama del realismo romanzesco una simbolizzazione. «Era una femmina. La pelliccia del ventre e delle cosce splendeva di candore. Piccole macchie vellutate formavano graziosi braccialetti intorno alle zampe. Anche la coda muscolosa era bianca, ma terminava con anelli neri. La parte superiore del corpo, color oro matto, liscia e morbida, mostrava la picchiettatura caratteristica ...». Ancora: «Era certo uno degli esemplari più belli della specie: alta tre piedi e lunga quattro, senza contare la coda: quest’arma potente, tonda come un randello, a sua volta non misurava meno di tre piedi. La testa, grande come quella di una leonessa, risaltava per una straordinaria espressione di finezza: vi dominava la crudeltà delle tigri, ma anche una vaga somiglianza con la fisionomia di una donna sofisticata ...».

  Non è tanto un animale quanto una specie di condotto di potenze in moto continuo fra compressione e dilatazione, da fare pensare forse alla Lustpumpe, la pompa del piacere, cui accenna, alquanto enigmaticamente, una lettera di Freud e Fliess — alla fine, magari, un altro aspetto di ciò che si è definito la Cosa impenetrabile.

  Il linguaggio balzacchiano, quando arriva a toccarla è, quasi suo malgrado, un linguaggio di godimento. «Le afferrò le zampe e il muso, le torse le orecchie, la rovesciò sul dorso grattandole i fianchi caldi e serici ...». Un ultimo gioco corpo a corpo, quando il soldato afferra la coda della pantera per il fiocco terminale «pour en compter les anneaux noirs et blancs, ornement gracieux qui brillait de loin au soleil comme des pierreries», vale da figurazione, nemmeno troppo schermata, di un atto sessuale.

 

  Anello anello ...

 

  Une passion dans le désert ci impiglia in una variante inattesa di quella verità che fa il succo del già citato scritto freudiano Il disagio della civiltà, affermando che qualcosa nell’essenza stessa della funzione sessuale ne inibisce il soddisfacimento.

  Tale verità, risuggerita dalla storia di una passione fra un uomo e un animale, assume un tono curiosamente ironico, e rinvia una volta di più a quel carattere di tromperie, cui ho accennato. Il racconto sarà ingannatore in quanto scherma una impossibilità assoluta, dietro una inconciliabilità occasionale di tipo biologico o, se si vuole, dietro un’impossibilità da «storia naturale». Però non è la sola occasione in cui esso si fa gioco del lettore: il carattere estremo della passione che racconta si svela nella indecidibilità fra tragico e comico.

  Le descrizioni della pantera delle quali ho esibito qualche passaggio, somministrano un punto d’appoggio allo sviluppo del mio discorso. Mi riferisco agli «anelli bianchi e neri» che ornano la coda dell’animale (ma anche agli analoghi «jolis bracelets» intorno alle zampe); e alla sfolgorante bianchezza delle cosce e del ventre.

  Si tratta di due insegne che rimandano a un paio di racconti di uno stesso autore — intendo Prosper Mérimée: La Vénus d’Ille e Lokis. [...].

  L’anello, dovrei dire più giustamente gli anelli, che ornamenta la coda della pantera (organo, si è detto, sessuale per eccellenza, almeno nella raffigurazione balzacchiana), è l’omologo dell’anello infilato sventatamente dal signor de Peyrehorade al dito della statua — imprevisto sigillo di nozze e di tragedia.

  L’ho chiamato insegna, perché designa il luogo dove qualcosa di essenziale si annoda e contemporaneamente si rivela, fa parata — ovvero, come si vedrà, confessa il proprio sparire.

 

  La macchia bianca.

 

  Ma il candore, la blancheur étincelante, il secondo reperto cui ho accennato, riveste un valore ben maggiore di quanto non implichi il semplice rinvio all’altro racconto di Merimée, Lokis. [...].

  È stato Lacan a parlare, in proposito, della dissimetria fra i due sessi [...]. E osserva anche che il sesso femminile ha il carattere di un'assenza, di un vuoto, di un buco — di una macchia candida e scintillante, aggiungerei, sulla base dell’esperienza del racconto balzacchiano.

  Il sesso femminile non può dunque essere rappresentato. Tale irrappresentabilità significa — in Une passion dans le désert — un altro impossibile: quello di identificarsi non solo in un ruolo o persona (maschio/femmina, uomo/animale) ma nella sessualità stessa, premessa del suo esercizio.

  Qualche cosa è rimasta inibita nel campo del significante. Tutto ciò ruota intorno all’idea di simulacro (la pantera) e alla funzione della luce (la blancheur). L’irrappresentabilità suppone uno specchio non rotto ma accecato da troppa luce. E il deserto appunto è il luogo privilegiato dove la luce organizza le sue funzioni e i suoi abbagli.

 

  Strisce, punti, colori.

 

  Quella dissimmetria (significante) si riequilibra per così dire in una simmetria diegetica. Alla macchia bianca risponde la macchia nera, lo scotoma vero e proprio. Come si conclude, in tragedia, la passione fra il soldato e la pantera. Il lettore, praticamente, non lo sa: il racconto fornisce in materia pochissime informazioni, sommarie e frettolose. «Par un malentendu», per un malinteso ... Chissà perché, la pantera si rivolta contro il soldato, mordendolo alla coscia; e quello le pianta il pugnale nel collo.

  È vero che ci troviamo di fronte a un procedimento narrativo abbastanza familiare a Balzac, quello che fa precipitare bruscamente la conclusione di una storia — si pensi soltanto all’assassinio di Sarrasine. Ma la rapidità schematica della chiusa di Une passion, che si esenta in tal modo da qualsiasi particolare e motivazione, mi sembra obbedisca soprattutto a uno scopo preciso: cancellare con una macchia nera ciò che non era dicibile, allo stesso modo che, si è rilevato, una macchia candida omologa sottrae alla vista l’irrappresentabile.

  A rigore, è nel rapporto fra questi due momenti, o meglio: fra queste due forme, che la storia d’amore, chiamiamola così, offerta da Balzac, dichiara il proprio carattere estremo, abnorme.

  Ma la lettura del racconto ci ha fatto passare attraverso una serie di segni particolari: anelli, strisce, braccialetti, picchiettature, striature cangianti, profili mutevoli, macchie, zone colorate eccetera — che non riguardano, si badi bene, soltanto il mantello della pantera ma il deserto stesso. [...].

  Scopro alla fine, con un po’ di sorpresa, che la lettura ha fatto emergere in tale specie di amore, l’importanza dei marchi di superficie, a partire dalle due zone di annullamento che ho creduto di identificare.

  Questi dirò così tatuaggi, sono segni linguistici che portano a confrontarci con la questione del desiderio — umano e animale —; della identificazione sessuale; del simulacro, in quanto qui si leghi al sesso; ma anche con l’opposizione potenza/onnipotenza [...].

 

  Dal disotto.

 

  [...]. Perché «meno che umano?» Non di certo per disgradare un rapporto che collega un uomo e una bestia, ma per significare qualcosa che vi avvertivo come essenziale: di prodursi altrove rispetto a ciò che definiscono, e delimitano, di solito i nostri discorsi sulle passioni, con il corteggio di ciò che è perverso e di ciò che non lo è — e chi più ne ha più ne metta. Insomma, in una zona speculativamente un poco più rischiosa.

  Il «meno che» non è un segno si sottrazione, semmai un dato di prospettiva. Si potrà dedurne che Une passion dans le désert è una storia da leggere «dal disotto». [...].

 

 

  Hugo von Hofmannsthal, Sui caratteri nel romanzo e nel dramma. Conversazione tra Balzac e Hammen-PargStall in un giardino di Döbling nell’anno 1842 [1902], in L’ignoto che appare. Scritti 1891-1914. A cura di Gabriella Bemporad, Milano, Adelphi edizioni, 1991 («Biblioteca Adelphi», 232), pp. 147-161.

 

  Cfr., con diversa traduzione, 1958.

 

 

  Balzac [«Der Tag», Berlino, 22 e 24 marzo 1908], Ibid, pp. 316-331.

 

  Non si conosce questo grande autore se di lui si conosce solo questo o quello. Non c’è quel singolo volume che contenga l’essenza della sua realtà poetica, come il Faust o le Poesie comprendono l’essenza della realtà di Goethe. Balzac vuol esser letto per esteso, e non occorre arte per leggerlo. È la lettura più naturale della gente di mondo, prendendo il termine nel senso più largo, dallo scrivano di avvocato o dal commesso su fino al gran signore. Alla gente di mondo leggere Goethe costa piuttosto ogni volta un piccolo sforzo, un certo trapasso: parlo di uomini di ogni ceto, politici, soldati, viaggiatori di commercio, di donne dell’alta società e di donne semplici, di sacerdoti, di tutti coloro che non sono letterati né belli spiriti, e di tutti quelli che non leggono per un bisogno culturale ma a ricreazione della propria fantasia. È più che probabile che Goethe si neghi loro nei momenti penosi e confusi della loro esistenza; Balzac troverà sempre accesso. Non l’intendo in senso letterario: ché in Goethe il primo verso che incontreranno sarà sempre qualche cosa di meraviglioso, una musica di spiriti, una formula magica, e in Balzac incapperanno facilmente in tre o quattro pagine noiose, stancanti, non solo al principio di un racconto, ma eventualmente ad apertura di libro. Ma già mentre scorrono meccanicamente quelle pagine indifferenti e piuttosto faticose, comincerà ad agire su di loro qualcosa a cui il vero lettore, il lettore vivo e umano, mai si sottrae: una grande fantasia, infinitamente corposa, la fantasia creativa più grande e corposa che sia stata dopo Shakespeare. Quale che sia la pagina a cui aprano il libro, a una digressione sul diritto cambiario e le pratiche degli usurai, a un excursus sulla società legittimista o liberale, alla descrizione di un interno di cucina, di una scena coniugale, di un viso o di una spelonca, sentiranno mondo, sostanza, la stessa sostanza di cui è formata la loro intera vita. Potranno passare direttamente dalla loro vita a questi libri, direttamente dalle loro preoccupazioni e contrarietà, dalle loro storie preferite e questioni di denaro, le loro faccende e ambizioni triviali. Ho incontrato il finanziere che immediatamente dopo le sue sedute e conferenze allungava la mano verso il suo Balzac, dove come segnalibro aveva le ultime quotazioni della Borsa, e la signora di mondo che nelle Illusions perdues o La vieille fille trovava l’unica lettura possibile per ritrovarsi, la sera, dopo che si è stati tra la gente o si è ricevuta gente in casa propria, l’unica lettura abbastanza forte e pura da guarire la fantasia dalla febbre violenta e sconvolgente della vanità e ridurre tutto ciò che è sociale al suo valore umano. E questa funzione, di penetrare nella vita umana, guarire il simile con il simile, debellare la realtà con una più alta realtà demonica, – mi chiedo quale dei grandi autori che contano nella nostra vita spirituale possa qui gareggiare con Balzac – e fosse pare Shakespeare. Ma leggere Shakespeare come altre generazioni hanno letto gli antichi – intendo leggerlo così da trarne la totalità della vita, leggerlo dalla prospettiva della vita e appagare in lui i più veri bisogni della propria sete di conoscenza – non è cosa da tutti. Non è cosa da tutti tendere la propria forza d’immaginazione così che superi la distanza di tre secoli, penetri attraverso tutti i velami di un’epoca splendida ma estremamente diversa e dietro ad essi scorga soltanto l’immutabile vicenda delle azioni e delle sofferenze umane. Non è cosa da tutti, senza l’aiuto dell’attore, senza il dono particolare di una immaginazione ricreatrice, sciogliere la più geniale abbreviatura e concentrazione che mai sia stata compiuta in una immagine così ampia del mondo da ritrovarvi se stessi e quei fili infinitamente intrecciati dell’esistenza il cui incontro rappresenta la propria realtà. [...].

  Nulla è più impensabile di un lettore che si avvicini alle opere di Balzac per una via indiretta. Pochissimi dei suoi innumerevoli lettori sanno qualcosa della sua vita. I letterati conoscono di lui alcuni piccoli aneddoti, che non interesserebbero nessuno se non si riferissero all’autore della Comédie humaine, e il carteggio con una persona, che non contiene quasi altro che bollettini sul suo lavoro incessante, gigantesco, che non ha nulla di paragonabile nel mondo letterario. Che noi siamo capaci di leggere quegli interminabili bollettini con lo stesso interesse del resoconto di una campagna di Napoleone, in cui si tratta di Austerlitz, Jena e Wagram, è la prova più convincente dell’immensa forza delle sue opere. I suoi lettori conoscono le sue opere e non lui. Dicono Peau de chagrin e ricordano un sogno a occhi aperti, un’avventura fantastica, non l’opera di un poeta; pensano al vecchio Goriot e alle sue figlie e non ricordano come si chiami l’autore. Sono ormai entrati in quel mondo, e novanta su cento tra essi vi ritorneranno continuamente, dopo cinque, dopo dieci, dopo venti anni. Walter Scott, che un giorno veniva letto con delizia dagli uomini maturi, è diventato la lettura dei ragazzi. Balzac resterà sempre (o per molto tempo, chi può parlare di «sempre»?) la lettura di tutte le età della vita, e degli uomini come delle donne. Le storie di guerra e d’avventure, gli Chouans, L’auberge rouge, El Verdugo, prendono nella fantasia di un sedicenne il posto delle storie di indiani e del capitano Cook; le esperienze dei Rubempré e dei Rastignac sono la lettura dell’uomo giovane; Le lys dans la vallée, Savarus, Modeste Mignon, della giovane donna; uomini e donne intorno ai quaranta, maturi ma non ancora impoveriti, si atterranno a ciò che egli ha di più maturo; a Cousine Bette, il libro grandioso, che non posso chiamare cupo anche se contiene quasi soltanto cose brutte, tristi e spaventose, poiché arde di fuoco, vita e saggezza, – a La vieille fille, che unisce una plasticità delle figure superiore ad ogni lode alla più profonda saggezza di vita, e con tutto ciò è piccolo, circoscritto, piacevole, sereno, un libro incomparabile sotto ogni punto di vista, un libro forte abbastanza da portare di per sé solo la fama del suo autore attraverso le generazioni. Ho sentito un vecchio signore che decantava i Contes drolatiques e ho udito un altro vecchio signore parlare con commozione della storia di César Birotteau, quella continua ascesa di un brav’uomo, di anno in anno, di bilancio in bilancio, di onore in onore. E se ci sono stati uomini che ritagliavano dal Wilhelm Meister le Confessioni di un’anima bella e bruciavano il resto, c'è stato sicuramente anche l’uomo che dalla Comédie humaine ha ritagliato Séraphitus-Séraphita e se n’è fatto un libro di edificazione, e forse quest’uomo era quello sconosciuto che a Vienna, in una sala di concerto, si fece largo fino a Balzac per baciare la mano che aveva scritto Séraphita.

  Della totalità della vita ciascuno trova qui quanto gli è omogeneo. Quanto più ricca è una esperienza, quanto più forte è una immaginazione, tanto più si accosterà a questi libri. Qui nessuno ha bisogno di lasciare fuori qualcosa di sé. Tutte le sue emozioni, impure come sono, entrano in gioco. Qui egli trova il suo proprio mondo interno ed esterno, solo più serrato, più singolare, illuminato dal di dentro. Qui sono le forze che lo determinano e le inibizioni che lo paralizzano. Qui sono le malattie dell’anima, le brame, le aspirazioni quasi assurde, le vanità che divorano; qui sono tutti i demoni che s’agitano in noi. Qui è anzitutto la grande città, a cui siamo abituati, o la provincia, nel suo particolare rapporto con la grande città. Qui è il denaro, la mostruosa potenza del denaro, la filosofia del denaro tradotta in figure, il mito del denaro. Qui sono gli strati sociali, gli aggruppamenti politici, che più o meno sono ancora i nostri, qui è la febbre dell’arrivismo, la febbre del guadagno, la fascinazione del lavoro, i misteri solitari dell’artista, dell’inventore, tutto, giù giù fino alle miserie della vita piccolo borghese, alle piccole ristrettezze, al guanto smacchiato troppe volte con fatica, ai pettegolezzi della servitù.

  La verità esterna di queste cose è così grande che è stata capace di conservarsi per così dire separata dal suo oggetto e di migrare come un’atmosfera; la Parigi di Luigi Filippo è scomparsa, ma certe costellazioni, il salotto di provincia, in cui Rubempré fa i suoi primi passi nel mondo, o il salotto di Madame de Bargeton a Parigi, sono oggi di una sconcertante verità per l’Austria, la cui condizione sociale e politica è forse molto simile a quella della monarchia di luglio: e ceni tratti della vita di Rastignac e di de Marsay sono oggi forse più veri per l’Inghilterra che per la Francia. Tuttavia la vernice di questa «verità» per noi palpabile, eccitante, – tutto quel primo grande nimbo della «modernità» che circonda quest’opera, svanirà: ma la verità interiore di questo mondo esploso dalla fantasia (e che solo per un attimo s’incontrò in mille punti secondari con la realtà effimera) è oggi più forte e viva che mai. Questo mondo, l’allucinazione più completa e poliedrica che mai sia stata, è come carica di verità. La sua corposità si scioglie allo sguardo attento in una contemporaneità di innumerevoli centri di forza, di monadi che hanno in sé la più intensa, sostanziale verità. Nelle vicende alterne di queste vite, di queste storie d’amore, intrighi di denaro e di potere, casi di paese o di piccole città, aneddoti, monografie di una passione, di una malattia psichica o di una istituzione sociale, nell’intrico di quasi tremila esistenze umane, viene toccato quasi tutto ciò che ha un posto nella nostra civiltà complicata, anzi confusa. E quasi tutto ciò che vien detto su queste miriadi di cose, rapporti, fenomeni, è pregno di verità. Non so se si è già tentato di comporre un lessico (ma si potrebbe farlo ogni giorno) il cui contenuto fosse tutto attinto da Balzac. Conterrebbe quasi tutte le realtà materiali e tutte le spirituali della nostra esistenza. Non vi mancherebbero né ricette di cucina né teorie chimiche; i particolari del commercio del denaro e delle derrate, i particolari più precisi, più utili, empirebbero colonne; sul commercio e sui traffici si apprenderebbero molte cose che sono invecchiate e parecchie che sono eternamente vere ed estremamente valevoli, e accanto a queste, sotto opportune voci, si potrebbero accogliere le più audaci intuizioni e anticipazioni di conquiste delle scienze naturali di decenni più tardi; gli articoli che andrebbero riuniti sotto le voci «matrimonio» o «società» o «politica» sarebbero ciascuno un libro a sé e ciascuno un libro che non avrebbe l’eguale tra le pubblicazioni del pensiero del diciannovesimo secolo. Il libro che conterrebbe l’articolo «amore» e che in un arco audacissimo passerebbe dai misteri più inquietanti, più impenetrabili (Une passion dans le désert), attraverso un caos pregno di tutti i sentimenti umani, fino all’amore angelico più spirituale, porrebbe in ombra, per la grandiosità della sua concezione, per l’estensione della sua gamma, quel celebre libro dello stesso nome che possediamo e che è della mano di un maestro. Ma infine questo lessico esiste. È intessuto dentro un mondo di figure, in un labirinto di vicende, e lo si sfoglia mentre si segue il filo di un racconto di meravigliosa invenzione. In questi volumi l’uomo di mondo ritroverà percorsa l’intera serie delle situazioni illusorie eppure reali in cui consiste il rapporto sociale. Le mille sfumature del modo in cui uomini e donne possono trattare qualcuno bene o male; i trapassi inavvertibili; le inesorabili gradazioni, l’intera scala della vera distinzione, fino alla semi-distinzione, alla volgarità: tutto questo in ogni sua variazione e rotto nel modo più meraviglioso dall’elemento umano, da quello passionale, e per attimi ridotto al suo nulla. L’uomo volto al guadagno (e chi non ha da guadagnare o da conservare o da privarsi?) vi trova tutto il suo mondo: tutto in tutto. Il grande giocatore di Borsa, il medico arrivato, l’inventore che soffre la fame e l’inventore trionfante, il sarto grande e piccolo, il commerciante che fa fortuna, il fornitore dell’esercito, il notaio intermediario di affari, lo strozzino, l’uomo di paglia, il prestatore su pegno, e di ciascuno non uno, ma cinque, dicci tipi, e che tipi! e con tutti i loro trucchi del mestiere, i loro segreti, la loro verità ultima. I pittori sostengono tra loro la leggenda che provenga da Delacroix ciò che nello Chef-d’oeuvre inconnu è detto di estrema sottigliezza e familiarità sul modellare per mezzo della luce e dell’ombra; tali verità sono per loro troppo sostanziali perché le possa aver trovate qualcuno che non sia stato pittore, e un grande pittore. Il pensatore a cui si sia dato in mano Louis Lambert come monografia su un pensatore può trovare debole la parte biografica e dubitare della realtà della figura: ma quando arriva al materiale di pensiero riportato in lettere e appunti, la consistenza di tali pensieri, la forza sostanziale di questo pensatore si farà così convincente che ogni dubbio su quella figura svanirà in un soffio. Questi sono i pensieri di un essere umano, questo cervello ha funzionato – si possano per il resto rifiutare o no i pensieri, quella filosofia di un sognatore spiritualistico. E l’uomo sposato, a cui in un’ora pensosa cada tra le mani la Fisiologia del matrimonio, s’imbatterà in questo libro singolare, e forse un poco screditato tra le opere di Balzac per un certo tono semi-frivolo, in alcune pagine le cui verità sono altrettanto delicate che profonde e degne di considerazione, verità vere, verità che, accolte, per così dire si espandono e continuano ad agire nell’intimo con una forza dolce e raggiante. E tutte queste verità non hanno nulla di esoterico. Sono espresse in un tono mondano, talvolta quasi leggero. Intrecciate a vicende e descrizioni, rappresentano gli elementi più spirituali nel corpo di un racconto, di un romanzo. Ci vengono porte così come la vita stessa ci porge il suo contenuto: in incontri, catastrofi, nel dispiegarsi delle passioni, in improvvise considerazioni e illuminazioni, radure repentine nel fitto bosco dei fenomeni. Qui è al tempo stesso il quadro più appassionato e completo della vita e una stupefacente e sottilissima filosofia, che è pronta a prendere l’avvio da qualsiasi fenomeno della vita, per modesto che appaia. Così attraverso tutta la grande opera, la cui visione del mondo è altrettanto cupa di quella di Shakespeare, e insieme tanto più opprimente, torbida, grave per la sua stessa massa, è tuttavia effusa una vitalità spirituale, anzi, una serenità spirituale, un profondo appagamento: come si potrebbe chiamare altrimenti ciò che, quando uno di questi volumi ci viene tra le mani, ci fa continuamente sfogliare in avanti, indietro, non leggere ma sfogliare, ciò in cui è un amore più sottile, legato ai ricordi – e ciò che della semplice enumerazione dei titoli di questi cento libri, o dell'indice delle figure che vi appaiono, fa a volte una sorta di lettura sommaria, il cui godimento è complesso e intenso come quello di una poesia amata?

  L’accumulo di una così immensa massa di verità sostanziale non è possibile senza organizzazione. La forza ordinatrice è forza creativa non meno di quella produttiva. Sono piuttosto solo aspetti diversi di un’unica forza. Dalla verità di miriadi di fenomeni singoli deriva la verità delle relazioni tra essi: così sorge un mondo. Come in Goethe mi sento qui in sicuro rapporto col tutto. C’è un invisibile sistema di coordinate su cui mi posso orientare. Qualunque cosa io legga, uno dei grandi romanzi, una delle novelle, una delle rapsodie fantastico-filosofiche, e che io mi addentri nei segreti di un’anima, in una digressione politica, nella descrizione di una cancelleria o di una bottega, mai mi trovo fuori da questo rapporto. Sento che intorno a me è un mondo organizzato. E il grande segreto è che questo mondo che mi circonda senza una lacuna, questa seconda realtà più densa, più penetrante, non agisce come un peso opprimente, come un incubo, togliendo il respiro. [...]. Balzac non lo vediamo. Ma vediamo con i suoi occhi come tutto si trasforma. I ricchi diventano poveri, e i poveri diventano ricchi. César Birotteau sale e il barone Hulot scende. L’anima di Rubempré era come un frutto intatto, e davanti ai nostri occhi si trasforma, e noi lo vediamo afferrare la corda e metter fine alla sua vita insozzata. Séraphita si libera e dispare in cielo. Ciascuno non è ciò che è stato, e diventa ciò che non è. Qui siamo tanto profondamente nel cuore della visione epica della vita quanto in Shakespeare nel cuore di quella drammatica. Tutto fluisce, tutto è in cammino. Il denaro è solo il simbolo, genialmente concepito, di questo movimento che avviene infinitis modis, e allo stesso tempo il suo veicolo. Col denaro tutto giunge a tutto. Ed è nella natura di questo mondo, visto in questo modo grandioso ed epico, che tutto giunga a tutto. Dappertutto sono trapassi, e null’altro che tra-passi, nel mondo etico come in quello sociale. I trapassi tra virtù e vizio – due concetti mitici, che nessuno sa bene afferrare – sono graduati altrettanto sottilmente e con altrettanta continuità di quelli tra ricco e povero. Nelle cose più distanti e più contrastanti stanno certe affinità segrete per cui tutto è legato a tutto. Tra un portiere nella sua abitazione sotterranea e Napoleone a St.-Cloud può balenare per un momento una segreta affinità che è infinitamente più che una semplice trovata scherzosa. Nel mondo tutto agisce su tutto: perché questo non dovrebbe essere determinato dalle più misteriose analogie? Tutto fluisce; in nessun luogo si dà un blocco rigido, né nello spirituale, né nell’esistenza esteriore. «Amore» e «odio» sembrano ben separati e nettamente circoscritti: e io conosco questa e quella figura in Balzac nel cui petto questi sentimenti trapassano l’uno nell’altro gradatamente, come i colori del ferro rovente. Philomène odia Albert Savarus o lo ama? Da principio lo ha amato, alla fine sembra che lo odii; agisce spinta da un’ossessione che forse è insieme odio e amore, e se si potesse chiederglielo, non saprebbe dire quale dei due sentimenti la torturi. Qui un abisso ci divide dal mondo del diciottesimo secolo con i suoi concetti, come «virtù», che sono fissi, definiti e dogmatici, ben adatti a sostituire concetti fissi e teologici. Qui ogni mitologia, anche quella delle parole, è dissolta. E mai come qui siamo così vicini a Goethe. Qui, vicinissimo, anzi nello stesso letto, corre la profonda fiumana della sua visione. Ma era l’atteggiamento dominante della sua vita spirituale volgersi qui verso il lato opposto. Il flusso delle forze della sua natura era così potente che minacciava di sopraffarlo. Dovette contrapporgli ciò che perdura, la natura, le leggi, le idee. Su ciò che nel mutamento permane egli fissò lo sguardo dell’anima. È così che vediamo il suo volto, così si è formata la maschera del mago contemplante. Il volto di Balzac non lo vediamo come una maschera olimpica, troneggiante al di sopra delle sue opere. Solo nelle sue opere ci sembra talvolta di vederlo emergere, visionario, sbalzato da oscurità caotiche, masse turbinose. Ma non siamo capaci di fermarlo. Ogni generazione lo vedrà diverso, ognuna lo vedrà come un volto titanico e ne farà a suo modo un simbolo di indicibili processi interiori. Ci meravigliamo di non possederlo per mano di colui che ha creato Il massacro di Scio e La barca di Dante. Egli avrebbe ritratto Balzac trentenne da quel titano che era, quale un demone della vita, o trattato il suo viso come un campo di battaglia. È una sorprendente lacuna che la maschera del cinquantenne non ci sia stata più tardi tramandata da Daumier. La sua meravigliosa matita e il suo altrettanto meraviglioso pennello avrebbero fatto balzare dall’ombra la grandiosità faunesca dell’uomo e l’avrebbero nobilitata con la selvaggia solitudine del genio. Ma forse quelle generazioni gli erano troppo vicine, ed era necessaria la distanza che noi abbiamo da lui perché potesse nascere qualcosa come la figura di Rodin, quel volto sovrumano, divenuto compiutamente simbolo, in cui uno spaventoso peso della materia si accompagna a qualcosa di indicibile, una oscura, grave demonìa, che non è di questo mondo, un volto in cui si compie la sintesi di mondi affatto diversi : che tuttavia ricorda un angelo caduto e insieme la cupa, profondissima malinconia di primordiali demoni greci della terra e del mare.

  Ogni generazione che dalla lettura delle opere di Balzac crea dentro di sé la visione di quel volto compirà una simile sintesi fra tutta la gravezza della vita che ha in sé e l’aspirazione più segreta verso il superamento di questa pesantezza, verso la redenzione, il volo. L’appartenenza all’oscura, schiacciante massa della vita, che eternamente si autofeconda, e insieme la volontà di superarla, il profondo anelito dello spirito verso lo spirito: questa è la segnatura di quel grande volto tragico, che non sembra, come la maschera di Goethe, guardare di là da noi nell’eternità, ma attraverso noi, attraverso la gravezza della vita. Questo mondo gigantesco, costruito dalla nostra vita, la vita delle brame, dell’egoismo, degli errori, delle grottesche, nobili e ridicole passioni, questo mondo, nel cui amalgama i concetti di «commedia» e «tragedia» si dissolvono così come quelli di «virtù» e «vizio», questo mondo è nel profondo tutto movimento, tutto anelito, tutto amore, tutto mistero. Questo apparente materialista è un appassionato veggente, un estatico. L’essenza delle sue figure è aspirazione. Tutte le forze di sopportazione, le forze dell’amore, le tensioni degli artisti, le monomanie, queste forze titaniche, i grandi motori del suo mondo, sono aspirazione: tutte tendono a qualcosa di supremo, d’ineffabile. Vautrin, il genio come delinquente, e Stenbock (sic), il genio come artista, Goriot, il padre, Eugénie Grandet, la fanciulla, Frenhofer, il creatore, tutti sono rivolti a un assoluto che si manifesterà, come le navi sbattute dalla tempesta notturna sono rivolle alla presenza della stella polare, anche se le tenebre la nascondono. Nelle profondità del loro cinismo, nei vortici dei loro tormenti, negli abissi della rinuncia, cercano e trovano Dio, gli diano o no questo nome.

  Tutte queste figure così corpose non sono altro che incarnazioni effimere di una forza che non ha nome. Attraverso queste infinite relatività irrompe un assoluto; da questi uomini si affacciano angeli e demoni. Ogni mitologia, anche l’estrema, la più tenace, quella della parola, qui è dissolta: ma una nuova, misteriosa, tutta personale, ha preso il posto dell’altra. La sua concezione è grandiosa e talmente precisa, eppure vaga, che centinaia di migliaia di uomini la possono accettare e farsene una sorta di mito della vita moderna. Tutte queste figure, che si affollano alla fantasia come tanto «reali», sotto una certa luce misteriosa che cade dalle vette di quest’opera appaiono come genii buoni e malvagi, esseri in cui s’incarnano temporaneamente gli impulsi umani. Ma nulla in questa concezione è schematico. Qui non sono statuiti dei dogmi, ma delle visioni. Taine, che esattamente mezzo secolo fa ha scritto il suo grande saggio su Balzac, misura queste intuizioni, queste verità fluttuanti, vere tutte per un attimo solo, e solo in quell’unico luogo in cui stanno, con un metro che esse non sopportano. Da un poeta non si può estrarre nulla di singolo. Tutto ciò che all’interno di un mondo è verità, anzi più che verità – sconfinata divinazione – diventa una mostruosa fantasmagoria se lo si strappa dal suo contesto. Si tratta di forme di visione. Il pensatore vede princìpi, astrazioni, formule, là dove il poeta scorge la figura, l’uomo, il demone.

  Ad ogni modo qui, anche considerando con uno sguardo freddo, si compie la sintesi più grandiosa. Qui Novalis, il mago, s’incontra veramente con gli inizi titanici di un vero naturalismo; qui Swedenborg si congiunge a Goethe o Lamarck. Qui è, in senso preciso, l’ultima parola del cattolicesimo e allo stesso tempo si affaccia come stella dalle nebbie il presentimento delle scoperte di Robert Mayer. La forza che soggiogherà ancora più di una generazione sta nel fatto che la realtà della vita, la vraie verité, giù fino alle più triviali miserie della vita, è impregnata di spirito. La spiritualità del diciannovesimo secolo, quella gigantesca spiritualità sintetica, è qui costretta nella materia della vita come un vapore ardente che penetra tutte le fibre. Dove le precipitazioni di quel vapore si cristallizzano fortemente e chiaramente, come nel Louis Lambert, nella Recherche de l’absolu, nello Chef-d’oeuvre inconnu, là si producono catene di pensieri, intuizioni, aforismi che non si possono paragonare ad altro se non ai Frammenti di Novalis. Ma tali cristallizzazioni, che in Novalis sono quasi tutto ciò che ci è rimasto, sono qui soltanto un prodotto secondario di questi processi organico-spirituali. Più ammirevole ancora è il fenomeno che si produce quando la forza compressa di questa spiritualità sospinge la materia vivente, quando nascono figure il cui invasamento ci fa sentire la presenza dello spirituale nel cuore della vita: così è Claës, l’instancabile ricercatore dell’assoluto, così è Louis Lambert, così è Séraphita. E così è, al di sopra di ogni singola circostanza, la concezione che Balzac ha dell’amore. Il suo «amore» è la creazione più individuale e impareggiabile. È tutto a- spirazione e insieme il medium della più misteriosa sintesi tra lo spirituale e il sensuale. È un fenomeno misterioso, che non vorrei dissolvere con parole. Esso non prende, come dimensioni, un grande spazio in quest’opera poderosa. Eppure mi sembra ciò che le dà calore e luce, e senza di esso quella grave massa, quell’oscuro mondo umano mi apparirebbe non altrimenti che pauroso.

  Qui è un mondo brulicante di figure. Non v’è nessuna tra esse così potentemente concepita, così compiuta in se stessa, da potere, distaccata dal suo sfondo, esistere di per sé, nell’imperitura compiutezza del suo gesto, come Don Chisciotte, come Re Lear, come Ulisse. In materia è più friabile, la visione non è di così raggiante chiarezza che ne possano emergere figure modellate nella luce più pura, più forte, come l’Achille omerico, come Nausicaa, o in delicatissima penombra come Mignon e Ottilia. Tutto è connesso, tutto è condizionato. Staccarne un particolare singolo è in lui impossibile come da un quadro di Rembrandt o di Delacroix. Qui come là la grandiosità sta in una stupenda ricchezza dei valori tonali, che su e giù, infinitis modis come la natura stessa, formano una scala senza lacune. Quelle figure sembrano incedere liberamente come dèi: come siano nate è mistero impenetrabile; queste sono note singole di una sinfonia titanica. La loro nascita ci sembra più comprensibile, crediamo di portare nel nostro sangue gli elementi di cui sono formati i loro cupi cuori, e di aspirarli con l’aria delle grandi città. Ma anche qui regna qualcosa di ultimo, di superiore. Come la scala che va dall’oscurità alla luce in un Rembrandt somiglia alla luce terrestre e all’oscurità terrestre solo in quanto è ininterrotta, convincente, assolutamente giusta: ma di là da questo agisce in essa qualcosa che non ha nome, la presenza di una grande anima che in quelle visioni si abbandona essa stessa a un essere supremo, così qui nelle miriadi di piccoli tocchi con cui è ritratto un mondo che brulica di figure vibra qualcosa di ultimo a cui è difficile dare un nome: la plasticità di quel mondo arriva fino a un eccesso di pesantezza, la sua oscurità fino al nichilismo, la mondanità con cui è trattato fino al cinismo: ma i colori con cui è dipinto sono puri. Un coro d’angeli del Beato Angelico non è dipinto con pennello più puro delle figure in Cousine Bette. In quei colori, i veri e propri elementi essenziali dello psichico, non v’è nulla di torbido, nulla di morboso, nulla di blasfemo, nulla di basso. Sono incorruttibili, difesi da ogni fiato malsano. Vibra in essi una gioiosità assoluta, non tocca dalla tenebrosità del tema, così come la divina gioiosità dei suoni in una sinfonia di Beethoven non può essere in alcun momento turbata dalla terribilità dell’espressione musicale.

 

 

  Carlo Laurenzi, «Massimilla Doni», racconto che mette in luce il cattivo influsso dell’Italia sulla scrittura di Honoré de Balzac. Un romanzo coi fiocchi, anzi fiocchetti, «il Giornale», Milano, 27 gennaio 1991.

 

  Dice Proust, il quale vedeva più lontano degli altri, che ci si finisce per affezionare alle «piccinerie» e alle «volgarità» di Balzac perché lo connotano fortemente, in maniera che «lo si ama di un amore cui si mescola una punta di ironia», quindi d’un amore sicuro. Non si tratta di «scrivere bene»; Balzac – se lo paragoniamo, per esempio, a Flaubert – «scrive male» e il guaio, per fortuna infrequente, è che Balzac, quando si picca di scrivere bene, «scrive bello», vale a dire si fa insopportabile. Ecco allora la prosa infiocchettata di Massimilla Doni, romanzo di ambiente italiano apparso nel 1839 e raccolto sei anni dopo in quegli (sic) Etudes Philosophiques che si propongono di celebrare il trionfo del pensiero sulla materia. Vedremo come si concreti questo trionfo; una prima osservazione, pero, dovrà riguardare l’influsso negativo del nostro Paese sulla letteratura di Balzac. Stendhal visse a lungo fra noi e aveva l’Italia nel sangue (troviamo in Massimilla un riferimento a lui, Stendhal, «scrittore fra i più ingegnosi del tempo, uno di quelli che hanno meglio osservato l’Italia»! mentre le opere d’arte e il paesaggio italiani, particolarmente a Venezia, hanno su Balzac l’effetto di abbacinarlo o addirittura di fuorviarlo.

  È come se l’Italia, terra del bel canto e delle passioni, lo spronasse a una sfida: Balzac vide l’Italia nel 1836 – Genova, Bologna, Firenze, Livorno oltre che Venezia (sic) – e la sfida fu perduta. Ferdinando Neri ha parlato giustamente di un «clima italiano di maniera, semplice variazione su motivi che stavano diventando tradizionali, così da rendere incerta e minacciata la mano sicura di Balzac». La sua prosa, il cui pregio consiste di solito in una sorta di «obbiettività visionaria» cede in Massimilla a una tentazione flautata, quasi a rivaleggiare con la profonda, musicale malinconia di Chateaubriand. Le impennate sono rare: citerei l’assalto all’esibizionismo di Byron, «piombato su Venezia come un corvo su un cadavere»; o l’improvviso sottrarsi all’adulazione degli italiani, «i costumi dei quali comportano un continuo godimento ed è una bella vita ma costa cara perché in nessun altro paese si incontrano tanti uomini sfiniti»; o il ritratto crudele del duca siciliano Cataneo: «Tutti i vizi avevano azzannato la loro porzione di quel cadavere ancora vivo» e, quanto all’abbigliamento del duca, esso «comprendeva cinque colori se si vuol accettare come tale il nero del cappello; i pantaloni erano verde oliva, il panciotto rosso scintillava di bottoni dorati, la giacca tendeva al verde, la biancheria si avvicinava al giallo». Terribile. Ma possiamo chiederci se questo vestiario policromo non rammentasse un poco la vanità chiassosa cui l’uomo Balzac. notoriamente, aspirava.

  Il duca Cataneo è un personaggio marginale del racconto; l’azione, piuttosto stagnante, si incentra intorno alla giovanissima, bellissima, e virtuosissima moglie del duca, Massimilla Doni, appunto, la cui origine è fiorentina. Massimilla ha stupendi occhi neri, «bei capelli neri stretti in un cerchietto d’oro» e un’anima assetata di libertà – anche politica, cioè antiaustriaca – pur detestando «l’ignobile, borghese liberalismo che ucciderebbe le Arti» e auspicando la rinascita di «ogni repubblica italiana con i suoi nobili, il suo popolo e le sue libertà particolari per ogni ceto». Ancorché virtuosissima Massimilla non sa vietarsi di amare riamata (castamente, ma la colpa non è sua) un giovane veneziano. Emilio, che nel corso della storia erediterà un titolo principesco senza nessun appannaggio monetario. Alla fine Emilio e Massimilla si sposeranno senza che alcuna ulteriore notizia ci venga fornita sul duca Cataneo e nelle ultime pagine di un altro romanzo ben più felice, Gambara, ritroveremo a Parigi il principe e la principessa di Varese, ricchissimi, irradianti gioia di vivere e carità. Nel frattempo, a Venezia, la situazione si è fatta difficile: Emilio venera Massimilla come una Madonna o una dea ma soggiace al fascino carnale di Clara Tinti – ricalcata presumibilmente su Laure Cinti-Damoreau, «primo soprano assoluto agli Italiens come al l’Opéra», e il tradimento che il giovane consuma ai danni di Massimilla lo getta nell’Inferno dei rimorsi cosicché, come Balzac non cessa di ripeterci, la sua espressione si impronta a «un’orribile malinconia» Si noti che la candida Massimilla non ha rancori né forse sospetti. Qualcuno dovrà intervenire; sarò un medico francese, materialista e raziocinante, a risolvere il dramma, proponendo a Massimilla Doni, «angelo sublime, bellezza pura e immacolata», di sostituire la Tinti in un letto peccaminoso per ingannare (a fin di bene) Emilio «che l’ebrezza renderà del resto poco cosciente». Lasciamo la replica a Massimilla e a Balzac: «Se non è che questo» diss’ella sorridendo e rivelando all’esterrefatto francese un aspetto a lui ignoro del delizioso carattere di un’italiana innamorata, «io supererò la Tinti, se necessario, per salvare la vita del mio amico». Così avviene. Emilio giace con Massimilla persuaso di giacere con Clara Tinti; poi gli si chiarirà l’abbaglio insieme con la certezza che l’amore sacro e l’amor profano possono egregiamente coesistere, giacché il fuoco sensuale di Clara è solo brace paragonato all’incendio di Massimilla. Ora non ci saranno più ostacoli: il romanzo si chiude con una «pochade» e noi rimaniamo a chiederci perché mai una «pochade», inclusa negli Etudes Philosophiques, documenti il trionfo del pensiero sulla materia, il che dovevasi dimostrare

  Per rispetto a Balzac vorrei chiudere in parentesi, e possibilmente sopprimere, il lungo capitolo intitolato «Il Mosè» e consacrato appunto all’analisi di quest’opera anzi «oratorio» rossiniano come puntualizza Massimilla nel suo palco della Fenice. Mai conosciuta né immaginata una musicomane tanto loquace; la duchessa Cataneo, futura principessa di Varese, non tace un istante per l’intera durata dell’oratorio ritenendo doveroso schiudere all’ospite francese, quello che la salverà, la porta di un tesoro armonico-melodico quale soltanto il genio di Rossini avrebbe saputo esprimere. Sulla competenza specifica di Balzac direi che fa testo una sua lettera all’editore della «Gazette Musicale», Maurice Schlesinger, dove si sostiene con un richiamo a Rabelais che la musica più bella è il tintinnio dei bicchieri. Nonostante questa savia e onesta ammissione, Balzac si intestardì a «capire» il Mosè costringendo il malcapitato maestro Jacques Strunz, un tedesco cui Massimilla Doni è dedicata, a suonargli e commentargli l’oratorio «infinite volte». Il risultato è scoraggiante; per Massimilla, portavoce di Balzac, la musica – che è «pittura» ed è «luce» – «versa fiotti di porpora nell’anima» e ricorda inoltre «il canto degli uccelli al mattino». Il mio buon maestro Luigi Ronga, autore di un saggio importante su Rossini, aveva premesso al suo corso universitario l’avvertenza «Del perché la musica non debba confondersi in alcun modo col canto degli uccelli» e io spero che non si sia dovuto imbattere mai nelle «interpretazioni critiche» del geniale ma imprudente Balzac.

  Honoré de Balzac, «Massimilla Doni», a cura di Giandonato Crico, Sellerio, pp. 182, lire 10.000.

 

 

  La seconda fatale volta di Lucien, Ibid., 1 ill.

 

  Sette anni per scrivere quattro parti di un romanzo tumultuoso: tanto tempo «Splendori e miserie delle cortigiane» chiese a Honoré de Balzac per un intreccio giallo in cui si racconta la seconda, fatale andata a Parigi di Lucien de Rubempré (la prima aveva ispirato «Le (sic) Illusioni perdute») e il dramma della cortigiana Esther da lui amata, le avventure dell’evaso Vautrin, le lotte fra polizia e delinquenti. Di questo libro Einaudi ha ora ristampato in tascabile la traduzione di Marise Ferro già apparsa nella collana Nue, con introduzione di Pierre Citron (pp. XLV-573, lire 16.000). È rimasta celebre la frase: «Il più grande dolore della mia vita? La morte di Lucien de Rubempré». Oscar Wilde la pronunciò senza poter prevedere che cosa gli riservava il futuro. Non si può fare a meno di pensare che, qualche anno dopo quelle parole, lui stesso sarebbe stato Lucien de Rubempré.

 

 

  Valerio Magrelli, Torna il libreria «Massimilla Doni». E’ un capolavoro? Un fiasco firmato Balzac, «Il Messaggero di Roma», Roma, Anno 113, N° 28, 29 Gennaio 1991, p. 17.

 

  Dostoevskij è un mediocre scrittore, non un sommo, con lampi di eccellente umorismo, ma ahimè, con distese di banalità letterarie tra l’uno e l’altro.

  Davanti a un giudizio tanto drastico e inaudito, le virgolette diventano uno strumento di autodifesa personale. La citazione riporta le cose a posto: l’autore di una simile nequizia, il blasfemo, il reprobo, non è chi firma queste righe, bensì Vladimir Nabokov. Eppure, tenuto conto che i cattivi esempi, specie se grandi, restano i più attraenti, con un precedente del genere forse sarà permesso, per una volta, giocare con i santi invece che coi fanti, e confessare un’idiosincrasia del tutto personale.

  Il saggio-kamikaze di Nabokov. incluso nelle sue Lezioni di letteratura russa che Garzanti pubblicò qualche anno fa, poggiava com’è logico sui punti deboli di Dostoevskij. Ad una reazione analoga sembra invitare adesso Massimilla Doni di Honoré de Balzac, uscito da Sellerio in questi giorni.

  Occorre subito dire, a scanso di equivoci, che tanto la breve prefazione di Giandonato Crico, quanto la sua traduzione, risultano pregevoli (salvo un errore a pagina 159. dove «Napoletano», diventa un incomprensibile «Napoleone»). Inoltre, a raccomandare questa bella edizione, sta un ricco apparato di note che consente di apprezzare per intero il sottile reticolo di allusioni tessuto da Balzac.

  Scritta intorno al 1837, Massimilla Doni è la storia di un triangolo tra l’eroina eponima, un nobile veneziano, e il soprano Clara Tinti (un nome che nasconde la celebre Laura Cinti Damoreau). Diviso tra amore e passione, castità e lussuria, il giovane è tanto focoso con la focosa cantante, quanto freddo e bloccato con la sua aristocratica innamorata, davanti a cui si sente afflitto dallo stesso male del re di Francia Luigi XVIII: l’impotenza. Poiché gran parte della vicenda si svolge nel Teatro della Fenice, il medesimo tema viene ripreso e variato in chiave musicale. Così, l’associazione tra le due figure dell’amante (il principe Emilio) e del melomane (il tenore Genovese) culmina nell’immagine del fiasco (in italiano nel testo) erotico ed artistico, una sorta di «fallimento per eccesso» prodotto dalla sovrabbondanza del desiderio.

  Come ricorda Crico, le suggestioni dell’intreccio rinviano a molte fonti: Lélia di George Sand, Gabrielli di Jules Janin, il Paradosso sull’attore di Diderot, e L’Inglese mangiatore d’oppio di Musset (a sua volta basato su un adattamento dell’opera di Thomas de Quincey). Il dissidio tra amor sacro e profano ritorna poi in altri testi di Balzac, da Louis Lambert a Séraphita, fino al Giglio nella valle mentre il motivo dell’importanza era stato già ampiamente affrontato, una decina d’anni prima, nell’Olivier di Latouche e nell’Armance di Stendhal.

  Detto questo, però, non si è ancora detto nulla. Certo, oltre a qualche interessante passo dedicato allo stesso Stendhal, al filosofo Xaver von Baader, o al fondatore della frenologia Franz Joseph Gall, il fulcro della narrazione sta tutto nelle teorie musicali sviluppate a partire dal lungo commento al Mosé di Rossini. Massimilla Doni fu infatti concepita come pendant di un’altra novella dedicata alla musica, ossia Gambara. Eppure, da questo ricco materiale vengono fuori pagine di sconcertante piattezza. In una Venezia ormai inimmaginabile anche per un collezionista di cartoline d’epoca, si muovono personaggi ... Personaggi: ma un termine del genere è francamente eccessivo per designare macchiette inconsistenti come l’oppiomane patriota, il francese brillante, il giovane sofferente, la splendida duchessa, il marito perverso o la siciliana sensuale. Altro che Fenice, qui siamo in un teatro di burattini.

  In effetti, quando non si dilunga in compunte analisi musicologiche da cui trapela tutto lo zelo dell’autodidatta. Balzac procede per contrapposizioni, secondo una visione binaria straordinariamente rudimentale che già annuncia la preistorica povertà psicologica di Victor Hugo. Non per niente, lo strumento preferito di entrambi è il superlativo assoluto. Tutto gronda di «niente di più, mai tanto, nessuno mai, mai più» ...

  Ma è venuto il momento di riparare, e alla svelta, sotto l’ala protettrice di Nabokov. Resta comunque il fatto che. di tanto in tanto, si dovrebbe tentare di verificare la tenuta di certi supposti classici, senza temere di esporsi a confronti schiaccianti con l’oggetto delle proprie riserve (confronti da cui l’autore di Lolita poteva invece ben dirsi al sicuro). Certo, nella carta geografica della narrativa ottocentesca, nessuno oserà mai modificare i confini di quel Massiccio Centrale costituito dai dieci volumi della Comédie Humaine: tuttavia, immaginando un’ideale guida alla gastronomia letteraria della regione, forse sarebbe opportuno tutelare il cliente-lettore togliendo qualche stella immeritata a locande scadenti come quella nota col nome di Massimilla Doni.

 

 

  Mario Monicelli, Nicola Badaluccio, Rossini Rossini. Sceneggiatura originale dell’omonimo film di Mario Monicelli; con un’analisi del testo di Alberto Cattisi, Casa del Mantegna, 1991.

 

 

  Graziella Pagliano, L’amicizia taciuta: i testi letterari, «Memoria. Rivista di storia delle donne», Roma, n. 32, 1991, pp. 18-27.


  pp. 24-25. Con Mémoires de deux jeunes mariées (1841), di Balzac, troviamo invece una completa narrazione tramite le lettere dì due amiche, durante dieci anni (1823-1833), concernenti la loro vita dopo l’uscita dal pensionato religioso dove sono state educate, le scelte matrimoniali, gli eventi successivi. Ciò che va. sottolineato subito è che, a differenza delle forme monodiche e delle forme plurime già ricordate, dove i personaggi femminili risultavano generalmente dipendenti da decisioni altrui, qui, nella forma duale, le protagoniste valutano le situazioni, adottano precise strategie, le mettono in opera ed esse risultano efficaci. Le due decisioni di vita, una saggia ed equilibrata, l’altra dedicata alla passione amorosa, sono entrambi calcolate e organizzate nei minimi dettagli e il dominio che Renée e Louise hanno su parenti e mariti risulta completo, pur se Louise ama in parte esporlo e Renée lo nasconde accuratamente.

  Siamo così di fronte a soggetti dotati di deliberazione e volontà come di autoriflessività, consapevoli di tutte le limitazioni sociali imposte alle donne ma pronte a utilizzare queste stesse limitazioni per i propri fini. La trama segreta che tessono poteva dunque essere esposta solo nelle confidenze reciproche, nelle quali non sono tanto le decisionalità e le modalità dell’azione a essere in esame, quanto i fini diversi prescelti: una famiglia armoniosa da Renée e un durevole rapporto amoroso per Louise, progetti che suscitano reciprocamente critiche e riserve, le quali contribuiscono peraltro a chiarire la stessa scelta progettuale alle autrici.

  Non vi è qui complicità o rivalità personale, quanto confronto serrato, analisi, giudizio, previsione, e cioè quel pensiero dialogico, sulle esperienze vissute e programmate, al quale si è accennato. Che poi vi siano anche intessute le riflessioni di Balzac sul matrimonio, non muta il fatto che queste lettere esprimano il punto di vista soggettivo di un conflitto; una funzione, per l’appunto attribuita al romanzo epistolare. Si dice: le lettere si prestano bene all’analisi delle emozioni, e dunque sarebbero adatte alla soggettività femminile. E manterrebbero comunque, le lettere, uno jato fra presenza e assenza, fiducia-non fiducia anche in regolare presenza di risposte. Separazione ed esclusione verrebbero cioè veicolate anche dai romanzi epistolari a più voci, non a caso praticato da scrittrici. [...].

 

 

  Paola Palli, Tipologia del ritratto nei personaggi di “Eugénie Grandet” di Balzac e “Une vie” di Maupassant. Tesi di Laurea. Relatore: prof.ssa Francesca Merzi D’Eril, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, 1991.

 

 

  Paul Pelckmans, La mort paysanne dans “Le Médecin de campagne”, «Il Confronto letterario», Pavia, Anno VIII, n° 15, maggio 1991, pp. 139-148.

 

  Il Médecin de campagne è l’opera che, forse più d’ogni altra nella Comédie balzachiana, è pervasa dalla nostalgia di una religiosità comunitaria: durante una delle sue “tournées médicales”, il dottor Bénassis fa visita a due famiglie segnate entrambe da un lutto recente. L’episodio fornisce a Balzac l’occasione di descrivere due cerimoniali funebri assai diversi che caratterizzano, separandoli marcatamente, i costumi degli abitanti della pianura da quelli della montagna. L’analisi di questi due modelli di rito semplice e inserito nella vita quotidiana (a valle), solenne e drammaticamente (o pateticamente) vissuto dai “montagnards” permette all’A. di comporre un quadro storico sull’evoluzione della mentalità individuale e sociale nel XIX secolo riguardo la concezione e la rappresentazione della morte, l’atteggiamento verso di essa e le ripercussioni psicologiche e sociali da questa provocate nella vita di chi sarà più profondamente segnato dalla tragicità dell’evento.

 

  Accompagné du commandant Genestas son hôte, le Docteur Bénassis fait A travers champs sa tournée médicale. Les deux hommes commencent par «aller visiter deux morts», c’est-à-dire deux fermes endeuillées par le décès du père de famille. C’est l’occasion pour Balzac de mettre en scène deux pratique thanatiques fort différentes; dans la vallée préalpine où est situé le roman, les montagnards auraient à ce sujet de tout autres habitudes que les habitants des vallées […].

  En bas, la mort donne lieu à un cérémonial très simple, qui interrompt à peine les travaux et les jours. En haut, les cérémonies funèbres prennent au contraire une semaine entière, bourrée d’assemblées de famille larmoyantes; elles se déroulent selon un rituel minutieusement réglé et, pour notre goût du XXème siècle, fâcheusement grandiloquent. Les sympathies de Bénassis toutefois, vont nettement vers les montagnards […].

  Une enquête suivie sur les motifs complémentaires de l’indifférence à la mort du père et de sa solennisation nourrirait sans doute un chapitre majeur d’une préhistoire littéraire du discours freudien. Balzac, on le sait, inscrit cette indifférence au coeur de son roman le plus célèbre, Le père Goriot; il y consacre aussi un de ses contes fantastiques les mieux venus, L’élixir de longue vie. Les pages du Médecin que nous venons de relire ne sont pas de cette richesse. Elles s’efforcent de prôner la belle mort, d’y montrer l’expression adéquate d’une piété filiale au-dessus de tout soupçon. Reconnaissons leur du moins le mérite d’imposer, par le caractère forcé de leurs antithèses et par leurs incohérences intimes, des questions qui compromettent les larmes faciles.

 

 

  Ugo Persi, Prefazione, in AA.VV., L’artista allo specchio ... cit., pp. 9-21.

 

  p. 9. [...] per alcuni suoi racconti, fra i quali Il capolavoro sconosciuto, Balzac per opinione comune dei suoi studiosi, trasse ispirazione da Hoffmann, e non da qualche modello francese. [...].

  pp. 15-16. Del resto, che Balzac avesse conosciuto Hoffmann in una traduzione del 1827 o che tratti hoffmanniani si possano ravvisare in Peau de chagrin tre anni più tardi, a noi qui non interessa molto. Rimane il fatto incontestabile che il vecchio pittore Frenhofer del racconto Il capolavoro sconosciuto (1831) è l’omologo di Berklinger; egli insegna con grande facondia, più che con dovizia di accorgimenti tecnici, come si possa raggiungere la perfezione pittorica, unico vero tramite per il raggiungimento dell’ideale artistico, la riproduzione della natura, della vita stessa; intorno alla Maria egiziaca di Porbus, dice, non circola l’aria che noi stessi respiriamo, mentre la sua Catherine Lescaut parrà viva, si sarà tentati persino di far scorrere la mano sulla sua schiena.

  Ma anche Frenhofer risulterà essere un pazzo al lavoro davanti ad una tela imbrattata: «c’est-à-dire», afferma Balzac, «l’oeuvre et l’exécution tuées par la trop grande abondance du principe créateur». Le opere che Balzac andava creando all’epoca in cui apparve Il capolavoro sconosciuto mostrano la ricorrenza di un’unica idea che evidentemente occupava la mente dello scrittore in modo speciale: l’abuso di riflessione, di analisi, l’intervento massiccio dell’intelligenza nella creazione artistica danneggiano l’arte, se addirittura non la sopprimono; «le désordre et le ravage portés par l’intelligence dans l’homme, considéré comme individu et comme être social: telle est l’idée primitive qui règne dans les oeuvres de Byron et de Godwin. M. de Balzac l’a jetée dans ses contes».

  Ciò detto risulta evidente che anche il racconto di Balzac è un’opera a tesi, vuole insemina dimostrare che l’eccesso di tecnica uccide l’arte, concetto che già ritroviamo in versione musicale nel Berglinger di Wackenroder. Vuole anche essere uno studio di estetica e di tecnica pittorica in veste letteraria? Se sì, non è però molto ben riuscito. Le considerazioni tecniche di Frenhofer sono banali, spesso gli argomenti sono solo accennati e mai affrontati; del resto, Balzac non era un esperto di pittura e, per quanto riguarda la musica, in una lettera confida di non essere nemmeno in grado di leggere uno spartito.

  Sul piano letterario, invece, il racconto è ben riuscito, e ‘tiene’ nonostante l’intento saggistico; Poussin, anche durante le tirate di Frenhofer, non esce di scena e il concertato narrativo è salvo.

 

 

  Andrea G. Pinketts, Come un galeotto pentito fondò la polizia parigina, «Il Giorno», Milano, 27 dicembre 1991.

 

 

  Marcel Proust, Da un romanzo di Balzac, in Pastiches, a cura di Giuseppe Merlino, con testo a fronte, Venezia, Marsilio editori, 1991 («I fiori blu. Collana di classici francesi», 2), pp. 44-57.

 

 

  Emanuela Rebeschini, Il linguaggio meta-fonologico nell'opera narrativa di Honoré de Balzac (Les Chouans; Physiologie du mariage). Tesi di laurea, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 1991.

 

 

  Maria de Rosa, Topografia del brutto: la Parigi di Balzac, Sue, Janin e Hugo. Tesi di Laurea. Relatore; prof. Gabriele Scaramuzza, Milano, Università degli Studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lingue e letterature straniere, 1991.

 

 

  Charles-Augustin de Sainte-Beuve, Balzac, traduzione di Anna Maria Scaiola, in Conversazioni del Lunedì, a cura di Massimo Colesanti, Firenze, Le Lettere, 1991 («Pan»), pp. 41-59.


  Pubblicato ne «Le Constitutionnel».

 

Lunedì, 2 settembre 1850.

 

  Un vero studio sul famoso romanziere appena scomparso, e la cui perdita improvvisa ha suscitato un interesse unanime, sarebbe un’opera tutta da scrivere, e il momento, credo, non è ancora arrivato. Questa specie di autopsie morali non si fanno su una tomba recente, soprattutto quando colui che vi è entrato aveva grande forza, fecondità, un futuro, e sembrava ancora così ricco di opere e di giorni. Quando la morte ghermisce una grande celebrità contemporanea, tutto quel che si può e si deve, è illustrarne con qualche tratto ben delineato i meriti, le svariate capacità, il fascino delicato e potente con cui ha incantato il suo tempo ed esercitato la sua influenza. Tenterò di farlo per Balzac, con un sentimento sgombro da ricordi personali, e nella misura in cui soltanto la critica si riserva qualche diritto.

  Balzac è stato certamente un pittore dei costumi del nostro tempo, e forse il più originale, il più adatto e il più penetrante. Ha subito considerato l’Ottocento il suo argomento, una sua cosa; vi si è dedicato con passione e non ne è più uscito. La società è come una donna, vuole il suo pittore, un pittore tutto per lei: egli lo è stato, e dipingendola non ha attinto dalla tradizione, ma ha rinnovato i procedimenti e gli artifici del pennello per quella bella e ambiziosa società che teneva a fare epoca e a non somigliare ad alcun’altra; tanto più per questo essa l’ha prediletto. Nato nel 1799, aveva quindici anni alla caduta dell’Impero; ha perciò conosciuto e capito l’epoca imperiale con quella chiaroveggenza e quella penetrazione da colpo d’occhio tipica dell’infanzia, e che la riflessione completerà poi, senza superare mai la lucidità giovanile. Qualcuno della stessa età ha detto: «Fin dalla mia infanzia, penetravo le cose con una sensibilità tale da sembrare una lama che mi entrasse ogni momento nel cuore». Egli stesso avrebbe potuto dirlo. Quelle impressioni infantili, recuperate più tardi nei giudizi o nelle pitture, si fanno sentire con un investimento di singolare emozione, e sono proprio esse a dare finezza e vita. Giovane durante la Restaurazione, egli l’ha attraversata tutta, l’ha vista per intero nella posizione forse migliore per vedere le cose da osservatore artista, cioè dal basso, nella folla, nella sofferenza e nei lutti, con l’enorme cupidigia del talento e della natura attraverso la quale gli oggetti proibiti sono stati mille volte intuiti, immaginati, penetrati, prima di essere infine posseduti e conosciuti: egli ha sentito la Restaurazione da amante. Cominciava a conquistare la notorietà nel momento stesso in cui si insediava il nuovo regime istituito dal Luglio 1830. Egli ha visto questo regime allo stesso livello e anche un po’ dall’alto; lo ha giudicato nella sua totalità, lo ha dipinto nei suoi tipi e negli aspetti borghesi più salienti. Balzac ha conosciuto e ha vissuto tutte e tre queste epoche dalla fisionomia tanto diversa che costituiscono il secolo arrivato a metà, e la sua opera ne è fino a un certo punto lo specchio. Chi meglio di lui, per esempio, ha dipinto i vecchi e le belle dell’Impero? Chi soprattutto ha colto più deliziosamente le duchesse e le viscontesse di fine Restaurazione, quelle donne di trent’anni, che, già realizzate, aspettavano il loro pittore con una vaga ansia, tale da suscitare, quando lo hanno incontrato, come un movimento elettrico di riconoscimento? Chi, infine, ha colto meglio sul fatto e reso nella sua totalità il tipo borghese, trionfante sotto la dinastia di Luglio, il tipo ormai immortale e già scomparso, ahimè!, dei Birotteau d’allora e dei Crevel?

  Ecco dunque un campo immenso, e bisogna dire che Balzac se l’è scelto subito in tutta la sua estensione, e l’ha percorso ed esplorato in tutti i sensi, trovandolo ancora troppo angusto per il suo coraggio e il suo ardore. Non contento d’osservare e intuire, egli molto spesso inventava e fantasticava. A parte le fantasie, ha conquistato il cuore della società aristocratica alla quale aveva prima sempre aspirato con le sue osservazioni sottili e garbate. La Femme de trente ans, La Femme abandonnée, La Grenadière, sono state le prime truppe scelte introdotte in loco, alla conquista della roccaforte; la donna di trent’anni non è una creazione del tutto inattesa: da quando esiste una società civile, la donna di questa età ha un posto importante, forse il primo. [...].

  Si capisce come il Settecento prendeva ancora alla leggera quella riabilitazione formale, che durò una serata. Ma l’Ottocento doveva perfezionarla, e la teoria della donna di trent’anni, con tutti i suoi vantaggi, le sue superiorità e le sue perfezioni definitive, risale ad oggi. Balzac ne è l’inventore, ed è questa una delle sue scoperte più vere nell’ambito del romanzo intimo. La chiave del suo immenso successo era tutta in quel primo capolavoro. Le donne gli perdonarono poi molte cose, e gli credettero sulla parola, ad ogni nuovo incontro, per avere così ben azzeccato, una prima volta.

  Per quanto rapido e grande sia stato il successo di Balzac in Francia, forse è stato ancora più grande e incontestato in Europa. I particolari che si potrebbero dare a questo riguardo sembrerebbero inventati, e invece sono veri. Sì, Balzac ha dipinto i costumi del suo tempo e il suo stesso successo ne sarebbe una delle più curiose pitture. Più di due secoli fa, nel 1624, Honoré d’Urfé (l’autore del famoso romanzo L’Astrée), che viveva in Piemonte, ricevette una lettera molto seria che gli era stata inviata da ventinove principi o principesse e diciannove grandi signori o dame di Germania; i suddetti personaggi lo informavano che avevano preso i nomi degli eroi e delle eroine dell’Astrée, e si erano costituiti in Accademia dei veri amanti; essi chiedevano con insistenza il seguito dell’opera. Quel che è successo a d’Urfé si è riprodotto per Balzac. C’è stato un momento in cui, a Venezia, per esempio, la società lì riunita immaginò di prendere i nomi dei suoi principali personaggi, e di recitare la loro parte. Per tutta una stagione si videro Rastignac, duchesse de Langeais, duchesse de Maufrigneuse, e si assicura che parecchi attori e attrici di quella commedia di società tennero a recitare fino in fondo la loro parte. È la legge abbastanza comune in queste influenze reciproche tra il pittore e i suoi modelli: il romanziere comincia, tocca sul vivo, esagera un po’; la società ne fa un punto d’onore ed esegue; e così quel che aveva potuto dapprima sembrare esagerato finisce per essere verosimile.

  Quel che è successo a Venezia si è riprodotto con gradazioni diverse in diversi luoghi. In Ungheria, in Polonia, in Russia, i romanzi di Balzac facevano legge. Così lontano, la parte leggermente fantastica che si mescola alla realtà e che qui ne comprometteva il pieno successo presso persone difficili, spariva o, anche, era un’attrattiva in più. Per esempio, quegli arredamenti ricchi e stravaganti, dove egli affastellava con la sua fantasia i capolavori di venti paesi e di venti epoche, diventavano subito dopo una realtà; si copiava con esattezza quel che a noi sembrava un sogno di artista milionario e si ammobiliava alla Balzac. Come poteva l’artista rimanere insensibile e sordo a queste mille eco della celebrità, e non sentirvi l’accento della gloria? Egli ci credeva, e questo sentimento d’una ambizione, a dir poco forte, gli ha fatto estrarre dalla sua costituzione robusta e feconda tutto quel che essa conteneva di risorse e di prodotti di ogni genere. Balzac aveva il corpo di un atleta e l’ardore di un artista che sogna la gloria; è quello di cui aveva bisogno per eseguire il suo immenso lavoro. Solo ai giorni nostri si son viste queste costituzioni energiche ed erculee ingiungere, in qualche modo, a se stesse di tirar fuori tutto quello che potrebbero produrre, e reggere per vent’anni quest’ardua scommessa. [...]. La persona dello scrittore, l’intera sua stessa costituzione si impegna e si esalta nelle opere; egli non le scrive solo con il puro pensiero, ma con il sangue e i muscoli. La fisiologia e l’igiene di uno scrittore sono diventati uno dei capitoli indispensabili dell’analisi che si fa del suo talento.

  Balzac si piccava d’essere fisiologo, e lo era certamente, benché con meno rigore ed esattezza di quanto immaginasse; ma la natura fisica, la sua e quella degli altri, ha una gran parte e si fa sentire continuamente nelle sue descrizioni morali. Non gliene faccio un biasimo, è un tratto che riguarda e caratterizza tutta la letteratura pittoresca di questi tempi. [...].

  Amo del suo stile, nelle parti delicate, quella efflorescenza (non so trovare un’altra parola) con la quale egli dà a tutto il senso della vita e fa fremere la pagina stessa. Ma non posso accettare, con il pretesto della fisiologia, l’abuso continuo di questa qualità, quello stile tanto spesso eccitante e spossante, nervoso e come rosato, e venato di tutte le tinte, quello stile di una deliziosa corruzione, tutto asiatico, come dicevano i nostri maestri, più spezzato qua e là e più duttile del corpo di un mimo antico. Petronio, in mezzo alle scene che descrive, non rimpiange da qualche parte quel che chiama oratio pudica, lo stile pudico che non si abbandona alla fluidità di tutti i movimenti?

  Un altro punto nel quale rilevo in Balzac il fisiologo e l’anatomista, è che in questo genere egli ha per lo meno tanto immaginato quanto osservato. Anatomista delicato dal punto di vista morale, egli ha certamente trovato nuove vene, ha scoperto e come iniettato porzioni di nuovi vasi linfatici ancora inesplorati fino ad allora; e altri ne ha inventati. C’è un momento, nella sua analisi, in cui il plesso vero e reale finisce e quello illusorio comincia, ed egli non li distingue: la maggior parte dei suoi lettori, e soprattutto delle sue lettrici, li hanno confusi con lui. Non è questa la sede per insistere su questi punti di separazione. Ma si sa, Balzac ha un debole dichiarato per gli Swedenborg, i Van-Helmont, i Mesmer, i Saint-Germain e i Cagliostro di ogni genere: come dire che egli è soggetto a illusione. In una parola, per seguire la mia immagine tutta fisica e anatomica: quando tiene la carotide del suo argomento, l’inietta a fondo con fermezza e vigore; ma quando è nel falso, inietta comunque e spinge sempre, creando, senza troppo accorgersene, reticoli immaginari.

  Balzac aveva la pretesa della scienza, ma quel che aveva soprattutto in effetti, era una sorta di intuizione fisiologica. Chasles l’ha detto benissimo: «Si è ripetuto all’eccesso che Balzac era un osservatore, un analista; era meglio o peggio, era un veggente. Quel che non aveva visto di primo acchito, di solito gli sfuggiva; la riflessione non glielo restituiva. Ma quante cose sapeva anche vedere e afferrare con un solo colpo d’occhio! Veniva, parlava con voi; lui, così preso della sua opera, e, in apparenza, così pieno di se stesso, sapeva interrogare a suo vantaggio, sapeva ascoltare; ma, anche quando non aveva ascoltato, quando sembrava aver visto solo se stesso e la sua idea, usciva portando via qualcosa, dopo aver assorbito tutto quel che voleva sapere, e vi stupiva più tardi descrivendola».

  Ho detto che era come inebriato dalla sua opera; e, in effetti fin dalla sua giovinezza, non ne usciva mai, vi abitava. Quel mondo, che aveva a metà osservato, a metà creato in tutti i sensi; quei personaggi di ogni classe e di ogni qualità che aveva dotati di vita, si confondevano per lui con il mondo e i personaggi della realtà, che erano come una copia sfocata dei suoi. Li vedeva, parlava con loro, li citava a ogni proposito come personaggi della sua intimità e della vostra; li aveva così potentemente e distintamente creati in carne ed ossa, che una volta impostati e messi in azione, non li aveva più lasciati: tutti questi personaggi lo circondavano, e, nei momenti di entusiasmo, si mettevano a fare cerchio intorno a lui e a trascinarlo in quella immensa ronda della Commedia umana che ci dà un po’ la vertigine, solo a vederla passare, e la dava al suo autore per primo.

  La particolare potenza di Balzac ha bisogno di essere definita: era quella di una natura ricca, copiosa, opulenta, piena di idee, di tipi e di invenzioni, che rilancia di continuo e non è mai stanca; possedeva questa potenza e non l’altra, forse più vera, quella che domina e regge un’opera, e che rende l’artista come superiore alla sua creazione. Si può dire di lui che era in preda alla sua opera, e che il suo talento lo trasportava spesso come un carro trascinato da quattro cavalli. Non pretendo che si sia precisamente come Goethe e che si abbia sempre la fronte marmorea al di sopra della nuvola ardente; ma lui, Balzac, voleva (e l’ha scritto) che l’artista si precipitasse nella sua opera a testa bassa, come Curzio nell’abisso. Questi aspetti del talento implicano vivacità e foga, ma anche caso e molto fumo.

  Per esporre la sua vera teoria letteraria, basterebbe del resto usare le sue parole: se prendo, per esempio, Les Parents pauvres, l’ultimo romanzo e uno dei più vigorosi, pubblicato in questo stesso giornale, trovo, a proposito dell’artista polacco Wenceslas Steinbock, le idee favorite dell’autore e tutti i suoi segreti, se ebbe mai dei segreti. Per lui «un grande artista oggi, è un principe non titolato; è la gloria e la fortuna». Ma questa gloria non si acquista scherzando o sognando; è il prezzo del lavoro tenace e di un’applicazione ardente: «Avete idee nel cervello? Bella scoperta! anch’io ho idee ... A che serve quel che si ha nell’anima, se non se ne approfitta?». Pensava questo, e non si risparmiò mai nel lavoro accanito dell’esecuzione. Concepire, diceva, è godere, è fumare sigarette magiche; ma senza l’esecuzione tutto se ne va in sogni e fumo: «Il lavoro costante – ha detto ancora – è la legge dell’arte e della vita; perché l’arte è la creazione idealizzata». Così i grandi artisti, i poeti, non aspettano né un’ordinazione, né i clienti; essi partoriscono oggi, domani, sempre. Ne risulta quell’abitudine alla fatica, quella perpetua conoscenza delle difficoltà che li tiene in concubinato con la Musa, con le sue forze creatrici. Canova viveva nel suo studio come Voltaire ha vissuto nel suo gabinetto. Omero e Fidia dovevano vivere nello stesso modo. Ho voluto citare apposta questo passaggio, perché con i meriti derivati dal coraggio e dalla fatica e che onorano Balzac, si scopre anche il lato moderno, e la singolare distrazione per la quale egli veniva meno e attentava persino a quella bellezza che pretendeva perseguire. No, né Omero né Fidia hanno vissuto così in concubinato con la Musa; l’hanno sempre accolta e conosciuta casta e severa.

  «Il bello è sempre severo in tutto», ha detto Bonald. Le sue parole autorevoli mi sono necessarie; esse sono come le colonne immutabili e sacre che mostro soltanto con il dito in lontananza, affinché la nostra ammirazione e il nostro omaggio verso un uomo rimpianto e dal meraviglioso talento non vadano facilmente al di là dei limiti permessi.

  Balzac parla ancora da qualche parte di quegli artisti che hanno «un successo pazzesco, un successo, da schiacciare a gente che non ha spalle e reni per sostenerlo; il che — dice tra parentesi — spesso succede». In effetti, l’artista deve affrontare, il giorno dopo la vittoria, una prova ancora più temibile della grande battaglia che deve presto o tardi sferrare. Per essere all’altezza di quella vittoria, per reggere la fama per non esserne ne impaurito né scoraggiato, per non venir meno e non abdicare sotto il colpo come fece Léopold Robert, bisogna avere una forza reale e sentirsi arrivato al proprio livello. Balzac possedeva questo genere di forza, e l’ha provato. [...].

  Tutti gli artisti del tempo furono suoi amici, ed egli li ha quasi tutti magnificamente collocati nelle sue opere. Aveva il gusto, la passione delle opere d’arte, della pittura, della scultura, dei mobili antichi. Quando aveva tempo libero (e trovava spesso il modo di averlo, lasciando giornale alla fantasia, consumando notti nel lavoro) amava andare a scovare quel che chiamava i pezzi rari. Conosceva tutti i negozi di anticaglie d’Europa dove andare a frugare, e ne parlava a meraviglia. Così, quando poi metteva in un romanzo quel mucchio di oggetti che in altri avrebbero fatto l’effetto di un inventario, lo faceva con colore e vita, con amore. I mobili che descrive hanno qualche cosa di animato; le tappezzerie fremono. Egli descrive troppo, ma il raggio cade in genere nel punto giusto. Anche quando il risultato non corrisponde all’attenzione prestata, resta al lettore l’impressione di essere colpito. Balzac ha il dono del colore e del guazzabuglio. Con questo ha sedotto i pittori, che riconoscevano in lui uno dei loro, trapiantato e un po’ perso nella letteratura.

  Apprezzava poco la critica, nonostante la quale aveva fatto strada nel mondo, e la sua foga non era, credo, di quelle che si possano moderare o dirigere. Ha detto da qualche parte di un artista scultore scoraggiato e piombato nella pigrizia: «Ridiventato artista in partibus, aveva molto successo nei salotti era consultato da molti collezionisti; egli divenne critico come tutti gli impotenti che mentono al loro esordio». Queste ultime parole possono essere vere di un artista scultore o pittore che, invece di mettersi all’opera, passa il suo tempo a dissertare e ragionare; ma, sul piano del pensiero, quelle parole di Balzac, che tornano spesso sotto la penna di tutta una scuola di giovani letterati, sono insieme (chiedo scusa) un’ingiustizia e un errore. Comunque, poiché è sempre molto delicato dimostrare alla gente come si è o non si è impotenti, lasciamo stare.

  Gli sarebbe stato molto utile, se fosse riuscito a sopportarlo, un Aristarco vero, sincero, intelligente; la sua ricca e lussuosa natura infatti si prodigava e non si governava. Ci sono tre cose da considerare in un romanzo: i caratteri, l’azione, lo stile. Balzac eccelle nel tracciare i caratteri, li fa vivere, li scava in modo indelebile. Vi è esagerazione, minuziosità, che importa? hanno in se stessi di che sussistere. Si fanno con lui conoscenze fini, graziose, civettuole e anche molto allegre, o anche molto brutte; ma, una volta fatte, si è sicuri di non dimenticarle mai, né le une, né le altre. Egli non si contenta di tracciare bene i suoi personaggi, li nomina in un modo felice, singolare, e li fissa per sempre nella memoria. Dava una grande importanza al modo di battezzare il suo mondo; attribuiva ai nomi propri, rifacendosi a Sterne, una certa potenza occulta in armonia o ironicamente in contrasto con i caratteri. I Marneffe, i Bixiou, i Birotteau, i Crevel, ecc., sono chiamati così in virtù di non so quale onomatopea confusa per cui l’uomo e il nome si assomigliano. Dopo i caratteri viene l’azione: essa si indebolisce spesso in Balzac, devia, esagera. È meno riuscita della formazione dei personaggi. Quanto allo stile, è fine, sottile, coerente, pittoresco, senza alcuna analogia con la tradizione. Mi sono chiesto a volte l’effetto che produrrebbe un libro di Balzac su un lettore onesto, nutrito fino ad allora della buona prosa francese corrente con tutta la sua sobrietà, su qualcuno come non c’è più, formato alla lettura di Nicole, di Bourdaloue, a quello stile semplice, serio e scrupoloso, che va lontano, come diceva La Bruyère: un lettore simile avrebbe le vertigini per un mese. La Bruyère ha detto ancora che per ogni pensiero una sola è l’espressione buona, e bisogna trovarla. Balzac, scrivendo, sembra ignorare la battuta di La Bruyère. Vi sono sequenze di espressioni vivaci, inquiete, capricciose, mai definitive, espressioni sperimentali e che cercano. I suoi tipografi lo sapevano bene; facendo stampare i libri, rimaneggiava, rifaceva su ogni bozza all’infinito. In lui lo stampo stesso era in continua ebollizione, e il metallo non si fissava. Aveva trovato la forma voluta e ancora la cercava.

  Avrebbe mai potuto la critica più benevola, quella di un amico, di un compagno, come lo era Louis Lambert, fargli accettare qualche idea di sobrietà relativa, e introdurla nel torrente del suo talento, perché lo contenesse e lo regolasse un po’? [...].

  Mi sarebbe infine piaciuto che Balzac, ammiratore di Napoleone, e affascinato, come tanti altri, dal suo grande esempio, trasposto e riflesso nella letteratura, lasciasse da parte, uno buona volta, quei paragoni, quelle emulazioni insensate ad uso dei bambini, e, se volevo assolutamente cercare il suo ideale di potenza nelle cose militari, si ponesse qualche volta questa domanda, adatta ad ogni buona retorica francese: «Chi è meglio?, un conquistatore d’Asia che trascina al suo seguito orde innumerevoli, o Turenne che difende il Reno alla testa di trentamila uomini?».

  Non forziamo la natura, e, poiché la morte ha interrotto la sua carriera, accettiamo, del talento che non c’è più, l’eredità opulenta e complessa che ci ha consegnato. L’autore di Eugénie Grandet vivrà. Il padre, stavo per dire l’amante, di Madame de Vieuménil, di Madame de Beauséant, conserverà il suo posto sulla mensola più segreta ed esclusiva del boudoir. Coloro che cercassero gioia, allegria, espansione, la vena satirica e franca del «turangiotto» rabelaisiano, non saprebbero disconoscere gli illustri Gaudissart, gli eccellenti Birotteau e tutta la loro razza. Ce n’è, come si vede, per tutti. Se avessi spazio, mi piacerebbe parlare dell’ultimo romanzo di Balzac, uno tra i più degni di nota, a mio parere, se non dei più lusinghieri per la società attuale. Les Parents pauvres mostrano che quel talento vigoroso ha raggiunto la piena maturità e si abbandona a se stesso. Sovrabbonda, naviga, sembra immerso nelle sue acque. Nessuno ha mai più mostrato né messo sottosopra come lui lo stracciume umano. La prima parte di questo romanzo (La cousine Bette) presenta caratteri di una grande verità, e anche esagerazioni che in Balzac non mancano mai. Bette per prima, che dà il nome al romanzo, è una esagerazione: questa poverina che abbiamo visto all’inizio come una semplice contadina dei Vosges, mal vestita, mal messa, brusca, un po’ invidiosa, ma non cattiva né scellerata, non sembra sia la stessa che si trasforma a un certo momento in una persona di mondo quasi bella, e in più perversa e infernale, un vero Iago o un Riccardo III donna! Il che nella vita non succede; questa ragazza appartiene alla razza dei Ferragus e dei Treize. La nostra società viziata e viziosa non comporta questi odi atroci e queste vendette. I nostri peccati non sono piccoli, ma i nostri crimini sono meno grandi. Altri caratteri del romanzo sono veri, profondamente veri, e prima di tutti il barone Hulot, con quell’amore sfrenato delle donne che porta gradatamente l’uomo onesto fino al disonore e il vecchio all’avvilimento, e Crevel, eccellente in tutto, nel tono, nei gesti, negli scherzi: il vizio borghese in tutta la sua espansione ed importanza. Non abbiamo a che fare, lo si noti, soltanto con i difetti, le ridicolaggini, le follie umane; il vizio è la molla del romanzo e la depravazione sociale ne è l’argomento. L’autore vi si immerge; a giudicare la sua vivacità, si direbbe anche qua e là che si diverta. Qualche scena nobile, patetica, strappa una lacrima, ma le scene atroci predominano e la linfa dell’impuro dilaga: quegli infami Marneffe infettano tutto. Questo notevole romanzo, studiato a parte, si presterebbe a riflessioni che non riguarderebbero solo Balzac, ma tutti noi, figli più o meno misteriosi o confessi di una lettura sensuale. Gli uni, figli di René, hanno nascosto e come avvolto nelle nuvole il loro sensualismo sotto il misticismo; gli altri l’hanno francamente dichiarato.

  Balzac ha spesso pensato a Walter Scott, e il genio del grande romanziere scozzese l’ha vivamente sollecitato, dice. Ma, in mezzo all’opera immensa dell’amabile incantatore, non aveva riconosciuto, secondo la felice espressione di Lamartine,

 

Les nobles sentiments s’élevant de ces pages

Comme autant de parfums des odorantes plages?

 

  Non aveva dunque respirato quell’incantesimo totale di purezza e come di sanità, quelle correnti d’aria salubre che vi circolano, anche attraverso il conflitto delle passioni umane? Uscendo dai Parents pauvres si sente dapprima il bisogno di andare a ritemprarsi, di andare a tuffarsi in qualche lettura limpida e sana, – di immergersi in qualche canto di Milton, in lucid streams, nelle pure e lucide correnti, come dice il poeta. [...].

  La Rivoluzione di Febbraio aveva infetto un duro colpo a Balzac. Tutto l’edificio della civiltà raffinata, quale l’aveva sempre sognata, sembrava crollare; l’Europa in un attimo, la sua Europa, stava per mancargli come la Francia. Tuttavia egli già si rialzava, e meditava di dipingere la nuova società nella quarta forma in cui si presentava. Potrei tracciare qui lo schizzo del suo futuro romanzo, l’ultimo progettato, di cui parlava con passione. Ma a che serve un sogno in più? È morto di una malattia di cuore, come muoiono oggi tanti uomini che troppo ardentemente hanno solcato la vita. Dello stesso male, appena tre anni fa, era morto Frédéric Soulié, che sarebbe ingiusto dimenticare, nel momento in cui abbiamo riunito i principali capi di questa letteratura.

  Ed è forse il caso di ridire, sulla tomba di uno dei più fecondi tra loro, del più inventivo sicuramente che abbia mai prodotto, che questa letteratura ha fatto scuola e fatto il suo tempo. Essa ha dato i suoi talenti più vigorosi, quasi giganteschi; buona o cattiva, si può pensare oggi che il meglio della sua linfa si è esaurito. Che almeno abbia tregua, che si rilassi, che essa lasci alla società il tempo di riposarsi dopo l’eccesso, di ricomporsi in un ordine qualsiasi, e di presentare ad altri pittori, con una ispirazione più fresca, quadri rinnovati. Una terribile emulazione e come una gara furibonda si era impegnata in quegli ultimi anni tra gli uomini più vigorosi di questa letteratura attiva, divorante, incendiaria. L’uso di pubblicare in appendice, che obbligava, a ogni nuovo capitolo, di far colpo sul lettore, aveva spinto gli effetti e i toni del romanzo a un diapason estremo, disperante e insostenibile più a lungo. Rimettiamoci un po’. Ammirando il partito che hanno spesso saputo trarre, da loro stessi, uomini il cui talento ha mancato delle condizioni necessarie a uno sviluppo migliore, auguriamo al futuro della nostra società quadri non meno vasti, ma più tranquilli; più consolanti, e a quelli che li dipingeranno una vita più calma e un’ispirazione non più fine, ma più dolce, più sanamente naturale e più serena.

 

 

  Aggeo Savioli, Vita e arte, tre classici a teatro, «l’Unità. Giornale fondato da Antonio Gramsci», Roma, Anno 68°, n. 79, 16 aprile 1991, p. 22.

 

  [...]. Che cosa lega i tre testi» Intanto, il loro carattere «straordinario», per riprendere l’attributo usato, nei confronti di Poe, dal suo traduttore e cultore francese, Baudelaire. Ma Pagliaro primo ideatore del progetto insiste su un altro, e meno generico, elemento comune il rapporto morboso tra vita e arte che, in modi assai differenti, nelle tre brevi opere si manifesta In Sarrasine, 1830, Balzac dipana la storia d’uno scultore transalpino che venuto a Roma, prende per ideale modello, e per oggetto del suo amore un acclamata bellissima cantante, Zambinella scoprendo in drammatiche circostanze essere costei (o meglio costui) un «evirato cantore», rivelazione mortale per Sarrasine, mentre Zambinella, favorito della corte cardinalizia, arriverà in ricchezza a una decrepita vecchiaia (l’avvio del caso è situato all’inizio della seconda metà del Settecento). [...].

  Sia in Balzac sia in Poe, l’«Io narrante», se non si identifica necessariamente con l’autore non corrisponde comunque al protagonista della vicenda.



  Vittorio Spiga, Balzac, l’arcano mistero dell’arte, «La Nazione», Firenze, 15 maggio 1991.

 

 

  Pietro M. Trivelli, Tra linotype e inchiostro Balzac finì sotto torchio, «Il Messaggero di Roma», Roma, Anno 113, N° 238, 20 Settembre 1991, p. 16.

 

  Articolo dedicato all’inaugurazione del Museo dell’arte tipografica di Rivoli. Solo nella parte finale dell’articolo è citato il nome di Balzac: «Alla barba del buon Balzac, secondo il quale “se la stampa non ci fosse, bisognerebbe non inventarla”; proprio lui che non la finiva più di farsi stampare».

 

 

  Bernardo Valli, Ecco il nuovo Louvre, «la Repubblica», Roma, 4 agosto 1991, p. 29.

 

  Balzac ha alloggiato la cugina Bette in rue du Doyenné, strada che da tempo non esiste più. E’ là che il barone Hector Hulot va a prenderla (nel romanzo La Cousine Bette, a pagina 99 della Pléiade) per andare poi con lei all’Opera ad applaudire l’amante. Rue du Doyenné era una delle rare vie decenti nel sordido, insicuro quartiere a ridosso del Louvre e del palazzo delle Tuileries. Un ammasso di catapecchie tanto bieco che la cugina Bette rincasa subito, dopo cena, quando è ospite dei parenti ricchi, per non essere sorpresa da qualche tagliagole o tagliaborse annidato nel buio di quel labirinto. Il luogo dove, nel romanzo, abita la perfida zitella scatenava la collera di Balzac. Si indignava per quelle rovine e quel sudiciume nel cuore della capitale, proprio accanto ai nobili palazzi della storia di Francia; si vergognava di quell’ “intima alleanza della miseria e dello splendore” che caratterizzava la sua Parigi. Si infiammava a tal punto che (a pagina 100 di La Cousine Bette) immagina che il Louvre gridi attraverso le mura sventrate e le finestre spalancate: “Estirpate queste verruche dalla mia faccia”. A estirparle ci pensò il barone Haussmann, due anni dopo la morte dello scrittore. In questi giorni uno ricorda le verruche di Balzac guardando il Louvre napoleonico, costruito accanto a quello di Francesco I e di Enrico II, nello stesso momento in cui veniva spianato il quartiere attorno a rue Doyenné. Le facciate ricompaiono lentamente, perfette, illibate, via via che impalcature e tendoni cadono dopo più di un anno di paziente e costoso restauro. Tutto riaffiora ordinato, pulito, senza verruche, foruncoli, macchie. Neppure un’ombra. E’ da almeno centotrent’anni che la cugina Bette potrebbe rincasare percorrendo ampie strade borghesi: da quando il Louvre è stato ingrandito, allungato da Napoleone III, mentre l’intera città veniva ridisegnata. Nelle Tuileries sarebbe sorpresa dal grande vuoto: il palazzo, che nel Secondo Impero era stato saldato al Louvre, è bruciato durante la Comune ed è stato cancellato definitivamente dalla Terza Repubblica. Adesso Mitterrand, fedele alla tradizione, alimenta in soldi e progetti quel cantiere inarrestabile, permanente. Vuol fare del Louvre “il più grande museo del mondo”. Balzac non avrebbe proprio alcun motivo per mettersi in collera. E lo sguardo cerca invano uno spazio Nell’indisciplinata estate parigina, tra solleone e temporali, uno guarda ammirato il Pavillon Sully, proprio di fronte alla piramide di Pei: è in parte liberato dalle fasce dei restauri e riemerge sovraccarico di statue, di frontoni, di mensole, di capitelli, di balaustre. Lo sguardo cerca invano uno spazio libero su cui riposare. [...].

 

 

  Italo Vanni, Miti da vetrina, «il Resto del Carlino», Bologna, 6 dicembre 1991.

 

  Il gusto dell’accidentale devia dalle sostanze, ma per cammini laterali può ricondurre ad esse. Di questi percorsi secondari sono assidui frequentatori i francesi, che hanno per la loro letteratura una predilezione anche feticistica. Il letto di Victor Hugo, le bretelle di Balzac (l’uno e le altre sono in mostra nelle rispettive case-museo), la pelliccia di lontra di Proust (si può vedere al Museo Carnavalet di Parigi, amorosamente ricomposta, la camera di rue Hamelin nella quale fu scritta tanta parte della Recherche ...

 

 

 

Adattamenti teatrali.

 

 

  Lo strumento scordato, a cura di Walter Pagliaro e Pierfranco Moltemi. Regia di Walter Pagliaro. Voce narrante: Virginio Gazzolo. Interventi canori del mezzo soprano Marie Lacôte, 1991. Trilogia di testi in cui è compreso, insieme a La Tana di Kafka e Il crollo della casa Usher di Poe, Sarrasine (nella riduzione scenica di Vito Carofiglio?, cfr. supra).

 

 

 

Letture radiofoniche.

 

 

  Pagine da Gobseck di Honoré de Balzac. Lettura di Giampiero Becherelli. Regia di G. Ciarpaglini, Radiotre, 8 luglio 1991.



Marco Stupazzoni

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