domenica 6 settembre 2020



1973

 

 


 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, La cugina Bette. Traduzione integrale dal francese di Emma Defacqz, Milano, Garzanti Editore, (aprile) 1973 («I Garzanti. I Grandi Libri», 3), pp. XVII-419.


  Struttura dell’opera:

 

  Honoré de Balzac: la vita; profilo storico-critico dell’autore e dell’opera; guida bibliografica, pp. VII-XVII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  La cugina Bette, pp. 1-419.

 

  Per la traduzione, pubblicata su licenza della U. Mursia & C., cfr. 1969 (Balzac, I capolavori).

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Traduzione di Alfredo Fabietti e Emma Defacqz, Milano, Garzanti Editore, (agosto) 1973 («I Garzanti. I Grandi Libri», 25), pp. XVIII-169.


  Struttura dell’opera:

 

  Honoré de Balzac: la vita; profilo storico-critico dell’autore e dell’opera; guida bibliografica, pp. VII-XVIII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Eugénie Grandet, pp. 1-269.

 

  Per la traduzione, cfr. 1969 (Balzac, I capolavori).

 

 

  Honoré de Balzac, Ferragus. Nota introduttiva di Italo Calvino. Traduzione di Clara Lusignoli, Torino, Giulio Einaudi editore, 1973 («Centopagine», 3), pp. XII-150.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Italo Calvino, La città-romanzo in Balzac, pp. V-XII. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Ferragus, pp. 3-150.

 

 

  Honoré de Balzac, Illusioni perdute. Traduzione di Argia Micchettoni, Milano, Garzanti, 1973 («I grandi libri», 35-36), 2 voll., pp.652.

 

  Cfr. 1966.

 

 

  Honoré de Balzac, Le (sic) illusioni perdute. Traduzione di Elena Giolitti, Milano, Club degli Editori, 1973 («I classici»), 2 voll., pp. 756.


  Edizione a cura di Guido Davico Bonino su licenza della Giulio Einaudi S.P.A. Il romanzo balzachiano è preceduto da una nota editoriale (a firma C. D. E., pp. 7-9) forse dovuta allo stesso curatore della presente edizione. Eccone la trascrizione integrale:

 

  Ciò che colpisce soprattutto in Balzac è la mole dell’opera: quaranta volumi gli scritti completi, dieci volumi di un migliaio di pagine ciascuno il grande affresco della Comédie humaine. Come visse e come potè tanto operare lo scrittore? Questa la prima domanda che sorge spontanea in chi si accosti ad uno dei suoi romanzi.

  Honoré de Balzac nacque a Tours il 20 maggio 1799. Suo padre, Bernard-François, aveva allora cinquantatré anni, la madre ventuno. Sino a quindici anni visse praticamente separato dalla famiglia: poi si trasferì con i genitori a Parigi, vi studiò legge, fece pratica presso un avvocato e un notaio, seguì i corsi di letteratura alla Sorbona. Nel ’19 la famiglia decide di rientrare in provincia e si installa a Villeparisis: il ventenne Honoré si rifiuta di seguirla, dichiara la propria vocazione letteraria, si tuffa nelle letture e nei primi tentativi poetici. Nel ’22 vive la esperienza bruciante del primo amore: l’oggetto della sua passione è Madame de Berny, che ha ventidue anni più di lui. Scrive molti romanzi sotto pseudonimo e in collaborazione con altri.

  Nel 1825 Balzac decide di entrare negli affari: editore, poi stampatore. Ma l’impresa viene liquidata dopo due anni: le spese sostenute rovineranno la sua famiglia e lasceranno un marchio indelebile su di lui. Si volge nuovamente verso la letteratura. Questa volta è più sicuro di sé, sente che sta per scoprirsi vero scrittore. Nel 1829 – anno della morte del padre – Le dernier chouan, primo romanzo che sarà poi incorporato alla Comédie humaine, ottiene un certo successo: e la Physiologie du mariage, lo stesso anno, suscita scandalo. Balzac è ammesso in società, frequenta i salotti letterari (tra cui quello di Madame Recamier), collabora a diversi giornali.

  Il 1830 è l’anno capitale per la scoperta della propria vocazione di romanziere: alle Scènes de la vie privée seguono dodici tra romanzi lunghi e brevi (tra gli altri, ricordiamo Le bal de Sceaux, Gobseck, Un épisode sous la terreur). Nel ’31 Balzac è altrettanto fecondo: dopo La peau de chagrin, che ottiene un grosso successo, è la volta di una decina d’altri titoli: tra questi, Sarrasine, Le chef-d’oeuvre inconnu, Les Proscrits. Balzac, che fa grossi guadagni, diventa un dandy: ambienta lussuosamente il proprio appartamento in rue Cassini, acquista cavalli e carrozze, veste abiti dispendiosi.

  Intanto si è innamorato della marchesa de Castries, coltiva ambizioni politiche, aderendo al partito neolegittimista e prospettando una eventuale candidatura quale deputato. Ma il legame con la de Castries è di breve durata: nel 1832 i due si uniscono e si lasciano mentre Balzac inanella ancora una decina di libri (Le Colonel Chabert, Le Curé de Tours, tra gli altri). Il biennio successivo si snoda allo stesso ritmo: ancora libri (Eugénie Grandet, Ferragus, La duchesse de Langeais), ancora spese pazze – Balzac è famoso nella buona società per il pomo in oro e diamanti dei suoi bastoni –, ancora amori appassionati: la contessa Éveline Hauska (sic), che gli aveva inviato lettere d’ammirazione sotto lo pseudonimo di L’Etrangère; poi la contessa Guidoboni-Visconti.

  Nel 1835, nel pubblicare Le père Goriot, Balzac introduce la ripresa di personaggi già altre volte ideati: è la prima comparsa della struttura unitaria che sorreggerà la Comédie humaine. Intanto, per sfuggire ai creditori, si trasferisce a Chaillot, in un alloggio affittato sotto il nome di veuve Durand. Nel suo boudoir lavora sino a sedici ore al giorno.

  Nel 1836-1837 Balzac compie due viaggi in Italia, col pretesto di difendere i diritti della famiglia Visconti in questioni di eredità. Nel primo lo accompagna madame Caroline Marbuty (sic) travestita da ragazzo. Nel secondo Balzac farà la conoscenza di Manzoni a Milano. Intanto non cessa di lavorare: pubblica bellissimi romanzi, come Facino Cane e César Birotteau, compra casa e podere alle Jardies, inizia Les illusions perdues.

  Nella primavera del ’38 è in Sardegna per esplorare le miniere d’argento già scoperte dai Romani. Balzac sogna d’arricchirsi, ma il viaggio non dà risultati. Abbandona i due alloggi di rue Cassini e di rue Batailles, a Chaillot, per ritirarsi alle Jardies. Pubblica Le curé de village: nel ’39 sostiene pubblicamente il notaio Peytel accusato d’aver ucciso moglie e domestico, ospita Hugo alle Jardies, sogna d’entrare all’Académie Française, finisce Les illusions perdues e già presta opera al suo seguito, Splendeurs et misères des courtisanes.

  Lasciamo Balzac e la sua tumultuosa vita: gli restano dieci anni e sono i più tormentati e infelici. Morirà il 18 agosto 1850 a Parigi, distrutto dalla fatica: ma intanto ha dovuto conoscere amarezze e fallimenti: la caduta di certi lavori teatrali, l’esclusione dall’Académie, e una travagliata vicenda matrimoniale con madame Hauska. Les illusions perdues è dunque al centro, per così dire, dell’operosità di Balzac: e gode i frutti d’una splendida maturità. Ma ciò che più affascina e colpisce è che nelle vicende dei personaggi si rifletta tanta parte dell’esperienza umana di Balzac. Nei due protagonisti, David Séchard e Lucien Chardon, Balzac ha rispecchiato certo se stesso: nel primo, singolare figura di astuto ed ingenuo, egli ha adombrato la sua sete di denaro e di agiatezza economica; nel secondo, bellissimo ed audace, la sete del successo letterario. Certo dei due Lucien è più vicino al suo autore; anche le vicende della difficile iniziazione letteraria – raccontate nella seconda parte del romanzo, Un grand’uomo di provincia a Parigi – riflettono molte delle difficili esperienze giovanili di Balzac: gli amori per protettrici più anziane di lui; i deludenti approcci con i primi editori; le facili conquiste nell’ambiente giornalistico; tutto ciò ha una straordinaria vivacità, intensità, e un profumo inebriante di vita vissuta. E le pagine dell’amore di David per Ève Chardon sono tra le più trascinanti che Balzac abbia scritto: lui, così tenero e passionale, così facile all’abbandono dei sensi, si specchiò sulle soglie dei quarant’anni nel legame dei due giovani, sullo sfondo di quell’Angoulême ricreato con tanta malizia ed anche con tanta malinconia. È vero che non tutta l’opera è alla stessa altezza, non tutta vibra della stessa calda ispirazione. Certi personaggi rasentano il romanzesco: come la strana figura di Carlos Herrera, mezzo abate e mezzo diplomatico, che protegge Lucien in nome di un misterioso patto di alleanza. E qua e là affiora il gusto dell’intrigo, tra poliziesco e giudiziario, che fu sempre uno dei limiti dell’arte narrativa di Balzac. Ma l’insieme è di un’evidenza e di un fascino singolari, s’impone con la salda misura della verità trascritta e ricreata sulla pagina.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Club degli Editori, 1973 («Caleidoscopio», 80), pp. 345.

 

  Cfr. 1950.

 

 

  Honoré de Balzac, Papà Goriot. Traduzione di Luigi Martin, Milano, Fratelli Fabbri Editore, 1973 («I grandi della letteratura», 32), pp. 303.

 

  Cfr. 1968.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. La ricerca dell’assoluto. Traduzione di Maria Serena Battaglia, Novara, EDIPEM, 1973 («La nostra biblioteca classica», 26), pp. 326.

 

  Cfr. 1958; 1964; 1969.

 

 

  Honoré de Balzac, I Tredici. Traduzione di E. Cremonese, Milano, Club degli Editori, 1973 («I grandi romanzi d’azione», 8), pp. 380.

 

  Cfr. 1945.



  Honoré de Balzac, Una lettera datata Cagliari 17 aprile 1838, alla Signora Hanska, in Viaggiatori dell’800 in Sardegna, a cura di Alberto Boscolo, Cagliari, Editrice Sarda Fossataro, 1973 («Testi e documenti per la storia della questione sarda», 6), pp. 123-126.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Balzac e i pupi in Usa, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LXXVII, N. 3, 4 gennaio 1973, p. 5.

 

  Va in onda, stasera la seconda puntata di questo sceneggiato tratto dal romanzo di Honoré de Balzac e diretto da Marcel Cravenne. Felix conosce a Parigi una nobildonna inglese, Lady Arabelle Dubley (sic). Nonostante questo continua a nutrire un amore ideale per Henriette: addolorato perché la donna non risponde più alle sue lettere si reca a trovarla a Turenne.

  Henriette è sconvolta dalla gelosia. Félix conduce così una doppia vita, ma non reggendo al suo ritmo riparte per Parigi. Dopo qualche tempo riceve la notizia che Henriette sta morendo: si reca al capezzale della donna che muore chiedendo perdono al marito e a Félix. Questi riceve una lettera della sua fidanzata Natalie alla quale egli ha indirizzato il lungo racconto del suo amore per Henriette. Natalie dichiara che non se la sente di succedere a un amore così sublime e lo lascia consigliandogli di non cedere mai più al desiderio di una donna che gli chiede di conoscere il suo passato.

 

 

  Il giglio nella valle, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno L, N. 3, 4 gennaio 1973, p. 7.

 

  In questa seconda puntata dello sceneggiato televisivo tratto dall’omonimo romanzo di Honoré De Balzac, il giovane Félix incontra a Parigi una nobildonna inglese, Lady Arabelle Dudley, finisce per innamorarsene perdutamente e diviene così l’amante ufficiale della seducente aristocratica, pur continuando a nutrire per Henriette un amore ideale e platonico. Quest’'ultima, invece, folle di gelosia, cessa di rispondere alle lettere del giovane. Felix, addolorato da questo atteggiamento, va a trovarla a Turenne e si ritrova ben presto a dover sostenere un doppio ménage sentimentale: di giorno Henriette, di notte Arabelle. Qualche tempo dopo, però, Henriette muore.

 

 

  Victorine, «La Provincia», Cremona, Anno XXVII, N. 127, 31 maggio 1973, p. 6.

 

  A quattro amici ospiti a pranzo, Pierre, un gentiluomo, espone un grave problema che riguarda il suo prossimo matrimonio e ne lascia la soluzione a loro mediante un voto con le palle da biliardo. Egli ama Victorine. donna bella e ricca. Purtroppo, Pierre ha scoperto che questa fortuna è dovuta ad un assassinio commesso dal padre di lei, quando era un giovane ufficiale. Rifugiatosi insieme ad un compagno d’armi in una locanda sperduta in Romania, durante una ritirata delle truppe napoleoniche. e ospitato alla meglio in un’unica stanza con un ricco mercante tedesco. Taillefer — futuro padre di Victorine – lo uccise impossessandosi dei suoi soldi e facendo cadere la colpa sul compagno che fu fucilato. Questo episodio, che ha turbato Pierre fino ad affidare ai suoi amici la difficile soluzione di un caso che riguarda soprattutto la sua coscienza, non può essere svelato a Victorine, perché farebbe crollare tutta l’impalcatura della sua esistenza. Sposarla o rinunciare alla donna che ama? Ascoltata la storia, gli amici dovranno pronunciarsi con delicatezza.

 

 

  Victorine, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, Anno L, N. 147, 31 maggio 1973, p. 9.

 

  Va in onda questa sera lo sceneggiato televisivo Victorine, tratto da un racconto di Honoré De Balzac. Ne sono interpreti Barbara Brylska, Stanislaw Jasiukiewicz e Andrzej Kopiczynski, con la regia di Jan Rutkiewicz. Victorine narra di una giovane donna francese bella e ricca che si appresta a sposare Pierre, il quale indaga nel passato della ragazza e scopre un episodio allucinante. Le. ricchezze della donna sono frutto di un omicidio consumato dal padre di lei, quando questi era un giovane ufficiale. La «fortunata» ragazza non sa nulla del suo passato ma lo gosciato (sic) Pierre cerca tra i suoi amici un confortevole aiuto prima di decidere sul proprio futuro: il matrimonio potrebbe infatti significare sinistra complicità.



  Honoré de Balzac: la vita; profilo storico-critico dell’autore e dell’opera; guida bibliografica, in Honoré de Balzac, La cugina Bette … cit., pp. VII-XVII.


  pp. XIII-XIV. Nella Comédie humaine, La cousine Bette appartiene al ciclo de Les parents pauvres, non previsto nel minuzioso catalogo dell’autore del 1845, insieme a Le cousin Pons (ma nell’edizione Calmann-Levy, entrambi fanno parte del III volume di «Scene della vita parigina») e, inizialmente anche Pierrette, inserita poi nel gruppo che costituisce le «Scene della vita di provincia». Il ciclo quindi si chiude nello stretto giro di due episodi, concepiti dapprima come novelle e divenuti poi, per accumulo di particolari e sviluppo dei personaggi, tra i romanzi più densi e ricchi di intreccio dell’intera opera balzachiana, soprattutto La cousine Bette. Del resto, per lo scrittore, si tratta di superare il successo che Sue stava ottenendo col suo romanzo Martin l’enfant trouvé, pubblicato a puntate sul «Constitutionnel», come egli confesserà alla sua amica, la baronessa Hanska. Appena iniziato il romanzo infatti, Balzac, cui ancora brucia l’insuccesso «d’appendice» dei Paysans, interrotto su «La Presse» per la protesta dei lettori, scrive a Madame Hanska: «Il momento esige che io faccia due o tre opere capitali che rovescino i falsi dei di questa letteratura bastarda, e che proveranno che io sono più giovane, più fresco e più grande di sempre». Siamo nel giugno del 1846 e l’8 ottobre dello stesso anno hanno inizio sul «Constitutionnel» le puntate de La cousine Bette, che otterrà subito un successo clamoroso, per la capacità di Balzac di catturare, di puntata in puntata, l’attenzione dei lettori, di imbastire una vicenda il cui intrigo superasse quelli apprestati da scrittori di feuilletons, allora popolarissimi, come Sue e Dumas. E infatti pochi romanzi balzachiani sono, come questo, foschi e inquietanti, avvincenti ma, nello stesso tempo, anche patetici e melodrammatici, continuamente in bilico tra la caratterizzazione in profondo di personaggi ossessionati e la necessità «appendicista» di caricare l’azione di effetti-shock e di continui colpi di scena. Ancor prima di iniziare la composizione de Les parents pauvres, sempre alla Hanska, Balzac specifica le ragioni del dittico in progetto: «Le Vieux Musicien (mutato solo più tardi in Le cousin Pons) è il parente povero oltraggiato e di buon cuore. La cousine Bette è la parente povera, oltraggiata e che vivendo nell’intimità di tre o quattro famiglie, cerca di vendicarsi di tutte le sue sofferenze.» Tuttavia Lisbeth Fischer, familiarmente Bette, non è né cacciata né maltrattata dai suoi ricchi parenti, bensì aiutata e amorosamente accolta dalla cugina Adeline e da tutta la famiglia Hulot. E che l’oltraggio, in lei, è anteriore alle sue relazioni familiari, di ordine psicologico e sociale: piuttosto brutta, povera, ma anche risoluta e intelligente, il continuo raffronto con la ricchezza e la bellezza di Adeline non può che incrementare il sordo rancore che la muove. La gelosia, dice Balzac, forma la base del suo carattere. (In realtà il personaggio è più complicato di quanto la breve nota permetta di analizzare.) Come un ragno, sotto le sue vesti di coeur simple, di umile e dolce zitella, intesse trame di inganno e distruzione, asservita al suo odio, come il Barone Hulot lo è alla sua sensualità. Caratteri «eccessivi» entrambi, in preda a una passione dominante, come amava descrivere Balzac, sorreggono la cupa vicenda con la forza di un’allucinata follia. Ma intorno a questi due e alle altre figure, meno aggettate ma non per questo meno sapientemente caratterizzate, è tutta una società che lo scrittore illumina, sia colta negli orrori di uno spaccato domestico, sia negli avidi intrighi della borghesia dell'epoca (non bisogna dimenticare del resto che il romanzo, ispirato, per quanto alla lontana, a elementi di cronaca nera, si svolge in piena contemporaneità, terminando la storia l’anno stesso della sua redazione). Così ne La cousine Bette, l'ultimo capolavoro della complessa «mitologia realista» balzachiana, lo scrittore sembra ripetere ancora una volta, e prima di ogni teorizzazione marxista e freudiana, che due sono i nodi centrali, manifesti o segreti, di ogni umana esistenza: il denaro e le pulsioni sessuali.



  Honoré de Balzac: la vita; profilo storico-critico dell’autore e dell’opera; guida bibliografica, in Honoré de Balzac, Eugénie Grandet ... cit., pp. VII-XVIII.

 

  pp. XIII-XV. A Madame Hanska, conosciuta da pochi mesi, Balzac scriveva, in una lettera del 19 agosto 1833, di star lavorando a una novella intitolata Eugénie Grandet, da inserire con il precedente Le curé de Tours, tra le Scene della vita di provincia rappresentata stavolta nella malinconiosa cittadina di Saumur. Pensava di terminarla in pochi giorni e consegnarla, come aveva promesso, alla rivista «L'Europe littéraire». Ma ben presto il racconto si trama e sviluppa in un romanzo di esemplare linearità, di cui Balzac consegna alla rivista il primo capitolo, «Fisionomie borghesi», che lo stampa subito annunciandone il secondo, «Il cugino di Parigi», che tuttavia non vi apparirà mai. Il romanzo intero invece usciva, nel dicembre dello stesso anno, come V tomo degli Studi di costume del XIX secolo, che preannunciano ancora nebulosamente l’organismo della Comédie humaine, ed era diviso in sei capitoli, poi soppressi con il prologo e l’epilogo nelle edizioni successive, per ragioni di economia editoriale: seguivano, ai due già ricordati, «Amori di provincia», e «Promesse d’avaro, giuramenti d’amore», «Dispiaceri di famiglia» e «Così va il mondo». Salutato immediatamente da una critica entusiasta e quasi concorde come il capolavoro di una nuova letteratura realista, Balzac deplorava che la fortuna e la popolarità di questo romanzo mettessero in ombra altri da lui giudicati migliori e più rappresentativi del suo genio. Tuttavia, fiero del successo e consapevole della maturità stilistica acquisita con questa storia in grisaille, così fondamentale oltre tutto nello sviluppo delle sue concezioni narrative, farà scrivere a Félix Davin, suo portavoce, nel 1835: «Eugénie Grandet ha impresso il sigillo alla rivoluzione operata da Balzac nel romanzo. Vi si è raggiunta la conquista della verità assoluta nell’arte; vi si trova il dramma applicato alle cose più semplici della vita privata. È una successione di piccole cause che produce effetti potenti, è la fusione terribile di triviale e di sublime, di patetico e di grottesco; infine, è la vita così com’è, e il romanzo così come deve essere».

  È indubbio che con Eugénie Grandet ha inizio il vero e proprio romanzo «balzachiano», con i suoi caratteri «eccessivi», le passioni dominanti e lo sfondo sociale che lo scrittore d’ora in poi metterà a fuoco crudamente nella sua epica in negativo; quello del capitalismo nascente, di una borghesia intraprendente ed avida, che deriva il suo potere non più dalla tesaurizzazione e dal risparmio, ma dalla compravendita e dalla speculazione. Ma la corsa alla potenza finanziaria, per quanto esaltante e vitale, implica l’alienazione e l’annientamento di tutta un’umanità, di tutto un modo di vita che sfuggono alle leggi delle congiunture economiche fondate sull’astuzia e sul cinismo. In una società siffatta, per esempio, la donna è sacrificata e finalizzata. Che cosa conta l’amore ingenuo di una sprovveduta fanciulla come Eugénie, quando la strumentalizzazione di ogni rapporto è la molla inevitabile dell’ambizione e della riuscita? Charles, il cugino senza scrupoli di cui lei si innamora appartiene già alla razza degli arrampicatori sociali come Rastignac, così come Grandet padre a quella degli affaristi geniali come Nucingen (due dei personaggi più celebri della commedia balzachiana, destinati ad apparire in molti romanzi posteriori).

  Sulla trama di una vicenda patetica e melodrammatica, si svolge la narrazione estremamente contenuta, minuziosamente colta nel décor di una provincia rurale, opprimente e meschina, attuffata in una quotidiana monotonia che acutizza i vizi e le manie. Il romanzo tuttavia non è tanto la cronaca di un amore contrastato e poi beffato, perché altrimenti non se ne spiegherebbe l’importanza fondamentale nella produzione balzachiana, quanto la storia di un conflitto tragico che risalta per contrasto strutturale sul rallentato dell’ambientazione. Alla statica infatti del descrittivismo ambientale e dello psicologismo dei personaggi di contorno si oppone la dinamica dell’azione, centrata su i due personaggi del padre e della figlia, di segno opposto ma di uguale valenza: se il padre è il simbolo dell’avarizia, della volontà di possedere e la figlia quello dell’amore e della capacità di dare, un’identica forza li unisce e divide: la passione esclusiva a cui tutto viene sottomesso nell’universo mitico-realista dello scrittore.

  Come indica il titolo, per Balzac, la protagonista è Eugénie, vittima dell’avarizia patema, eroina angelicata ed emblema della virtù muliebri, che risponde a un’esigenza forse troppo manichea di contrapporre un modello ideale di perfezione a un’umanità che si brucia di illusioni contingenti. Ma il personaggio più «reale» del romanzo, e insieme il più «metafisico» nella sua concretezza narrativa, è Grandet: Arpagone moderno, prestigioso speculatore («La vita è un affare», dirà alla figlia), non ha niente del maniaco classico e il raffronto con Molière, di cui Balzac tuttavia a buon diritto si gloriava, appare piuttosto un riferimento obbligato, se il ridicolo della commedia di carattere è negato dall’intelligenza e dalla volontà, dalla crudeltà e dalla follia; se è impedito soprattutto dalla coscienza dello scrittore di una fascinazione e degradazione che implacabilmente condanna tutti.

 

 

  Antologia di Sapere. Il romanzo d’appendice, Programma nazionale, 1-2 ottobre 1973.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Luciano Anselmi, Storie parallele, Bologna, Cappelli editore, 1973.

 

  (Diario numero due).

 

  Secondo quei pettegoli dei fratelli Goncourt, Honoré de Balzac amava far peti in pubblico. Analisi psicoanalitica retrospettiva sui peti di Honoré de Balzac:

  liberazione della aggressività;

  conseguente canalizzazione armoniosa degli istinti;

  il soggetto, da bambino, provava piacere a trattenere gli escrementi; il successo di Eugénie Grandet e degli altri romanzi ha distolto i suoi interessi primarî: abbandonato così lo stadio anale, egli si è donato allo stadio spirituale. (Sublimatio).

  Da quel momento in poi, libertà assoluta nei peti. Dicono che ne fece uno, solenne, davanti ad Alessandro Manzoni, a Milano, nella casa di lui.

 

  (Diario numero sette).

 

  Stilemi e strutture.

 

  Si fa e si disfa il romanzo

  le chiacchiere dei letterati:

  nelle aule dei convegni

  seminari tables rondes e logorrea,

  non vado mai fra i letterati che parlano

  della crisi del romanzo ma ieri

  sono andato: seduto in poltrona,

  accanto a me, c’era Balzac

  panciotto a fiori: e rideva.

 

  (Diario numero dieci).

 

  Ecco è il popolo il sanculotto che conta

  e come topi malnati e vogliosi escono dalle tane

  gli amici dimenticati dal sudore dignitoso

  di milioni di anonimi fieri come Balzac.

 

 

  Alberto Arbasino, Alle origini del romanzo, «Corriere della sera», Milano, Anno 98, 4 agosto 1973, p. 3.

 

  Nelle stagioni basse, quando i romanzi sono brutti e la critica dorme, non viene soltanto voglia di ritornare ai più bei romanzi che si conoscono già, preferibilmente quegli splendidi «romanzi per romanzieri» congegnati da Balzac e da Flaubert e da Proust per indicare ai loro colleghi in ansia la soluzione trionfale per i più tormentosi problemi teorici. Si ridiventa addirittura golosi di una certa rara saggistica sul «come è fatto il romanzo» che gira gira intorno alla natura di questo misterioso congegno, fino a risultare non di rado più affascinante del romanzo stesso.

 

 

  Antonio Baroni, La leggenda del grande Balzac, «Grazia», Milano, Anno XLVI, N. 1682, 20 maggio 1973.


  Su: Charles Gorham, Al vento del boulevard.

 

  Il mattino del 20 agosto 1850 Parigi si svegliò sotto una pioggia flagellante. Nella tarda mattinata, con la pioggia che aveva di poco attenuato la sua violenza, un corteo funebre si mosse dalla chiesa di Saint-Philippe-de-Roule diretto al cimitero di Père-Lachaise, su una collinetta dominante la città. La carrozza che trasportava il feretro era seguita, oltre che da un folto pubblico, da alcuni dei più bei nomi dell’aristocrazia letteraria francese del momento: Victor Hugo, Alessandro Dumas, Sainte-Beuve. Il governo aveva mandato un suo rappresentante, che d’un tratto rivolse la parola a Hugo: «Questo monsieur de Balzac era un uomo di valore, vero?». «Era un genio, signore!» rispose Hugo. Toccò allo stesso Hugo tenere l’elogio funebre. Il vento spazzò via molte delle sue parole, impedendo che i presenti le udissero; ma, in un intervallo di pace, una frase risuonò chiara e distinta: «Senza rendersene conto, sia che egli lo voglia o no, l’autore di queste immense opere appartiene alla forte razza degli scrittori rivoluzionari». Tutti piangevano. Piangeva anche Anne-Charlotte, la dura madre di Honoré de Balzac: c’era voluta la morte del figlio per farle sciogliere quella scheggia di ghiaccio che essa aveva al posto del cuore. Appena Hugo ebbe terminato il suo discorso, grosse zolle di terra umida cominciarono a cadere sulla cassa. La folla si volse per andarsene. La rapida e serrata partita di Balzac sulla scacchiera della vita s’era proprio definitivamente conclusa.

  Honoré de Balzac s’era spento a cinquantuno anni. Tutto nella sua esistenza aveva avuto un carattere alluvionale: gli amori, i debiti, l’appetito, il lavoro, il successo, la stravaganza, la sete di denaro. Lo stesso Balzac, giovanissimo, si prefigurò il proprio destino quando disse all'amata sorella Laure: io un giorno diventerò grande. Voleva dire un grande scrittore. Lo diventò in ogni cosa che fece. Nel bene come nel male.

  Honoré Balzac (la particella nobiliare «de» doveva essere inserita nel nome molto più tardi) nacque a Tours, nella Turenna, il ventun (sic) maggio 1799, primo di quattro fratelli di cui due dovevano avere un’origine paterna alquanto incerta. Il padre era possidente terriero e scrittore dilettante. La madre, di vent’anni più giovane del marito, era un’ex servetta, bellissima, dotata di molta classe, ma altera e fredda. I rapporti del piccolo Honoré con la madre furono difficili, tanto che il ragazzo fu presto dirottato in un collegio, dal quale fu poi tolto dopo una esperienza traumatizzante. Questa biografia di Charles Gorham, «Al vento del boulevard», è molto precisa e circostanziata nella ricostruzione di quegli anni, da cui emerge netta l’immagine di un giovane ribelle consapevole del ruolo che giocherà nella vita.

  E Balzac sapeva con lampeggiante chiarezza ciò che l’aspettava. I genitori intendevano farne un notaio. Ma lui voleva fare un’altra cosa: lo scrittore. A diciotto anni si ritirò in una soffitta parigina, torrida d’estate, glaciale d’inverno, e lì sfogò la sua prorompente vitalità. Nei primi tempi, lavorando sedici ore al giorno, sfornò un romanzo alla settimana dedicato ad un mercato che oggi si definirebbe di consumo. Ma col passare degli anni una nuova coscienza si impose in lui: la coscienza dello scrittore vero. E arrivarono così i romanzi che dovevano farlo conoscere in tutto il mondo: Eugenia Grandet, Papà Goriot, La pelle di zigrino, Le illusioni perdute (sic). Libri che oggi non hanno perduto niente della loro forza originaria. Ma proprio questa osservazione ci porta a chiederci quale sia l’impatto tra il lettore moderno e Balzac. Va detto subito che Balzac era un uomo fortunato. Lui, legittimista e conservatore, fu definito da Hugo scrittore rivoluzionario. Lui, teso solo alla glorificazione del denaro, è stato santificato dalla critica marxista. Tutti motivi che ne fanno uno scrittore più che mai attuale. E, tra i classici, il pubblico lo predilige ancora oggi.

  Dalla biografia di Gorham risalta il personaggio da leggenda che Balzac indubbiamente fu. Le stravaganze dello scrittore erano l’argomento di conversazione dei salotti parigini del tempo. Stravaganze di ogni genere: dal modo di vestire, al modo di lavorare (cominciava a mezzanotte per finire a mezzogiorno); dalla mania di spendere somme enormi in futilità, agli affari sballati. Eppure Balzac si considerò sempre un grande uomo d’affari: anche quando dilapidò le sue sostanze in una impresa per l’estrazione dell’argento in Sardegna, o nella costruzione di case, alla periferia di Parigi, dove nessuno andò mai ad abitare.

  Balzac non fu solo un grande scrittore, uno dei più grandi che il mondo abbia mai avuto, ma un vero divo. La gente lo fermava per la strada, quando sedeva nel suo palco a teatro il pubblico si alzava e lo applaudiva, una volta all’Opera di Vienna si ritardò di mezz’ora l’inizio dello spettacolo per aspettare il suo arrivo. Oggi non si fermano più gli scrittori per la strada, ma solo i calciatori e i presentatori televisivi. Ed è un altro segno della decadenza dei tempi. 

 

 

  Arrigo Benedetti, Il collega Rubempré, «Corriere della sera», Milano, Anno 98, N. , 6 aprile 1973, p. 3.

 

  Siamo disonesti? Il sospetto perseguita il giornalista che si sente esposto a tentazioni e che sa di vivere tra persone portate a considerarlo incapace di resistere, mentre s’ammette che, nella maggior parte dei casi, sappiano fare altri professionisti. Sembra incredibile che non si colgano le grandi occasioni! «Stampa!». La frase che certi dicono all’ingresso d’un cinema o d’un teatro lascia intravedere altri e più sostanziali vantaggi. Ed è quasi impossibile farci credere quando si spiega che spesso al giornalista non addetto agli spettacoli piace anzi pagaie il biglietto.

  Non bastano tuttavia le ipotesi di facilitazioni, e neanche di qualcosa di più, a spiegare l’ombra d’un discredito. Una ragione deve pur esservi, se molti ci stimano con qualche riserva. E la si deve alla grande letteratura romantica dello scorso secolo. La colpa è del collega Rubempré.

  Oggi, a quanto sento dire con molta soddisfazione giacché è una lettura a cui mi sono dedicato da mesi, si torna a leggere Balzac. Forse alcuni scrittori hanno riaperto la Comédie humaine, o l’hanno cominciata a leggere per la prima volta, per trovare qualcosa di solido che la letteratura italiana sembra non essere in grado di rinvenire; qualcosa d’affascinante come lo è sempre la realtà della poesia e che però mi pare irripetibile. Balzac comunque è una lettura consolatrice per chi, in su con gli anni, cerca di capire i fatti della sua vita, magari la causa di certe amarezze; ed è utilissima a chi è giovane, in un’epoca in cui la realtà pare dissolversi. Una volta Carlo Cassola diceva che aver letto Marx non vale gran che se non si conosce bene la Comédie che non a caso, di là dalle teorie legittimistiche dell’autore, non è solo un grande poema moderno ma una guida per capire la società contemporanea.

  Eppure anche coloro che sentono la bellezza tragica di papà Goriot o di madame de Mortsauf, rimangono perplessi davanti a Lucien Chardon, il giovane poeta di Angoulême. Lui, contagiato dalla sete d’innalzarsi che era nei vincitori dell’89 e nei compratori di beni nazionali, prende il nome della mamma, levatrice sì ma d’autentica nobiltà, una de Rubempré, appunto. La particule affascina, apre le porte dei salotti di cui Balzac ci dà una descrizione che sarà perfezionata da Proust, fa dimenticare la ricchezza d’origine recente. Se ne ha bisogno, a costo di essere ridicoli. Anche Balzac premise un «de» a un cognome che suo padre aveva modificato. Il nonno si chiamava Balssa ed era un campagnolo.

  E non sono le disavventure dell’ingenuo Lucien, che lasciata Angoulême affronta disarmato Parigi che rende sospetta la nostra professione ma sono gli avventurieri della carta stampata che incontra, Finot, Lousteau. Tutto ormai si mescola nella città che, per il giovane provinciale, era di per sé il punto d’arrivo. Quanta malizia dove aveva immaginalo solo la felicità. Perfino gli amici-nemici. come Rastignac, per ferirlo ogni tanto chiamano Chardon. Si compenetrano il demi-monde, la solida borghesia finanziaria, la vecchia aristocrazia tornata dall’esilio e indennizzata dal re, la burocrazia, la magistratura, l’esercito; tutto tende a diventare denaro e potere. Un insieme di cattiva letteratura, di genialità, di miseria, di pasti in trattorie disgustose, di salotti risplendenti di luce, di duchesse lascive o frigide, di cortigiane che si fanno mantenere da commercianti e da banchieri, e che a loro volta mantengono giovani incerti fra la poesia e il ricatto.

  Bisogna cogliere le occasioni. I colleghi già scaltriti, anche loro venuti dalla provincia con illusioni presto svanite, dànno consigli che da principio spaventano Lucien, e che oggi fanno inorridire. Gli scrupoli sono respinti in un oscuro recesso dell’anima. Occorre intanto partecipare al grande banchetto in cui l’erotismo e l’ambizione si fondono. L’ordine sociale rotto dalla rivoluzione sprigiona energie, e l’energia Balzac la coglie e l’ammira in Francia e non ne fa un mito per cui occorra con Stendhal cercarla allo stato puro, asociale in Italia. Balzac sa vedere, e anche il giornalismo cade sotto il suo sguardo spietato. Lui ne descrive la miseria; non invano aveva esercitato la professione e ogni tanto supponeva che con un nuovo giornale gli fosse alla fine concessa la ricchezza. Finot insegna l’arte del ricatto elegante. Alcuni suggestivi personaggi di secondo piano, per lo più vecchi ufficiali napoleonici messi a demi-solde, e che non si capisce mai che parte abbiano: se siano amministratori, segretari di redazione, procacciatori di pubblicità, spiegano, con un’amarezza riguardante non i costumi bensì la propria sorte e la mediocrità del presente, come il vero giornalista possa fare a meno dello stipendio.

  Ormai il giornalismo non ha più alcun legame con quello libellistico, mondano, pettegolo e a intermittenza non privo di genialità letteraria di mezzo secolo fa. Contrariamente a ciò che si suppone, non fu quella l’epoca aurea della nostra professione. L’industria editoriale ha i suoi lati negativi, pone problemi sempre nuovi e magari sempre più complicati, ma ha moralizzato il mestiere. L’ideale del piccolo giornale sostenuto dall’abnegazione dei redattori e da un pubblico scelto rimane astratto. [...].

  Eppure Lucien de Rubempré rimane un nostro collega e ne sentiamo la tragicità, anche se spesso sembra un tenorino da opera buffa. Dietro di lui, c’è una società che ora appare bigotta e ora frivola, c che rassomiglia alla nostra sebbene gli elementi che la costituiscano non siano più gli stessi. Lucien, come molti giornalisti viene (anche se oggi succede sempre meno) dalla letteratura, e quando Balzac nelle Illusions perdues — archetipo di tanti altri romanzi politici, dall’Education sentimentale di Flaubert, al Bel Ami di Maupassant alle meravigliose pagine di Proust nella Recherche sul caso Dreyfus e sulla prima guerra mondiale — ci vuole dare campioni della sua poesia, scrive a Emile De Regnault e lo prega di chiedere a Charles De Bernard di preparargli qualcosa di enfatico, alla Lord Byron. (Poi, si servirà di versi suoi trovati in un cassetto). Non vuole insomma mettere il personaggio alla berlina; cerca solo di farci capire che, anche come poeta, risente dei tempi, proprio come nella moralità. Unico elemento che lo distingue la conclusione tragica della sua vita.

  E Rubempré resta un nostro collega soprattutto per la sua capacità d’illudersi e per quell’essere conteso fra inclinazioni così diverse. Vuole conquistare Parigi, certo, ed anche questa ambizione lo rende differente dai giornalisti contemporanei, però, come a tanti colleghi d’ogni tempo, gli manca il senso pratico che guiderà per esempio Eugène de Rastignac, anche lui uscito da una famiglia modesta sebbene di più attendibile nobiltà, e venuto a Parigi in cerca di gloria e di quattrini. Entrambi appaiono da giovani ugualmente ambiziosi e ingenui, però li differenzia subito il modo con cui reagiscono a quella specie di testimonio scelto da Balzac per dimostrarci (e di sicuro non ne era consapevole) che le regole suggerite da Machiavelli al Valentino valgono nella fosca Italia rinascimentale come nella gaia Parigi della Restaurazione e poi di Luigi Filippo. Rastignac non è neanche lui un vincitore, nonostante i successi con le donne e nella vita pubblica, però accetta la durezza della realtà. Lucien si lascia proteggere dall’ex-forzato e quasi non se ne accorge: ne gode passivo e momentaneamente felice i vantaggi, e come una farfalla (un altro ammonimento per chi fa il nostro mestiere) si brucia in una Parigi il cui ventre è putrido, la cui superficie è scintillante.



  Carlo Bo, Manzoni e il romanzo europeo, «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», Milano, Anno II, n. 1, gennaio-aprile 1973, pp. 43-55.


  pp. 46-47. Tutto il romanzo europeo cede all’insidia della lenta penetrazione nel tessuto del racconto della seduzione spirituale ed intellettuale e non c’è romanziere che alla fine non parteggi per i suoi eroi e sostenga più o meno apertamente la più sciolta delle espressioni. Il varco è stato aperto da questo punto di vista da Racine, il Manzoni lo sapeva bene e tutto il grande processo e le discussioni sui limiti della rappresentazione del male derivano da questo momento iniziale di responsabilità. I narratori del Settecento contrabbandarono questo segreto proposito eversivo con la grazia, con l’ironia, tentando di svalutare in partenza il peso delle responsabilità dello scrittore. Era, il loro, un giuoco di società e con questo si vuol dire che una parte delle apparenze veniva salvato: lo scrittore non prendeva posizione fino in fondo, si limitava a fare da suggeritore. Fu poi dopo Manzoni il grande momento di Balzac, per cui sarebbe assai difficile dire se si sia mai posto problemi del genere. Il territorio della corruzione era uno dei grandi territori nuovi della realtà e la sua fame non poteva essere bloccata sulla sponda di questo Eldorado. Va ricordato che proprio un lettore — e dei più agguerriti — del Manzoni, il Sainte-Beuve, diceva che non solo Balzac aveva messo il piede sa questa terra ma vi aveva portato qualcosa di suo, aveva cioè infuso a tal punto l’osservazione con la partecipazione da fare — per esempio — di Hulot un simbolo vivente, una vittima inconsapevole. Nell’aggettivo troviamo segnata una volta per tutte la grande forza e la diversità del Manzoni dal romanziere tradizionale: il suo modo di raccontare è un modo di responsabilità e i suoi personaggi sono consapevoli, anche quando vivono nel male, come Don Rodrigo. [...].

  pp. 48 e 49. Il disegno del Manzoni è geometrico, con Balzac il romanzo acquista già un tipo di rapporto più aperto, da equazione. [...].

  Gli è che Manzoni non perdendo mai il controllo di se stesso, non è portato a dimenticare e a violare i confini della realtà che intende studiare, il romanziere con Balzac si mette in concorrenza con Dio e la cosa importante per lui diventa creare, dare il senso della vita e alla fine rimandare o sospendere il giudizio, la valutazione morale. Per quanto Balzac sia dotato di grazia d’invenzione, i suoi personaggi lasciano sempre in chi legge il sospetto di essere guidati, nel senso che le loro reazioni sono determinate dalle cose, così come le loro imprese sono sottoposte al vaglio della realtà, un’idea molto più confusa e misteriosa di quella di Dio, e non più a quello di una concezione compatta dell’esistenza.

  C’è poi l’obbiezione d’obbligo, quasi un luogo comune e, cioè, che mentre i personaggi manzoniani sembrano poco credibili, scarsamente attendibili, i personaggi balzacchiani o stendhaliani o tolstoiani trasudano credibilità e autenticità. Osservazione vera se il compito del romanziere deve essere quello del semplice registratore di vicende, se il suo lavoro si ferma al momento del fatto e non deve proseguire per tentare di offrire una ricerca di un’interpretazione più larga, più generosa, non soltanto meccanica. Chi potrebbe negare che i personaggi del grande romanzo europeo non sono sottoposti a tutta una serie di reazioni prestabilite nel quadro di una valutazione psicologica e meramente psicologica o sociologica o storica? Sì, è vero, noi ci riconosciamo con maggiore facilità in Vautrin, in Moreau, in Levin ma questo avviene se ci arrestiamo alle apparenze e non ci preoccupiamo di andare al di là dei suoni e delle luci della rappresentazione e di vederci per quello che siamo, da chi dipendiamo, gli scarsi poteri che abbiamo. In altre parole, anche i più umili dei personaggi manzoniani obbediscono a un criterio tragico della vita, l’immagine centrale del Lazzaretto e della peste ha un valore centripeto di trasformazione, fedele in questo al principio cristiano del riscatto nella sofferenza.

 

 

  Carlo Bo, Con il libro alla TV. Buonasera Monsieur Balzac, «Corriere della sera», Milano, Anno 98, N. 3, 4 gennaio 1973, p. 13.

 

  Continua alla TV il corso accelerato sul romanzo francese dell’Ottocento. Dopo l’«Educazione sentimentale» di Flaubert ecco «Il giglio nella valle» di Balzac. Questo tipo di trasmissioni ripropone il tema dei rapporti fra televisione e letteratura; che cosa si perde, che cosa si guadagna? Non c’è risposta sicura, si può soltanto dire che un teleromanzo ha un valore di stimolo per chi ignori certi libri famosi e conserva nello stesso tempo la funzione di controllo critico in chi, invece, ha una sua storia di lettore. Per quanti tradimenti, difetti o magari errori ci possano essere resta sempre una parte d’attivo che, nel nostro caso, è rappresentata dal ritorno obbligato al libro. In sostanza, chi vince, anzi chi salva questo genere di produzione, è la letteratura.

  Venendo all’esempio ultimo, converrà ricordare al lettore che «Il giglio» è un testo singolare, estremamente suggestivo nonostante le sue apparenze e il suo dato tradizionale di testo romantico. Balzac affronta da par suo il tema della castità e lo restituisce al lettore nell’ambito di una guerra tra l’assediante, Félix de Vandenesse, e l’assediata, madame de Mortsauf. Ma, come è d’obbligo in tutto Balzac, il tema centrale si allarga e si sviluppa in cento altri motivi che non diventano mai complementari e conservano un largo margine di autonomia.

  E’ così che al punto capitale della castità, della virtù, dell’amore coniugale e filiale sono aggiunti gli altri momenti vivi della storia, a cominciare da quelli che più direttamente appartengono all’invenzione e alla natura stessa dell’amore. Né si deve credere che tutto o quasi tutto si componga in immagini e scene edificanti. La virtù esaltata da Balzac ha una sua forza attiva di eccezionale valore e si conferma nei momenti di maggior pericolo, nel gioco delle tentazioni, insomma, nel rovescio diabolico della vicenda. Balzac può in tal modo dar sfogo a una delle sue passioni più vere, quella di attore o di tecnico delle passioni umane, sostenuta qui dalla secolare esperienza del cattolicesimo. E’ così che il tema della virtù assediata a volte si trasforma in un vero e proprio trattato dell’amore umano, inteso coraggiosamente, senza inganni e senza illusioni.

  Da notare che tale sostituzione avviene — senza forzatura alcuna — nell’entusiasmo tipico del grande romanziere, per cui i fatti alimentano direttamente lo studio del cuore con i suoi abissi e le sue contraddizioni. Di fronte all’immagine santa di madame de Mortsauf, che in qualche modo lascia pensare addirittura al Manzoni, il romanziere ha posto Lady Dudley che è il segno opposto di un altro modo d’amare, un esempio a rovescio ma per questo non meno pertinente al tema.

  Al lettore d’oggi — apparentemente così affrancato dalle leggi e dagli obblighi morali — il libro potrà sembrare talmente ingenuo da non essere neppure credibile, ma si tratta di un’impressione di comodo e del tutto errata. Chi sappia leggere bene, soprattutto quello che Balzac ha appena nascosto tra le pieghe del racconto, il risultato finale è ben diverso: coglierà quello che è il grado di maturità dello scrittore e la intensità del suo rapporto, che non è mai tenuto indietro, anzi è spinto in avanti, sino a pretendere una lettura delle cose molto crudele e spietata.

  Il colore romantico, il tono esaltato di testimonianza non debbono ingannare nessuno; Balzac, legando la sua storia ad un tempo ben preciso, arricchendola di personaggi storici, costruendo i suoi eroi attraverso abili sovrapposizioni di amici e conoscenti, ha finito per trasferire tutto in un altro mondo, senza tempo e senza cronaca, ne ha fatto un «esempio di virtù» diretto, tratto dall’esperienza e fondato sulla conoscenza del cuore umano. Sono cose che riescono soltanto ai grandi inventori, a chi porta dentro un mondo da aggiungere a quello che gli ha offerto la realtà.

  La cronaca letteraria ci ricorda che il libro è nato come una vendetta e una scommessa. Al Sainte-Beuve che lo aveva stroncato, Balzac avrebbe risposto: «Rifarò Volupté», un po’ come dire, ti insegnerò io a scrivere un romanzo, a fare ciò che tu non hai saputo fare con Volupté. L’arma, con cui avrebbe dovuto trapassare il critico, nel corso dell’opera si è trasformata, nel senso che la partecipazione straordinaria dell’inventore ha fatto sì che il tema dell’amore puro, dell’amore non consumato prendesse altri accenti e una forma quanto mai libera e suggestiva.

  Questo ci aiuta a capire meglio l’atteggiamento di uno dei maggiori fedeli del Balzac, il filosofo Alain, che non aveva paura di confessare la sua predilezione per «Il giglio». Leggeva il libro ogni anno e tutte le volte non riusciva a trattenere le lacrime. Confessione preziosa perché ci consente di penetrare meglio il senso del libro e di separarne la zona più segreta, ciò che nessuno ha il coraggio di confessare in pubblico. In questo senso Balzac è stato qualcosa di più di un filosofo delle passioni, è stato il suggeritore, confidente, quello che ha saputo dire a voce chiara le parole che ogni uomo fa di tutto per spegnere e per seppellire nell’ombra del proprio cuore.

 

 

  Bertolt Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte. Introduzione di Cesare Cases. Traduzione di Bianca Zagari, Torino, Giulio Einaudi editore, 1973 («Saggi», 516).

 

  Citiamo dall’edizione pubblicata nella collana «Reprints» del 1975.

 

  pp. 174-176. Come la mettiamo con quel Balzac che indubbiamente è un grande scrittore ed è realista anzi che no? Il Papà Goriot ha una favola bellissima, tutto al contrario dell’Educazione sentimentale di Flaubert che pure è anch’essa un’opera realistica molto importante; tuttavia in altre opere di Balzac la favola è più debole, rimane più difficilmente impressa nella memoria, è una favola meno favolosa. La pelle di zigrino è un’opera simbolistica, lo stile di questo scrittore cambia in continuazione e Taine, pur ammirandolo moltissimo, trova che non sapeva scrivere affatto, il che per un francese è imperdonabile! Tra l’altro, per intere dozzine di pagine non fa che infilare compiute dissertazioni su temi che «con la faccenda non hanno assolutamente niente a che vedere»! Egli è un realista e lavora con qualunque strumento per avvicinarsi alla realtà. E contemporaneamente, non bisogna dimenticarlo, la concorrenza letteraria lo costringe a deviazioni sorprendenti di tipo romantico o di altro tipo. Consigliare di tenersi stretti a Balzac è lo stesso che consigliare di tenersi stretti al mare! [...].

  Il realismo non è una questione di forma. Non si può prendere la forma di un unico realista (o di un numero ristretto di realisti) e dire che quella è la forma realistica. Ciò non è realistico. Procedendo in tal modo si arriva alla conclusione che o erano realisti Swift e Aristofane o lo erano Balzac e Tolstoj. E nel caso che si prenda la forma di un autore già morto, si arriva alla conclusione che nessuno degli scrittori viventi è realista.

  Rinunciamo in tal modo alla teoria? Niente affatto, noi la sviluppiamo. Ci rifiutiamo di accogliere una teoria che consista semplicemente nella descrizione e interpretazione di opere d’arte esistenti, dalle quali vengono tratte direttive puramente formali. E ciò per le opere che sono ancora da scrivere. In tal modo sventiamo il pericolo di cadere nel formalismo della critica. Ne va del realismo.

 

  p. 185. Per giungere a una definizione utilizzabile di realismo non basta in nessun caso trarre le necessarie direttive soltanto da opere letterarie (Siate come Tolstoj – senza le sue debolezze! Siate come Balzac – ma un Balzac di oggi!) Il realismo non è una faccenda che riguardi soltanto la letteratura, è un’importante faccenda politica, filosofica, pratica e deve essere trattato e spiegato appunto come una faccenda importante che riguarda tutti gli uomini.

 

  pp. 187-188. Balzac è il poeta delle mostruosità. La poliedricità dei suoi eroi (l’ampiezza dei loro lati positivi e fa profondità dei loro lati negativi) rispecchia la dialettica del progresso della produzione in quanto progresso della miseria. «Gli affari in lui divennero poetici» (Taine) ma: «Balzac era prima di tutto un uomo d’affari e precisamente un uomo d’affari sommerso dai debiti ... Si buttò a speculare ... sospese i pagamenti e scrisse romanzi per pagare i debiti». Anche la poesia divenne per lui dunque un affare! In questa epoca di un capitalismo da foresta vergine gli individui lottano contro gli individui, contro gruppi di individui, in fondo lottano «contro l’intera società». Proprio in questo consiste la loro individualità. E ora ci consigliano di ricominciare a creare, di continuare a creare, anzi no di creare di bel nuovo degli individui, naturalmente individui diversi, ma con lo stesso metodo, che beninteso è poi diverso, in- somma che cosa? «La passione [di Balzac] per il collezionismo confinava con la monomania» (ecc., p. 11). Questo feticismo per l’oggetto noi lo troviamo anche nei suoi romanzi, in centinaia, anzi in migliaia di pagine. Però è proprio questo l’elemento che dovremmo lasciare da parte; Lukács solleva l’indice per diffidare Tret’jakov proprio a causa di tali opinioni. Tuttavia è proprio tale feticismo a fare dei personaggi di Balzac degli individui. È semplicemente ridicolo limitarsi a pensare a una sostituzione delle passioni e funzioni sociali che producono l’individuo. Forse che la produzione di beni di consumo per la collettività produce individui nello stesso modo in cui li produceva la «passione del collezionismo»? Naturalmente si può anche rispondere di sì. Questa produzione dopo tutto ha luogo e dopo tutto ci sono degli individui. Si tratta però per l’appunto di individui talmente diversi che Balzac non li avrebbe affatto riconosciuti come tali (e oggi Gide come tali non li riconosce). Ad essi mancherà l’elemento mostruoso, non saranno sublimi ed abietti ad un tempo, delinquenti e santi ad un tempo e così via.

  No, Balzac non si serve del montaggio. Scrive però gigantesche genealogie, combina matrimoni fra le creature della sua fantasia, come Napoleone faceva coi suoi marescialli ed i suoi fratelli, segue i patrimoni (feticismo della roba) attraverso generazioni di una stessa famiglia, il loro passaggio da una famiglia all’altra. Egli ha davanti a sé soltanto «organismi», le famiglie sono organismi, in seno ad esse «crescono» gli individui; allora quello che dobbiamo fare è forse mettere al posto della famiglia la cellula o la fabbrica o il soviet, visto che, una volta caduta la proprietà privata dei mezzi di produzione, la famiglia ha chiaramente rallentato il proprio ritmo nella formazione di individui? Tuttavia queste nuove strutture che indubbiamente producono individui risultano, confrontate alla famiglia, frutto appunto di un montaggio! Esse sono montate nel senso letterale della parola. Già oggi a New York, per non parlare di Mosca, la donna per esempio viene «formata» dall’uomo molto meno che non nella Parigi di Balzac, essa dipende meno da lui, e fin qui è tutto molto semplice. Certe lotte «al calor bianco» vengono quindi meno e le altre lotte che ne prendono il posto – perché è evidente che altre lotte ne prendono il posto – sono almeno altrettanto violente, ma hanno forse un carattere meno individualistico. Non che esse non abbiano in sé niente di individualistico (sono gli individui che le combattono) ma in esse, per esempio, le alleanze svolgono una parte colossale che non svolgevano certo ai tempi di Balzac.

 

  p. 189. La proposta di studiare i romanzi di Balzac e di Tolstoj non è cattiva. In effetti questi scrittori sviluppano alcune tecniche molto importanti per una rappresentazione realistica. (Del resto e un errore logico quasi incomprensibile, appena uno propone di operare una scelta tra gli strumenti rappresentativi usati dagli scrittori, cominciare subito ad accusarlo di voler fare a pezzi le opere in questione; alle opere non succede proprio niente. L’indagine storica naturalmente deve considerarle come un tutto unitario, per essa tali opere non sono un mucchio di strumenti tecnici, questo è chiaro. Ma lo scrittore che studia la tecnica, si accosta la un punto di vista diverso alle opere delle generazioni precedenti e di altre classi, e questo è altrettanto chiaro).

 

  p. 192. Lo scrittore che si studiasse di dare degli uomini semplicemente una valutazione «diversa» da quella che ne danno i capitalisti, e li rappresentasse di conseguenza come esseri «completi», «armonici», «spiritualmente ricchi», darebbe forma a uomini «completi» solo sulla carta, sarebbe cioè un cattivo formalista. La tecnica di un Balzac non può fare di Henry Ford un personaggio del tipo di Vautrin ma, quel che è peggio, non permette neanche di rappresentare la nuova umanità del proletario della nostra epoca che ha acquistato una coscienza di classe. La tecnica di Upton Sinclair non è troppo nuova, è semmai troppo vecchia per adempiere tali compiti. In essa non c’è troppo poco Balzac, ce n’è troppo.

  Commettiamo un grave errore se confondiamo gli sforzi volti a insegnare a trarre godimento da Balzac con gli sforzi volti a fissare le norme per costruire romanzi nuovi, attuali. Per raggiungere il primo scopo, è necessario considerare i romanzi di Balzac come un tutto unitario; dobbiamo essere in grado di immedesimarci nella sua epoca, dobbiamo considerarli come qualcosa di concluso, di organico, di inconfondibile e non ci è lecito sottoporre a critica i particolari, giudicare i dettagli e così via. Per trarre norme costruttive da tali romanzi, dobbiamo ugualmente immedesimarci nella loro epoca, ma dobbiamo far valere anche dei punti di vista tecnici. Ci trasformiamo in critici. Leggiamo da costruttori. [...].

  Una singolare inclinazione di Lukács per l’idillio si rivela nel turbamento che provoca in lui il fatto che scrittori come Dos Passos abbiano fatto saltare in aria la classica narrativa borghese di Balzac. Egli non si rende conto, e non vuol rendersi conto, che lo scrittore moderno non può servirsi di un tipo di racconto che, come quello di Balzac, serviva a creare un alone romantico attorno alla lotta per la concorrenza nella Francia postnapoleonica (come è noto Balzac insiste nel richiamare l’attenzione sugli spunti che ha tratto dalle storie di indiani di Cooper!)

 

  pp. 218-219. Da Balzac c’è ancora molto da imparare, presupposto che uno abbia già imparato molto. Ma a poeti come Shelley bisogna assegnare, nella grande scuola dei realisti, un posto ancora più in vista che non a Balzac perché meglio di Balzac egli rende possibile l’astrazione e non è un nemico bensì un amico delle classi inferiori. [...].

  Balzac costruisce con tensione situazioni ricche di conflitti; Hašek costruisce senza tensione e i suoi conflitti sono minuscoli. Non sono le forme esteriori a fare lo scrittore realista. E non esiste neppure una profilassi infallibile: un vigoroso senso dell’arte può trapassare in fetido estetismo, una fiorente fantasia nella squallida astrattezza dell’acchiappanuvole e ciò, spesso, nello stesso poeta; non per questo possiamo mettere in guardia contro il senso artistico e la fantasia. Così il realismo scende continuamente al livello di meccanico naturalismo, anche nei realisti più significativi. Consigliare «Scrivete come Shelley!» sarebbe assurdo e altrettanto lo sarebbe consigliare «Scrivete come Balzac!». Chi accettasse tali consigli ora si esprimerebbe servendosi di immagini tratte dalla vita di persone già defunte, ora punterebbe su reazioni psichiche che non hanno più corso. Se però vediamo in quanti modi è possibile descrivere la realtà, ci rendiamo anche conto che il realismo non è una questione di forma. Quando si fissano dei modelli formali, non c’c niente di peggio che fissarne troppo pochi. È pericoloso collegare il grande concetto di «realismo» a un paio di nomi, per quanto famosi, e mettere assieme un paio di forme, per quanto utili esse possano essere, desumendo da esse l’unico metodo creativo all’infuori del quale non c’è salvezza. A proposito delle forme letterarie bisogna interrogare la realtà, non l’estetica, neanche quella realistica. La verità può venir taciuta in molti modi e in molti modi può essere detta. Noi deduciamo la nostra estetica, come pure la nostra moralità, dai bisogni della nostra lotta.

 

  pp. 227-228. Quando si propongono dei modelli letterari, bisogna sforzarsi di essere molto concreti. Bisogna parlare a dei tecnici e bisogna farlo da tecnici. È molto difficile scindere la tecnica (il formulare, il «vedere», il comporre, ecc.) dal relativo «contenuto»: ogni modello ha sotto gli occhi un mondo diverso, a parte il fatto che lo vede in modo diverso. Naturalmente non basta provare che l’opera d’arte proposta a modello ha ben rispecchiato una determinata epoca storica. In letteratura non si può usare lo stesso specchio per rispecchiare epoche diverse così come nella realtà si usa il medesimo specchio per riflettere successivamente teste diverse e poi anche tavoli e nuvole. Non basta neanche mostrare che gli strumenti rappresentativi corrispondevano allo standard tecnico dell’epoca in questione. Per una tecnica letteraria ancora tutta da costruire ciò significherebbe semplicemente che essa dovrebbe appunto corrispondere allo standard tecnico della nostra epoca, cosa che per il momento non è altro che un pio desiderio. Come pure rimane un pio desiderio la pretesa che le nostre opere soddisfino le esigenze sociali della classe che noi rappresentiamo «nella stessa misura» in cui le opere dei nostri modelli soddisfacevano quelle della loro classe. Sulla base di tali spunti, di inestimabile valore per la storia della letteratura, l’unico risultato che abbiamo raggiunto è che cominciamo a dubitare che ci sia qualcosa di utilizzabile nella tecnica dei nostri modelli, dal momento che essi sono così strettamente connessi con contenuti, tecniche e scopi sociali di altre epoche. Balzac scriveva infatti in un mondo che era enormemente diverso dal nostro e si serviva di mezzi conoscitivi e rappresentativi che non corrispondono affatto al nostro standard tecnico (nel campo della produzione, della biologia, dell’economia, ecc.), e scriveva inoltre per una classe che proprio allora si accingeva a sfruttare il codice di Napoleone. Naturalmente, per tornare alla tecnica, la nostra tecnica si è formata attraverso la storia, è costituita da un ammasso di cognizioni ed esperienze pratiche di molti secoli, il che significa che una parte considerevole della tecnica precedente è ancora viva nella nostra, la quale ne è una prosecuzione, anche se non la continua in linea retta e anche se non rappresenta semplicemente una somma delle tecniche precedenti. Ci sono quindi in Balzac, anche in Balzac, elementi tecnici che possiamo utilizzare. Confrontando il suo mondo, la sua classe, lo standard della tecnica del suo tempo e il nostro mondo, la nostra classe e lo standard della nostra tecnica, ricaviamo preziosi criteri di giudizio; è tuttavia assolutamente necessario mettere in luce il modo in cui egli lavorava, cioè in che modo vedeva c descriveva le cose, in che cosa i metodi che egli impiegava erano diversi da quelli usati da altri (nel caratterizzare i personaggi, nel procurarsi il materiale, nell’esporre le proprie cognizioni, nel comporre la sua trama, ecc.). Certo niente è più pericoloso che parlare di un solo modello. A parte il fatto che diffondere esclusivamente un tale modello significa impedirgli di risultare abbastanza duttile, un unico modello non risulta in nessun caso sufficiente. Se si parte dall’idea che sia possibile scindere gli elementi tecnici da quelli contenutistici (ed è questo che si fa raccomandando modelli di altre epoche), allora questa separazione deve essere possibile anche nel caso di opere moderne. [...].

 

  p. 229. Da una critica aperta a interessi di tecnica letteraria potremmo per esempio imparare la differenza tra la tecnica rappresentativa di Balzac e quella di Dickens. Prendiamo la descrizione dei procedimenti giudiziari in entrambi questi autori. Salta subito agli occhi che Balzac rappresenta una classe diversa da Dickens oppure la stessa classe ma in una situazione diversa. (Naturalmente non sarebbe sufficiente sentenziare che l’uno parla in nome della piccola borghesia, l’altro in nome della grande borghesia). Un punto eccezionalmente interessante è che proprio lo stile moraleggiante di Dickens, che simpatizza con l’oggetto dell’amministrazione giudiziaria, suscita l’impressione che il suo colpo di vanga vada meno a fondo di Balzac nel terreno della realtà concreta. Il lato tecnico lo presentano entrambi, ma nelle rappresentazioni pur grandiose che Dickens ci offre del formalismo giuridico, per esempio in Casa desolata, non risulta affatto chiaro come in Balzac il senso reale dell’amministrazione borghese della giustizia, la sua funzione in certi momenti rivoluzionaria. Non si fraintenda, non si tratta di denunziare la tendenza del riformismo sociale, sarebbe assurdo farlo. Se Balzac offre materiale più ricco al sociologo, e secondo me le cose stanno proprio così, sarà forse perché egli arriva alla generalizzazione più tardi che non Dickens e dà luogo al giudizio solo dopo una precisa analisi che mette in luce le contraddizioni; in questo egli ha in sé qualcosa di scientifico nel senso migliore della parola. L’atteggiamento morale di Balzac non potrà mai essere il nostro, ma neppure quello di Dickens ci soddisfa. Balzac ci fornisce una conoscenza più profonda della natura umana, la rende più facile da maneggiare. Un’analisi scientifica di tipo storico-materialistico potrebbe confermarlo nei particolari, mettendo però in primo piano il lato tecnico, cioè gli strumenti rappresentativi. (Come vengono descritti in Balzac o in Dickens un giudice, lo svolgimento di un processo, ecc.?).

 

 

  Italo Calvino, La città-romanzo in Balzac, in Honoré de Balzac, Ferragus ... cit., pp. V-XII.

 

  Far diventare romanzo una città: rappresentare i quartieri e le vie come personaggi dotati ognuno d’un carattere in opposizione con gli altri: evocare figure umane e situazioni come una vegetazione spontanea che germina dal selciato di queste o quelle vie, o come elementi di così drammatico contrasto con esse da provocare cataclismi a catena; far sì che in ogni mutevole momento la vera protagonista sia la città vivente, la sua continuità biologica, il mostro-Parigi: questa l’impresa cui Balzac nel momento in cui comincia a scrivere Ferragus si sente chiamato.

  E dire che era partito con in testa un’idea tutta diversa: il dominio esercitato da personaggi misteriosi attraverso la rete invisibile delle società segrete; anzi, i nuclei d’ispirazione che gli stavano a cuore e che egli voleva fondere in un unico ciclo romanzesco erano due: quello delle società segrete, e quello dell’onnipotenza occulta d’un individuo ai margini della società. I miti che informeranno di sé la narrativa tanto popolare che colta per più d’un secolo passano tutti per Balzac. Il Superuomo che si vendica della società che l’ha messo al bando trasformandosi in un demiurgo inafferrabile percorrerà sotto le proteiformi sembianze di Vautrin i tomi della Commedia umana e si reincarnerà in tutti i Montecristo, i Fantasmi dell’Opera e magari i Padrini che i romanzieri di successo metteranno in circolazione. La cospirazione tenebrosa che estende i suoi tentacoli dovunque ossessionerà un po’ per scherzo e un po’ sul serio i più raffinati romanzieri inglesi tra fine e inizio secolo e risorgerà nella produzione in serie d’avventure spionistico-brutalizzanti dei nostri anni.

  Con Ferragus siamo ancora nel pieno dell’ondata romantica byroniana. In un numero del marzo 1833 della «Revue de Paris» (pubblicazione a dispense settimanali cui Balzac era tenuto per contratto a fornire quaranta pagine al mese, tra continui rimbrotti dell’editore per i ritardi nella consegna dei manoscritti e le troppe correzioni sulle bozze), esce la prefazione della Histoire des Treize in cui l’autore promette di rivelare i segreti di tredici risoluti fuorilegge legati da un patto segreto di mutuo aiuto che li rendeva invincibili, e ne annuncia un primo episodio: Ferragus, chef des Dévorants. (Il termine Devorants, o Dévoirants, designava tradizionalmente i membri d’un’associazione di mestiere, «Compagni del Dovere», e potrebbe essere italianizzato in «Doveranti», ma certo Balzac gioca sulla falsa etimologia da dévorer, ben più suggestiva, e vuole che intendiamo «Divoranti»),

  La prefazione è datata 1831: ma Balzac si mette a lavorare al progetto solo nel febbraio 1833, e non fa in tempo a consegnare il primo capitolo per la settimana che segue alla pubblicazione della prefazione; cosicché due settimane dopo la «Revue de Paris» pubblicherà i primi due capitoli insieme; il terzo capitolo farà ritardare l’uscita della dispensa seguente; e il quarto e la conclusione usciranno in un fascicolo supplementare nel mese d’aprile.

  Ma il romanzo come viene fuori è ben diverso da quello che la prefazione annunciava; il vecchio progetto non interessa più l’autore; è altro che gli sta a cuore, che lo fa sudare sui suoi manoscritti invece di buttar giù pagine al ritmo richiesto dalla produzione, e che lo spinge a costellare di correzioni e aggiunte le bozze, mandando all’aria la composizione dei tipografi. L’intreccio che egli segue è pur sempre tale da far tenere il fiato in sospeso con i misteri e i colpi di scena più inattesi, e il tenebroso personaggio dall’ariostesco nome di battaglia di Ferragus vi ha una parte centrale, ma le avventure a cui egli deve la sua segreta autorità quanto la sua pubblica infamia sono date per sottintese, ed è solo al suo declino che Balzac ci fa assistere. E quanto ai «Tredici», o meglio agli altri dodici soci, sembra quasi che l’autore se ne sia dimenticato, e li fa apparire solo visti di lontano, come comparse decorative, in una fastosa messa funebre.

  Quel che ora appassionava Balzac era il poema topografico di Parigi, secondo l’intuizione che egli per primo ebbe della città come linguaggio, come ideologia, come condizionamento d’ogni pensiero e parola e gesto, dove le vie «impriment par leur physionomie certaines idées contre lesquelles nous sommes sans défense», la città mostruosa come un gigantesco crostaceo di cui gli abitanti non sono che le articolazioni motorie. Già da anni Balzac andava pubblicando sui giornali bozzetti di vita cittadina, medaglioni di personaggi tipici: ora punta su una organizzazione di questo materiale, su una specie d’enciclopedia parigina in cui trovino posto il trattatello sul seguire le donne per strada, il quadretto di genere (degno di Daumier) dei passanti sorpresi dalla pioggia, la classificazione dei vagabondi, la satira della febbre edilizia che ha preso la capitale, la caratterizzazione della grisette, la registrazione del parlato delle varie categorie (quando i dialoghi di Balzac perdono l’enfasi declamatoria abituale sanno seguire i vezzi e i neologismi alla moda e perfino l’intonazione delle voci; ecco una venditrice dire che le penne di marabù danno all’acconciatura femminile «quelque chose de vague, d’ossianique et de très comme il faut»). Alla tipologia degli esterni corrisponde quella degli interni, lussuosi o miserabili (con effetti pittorici studiati come il vaso di géroflées nel tugurio della vedova Gruget). La descrizione del cimitero del Père-Lachaise e i meandri della burocrazia funeraria coronano il disegno, cosicché il romanzo che s’era aperto con la visione di Parigi come organismo vivente si chiude sull’orizzonte della Parigi dei morti.

  La Storia dei Tredici si è trasformata nell’atlante del continente Parigi. E quando, finito Ferragus, Balzac (la sua ostinazione non gli permetteva di lasciare un progetto a mezzo) scrive, per altri editori (con la «Revue de Paris» aveva già litigato), altri due episodi per completare il trittico, si tratta di due romanzi molto diversi dal primo e tra loro, ma che hanno in comune, più che il fatto che i loro protagonisti risultino membri della misteriosa associazione (particolare tutto sommato accessorio ai fini dell’intreccio), la presenza di ampie digressioni che aggiungono altre voci alla sua enciclopedia parigina: La Duchesse de Langeais (romanzo passionale nato sull’impulso d’uno sfogo autobiografico) offre nel suo secondo capitolo uno studio sociologico sull’aristocrazia del Faubourg Saini-Germain; La fille aux yeux d’or (che è molto di più: uno dei testi centrali d’una linea della cultura francese che si sviluppa ininterrotta da Sade a oggi, diciamo a Bataille e Klossovski) s’apre con una specie di museo antropologico dei parigini divisi per classi sociali.

  Se in Ferragus la ricchezza di queste digressioni è maggiore che negli altri romanzi del trittico, non è detto che solo in esse Balzac investa la sua elaborata forza di scrittura: anche la vicenda psicologica intimista dei rapporti tra i coniugi Desmarets impegna a fondo l’autore. A noi questo dramma d’una coppia troppo perfetta interessa certo meno, date le nostre abitudini di lettura che a una certa altitudine del sublime non ci lasciano vedere che nuvole abbaglianti e ci impediscono di distinguere movimenti e contrasti: eppure, il modo come l’ombra del sospetto che non si può allontanare non riesca a incidere esternamente la fiducia amorosa ma la corroda dal di dentro, è un processo reso in modo tutt’altro che banale. E non dobbiamo dimenticare che pagine che ci possono sembrare solo esercizi d’eloquenza convenzionale, come l’ultima lettera di Clémence al marito, erano i pezzi di bravura di cui Balzac andava più fiero, come lui stesso confidava scrivendo a Madame Hanska.

  Quanto all’altro dramma psicologico, quello d’uno smisurato amor paterno, ci convince meno, anche come primo abbozzo di Père Goriot (ma qui l’egoismo è tutto dalla parte del padre, e il sacrificio tutto della figlia). Ben altro partito seppe trarre dalla riapparizione d’un padre galeotto Dickens nel suo capolavoro Grandi speranze.

  Ma una volta constatato che anche il rilievo dato alla psicologia contribuisce a mettere in secondo piano l’intreccio avventuroso, dobbiamo riconoscere quanto esso ha ancora parte nel nostro piacere di lettori: la suspense funziona, anche se il centro emotivo del racconto si sposta ripetutamente da un personaggio all’altro; il ritmo degli avvenimenti è incalzante anche se molti passi dell’intreccio zoppicano per illogicità o inaccuratezza; il mistero delle frequentazioni di Madame Jules nella via malfamata è uno dei primi enigmi polizieschi che un personaggio improvvisatosi detective affronti ad apertura di romanzo, anche se la soluzione viene troppo presto ed è d’una semplicità deludente.

  Tutta la forza romanzesca è sostenuta e condensata dalla fondazione d’una mitologia della metropoli. Una metropoli in cui ancora ogni personaggio, come nei ritratti d’Ingres, appare il proprietario del proprio volto. L’era della folla anonima non è ancora incominciata; è questione di poco, quel ventennio che separa Balzac e l’apoteosi della metropoli nel romanzo da Baudelaire e l’apoteosi della metropoli nella poesia in versi. A definire questo passaggio valgano due citazioni di lettori d’un secolo dopo, entrambi interessati per diverse vie a una tale problematica.

  «Balzac ha scoperto la grande città come covata di mistero e il senso che ha sempre sveglio è la curiosità. È la sua Musa. Non è mai né comico né tragico, è curioso. S’inoltra in un intrico di cose sempre con l’aria di chi fiuta e promette un mistero e va smontando tutta la macchina a pezzo a pezzo con un gusto acre e vivace e trionfale. Guardare come si accosta ai nuovi personaggi: li squadra da tutte le parti come rarità, li descrive, scolpisce, definisce, commenta, ne fa trasparire tutta la singolarità e assicura meraviglie. Le sue sentenze, osservazioni, tirate, motti non sono verità psicologiche, ma sospetti e trucchi da giudice istruttore, pugni sul mistero che perdio si deve chiarire. Per questo, quando la ricerca, la caccia al mistero si placa e – all’inizio del libro o nel corso (mai alla fine, perché ormai col mistero tutto è svelato) – Balzac disserta del suo complesso misterioso con un entusiasmo sociologico, psicologico e lirico, egli è ammirevole. Vedere l’inizio di Ferragus o l’inizio della seconda parte di Splendeurs et misères des courtisanes. È sublime. È Baudelaire che si annuncia».

  Chi scriveva queste frasi era il giovane Cesare Pavese, nel suo diario, in data 13 ottobre 1936.

  Pressappoco negli stessi anni, Walter Benjamin, nel suo saggio su Baudelaire, scrive un brano cui basta sostituire al nome di Victor Hugo quello (ancor più calzante) di Balzac, per fargli continuare e completare il discorso di prima:

  «Si cercherà invano, nelle Fleurs du mal o nello Spleen de Paris, qualcosa di analogo agli affreschi cittadini in cui era insuperabile Victor Hugo. Baudelaire non descrive la popolazione né la città. E proprio questa rinuncia gli ha permesso di evocare luna nell’immagine dell’altra, la sua folla è sempre quella della metropoli; la sua Parigi è sempre sovrappopolata [...]. Nei Tableaux parisiens si può provare, quasi sempre, la presenza segreta di una massa. Quando Baudelaire prende ad oggetto il crepuscolo del mattino, c’è, nelle strade deserte, qualcosa del “silenzio formicolante” che Hugo sente nella Parigi notturna [...] La massa era il velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi».



  Luigi Capuana, «I Malavoglia», in Paolo Pullega, Leggere Verga. Antologia della critica verghiana, Bologna, Zanichelli, 1973, pp. 56-60.

 

  Cfr. 1881.

 

 

  Carlo Cassola, Il romanzo, in Mario Luzi, Carlo Cassola, Poesia e romanzo, Roma, Rizzoli Editore, 1973 («La biblioteca dell’Istituto Accademico di Roma»), pp. 57-146.

 

  p. 109. Cfr. 1970.

 

 

  Carlo Cassola, Chi ha paura della realtà?, «Corriere della sera», Milano, Anno 98, 11 novembre 1973, p. 12.

 

  Balzac o dell’ingordigia.

  Ciò di cui è ingordo è tutta, indiscriminatamente, la realtà che gli passa sotto gli occhi. Lo invoglia un interno borghese come quello di una capanna., l’estensione di una pianura come l’andamento di una vallata, un vestito come una faccia, una professione come un mestiere, una teoria scientifica come una dottrina politica. Questa curiosità insaziabile ne fa un grande giornalista. Quanto al suo valore letterario, bisogna innanzi tutto riconoscere che eccelle nelle descrizioni. Nessuno sa vedere meglio di lui un paesaggio, un ambiente, una faccia, una figura. Di lui si potrebbe dire come di Monet: «Non è che un occhio, ma che occhio!».

  Il paragone con la pittura viene spontaneo, perché il meglio di Balzac sono le nature morte. Appena si anima, il suo mondo diventa convenzionale. I suoi personaggi e i suoi intrecci sono da melodramma. Oggi i raffinati fingono di andare in estasi per il cattivo gusto: ma io credo appunto che sia una finzione, una posa. Il sentimentalismo disgusta, non commuove. Per lo meno in un romanzo: al cinema, è un’altra cosa.

  Ma il merito di Balzac resta grande. Egli è stato il primo a notare quello che tutti avevano sotto gli occhi, ma à cui nessuno dava importanza. Tanto meno la realtà era presa in considerazione dalla letteratura, fuorviata da secoli di classicismo e da decenni di romanticismo.

  Il romanzo, francese dell’Ottocento non ha saputo scoprire nessun fenomeno sociale, nuovo. Nei «Miserabili» di Victor Hugo come nei romanzi di Zola o in quelli di Flaubert non c’è nulla che non fosse già in Balzac.

  Balzac ha fornito il repertorio agli altri. Ma anche, la grandezza di Flaubert ai miei occhi è fuori discussione. E’ vero, ha utilizzato una materia altrui. La noia della provincia, era già stata ritratta da Balzac; così come l’effervescenza della vita parigina. «Le illusioni perdute» sono addirittura un titolo di Balzac; e quanti dei suoi racconti avrebbero potuto intitolarsi «Un cuore semplice»?

  Solo che Balzac non ha raccontato nulla con verità. Perché «le illusioni perdute» diventassero, patetiche, abbiamo dovuto aspettare «L’educazione sentimentale» di Flaubert. Idem per «un cuore semplice» che fosse toccante.

  Allora io mi domando: Ha maggiore importanza il pioniere, lo scopritore del filone, che estrae solo materiale greggio; o chi è venuto dopo e ha saputo mettere a frutto quella ricchezza? Per quanto riguarda la letteratura russa non ho dubbi, Tolstoj e Dostoevskij sono più importanti degl’iniziatori del realismo russo, cioè di Puskin, Gogol e Turgenev.

  Mentre con l’aggettivo «dickensiano» indichiamo un genere (il fortunatissimo comico-sentimentale), con l’aggettivo «balzacchiano» indichiamo un ambiente o un costume che non è cambiato dal tempo in cui Balzac lo ritraeva.

  Benché Balzac non sappia raccontare, pure a leggerlo ci si convince che raccontare è possibile. Come mai ci siamo andati persuadendo del contrario? Anch’io, in passato, ho creduto più nell’antiromanzo che nel romanzo.

  Il fatto è che scrivere è per forza di cose, un atto di autolimitazione: non ci si può lasciar sommergere dalla realtà. Scrivere è circoscrivere. Ma in questo modo si rischia di diventare deglinibiti; si finisce col credere che questo :o quellargomento ci sia precluso, che questo o quel tipo di approccio alla realtà sia fuori della nostra portata.

  Quello che è vero per il singolo scrittore, è vero per la letteratura nel suo insieme. La paura di sbagliare fa sì che si smetta di scrivere, o che si scriva tutti la stessa cosa.

  Per questo è tonificante rileggere Balzac. Chi s’illuse di far entrare nei suoi romanzi l’intera realtà, per lo meno c’insegna a non averne paura.

 

 

  Raffaele de Cesare, Balzac e l’Italia politica del suo tempo, «Aevum», Milano, Anno XLVII, fascicolo 1, gennaio-aprile 1973, pp. 60-90; successivamente in: Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l’Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1993, pp. 117-151 [da cui citiamo].

 

  Nell’ambito degli interessi di Balzac per la cultura, la storia, i costumi, la vita quotidiana dell’Italia, un aspetto particolare, rimasto ancor più in ombra degli altri, ci sembra meritare una precisa anche se rapida inchiesta. Vogliamo alludere all’atteggiamento dello scrittore di fronte alla situazione politica italiana quale andò evolvendosi dalla Restaurazione del 1814 alla Rivoluzione del 1848: trentaquattro anni densi di avvenimenti, e decisivi per la formazione della nostra unità nazionale.

  Non è un mistero per nessuno (anche se, per mancanza di uno studio d’assieme, del fatto si abbia più una impressione generale che non una conferma precisa verificata attraverso la prova di una documentazione esauriente) che Balzac si sia costantemente interessato alla storia italiana dalla età rinascimentale alle guerre napoleoniche, alla letteratura italiana da Dante fino a Manzoni, alle arti figurative italiane da Michelangelo a Canova, e alla musica italiana dei secoli XVIII e XIX. Quasi tutti i romanzi della Comédie Humaine, non meno che numerosi saggi oggi riuniti sotto il titolo di Oeuvres Diverses, sono davanti a noi per offrircene la più eloquente testimonianza; e molti di essi, sotto una prospettiva parziale, ora letteraria, ora artistica, ora storica, sono già stati interrogati dai critici allo scopo di delineare certi caratteri di quel «Balzac Italien» di cui, anche recentemente, s’è messa in rilievo la suggestiva importanza.

  Ciò che, al contrario, si ignora del tutto è fino a che punto lo scrittore sia stato sensibile ai problemi politici dell’Italia contemporanea ed in che modo abbia reagito ad una realtà storico-sociale che andava rapidamente trasformandosi al di là delle Alpi, sotto l’impulso di esigenze nazionali e di sollecitazioni europee. Anche qui non manca una serie abbastanza copiosa di testimonianze reperibili nell’opera narrativa, in quella saggistica e nell’epistolario del romanziere. [...].

  Nelle pagine che seguono è nostra intenzione dare una risposta a queste domande cercando di mettere in luce, il meglio che ci sarà possibile, la posizione di Balzac di fronte a quella Italia vivente non come unità geografica o culturale, ma come nazione, che egli aveva imparato a conoscere nei libri, fin dal 1820, e che, dal 1836 in poi, osserverà sempre più attentamente grazie alla sua esperienza, più volte rinnovata, di viaggiatore.

  La ricerca a cui ci accingiamo non è né facile né semplice per ragioni che risulteranno chiare in seguito, lungo la lettura dei testi del romanziere via via citati. Noi cercheremo di cogliere alcune costanti del pensiero politico balzacchiano verso l’Italia risorgimentale e di rilevare lo svolgimento coerente di esse. E speriamo di riuscire a disegnare convincentemente la linea di tale evoluzione. Ma se tali costanti e tale sviluppo logico non risultassero sempre evidenti, se ci trovassimo, al contrario, a registrare certe contraddizioni o certe abbastanza sconcertanti deduzioni da premesse del tutto diverse, dovremo dire fin d’ora che la colpa non è forse solo nostra, dovuta a negligenze o ad incomprensioni nella raccolta dei testi, o ad un nostro cattivo metodo nella loro interpretazione. In realtà, i giudizi dello scrittore in fatto di politica francese o europea (lo ha già notato molto acutamente M. Regard) dipendono sovente da riflessioni sfuggenti ad un freddo controllo intellettuale, e di natura tutta, per così dire, temperamentale: esse hanno pertanto una evoluzione tanto giustificata secondo le ragioni del cuore quanto incerta (se non addirittura incoerente e contraddittoria) nelle logiche motivazioni della ragione. Non diversamente da quanto avviene per i giudizi sulla politica francese, anche la valutazione di quella concernente l’Italia subisce un processo analogo singolarmente legato al momento personale in cui vive lo scrittore; e, non diversamente, pone il critico che, accingendosi a tale studio, amerebbe scoprire la razionale sistematicità di un pensiero, di fronte ad inattese svolte, ad inesplicabili mutazioni: il che, per il critico stesso non meno che per il lettore, è pur sempre fonte di perplessità e di dubbi.

  Una osservazione preliminare da fare è quella che riguarda le fonti della documentazione balzacchiana sulle questioni concernenti la situazione politica dell’Italia dalla Restaurazione del 1814 alla Rivoluzione del 1848. È chiaro che vanno qui distinti, grosso modo, due periodi che, per essere diversi relativamente alla natura ed al tipo dell’informazione, hanno caratteristiche loro proprie ed influiscono, di conseguenza, sulla stessa capacità con cui lo scrittore si trova ad osservare i volti del problema e a giudicarlo con differente approssimazione.

  Il primo periodo, anteriore al viaggio piemontese del 1836, va appunto fino alle soglie di questa data ed è fondato su di una documentazione, essenzialmente, anche se non esclusivamente, libresca. Il secondo periodo, che occupa circa un quindicennio, va dal 1836 alla morte dello scrittore, e non è solo un periodo intessuto di osservazioni personali e di esperienze dirette, ma è caratterizzato da una più intensa partecipazione di Balzac agli «affari» italiani, e in ultimo, da una particolare (ed abbastanza sorprendente) svolta del suo pensiero politico.

  Sul primo periodo, la fonte principale (e così ovvia che ci si domanda se merita pur conto parlarne) è rappresentata dalla stampa quotidiana e dalle riviste francesi che alle informazioni italiane – in una prospettiva naturalmente diversa a seconda del colore politico dei periodici – dava sempre un notevole risalto. Ma non è neppure da trascurare una fonte, poco meno importante che è quella proveniente a Balzac dalla lettura delle numerose relazioni che viaggiatori francesi avevano pubblicate sui loro soggiorni nella Penisola o dei molti volumi dedicati da altri scrittori francesi alla situazione del Piemonte o del Lombardo-Veneto, della Toscana o delle Due Sicilie e. soprattutto, degli Stati Pontifici.

  Accanto a questa documentazione di natura letteraria bisogna aggiungere anche tutta quella serie di notizie che Balzac poteva attingere personalmente attraverso amici francesi o italiani al corrente di ciò che si maturava in quegli anni nella Penisola. Nel periodo che ci interessa qui, tali informatori non sembrano molto numerosi e sono certo pochi rispetto a quelli che Balzac avvicinerà più tardi, nel corso dei suoi viaggi cisalpini. Ma sono informatori tra i più seducenti, taluni dei quali hanno una personalità di autentico rilievo ed un peso notevole di suggestione. Ricordiamo che, già nel quindicennio che va dal 1820 al 1835, lo scrittore è legato da rapporti di amicizia o di conoscenza (sia pure diversamente) con Latouche, Nodier, Custine, Stendhal, Gauttier d’Arc, Madame d’Abrantès, il pittore Gérard; ed ha ricevuto confidenze ancora più frequenti e più strette da Jules Sandeau e da Auguste Borget, reduci ambedue da un viaggio italiano rispettivamente nel 1833 e nel 1834. Né, fra gli Italiani, vanno dimenticati Rossini, la principessa Cristina Belgiojoso-Trivulzio e il marito di lei, il principe Emilio (ambedue, come è noto, esuli dal Milanese) e quel marchese Vincenzo Salvo, diplomatico cd agente segreto siciliano, personaggio alquanto enigmatico che Mérimée definirà non solo «coquin accompli», ma anche «espèce d’espion autrichien». Un posto a parte – non tanto per il rilievo della personalità quanto, piuttosto, per la delicata posizione in cui si situa nella biografia balzacchiana – meriterebbe infine il marito della «Contessa», quel conte Emilio Guidoboni-Visconti, sbarcato molti anni prima a Parigi non senza forse segrete ragioni politiche, e sulla cui vita in Inghilterra ed in Francia si desidererebbe veder fatta una migliore luce.

  Quanto al secondo periodo, le osservazioni dirette sono nettamente prevalenti sulle informazioni libresche o sulle confidenze di amici, ed abbondano. Riflettiamo solo al fatto che, fra il soggiorno del 1836 e quelli del 1837, del 1838, del 1845 e del 1846, Balzac ha passato complessivamente in Italia circa nove mesi, che nessuna delle capitali o delle grandi città dell’Italia (ad eccezione della Sicilia) gli è rimasta sconosciuta, e che, nel corso dei suoi viaggi egli è stato ricevuto da rappresentanti del patriziato o della borghesia d’ogni colore e d’ogni convincimento politici. A Torino ha stretto amicizia con il conte Federigo Sclopis, che fu ministro costituzionale nel 1848 e, più tardi, presidente del senato del Regno d’Italia; con l’avvocato Luigi Colla, ex-commissario del Governo Provvisorio durante la prima occupazione francese, le cui simpatie liberali e democratiche non erano un segreto per nessuno; con il conte Ludovico Sauli d’Igliano, amico di Santa Rosa e di Balbo; con il conte Faustino Sanseverino-Vimercati che, nel 1848, durante le cinque giornate di Milano, fu membro del Governo Provvisorio; ha conosciuto Silvio Pellico che, pur ripiegato su se stesso ed estraneo ad ogni forma di politica attiva, continuava tuttavia a rappresentare (soprattutto agli occhi degli stranieri) lo spirito della libertà italiana drammaticamente conculcata dagli austriaci. D’altra parte, ha avuto rapporti con il marchese Felix Carron de Saint-Thomas, con il conte Victor Seyssel d’Aix, con il conte della Chiesa di Benevello, con Carlo Boucheron, professore all’Università torinese, con l’abate Costanzo Gazzera, segretario dell’Accademia delle Scienze, e vari altri che, se non del tutto estranei, erano certo molto meno sensibili dei primi alle nuove idee politiche di rinnovamento, e comunque ancorati al sistema dell’«ancien régime» sabaudo.

  A Milano, ha frequentato assiduamente il salotto della contessa Clara Maffei ben noto per i suoi ospiti dalle idee nettamente risorgimentalistiche. Ha visto – dal grande Manzoni al piccolo Cantù – personaggi che non faranno più tardi mistero delle loro opinioni antiaustriache. Ma si è anche legato di una amicizia più o meno viva con il conte Alfonso Serafino Porcia, ciambellano dell’Imperatore d'Austria, con i Sormani, i Cicogna, gli Archinto, i Taverna, i Trivulzio, i Bolognini, i Terzi, ecc., con una larga parte del patriziato milanese fedele alla monarchia asburgica. Ed ha ricevuto inviti sia nella casa del conte von Hartig, governatore della Lombardia, sia in quella del conte Wallmoden, generale comandante le truppe austriache a Milano.

  A Venezia, ha incontrato il barone Francesco Galvagna, prefetto del dipartimento dell’Adriatico durante il Regno Italico, e il conte Tullio Dandolo, appartenente anch’egli a famiglia dalle tradizioni filo-francesi; ma, anche qui, è stato ricevuto dai Soranzo e da altre famiglie della aristocrazia veneziana dove né le nostalgie del recente passato napoleonico né l’attesa di una unificazione nazionale erano condivise in modo particolare.

  A Genova è stato ospite del marchese Damaso Pareto, tanto inviso per le sue idee liberali alla polizia degli Stati Sardi da aver già subito un arresto nel 1833; e dal marchese Giancarlo di Negro, la cui azione di appoggio (più spirituale che militante, è vero) alla causa dell’indipendenza nazionale era ben conosciuta.

  A Roma, infine, ha stretto rapporti di amicizia con Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta, caldo fautore di riforme negli Stati Pontifici, futuro presidente della Giunta Provvisoria di Governo alla caduta del Potere Temporale e, successivamente, deputato al Parlamento Nazionale. L’amicizia e l’ammirazione per Michelangelo Caetani furono molto intense e i pochi documenti rimasti cc ne conservano prove eloquenti. Ma è estremamente probabile che, durante il suo soggiorno romano, Balzac abbia avuto anche l’occasione di udire opinioni politiche molto diverse negli ambienti dell’aristocrazia «nera» o di quel mondo di Curia che, sia pure di sfuggita, ebbe modo di frequentare.

  Insomma, ospite a più riprese ed a lungo dell’Italia, osservatore diretto della sua realtà storico-sociale, messo al corrente, come si è visto, da un gruppo di personalità che, in un senso o nell’altro, partecipano alla vita pubblica dei vari Stati italiani, egli ha avuto modo di scorgere da vicino la presenza, sperata, accettata o invisa, di tutto un complesso di aspirazioni nazionali operanti nell’animo degli italiani e di farsi di esse una idea personale e precisa. [...].

  Abbiamo cercato di analizzare, dal 1829 al 1848, lungo un ventennio, l’atteggiamento politico di Balzac verso l’Italia del suo tempo e di seguirne le singole tappe attraverso tutta la documentazione che siamo riusciti a reperire. Poche parole di conclusione basteranno quindi, crediamo, a terminare questa indagine e a cercare di metterne a punto i risultati.

  Preciseremo anzitutto che, per quanto ci è stato dato di vedere dai testi citati, è più legittimo parlare di posizioni diverse e discordi piuttosto che di un atteggiamento costante e coerente. Dal 1829 al 1842, non è possibile mettere in dubbio, sia pure con sfumature diverse, una reale simpatia balzacchiana per il problema dell’indipendenza italiana (quello dell’unità resta sempre abbastanza in ombra). Balzac giovane, democratico, liberale, detesta l’Austria ed anela sinceramente alla fine della sua pesante egemonia nell’Europa centrale non meno che in quella meridionale. Anche più tardi, allorché, pervenuto attraverso esperienze diverse ad una maturità politica («al di sopra dei partiti», come è stato detto), avrà temperato molti dei suoi giovanili entusiasmi liberali, egli continuerà – sia pure solo in funzione del suo odio per l’Austria – ad auspicare un movimento irredentistico italiano. I suoi viaggi in Italia, dal 1836 in poi, le sue mirabili doti di «observateur moral», i suoi incontri e scambi di idee con numerosi italiani, appartenenti ai ceti più cospicui e agli ambienti politicamente più sensibili della Penisola, non solo hanno intensificato questa simpatia, ma, documentandola meglio ed approfondendola, l’hanno arricchita di una sostanza nuova: un lievito di verità psicologica e storica che, anche letterariamente, ha dato i suoi migliori frutti. Gambara, Massimilla Doni costituiscono le testimonianze più alte, più intense, più convincenti di questa ammirazione per una Italia che palpita sotto le catene da cui è strettamente avvinta. Più tardi ancora, il nuovo incontro con Stendhal – all’insegna della Chartreuse de Parme – ha rivelato a Balzac nell’italianismo di Beyle il fervore del proprio italianismo, il tesoro del proprio entusiasmo per un popolo «passionale» e «virtuoso»: due qualità che lo rendono degno di un destino migliore.

  D’improvviso, a partire dal 1846 e fino alle testimonianze delle ultime lettere a Madame Hanska, la posizione dello scrittore viene ad assumere un carattere contrastante ed addirittura polare alla prima. Pur non mancando di riaffermare la sua antipatia per l’Austria – che è forse l’unico elemento costante del suo pensiero politico – egli diventa un sostenitore dell’ordine, dello status quo, di una Europa delle Potenze che dia garanzie – non importa a qual prezzo – di tranquillità e di pace. I rivoluzionari che minano tale pace, che compromettono quest’ordine, che proclamano un assetto diverso dall’attuale (foss’anche il meno apprezzabile come quello della casa d’Asburgo o della casa d’Orléans) si trasformano, di punto in bianco, da quei nobili idealisti che erano, in pericolosi faziosi per i quali il carcere duro o la deportazione in Siberia sono – in mancanza della forca – il castigo più opportuno. Il «flagello» della Rivoluzione parigina del 1848 e le ripercussioni immediate di essa sui popoli oppressi d’Europa, coronando questo edificio di paura per l’avvenire, irrigidiscono Balzac nel convincimento che la salvezza europea dipende solo da una politica «forte» ed assolutistica. Di qui, l’ammirazione per l’unico sovrano modello, capace di soffocare ogni eversione, Nicola I, czar di tutte le Russie.

  Quali le ragioni di tale inattesa metamorfosi proprio nel momento in cui il processo di indipendenza italiana, così caldamente auspicato per tanti anni da Balzac, andava cercando una sua più chiara cd organizzata soluzione?

  È questa la questione alla quale, come si è detto, ci è più difficile dare una risposta. In mancanza di giustificazioni di natura politica non ci è rimasto che appigliarci a quelle cause psicologiche, a quelle preoccupazioni sentimentali ed a quelle angustie economiche e finanziarie che tormentano Balzac dal 1846 al 1848 e che lo imprigionano nella drammatica paura di ogni «avventura».

  Roger Pierrot, nella sua bella Postface all’ultimo tomo delle Lettres à Madame Hanska, da lui esemplarmente edite, ha già notato questa «incompréhension totale du bouleversement de 1848» e ne ha affidata la responsabilità, prima di noi, al fatto che tale rivoluzione «gêne Balzac dans sa quête du bonheur personnel».

  Che una svolta così importante sia da attribuire ad un tale ordine di fatti lascia indubbiamente perplessi. E, certo, si vorrebbero scoprire, all’origine di essa, motivazioni meno private, riflessioni ideologiche sorrette da un più robusto pensiero. Ma tant’è: l’essenziale è che in questa serie di ragioni personali di un uomo giunto ormai allo stremo delle sue resistenze fisiche e psicologiche, la giustificazione addotta possa essere la più vicina alla realtà. Il problema, del resto, ha forse un rilievo minore di quanto appaia a prima vista. La fragilità o l’incoerenza del pensiero politico di Balzac, i segni che su di esso lasciano le sue ansie quotidiane, la sua stanchezza di uomo interessano certo il biografo che ne trarrà tutte le conseguenze indispensabili ad una più piena ricostruzione storica della sua vita. Ma sono fatti che, in ultima analisi, incidono solo su questo piano. Sul piano della creazione artistica – ed è l’osservazione finale che importa di più sottolineare – essi non intervengono ad intaccare il vigore narrativo né ad appannare l’atmosfera poetica degli ultimi romanzi della Comédie Humaine.

 

 

  Raffaele de Cesare, Ancora su Balzac e Vico, «Bollettino del Centro di studi vichiani», Salerno, III, 1973, pp. 192-198.

 

  Mi siano tuttavia consentite, in margine a tali pagine[1], alcune osservazioni che, per essere strettamente «du côté de chez Balzac» e per non oltrepassare, cioè, i limiti di una ormai lunga familiarità con il romanziere francese, mi confortano a prendere la parola anche in un argomento per metà almeno estraneo ai miei studi.

  Non v’è dubbio che l’ipotesi avanzata dal Brua su di una conoscenza vichiana di Balzac, fin dagli anni intorno al 1820, sia suggestiva e che taluni degli avvicinamenti proposti fra i testi dei due scrittori abbiano di che far riflettere un lettore per una certa rispondenza di pensiero.

  Ma non v’è ugualmente dubbio che, allo stato attuale delle indagini, tale ipotesi appare estremamente fragile e, così come oggi è posta, solleva molte perplessità.

  Anzitutto, nessuna delle analogie sottolineate dal Brua sembra a me recare la testimonianza incontrovertibile di quella perfetta evidenza testuale che — indipendentemente da ogni documentazione esterna — perviene a strappare la incondizionata convinzione di chi legge. In altre parole, nessuno dei passi citati di Balzac denuncia quella «ripresa», testuale precisa, inequivocabile, dall’opera vichiana che si spieghi in modo autonomo, possa fare a meno di altre influenze o di altri intermediari (San Paolo, Bacone, Montesquieu, come nel caso presente, e come del resto il Brua stesso lealmente riconosce) o che non possa dipendere da un ricordo diretto: un «sentito dire» di seconda o, magari, di terza voce.

  Premessa così — e speriamo accettata — la necessità di far ricorso giustificazioni esterne per appoggiare su di una base storica più sicura analogie che in se stesse non sono «parlanti», non si vede a questo punto come Balzac, nel 1820, all’epoca cioè di Falthurne, delle Notes philosophiques e della cosiddetta Dissertation sur la nature, l’homme, ses facultés, abbia potuto avere una conoscenza diretta della Scienza Nuova (non ancora tradotta in francese) e, fra l’opera latina, del De Universi Juris uno Principio et Fine uno. [...].

  Esclusa una lettura diretta della Scienza Nuova e considerata remotissima l’eventualità di un incontro personale con il De universi Juris uno Principio ..., rimane sempre aperta la possibilità di un accostamento indiretto e fortuito, provocato da una conversazione o colto lungo la lettura di un articolo di giornale o di un capitolo di libro. [...].

  Diamo una occhiata alle esplicite allusioni a Vico che, dal 1833 al 1841, lo scrittore francese farà nella sua opera narrativa e critica, e riprendiamole per un momento in esame.

  Esse sono già per la maggior parte note attraverso il Croce (e sono state ora riprese e precisate dal Brua) e non meritano perciò un lungo discorso. [...].

  Rileviamo anzitutto che, in tutta l’opera di Balzac il nome di Vico è fatto solo nove volte: numero sempre apprezzabile ma che diventa minimo ed assolutamente insignificante se non lo si giudica in sé, ma lo si compara ai nomi più rappresentativi di quella cultura italiana di cui l’autore della Comédie Humaine mostra di essere penetrato. Dante, Petrarca, Machiavelli, Ariosto, Tasso, Michelangelo, Raffaello, Canova, Rossini (e citiamo solo, per esempio, i maggiori) sono poeti, pensatori, artisti, musicisti ben più frequentemente presenti alla memoria di Balzac.

  Notiamo anche che, a differenza dei nomi italiani ora citati (e di altri minori ancora) che non solo ricorrono con una frequenza molto maggiore nell’opera di Balzac, ma con una altrettanto esemplare continuità, Vico è un nome che fa la sua apparizione con curiosa sporadicità: negli anni 1833-1834 e fra il 1839 e il 1841. Prima e dopo questi due gruppi di anni, in cui sembra che circostanze esteriori particolari abbiano sollecitato il meccanismo della memoria, il disinteresse e il silenzio dello scrittore francese sono assoluti.

  Infine, se analizziamo da vicino queste nove testimonianze, non ci è difficile scorgere che Vico è ogni volta citato per ragioni che non gli sono individuali, proprie al suo genio ed inestensibili, ma per motivi, ora biografici ora culturali, che egli condivide (o condividerebbe) con altri scrittori, letterati o filosofi: motivi generici che non enucleano affatto natura e caratteri della sua personalità (e Balzac era uomo da poterlo fare!) ma quasi contribuiscono a disperderla, confusa come è in una folla eteroclita di nomi d’ogni secolo e paese. [...].

  L’ipotesi che, fin dal 1820, Balzac conoscesse l’opera italiana di Vico è insostenibile se si pensa ad una conoscenza diretta: può essere, a rigore, possibile (ma non sembra molto probabile) se ci si riferisce ad una conoscenza indiretta mediata attraverso un canale di informazione non ancora identificato. In ogni caso — anche se postulata in questi termini — tale conoscenza dovette essere quanto mai imprecisa, frammentaria e superficiale se anche molto più tardi (quando a Balzac non mancavano nella stessa Francia i modi per documentarsi direttamente) essa è rimasta tale e non è mai riuscita a provocare una qualsiasi personale meditazione intorno al pensiero del filosofo napoletano.

  Insomma, per riprendere una osservazione di Croce, noi rimaniamo tuttora convinti che, anche dopo il 1827 (e, a tanto maggior titolo, prima di quella data), la conoscenza che Balzac ebbe di Vico fu assai probabilmente soltanto per sentito dire.

 

 

  Pietro Citati, Le nostre città, «Corriere della Sera», Milano Anno 98, 30 giugno 1973, p. 3.

 

  Quando leggiamo Balzac, ci chiediamo continuamente chi abbia creato Parigi, questo simbolo di tutte le città che abitiamo. L’ha creata il caso, che ignora dove vuol giungere? Come tutti i prodotti deformi del caso, Parigi è nata a pezzi, a frammenti, a brandelli, aggiungendo una casa all’altra, allungando dissennatamente i viali e le strade tortuose, aprendo piazze, costruendo babeli di scale, di passaggi e di arcate, innalzando banche, chiese e officine. Oppure l’ha creata la fantasia che si cela dietro le apparenze del mondo? In certe improvvise illuminazioni, ci sembra che una immaginazione insieme chimerica e razionale, delirante e freddissima abbia progettato «questo mostro enorme, spaventoso ed ingenuo», che è Parigi.

  Mentre scrive La storia dei tredici, Balzac si rende conto di un fatto. Chiunque sia stato a creare Parigi, essa è una creatura unica. Dove tutti gli altri vedono strade, case, piazze, persone diverse, membra divise, pensieri separati, sogni distinti, egli scorge un solo, immenso organismo vivente. Talvolta, Parigi gli appare come un essere umano: le soffitte, sepolcri aerei dai quali si contempla la variopinta, ondulata e muschiosa savana dei tetti, sono il capo, i primi piani lo stomaco, le banche l’acre intestino; e là, nella periferia dove vivono gli operai, si muovono freneticamente le braccia. Talvolta, Parigi gli sembra un gigantesco animale, con migliaia di articolazioni, di tenaglie e di piedi, i quali si agitano in modo convulso, come il crostaceo che conosce, tra le pietre e la sabbia abbandonate dal flusso derisorio della marea, gli ultimi movimenti vitali.

  Insieme a Londra, Parigi è il luogo dove si concentrano le miserie e le brutture del mondo; dove i muri sono umidi e macchiati, le ringhiere tarlate, le finestre cieche e sconnesse, dove i fiori non riescono a crescere, dove la polvere si confonde con l’unto, dove il fango fetido filtra dal suolo avvelenando l’acqua dei pozzi. Ma è anche il luogo più incantato della terra. In alcune ore della giornata, verso la mezzanotte, o al mattino quando l’aurora si affaccia rabbrividendo col suo vestito rosa e verde sopra la Senna deserta, in certi vicoli profondi e silenziosi o in palazzi protetti da mura altissime dove nessuno osa penetrare, si raccoglie quanto la più ardita fantasia umana abbia mai sognato. Allora, tra le mura di Parigi, rinascono le Mille e una notte: il romanzesco, l’esotico e l’assurdo più inverosimile: «la langoureuse Asie et la brillante Afrique», che Baudelaire cercava in paesi lontani: tutti i profumi, i suoni, i colori che un poeta possa desiderare.

  Chi attraversa per la prima volta Parigi, crede di scorgervi una vitalità inesauribile: un’energia così intensa e febbrile, che le ore del giorno non bastano, i minuti vengono rubati alla notte, il tempo viene divorato; e qualcuno sogna giornate senza notti, da attraversare con gli occhi aperti, tesi ed arrossati. Ma i parigini sono veramente dei vivi? A volte, essi sembrano delle maschere, col viso già estenuato, spossato e contorto dalla mano avida della morte. Forse la vera Parigi è il cimitero che si estende alle sue porte: una città identica a quella dei vivi, con le case-tombe, i portieri, i ciceroni che ci guidano nei suoi dedali, la gerarchia, la burocrazia, e persino le ore in cui i morti non sono visibili, come noi non siamo sempre visibili a chi ci cerca. Chissà che, un giorno, l’unanime città dei morti non muova all’assalto della moribonda città dei vivi.

  Quando abbiamo finito di contemplare queste immagini contrastanti, qualcosa continua a sfuggirci. La città umana, la città-crostaceo, la città orientale, la città della vita, la città della morte non ci rivelano l’essenza di Parigi. Dovunque noi posiamo lo sguardo, questo luogo che pare estendersi soltanto in superficie, del quale conosciamo le mode, i vestiti e i leggeri e cangianti splendori, ci nasconde un mistero. La gente cammina col volto coperto da una maschera, portoni non si aprono, vicoli conducono non sappiamo dove, muri arrestano il passo, dai sotterranei sta per emergere qualcuno ... Tutto ci invita più lontano: ogni apparenza si apre sopra un abisso, del quale nessuno riesce a scorgere il fondo.

  Cosa fare, dunque, per conoscere i misteri di Parigi e delle nostre città? Come Balzac, dobbiamo dilatare all’estremo il nostro occhio: acutissimo e vorace, esso vibra, scintilla, possiede le cose che incontra; tende lo sguardo fino a raccogliere la forza visionaria che vive in ogni angolo della terra. Con questi occhi insaziabili, passeggiamo per la città, come se fossimo soltanto dei viandanti distratti, e ci addentriamo sempre più profondamente nel corpo del gigantesco crostaceo, del cimitero vivente, che giace ai nostri piedi. Senza che gli altri lo sappiano, dobbiamo spalancare gli occhi su tutte le fessure rimaste aperte, sui vuoti, che lasciano intravedere almeno un’ombra del grande mistero. Condividiamo le passioni della spia, le passioni del ladro, le passioni del poliziotto, le passioni del giudice, le passioni del giocatore, le passioni del cacciatore, che insegue la sua preda «col cuore pieno di amore e di vendetta». Un romanziere moderno come Balzac, sovrano incontrastato dei romanzieri moderni, non è altro che queste passioni potenziate a vicenda.

  La prima verità ci viene rivelata da Ferragus, una sezione della Storia dei tredici, appena pubblicata da Einaudi. La città moderna è dominata da potentissime società segrete, che raggruppano gentiluomini e forzati, impostori e poeti. Qualcuno regge nell’ombra i fili della rappresentazione, di cui pensiamo di essere i protagonisti: la guida dove vuole, si prende gioco di noi. Ma questo è il mistero più superficiale. L’altro, più profondo segreto, ce lo rivela La ragazza dagli occhi d’oro, tra i massimi capolavori «della prodigiosa meteora, dell’oriente bizzarro ed eccezionale, dell’aurora polare che inonda il deserto ghiacciato con le sue luci fantastiche», come Baudelaire chiamava Balzac. La folla insonne dei vivi-morti, perduta tra le pieghe sinuose della capitale, insegue una sola meta. L’oro e il piacere erotico, che tutti i parigini desiderano, sono per Balzac lo stesso simbolo: Paquita Valdéz, amata per poche notti da Henri de Marsay, ha gli occhi d’oro, «oro che brilla, oro vivo, oro che pensa, oro che ama ...». Quest’oro assume presto il colore del fuoco: la doppia corsa verso l’oro e il piacere è una fuga verso le rosse fiamme dell’inferno, che fumano, ardono, si spengono, tornano a riaccendersi sotto le pietre di Parigi.

  Il vagabondo curioso, l’avida spia, l’intrepido cacciatore, che osino discendere fino nell’ultima bolgia di questo inferno, vi incontrano, come nelle Fleurs du mal, «le donne dannate», i relitti di Lesbo. Ma l’ultimo segreto non può venire contemplato. Chi lo conosce è condannata ad uccidersi, a uccidere, o a spargere intorno a sé i segni della distruzione. Uno dopo l’altro, i cadaveri si incamminano verso il cimitero che accoglie milioni di abitanti silenziosi. L’oro dell’amore e del danaro, il rosso delle fiamme infernali diventa il rosso del sangue. L’amore confina col delitto; e lo slancio di desiderio finisce per macchiare i muri, i divani, le tende, i cuscini di macchie di sangue che nessun perdono umano e celeste potrà cancellare.

  Così abbiamo toccato il fondo del male. Ma, nello stesso momento, con uno di quei meravigliosi capovolgimenti a cui Balzac ci costringe, un segno ci permette di risalire. Perché queste donne dannate — «o vergini, o demoni, o mostri, o martiri, ora piene di gridi, ora piene di pianti» — sono, ci dicono insieme Balzac e Baudelaire, delle «chercheuses d’infini».

  Nessun altro essere umano lo insegue con la stessa sete, con lo stesso strazio, con lo stesso insoddisfatto e inutile desiderio. La grande capitale moderna, che da principio ci sembrava così chiusa e limitata — strade senza orizzonte, vicoli senza uscita, nebbie folte che coprono il cielo — ci rivela, quando arriviamo alla sua ultima bolgia, di essere anch’essa divorata e salvata dalla ricerca dell’infinito.

 

 

  Gian Giacomo Ferrara, Il romanzo del terrore in Inghilterra e in Francia prima di Honoré de Balzac, «Traspontina», anno XII, n. 18, 1973, pp. 39-59.

 

 

  Gian Giacomo Ferrara, Le roman noir en Angleterre et en France avant Honoré de Balzac, «Quaderni del sapere scientifico», Chieti, Anno VIII, gennaio- marzo 1973, p. 7.

 

 

  D. G., Stasera alla TV. I tre del rischio, «Stampa Sera», Torino, Anno 105, Numero 3, 4 Gennaio 1973, p. 6.

 

  La vicenda si sviluppa con il ritorno a Parigi dell’innamorato della virtuosa dama, il giovane Félix de Vandenesse e della sua nuova passione per una nobildonna inglese, lady Arabelle Dubley (sic) della quale diventa l’amante. Nonostante questo continua a nutrire un amore ideale per Henriette. Addolorato perché la donna non risponde più alle sue lettere si reca a trovarla in Turenna e la trova sconvolta dalla gelosia. Felix conduce così una doppia vita, ma non reggendo al suo ritmo riparte per Parigi. Dopo qualche tempo riceve la notizia che Henriette sta morendo ed accorre al capezzale di lei, che si spegne chiedendo perdono al marito ed al platonico corteggiatore. Questi riceve poi una lettera della sua fidanzata Natalie alla quale egli ha indirizzato il lungo racconto del suo amore per Henriette. Natalie dichiara che non se la sente di succedere ad un amore tanto sublime e lo congeda, consigliandogli di non cedere mai più al desiderio di una donna che gli chiede di conoscere il suo passato.

 

 

  D. G., Stasera alla TV. C’è pure Balzac, «Stampa Sera», Torino, Anno 105, Numero 126, 31 Maggio 1973, p. 6.

 

  Victorine [...] narra la storia di Pierre, un gentiluomo di campagna, che espone un suo grave problema a quattro amici i quali dovranno risolverlo mediante un voto con le palle da biliardo. Pierre ama infatti Victorine. una donna bella e ricca, ma questa ricchezza, ha scoperto con costernazione, è frutto d’un assassinio.

  Il futuro padre di Victorine, quando era ufficiale in Romania, durante la ritirata delle truppe napoleoniche, era stato ospitato in una locanda insieme con un ricco mercante tedesco e lo aveva ucciso impossessandosi di tutti i suoi averi e tacendo ricadere la colpa su un compagno che era stato, in seguito, fucilato.



  Dr. Leo H. Herscovici, Onorato de Balzac. Traduzione di Gaspare Mancuso, Torino, Libero Accordo, 1973, pp. 7.

 

  Nacque nel 1799 nella Tourraine (sic), terra di abbondanza e patria di Rabelais. Ed è proprio in quell’anno sotto il cielo tempestoso del Mediterraneo che l’avventuriero corso, dopo aver sconvolto il mondo con le sue terribili imprese e superato l’ostacolo delle navi di Nelson d’Alessandria, poneva brutalmente fine alla esistenza del Corpo Legislativo e si impossessava, senza vergogna, del potere della Francia.

  Allevato duramente da una madre odiosa, venne internato in un collegio all’età di 8 anni. Dopo gli studi secondari, intraprese i Corsi di Diritto in Parigi dove si impiega presso un avvocato, però abbandona presto questo lavoro per dedicarsi anima e corpo alla questione letteraria.

  Fino al 1829 si addestra alla tecnica del romanzo e infine compone un «Cromwel (sic)» in versi e numerosi altri racconti storici. Per assicurarsi il pane quotidiano, si dedica all’Editoria, quindi alla Stampa. In seguito è fonditore di caratteri tipografici, però non gli riesce nulla di tutto ciò. Dalla sua disfatta trae la decisione di abbandonare la poesia poiché l’epoca non è più del lirismo.

  I suoi debiti salgono. Dappertutto, viene sommerso da valanghe di carte bollate. Fugge da Parigi. Come poteva fare altrimenti? Quando ricevette il maestro Rossini e la sua signora, vivrà da gran signore nella sua casa facendosi prestare l’argenteria dal suo Editore; dato che la sua era al Monte di Pietà, e trionfalmente in quei giorni scrive; «Misi sulla tavola i vini più pregiati di tutta Europa, i piatti più dilettevoli, i fiori più rari, in una parola, volli esporre tutto ciò che ebbi di meglio».

  Ma la realtà scorreva al suo fianco. Viveva chiuso nella sua mansarda, inchiodato al tavolo di lavoro; trascorrendo il suo tempo in mezzo alla selva dei suoi personaggi. Il risultato dei suoi lavori nascosti delle prime meditazioni, al di fuori della sua vita, al collegio e che davano termine al tempo degli studi, fu il famoso Trattato della Volontà [il corsivo è nostro] di cui parlerà più tardi nella «Commedia Umana».

  Balzac brucia d’una fervente ambizione. Sogna di spezzare il cerchio stretto che lo soffoca. Non sogna altro che meravigliosi colpi di fortuna i quali attirino i grandi eventi della Rivoluzione.

  «Essere celebre e amato», tale è l’ideale di cui fa partecipe sua sorella. Sogna la gloria teatrale. Crea la «Società delle Genti di Lettere» e si impegna a consegnare un dramma di cui non sa ancora che l’ultima frase.

  La sua memoria era prodigiosa. Si ricordava con la stessa fedeltà, pensieri acquisiti con la lettura, e d’altri cui la stessa riflessione o la conversazione gli avevano suggerito.

  «L’osservazione è divenuta in me, automatica. Essa mi fa penetrare le Anime senza percepirne i corpi; mi riassume tutte le particolarità delle loro esistenze al punto di estrarle dalle loro persone. E’ così che posso vivere non importa quale vita sostituendomi al personaggio. Da ciò, un albero, un fiore, una montagna, un punto di vista, una parola, uno sguardo, un’angoscia, un desiderio, un pericolo, una collera, ed anche un granello di sabbia, tutto si riflette nella mia anima, ed ogni giorno io ritrovo tutto questo più nuovo e più profondo».

  Quindi comincia a scrivere non certo al fine di racimolare guadagni, ma per conquistare il primo posto nella letteratura. Nel mentre trascorre le sue giornate in una vicina biblioteca. Ama lo studio, il sapere, la somma di tutte le conoscenze che procurano, alle classi della società elevata, la loro sicurezza.

  Malgrado questo non è soddisfatto dei primi risultati. E’ trascinato da una gigantesca ambizione; trascura il dettaglio, le cose isolate. Non si interessa che alla evoluzione delle grandi masse, estraendo dal groviglio degli avvenimenti, gli elementi puri; dal disordine, l’armonia; o come osservò Stefan Zweig, far passare tutto il mondo nella sua storta (sic?), ricreandolo, «sintetizzandolo», seguendo una esatta sintesi ed animando col suo proprio respiro la creazione così domata, inoltre, dirigendola con le sue proprie mani. Ecco infine il suo scopo. Semplifica il mondo per poterlo dominare; comprimere l’universo ch'egli ha così domato nella grandiosa berlina della commedia umana.

  In un’epoca di mostruose rivoluzioni dove la morale, il danaro, la terra, le leggi, la gerarchia, in breve, tutto ciò che dopo secoli veniva arginato su dei limiti rigidi, sprofondavano o straripavano in un periodo nel quale si producevano trasformazioni inaudite; doveva forzatamente assumere, di buon’ora, coscienza della relatività di tutti i valori.

  Conobbe ogni cosa: i processi, le battaglie, le manovre della Borsa, le speculazioni immobiliari, i segreti della chimica, le astuzie dei profumieri, gli artifici degli artisti, le discussioni dei teologhi, la vita dei giornali, i retroscena dei teatri e soprattutto di quest’altra scena, la Politica, le menzogne e la corruzione dei partiti, l’ipocrisia dei diplomatici.

  D’altra parte non ignorava la fisiognonomia, dottrina di Gall e la sua topografia delle facoltà localizzate nel cervello; — (Gall fondò la Frenologia), quindi Lavater l'amico di Goethe il quale non vedeva, nella figura umana, null’altro che il voler-vivere fattosi carne ed ossa, poiché il carattere non è che la manifestazione fisica. Inoltre credeva alla dottrina di Mesmer, sulla trasmissione magnetica della volontà.

  La sua vera carriera letteraria inizia nel 1829, allorquando pubblica il suo volume «Gli Insorti» (sic?) e quello sulla «Fisiologia del Matrimonio». Il suo nome si impone sempre più. Visita Roma, Milano, Venezia dove lo si riceve trionfalmente. Collabora con diversi giornali; la Politica lo tenta però non riesce il tentativo.

  «Le scene della vita privata», «Gobsec» (sic), «La Vendetta», «La casa del gatto che fa le fusa» [!], «La pace domestica», appaiono nel 1830. Nel 1831 è il turno del romanzo «La pelle di zigrino» che lo porta alla celebrità.

  La gloria lo inebria un po’ però la sua attività non diminuisce, nonostante, di intensità. Fa apparire «La Duchessa di Langlais (sic)», «Il Prete di Tours», «Il Colonnello Chabert», «Eugenio (sic) Grandet», romanzi che evocano i migliori aristocratici e piccoli borghesi di Parigi e di provincia.

  Nel 1832, Balzac è in relazione epistolare con la Straniera (contessa polacca, Eveline Hanska) la quale ritrova in Ginevra nel 1834. In una delle sue lettere le scrive: «Voglio governare il mondo intellettuale in Europa. Ancora due anni di pazienza e di lavoro ed io marcerò su tutte le teste di coloro che vorrebbero legarmi le mani e ritardare il mio volo!». Questo sentimento non era certo dettato da un’orgogliosa follia.

  Nel 1838 si avvia alla ricerca di miniere d’argento in Sardegna, malamente sfruttate nella antichità. Aveva trovato nuovi sistemi di sfruttamento, però, saranno altri ad approfittarne per fare fortuna. Nello stesso periodo pubblica «Le (sic) Illusioni Perdute», «Grandezza e Decadenza di Cesare birotteau», (sic) «Splendori e Miserie dei Cortigiani (sic)» ed il Curato del Villaggio. Progetta poi, di organizzare un Salone delle Arti Europee e di fare, della Straniera, una Regina di Parigi. Inoltre, pubblica il suo dramma Vautrin, che fa fiasco. Ed è alla fine del 1841 quando considera il vasto piano de «La Commedia Umana».

  E già la Critica sostiene che l’opera di Balzac manca di unità e che la sistemazione a cose fatte era artificiosa, era una unità fittizia. Però, gli ammiratori di Balzac negarono queste adduzioni affermando che l'unità dell'opera di Balzac era tanto più convincente ed autentica di quanto lo stesso Balzac non avesse preso coscienza se non a cose fatte.

  Nel 1841, la Contessa Hanska rimane vedova e Balzac sente il desiderio di sposarla. Per assicurargli un’esistenza degna di Lei, lavora senza un’attimo (sic) di respiro. Ma, il matrimonio viene rimandato di volta in volta. La decisione di finirla con questa vita scapigliata si risolve nel trasformare questa lunga amicizia in una unione regolare, quindi, edifica su questa base stabile, una nuova vita illusoria. Dopo anni di attesa appassionata, due mesi prima della sua morte, Eva comprese qual era il suo dovere verso questo moribondo, ed il matrimonio fu celebrato in tutta fretta. Malgrado le sue condizioni di salute, Balzac architetta ancora ampi progetti, ma, decisamente le sue forze seguono un declino fatale.

  L’idea di un romanzo «Totale» che utilizzi tutte le risorse conosciute del romanzo, è di Walter Scott. Riuniva insieme, il dramma, il dialogo e il vero, il paesaggio, la descrizione. Vi introduceva le meravigliosità e il vero. Faceva coabitare la poesia con la familiarità dei più umili linguaggi. Fenimone (sic) Cooper dipinse invece, con colore ed esattezza le scene tipicamente americane.

 Gli Insorti: questo romanzo non è che la trasposizione delle avventure, della selva e della savana del Nuovo Mondo, in un paesaggio francese. Ma soprattutto il mito balzachiano di una Parigi segreta colma di triboli dove vagano le grandi fiere del crimine e del vizio, insomma, non è altro che il mito della selva generalmente trasferita!

  Balzac unì la satira psicologica alla satira sociale descrivendo l’animale con la sua conchiglia, spiegando l’uomo attraverso il suo ambiente e la sua origine dandogli, pertanto, la probabilità di denominare il suo ambiente e di inventare un destino.

  Il romanzo realista del XIX secolo tende a render conto della realtà, nel trarre la materia da «un quadro» o da uno studio. Balzac studia gli scrupoli di Rastignac sapendo e lasciandoci indovinare che Rastignac finirà dentro la pelle di un cinico. Così il narratore falsa l’esperienza poiché sà (sic) di già a cosa, questa, andrà a finire. Sviscera gli avvenimenti in funzione dei risultati ch’essi produrranno, invitandoci ad identificarci con Rastignac.

  Balzac visse la vita dei suoi eroi. Una prolifica immaginazione comanda gli eccessi, i buoni propositi e gli smacchi di un’esistenza onde il dispendio delle sue forze superavano tutte le ragionevoli misure.

  Desiderò far zampillare dal petto umano queste forze primitive, di accrescerne l’effervescenza sotto la pressione dell’atmosfera, di esacerbarle attraverso i sentimenti, di inebriarle d’odio e di amore, di renderle furiose e arrabbiate da cui qualcuna si spezzerà contro la pietra di ciappola del Caso, e, aprendo così in ogni destino l’Abisso minaccioso ai piedi della Montagna, o al limite della Valle dove si scatena la tempesta della passione, di precipitarne le forze, di lanciarle e fissare con un brillante e affascinante sguardo questo giuoco cangiante.

  Poco prima di pubblicare la Cugina Bette e il Cugino Pons, si presentò alla Accademia Francese. Purtroppo i posti, il più spesso vengono riservati a delle celebrità sconosciute.

  Nessuna prudenza modera il logorio della energia vitale per le attività dello spirito. Il lavoro di Balzac non fu soltanto quello della febbrile invenzione ma anche quello della messa a punto, pazientemente, lungamente e minuziosamente delle pagine, senza tregua riprese e corrette. Le frasi che gli sgorgano d’un sol getto nel silenzio della notte, frasi che non finisce mai di martellare in una nuova forma alla luce diafana dell’alba, è l’enigma di quest’opera che ci appare sempre attuale.

  Balzac non è un precursore ma il creatore del mondo moderno, soprattutto quando si tratta della pittura dei caratteri e dell’ambiente sociale. La sua opera rivela una potenza di osservazione e di evocazione incomparabili. Egli ubbidisce a Fontanelle il quale raccomanda, agli adulti, di far economia di movimento. Ogni movimento inutile è un dispendio pazzesco al pari di ogni emozione poiché alla emozione segue sempre una brusca svolta.

  E pertanto la saggezza può essere punita come una vita meno intensa avvelena se stessa. Gobsech (sic) non fu sempre avaro; non lo è che per l’età. Questo usuraio è tanto vacuo quanto duro è il Grandet. Si va da costui proprio quando non se ne può fare a meno. Tutto ciò perché la quintaessenza di Parigi si incontra al caffè «Theimis», vicino al Ponte-Nuovo. Gli usurai vi si riuniscono ... «miraggio fantastico» dove si personifica la potenza dell’Oro.

  Il marchese Raffaele di «Valentina» (sic!) è molto povero, ma è ossessionato da una grande opera denominata «Teoria della Volontà Ispirata», come l’azione del romanzo stesso, dall’occultismo e dal meremismo (sic). Disperato di non poter realizzare il suo progetto, pensa di suicidarsi quando incontra uno strano personaggio che gli offre una pelle di zigrino. — E’ una narrazione filosofica e proprio per questo fatto, l’opera è molto letta. Un lavoro semi fantastico del genere dei «Racconti di Hoffman (sic)».

  L’11 ottobre 1831, Goethe scrisse a Riemer: «Continuai la lettura della “Pelle di Zigrino” (che attribuisce erroneamente a V. Hugo). E’ una eccellente opera di un genere tutto nuovo il quale smentisce l'impossibile e il fantastico che sa ammirevolmente servirsi del meraviglioso onde esporre i pensieri più originali e gli avvenimenti più curiosi. Se ne può dire altrettanto bene per i dettagli».

  E’ un tesoro di esperienze che viene depositato in questo libro il quale ci insegna che la società non ha che del disprezzo per la sventura e la sofferenza, che questa li evita come fossero malati contagiosi, e che non esita mai quando deve scegliere tra la vita e la sventura. Così appariva a Balzac la società, fin dalla sua gioventù immorale e atea. Essa ha orrore della vecchiaia, della malattia, della povertà. Non ammette la sventura per quanto gli renda tartassandola con tasse e libelli traendone danaro sonante.

  I pensieri di Balzac sono giusti. Ed è tale la parte che si confà al suo possente pensiero in tutte le sue creazioni poiché penetra nei luoghi comuni restituendo loro lo spirito della verità. Gli eroi di Balzac sono colmi di invidia; costoro desiderano possedere tutto. Sentono che per trarre partito dalle loro facoltà, necessita trasformarle e fare della gioventù, dell’ostinatezza; con l’intelligenza, della scaltrezza; con la fiducia, della falsità; con la bellezza, del vizio; con l’ardire dell’astuzia.

  E sono personaggi concreti i quali hanno un loro proprio destino che innalzano al rango di tipi capaci di chiarire tutti i problemi essenziali di un’epoca.

  Si rende perfettamente conto che Eugenia Grandet, giovane provinciale e sentimentale, nel momento in cui tremante davanti a suo padre avaro, dà a suo cugino la borsa, non è meno coraggiosa di Giovanna D’Arco, la cui statua di marmo splende sulla piazza pubblica. Nucingen, l’uomo danaroso che accumulò milioni e che è superiore in abilità a tutti i banchieri d’Europa, diventa un gonzo e piccolo ragazzo nelle mani di una cortigiana. Tuttavia, Nugingen (sic) non poteva avere una cattiva reputazione. Egli riusciva sempre, in ogni cosa. Rastignac invece, la sua ascesa sembra iniziare alla idea di una ruota male in arnese. Però tutto ciò si fa vero e singolarmente emozionante quando si sa che Balzac non ebbe a inventare questo tono. E’ il tipo di giovane francese di allora, dotato, però insignificante senza alcun altro idealismo che quello dei suoi vent’anni. Irrequieto e tentato da tutto quello che desidera quotidianamente, si pone anch’esso, all’inseguimento della ricchezza con sempre più ardore e sempre meno scrupoli.

  Balzac non sapeva, in circostanze determinate, fermare il lavoro della sua immaginazione nè interrompeva il movimento della sua creazione; non sapeva più distinguere la realtà da ciò che non fosse la sua immagine vista attraverso uno specchio. Ma, tutto assorto dalla continuità, dal lavoro e dall’assoluto di questa illusione, da questa concentrazione dell’uomo nella sua opera, il suo lavoro lungi dall’essere applicato, fu della febbre, del sogno e dell’estasi. Questo lavoro diventava, per lui, uno strumento di godimento. Così la sua vita in sé, fu la parte appassionata ch’egli ghermiva ai godimenti delle sue funzioni.

  In ognuno dei suoi nuovi libri, in ogni desiderio che introduceva nella sua opera, la sua vita si restringeva come la magica pelle di zigrino del suo romanzo mistico. Non seguì mai un piano rigido nel comporre i suoi romanzi; si perdeva nelle loro sinuosità come in una passione, elaborandone le descrizioni e le parole al pari delle stoffe o quelle nudità della carne dischiuse alla luce. Questa è la straordinaria ed incomparabile scienza intuitiva che è, insomma, il genio di Balzac.

  In Balzac c’è la concezione del romanzo del mondo interiore. Conosce due categorie d’uomini di desiderio: gli erotici, pochi tra gli uomini ma numerose le donne che vivono unicamente sulla costellazione dell’amore, però, tutte le forze che svincola l’erotismo non sono le sole, quindi, in altri individui che possiedono la stessa intensità di vita, si sviluppano sotto altre forze. Balzac introdusse il danaro nel romanzo per cui ogni cosa veniva determinata dal proprio valore, ogni passione, dai sacrifici materiali ch’essa esige, ogni individuo, dal proprio livello esteriore.

  Le idee di Balzac quali che possano essere, non sono mai, agli occhi di Balzac, che dei mezzi di indagine.

  La provincia gli fornisce a parte dei tipi come «L’Illustre Gaudissart» (scene della vita provinciale), commessi viaggiatori e millantatori, tipi temibili come «Filippo Brideau» ufficiale a mezza paga che, con mezzi disonesti si impossessa della fortuna di suo zio (un giuoco da ragazzi). Vi si trovano figure commoventi come Madame de Marsauf (sic) che lotta contro un amore peccaminoso.

  Balzac pubblica lo studio «La Filosofia del Matrimonio» nel quale, considera il matrimonio come l’arena dove si affrontano due specie di egoismi, gettandosi in questo mondo di simpatie e di antipatie con una brutalità senza ritegno.

  E’ un Balzac che si dedica all’analisi e alla dissezione con una sicurezza, scienza e saggezza senza macchie.

  Balzac vedeva tutti i suoi personaggi in una specie di allucinazione continua. I suoi eroi sono esseri straordinari.

  La vita in essi si spande cinicamente. L’avarizia di Grandet, la dissolutezza di Hulot, (La Cugina Bette), vanno fino alla monomania. La smania della invenzione si impadronisce dell’anima di Balthazar Claës (La Ricerca dell’Assoluto) che distrugge in lui ogni sentimento di famiglia. In tutti questi esseri l’equilibrio mentale viene spezzato. Balzac conobbe e rappresentò tutti i bassifondi di Parigi, sicché potè concludere che la Commedia Umana non è che un dramma terribilmente triste.

  Rappresentare tutti i problemi del nostro tempo negli schemi della propria dialettica borghese, nella fattispecie delle questioni poste dalla vita borghese, non hanno l’espressione diretta e adeguata se non nella lotta di classi, le quali, vengono messe letteralmente in evidenza senza che lo scrittore descriva questa stessa lotta in forma individuale; di conseguenza, attraverso una descrizione corretta nelle sue deduzioni intellettuali, spirituali e morali.

  Sotto questo aspetto, Thomas Mann resta un maestro senza rivali. Sicché, in base a Georges Lukacs (sic), Balzac nutriva questa ambizione. La grandiosità della concezione della Commedia Umana scaturisce da ciò che in ciascuno dei suoi brani, questa, rimane viva, presente, suscettibile di corrispondere ad una esperienza vissuta, di modo che il romanzo o la novella vengono organicamente integrate nell’insieme.

  Sul piano dell’arte, ognuna delle sue opere, presa isolatamente, può essere considerata come un tutto sufficiente a sé stessa.

  I caratteri si sviluppano, in Balzac, fino alle loro estreme conseguenze. Spesso, vanno oltre poiché è la forte passione che sostiene il suo linguaggio. La pittura dei caratteri implica quella dei costumi e, secondo la teoria zoologica di Balzac, quest’ultimi ne sono il prodotto.

  Nel suo mondo, c’è una corsa sfrenata, una irruzione verso la ricchezza. Finché si applica e fa degli sforzi, il suo linguaggio si fa pretenzioso, il suo stile diventa lo stile del teatro dove la sola arte è verità.

  Questa galleria di Mostri è d’una intensità di vita straordinaria. Il loro realismo assume corpo nella maniera più ampia e più profonda.

  «Il pittore non deve meditare che col pennello tra le mani». Però il suo pittore lavorava troppo lontano dalla materia e morì pazzo.

  Adattando più da vicino l’idea alla cosa, l’artista non deve meditare se non stimolando l’attrezzo e Balzac osservò che c’è una mistica nella pittura del suo libro. «Il Capolavoro Sconosciuto».

  Poiché il sentimento chiama il sentimento, c’è sempre qualcosa di mistico in un bel ritratto.

  La scuola romantica racchiudeva nel suo seno alcuni adepti partigiani della verità vissuta, assoluta, e che rigettavano il verso come poco o per nulla naturale.

  Se Talma diceva: «Niente bei versi!», Stendhal clamava: «Niente versi in assoluto!».

  Era in sostanza, il sentimento di Balzac che per apparire aperto, comprensivo, universale, assume di volta in volta, nel folto dell’arengo, l’aspetto di chi ammira la poesia.

  Nè M.me de Staël, nè George Sand, nè Chateaubriand, nè Merimée, nè Jules Janin possedevano il dono, nè l’amore per il verso, per quanti sforzi essi si adoprassero.

  Balzac non deve nulla alla Antichità. Secondo lui, non ci sono nè Greci, nè Romani e, non ha alcun bisogno di gridare che lo si liberi. Nella composizione del suo talento non si ritrova alcuna traccia di Omero, di Virgilio, di Orazio e nemmeno di Viris Illustribus, quindi, nessuno fu mai meno classico.

  Ricchezze e miserie, piaceri e sofferenze, ignominia e gloria, avvenenze e bruttezze, conosceva ogni particolare della sua cara città e questa era per lui un enorme mostro ibrido, formidabile, un polipo dai mille tentacoli a cui prestava attenzione e osservava vivere.

  Assorto nella sua opera, Balzac non pensa che molto tardi al teatro. Avrebbe sicuramente trovato la forma se fosse vissuto più a lungo.

  L’Autore della Commedia Umana non solo non è immorale ma è, esso stesso un’austero (sic) moralista. Monarchico e cattolico, difende l’autorità, esalta la religione, predica il dovere, morigera la passione e non ammette la felicità che nel matrimonio e la famiglia.

  Primeggia, d’altra parte, nel dipingere la gioventù povera, così come essa è quasi sempre e che si cimenta alle prime lotte della vita, in balìa delle tentazioni, dei piaceri e del lusso, mossa dalla miseria e la speranza.

  Valentin, Rastignac, Bianchon, D’Arthez, Lucien de Rubempré ne sono il tipico esempio.

  Balzac sa dar vita ad una terra, ad una casa, ad una eredità, ad un capitale e nel fare degli eroi e delle eroine, le cui avventure si svilupperanno in un’ansiosa avidità.

  Questa società, che costruì di tutto punto e per la quale progettò l’immagine con una potenza da visionario, si presta più con compiacimento della società reale alle prese con gli ardori, alle elevazioni repentine.

  In Balzac si trova ogni cosa: della rivolta e dello spirito monarchico, delle tendenze liberali e reazionarie, l’anarchismo e il fascismo. E così Guyau (sic?; lege: Guyon?) potè dire che «Il pensiero che anima Balzac si avvicina a certe ideologie moderne la cui straordinaria forza di espansione e potenza di successo si è spesso manifestata in questi ultimi anni».

  Dopo il Rinascimento, lo spirito francese viene dominato da un ideale di perfezione formale, perfezione conveniente solo all’interno di certe dimensioni, ed è il gusto che si fa istanza suprema di estetica.

  Un secolo dopo, Sainte-Beuve pensa che sia tempo ormai di dare il diritto di cittadinanza in questo santuario a Shakespeare ed a Goethe. Ma Sainte-Beuve era incapace di riconoscere la grandiosità tra i suoi contemporanei. I suoi giudizi su Baudelaire, su Balzac, su Stendhal, sono aberranti. Solo verso la fine del XIX secolo si profila una incrinatura nel tempio del gusto.

  La Restaurazione fu ancora aristocratica. La bella aristocrazia nobile di nascita e di educazione gli appariva come il fiore della umanità. Nell’epoca delle vetture da gala e di antiche tradizioni francesi, quando il clero dominava e che la frivolezza regnava nella classe superiore, c’era tuttavia posto per una concezione ampia di vita. Una delle più celebri donne della Restaurazione fu la bella Madame de Girardin.

  Costei fu per Balzac come per Gautier, un’amica fedele. Ma, Balzac subì l'influenza di Madame Junot, Duchessa d’Abrantès e della Duchessa de Castres (sic). Entrambe incarnavano per lui, la grandiosità dell’Europa.

  E poi, esiste forse una più potente testimonianza della grandiosità di Balzac, oltre a questo marmo di Rodin il quale innalza sotto i nostri occhi un Balzac visionario? Balzac «nella ebrezza della visione» come osservò Rilke «tutto spumeggiante dalla sua creazione, nella fertilità della sua sovrabbondanza, creatore di generazioni, dilapidatore di destini».

  Per erigere questa favolosa architettura occorreva sentire in sè una potenza di lavoro senza limiti e fare totalmente astrazione delle eventuali critiche. E questo disegno non poteva essere condotto a termine che da uno scrittore che sapesse scegliere i suoi personaggi, farli evolvere in piena fantasia.

  «Il mio cuore guidò sempre la mia vita, ed è là che serbai il mio geloso segreto». Un’altro (sic) elemento di squilibrio è la sua lotta contro questa fantasia che gli permette ogni cosa e non tiene mai le sue promesse.

  Profezia o inventano di un mondo sociale nuovo, possesso di una realtà umana infine messa a nudo, il romanzo sembrava sicuro in una vita illimitata. Ma questi immensi domimi sembravano esser stati esauriti quasi subito nel momento in cui venivano conosciuti. La storia del romanzo di questi ultimi anni è pressapoco quella degli oggetti di cui ha successivamente perduti. Alcuni, perché il mondo attuale li sopprime.

  L’invenzione e la immaginazione di Balzac sono inseparabili da un mondo che è nello stesso tempo un mondo di forme nuove da stabilire e di forme nascenti da prevedere.

  Ma, l’inventario è finito e noi non conosciamo più un’attesa vacua, poiché i più grandi romanzieri moderni, da Balzac a Kafka passando da Proust a Yoyce (sic) furono grandi, un po’ meno per la verità che li possedette che per il contrassegno sovrano che mai li sfigurò. Però, per quanto si siano definiti, in particolare per questa verità, che per se stessi, essi non sono scartati da un movimento che sembra oggi avvicinarsi al suo tema.

  Balzac fu pervaso dall’idea di rivalizzare con Goethe e in special modo con Faust. Sembra pure che il personaggio di Lambert sia conosciuto come una replica di Faust, di verità e finzione, la quale doveva rivelare «L’Ascensione di un’Anima umana verso le vette».

  E’ un’opera guidata da una considerevole immaginazione che non gli lasciava alcun respiro e si inoltrava in progetti chimerici e sterili sogni dell’artista nello sforzo di voler mantenere un lavoro indispensabile alla creazione, di certo un’opera vivente, un vero frammento della vita. Però sempre immagini della vita nel suo insieme senza mai lasciar cadere il suo entusiasmo.

  Balzac non è preoccupato solo dal senso sociale, quando cristallizza esso stesso un artista impassibile. Se la Commedia Umana può sembrare abbastanza sparsa, lo spirito di Balzac è sempre superiore alla sua opera.

  Il suo spirito d’osservazione, la sua perspicacia di fisiologo, il suo genio di scrittore, non sono sufficenti (sic) a spiegare l’infinità varietà di duemila tipi che interpretano un ruolo più o meno importante nella Commedia Umana.

  Balzac osserva che «Gli scrittori hanno dimenticato in tutti i tempi in Egitto, in Persia, in Grecia, in Roma di darci una storia dei costumi». Il Satyricon di Petronio sulla vita privata dei romani, irrita più che soddisfare la nostra curiosità. La società di cui andavo facendo la storia e per cui dovevo esserne il segretario che ne stende l’inventario dei vizii e delle virtù, che ne raccoglie i principali fatti passionali, pettinando i caratteri, classificando gli avvenimenti principali della società, componendo dei tipi e riunendo i lineamenti di più caratteri omogenei, forse potrei finire per scrivere la storia dimenticata da tanti creatori, quella dei costumi».

  L’opera di Balzac è un’opera realista perché edificata in un senso sui dettagli delle sue osservazioni accumulate durante lunghi anni. D’altronde, essa idealizza nella loro «bruttezza e bestialità», i personaggi di drammi stranieri.

  In siffatto modo è un’opera romanzesca che riuscì a chiudere in un contorno di una eccezionale interpretazione scrupolosamente accurata, tutto ciò che, ad una certa tappa della sua evoluzione, lo spirito umano ha potuto precedere e conoscere a fondo.

  Ma Balzac è anche il creatore possente e terribilmente perspicace di un universo dove una luce, via via magica e crudele dà una strana e inumana immagine di un mondo costantemente agitato e periodicamente sconvolto sotto un cielo di passioni tempestose, travolte dal vento che trascina tutte le oscurità della burrasca e della notte, dell’anima umana, dove solo i barlumi dei lampi possono lacerare bruscamente e far scaturire i paesaggi sordidi o magnifici dello spirito.

  Insomma, è un’opera intessuta da questo miscuglio di sogno e di realtà che solo poteva autorizzare di trascrivere la realtà dei personaggi, ed amare dei mostri grandiosi ai confini della scienza e del mito, di gettarli nelle tumultuosità della vita, farli vivere e farli scomparire nel nulla. Un mondo spossato dal male, dalla demenza, dall’odio, dalla menzogna che fanno la materia di una civiltà abbandonata al culto di meschini e bassi interessi, dell’uomo visto nella sua rude miseria e le sue penose cadute, ma anche nella sua grandiosità, la sua elevazione e la sua tendenza a superarsi poiché un’opera veramente importante è sempre una disposizione al progresso dell’essere umano e giustifica per sempre, gli argomenti le ragioni e il valore della sua commovente testimonianza.

 

 

  Emanuele Kanceff, Capolavoro di un libertino, «La Stampa», Torino, Anno 107, Numero 270, 16 Novembre 1973, p. 13.

 

  Su: Dominique-Vivant Denon, Les amants.

 

  Nella prima edizione della Physiologie du mariage, a proposito delle strategie messe in opera dalle donne, capaci di un alto grado di perfezione viziosa e di astuzie senza fine, Balzac inseriva il racconto che «un artista pregevole, un erudito stimato dall’Imperatore», e di cui si taceva il nome, avrebbe fatto al termine di un pranzo in casa del principe Lebrun e che egli credeva sconosciuto, pressoché inedito. Questo testo, ricopiato quasi integralmente eppure gravemente tradito nella sua fisionomia poetica, era Point de lendemain, da cui Louis Malle ha tratto un film con il titolo di Les amants, e che non ha finito ancora di suscitare perplessità bibliografiche e critiche.

  In una successiva edizione della Physiologie, Balzac, forse colto dai rimorsi, indicava curiosamente, quale autore del racconto, quel Dorat che n’era stato a più riprese l’editore e che pure, nelle sconosciute Idées sur les romans preposte ai Sacrifices de l’amour, col notare i progressi, le vicissitudini e la decadenza della galanteria, condanna la folla di romanzi leggeri o licenziosi, intessuti di eleganze puerili «che spengono la immaginazione e raggelano la sensibilità».

 

 

  Maria Rosa Palermo Di Stefano, Il mondo economico nella narrativa di Balzac, Messina, Libreria Peloritana editrice, s. d. [ma 1973], pp. 118.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Introduzione, pp. 3-5;

  Osservazioni sul mondo economico al tempo di Balzac, pp. 6-15;

  Aspetti della società francese nella “Comédie humaine”, pp. 16-25;

  Eugénie Grandet, pp. 26-52;

  Le Père Goriot, pp. 53-73;

  César Birotteau, pp. 74-94;

  La Maison Nucingen, pp. 95-107;

  Conclusione, pp. 108-114;

  Bibliografia, pp. 115-116.

 

  Trascriviamo le pagine relative alla Conclusione:

 

  Analizzando le opere da noi considerato, ritroviamo, rappresentata in scala minore, la società protagonista di quel periodo di transizione che è il primo Ottocento, periodo che si pone come “trait-d’union” tra due poli antitetici dell’economia: l’immobilizzazione del capitale da un lato, la circolazione del denaro dall’altro. Poli opposti, o meglio fasi successive di un fenomeno evolutivo, perché non di rivoluzione si può parlare a proposito del superamento del vecchio concetto immobilista da parte del nuovo, audace sistema finanziario, ma piuttosto di una evoluzione che ha avuto luogo nell’arco di più di mezzo secolo, non senza ripensamenti o battute di arresto, come avviene per qualunque innovazione in qualunque campo.

  Alle origini di questa parabola sta l’“Ancien Régime”, con il suo sistema economico essenzialmente legato alla concezione mercantilistica, basata soprattutto sul protezionismo e sullo sfruttamento delle colonie, alle quali ai attribuivano allora più ricchezze di quante in realtà ve ne fossero (La forza del sistemo di Law, ricordiamo, stava nei favolosi tesori che egli fece credere ci fossero nelle terre lontane, soprattutto nella Luisiana). Dall’ultimo quarto del XVIII secolo, alla prima metà del XIX, ebbe luogo la trasformazione dell’economia tradizionale dell’“Ancien Régime” in economia moderna, passaggio che si operò attraverso le scosse della Rivoluzione e delle guerre imperiali, in un alternarsi di liberalismo economico, quale si ebbe, entro certi limiti, negli anni immediatamente precedenti la Rivoluzione, a periodi di ristrettezze e di marasma commerciale, quali appunto quelli della Rivoluzione.

  Fu dal 1815 al 1840 (ora di relativa pace) che si completò l’evoluzione verso un nuovo tipo di economia, frutto principalmente della mentalità che già abbiamo avuto modo di rilevare e che sostituiva alle idee immobiliste le audaci manovre speculative.

  Nell’ambito di questa lenta ma inesauribile trasformazione, il Balzac ha, come abbiamo visto, inquadrato i suoi personaggi, rivelando per mezzo delle loro vicende, delle loro idee, dei loro sentimenti, i problemi che questi mutamenti economici apportarono al suo tempo. Inserita, dunque, in un mondo che è in gran parte immagine di quello reale, la società balzacchiana riflette, nel suo modo di essere, la società dell’epoca.

  Grandet e Goriot, nati verso il 1750, sono eredi spirituali dell’“Ancien Régime”: sia l’uno che l’altro [...] iniziano la loro fortunata carriera in seguito agli sconvolgimenti della Rivoluzione, o approfittando dalla situazione storico-ambientale in cui si vengono a trovare, oltre che del loro senso degli affari, giungono alla ricchezza. La loro educazione tradizionalista, non li rende, d’altra parte, alieni dallo sperimentare anche i nuovi metodi di arricchimento ed essi si interessano con successo alla speculazione. Ma se la origine della loro fortuna è comune, i loro destini si differenziano ben presto, determinati come sono da mentalità antitetiche. Grandet, che ha fatto del denaro lo scopo della sua esistenza, trascorre una vecchiaia tranquilla e il suo egoismo, la sua monomania, gli consentono di godersi fino agli ultimi istanti il suo amato oro, incurante delle sofferenze di chi, come la figlia, gli sta vicino.

  Goriot, invece, commette l’errore di amare qualcuno più del denaro ed è, per ciò stesso, destinato a soccombere. La sua vita, da quando le figlie sposano, diviene un susseguirsi di rinunce sempre più grandi, in nome di un affetto non ricambiato: da protagonista di un certo ambiente economico, Goriot diviene un povero vecchio, sfruttato e poi dimenticato, come accade a chiunque, in questa società, consente ai sentimenti di sopraffare l’interesse.

  Coetaneo di Grandet e di Goriot è Nucingen, simbolo di quella finanza che, già abbastanza forte nel periodo dell’“Ancien Régime”, trova nel capitalismo, di cui è in gran parte artefice, terreno propizio a svilupparsi fino a diventare il potere massimo del secolo. Il barone Nucingen è destinato dalla fortuna, poiché riunisce in sé non soltanto un senso degli affari considerevole, ma anche la mancanza di scrupoli e l’indifferenza verso i valori più alti, quali la famiglia, che gli consentono di condurre in porto tali affari.

  Per gli onesti, in un mondo simile, sembra non ci sia posto ed il più delle volte, come César Birotteau, sono sopraffatti dalle forze dal male.

  Quanto ei giovani, intendiamo cioè la generazione nata verso l’800 e destinata perciò a vedere gli splendori del capitalismo, tocca ad essi mettere a frutto le nuove idee. E ciò fanno [...] sulle orme della vecchia generazione, da cui traggono, adattandoli alle differenti personalità, modi di essere e valori morali.

  Quel senso di emulazione, che è di solito proprio dei giovani nei confronti degli anziani, si risolve qui, in linea di massima, nel desiderio di raggiungerli, o possibilmente superarli, nella corsa alla ricchezza e al potere. Come avviene per Rastignac che, tuttavia, nonostante la presuntuosa, iniziale sfida al mondo, non riuscirà a raggiungere il livello di un Nucingen, forse perché restio a rinunciare del tutto a una certa etica o forse anche per incapacità.

  Un “excursus” sulle vicende di questi personaggi, non soltanto, dunque, ci permette di cogliere le caratteristiche di un mondo in trasformazione, ma ci fa anche intravedere lo sviluppo industriale che farà della Francia, nella seconda metà del secolo, una potenza capitalistica.

  La Comédie Humaine si presenta perciò come espressione di una realtà che poggia su eventi storici e che possiamo ritrovare anche al giorno d’oggi, poiché nessun profondo mutamento è nel frattempo intervenuto ad alterarne le caratteristiche essenziali.

  E’ per questo che, a nostro avviso, fra i molteplici aspetti dell’opera balzacchiana, è l'aspetto economico che si pone come più attuale, poiché è fondato su una realtà immutata nella sua essenza, ma ampliata nelle sue dimensioni spaziali e trova una continuità anche nella nostra epoca.

  Riteniamo perciò che esso contribuisca alla validità artistica della Comédie Humaine, in quanto da esso scaturisce un elemento essenziale all'opera d’arte perché essa resti tale: l’eterna attualità.

 

 

  Goffredo Parise, Lo scrittore e le cose, «Corriere della Sera», Milano, Anno 98, 11 febbraio 1973, p. 12.

 

  Ci sono scrittori «perfettamente educati», scrittori parvenus e scrittori gaffeurs. Il grande conte (Tolstoi) di cui l’allievo Arbasino mi ricorda l’esistenza, insieme a quella di Balzac, è il più bene educato di tutti, mentre Balzac, con tutto il rispetto, era un parvenu (senza voler togliere nulla di nulla a Balzac, è questione di famiglia).

 

 

  Pier Paolo Pasolini, Uomini, forme e convenzioni di Gogol, Puskin, Balzac e Flaubert, «Tempo», Cinisello Balsamo, Anno XXXV, N. 49, 9 Dicembre 1973, pp. 96, 99, 100.


  p. 96. Anche di Balzac, attraverso “Eugénie Grandet” (1833) non veniamo a sapere, direttamente, niente, se non come egli pensava che si dovesse scrivere un romanzo. Ma è appunto questo, nel suo caso, che ci fa sapere qualcosa, indirettamente, di lui. C’è quindi una differenza sostanziale tra la “teoria della letteratura” di Flaubert (che implicava la scomparsa totale del narratore, anche come “temperamento”) e la “teoria della letteratura” di Balzac (che invece non impediva all’autore di straripare nelle sue pagine, non certo nate da se stesse, ma dal suo pugno, e quindi dalle tempeste del suo carattere). Il modello del naturalismo (come in teoria non è avvenuto, ma è avvenuto in pratica) non poteva che essere “Madame Bovary”, che era già, diciamo così, un modello applicato a se stesso, e quindi poteva essere ripetuto. Al contrario “Eugénie Grandet” (tradotta in russo con entusiasmo dal Dostojevskij giovane) non poteva assolutamente divenire un modello (ma, se mai, un paradigma). Si può imitare un romanzo “dominato” dall’autore (assente) non un romanzo che domina l’autore, presente con tutta la sua passione inventrice. (Sainte-Beuve diceva negativamente che Balzac era “in preda alla sua opera”).

  Scritto più di vent’anni prima di “Madame Bovary”, “Eugénie Grandet” è infinitamente più moderno: non solo nel senso che dà a questa parola la critica marxista (Lukacs), cioè nel senso che lo sguardo gettato sulla società da Balzac ne coglie gli aspetti politici e sociali più veri e rivoluzionari (all’interno della borghesia capitalistica), ma anche nel senso che esso si presenta come una “liberazione” dalle regole istituite da un ipotetico “Madame Bovary” precedente. E si tratta di una liberazione esaltante, piena di sproporzioni, di errori, di invenzioni impreviste e ispirate. Benché anche Balzac veda già i suoi personaggi provinciali quasi “in costume” non c’è una scena in “Eugénie Grandet” che sia manipolata, eseguita; ogni scena è poetica, ha l’arbitrarietà della vita che tende a fissarsi in qualche ricordo o in qualche sogno.

 

 

  Walter Pedullà, “Splendori e miserie” di un bellissimo libro di Barthes su Balzac. Una critica felice di corteggiare più che di conquistare l’opera, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista italiano», Milano, Anno LXXVII, N. 208, 6 settembre 1973, p. 3.

 

  [...]. Sarrasine narra una storia così disgraziata e traumatizzante che quasi ogni lettore corre veloce a toccar ferro.

  Il giovane protagonista corre invece verso una mortale castrazione psicologica alla quale tuttavia era predestinato dal suffisso femminile di un nome che normalmente finisce con in. Figlio di un alto magistrato francese, Sarrasine ha un interesse esclusivo e ossessivo per la scultura. Aveva fatto qualche doveroso assaggio eterossessuale, ma non ci aveva provato gran gusto, sicchè ci aveva rinunciato, senza sacrificio, fino a quando non si innamora furiosamente di una persona che egli crede essere un’attrice. La Zampinella (sic), però, che entusiasma gli spettatori di un teatro romano nel 1758, è un castrato, secondo abitudine ignota a Sarrasine di affidare in Roma le parti femminili, adattati alle funzioni e adattatisi per miseria alle necessità. La passione diventa sempre più sfrenata e vistosa; al punto che, notata da alcuni bontemponi romani, suscita l’idea di fare un brutto scherzo allo scultore, che intanto, ispirandosi all’amore per la Zampinella, ha realizzato il suo capolavoro. La Zampinella, tuttavia, dopo avere abilmente mostrato di corrispondere alla passione del giovane, presto si impaurisce per la violenza dei sentimenti del giovane; finisce così per rivelargli una verità che tronca non solo il rapporto con la Zampinella ma anche con l’arte e con la stessa esistenza. L’assassinio di Sarrasine da parte di sicari di un cardinale amante del castrato è in sostanza un suicidio. Perché, dice Barthes, «la castrazione è contagiosa, tocca tutto quello a cui si avvicina (toccherà Sarrasine, il narratore, la giovane donna, il racconto, l’oro)»; non è quindi una esperienza isolabile come d’altronde nessun altro «contenuto» della vita, bensì appartiene a una serie di rapporti nei quali ogni cosa è collegata: ad esempio, l’amore, l’economia, la politica, la psicologia, lo scrivere, il leggere, tutti coinvolti in un testo che parla di tutto attraverso le sostituzioni e gli spostamenti caratteristici della psiche e insieme del linguaggio, che hanno notoriamente identica struttura.

  In questo tentativo barthesiano di «edificazione (collettiva) di una teoria liberatrice del Significante», il testo ha solo lo spessore che gli dà il lettore. I lettori, isolatamente prima e poi collettivamente. I quali trovano dietro la superficie, «sonora» e «visibile» e sempre sottile, del racconto quanto già possiedono psicologicamente e culturalmente. Sarrasine è tanti racconti quanti sono i lettori, la sua ricchezza di significati dipende dalla capacità di saperne scovare laddove più astutamente si nascondono e non solo perché sono stati nascosti dall’autore o emittente, che non è sempre padrone di quanto dice. Quelli, infatti, che per alcuni sono semplici sintomi, un segno cui non è stato intenzionalmente assegnato un messaggio, sono per altri dei segnali dotati di un messaggio, che non possono essere trascurati se non si vuole impoverire l’intero sistema (ad esempio, l’S/Z del titolo del saggio significa per Barthes che «S e Z stanno in un rapporto di inversione grafica: è la stessa lettera vista dall’altra parte dello specchio; Sarrasine contempla in Zampinella la propria castrazione»). Di questo però nessun lettore mai, per quanto dotato, riuscirà a rivelare il senso fondamentale con una perentorietà che sarebbe d’altronde mortale per un racconto svuotato proprio perché riempito di un unico irremovibile senso. Perciò i significati particolari sono condannati ad essere deperibili, precari, passeggeri. Invece è «immortale» la forma, disponibile a ogni serie coerente di significati; dai quali presto divorzierà per correre verso altre avventure con cui dissangua e si rinsangua. Il testo sta lì ormai distratto e «superficiale» a sentirsi fare tutte le dichiarazioni e confessioni che ogni lettore, che, incapricciatosi, diventa facondo, tira fuori quanto ha dentro e spesso anche qualcosa che non sa di possedere, fa vedere tutte le qualità culturali e morali di cui è dotato (psicanalisi, filosofia, antropologia, linguistica, economia, storta, arti magiche, psicologia e parapsicologia etc.). Il testo resta però impassibile, non dice né sì né no, non si concede al coltissimo amante, che aumenta gli sforzi, si fa pressante, tocca i vari significati, accarezza le forme, direste che è vicino a prenderlo, a prendergli il senso, che ormai non gli può essere più rifiutato. Ma l’attacco a fondo viene sempre rimandato, sicché hai il diritto di pensare che laddove sembra esserci la freddezza ermetica del testo c’è invece la frustrazione di chi è stato inutilmente eccitato. Insomma è l’eccitazione del desiderio il fine del lettore, non il possesso, che viene impedito da un blocco, più che psicologico e organico, culturale: il misticismo strutturalistico, che evita di penetrare nel testo e di conquistare il senso. [...].

  Certo è che Barthes, mentre incoraggia i lettori con la semiologia a farsi ognuno il proprio destino su quel testo che ci sta e non si dà e quindi a parlare di se stesso a uno che sta a sentire tutto senza dire nulla da parte sua, li avvia tutti verso la medesima conclusione. Lui la chiama lavoro di collettivizzazione, ma si capisce che la parola giusta è identità: nella quale finiscono per trovarsi tutti: Sarrasine e Zambinella, Balzac e Barthes e ogni altro lettore. Sostituzioni e spostamenti rivelano infine la fatuità seppure scintillante e frizzante della ricchezza dei significati emersi dall’impatto del testo con lettori diversi. Per togliere a costoro ogni illusione individualistica, però Barthes svuota le differenze con cui ha fatto miracoli di equilibrismi e di sottigliezze e di erudizione. Ma dopo averli inquadrati, attirandoli con favole informazioni giochi di tutti i generi, dove li ha condotti con l’aria di essere anch’egli condotto per forza di «ruolo» o codice? Laddove un senso c’è, uno solo, come una verità divina, ma negativo; non riuscirai mal a possedere il senso; che è lo stesso senso negativo del castrato, il quale sa con certezza definitiva che non potrà mai amare veramente, anche se, come Zambinella, può accettare di interpretare la parte dell’innamorato con una ricchezza e disponibilità professionali negate agli amori reali. Senonché è proprio in tale eccitante finzione che consiste la letteratura nonché la critica, o meglio per prevedibile ulteriore identità, la letteratura critica. L’interpretazione di cui Giacomo Debenedetti e più recentemente Hirsch Jr. (in Teoria dell’interpretazione e la critica letteraria, Mursia ed.) hanno difeso i diritti contemporaneamente a quelli dell’«autore» (che, secondo loro, si può raggiungere o almeno avvicinare in modo decisivo per il senso dei testi), nel critico francese è interpretazione «teatrale», come di una commedia dell’arte per cui Balzac abbia scritto un canovaccio del quale peraltro neppure lui possiede il senso. Almeno un autore però c’è è Barthes, colui che «accresce» il testo a suo piacimento o piacere, che naturalmente si accontenta di corteggiare, di nutrire il desiderio, sempre inappagabile.

  Colpa del «ruolo» (letterario e critico) che è destinato a castrare, ma anche dell’autore, cioè di Barthes, che in sostanza gli ha dato il mandato in funzione del quale legge il racconto di Balzac. Certo non si può dire che soffra dell’impossibilità del possesso, anzi se ne sente protetto e quasi felice, come d’altronde nessuno può togliergli li diritto di esserlo. Quella che ad altri ispirerebbe la disperazione di non poter trovare un senso su cui instaurare una credenza diventa in lui motivo di soddisfazione. Sarrasine non possiederà la Zampinella non solo perché questo è un castrato, ma anche perché era pretestinato (sic) dal nome femminile e da altro. Anche lo strutturalismo di Barthes è «naturalmente neutro». Non solo il ruolo coincide con l’autore; in S/Z il discorso sul testo scritto è contemporaneamente discorso sul testo da scrivere. C’è dunque una poetica, un discorso sul modo di fare oggi la letteratura, che la castrazione continua a minacciare, se essa si ridurrà a teoria del linguaggio, come vorrebbe non soltanto una proposta di Todorov (in «Il Verri», n. 2, nuova serie) ma anche, che è ben peggio, una situazione in cui castrati finiscono con l’essere il ruolo e gli autori ortodossi dello strutturalismo. Cioè non è facile per nessuno uscirne, se la realtà o una sua avanzata prospettiva non aiuta a trovate il nuovo «ruolo» (o struttura). Del quale hanno ormai necessità tutti, pure quelli che nello strutturalismo stanno da papi e comunque contenti. Ne ha necessità lo stesso Barthes; anche qui in S/Z, dove il raggiungimento della cima sembra ridurgli lo spazio per le sue affascinanti manovre. Ma se assedia il racconto di Balzac, e lo soffoca di proposte critiche è lo diverte con storielle d’ogni genere e lo psicoanalizza e gli legge la mano e gli fa la caricatura e tenta di indovinargli le manie e gli rivela le proprie emozioni di lettore, allora Barthes è un grande critico e un grande scrittore. Nel fare una splendida «imitazione», di Balzac, la semiologia è «maschile».

 

 

  Guido Piovene, Capire Manzoni, «La Stampa», Torino, Anno 107, Numero 206, 3 Settembre 1973, p. 3.

 

  Bella scoperta, che in Manzoni non si respira la grande aria di libertà spregiudicata di uno Stendhal, di un Balzac, di un Flaubert, dei romanzieri russi. Manzoni dà altri piaceri strettamente mentali. Occorre un certo sforzo per giungervi; occorre soprattutto credere che valga la pena di farlo.

 

 

  Guido Piovene, I personaggi di Manzoni, «La Stampa», Torino, Anno 107, Numero 233, 4 Ottobre 1973, p. 3.

 

  Non accadrebbe mai, di compiacersi o di irritarsi con un Balzac per uno dei suoi personaggi. Romanzieri come Balzac amano soprattutto lo spettacolo della commedia umana, inseguono perciò vicende, ceti, personaggi diversi, innumerevoli e centrifughi. A Manzoni preme anzitutto l’illustrazione di un concetto, che però l'obbliga e l’affanna; la sua arte centripeta, una volta completato il quadro, si ferma, non ha più bisogno di una vicenda o di un personaggio di più. Si capisce perché Manzoni abbia scritto un romanzo solo, anche fuori delle sue riserve espresse; un altro sarebbe stato pleonastico. Anche in lui v’è un carattere distintivo di quasi tutti gli scrittori italiani: quello d’essere sempre, per diverse ragioni, preoccupati di se stessi.

 

 

  Ida Rampolla, Charles Gorham – “Al vento del boulevard” - Il romanzo di Honoré de Balzac - Traduz. di Olga Ceretti Borsini - cm. 12x20 - pp. 704 - Ed. Martello - Milano, 1972 - L. 3.800, «Il Ragguaglio librario. Rassegna mensile bibliografico-culturale», Milano, Nuova serie, N. 11, Novembre 1973, p. 374.

 

  Sotto l’aspetto di un romanzo-fiume, l'opera contiene la biografia romanzata di Balzac. Si tratta di una narrazione piena di impeto e di vitalità, che certo sarebbe piaciuta al sanguigno autore della Comédie humaine.

  Gorham ci presenta con molta vivacità i vari momenti dell’esistenza intensa e focosa di Balzac, divorato dall’ambizione, immerso nel lavoro più assillante, tormentato da debiti paurosi e da disastrose speculazioni.

  Altrettanto vivace è naturalmente la descrizione dell’intensa carriera amorosa di Balzac, capace tuttavia di conservare per anni una profonda passione per la contessa polacca Evelina de Hanska, sua ideale principessa lontana.

  Per quanto romanzata, questa storia della vita di Balzac è sempre ben documentata, e consente anche di gettare uno sguardo su tutta la Francia dell’epoca, che rivive in un grande e variopinto affresco degno dei più famosi romanzi storici dell’Ottocento. La narrazione è inoltre svolta con stile agile e scorrevole e con una tecnica consumata, che fanno del romanzo una lettura particolarmente avvincente.

 

 

  Alberico Sala, Scolaretti in libertà nella casa del Manzoni, «Corriere della Sera», Milano, Anno 98, 24 maggio 1973, p. 9.

 

  C’era stato Balzac, nel 1837, turista a Milano. In via Morone, s’affacciò di sera, intorno al caminetto c’erano donna Teresa, la marchesa Beccaria, forse il D’Azeglio. Il Manzoni, è stato ricordato, attizzava il fuoco con le molle. Ma la serata non cessò di essere fredda; neppure quando Balzac, forse per rimediare d’essersi tradito (non aveva letto I promessi sposi), chiese al Manzoni un autografo. Infatti, riferendo l’incontro ad una nobile amica, precisò che avrebbe voluto inviarle l’autografo, ma non era possibile perché l’aveva «inavvertitamente bruciato per accendere il fuoco».

 

 

  Vittorio Saltini, La società come mostro vivente, «L’Espresso», 18 novembre 1973, pp. 28-29.

 

  Nella nuova collana economica “I Grandi Libri” sono usciti tre romanzi di Balzac. Di “Eugénie Grandet”, giustamente considerato da sempre uno dei capolavori di Balzac, non dirò nulla. Quanto alle “Illusioni perdute”, in questi decenni il libro, un tempo poco considerato, è stato rivalutato, anche in seguito al noto saggio di Lukács. E certo, da un punto di vista storico-sociologico le “Illusioni perdute” sono un romanzo di grande interesse, contenendo la prima organica raffigurazione dell’industria culturale. Ma quanto a riuscita artistica “La cugina Bette” è ben superiore. e io considero in definitiva quest’opera tarda un capolavoro di Balzac, benché certo i più celebri e giovanili “Eugénie Grandet” o “Papà Goriot” siano cose meglio lavorate e più compiute. Nella “Cugina Bette” abbondano gli eccessi e le solite carenze espressive balzacchiane: si tratta qui però di compiacenze che insidiano la frase talvolta la pagina, non l’insieme del libro. Si ha sempre la sensazione che Balzac, a differenza di Flaubert o d’altri, avrebbe potuto migliorare i suoi romanzi se avesse avuto più spirito critico e avesse saputo rinunciare a certe battute, riflessioni estrinseche o romanticherie di superficie. Peraltro quegli eccessi stessi, che rendono imperfetti i suoi libri, li rendono anche più simpatici e divertenti: sono eccessi, essi stessi, se non geniali, almeno molto fantasiosi. “La cugina Bette” rappresenta esemplarmente il caso in cui la logica immanente di personaggi mostruosamente vivi può prendere (come si dice) la mano all’autore fino a sorprenderlo: o così sembra, in quanto sorprende di continuo il lettore per il senso di verità e di vita che emana anche dai più imprevisti colpi di scena. In questo senso, “La cugina Bette” offre di continuo la sorpresa del genio, parola insidiosa che viene però spontaneo usare per Balzac.

  Nella “Cugina Bette” non c’è un personaggio principale, ma personaggi variamente collegati (l’alto burocrate Hulot, il grosso commerciante Crevel, la mantenuta signora Marneffe, la povera, avara e vendicativa cugina Bette, e altri) perseguono furiosamente le proprie passioni: e quella dominante e, a differenza che in altri romanzi di Balzac, l’eros, che però vi si mescola rovinosamente col denaro, perché Hulot e Crevel sono uomini non più giovani, che devono pagare il loro amore. Come sempre nel miglior Balzac, qui la società borghese si configura come un enorme organismo animale mostruosamente vivo, formato di cose e d’uomini. Nel rendere il senso dell’unità fra i particolari e il tutto, Balzac non teme confronti con altri romanzieri, neanche con un autore più grande di lui come Tolstoi: in questo senso, Balzac è “il” romanziere, e “La cugina Bette”, “Papà Goriot” o il racconto “Il curato di Tours” sono le sue invenzioni più avvolgenti. Nelle “Illusioni perdute”, storia delle ambizioni fallite di Lucien, poeta provinciale che rinuncia ai sogni giovanili quando a Parigi si vende all’industria culturale per mantenere un buon treno di vita, la verità sociologica c’è tutta. Ma la verità sociologica non basta (a Lukács capita di dimenticarsene). Lucien dovrebb’essere un intellettuale, ma le sue idee artistiche sono genericamente romantiche e convenzionali, il suo carattere futile, sicché la vittoria dell’industria culturale sui suoi sogni risulta ovvia e poco significativa. Con tutta la sua forza fantastica e il suo senso della realtà, Balzac non vale un Goethe, un Dostoievski o un Tolstoi nel raffigurare la fisionomia intellettuale di personaggi problematici. I suoi eroi sono ciecamente passionali: viziosi per eccesso di vitalità o virtuosi anch’essi con eccesso. Balzac sa rappresentare col massimo senso tragico o tragicomico la vittoria, dopo scontri forsennati, della realtà e del calcolo sulla passionale pienezza o su una naturalezza incrollabile. Tale scontro si sviluppa in tumultuoso crescendo in quell’imperfetto e grande libro che è “La cugina Bette”.

 

 

  Anthony Storr, La creatività e il temperamento maniaco-depressivo, in La dinamica della creatività. Traduzione di Aldo Giuliani, Roma, Astrolabio 1973 («Psiche e coscienza»), pp. 87-125.

 

  pp. 97-102. È probabile che Balzac fosse di costituzione maniaco-depressiva. Il suo fisico era quello generalmente associato con questo temperamento; picnico, cioè, con gambe corte, una pancia precocemente protuberante, un viso grassoccio e piuttosto flaccido, e l’abitudine di parlare molto e ad alta voce. Non è soltanto la sua costituzione genetica che sostiene la supposizione che egli avesse più della sua quota di psicopatologia. Come era costume in quei tempi (nacque il 20 maggio 1799) fu dato a balia. Ma questa abitava piuttosto lontano, e sua madre lo visitò di rado. “Honoré non perdonò mai sua madre di averlo lasciato separandolo così da lei: ‘Chi può dire quale danno fisico o morale mi fu causato dalla freddezza di mia madre? Io non ero nulla più che un figlio del dovere maritale, la mia nascita una questione di probabilità ...? Mandato da una balia in campagna, dimenticato dalla mia famiglia per tre anni, quando venni ricondotto a casa contavo talmente poco che la gente mi compiangeva ...’. In seguito era solito dire, ‘Io non ho mai avuto una madre’”. Un biografo, André Maurois, parla di questa dichiarazione come di “una crudele esagerazione, scritta in un momento d’ira”. Tuttavia, perspicacemente aggiunge: “Ma i sentimenti di un bambino non sono meno acuti per il fatto di essere in parte ingiustificati. Ci sono bastardi dell’immaginazione, nati legittimamente, che tuttavia si sentono rifiutati dai loro genitori, senza sapere il perché. Questi più che gli altri desiderano trionfi mondani, per compensare il loro profondo e radicato senso di perdita”. All’età di otto anni fu mandato al Collegio Oratoriano di Vendôme dove rimase per i seguenti sei anni, senza visitare mai la sua casa paterna. Secondo il suo stesso racconto, sua madre gli fece visita soltanto due volte durante questo periodo, benché la scuola non distasse più di trentacinque miglia. Si tratta di una prova evidente dell’effettivo, reale oblio da parte della madre di Balzac, così come l’esiguità dello spillatico che essa gli dava e che non gli permetteva di prender parte ai giochi ed ai passatempi dei suoi amici.

  Quale che possa essere stata la causa originaria, Balzac rimase, per tutta la sua vita, insaziabile; affamato di amore e di onori, come se in lui esistesse un vuoto interiore che non poteva essere colmato da nessuna quantità di cose che gli giungessero dall’esterno. Mentre era ancora studente, era solito dire: “Un giorno sarò famoso”; e molto presto nella vita, sviluppò l’idea che la volontà possedeva un potere senza limiti, bastava che l’uomo imparasse a concentrarsi e ad allenarla a sufficienza. Credeva, almeno in gioventù, che il mondo fosse una giungla, e che il successo arridesse all’uomo che, come il suo famoso personaggio criminale, Vautrin, riusciva a servirsi degli uomini e delle donne come delle pedine, perseguendo i suoi scopi con un calcolo spietato. Nel 1820, scrisse ad un amico: “Fra non molto possiederò il segreto di quel misterioso potere. Potrò costringere tutti gli uomini ad obbedirmi e tutte le donne ad amarmi”. Se qualcuno trovasse difficoltà a credere nel concetto psicoanalitico di onnipotenza del quale abbiamo già discusso, può rivolgersi alla vita e alle opinioni di Balzac. “I miei unici ed immensi desideri: essere famoso, ed essere amato!”, proclamava. Li raggiunse entrambi; ma ciò non gli impedì di uccidersi con il lavoro creativo; la fama e l’amore non furono sufficienti a riempire il crudo vuoto interiore frutto del rifiuto e della freddezza di sua madre verso di lui.

  C’è un’altra testimonianza della variabilità dei suoi umori. “Honoré pensa a se stesso del tutto o per nulla”, scrisse sua madre, e sua sorella Laurie (sic) le risponde: “Dove troveresti un altro che abbia la sua gentilezza? Honoré è mutevole negli stati d’animo, è vero, a volte triste, a volte allegro, ma che importa? tutti hanno le loro debolezze”.

  Nella sua corrispondenza, Balzac parla di se stesso come di uno “che è nato per essere infelice” e, a dispetto delle sue grandiose fantasie, “una mediocrità, che possiede soltanto uno spirito privo di fuoco o di fermenti ... un nano non può sollevare la clava di Ercole”. A venticinque anni fu sorpreso da un amico mentre dal parapetto di un ponte guardava la Senna sottostante e ammise che stava pensando di suicidarsi.

  Tipico è il contrasto tra la sua crudeltà immaginata, la sua fede nell’uso della volontà per mettere nel sacco e sfruttare gli altri, e la sua reale gentilezza e generosità. Come abbiamo visto, la persona con temperamento depressivo è spesso insolitamente gentile e generosa, ed anche attenta ai bisogni degli altri. Benché ciò derivi in parte da una eccessiva ansia di riuscire gradito, da un bisogno di ingraziarsi le persone e da un impuso (sic) alla restituzione, non va però detratto a quelle che sono le vere virtù positive di tale comportamento. Ma Balzac nei suoi scritti rivelò l’altra parte di queste virtù, in cui a volte sembra che la spietata ricerca del potere e del denaro sia la sola cosa che conti, e che l’amore e le più tenere emozioni siano o inesistenti, o servano come punti d’appoggio sulla strada che porta alla fama. Che l’ambizione di Balzac fosse patologica non c’è bisogno di sottolinearlo. Nel suo studio c’era una statuetta di Napoleone con un pezzo di carta attaccato al fodero della spada: “Ciò che egli non raggiunse con la spada, lo raggiungerò io con la penna. Honoré de Balzac”.

  Tutto ciò che egli faceva aveva proporzioni eccessive; una tipica caratteristica maniacale. Spendeva in modo prodigioso, tanto che era sempre indebitato. Alcuni di coloro che hanno scritto di lui attribuiscono i suoi eccessi lavorativi al bisogno di saldare i suoi debiti, e Somerset Maugham, servendosi a piene mani della biografia di André Billy, arriva a dire che: “Fu soltanto sotto la pressione dei debiti che egli poté decidersi a scrivere. Allora continuava a lavorare fino a che non diventava pallido e svuotato d’energie, e in queste circostanze scrisse alcuni dei suoi romanzi migliori; ma quando per un qualche miracolo non si trovava in ristrettezze finanziarie, quando i creditori lo lasciavano in pace, quando i curatori e gli editori non gli intentavano delle azioni legali, la sua invenzione sembrava abbandonarlo ed egli non riusciva a prendere in mano la penna e a scrivere”.

  Può darsi che egli si servisse dei debiti come di uno strumento per essere spinto a scrivere. Il debito può essere usato allo stesso modo di un editore implacabile, di una autorità esterna che sprona la volontà infiacchita all’azione. Ma Balzac era sempre convinto che avrebbe guadagnato una fortuna con i suoi scritti (e di fatto ciò accadde, sebbene poi sperperasse tutto). Sembra anche più probabile che la sua grandiosa e maniacale immaginazione confondesse costantemente la promessa del futuro con la realtà del presente; infatti egli era sempre sicuro che il suo prossimo libro gli avrebbe permesso di pagare le sue rozze stravaganze dalle quali non riusciva a trattenersi, e che erano di nuovo dei tentativi di compensarsi per ciò che gli era mancato nella prima infanzia.

  È interessante che abbia fatto ricorso a sua madre facendosi dare una grossa somma di denaro per salvarsi dalla bancarotta dopo il fallimento della sua impresa di stampa e editoria. Questo affare, incidentalmente, fu finanziato dalla sua amante, Madame de Berny, che aveva quarantacinque anni quando Balzac ne aveva ventidue; e che per lui, oltre ad essere la sua amante rappresentava la madre che non aveva mai sentito di avere. (Di fatto essa era più anziana di sua madre). Il suo nome, Laure, era quello di sua madre e anche della sorella preferita. Somerset Maugham condanna aspramente Balzac per aver detto che sua madre lo aveva rovinato: “Questa è una cosa veramente disgustosa; infatti fu lui che rovinò lei”. Ma, per quanto lo si possa condannare per il fatto di essere vissuto alle spalle di sua madre, e di averle sottratto larga parte della sua fortuna, permane il piccolo dubbio che essa fosse in effetti fredda e trascurata, e che, per quanto possa essere stata ingiustificata la sua condanna sul piano finanziario, era pertinente per ciò che riguardava il sentimento e l’emozione.

  L’alternanza così caratteristica del temperamento maniaco-depressivo si rivela in modi diversi dalla fluttuazione dell’umore. Balzac alternava orge di lavoro con orge di piacere; ed ambedue erano così estreme da essere patologiche. Quando lavorava il suo programma era il seguente: cena alle 6 pomeridiane, quindi dormiva fino all’una di notte, dopodiché lavorava fino alle 8 del mattino, si riposava per un’ora e mezza, prendeva una tazza di caffè, quindi riprendeva a lavorare fino alle 4 pomeridiane. Dalle 4 alle 6, ora della cena, poteva ricevere visitatori, oppure uscire per una breve passeggiata, o fare un bagno. Quindi il ciclo si ripeteva nuovamente; e poteva mantenerlo per delle settimane. Mentre lavorava, mangiava e beveva molto poco; ma questi frugali periodi si alternavano con feste pantagrueliche durante le quali riusciva a vuotare quattro bottiglie di Vouvray senza batter ciglio, e si rimpinzava senza sosta di ostriche e cotolette.

  È tipico dell’espansività maniacale che Balzac si sia appropriato del nome di un casato che non era suo, ed abbia aggiunto la particella ‘de’ al suo nome in modo di far credere alla gente di essere nobile per nascita. Oltre a ciò, possedeva una quantità di vestiti ed aveva arredato la sua casa con una larghezza die non poteva sostenere. (I pazienti maniacali in genere sono spendaccioni). Inoltre parlava troppo; e, sebbene fosse molto ospitale, soltando (sic) quando si trovava nelle sue condizioni migliori si metteva al centro della conversazione. Malgrado il super-lavoro, la scadenza dei contratti lo vedeva quasi sempre in grave ritardo. Ciò era in parte dovuto al fatto che correggeva e ricorreggeva le sue bozze innumerevoli volte, fino a renderne quasi impossibile la decifrazione. Per il romanzo Pierrette furon necessari ventinove giri di bozze.

  Caratteristico è, inoltre, che dovesse inventare le favole più stravaganti anche sulle sue proprietà più comuni. Un anello che gli era stato dato a Vienna era stato trafugato al Gran Mogul. Il suo caffè doveva essere sottoposto ad una speciale tostatura. Il suo tè veniva con ogni probabilità da una riserva che l’Imperatore della Cina aveva regalato all’Imperatore della Russia; le piante erano state curate da mandarini, e le foglie colte prima dell’alba da delle fanciulle, “le quali le portarono cantando ai piedi dell’Imperatore”. I suoi bastoni da passeggio erano incrostati di gioielli. Quando morì, all’età di cinquantun anni, aveva debiti per 83.502 franchi, malgrado che il suo patrimonio ammontasse a due volte tanto.

  Balzac è un esempio piuttosto chiaro di come una difesa maniacale può di fatto operare per un lungo periodo proteggendo una persona contro la depressione sottostante. La stravaganza, la vistosità, lo ‘snobismo’, e la sua abitudine di dominare la conversazione erano tutti sforzi con i quali tentava di sostenere la propria autostima. La sua immensa produzione, mai terminata, era una concezione grandiosa. Altri scrittori si sono accontentati di scrivere su una piccola sezione della società, e quando si sono allontanati dal loro campo hanno spesso fallito. Balzac scelse come tema la società nel suo insieme, e anzi l’intera condizione umana. La Comédie humaine rispecchia il titolo. Balzac disponeva di una straordinaria conoscenza tecnica basata su una puntigliosa osservazione. Quando descrive il modo di vivere di un uomo di legge, o le azioni di uno strozzino, oppure il modo in cui un giornalista otteneva il suo lavoro, si può essere certi che egli conosceva ciò di cui leggiamo. Aveva la passione straordinaria per i fatti. L’immaginazione di Balzac era una delle più notevoli che mai siano esistite; ma si trattava di una immaginazione che partiva da una solida base fattuale. I suoi personaggi sono intensificazioni o esagerazioni della realtà. Potrebbero essere molto più semplici. Le passioni predominanti sono raramente così imperiose come Balzac le descriveva. Ma i suoi personaggi convincono in quanto sono basati sull’osservazione. Il fatto che essi esorbitassero dal naturale è una esagerazione maniacale. Baudelaire ha scritto: “Dalla vetta dell’aristocrazia al livello più infimo delle plebi, tutti gli attori della Comédie vivono in modo più furioso, si battono con maggiore vigore e furbizia, la loro sofferenza nella cattiva fortuna dura più a lungo, mostrano maggiore avidità nel piacere, e sono più angelici nella devozione, di come non li mostri la commedia del mondo reale”. Ciò è vero; ma le esagerazioni di Balzac sono basate sulla realtà del mondo esterno. Se poniamo a confronto la sua immaginazione con quella di uno scrittore introvertito, schizoide come Kafka, il paragone ci mostra subito quanto egli sia realistico. Ciò è vero in particolare quando scrive sul denaro, un soggetto troppo spesso evitato dai cosiddetti romanzieri ‘realistici’. [...].

  Quando pensò per la prima volta di riunire tutti i suoi romanzi in un unico grande disegno, descrisse in una lettera che avrebbe voluto iniziare con gli (sic) Etudes de Moeurs, “un quadro completo della società”. Ciò sarebbe stato seguito dagli Etudes philosophiques, “il perché dei sentimenti, il che cosa della vita”. Nel primo gli individui sarebbero stati trattati come tipi; nel secondo, i tipi dipinti come individui. Quindi venivano gli Etudes analytiques, in coi sono descritti i principi, opposti agli effetti e alle cause. “Ma dopo aver composto il poema, l’esposizione di un intero sistema, proporrò la sua teoria scientifica in un ‘Essai sur les forces humaine?’.

  In altre parole anche Balzac, come gli scienziati, è un elaboratore di sistemi. Ma egli procede dall’esterno verso l’interno, in modo diverso dai grandi teorici della fisica. Primo, descrive i fatti; quindi le cause evidenti; e soltanto in seguito tenta di costruire una teoria. È l’esatto opposto del modo di pensare di un teorico introvertito, sebbene, ovviamente, anche il risultato del secondo dipenda dalla conoscenza di molteplici fatti.

  Balzac si uccise con la sua iperattività maniacale. Nel 1848, l’anno delle rivoluzioni, soffrì sicuramente per il ritorno della depressione, complicata dalla sua crescente insufficienza cardiaca. Cosa del tutto caratteristica, ciò seguì ad un periodo piuttosto lungo durante il quale non aveva lavorato duramente come era solito fare. Ciò che è notevole nella sua attività è l’efficacia con la quale questa agì come protezione. Infatti non è insolito, più nella vita ordinaria che nella pratica psichiatrica, incontrare individui di un simile comportamento e temperamento. L’incapacità di smettere di lavorare, di godersi le vacanze, di avere del tempo per rilassarsi o da impiegare nei rapporti personali, si ritrova spesso tra gli uomini intensamente ambiziosi. Nella pratica psichiatrica, la si ritrova spesso tra i politici e i finanzieri che tra gli artisti. [...].



  Claudia Toffolo, Balzac d’après sa Correspondance avec Mme Hanska. Tesi di laurea, Venezia, Università Cà Foscari, Facoltà di Lingue, 1973.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Eugenia Grandet. Traduzione e riduzione radiofonica di Belisario Randone [...], Secondo programma, 13-31 agosto 1973.

 

  Cfr. 1970.

 

 

 

Adattamenti televisivi.

 

 

  Victorine da un racconto di Honoré de Balzac [L’Auberge rouge?]. Sceneggiatura di Tadeusz Kwistkowski. Regia di Jan Rutkiewicz Interpreti principali Barbara Brylska, Stanislaw Jasiukiewicz. Andrzej Kopiczynski Produzione Film Polski, Programma nazionale, 31 maggio 1973.

 

 

 

Filmografia.

 

 

  Il tuo piacere è il mio. Tratto da I Racconti licenziosi di Honoré de Balzac. Sceneggiatura e regia di Claudio Racca. Attori: Barbara Bouchet, Pupo De Luca, Aldo Giuffré, Sylva Koscina, Anna Maestri, Umberto Raho, Erna Schürer, Lionel Stander, Leopoldo Trieste, Ewa Aulin, Femi Benussi. Produzione: Naxos Film, 1973.



[1] Cfr. Edmond Brua, Une hypothèse sur Balzac et Vico, «Bollettino del Centro di studi vichiani», II, 1972, pp. 16-21.



Marco Stupazzoni

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