giovedì 11 giugno 2020



1955

 

 


 

Edizioni in lingua francese.

 

 

  Honoré de Balzac, Eugénie Grandet. Introduction et notes par Franco Petralia, Messina-Firenze, Casa Editrice G. D’Anna, 1955 («Classici stranieri commentati»), pp. 155.





Estratti.

 

 

  Honoré de Balzac, Lo scialle di Selim, in G. Villaroel e P. D’Angelo, Il Solco e la semente. Antologia italiana per gli Istituti tecnici e magistrali, Torino, Società Editrice Internazionale, 1955, pp. 662-664.

 

  È la traduzione (lacunosa) della parte finale di Gaudissart II: il testo balzachiano è preceduto e seguito da due brevi note biografico-critiche che trascriviamo integralmente:

 

 p. 662. Nacque a Tours nel 1799 e morì nel 1850. Esordì con una tragedia (Cromwell) e si volse quindi subito al romanzo di carattere popolare.

  Fu un grande e fecondo romanziere, autore della Commedia umana, serie di romani ricchi d’osservazione della realtà e di potente immaginazione, nati da un intuito profondo delle passioni umane.

  Il Balzac tentò il teatro, con scarsa fortuna. Amò l’Italia, dove contava ottime relazioni.

  Opere principali: Eugenia Grandet, Papà Goriot, Il giglio della (sic) valle, Il medico di campagna, ecc.

  p. 664. Onorato Balzac, scrittore prosperoso, denso, accaldato, è uno dei più fecondi e spontanei narratori francesi. La sua produzione è vastissima e investe in varie direzioni la vita sociale e umana del suo tempo. Realista e romantico, di volta in volta, come appare dalla varietà delle sue opere, egli affonda la sua introspezione nei vizi e nei mali della società umana con penetrazione geniale e i suoi tipi come il Père Goriot e l’Eugenia Grandet sono rimasti immortali. Come espressione romantica dell’arte sua è da ricordare il suo famoso romanzo Le lys dans la vallée delicatissimo di sfumature ideali e psicologiche e venato di sottile poesia. Il racconto che presentiamo è vivido di briosa arguzia e ricco di movenze inaspettate.



 

 

Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, Una tenebrosa vicenda. Traduzione di Gabriella Alzati, Milano, Rizzoli Editore, (gennaio) 1955 («Biblioteca Universale Rizzoli», 816-818), pp. 249.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 572.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Nota, pp. 5-7. [Cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici];

  Una tenebrosa vicenda, pp. 8-228;

  Appendice. Prefazione all’edizione del 1843, pp. 229-247.

 

  Il testo di questa nuova versione italiana di Une ténébreuse affaire (nel complesso abbastanza corretta) è suddiviso in ventidue capitoli secondo il modello dell’edizione originale del romanzo pubblicata da Souverain nel 1843. Il lavoro di traduzione è invece stato condotto sul modello testuale dell’edizione Furne (1846). È presente un errore nella trascrizione della dedica: ‘Al signor de Margone’ (sic).

 

 

  Honoré de Balzac, Tre racconti. Il colonnello Chabert. La messa dell’ateo. L’interdizione. A cura di Michele Lessona. Ristampa della prima edizione, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1955 («I grandi scrittori stranieri. Collana di traduzioni fondata da Arturo Farinelli, diretta da Giovanni Vittorio Amoretti», 122), pp. 222, 1 ill.

 

  Cfr. 1946; 1947.


 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Nota, in Honoré de Balzac Una tenebrosa vicenda ... cit., pp. 5-7.

 

  [...]. Il romanzo che qui si presenta, Una tenebrosa vicenda (nell’originale Une ténébreuse affaire) apparve nel 1841, pubblicato a puntate nel giornale «Le Commerce», e prese posto – accanto ai tre scritti: Un episodio sotto il terrore, Il deputato d’Arcis e Un principe della Bohème – fra le “Scene della vita politica”, quarta serie della prima parte della Commedia umana.

  Come spesso i romanzi del Balzac (e lo stesso autore ne accenna nell’ampia Appendice all’opera, da lui stesa allorché il romanzo fu raccolto in volume, Appendice qui integralmente riprodotta a partire dalla pagina 229), anche questo in particolare prende le mosse da un fatto storico, avvenuto nel settembre del 1800: il rapimento del senatore Clemente de Ris.

  Questi era a conoscenza di una congiura ordita contro Napoleone dal ministro di Polizia Fouché al tempo di Marengo, e conservava alcuni scritti che avrebbero potuto documentarla. Fu fatto, perciò, rapire dal Fouché, e la sua villa fu messa a soqquadro nella ricerca dei documenti; e l’impresa fu condotta in modo che, non solo il Fouché rimase fuori da qualsiasi sospetto di essere stato il mandante del ratto, ma figurò addirittura come il liberatore di Clemente de Ris; l’azione fu invece imputata ad alcuni nobili legittimisti.

  Questo il fatto storico. Esso, tuttavia, rifuso nel romanzo, assume coloriture che in concreto non gli appartennero, ma che nascono direttamente dall’immaginazione dello scrittore.

  Così, il conte di Gondreville – che nel romanzo impersona il senatore de Ris – è tutt’ altro che un ricalco della figura reale; bensì un personaggio di pura fantasia, «un tipo ... che riassume in sé i tratti caratteristici di tutti coloro che più o meno gli assomigliano: è il modello del genere». Lo afferma lo stesso Balzac, che aggiunge: «Perciò si troveranno punti di contatto fra quel tipo e molti personaggi del tempo presente; ma ch’egli sia uno di questi personaggi significherebbe la condanna dell’autore, poiché il suo attore non sarebbe più un’invenzione».

  In questa precisazione del romanziere è il segreto della ricetta mediante cui egli concepiva i suoi personaggi, ognuno dei quali – creato in tal modo su numerose figure reali, imparentate tra loro da una comune caratteristica – diventa la personificazione di un vizio o di una virtù. Non c’è perciò ombra di sfumatura, in tali personaggi: sono tutti esseri straordinari che trascendono la stessa realtà; è impresso in ognuno di essi un «carattere» tale, da rendere vive in eterno queste figure, pur nella loro inverosimiglianza concreta e nella eccezionalità dei loro casi.

  Ma nella Tenebrosa vicenda – narrazione accesa e incalzante, che si svolge intorno a un mistero poliziesco che, chiarendosi solo alla fine, mantiene viva dalla prima all’ultima pagina l’attenzione del lettore – non è la figura del conte di Gondreville quella che più avvince e attrae. Anche questa volta il Balzac ha reso omaggio alla donna, scolpendo il personaggio di Lorenza de Cinq-Cygne, l’orgogliosa e appassionata fanciulla, tenera e decisa insieme, che riesce a strappare a Napoleone la grazia per i suoi cugini ingiustamente accusati. Una figura degna di essere avvicinata a Eugenia Grandet, Modesta Mignon, Onorina, Orsola Mirouet, la duchessa di Langeais e alle tante altre indimenticabili eroine balzacchiane.

 

 

  Asterischi radiofonici, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno nono, N. 29, 3 Febbraio 1955, p. 3.

 

  «Pelle di zigrino» è il titolo di un romanzo di Honoré de Balzac, che la Radio Italiana ha sceneggiato e che trasmetterà, a partire da lunedì 7, alle 18,15, sul Secondo Programma, a puntate trisettimanali. E’ questa un’ottima iniziativa, della RAI, di far conoscere i capolavori della letteratura di tutti i tempi attraverso il microfono. Lavoro non facile, perché si tratta di rendere il significato e il sapore dell’opera con il modernissimo mezzo radiofonico: ma gli sceneggiatori della RAI sono veramente molto abili, in questa bisogna, e lo scopo, bisogna riconoscerlo, è pienamente raggiunto

 

 

  Asterischi radiofonici, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno nono, N. 207, 27 Agosto 1955, p. 3.

 

  Concluse le trasmissioni del romanzo sceneggiato di W. Scott «La sposa dr Lammermoor» andrà in onda a partire da mercoledì 31 agosto alle 19 sul secondo programma il romanzo di Balzac «Eugenia Grandet» che due volte alla settimana verrà presentato dai microfoni della RAI e che continuerà il compito di completamento della cultura degli ascoltatori attraverso un sistema facile e divertente come è quello del romanzo sceneggiato.

 

 

  Piccola cronaca. Un aneddoto, «l’Unità. Organo del Partito comunista italiano», Roma, 23 dicembre 1955, p. 5.

 

  Balzac visse in grandi ristrettezze economiche. Una notte fu destato di soprassalto da uno strano scricchiolio e vide un uomo aggirarsi furtivamente nella camera. Sulle prime si finse addormentato, ma quando scorse lo sconosciuto dirigersi verso l’armadio, non si potè trattenere e scoppiò a ridere allegramente. Il ladro, spaventato e stupito: «Perché ridete?». «Rido perché voi cercate con chiavi false, di notte, là dove io non trovo nulla di giorno».

 

 

  Giovanni Antonini, Ritrovando Balzac, «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno IX, 17 Luglio 1955, p. 2.

 

  Per Balzac dobbiamo ammettere di avere avuto sempre una preferenza. Dei narratori francesi egli è con Stendhal Flaubert quello cui più volentieri ritorniamo, ogni volta con diletto e profitto. Senza Balzac d’altronde il romanzo francese degli ultimi cento anni è impossibile. Tutto o quasi sembra provenire da lui, di tutti futuri rigogli del secolo scorso e di quello nostro si può ritrovare nella sua opera la prima traccia. Il suo singolare genio narrativo ha saputo tutto osservare e tutto immaginare della Francia del suo tempo e, cogliendo l’essenziale, ha potuto rendere il vero volto della Francia di tutti i tempi. Ne «La Comédie Humaine» lentamente edificata, dapprima senza un preciso proposito, poi mirando sempre a completare il disegno, ad approfondire i temi ad illustrare gli angoli più remoti, egli ha creato una delle opere narrative più immense della letteratura mondiale.

  Nel contempo ha dato vita ad un mondo suo, a dei tipi che gli appartengono pur rimanendo rappresentativi per certi lati del carattere francese, per certi aspetti della società a Parigi ed in provincia. Nei temi l’opera è una delle più varie. Tutto vi si incontra e tutto vi si ritrova: l’ambizione, la vanità, l’orgoglio, l’avidità del guadagno e l’avarizia, la passione amorosa ed il libertinaggio, l’umile sacrificio e la prepotenza, il sentimento religioso, l’indifferenza, la bigotteria e l’ateismo. Egli presenta il giornalismo, la borsa, l’ambiente politico, quello giudiziario, l’alta società, la malavita, funzionari, i commercianti, i liberi professionisti, la vita parigina, quella delle città di provincia e quella delle campagne. Ovunque è a suo agio.

  Più si frequenta l’opera di Balzac e più si rimane colpiti, ammirati. A distanza di un secolo il suo genio narrativo si impone nella letteratura di Francia come il più alto, il più vasto, quello da cui più tardi da Gustave Flaubert a Marcel Proust ieri, oggi da François Mauriac ad Henry de Montherlant tutti hanno attinto. Ma l’influenza di Balzac non si è limitata alla Francia, il suo genio universale ha trovato una eco in tutte le letterature. In Italia come in Inghilterra, in Russia come in Germania non è difficile rintracciare le orme del passaggio di Balzac. Se alcuni hanno cercato di negarne il genio o l’importanza i suoi ammiratori fra i maggiori romanzieri, poeti e critici di tutte le letterature sono innumerevoli.

  Non può stupire che altrettanto si possa quindi dire degli studi dedicati a Balzac ed a «La Comédie Humaine». Ve ne sono di tutti i generi e di tutte le tendenze. Su Balzac si ha sempre qualcosa da dire e da più di mezzo secolo qualcuno sente il bisogno di illuminarne un lato particolare. Il principe riconosciuto dei balzacchiani in Francia è Marcel Bouteron. A lui si deve l’ottima edizione de «La Comédie Humaine» nella «Bibliothèque de la Pléiade» in dieci volumi. Essa rimane la più comoda e forse la migliore cui oggi si possa ricorrere. André Billy ha scritto una «Vie de Balzac» alquanto grigia e piatta nella stesura ma utilissima perché assai documentata. Fra gli studi critici vorremmo citare come i più interessanti «Balzac Romancier» di Maurice Bardèche, «Balzac Visionnaire» di Albert Béguin, «Balzac» di Ramon Fernandez, «Aimer Balzac» di Claude Mauriac, senza dimenticare il «Balzac» di Ernst-Robert Curtius e «Balzac et son» Oeuvre» di André Bellesort.

  Già in questa limitata scelta ve né per tutti i gusti e le tendenze. Volendo enumerare singoli saggi non si finirebbe più perché da Paul Bourget ed André Gide tutti o quasi hanno sentito ad un certo momento il bisogno di scrivere su Balzac, di manifestare al grande maestro e predecessore la loro riconoscenza. Si potrebbe quasi credere che sulla personalità e sui romanzi di Balzac non vi sia oramai più nulla da dire. Invece così non è. Tutto dipende dall’ingegno di chi lo sceglie come soggetto perché il genio di Balzac sembra avere anche la facoltà di potenziare le qualità di chi a lui si avvicina, di rivelarne il carattere, l’acume, il brio, la cultura attraverso le analisi dei personaggi, delle trame dei suoi romanzi.

  Ne è una ulteriore meravigliosa prova «Balzac et son Monde» (Gallimard edit. Paris) di Félicien Marceau la cui attenta lettura vorremmo raccomandare a quanti s’interessano a Balzac, a quanti lo ignorano ancora o lo conoscono già in gran parte perché da questa brillante, intelligente, possente somma balzacchiana tutti avranno qualcosa da imparare. In questo libro Félicien Marceau sembra essersi sorpassato o forse soltanto in questo libro egli è riuscito a rivelare le molteplici qualità di romanziere, di critico acuto, di dialettico, di brillante saggista, di malizioso cronista di cui, giunto ora sotto l’egida di Balzac ad una fiorente maturità, potremmo ammirare i frutti nelle opere future. Né si creda ad una facile compiacenza da parte nostra. Giusto od errato che il nostro parere possa essere siamo sempre meno inclini ad attenuarne l’impressione, od a cedere alla tentazione di modificarla per non assumerne le responsabilità.

  Raramente ci è stato dato di leggere con tanta spontanea adesione un libro di critica letteraria. Perché il «Balzac» di Félicien Marceau non è una biografia ma uno studio minuzioso e approfondito dell’opera. Soltanto, laddove gli studi su Balzac erano dovuti fonora (sic) a dei critici, degli specialisti di storia letteraria, quello di Félicien Marceau è dovuto ad un narratore, ad un creatore imbevutosi dello spirito di Balzac ed a lui apparentato. Dell’ampio studio di Félicien Marceau, un grosso tomo di cinquecento pagine fitte, si può affermare che esso è un «Balzac» quale il grande Honoré stesso avrebbe potuto concepirlo e scriverlo.

  Ma se per l’impeto e l’originalità esso è l’opera di un romanziere, non è affatto uno studio «romanzato». L’erudizione di Félicien Marceau è solida, durante più di dieci anni egli ha frequentato assiduamente «La Comédie Humaine» seguendo scrupolosamente tutte le piste, andando a caccia delle analogie od influenze nelle opere dei poteri, leggendo e confrontando di Balzac stesso i singoli capitoli dei singoli romanzi. Nulla ha tralasciato e nulla ha inventato. Quanto è stato scritto da critici e saggisti che lo hanno preceduto nello studio di Balzac non gli è sfuggito. Ma quindi avendo tutto ben pesato e ben digerito egli si è accinto a ricostruire a modo suo l’immensa opera di Balzac per mostrarne la meravigliosa unità ricostituendo i nessi ed illuminando angoli più reconditi.

  La sua non è una vita di Balzac ma piuttosto un ritratto morale di Honoré de Balzac attraverso una attenta scrupolosa biografia de «La Comédie Humaine», cioè di tutta l’opera Egli si è sforzato di studiarne la complicata costruzione, di misurarne la portata. Resosi familiare non soltanto coi capolavori universalmente noti: «Le Père Goriot», «Illusions Perdues », «La Rabouilleuse», «Splendeurs et Misères des Courtisanes», «La Cousine Bette», «La Peau de Chagrin»,«Le Lys dans la Vallée» e tanti altri, ma anche coi romanzi e racconti meno letti: «Le Cabinet des Antiques», «Ursule Mirouet», «Madame Firmiani», «L’Interdiction», «Béatrix», «Les Employés», «El Verdugo» ha ritrovato ed indicato il cammino degli innumerevoli personaggi delineandone l’intera fisionomia e sottolineando l’arte consumata ed a lungo insospettata di romanziere del loro creatore.

  Ma per quanto ammirevole possa essere nella sua precisione, nell'intelligente competenza la conoscenza dell’opera di Balzac nei minimi particolari e la sua ricostruzione critica, la qualità maggiore, di «Balzac et son Monde» di Félicien Marceau è di essere un libro attraente e simpatico perché scritto con vivacità, con calore, con vera simpatia per l’argomento trattato. Seguendo Félicien Marceau come un’esperta guida uno si inoltra nel complicatissimo labirinto de «La Comédie Humaine» facendovi numerose scoperte e trovandosi sempre più a suo agio. Merito di Félicien Marceau è di rendere il mondo di Balzac familiare ai suoi lettori, di restituirgli la immediatezza e freschezza avute al momento della creazione ma poi un po’ perdute sotto la polvere del tempo, dei preconcetti e dei commenti professionali. Per Félicien Marceau i protagonisti di Balzac sono dei personaggi vivi, gli eventi ed i conflitti in cui sono coinvolti fatti realmente avvenuti. Parlandone in questo modo, con convinzione e simpatia, egli li rende vivi, persuasivi, presenti anche a noi.

  Una delle particolarità dello universo di Balzac è di romanzo in romanzo, a volte a distanza di molti anni ed in circostanze del tutto diverse, il ritorno dei personaggi. La tessitura dell’opera è intricatissima. Essa giustifica in pieno, come Marceau dimostra, il vecchio adagio «Tout se tient comme dans les romans de Balzac». Nella prima parte del suo volume egli dopo una sommaria geografia dell’universo balzacchiano avvicina uno ad uno i principali personaggi dividendoli in categorie «Les Lions», «Les Femmes», «Les Jeunes Filles», «Les Vieilles Filles», «Les Jeuns (sic) gens», «La Vie Littéraire Artistique et Galante». I personaggi sono oltremodo numerosi e specie nei particolari assai diversi l’uno dall’altro. Essi costituiscono una delle ricchezze dell’opera Balzac. Félicien Marceau tenta di individuarli, di restituirne un ritratto completo, utilissimo per chiunque non abbia la possibilità di seguirne ogni volta il destino di libro in libro.

  La seconda parte è formata da quattordici capitoli dedicati ai temi essenziali dei romanzi e racconti di Balzac. Dalla religione alla politica, dal denaro all’ambizione e l’avidità di potenza, dalla lussuria alla ricerca dell’assoluto, l’amore e la giustizia Félicien Marceau li passa in rivista tutti analizzandoli attentamente. Né dimentica due elementi essenziali dell’arte narrativa di Balzac: il tempo e l’ambiente. Ogni diverso aspetto di un’opera tanto complessa che ha (sic) volte può indurre in errore per la facilità dello stile narrativo improntato al realismo diretto senza astuzie o ricerche è messo in evidenza.

  Infine una terza parte preziosissima è formata da un indice completo dei personaggi de «La Comédie Humaine» intesa come una specie di almanacco mondano di personaggi viventi. Essa completa un’opera indispensabile per chiunque voglia interessarsi alla lettura di alcuni romanzi di Balzac ed esauriente anche per chi senza specializzarsi intende approfondire lo studio almeno parziale di un’opera che appartiene oramai al patrimonio della nostra cultura europea.

  Per accingerci ad uno studio come «Balzac et son Monde» Félicien Marceau ha avuto molto coraggio. Per continuarlo assiduamente durante anni pur conducendo la vita di uno scrittore girovago, amante dei viaggi, curioso di tutto, ghiotto della vita, egli ha dimostrato di possedere una pazienza ed una perseveranza degna di ammirazione. Un risultato interamente positivo ha coronato l’opera. E il migliore elogio che gli si possa fare. Ed egli lo merita assieme alla sincera gratitudine, all’amicizia di quanti come lui amano Honoré de Balzac e lo considerano uno dei massimi esponenti dell’arte narrativa europea.



  G. C., “La Zitella”, «Radiocorriere», Torino, Anno XXXII, N. 46, 13-19 Novembre 1955, p. 32.

 

  Meno conosciuta forse di altri celebri personaggi di Balzac, quali Eugenie Grandet o Rastignac, questa vieille fille che ci viene ora presentata nella riduzione radiofonica non ha certo da temerne il confronto: un personaggio ricco, carico di tutta quella forza sanguigna e vitale con cui il grande romanziere francese sapeva far balzare fuori le sue creature. La scena di questo racconto è una cittadina della provincia francese, con tutta la sua trama di pettegolezzi e di piccoli interessi; il tempo è il periodo appena successivo alla Restaurazione del 1815. Rose-Marie-Victoire de Cormon è vittima di una situazione feroce, che la costringe per tanti anni a guardarsi dal matrimonio, sotto l’assillo dei pregiudizi degli altri e soprattutto suoi; e che, al sopraggiungere della crisi dei quarant’anni, la getta alla ricerca affannata, quasi rabbiosa, di un marito. Mademoiselle de Cormon non è bella, non è attraente, non ha neppure delle doti spirituali. Si può dire che non sia mai stata una donna, presa da tutte le sue preoccupazioni, dallo scrupolo di non far correre mai nemmeno una parola nei suoi riguardi. I pretendenti non mancano, adesso, che l’età dell’amore è passata, e Rose-Marie non ha che da guardarsi intorno: da una parte il marchese di Valois, nobile spiantato; dall’altra il sanguigno commerciante du Bousquet, già rivoluzionario, un bourgeois che ha bisogno di rifarsi un prestigio, dopo le sfortunate vicende politiche: e mademoiselle de Cormon ha prestigio e ha denari, sarebbe la più felice soluzione per ciascuno di questi due uomini, esponenti di mentalità diverse, ma di una società sola, dove tutto è regolato sul ferreo metro del calcolo.

  Il commerciante, che in partenza sembrava battuto, precederà di un soffio il rivale e riuscirà a strappare la mano della donna. Ma «la zitella», sposandosi, non diventa una donna felice, e nessuno si aspettava che lo diventasse. Intorno i personaggi cadono, il marchese comincia il suo penoso declino, mentre il signor de Bousquet, ora che ha i mezzi, può cambiare la faccia al paese e portarlo verso la strada del progresso. Soltanto la zitella, rimane legata al suo destino, segnato nella sua vita fin dal primo giorno e nel quale Balzac ha sentito con forza tanto tragica il peso della terribile provincia francese.



  Remo Cantoni, Ragguagli dell’epoca. La vita quotidiana di Remo Cantoni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1955 («Biblioteca Moderna Mondadori», CDXI).

 

Avarizia.

Avarizia e grettezza, p. 69.

 

  Non sempre l’avaro è gretto e pitocco. Papà Grandet, nella Eugenia Grandet di Balzac, è un personaggio roccioso con una sua sinistra grandezza che incute rispetto.

 

 

Grettezza.

Gretti e avari, p. 217.

 

  L’iconografia più nota ci rappresenta l’avaro in una serie di immagini tradizionali che si sono impresse indelebilmente nella memoria. Arpagone, nell’Avaro di Molière, l’ex bottaio Felice Grandet, nell’Eugénie Grandet di Balzac, Shylock, l’usuraio folle nello shakespeariano Mercante di Venezia, impersonano l’avaro-tipo, l’uomo in cui l’avarizia è ossessione e incubo che presiede a tutti gli atti della vita quotidiana.

 

 

Ipocrisia.

Recitazione lecita, p. 247.

 

  Se han ragione Dante e Balzac di chiamare «commedia» l’esistenza umana, i protagonisti della commedia sono interpreti e attori che recitano la parte loro, e scelgono e sostengono nel mondo una «finzione» necessaria, coprendosi il volto con una «maschera».

 

 

  Giuseppe Cenzato, Insuccesso di Balzac come ospite di Milano, in La Capitale lombarda. Itinerari milanesi. Illustrazioni di I. U. Biraghi, Torino, Società Editrice Internazionale, 1955 («Collana Italia»), pp. 197-200.

 

  Quante chiacchiere, quanti commenti e quanti pettegolezzi, quel lontano giorno del febbraio 1837 in cui Onorato di Balzac capitò a Milano! La Gazzetta privilegiata dava l’annuncio ufficiale dell’arrivo nella rubrica degli ‘ospiti illustri’, e pochi giorni dopo Defendente Sacchi in una Notizia letteraria scriveva testualmente: «La nostra città accoglie da due giorni fra le sue mura il signor Balzac, lo scrittore francese che in pochi anni fece il maggior numero di opere che descrivono in ogni maniera la vita dell’uomo e la società, quello che è anche più popolare fra noi, perché i suoi scritti corrono nelle mani di tutti, in originale e tradotti. Esso viaggia l’Italia per raccogliere materiali onde descrivere le campagne dei Francesi nella Penisola. Questa notizia tanto più riesce gradevole perché siamo certi che, il genio di Balzac avrà dal nostro cielo le più belle ispirazioni».

  Se è vero che una certa notorietà Balzac godesse già anche da noi, se è vero che egli fu ricevuto nei più eleganti e colti salotti, festeggiato ed esaltato, se è vero che s’arrivò sui giornali di mode a proporre «una moda alla Balzac», è forse più vero ancora che la parte intellettualmente più sana e più seria della società del tempo finì per averlo in uggia. Anzi, vi fu chi lo giudicò un «vanesio fanfarone», chi biasimò l’eccessiva sua parzialità per i suoi compatrioti, la continua esaltazione apologetica di se stesso, le sue manie, il bastone dalla vistosa impugnatura, i panciotti sgargianti, la veste da camera bianca a foggia di tonaca da frate ...

  E quanto all’eleganza poi, bisogna rifarsi ai vapori di certe damine del tempo, vere preziose ridicole, perché è noto il giudizio che dello scrittore francese, o meglio del suo aspetto fisico, diede una sua ammiratrice quando finalmente lo vide la prima volta: «Aspetto da panettiere, modi da ciabattino, corpo da bottaio, camminata da venditore ambulante, abiti da bettoliere ...» Ce n’è per tutti i gusti, tranne quello di farne un figurino di eleganza! Ma a parte le eccentricità dello scrittore, quello che maggiormente finì per disgustare gli intelligenti e, si può dire, tutta l’aristocrazia milanese, fu la sua boria di stretta marca parigina. La quale rifulse in modo veramente disgustoso allorché Balzac volle, non richiesto, esprimere un parere sui Promessi Sposi, romanzo del quale egli aveva letto soltanto quattro o cinque pagine. Il giudizio provocò tanti commenti e così violente satire, persino in versi, che la popolarità e la simpatia verso lo scrittore declinarono ancor più rapidamente di quanto fossero nate per la deplorevole piaggeria di una parte del mondo cosiddetto intellettuale del tempo.

  Balzac andò sì a far visita al Manzoni, e i particolari dell’incontro fra i due romanzieri fecero per molto tempo le spese delle conversazioni nei salotti milanesi, suscitando i più disparati commenti. Chi per poco conosca l’indole tanto opposta dei due, può ben figurarsi cosa poteva uscire da un tal colloquio. Viveva allora a Milano, venuto dalla natia Valdagno, un giovane provinciale, Bartolomeo Soster, divenuto poi pittore e incisore di qualche fama, studente all’Accademia di Brera col Longhi, brillante conversatore e incline, per finezza d’animo e per elevatezza di cultura, a frequentare i migliori salotti, la cui ospitalità il Soster sapeva ben apprezzare e soprattutto ben meritare. Il Soster lasciò, alla maniera del tempo, alcuni volumi manoscritti che formano un curioso copialettere, e che danno un verace riflesso della Milano d’un secolo fa, specialmente per quanto riguarda l’arte e la letteratura.

  Informato da persona intima di casa Manzoni della visita di Balzac al grande romanziere lombardo, il Soster ritenne suo dovere «secondar la corrente, informandone i conoscenti». La conversazione fra Onorato di Balzac e Manzoni si era specialmente aggirata intorno ad argomenti che a quel tempo si chiamavano volontieri filosofici, e che per primo lo stesso Balzac aveva toccato, e cioè sul «sistema empirico», che allora dominava in Francia, a cui si contrapponeva la scuola spiritualistica tedesca, e naturalmente lo scrittore francese aveva esposte le ragioni della propria preferenza per la prima. Alessandro Manzoni non era stato un contraddittore eloquente: era evidente che egli si sentiva troppo lontano da uno scrittore tanto diverso da lui, lasciò che l’altro parlasse, così che quando Balzac ebbe dato pieno sfogo ai suoi sentimenti, il discorso andò morendo.

  Il Soster osserva giustamente che il Manzoni aveva avuto le sue buone ragioni per comportarsi in tal modo, perché egli non aveva taciuto per timidezza o per dare partita vinta all’altro, «non essendo egli quell’uomo da lasciarsi imporre da un Balzac». Egli aveva dimostrato in troppe occasioni, a voce e per iscritto, che in fatto di contese culturali, letterarie e filosofiche, era buon polemista, e se avesse voluto contraddire Balzac lo avrebbe «eclissato, perché si sa che il Manzoni è un torrente quando si mette a discutere argomenti simili». E infatti che fosse ben armato a tal genere di discussioni lo aveva dimostrato un suo articolo apparso in un periodico milanese: il raccoglitore italiano e straniero. Ma probabilmente il Manzoni ritenne che una discussione in argomento lo avrebbe condotto molto lontano, e non avrebbe scosso l’altro da opinioni troppo aprioristicamente radicate per poter essere rimosse. Egli fu preso da uno di quei momenti di egoistica pigrizia mentale in cui lasciamo discorrere gli altri, sempre più convinti nell’intimo delle nostre buone ragioni: lasciò che l’impetuoso torrente dell’altro si scatenasse, senza dir nulla di suo.

  Balzac deve aver tratto dalla conversazione un’idea del tutto errata: nella sua leggerezza e nella sua fatuità non comprese il severo e alto ingegno del suo competitore, la presunzione smodata di sé gli vietò quella serenità coscienziosa che pure in un uomo del suo ingegno doveva essere un obbligo. E fu così che arrivando più tardi a Venezia, invitato a pranzo dalla contessa Mocenigo Soranzo, parlerà del grande romanziere italiano con tanta supponenza, da provocare il noto e giusto risentimento dei veneziani, le pungenti satire del poeta Nalin (che gli darà l’appellativo di ‘lasagna’), le rampogne del Fusinato e le proteste dei giornalisti, espresse in un’acerba critica di Tullio Dandolo sulla Gazzetta di Venezia.

  Per contraccolpo le ire si scatenarono ancor più furibonde a Milano, tanto che il Balzac, accortosi dell’errore e della propria grossolanità, scriverà alla contessa Maffei pregandola di trasmettere al ‘collega lombardo’ le sue scuse. Ma poco giovarono, non presso il Manzoni, che aveva ragione di infischiarsi del gradasso francese, ma presso la società in cui aveva sperato di lasciar di sé un simpatico ricordo. Il Soster, infatti, avendo chiesto a un amico «di molto spirito ed erudito» un giudizio riassuntivo di Balzac, uomo e artista, si sentì rispondere: «Come scrittore incanta, in politica è biasimevole, in società è un gran farfallone».

  Ce n’era abbastanza per non farsi più vedere a Milano, come infatti avvenne.

 

 

  Carlo Cordié, Balzac (Honoré de), in Avviamento allo studio della lingua e della letteratura francese, Milano, Dott. Carlo Marzorati – Editore, 1955, pp. 460-472.

 

  Dettagliata rassegna critico-bibliografica internazionale su Balzac suddivisa in varie sezioni: Bibliografia; Testi; Studi generali; Biografia; Studi particolari.



  Carlo Cordiè, La Rassegna. Cultura francese, a cura di Carlo Cordiè. Balzac e il suo mondo, Terzo Programma, 1° luglio 1955.

 

  Trasmissione radiofonica.

 

 

  Marise Ferro, Un personaggio veramente esistito. L’avventuriero che ispirò due grandi romanzieri, «Stampa Sera», Torino, Anno IX, Numero 89, 15-16 Aprile 1955, p. 3.

 

  «Aveva il viso un po’ bovino; un viso solido, dalla fronte larga, inquietante e singolare; capelli un tempo rossi, oggi di un biondo grigiastro; occhi un tempo azzurri, oggi grigi. L’insieme era complesso, rustico e signorile nello stesso tempo, calmo, ma della calma della sfinge. Le mani erano belle, di una rara espressione volontaria. Subito sentii che l’uomo occupava lo spazio con la sua potenza; insomma, sentii che nella stanza non vi era soltanto un fluido sovranamente intelligente: vicino a quella di Balzac c’era una forza cattivante. “Vi presento monsieur Vidocq” mi disse Balzac ...».

 

Dalla parte dei deboli.

 

  Questa descrizione di Vidocq è stata scritta da Léon Gozlan, giornalista dell’epoca romantica, amico di Balzac, che andava spesso a trovare. Una sera, in casa dello scrittore, incontrò l’uomo allora celebre (è celebre ancora oggi, ma solo negli annali polizieschi) che servirà di modello a due uomini di genio e cioè a Victor Hugo per il suo Jean Valjean dei Misérables e a Balzac per il personaggio di Vautrin, che ritorna in parecchi volumi della Comédie Humaine, ma che in Splendeurs et misères des courtisanes, sotto le spoglie del prelato spagnolo don Carlos Herrera, riesce ad affascinare anche il lettore più cinico e stanco. Vidocq! Non è del tutto un personaggio da romanzo, dunque, è esistito; ed era riuscito ad avere tanta forza da fare da modello ai romanzieri della sua epoca e ad ispirare anche gli altri, i posteri.

 

 

  Marise Ferro, Apologia della maturità, «Stampa Sera», Torino, Anno IX, Numero 138, 11-12 Giugno 1955, p. 3.

 

  La saviezza, ecco la grande conquista. Oggi che non sono più giovane posso ridere di me stessa e stupirmi d’avere sofferto, d’essermi sentita spoglia e logora davanti a una ragazza che aveva dieci anni meno di me Non sapevo, quando scrivevo le righe più sopra riportate, che la maturità, anche fisica, viene a lenti gradi; e che davvero l’opera incominciata da quel grande psicologo che fu Balzac nel fare risaltare nella sua giusta luce la femme de trent’ans (sic), continua nel nostro secolo, restituendo alla donna ciò che l’abitudine al moralismo borghese le aveva tolto e che aveva avuto in altre epoche: la vita dei sensi, dell’anima, dello spirito, attiva fino alla vecchiaia vera, quella che fa crollare le carni e che non incomincia mai, se si è sani, prima dei sessant’anni.

 

 

  Marcel Françon, Balzac e la scienza del suo tempo, «Convivium», Torino, Anno XXIII, N. 5, Settembre-Ottobre 1955, pp. 627-630.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 572.

 

  Se l’opera monumentale di Balzac ha rinnovato il romanzo ciò è dovuto, in parte, al fatto che Balzac è stato uno dei primi ad interessarsi di «problemi completamente estranei al campo letterario». [...]. Egli fa pensare ai poeti della Pléiade di cui A.-M. Schmidt ha detto che «fra le condizioni necessarie al risveglio della vocazione poetica» essi contavano «il perfetto dominio d'una vasta cultura». La loro poesia, continua il commentatore, ha «la pretesa di essere il completamento sintetico delle scienze e, a maggior ragione, quand’essa fa appello al monismo ermetico». A proposito della Comédie Humaine si possono rilevare le stesse esigenze d’unità e di completezza. Ed in ciò un altro accostamento s’impone tra Balzac e Poe. Tutti e due, infatti, riflettono le esigenze del loro tempo; tutti e due sono impregnati dal principio unitario e sintetico delle scienze e del mondo; tutti e due subiscono l’influenza delle teorie mistiche della fine del Settecento e dei primi anni dell'Ottocento; tutti e due hanno adottato più o meno vagamente e direttamente le conclusioni dei filosofi tedeschi. Ed è per ciò che mi pare utile studiare Balzac e la Scienza piuttosto che l’influenza delle singole scienze su Balzac.

  Bisognerà tuttavia cominciare con l’esaminare l'influenza delle singole scienze prima di quella della Scienza. Baldensperger che ha voluto segnalarmi la necessità di un lavoro sulle «curiosità scientifiche» di Balzac, ma ha nello stesso tempo avvertito che i vari problemi esigono degli approcci prima di essere trattati in modo definitivo. Così è già delineata l’importanza del soggetto in questione.

  In un buon lavoro, il cui tema era stato suggerito dal Baldensperger, Muriel B. Ferguson ha rilevato che vi erano molteplici legami fra l’opera di Balzac e le ricerche scientifiche del suo tempo [cfr. La volonté dans la Comédie humaine, 1935]. Balzac era stato soprattutto colpito dalle scoperte degli psicologi, dei medici e degli alienisti.

  Il chirurgo Dupuytren gli servì di modello quand’egli volle descrivere un medico le cui concezioni gli parevano degne di particolare attenzione e fu Bianchon. Il romanziere conobbe altri scienziati oltre Dupuytren, quali Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire. Egli ammira Bichat come anatomista e psicologo; si entusiasma per la frenologia e la «fisiognomia» queste due scienze gemelle «la scienza di Gall e quella di Lavater». Il Baldensperger ha mostrato quale fu l’influenza del dottor Nacquard (sic), allievo di Gall (cfr. Orientations étrangères chez Honoré de Balzac, 1927), e anche di Mesmer, ben inteso. Il dottor Cabanès, nel suo Balzac ignoré (Paris, 1899) ha segnalato tutto ciò, Hélène d’Also ha dedicato un importante articolo a Balzac, Cuvier et Geoffroy Saint-Hilaire («Revue d’Histoire de la Philosophie et Histoire Générale de la Civilisation», [...] 1934, pp. 339-54). Dello stesso autore ricordiamo una nota Sur un passage de «Louis Lambert» nella stessa rivista (15 oct. 1935, pp. 585-88) ove è studiata l’influenza di Bernard Palissy di cui Balzac ammirava la geniale capacità d’intuizione e al quale amava paragonarsi. Anche il dottor Trillat nel numero del 15 ottobre 1935 della stessa rivista, presenta un interessante articolo su Les Savants et la théorie unitaire dans la «Comédie Humaine». Vi notiamo fra l’altro, come Geoffroy Saint-Hilaire avesse riconosciuto in Séraphita molte sue teorie e avesse persino adottato il motto di Balzac «La Scienza è una». Oltre i nomi che abbiamo citato rileviamo quelli di Gay-Lussac, Chevreul, Vauquelin, Biot Fresnel. Infine in una lettera al Baldensperger il dottor Trillat parla d’una certa analogia fra le ricerche ch’egli stesso svolge all’Istituto Pasteur e l’opera di Balzac.

  Da parte mia ho rintracciato riferimenti alla scienza e agli scienziati in parecchi romanzi di Balzac. Eccone qualche esempio.

  Su Cuvier, la chimica e la tossicologia in Splendeurs et Misères de Courtisanes [...]; sul magnetismo, la forza della passione, il potere psichico, il sistema nervoso e sulla pila di Volta in La dernière incarnation de Vautrin [...]; su Newton e Keplero, su Lavater in La Fausse Maîtresse [...]; sulle «sostanze che la chimica dice assorbenti», sul cervello, su Cuvier, sui gobbi e gli gnomi, su Geoffroy Saint-Hilaire e sul genio come «malattia» in Modeste Mignon [...]; su Gall, sulla potenza occulta dei nomi, sulla «scienza atomistica», sul chimico Rouelle, sul mesmerismo, sui fisiologi, su Mesmer, sulla omeopatia, su Gall, sulla divisibilità infinita della materia, sul sonnambulismo, sulla luce, sul magnetismo e l’elettricità, su Cardano, in Ursule Mirouet [...]; su Rouelle in Un ménage de garçon [...]; su Humboldt e Cuvier in La Maison du Chat-qui-pelote [...]; sull’immutabilità delle specie zoologiche e degli uomini, sulla fisionomia in rapporto al carattere, su Cuvier e Dupuytren in Béatrix [...]; sul magnetismo, sui frenologi e le gobbe, in Le député d’Arcis [...]; su Gall, sui rapporti fra l’essere morale e gli agenti esterni della natura, sulla grafologia, in Les employés [...]; sul galvanismo, su Buffon in Le cabinet des antiques [...]; sulle sostanze chimiche, sull’antropologia, in La vieille fille [...]; su Cuvier in Un début dans la vie [...]; sulle specie, in Mme Firmiane (sic) [...]; sulla chirurgia, la magia, Cuvier, sull’udito in Le message [...]; sull’astronomia in Le petit Bourgeois (sic) [...]; sulle vibrazioni, sul diamante in Les études philosophiques [...]. Infine segnaliamo Louis Lambert, uno dei romanzi più importanti per lo studio dei rapporti fra la scienza, la mistica, la patologia e la letteratura romanzesca di Balzac[1]. In Louis Lambert notiamo [...] delle osservazioni su Cuvier, sui «chimici della volontà», Mesmer, Lavater, Gall, sull'influenza dell’ambiente, sull’unità della composizione, sull’unità della scienza, sull’elettricità (sostanza eterea), sui due più grandi numeri spirituali (il tre e il sette), su Dio che ha operato soltanto secondo linee circolari. P. Bourget aveva precisato: «Sur la goutte de Birotteau, sur la névrose de M. de Mortsauf, sur la maladie de peau de Fraisier, sur les causes profondes de la possession de Rouget par Flore, sur la catalapsie de Louis Lambert, il est informé comme un médecin».

  Muriel B. Ferguson nota: «On pourrait remplir un volume à citer les longues pages où Balzac s’est ainsi abandonné à son inclination pour la médecine ...».

  Da queste diverse osservazioni noi vorremmo dedurre tuttavia che Balzac non era soltanto interessato alle scienze e alla medicina in particolare, ma era soprattutto ansioso di scoprire un principio unitario che le collegasse tutte[2] e attraverso ciò dava prova di preoccupazioni di carattere mistico.

  Questo mi sembra fondamentale in lui. Per questo accanto agli scienziati autentici egli cita gli occultisti (5) o gli pseudo-scienziati. È vero che oggi si arriva a sostenere che gli alchimisti non furono così lontani dalla verità come si diceva nelle scuole d’una volta. Facilmente allora dei maestri troppo fedeli agli insegnamenti ricevuti, ripetevano che la trasformazione dei metalli era una fantasia di visionari. L’identità di materia e di energia è una concezione alla quale si è arrivati un po’ alla volta, Questo principio comune alle diverse manifestazioni dell’energia, questa ricerca della «sostanza comune a tutte le cose», ecco una delle cose che interessavano di più Balzac. A fianco di Louis Lambert bisogna ricordare La Recherche de l’absolu. H. V. Forest (cfr. La couleur dans la «Comédie humaine», 1943) si entusiasmava per le relazioni ch’egli aveva rilevato in Balzac fra i profumi, i colori e i suoni: «le son est la lumière sous une autre forme ...». Si tratta infatti di fenomeni della vibrazione.

  Ora per Balzac io credo che l’origine di questo concetto dell’unità dei fenomeni apparentemente diversi è da ricercarsi in J.-Ph. Dessaignes, uno dei direttori del Collegio di Vendôme ove Balzac restò sei anni, Ecco infatti che cosa dice di Dessaignes il dottor Ribement-Dessaignes:

  «Dévançant son époque, il était dirigé dans toutes ses recherches expérimentales par cette idée féconde et que ses premières expériences avaient fait naître, que fous les phénomènes attribués jusqu’alors à des produits impondérables différents: chaleur, lumière, électricité, magnétisme, ne sont que les manifestations diverses d'une même force, d’un même fluide animé de mouvements différents».

  Anche G. Bonhoure e M, B. Ferguson pensano che Balzac si sia formata la sua concezione unitaria del mondo sotto l’influenza almeno parziale di Dessaignes.

  Ma la conclusione che se ne può trarre è che l’autore della Comédie Humaine, non è che un divulgatore affrettato e che egli mostra un particolare interesse per il meraviglioso sviluppo delle scienze fisiche e naturali, della medicina, della filosofia e delle diverse forme di misticismo che caratterizza l’inizio dell’Ottocento. Si potrebbe, è vero, risalire agli inizi del Settecento e vedere in Newton colui che aveva rinnovato la scienza, e aveva «dato agli uomini un nuovo metodo per scoprire l’universo»: «egli aveva ridotto gl’innumerevoli e contradittori fenomeni dell’universo a un unico principi» e aveva formulato «una legge scientifica che si applicava a tutto e regnava su tutto». [...].

  Sappiamo quale ruolo ha tenuto il denaro nei romanzi di Balzac; ora si è visto come la scienza sia stata al centro dei suoi interessi, sia per quel che riguarda le sue applicazioni pratiche, sia dal punto di vista della speculazione intellettuale, filosofica, religiosa e politica. La frenologia, il mesmerismo ebbero in quel tempo una voga pari a quella che ha, ai giorni nostri, il freudismo.

  Inquadrando Balzac nel suo tempo, potremo meglio capire la sua arte, la sua opera e il suo pensiero. Grande io credo fu l’influenza del Collegio di Vendôme su di lui; ad essa bisogna aggiungere le sue visite dalla rue Lesdiguières al Museo, la disputa tra Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire, l’interesse che Balzac ebbe per le teorie di Gall e di Lavater, per la chimica e le teorie di Wronski, Si arriverà allora a questa conclusione del Baldensperger: «Materialista insoddisfatto, Balzac deve certo molti dei suoi meriti e dei suoi difetti ai suoi interessi extraletterari».

 

 

  Pietro Gerbore, Il mondo di Balzac, «La Patria. Quotidiano indipendente del mattino», Milano, Anno IV, 7 ottobre 1955.

 

 

  C. L., Balzac creatore e profeta. Tutto un mondo in piedi realistico, fantastico, allucinato, «Stampa Sera», Torino, Anno IX, Numero 121, 23-24 Maggio 1955, p. 3; 1 ill.

 

  Il grande romanziere fu in qualche modo il «poeta» del denaro – fluidità e avarizia contro l'amor romantico. I personaggi crudeli dai peccati inconfessabili – Col suo genio divinò i tempi futuri, da Napoleone a noi.

 

  Durante tutta la vita, Balzac fu assillato dai debiti. Un giorno, stanco di tanti affanni, per sfuggire ai creditori pensò di rifugiarsi da un’amica, madame Visconti. Ma un’altra donna, gelosa, rivelò il suo nascondiglio: due poliziotti vennero a sorprenderlo nella nuova dimora, e già stavano per arrestarlo, allorchè apparve madame Visconti: «Quanto è necessario perché egli abbia la libertà, 10.000 franchi? Eccoveli!». La signora tese con fierezza il danaro alle guardie, e Balzac fu liberato dallo spettro del carcere. Raccontando più tardi l’avventura a George Sand, il grande romanziere ebbe a scrivere: «Strano destino il mio! Tradito da una donna e salvato da un’altra! ...».

 

Pudore del denaro.

 

  Dopo questo non ci si stupirà se l’amore e il danaro, passioni che accompagnarono lo scrittore sino alla morte, occupino un vastissimo posto nella sua opera. Félicien Marceau nel suo Balzac et son monde sottolinea l’importanza di questi temi, da lui giudicati addirittura essenziali. La sua non è una biografia del romanziere, ma un’accurata enumerazione, un inventario, per dire così, dei temi, delle passioni, delle idee politiche che pervadono le figure di cui è folto (sic) l’opera balzachiana. Il libro termina con un «Indice dei personaggi» della Comédie humaine. In realtà essi sono talmente fitti e numerosi che è utile ed interessante conoscere la loro posizione sociale, o il grado di parentela di ciascuno di essi. Dell’immensa produzione del celebre scrittore, Marceau ha fatto una lucida sintesi: potremo quindi affermare che se la lettura dei romanzi di Balzac può venir paragonata ad un viaggio attraverso un mondo immaginano e fantastico, il libro dell’intelligente critico francese può servirci da eccellente guida.

  Il ventesimo secolo ha il pudore del danaro. Eccone una prova. Marcel Proust in un lungo dialogo tra due amiche a proposito del prezzo di un abito, abilmente riesce ad evitare ch’esse ne pronuncino la cifra. Balzac è completamente sprovvisto di questo pudore.

  «Secondo il modo di vedere dello scrittore, annota il Marceau, le rendite e le spese fanno parte della natura. degli uomini alla stessa stregua del carattere, della famiglia, dei vizi o delle eventuali virtù».

  Di qui la estrema facilità di Balzac nel trattare questioni di interesse o di danaro, Madame Camusot, uno dei personaggi importanti del Cousin Pons, presenta una coppia di invitati con queste precise parole: «Ecco il conte e la contessa Popinot il cui figlio non è abbastanza ricco per la nostra Cecilia». In altra occasione un giovane innamorato dichiara senz’ombra di ironia alla dama dei suoi sogni: «Signorina, mi accorgo che il vostro spirito è pari alla vostra fortuna ...».

  L’intera opera di Balzac può venir oggi considerata come un interessante documento dell’evoluzione economico-sociale avvenuta in Francia in quell’epoca. I personaggi delle opere giovanili di Balzac dimostrano il più vivo entusiasmo per la classe dei nobili, entusiasmo che, col passar degli anni e il mutar degli eventi, andrà a mano a mano raffreddandosi per l’insorgere di una nuova classe progredita e potente, la borghesia, verso la quale andranno le simpatie dello scrittore.

  «Un nuovo regno è sorto — scriveva Balzac nella Cousine Bette — il regno della santa, della nobile, della venerata, della solida, dell’amabile, della graziosa, della bella, giovane e potentissima «pièce de cents sous!». Ecco la prova che il danaro e il desiderio di riuscita impressionavano il romanziere tanto da diventar nella sua immaginazione le ragioni più potenti della vita umana. Il che naturalmente è il più grande ostacolo all’amore, passione eminentemente disinteressata. In questo senso egli sarebbe un antiromantico. Gli eroi, le eroine dei suoi romanzi che cercano nell’amore l’appagamento alle loro aspirazioni, verranno travolti dallo stesso sentimento che li aveva esaltati. Coralie muore per Lucien de Rubempré. La stessa sorte toccherà a Ester. Clotilde de Grandlieu si ucciderà, Tascheron morirà sulla ghigliottina. Questo destino implacabile che spinge Balzac a interrompere tragicamente gli intrighi d’amore dimostra com’egli sentisse tremendamente intrecciato il delirio del cuore alla cupidigia e ad un diffuso e diabolico senso del male. L’amore — come purezza e dedizione — diventa il più grande ostacolo alla riuscita.

 

Mondo meraviglioso.

 

  Balzac nei suoi scritti è castigato. Félicien Marceau osserva che i suoi innamorati non s’incontrano mai che a ricevimenti o a teatro. Raramente in una camera. Quando poi qualche personaggio è affetto da grandi vizi o commette peccati inconfessabili, subito egli lo rappresenta come un tristo, un mostro. Troviamo perciò nell’opera sua tipi nefasti, assassini, galeotti. Fosca figura è Vautrin, e per spiegarne la condotta egli sotto le spoglie del poliziotto fa intravvedere l’ergastolano. Due persone realmente esistite ispirarono a Balzac il suo Vautrin: Vidocq, famoso delinquente il quale dopo aver scontato parecchi anni di galera divenne capo di Polizia, e Pierre Dogniard, galeotto resosi celebre per le sue rocambolesche avventure. Dotato di un sorprendente coraggio, l’ergastolano dopo di esser fuggito dal penitenzario ove doveva scontare gli anni di pena inflittigli dalla giustizia passò in Spagna (ove non trovò difficile impossessarsi dei documenti di un emigrato francese) per poi ritornare in Francia a far carriera, sino a diventare colonnello della Polizia.

  Il mondo di Balzac è semplicemente meraviglioso. Come molti grandi scrittori francesi, Victor Hugo, ad esempio, ha subito gli alti e bassi della fortuna. Per anni fu disprezzato da sterili novellatori e critici. Possiamo immaginare ch’essi fossero abbacinati da quella montagna dirupata, piena di luci e di colori, ch’è l’opera sua. Ma i lettori non gli sono mancati mai. Oggi il gigantesco creatore di tutta la narrativa dell’Ottocento francese (e non solo francese) è di nuovo in auge. Egli non solo ha evocato, da quel colossale osservatore ch’egli era, il suo tempo, ma divinò il tempo futuro, sicché in lui troviamo il germe di tutte le passioni, i delirii, i sogni che hanno invaso e trascinato gli uomini dal tempo di Napoleone a noi.

 

 

  Tommaso Landolfi, Dissezione di Balzac, «Il Mondo. Settimanale politico economico e letterario», Roma, Anno VII, Numero 32, 9 Agosto 1955, p. 9.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., pp. 571-572.

 

  Félicien Marceau pubblica un Balzac et son monde (Gallimard 1955); con molte scuse preliminari relative a manchevolezze, a lacune, alla natura personale della sua fatica; richiamando la propria qualità di scrittore originale e riuscendo da ultimo a dire che per menare veramente in porto l’impresa avrebbe dovuto consacrarle l’intera vita, mentre lui vorrebbe ancora scrivere qualche romanzo. E sta bene, prendiamo atto di tutte queste precauzioni, chè, qualunque sia l’interesse del libro (ed è da un lato notevole), non si riveleranno superflue. Ma per intenderci vediamo prima brevemente di che libro si tratti.

  J’ai pris, dichiara il Marceau, la Comédie humaine comme un monument fini, achevé, comme on prend Notre-Dame ou le temple d’Angkor. Je me suis planté au milieu, j’ai regardé autour de moi... e così ha visto dei personaggi, poi una società, infine dei temi (circolanti, dice curiosamente l’autore, in mezzo ai personaggi e animantili. I commenti su una tale progressione e in generale sull’attitudine dell’autore a fra poco). Donde la seguente distribuzione della materia: una prima parte che riguarda i personaggi considerati quasi in astratto e catalogati secondo determinate (per modo di dire) caratteristiche, ossia in Lions, in Femmes, in Jeunes filles eccetera; una seconda che rileva partitamente i temi principali della Commedia Umana; un indice di tutti i personaggi balzachiani secondo la loro propria cronologia. Ne risulta, colle parole della presentazione editoriale, qualcosa come il romanzo della Commedia Umana; o, più modestamente, la medesima veduta dall’interno, e insomma un vasto repertorio balzachiano, una sorta di introduzione generale all’opera del grande scrittore.

  Come si vede, è questo un libro contenutistico se mai se ne dettero, in cui la critica formale non ha parte alcuna; anzi, stando alla dichiarazione dell’autore qui sopra riportata, non dovrebbe neppure essere un libro critico. Ma il ricorso a termini teorici vi è necessariamente costante, ed evidenti sono le intenzioni sistematiche del Marceau. Il che ci autorizza a rilevare intanto la sua deplorevole mancanza di metodo: per dirne una, è possibile davvero parlare di personaggi prescindendo dai temi? Che cosa sono i personaggi in Balzac e in tutti i grandi scrittori (come lo stesso Marceau riconosce e senza che abbia a soffrirne la loro libertà) se non temi incarnati? E a che cosa comunque debbono ridursi codesti personaggi del Marceau, avulsi dal loro contesto o limitati al loro contesto personale, se non a un arido elenco più atto a confondere le idee del lettore (se non altro attraverso l’insostenibile noia della lettura) che a schiarirgliele? E per converso a che cosa ridursi codesti temi del Marceau se non alle storie dei personaggi? Di più, la classificazione di essi adottata è del tutto esteriore e non ha nessun carattere di necessità; di qui il bisogno pel Marceau di classificazioni interne o accessorie, e un continuo interferire delle classi tra loro. Resta pertanto acquisito che la distinzione delle due prime parti del volume e meramente fittizia e serve solo ad aggravare il libro. Ma fin qui poco male ancora: in fondo in fondo siamo ancora tra questioni di lana caprina, e gli indicati si risolvono in semplici difetti di economia. Invece al Marceau si potrebbe muovere un’obbiezione più seria e in certo qual modo fondamentale.

  Ottima idea, in apparenza, quella di trattare i personaggi della Commedia Umana come persone incontrate per la via e di tuffarsi a capofitto nel mondo balzachiano; ma solo in apparenza, ammenoché non si intenda davvero fare onera originale (e di ciò che non lo è non vale studiarsi di limitare, come fa il Marceau, la portata e le intenzioni). Forse il Marceau è stato guidato dalla curiosa illusione che le cose si vedano meglio a starci nel mezzo; nel caso particolare, che con un tale procedimento egli avrebbe serbato a quei personaggi (e ai loro molteplici rapporti) gli attributi e i colori della vita. Mentre se c’era un modo per disseccarli e rapprenderli è per l’appunto quello tenuto da lui (che pure afferma: Balzac, qui passe pour si abondant, est peut-être, au contraire, le plus secret des romanciers et celui qui nous laisse le plus à deviner). E ciò che ragioni ovvie addirittura: quanto di essi non deve perdere il Marceau pel solo fatto di star gomito a gomito con loro, e come nella sua posizione potrebbe apprezzarne la curva, il fermento, infine la casualità, elemento inevitabile e provvidenziale nelle creature dell’arte? Dovremmo in conclusione insinuare che la critica formale (giacché la abbiamo chiamata castamente così) scacciata dalla porta tenda a rientrare dalla finestra? Limitiamoci a dire che, per noi, preferiamo considerare i personaggi balzachiani non come personaggi storici ma come personaggi letterari, ossia davvero vivi e in perpetuo divenire; non soltanto per quello che possono rappresentare ma per i problemi letterari che volta a volta risolvono; non come vivi solo nel loro mondo ma anche nel nostro; riservandoci, da ultimo, di discutere sulla loro consistenza e sulla eventuale loro distanza dagli intendimenti di chi li creò e battezzò. Il Marceau afferma ad esempio da qualche parte: ... Je crois que la qualité de l’oeuvre de Balzac est multipliée par sa quantité (nulla da opporre). On lui a reproché son mauvais goût. C’est juger la Comédie humaine à l’échelle de Dominique. Les notions de bon et de mauvais goût sont dépassées (si sottintenda un y). Or, le bon goût, c’est un peu l’équivalent esthétique de la morale. Ce sont, toutes deux, des notions pré-existantes à l’oeuvre et dont les grands bâtisseurs s’accommodent mal, eccetera. Ora, per quanto brillante appaia una simile formulazione, non è essa in realtà piuttosto speciosa e non è questo un modo di giurare in verba magistri? Lungi dall’essere una nozione preesistente, il buon gusto al contrario (perfino nell’accezione peggiore del termine; come del resto la morale) sembra essere una condizione dell’opera. Faremo però meglio a lasciare da parte queste discussioni, qui fuori luogo, e a prendere un momento il libro per quello che è.

  Al Marceau, dunque, non dovremo chiedere una visione d’insieme o conclusioni ultime. Potremo bensì chiedergli lume su problemi particolari; nella cui trattazione, aiutato da una eccezionale dimestichezza coll’opera balzachiana, egli spiega un grande acume e vedute talvolta originali, eccellendo negli accostamenti e nella chiarificazione di alcuni rapporti. Notevole anche la sua libertà di giudizio e di tono, con punte per fino di irriverenza (non si veda qui una contraddizione col testé detto). D’altronde, e malgrado le sue premesse, il nostro autore è qua e là costretto pure a tirarsi indietro d’un tanto, intendiamo a frappore (sic) il necessario distacco tra sè e la propria materia. Generalmente parlando, il Marceau non si discosta punto dalla vecchia idea dell’uomo balzachiano immerso nella società e da essa condizionato; ma che farci, se egli stesso avverte: Je vois bien, par exemple, que Balzac s’est aventuré dans la mystique. Je l’indique. Qu’on ne m’en demande pas davantage. La mystique m’ennuie? (Nondimeno un siffatto elemento è tutt’altro che trascurabile per l’intelligenza di Balzac e del suo mondo). Così, il Marceau vede nella volontà di potenza il tema principale della Commedia Umana, da cui naturalmente una sorta di indifferenza morale. Ma. sebbene nell’ambito di questa interpretazione in certo modo tradizionale (e sebbene, per contro, in qualche misura personale), il libro riuscirà sempre assai utile ai numerosi devoti del grande scrittore.

  Non si dimentichi tra l’altro che i precedenti repertori balzachiani sono ormai poco accessibili. Per finire, poi, crediamo far cosa grata al lettore indicandogli in quale maniera un tal libro debba esser letto: non affrontandolo a viso aperto coll’arma della pazienza, come abbiam fatto noi, ma cominciando dalla seconda parte, che tratta dei temi; o meglio ancora limitandosi ad essa e riservando tutto il resto alla consultazione.

 

 

  Vittorio Lugli, Balzac rivoluzionario (1951), in Tre mezzi secoli, Venezia, Neri Pozza Editore, 1955 («Biblioteca di Cultura», 2), pp. 185-191.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., pp. 570-571.

 

  Non si è mai finito di leggere Balzac. Anche Gide ha continuato a lungo a fare le sue scoperte entro la Comédie Humaine, precisamente in quella zona media ove non è proprio nè lo scrittore «visionario», nè il creatore potente e disuguale della grande epopea borghese. Sappiamo che bisogna prendere così, in blocco, la vasta costruzione, condotta avanti con una mirabile forza allegra, liricamente animata da un così robusto soffio di vita. Quando ci arrestiamo com’è inevitabile) ai particolari, oltre le parti men buone o cattive, incontriamo anche nelle migliori il segno di una ricchissima natura cui manca il dono supremo. Non è solo il freno dell’arte; è qualche volta il difetto del senso di quello che è arte, e di quello che è il suo contrario, la sua negazione. Nel Goriot (l’ha osservato lo stesso Gide) Balzac sente il bisogno di aggiungere: «Le père Goriot était sublime», dopo una lunga, enfatica parlata del protagonista, attraverso la quale se mai egli doveva apparire sublime. E dopo la raccomandazione veramente straordinaria dell’avaro morente alla figlia «Tu me rendras compte de ça là-bas», quel che segue «dit-il en prouvant par cette dernière parole que le christianisme doit être la religion des avares», interessante certo in un autore che si professa scolaro di de Bonald e de Maistre, attenua, smorza di tanto l’effetto. Quanto al Balzac sentimentale, romanticamente elegiaco, sappiamo che guasta non poco anche opere nobilmente pensate come Le lys dans la vallée.

  Lo scrittore è tutto felice nello stile medio, quando è solo il narratore divertito, preso dal suo intrigo, procedente sicuro e leggero. Così in molte brevi storie, punto ambiziose, non cariche di gravi significati. Le Réquisitionnaire, una ventina di pagine, che Gide appunto loda in modo particolare, è un capolavoro di equilibrio e sobrietà, con quella figura di madre, Madame de Listomère: un ritratto perfetto. Senza il patetico semplice e intenso che è nel Réquisitionnaire e in quella madre, un altro racconto, Les secrets de la princesse de Cadignan, tanto caro al Proust, è un’altra cosa gratissima, tutta gratuita, un piacere schietto per il lettore e (ci sembra) per lo scrittore. All’inizio, in un giardino autunnale, in abito autunnale, una donna non più giovane, non più ricca, è un quadretto da fare invidia ai nostri autori «crepuscolari» e «provinciali» di trent’anni fa. Gide cita anche Une fille d’Ève e Une double famille, che gli paiono tra le cose più rivelatrici di Balzac, se non tra le migliori. Il primo è un ampio racconto, tutto ovvio, corrente, leggibilissimo: nello sfondo, ai primi anni della monarchia di Luglio, il giornalismo equivoco al servizio dei politicanti ingenui o speculatori, e i grandi finanzieri che conducono il giuoco — un mondo ove il nostro Onorato si muove agevole, divertito, quasi ammirato. La protagonista, avvolta in una pericolosa relazione con un povero falso grande scrittore, è salvata dalla bontà accorta del marito anziano e generoso. Tono giusto, persone vive, sopra tutto viva intorno l’atmosfera, il costume particolare del tempo: ecco un autentico storico, historien des moeurs come Balzac voleva essere.

  Anche più interessante Une double famille, più mirabile la virtù del narratore, con solo, alla fine, qualcosa che potrebbe compromettere tutto, se non ci apparisse troppo volutamente aggiunto, del tutto estraneo. La prima metà del breve romanzo è semplicemente deliziosa. In una oscura straduccia della vecchia Cité, due povere donne trascorrono lunghe ore lavorando presso la finestra del loro stambugio, al pianterreno, e confortano la lunga fatica osservando i rari passanti. Così un pallido idillio nasce tra la giovane ricamatrice e un signore anziano che, facendo ogni giorno quel cammino, è preso da quella tenera bellezza non ancora sfiorita dalla misera esistenza. La malinconia del passante s’intona alla vuota solitudine della giovinetta; con gli occhi i due s’intendono, la vecchia sorride entro di sè, già immagina la fortuna per la figlia, accenna, incita, discreta e insistente. Si giunge all’incontro, l’amore stringe subito la giovinetta e l’uomo che pare tanto bisognoso di quel fresco conforto. Presto Carolina muta la sua esistenza, perché l’amico la vuole in una casa bella, ricca, le dà tutto, eccetto quello che non può darle, il suo nome. E la felicità di questa famiglia nascosta è ancora dipinta con delicatezza rara; la donna facilmente rassegnata alla sua ombra, madre di due bei piccoli, riconoscente e sempre innamorata.

  Il tono cambia quando Balzac passa a descriverci l’altra famiglia, quella legittima, e la sua origine. Il conte di Granville per ubbidire al padre aveva sposato una ereditiera ricchissima, che la madre bigotta aveva troppo foggiato a sua somiglianza. Lo studio di questo «carattere» (perché è bene un «carattere» di La Bruyère messo in azione) è duna finitezza implacata: un gelo, una rigidità più che giansenistica, da cui l’uomo si allontana lentamente, irreparabilmente. Resta il vuoto nella sua vita, nell’anima, e dopo alcuni anni viene a riempirlo l’amore per l’umile ricamatrice. Quando la sposa apprende — per uno di quegli intrighi in cui l’autore è maestro — il marito grida la sua avversione per la donna che ha contristato la sua vita, la sua casa, e l’ha condotto a crearsene un’altra. Questa seconda parte, con qualche eccessiva durezza, è ancora dell’ottimo Balzac, che anche sa animare la discussione, la polemica.

  Poi la chiusa; in pochissime pagine la morale del tutto inattesa. Granville, giunto al più alto grado della magistratura, è invecchiato oltre l’età, triste, amaro; Carolina l’ha lasciato per un altro, un giovane disonesto e vizioso che l’ha tratta alla più scura miseria; un figlio di lei e di Granville si è perduto, è un ladro che, tratto in arresto, dichiara il nome di suo padre. Dopo avere così teneramente accarezzato la figura della compagna illegittima, e colorita la bigotta con le tinte più fosche (in un primo tempo il racconto ironicamente s’intitolava la Femme vertueuse), lo scrittore s’è ricordato del suo sistema: la necessità dell’ordine tradizionale, assicurato dal cattolicesimo e dalla monarchia, quindi la condanna della famiglia illegittima. Condanna sommaria, che i lettori dimenticano, ricordando l’incantevole pittura di un amore, di un ménage irregolare tanto giustificato, e l’aspro ritratto della bigotta.

  Le spose de la main gauche riescono sempre a quella fine, e in quali modi? Ecco il romanzo che Balzac poteva scrivere, e non l’ha fatto; solo ci ha imposto la conclusione, cui non crediamo, o piuttosto non badiamo. E se i fedeli non han perdonato Tartuffe a Molière, come potrebbero perdonare a Balzac quella moglie bigotta, sincera e respingente? Infatti gli uomini dell’ordine, i fedeli non sono teneri all’autore della Comédie Humaine, non se ne fidano, non se ne sono mai fidati. Hanno sempre avversato le sue pitture duramente realistiche, le sue finzioni romanzesche ov’è tutto uno spiegarsi di umane passioni, un disfrenarsi di umane energie per la conquista dei beni terreni; non si sono lasciati persuadere dalla sua predicazione conservatrice. O solo i cattolici letterati alla Barbey d’Aurévilly, o gli equivoci maurrassiani. Al più, l’hanno accettato come un imponente documento storico.

  Per venti anni infatti lo scrittore ha dovuto difendersi contro le accuse di immoralità, di empietà, gridare il suo credo, l’intento dell’opera sua, e ricordare i buoni, i virtuosi, non inferiori di numero ai malvagi, ai ribelli, nella Comédie Humaine. Come se fosse questione di numero ... L’inglese Henry Reeve, quello che nel 1835 consigliava per il vasto ciclo il titolo di Commedia diabolica (e la suggestione doveva tornare nel titolo definitivo, alcuni anni dopo) giudicava Balzac «grande, ma ateo». Come un secolo fa, anche ora i cattolici ripetono la loro preoccupazione, il loro sospetto. Mauriac non dubita della buona fede e sincerità dell’uomo, che ha accolto la lezione di de Bonald e de Maistre, ma non può non vedere l’effetto, la realtà dell’opera. Arditissima, precorrente i più audaci recenti sondaggi entro le paurose oscurità dei nostri istinti, anticristiana nella sua essenza, opponendo un rifiuto già nietzschiano alla domanda di Cristo: «Che serve all’uomo guadagnare l’universo, se perde la propria anima?». Ciò che uno scrittore della rivista Europe, André Wurmser, sintetizzava, nel settembre del ’49, molto semplicemente: — Balzac reazionario? Pel suo biografo, non pel suo lettore! — dopo aver ricordato come nella Comédie humaine sia tutto manifesto lo strapotere del denaro e il sopravvento delle classi sull’individuo. Poi l’Europe, volta più risolutamente a sinistra, ha dato l’anno dopo un Balzac estremista, quello che sorprendeva Carlo Marx con la scoperta tutta naturale, l’indicazione delle forze economiche decisive, ed è ora mostrato dal Lukacs nei Saggi sul realismo.

  La questione è stata aperta, si può dire, il 20 agosto 1850, con le parole di Victor Hugo sulla tomba del romanziere: «A son insu, qu’il le veuille ou non, qu’il y consente ou non, l’auteur de cette oeuvre immense et étrange est de la forte race des écrivains révolutionnaires». Ed è stata ancora variamente, seriamente dibattuta, durante il biennio celebrativo, in seguito all’ampio lavoro di Bernard Guyon, La pensée politique et sociale de Balzac. Ormai si andrà cauti a ripetere che solo il desiderio di piacere al nobile faubourg e alla marchesa di Castries (la quale non tardò a deluderlo), la fretta di arrivare, han condotto lo scrittore a farsi campione del legittimismo in piena monarchia popolare. Una spiegazione affrettata, che spiace trovare ancora nella Vie de Balzac di André Billy. Non si parlerà più di conversione che — intorno al ’30 — sarebbe avvenuta nel senso contrario al moto generale degli spiriti (ciò che, del resto, non sconverrebbe troppo ad una robusta tempra e avventurosa quale è la sua); si dovrà considerare come la sua opposizione alla democrazia, alla «mediocrazia» (si veda il capitolo così intitolato nei Paysans) non è assoluta, e ricordare l’atteggiamento non chiuso alle speranze repubblicane del ‘48.

  L’assolutismo di Balzac — già l’aveva detto il Taine — nasce piuttosto dalla sua morale: «Comme tous ceux qui ont mauvaise opinion de l’homme, il est absolutiste». Inoltre, egli tende risolutamente al sistema, all’unità, vuol costringere il suo mondo entro una legge, la più sicura e universale. Chiesa e monarchia sono i due potenti freni per contenere gli eccessi della depravata natura umana. Ma contro quei freni eroicamente combattono, si affermano eroicamente le persone più vicine al robusto creatore — avventurieri, ex lege, Vautrin, Rastignac, tanti altri ... Reazionario nelle pagine discorsive — osserva Albert Béguin, attento sopra tutto all’artista — Balzac è spontaneamente rivoluzionario nella creazione romanzesca, ove si mostra la vita nella sua essenziale libertà. Le Médecin de campagne, che doveva riuscire una specie di vangelo in azione, da diffondersi tra il popolo come un almanacco (l’autore constatò poi il successo affatto mancato) raccoglie in vasti discorsi tutto il sistema di Balzac, il pensiero che avrebbe dovuto piuttosto animare i singoli volumi. La sola parte viva, nel Médecin, è appunto la narrazione della gesta napoleonica, in bellissimo tono di epica popolare, fatta da un reduce della campagna di Russia: l’esaltazione della forza che era venuta a sradicare l’antico ordine.

  Tale il dissidio che appare nella Double famille e spesso altrove, nella Comédie Humaine tra la volontà dello scrittore predicante l’antico ordine, la disciplina, la legge, e l’istinto che lo porta ad esaltare le energie incontenibili della natura umana. Entro quelle strettoie pare anche abbia voluto rinchiudere se stesso, la propria forza, che si dimostra intera nella lotta contro i limiti impostisi. Con quella forza ha suscitato il suo mondo, un mezzo secolo prodigiosamente ricco della vita più intensa e diversa. Balzac è un grande storico: il giudizio di quanti sono incerti davanti alla sua arte. Non storico reazionario (qui aveva senz’altro ragione lo scrittore dell’Europe di due anni fa), semplicemente uno storico.

 

 

  Paola Masino, Lettere d’amore, «La Provincia. Quotidiano indipendente d’informazione», Cremona, Anno nono, N. 192, 12 Agosto 1955, p. 3.

 

  Domandiamo all’uomo più ostinatamente refrattario al fascino dell’amore, alla più astiosa zitella, al giovane inesperto, alla ragazza ignara, se non ha mai sentito urgere in sé, anche se non ha saputo tradurle, parole come queste: «Prima di rimettersi al lavoro, il mio cuore, questo povero cuore tutto tuo ha bisogno di confidarsi con te, raccontandoti i minimi particolari di questa mia vita diventata tua, per questo miracolo di pensiero costante, immutabile, dopo tanti anni di affetto esclusivo di cui tu sola, dopo me, puoi apprezzare l'immensità e la profondità».

  Chi scrive è Balzac, alla signora Kasmka (sic), la donna che amò per tanti anni prima di poterla sposare, ed è il 18 ottobre 1846. Ma non v’è molta differenza da quest’altra lettera: «Scrivo per sapere come stai. Fammi avere presto tue notizie. Io mi trovo a B. e sono molto triste perché non ti ho visto da tanto tempo. Dimmi quando potrai venire qui: allora io sarò felice tra le tue braccia e tu tra le mie».

  E sapete cosa vuol dire quel B.? Non Bologna, non Bari, né Belluno, né Brindisi o Benevento o Bergamo, ma vuol dire Babilonia. Perché la lettera è stata scritta tremila anni fa: non si sa se da un uomo o da una donna.

 

 

  Alfredo Niceforo, La descrizione del volto e della persona nell’opera di Honoré de Balzac, «Rivista di Antropologia», Roma, Istituto Italiano di Antropologia, Anno LXII dalla fondazione, Vol. XLII, 1955, pp. 49-81.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 572.

 

  Su Balzac narratore realista e naturalista abbiamo avuto occasione di scrivere altrove, accennando anche alle definizioni che possono darsi di realismo, di naturalismo (e pur di verismo) e mostrando quali sono i «segni» del realismo e del naturalismo nell’arte balzacchiana, senza dimenticare di far ricordo del fatto che l’autore della Commedia umana è da considerarsi, appunto, come il creatore — o quasi — della narrazione realista e naturalista[3]. Il descrivere minutamente, in ogni particolare, ciò che forma obietto della narrazione — uomini, cose, ambienti — non dimenticando affatto i particolari più banali, o comuni, e pur volgari, che un narratore non realista si sarebbe ben guardato dal presentare e, come ognun sa, uno dei «segni» del realismo narrativo [...], e proprio Balzac fu tra gli innovatori o addirittura l’innovatore del metodo. Per conseguenza, minutamente, scrupolosamente, insistentemente, Egli descrive e fa «vedere» paesaggi, edifici, case ed appartamenti, arredamenti, abbigliamenti, e vi parla di volgari conti di dare e di avere, di prezzi, di minute di colazioni e pranzi: cerca «fotografare» i più diversi ambienti economico-sociali e fa persino parlare in gergo vero e proprio gli abitanti delle prigioni e, nei loro linguaggi speciali, i diversi gruppi sociali. Per conseguenza ancora, Egli si fa descrittore spietatissimo nel descrivere una fisonomia e i caratteristici tratti della persona (architettura somatica, gesti, deambulazione, e anche voce, ecc.) sì da creare personaggi che realmente siano «visti» e «sentiti» dal pubblico che legge. A questo proposito, qualche parola è da dirsi su ciò che potremmo chiamare «teoria» della fisonomia (e della struttura somatica dell’uomo) secondo Balzac, teoria intimamente associata al realismo e al naturalismo di Lui.

 

1. – La «teoria» fisognomica di Balzac.

 

  a) Innanzitutto è da sapere che Balzac sempre si mostrò ammiratore entusiasta di quel Lavater che tanto celebre era ai tempi in cui si svolgevano le scene della Commedia umana, il che risulta non solo dalla gioia che egli provò quando riuscì ad acquistare una copia della grande edizione illustrata dell’opera di Lavater, tradotta in francese, ma anche soprattutto dalle frequentissime citazioni che egli fa del nome di Lavater (insieme a quello di Gall) in molte pagine della Commedia stessa.

  b) D’altra parte, è insistente la persuasione, nello spirito di Balzac, che i segni del corpo siano in qualche modo i segni della mente e del cuore e cioè dell’intelligenza e della sensibilità, talchè la minuzia nel descrivere il volto e la persona deriva tanto dal metodo che il romanziere si era imposto di tutto descrivere per tutto far vedere, quanto dal desiderio di far comprendere al lettore – mostrando un volto o un modo abituale di atteggiarsi e di gestire – quale fosse l’anima che in quel volto o in quell’atteggiamento. o in quel gesto, si esprimeva.

  c) Inoltre – si noti – ben vede Balzac che nei tratti della fisonomia e soprattutto nella espressione di essa possono incidersi le «cicatrici» impresse dall’ambiente, dalle vicissitudini, dalle sofferenze e dalle tragedie della vita. Il volto, ripetiamo, risulta per Balzac nei suoi traiti e nella sua espressione (insieme alle fondamentali linee e caratteristiche della persona fisica) come la risultante di cause, concause, fattori, componenti, che vengono e che urgono, in parte dal di dentro (forze congenite) e in parte da dal di fuori (forze ambientali). Inutile avvertire il lettore che tali parole non sono prese a prestito dal dizionario balzacchiano, ma sono nostre e della nostra epoca, pur rendendo esse i concetti che qua e là si intravedono nelle composizioni del nostro Autore.

  Insomma, nelle pagine balzacchiane allorché un personaggio si presenta, l’esterno suo aspetto – volto e persona – spesso viene preso in esame ordinatamente, con frequenti allusioni alla connessione che ciascun carattere fisico può avere con lo spirito, descrizione che si fa tuttavia mescolando quasi di continuo l’aggettivazione obiettiva con le tinte della fantasia. In ogni modo, per tanti personaggi si dice, assai volte, della fronte, dei capelli, delle sopracciglia, delle palpebre, del naso e delle narici, degli occhi c delle ciglia, delle guance, dei denti, delle labbra, dell’orecchio, del mento e talora del collo, delle mani e persino dei piedi, delle gambe ed anche, spesso o quasi sempre, del colorito e della pelle, oltre che delle proporzioni del corpo o, come potremmo oggi dire, del tipo costituzionale.

 

2. – Influenza di Lavater.

 

  Dicevamo che l’autore della Commedia umana fervidamente ammirava l'opera di Lavater, rinnovatore della «scienza» della fisonomia; valga qui qualche richiamo in proposito. In una delle sue lettere alla sorella, quando già i suoi primi romanzi facevano parlare di Lui, si mostra felice e fortunato per avere potuto acquistare la traduzione completa in francese della grande opera di Lavater sulla fisonomia, ornata di seicento immagini e più. D’altra parte, le citazioni che nel corso della sua immensa produzione Balzac fa del nome di Lavater sono numerosissime, e sempre ciò si fa con attestato di ammirazione. Parlando di Mesmer, ad esempio, e del suo magnetismo, l’entusiasta creatore della Commedia scrive che quell’uomo prodigioso (Mesmer), traendo dalle tenebre e dal fondo dei misteri la scienza del magnetismo, si colloca accanto a Lavater e a Gall (Louis Lambert, p. 43) e più lungi, nello stesso romanzo, torna a dire delle «scienze inventate da Gall, e da Lavater» (p. 53) a proposito delle simpatie e delle antipatie istintive. Balzac, inoltre, accoppia sovente i due nomi di Gall e di Lavater: l’uomo dalle bozze craniche, cioè, e l’uomo della fisonomia; nell’uno e nell’altro vedeva le più alte espressioni di quei pensatori che – siano o non siano essi nel vero – affermano che dall’ispezione del cranio e del volto si leggono le interne passioni e gli ascosi tratti del carattere. «La frenologia, Egli scrive, e la fisognomonia, le scienze di Gall e di Lavater, sono sorelle» (Ursule Mirouet, p. 91). Quante volte Balzac invoca la perspicace intuizione di Lavater! Parlando della geniale, strana e bella testa di Balthazar Claës, il nostro Balzac dice che «Lavater avrebbe voluto senza dubbio studiare quella testa ove si leggevano la pazienza, la lealtà, la moralità più candida, ove tutto era grande e largo, ecc.». Si tratta di quel Balthazar Claës che senza posa – sino a morirne – rincorre l’irraggiungibile e l'assoluto (La recherche de l’absolu, p. 20). E in altra narrazione, dicendo dello sguardo inesprimibile che la vecchia madre getta sulla figlia Carolina intenta al lavoro, aggiunge che quello sguardo «era così strano che sarebbe stato difficile allo stesso Lavater di farne analisi» (Une double famille, p. 227). Perentoria, infine, per quanto più che azzardata, è l'affermazione balzacchiana presentata in occasione del descrivere che si fa dello strano volto di Michu, lo scuro e devoto martire che sacrificherà la propria vita, in difesa del suo signore. «Les lois de la physionomie sont exactes non seulement dans leur application au caractère, mais encore relativement à la fatalité de l’existence (Une ténébreuse affaire, p. 3). Anche quando Balzac, presenta Jean François Tacheron venticinquenne: capelli crespi e duri con basso impianto sulla fronte, occhi di un giallo chiaro e luminosi, assai vicini l’uno all’altro (e cioè con breve spazio interoculare) «difetto che a quel volto dava simiglianza ad un uccello da preda», Egli fa notare che un tratto di quella fisonomia confermava un’asserzione di Lavater circa il volto degli uomini predestinati all’omicidio.

 

3. – Che cosa Balzac descrive dei suoi personaggi?

 

  Il volto, nelle sue varie parti, anche minime che spesso o sempre sfuggono a chi guarda (e nelle sue caratteristiche di ordine vario, e nelle sue espressioni) ed anche la persona, sempre nelle sue varie parti, come sopra.

 

a) Il volto nelle mie varie parti.


  Per il volto, quasi sempre Egli presenta e descrive come segue.

  La fronte è vista nella sua forma, con le sue rughe, con il suo impianto di capelli, con le vene delle sue tempie: le sopracciglia sono indicate con la loro forma, il loro disegno, il loro colore: delle palpebre, delle ciglia, del cerchio sottopalpebrale si dànno particolari.

  Per gran distesa spesso si parla del colore dell’occhio e anzi del variegato colore dell’iride, del tono di bianco e di azzurro del globo, e assai dello sguardo e dell’espressione.

  Il naso è visto (proprio come farà il segnalamento scientifico moderno) di prospetto e di profilo, e soprattutto si dice delle narici indicandone colore, trasparenza, grado di apertura.

  La bocca, nelle sue dimensioni, con la grossezza e la tinta delle sue labbra, il suo sorriso, con il suo atteggiamento di sarcasmo e con la doppia fila di denti che tra le labbra appare, tiene pur posto non breve in siffatte descrizioni, quella bocca che – specie per le labbra – avrebbe, secondo Balzac e pur secondo Lavater, tanto significato rivelatore della psicologia dell’individuo. Anche del mento, pur esso fortemente sintomatico del carattere, sempre secondo Balzac e pur secondo Lavater, non poteva non dirsi, e ognor con accurata descrizione.

  Persino dell’orecchio – che i narratori di ogni sorta hanno quasi sempre trascurato – il Nostro fa più volte vere e proprie «fotografie», talora parlando dell’orlo di esso, delle sue pieghe e del suo appiattimento.

  I capelli, poi, in ogni grado della loro tinta e dei loro riflessi e in ogni modo della loro acconciatura, trovano infinita serie di aggettivi – alcuni dei quali romantici – ma non pochi di seria fattura obiettiva.

  E il colorito del volto? A proposito di esso non si dimentica, quando ne è il caso, di descrivere macchie, lentiggini, venature, trasparenze.

  Poteva tacersi dalla forma generale dell’ovale del volto, che può mostrarsi in variati aspetti geometrici? No davvero, e nemmeno si pone in oblio da Balzac potersi presentare lo stesso volto con due diverse espressioni, una dell’alto, l’altra del basso, oppure l’una a destra e l’altra a sinistra, duplice modo su cui recentemente gli psicologi hanno degnamente attirato l'attenzione degli studiosi.

 

b) La persona.

 

  Quanto sopra, per il volto. L'antica e la meno antica fisognomonia. o arte di descrivere i tratti del volto e della persona per trarne induzioni sul carattere, non si limitavano a guardare un volto, ma ponevano attenzione alla forma generale del corpo (tipo morfologico costituzionale, diremmo oggi), alla mano, ai gesti, agli atteggiamenti, al passo, alla voce, scrivendo lunghe pagine su ciascuna di tali categorie. Le descrizioni balzacchiane non sono da meno.

  Quante volte, infatti, quelle descrizioni vi presentano il tipo in cui ravvisiamo chiaramente il longilineo o altro tipo che patentemente appare come brevilineo, e l’uno e l’altro con le sue corrispondendi (sic) note psichiche!

  Della mano si fanno spesso vedere la forma, la pelosità, i nodi delle dita, le unghie, il colore e – diciamo pure – l’espressione.

  E i gesti e gli atteggiamenti? I primi si riferiscono, per così dire, alla dinamica dell’individuo, laddove i secondi ne rappresentano la statica, gli uni e gli altri in piena corrispondenza con l’architettura materiate dell’individuo, ma anche con la struttura psichica di esso; si direbbe che Balzac – nel solco di Lavater – si nutrisca dell’idea che gesti ed atteggiamenti sono traduzione del pensiero e del sentimento, anche – e soprattutto – se si tratta di gesti incoscienti o in volontari. Ed ecco allora gesti ed atteggiamenti dell’ingenuo, dell’iracondo, dell’avaro, dell’uomo crudele, dell’uomo sprezzante, del monomane e pur dell’alienato ... senza dire dei gesti e degli atteggiamenti della donna che vuol piacere e sedurre.

  Medesime coloriture e interpetrazioni per il passo, che di taluno è grave, distratto, pesante ... e persino «libero» (sic) mentre di altri è leggero, trotterellante ... secondo il carattere, per l’appunto.

  D’altra parte, che cosa è la voce di una persona, se non ... un «gesto» della persona stessa? Ora, proprio come i gesti, specie involontari – ma anche volontari – sono traduzioni della mente e del cuore perché legati all’intima struttura ossea, muscolare e nervosa dell’individuo, così anche la voce nelle sue espressioni spontanee, insieme al modo di parlare, porta le stigmate della personalità tutta. Balzac fa più descrizioni di varie sorta di voci, strettamente collegate al modo psichico di essere della persona che parla, confermando una volta di più la profonda credenza che Egli aveva in alcuni dogmi della fisiognomonia, ma attestando – sia detto ancor questo – una volta di più la sua abilità di sagace osservatore.

  Inoltre, voce e gesti o modo di muoversi vengono segnalati per ogni figura o figurina. Insomma, tutto è vivo e tutto si muove su questo eterno e immenso palcoscenico, sicché a spettacolo finito chi a quello spettacolo ha assistito porta con sè le immagini di quegli attori come se fossero conoscenze che più e più mai lo abbandoneranno e con le quali – perché no? – si sorprende di quando in quando a discorrere.

 

4. – Esempi di tipi completi (volto e persona) minutamente descritti.

 

  Tempo e spazio assai occorerebbero (sic) per rammentare e chiamare a testimonianza tutti i personaggi della Commedia per i quali la descrizione del volto e della persona è fatta con lunga e minuziosa insistenza, ognor con l’intesa – più o meno apertamente dichiarata dall’Autore – che quella descrizione dei caratteri fisici sia rivelatrice dello spirito e della vita. Qualche esempio soltanto, anche riducendolo in confronto all’originale, per i personaggi femminili dapprima, poi per i maschili, e infine qualche esempio ancora per rammentare come descrizione lunga e minutissima si fa anche quando si tratti di «mostrare» (e interpetrare) una sola parte del volto, ma bene espressiva quale l’occhio.

 

  a) La descrizione del fisico di Mademoiselle des Touches (qui Balzac ritrae George Sand alterandone tuttavia qualche tratto ma mettendo in evidenza l’originalità del carattere, la genialità e la sensibilità della grande scrittrice) occupa spazio lungo e lunghissimo: il viso, più lungo che ovale: la carnagione; la folta capigliatura nera; la fronte ampia e piena, rigonfia alle tempie; l’arco delle sopracciglia, vigoroso; l’occhio, la cui fiamma [s]plende a momenti come una stella fissa; lo sguardo; l’espressione del viso e la mobilità dei suoi tratti: le ciglia; le brune palpebre e l’incavo sotto gli occhi, puro o senza rughe: gli zigomi, un po’ forti: il naso dalle narici appassionatamente dilatate; la bocca, con la sua forma, i suoi colori e le sue labbra; il solco che s’imprime ad arco tra il naso e la bocca; il mento risoluto; la leggera peluria sovrastante la bocca; l’orecchio; il largo busto, ma con vita stretta; le anche e la ricurva linea delle reni; il collo; l’impianto delle braccia e le braccia stesse, rigorosamente modellate; il polso delicato; la mano piena di fossette; e le rosee unghie (Béatrix, p. 90).

  Quella, ora descritta, è la donna di genio; d’altro canto, ecco la cortigiana Florine, artista di palcoscenico. Anche di essa – con qualche particolare di forte realismo – si fa lunga descrizione, quasi «inventario», di speciale genere. Si descrivono, cioè, le spalle, la carnagione, il collo, la testa – da imperatrice romana – la fronte, i capelli di un biondo cinereo e la pettinatura, le sopracciglia, le palpebre venate di rosa, l’iride dell’occhio, le ciglia, il muovere appassionato dello sguardo, il cerchio che si disegna sotto l’occhio, il naso «sottile, tagliato da rosee narici e appassionate, fatto per esprimere l’ironia e l’aria canzonatoria delle cameriere del teatro di Molière», la bocca «sensuale e dissipatrice, tanto pronta al sarcasmo come all’amore», le due linee concave che corrono dalle estremità del labbro superiore al naso, il mento «che annunzia come una sorta di violenza amorosa», le mani e le braccia, il piede – ohimè! – grosso e corto «segno indelebile della bassa nascita di lei», la statura e la corporatura (statura media, minacciata, da obesità, ma svelta e graziosa) (Une fille d’Eve, p. 272).

  Ancora una affascinante donna equivoca: la bellissima Paquita, giovane maliarda. Ha «occhi gialli come quelli della tigre, di un giallo d’oro che brilla, dell’oro che vive, dell’oro che pensa, dell’oro che ama» (La fille aux yeux d’or, p. 298). Insieme a quegli occhi una carnagione bianca e capelli di un biondo cinereo. Il pittore non vi risparmia neppure la leggera e quasi serica peluria, come quella della rosea buccia di una pesca, che brilla sulla guancia di Paquita: «lungo la guancia della seducentissima Paquita, una candida peluria appariva come una linea luminosa, battuta dalla luce del sole; prendeva principio dall’orecchio e si andava perdendo nel collo» (La fille aux yeux d’or, p. 299). Inoltre, si dice del magnifico modo di piegare il collo, su cui la testa s’innestava «con una combinazione di linee scultoree». Anche del piede della bella Paquita si fa ricordo dopo aver detto – disegnando l’architettura generale del corpo di lei – della sua forma cambrée (aggettivo di cui si diletta Balzac nelle sue descrizioni di femminili figurine flessuose); piede bien attaché sottile, ben arcuato. Aggiunge l’Autore che piede femminile di siffatto genere offre tant d’attrait aux imaginations friandes (La fille aux yeux d’or, p. 300). Frase che, sia detto di passaggio, desta nel pensiero dello psicologo l’idea di uno speciale aspetto della psicologia profonda – o semiprofonda – della sensibilità balzacchiana. Si tratta di stati e movimenti psicologici che sono, nella loro forma crepuscolare, generali o quasi generali alla psicologia umana e che non possono davvero, quando si presentano e si manifestano, rientrare nel campo della anormalità, ma allora che su di essi si insiste con certa tal quale predilezione, vi è da supporre che si cominci ad allontanarsi dal campo della normalità stessa o ci si avvicini al margine estremo di essa.

  «Ecco ora una gentildonna: Mathilde de Chargeboeuf, bella, nobile e ambiziosa. Si descrivono di essa – bianca, smagliante, di belle e squisite linee della persona – la pienezza del collo, la purezza delle giunture, la ricchezza dei biondi capelli – di un biondo elegante – la grazia del sorriso ... Occhi belli, fronte ben disegnata, movimenti nobili, linea svelta ... Bella mano e piede stretto (Pierette (sic), p. 08). Ed ecco ritratto di giovane fanciulla, Louise de Chaulieu, ritratto preciso che dà indicazioni per le linee del corpo in generale, per le braccia, per il polso, per le spalle, per il busto e per il fianco ... e anche per il piede: si aggiungono l’andatura, la voce, gli atteggiamenti più o meno voluti o ricercati, e poi – per il volto – i capelli con la loro pettinatura, i diversi toni del colorito delle guancie, gli occhi con le loro palpebre e ciglia, il modo di guardare, la fronte, il naso «sottile, dalle narici ben disegnate e separate l’una dall’altra da un grazioso tramezzo color di rosa, imperioso, un po’ canzonatorio, nervoso ...» Le orecchie «hanno piegamenti e ripiegamenti civettuoli, e così bianche che se a pendaglio vi si collocasse una perla questa sembrerebbe giallastra». E poi, ancora, il collo, «dai movimenti serpentini, come quello di un cigno, la bocca, le labbra, i denti, il sorriso, le fossette che con quel sorriso si segnano nelle guancie, anche esse candide (Mémoires de deux jeunes mariées, p. 18).

  Anche le figure volgari di donne non sono da meno per la minuzia descrittiva con cui vengono presentate. Madame Vauquer, padrona della pensione dello stesso nome, è descritta in ogni suo tratto: viso piuttosto invecchiato, grassoccio, naso a becco di pappagallo, mano piccola e grassoccia (potelée), personale grassoccio (dodu), petto sviluppato ... occhio fiancheggiato da rughe, con espressioni che passano dal sorriso di obbligo, all’amaro imbronciamento di chi ha l’abitudine di rivedere i conti ... Una specie di colorito roso, e un ingrassamento in tutta la persona, «prodotto dal genere di vita di quella piccola donna nella sua triste e povera pensione, come il tifo è prodotto dalle esalazioni di un ospedale» ... Invero, «tutta quella persona, così fatta, spiega, la misera pensione, come la misera pensione, a sua volta, implica l’architettura di quella persona» (Le père Goriot, p. 10).

 

  b) Le figure maschili sono trattate con l’ugual cura usata per quelle or viste, quasi che Balzac tenesse dinanzi agli occhi, nel dipingere, una specie di scheda costante, composta con un medesimo numero di rubriche, diremo così, antropodescrittive, da dover riempire coscienziosamente, quale che fosse il personaggio da ritrarre, una dopo l’atra (sic). Per il brutto e sgraziato Graslin, quarantacinquenne: statura, magrezza, capigliatura, colorito acceso del volto tutto cosparso di bitorzoli, occhi, naso, bocca dalle grosse labbra, fronte, zigomi «sorridenti» (sic), orecchie, spalle, busto, gambe sottili «male innestate sulle corte cosce», mani dalle dita a uncino, rughe del volto, sopracciglia «rialzate verso la parte esterna della fronte, indizio di abitudine alle rapide decisioni» (Le curé de village, p. 33). Si noti, d’altra parte, come l’insistente descrizione del fisico di un personaggio e in ispecie del volto, ben appaia già nel primo dei romanzi che il Nostro scrisse allorché quasi improvvisamente mutò il suo genere letterario (facile, fantastico, giovanile) nel genere realista; alludiamo a quel romanzo: Les Chouans ou la Bretagne en 1799 che fu da Balzac considerato come il primo dei suoi veri e propri romanzi, tanto che la dedica di esso a un amico dice proprio così: Au premier ami, le premier ouvrage. In quelle pagine, e proprio nell’aprirsi di esse, lo sconosciuto e misterioso contadino bretone è descritto nel suo fisico con ogni minuzia: corporatura forte e robusta, larghe spalle, grossa testa e muso quasi simigliante a quello di un bue, narici spesse, naso corto, labbra larghe e retroussées che mostravano denti bianchi come la neve, occhi grandi e rotondi, neri, e sopracciglia minaccianti (sic), orecchie pendenti ... e in complesso una faccia abbronzata i cui angolosi contorni offrivano una vaga analogia con il granito che forma il suolo del paese di cui quel misterioso abitante viveva.

  E si potrebbe continuare richiamando cento altri personaggi!

  Altra vera scheda di segnalamento, o carta d’identità, è quella che descrive il volto e la persona del cavaliere de Valois e riferentesi alle seguenti parti o caratteristiche: il cranio, le sopracciglia, i capelli, la pelle, le mani, il naso «magistrale», la parte destra e la parte sinistra del volto, l’orecchio, la fronte e le rughe, la statura, le gambe, il tipo costituzionale (organisation nerveuse assez vivace), la voce ... (La vieille fille, p. 2). E per il nobile, austero, barone du Guénic, gentiluomo di vecchissimo stampo: statura sa già del corpo, costituzione, contorno del viso, rughe, fronte, naso, bocca, labbra, mento, pelle, capelli, occhi, sguardo, ciglia e sopracciglia, spalle, petto, mani, colorito, espressione del volto così calmo qui ressemblait à l’impassibilité des Hurons (Béatrix, p. 22).

  c) Fotografie, dunque, così di donne come di uomini, e più che fotografie poiché se ciascuna di esse in ogni sua parte esprime la obiettività e la precisione dei tratti, quante son pur vivificate dall’indicazione del significato psicologico di cui quei tratti sono sintomi! Sono pur illuminate, per così dire, da quella fosforescenza di aggettivi e di giudizi – più o meno sentimentali e romantici – che mai abbandonano lo spirito osservatore di quel narratore realista che mai può dimenticare di essere un lirico e un poeta. La descrizione, ad esempio, dell’occhio della bella Esther occupa più di una pagina: arcata sopraccigliare profonda, sotto la quale si muove un occhio brillante, arcata sopraccigliare netta e precisa come una volta architettonica, rivestita e illuminata da tutte le tinte pure e diafane della giovinezza; la luce scivolando tra le pieghe che circondano quell’occhio vi si arresta prendendo tinte rosate, suscitando tali dolcezze e chiarori di beltà da render disperato un amante o un pittore; pieghe luminose, in cui l’ombra assume tinte dorato sicché quel tessuto carneo sembra prendere al tempo stesso la consistenza di un tessuto nervoso e la flessibilità di una delicatissima membrana. Quando quell’occhio è in riposo appare esso, sotto la sua profonda arcata, come un uovo posato su seta; quando si riempie di malinconia, tutto il contorno si fa oscuro e il sottile intreccio di fibre sottilissime si increspa. Taglio orientale e palpebre d’Oriente, colore dell’iride di un grigo (sic) ardesia «che prende alla luce la tinta azzurrastra delle ali nere del corvo», sguardo pieno di una tenerezza che ne addolcisce lo splendore, ma sempre pieno di fascino. Un fascino, tuttavia, non duro e terribile, ma soffuso di un dolce calore che desta tenerezza, e non stupore facendo disciogliere, sotto quella fiamma, le più dure volontà ... (Splendeurs et misères des courtisanes, p. 38). Bizzarra descrizione, in cui è strana mescolanza di fisiologia, di romanticismo, di psicologia e — staremmo per dire — di seicentismo, ma ben indicante la maniera, cara all’Autore, di insistere nel descrivere. Si veda anche, e meglio, come si descrive l’occhio — e anzi, la sola pupilla della giovane Véronique, in estasi dinanzi all’altare. La pupilla, fortemente contrattile, sembrava in quell’istante allargarsi e respingere l’azzurro dell’iride che non si presentava allora se non come minutissimo cerchio: quella metamorfosi dell’occhio diventato così vivo come quello dell’aquila, contribuiva a trasformare in strano modo l’espressione del volto. Effetto di una tempesta di passioni represse, o vivace forza venuta su energicamente dal profondo dell’anima? (Le curé de village, pag. 18). Ancora per l’occhio, e ancora per Véronique, ma al momento del dolore, delle lacrime e del rimorso di lei, si ascolti con quanta minuzia è descritta qualche particolarità: all’angolo degli occhi, là dove comincia a profilarsi il naso, chiazze madreperlacee; la rete azzurra dei minuscoli vasi sanguigni vi pulsa con colpi precipitati e appare ingrossata a motivo del correre che dentro vi fa il sangue per portare in quel punto il suo nutrimento alle lacrime; il cerchio bruno, sotto gli occhi si fa, nero nella sua parte superiore mentre le palpebre prendono il tono del bistro e si fanno orribilmente rugose (Le curé de village, p. 167).

  Talvolta, e sempre per l’occhio, la descrizione del colore dell’iride si fa con tanta studiosa precisione da destare invidia alla più moderna tecnica del segnalamento giudiziario. Gli occhi del già rammentato Graslin, sono grigi, tigrati da raggi verdastri dipartentesi dalla pupilla e disseminati da punti brunastri; occhi avidi – si aggiunge – vivi, che vi andavano in fondo al cuore, occhi implacabili, pieni di risolutezza, di rettitudine, di calcolo (Le curé de village, p. 33). Lasciando da parte l’ardita interpetrazione psicologica che Balzac dà a quell’occhio e considerando senz’altro le indicazioni «colorimetriche» dell’iride (grigia, raggi verdastri, punti brunastri), chi conosce il così detto «ritratto parlato» usato dal segnalamento giudiziario scientifico (e creato da Alphonse Bertillon) trova che la descrizione balzacchiana singolarmente si avvicina a quella che più tardi sarà adoperata usando il metodo scientifico in questione. Il quale, ad esempio, per indicare il colore dell’iride, dà tre note: il numero di classificazione basata sulla quantità di pigmento; il colore dell’aureola; il colore della periferia. Un’iride, ad esempio, pigmentale in castagno, può essere indicata, secondo le tre note di cui sopra, come segue: classe quarta; aureola radiante, castagno medio; periferia ardesia-giallo-verde-scuro. Singolari coincidenze tra la terminologia segnaletica moderna e quella balzacchiana!

  Delle persone come sopra descritte nel loro volto e negli essenziali tratti della persona, voi vedete effettivamente la figura e gli atteggiamenti. Inoltre, come già abbiamo indicato, per ognuna di quelle persone si ha assai minuta descrizione del come siano esse vestite, dal cappello alla punta delle scarpette, senza dimenticare un bottone, un ricamo, un nastro ... sicché il lettore scorge davvero dinanzi a sé quelle fantastiche creature come creature vive, e tali infatti esse escono dalla scena del romanzo per entrare tra la folla degli uomini vivi con i quali si confondono in maniera che voi più non giungete a distinguere quali siano le vere, di carne e ossa, e quali quelle che uscirono dalla fantasia — nutrita di realismo — del romanziere, e che in perpetuo continuano a vivere intorno a voi e in perpetuo vi accompagnano.

 

5. - Il «segnalamento giudiziario» ... da affidarsi a Balzac?

 

  La descrizione dei personaggi figuranti nella Commedia si presentava in così impressionante rilievo da suscitare nel pubblico di allora discussioni e critiche, oltre che consensi, e persino scherzosi suggerimenti domandandosi da qualcuno, su per i giornali, se non sarebbe stata ottima cosa incaricare il signor Balzac di stendere, negli Uffici della Prefettura di polizia, il segnalamento delle persone da ricercare e da mettere in arresto. Si sarebbe avuto con ciò piena sicurezza che i segnalamenti sarebbero stati redatti con maggiore efficacia di quel che non risultasse dai soliti modi allora in uso negli Uffici di polizia (articolo di A. Nettement nella «Gazette de France» del 24 febbraio 1836). E ciò quando già Balzac aveva pubblicato Les Chouans, La peau de chagrin, Sur Catherine de Médicis, La femme de trente ans, L’auberge rouge, Louis Lambert, Le médecin de campagne, Eugénie Grandet, Histoire des treize, Le colonel Chabert e cento altre avventure di vita, di fantasia e di passione ... A quell’epoca, si noti, già esisteva negli Uffici di polizia un grossolano sistema di segnalamento ... che ancora rimase quasi intatto, e cioè ingenuamente primitivo ed equivoco, sino a che il nuovo sistema, detto del segnalamento antropometrico e quello del ritratto parlato non vennero a sostituirlo ... Ma potrebbesi forse dire che, se si fosse accettata, la proposta della «Gazette de France» e si fosse affidato al signor de Balzac l’incarico di dirigere un Ufficio di identificazione giudiziaria, le cose avrebbero preso miglior cammino?

  Come che sia, Balzac fu e rimase il preciso incisore raffigurante volti umani e figure figurine che, uscite dall’Universo del suo spirito in contemplazione della vita, andarono errando e peregrinando, sempre vive, per il mondo. [...].

 

7. – Tornando alla «teoria» fisognomica di Balzac.

 

  Ripetiamo che la descrizione «realista» dei caratteri fisici di un personaggio è fatta da Balzac anche e soprattutto perché Egli vede in ciò che potremmo chiamare l’«alfabeto della fisonomia» il libro dell’anima; vedeva anche, in quell’alfabeto, tracce impresse dalle vicende della vita e dall’atmosfera in cui l’individuo era vissuto. Di qui, la necessità di tutto descrivere, per ben vedere ... e per tutto comprendere. Anzi, qualche accenno balzacchiano par voglia mostrare il sopraddetto rapporto tra il volto, l’ambiente, la vita e lo spirito, come segue: «la vie habituelle fait l’âme et l’âme fait la physionomie» (Le curé de Tours, p. 240), aforisma che darebbe luogo a non poche discussioni e, forse, a qualche correzione. Ma non è il caso di insistere su ciò. Si veda, piuttosto, a proposito di tale «lettura» dello spirito per mezzo della fisonomia. qualche esempio.

 

a) Il volto e lo spirito.

 

  Ecco quanto mostra, con i tratti del viso, il ritratto del vecchio, austero e geniale Joseph Bridau appeso alla parete del salotto dalla pietà della vedova: sulla fronte si leggeva fermezza di carattere; nell'occhio, serenità e fermezza insieme: labbra prudenti testimoniavano sagacità (la sagacité de laquelle ses lèvres prudentes témognaient), sorriso aperto e franco. Guardando quel volto ben si comprendeva come quell’uomo avesse sempre compiuto il proprio dovere; a ragione era stato definito justus et tenax (Un ménage de garçon, p. 18). Per contro, la maligna e piuttosto perfida Mademoiselle Gamard, vecchia zitella, macchinatrice di loschi intrighi contro il povero abate Birotteau, ha sorriso di un acido canzonatorio (aigrement moqueur) e negli occhi una vampata di fiamma che li faceva simigliare a quelli di una tigre (Le curé de Tours, p. 266). Materiali appetiti traspaiono pur dal volto: «il movimento delle labbra di Madame Descoings, già detta la belle épicière, faceva trasparire il segno della ghiottoneria» (Un ménage de garçon, p. 69). Si senta ancor questo: nelle prime pagine di Béatrix, quando si presenta il vecchio barone vandeano da Guénic, e se ne descrive il volto (netto contorno del viso, disegno della fronte, severità dei tratti, inflessibile linea del naso) si dichiara che quelle linee sono rivelatrici di «una intrepidità disinteressata, di una fede sconfinata, di una obbedienza che non discute, di una fedeltà che non transige, di un amore che non conosce incostanza ... un granito, granito bretone trasformato in uomo» (p. 28).

  Continuando, ecco il buon abate Gruncey che da una sola occhiata al bel ritratto della duchessa di Argaiolo subito commenta ... come se fosse, davvero, un discepolo di Lavater: «Donna che, dai suoi tratti, ben si vede esser nata per regnare; sta la fierezza su quella fronte implacabile; donna che mai perdonerebbe una ingiuria, vero arcangelo Michele, inflessibile nell’eseguire la punizione. Carattere angelico, ma carattere che lui ha per divisa: tutto o nulla! Un non so che di divinamente selvaggio è diffuso su quel volto» (Savarus, p. 306). Chi mai, fosse pure un Lavater in persona, oserebbe leggere tante cose in un viso di donna? E che cosa dice la fisonomia della bella Ortensia Hulot? Su di essa erano un movimento appassionato, un’esplosione di giovinezza, una freschezza di vita, una ricchezza di salute che vibrava emanando da quel volto e producendo raggi elettrici (La cousine Bette).

  Singolare pittura, diremo così, di carattere somatico-psichico è tratteggiata da Balzac per il volto di Re Luigi XI dopo aver fatto notare che romanzieri e storici hanno sempre sostato a descrivere il bruno vestito di quel re e il suo singolare berretto ornato di medaglie e medagliette mentre «nessun scrittore o nessun pittore ha rappresentato il volto di questo terribile monarca». Volto malaticcio. incavato, giallo e oscuro, i cui tratti esprimevano una amara astuzia, una fredda ironia: in quella maschera, una fronte di grande uomo, solcata dalle rughe e carica di aridi pensieri: ma sulle gote e sulle labbra un non so che di volgare e di comune. Gli occhi, di un giallo chiaro, pur sembrando spenti avevano una scintilla di quel coraggio e di quella collera che essi covavano (Maître Cornélius, p. 291) Tutta un’anima, Balzac crede vedere in quel volto.

 

b) La persona e lo spirito.

 

  Del resto, questa lettura dell’interno, dall’esterno, si fa da parte di Balzac guardando non soltanto il volto, ma l’insieme tutto della persona (gesti, atteggiamenti, tipo costituzionale, voce ... e persino l’abbigliamento). Ecco qualche esempio.

  Della belle épicière Madame Descoings si dice: media statura, grassoccia, fresca, belle spalle, colorito leggermente roseo, capelli di un biondo castagno. Si tratta, diremmo noi, di una brevilinea dal carattere dolce e quieto? Il narratore ci dice, infatti, che teneva essa a ben mangiare: donna di lieta e piacevole compagnia, non contrariarsi alcuno e sapeva piacere per la sua gaiezza dolce e comunicativa, pronta a comprendere lo scherzo (Un ménage de garçon, p. 13, 14). Nella novella: Le message il nostro Balzac fa vedere al giovane che porta una funebre notizia al conte de Montpersan, mai per lo innanzi da quel giovane conosciuto, tutta la vita del conte dall’esterno aspetto. «In quell’uomo era un qualchè del magistrato e, anche più, un qualche dell’alto impiegato di prefettura, tutta la importanza di un sindaco di piccolo capoluogo, l’acidità di un candidato di continuo bocciato alle elezioni politiche, un incredibile mescolanza di buon senso campagnolo e di stupidità: nessuna affabilità ma la morgue de la richesse, una gran sottomissione verso la moglie, pronto tuttavia a cancellarla se ne fosse stato il caso (Le message, p. 265).

  Abbiamo detto che Balzac vede in un volto umano, caratteri congeniti – rivelatori dello spirito – e caratteri acquisiti in forza della pressione ambientale e delle vicende della vita vissuta dal personaggio che Egli descrive. Medesima visione per ciò che riguarda i caratteri della persona nella sua architettura e nei suoi movimenti. Ora, di questa «pressione» ambientale e altra sul volto e sulla persona ecco qualche quadro.

  Il volto del giudice Bongrand, brav’uomo quanti altri mai, è volto «non già pallido, ma impallidito, perché le preoccupazioni, i disinganni, il disgusto, vi hanno lasciato impronta». Inoltre, volto «in cui il costante riflettere e le continue contrazioni cui sono obbligati coloro che debbono tacere o parlare a metà, avevano lasciato solchi e rughe» (Ursule Mirouet, p. 47). Vultus, dunque, in silentio loquitur, svelando non solo l’intima natura dell'uomo, ma pur le avventure della sua vita! Le due tracce si confondono di sovente: quando il bel volto della contessa Angélique de Granville a poco a poco trasmutò, con il passar degli anni, l’armonica regolarità dei suoi tratti in linee rigide e dure, Balzac si domanda, nel descrivere tale trasformazione, se essa era dovuta ad una lenta acquisizione prodotta dalle continue ed esagerate pratiche ascetiche cui la contessa si dedicava o piuttosto ad una innata e congenita siccità dello animo (sécheresse naturelle) (Une double famille, p. 324). Anche il viso del colonnello Chabert porta impressi i segni della profonda natura di quell’uomo e delle tragiche vicende della vita di lui. Il funesto e quasi immobile volto era tutto solcato dai segni di un grande dolore dovuto a una miseria fisica e morale «che l’aveva degradato, come il cader delle gocce dal cielo su un bel marmo vengono a poco a poco a sfigurarlo» (Le colonel Chabert, p. 109).

 

8. – La falsa fisonomia ... e le due facce.

 

  Non vorremmo dimenticare la sottile osservazione balzacchiana concernente non già la distinzione tra fisonomia congenita e fisonomia impressa dall’ambiente e dalla vita, ma tra — per così dire fisonomia vera e fisonomia falsa, ingannatrice, una specie di maschera (quest’ultima) che l’individuo pone, per ipocrisia, sul proprio volto. Tale il caso del volto di Sylvie Rogron, volto raggrinzito: la vera fisonomia, naturale, avrebbe fatto spavento anche a un Cosacco, mentre la maschera era di una straordinaria mimica, tutta sorrisi, accompagnata da parole che suonavano con voce douce et pateline (Pierrette, p. 25).

  Speciale rappresentazione del doppio volto di un individuo — un volto, per così dire esterno, e un volto interno — è fatta da Balzac in quel romanzo dal titolo: Le curé de Tours (p. 288) in cui il Nostro faceva dialogare un certo intrigante Troubert con una ricca dama. L’intrigante diceva una cosa ma il romanziere, al tempo stesso, scriveva tra parentesi ciò che l’intrigante in quel momento pensava e che significava proprio il contrario di ciò che era stato detto. Il dialogo, diremo così, a doppio fondo continua per lungo tempo. [...]. Il pazzesco musicista Gambara aveva bensì la parte superiore del volto richiamante impressione di dolore e di vecchiaia con la sua fronte scoperta, solcata da rughe, le tempie incavate, gli occhi incassati sotto l’orbita, ma «la palle inferiore del viso esprimeva il vero aspetto della giovinezza grazie alla tranquillità delle linee e alla dolcezza dei contorni» (Gambara, p. 130). Due volti (alto e basso) par abbia anche il conte Octave de Bauvan: la fronte, troppo ampia, metteva spavento come se fosse quella di un pazzo ... mentre la parte inferiore finiva bruscamente e quasi a punta, subito sotto il labbro (Honorine, p. 16). Anche due volti ha Ginevra Piombo: la parte superiore esprime passione, ma la parte inferiore dolcezza e bontà (La vendetta, p. 186). E via di seguito per altri volti.

 

9. – Descrizione e interpretazione del tipo costituzionale.

 

  Quando Balzac mette e fa muovere sulla scena delle sue narrazioni i suoi personaggi, non ha cura soltanto di mostrarne il volto ma ha pur costume di trarre dalla propria tavolozza qualche vivace colore — pieno di una luce frammista di realtà e di fantasia – che del personaggio dipinga l’aspetto generale del corpo nelle sue linee fondamentali, nelle sue proporzioni e anche nelle sue particolarità. Descrive, quindi, Egli ciò che oggi noi chiamiamo la «morfologia costituzionale» del personaggio stesso: Nè (non si dimentichi) ciò Egli fa per ubbidire alla sua passione, o metodo, di tutto guardare e descrivere con obiettività da osservatore realista, ma anche e, forse, soprattutto per preparare il lettore alla comprensione delle caratteristiche mentali e morali del personaggio in tal modo descritto.

  Architettura corporea... e psichica, dunque, dei personaggi della Commedia umana, e a tal riguardo si noti che, se psicologi, critici letterari e anche criminalisti e medici, hanno più di una volta guardato il volto dei duemila personaggi della Commedia umana balzacchiana ... mai si accorsero che di quei personaggi Balzac ha pur visto e descritto con minuzia l’architettura corporea nel suo insieme e nei suoi particolari. Vale perciò la pena di insistere alquanto sul tema, tanto più che nelle descrizioni balzacchiane cui alludiamo, pur appaiono, o quasi, non solo i vari tipi costituzionali come oggi si dice quali sono sentiti e visti dalle moderne ricerche scientifiche, ma pur i sottotipi; figure costituzionali che, sempre secondo Balzac, e non a torto, sono in rapporto con la psicologia dell’individuo e, quindi, con la sua condotta in Società. Anche nella Commedia umana, allora, si troverebbero tracce ... di una morfologia costituzionalistica?

 

a) Le fonti delle descrizioni balzacchiane.

 

  Orbene, quando Balzac dipingeva l’architettura corporea dei suoi personaggi, traduceva Egli — senza alcun dubbio — le impressioni che la sua acuta sensibilità riceveva dai di fuori, sia pur attraverso il variopinto filtro, tessuto di immaginazione e di poesia, proprio alla personalità di lui; le descrizioni, perciò, che Egli fa del tipo morfologico dei suoi personaggi debbono aver avuto come fonte diretta l’osservazione della realtà. Ciò non per tanto, è pur da dirsi che Egli, avendo respirato nell’atmosfera del secolo le idee, i concetti e i preconcetti che allora si nutrivano nei riguardi dei rapporti esistenti fra la struttura corporea dell’uomo e i suoi caratteri mentali e morali, dovette di necessità attingere a tali concezioni e cercar, più o meno coscientemente, di avvalersene tratteggiando i suoi disegni e stemperando i suoi colori. Le idee in questione erano in gran parte costituite, oltre che dalla popolare dottrina sui temperamenti, da ciò che aveva insegnato con aforismi e figure il testo di Lavater ... di quel Lavater che tanto spesso Balzac si compiaceva citare. Si aggiungano i numerosi trattati e trattatelli, di carattere più o meno popolare, che riproducevano a frammenti le vecchie e le meno vecchie descrizioni in proposito e che non dovevano essere ignoti al nostro romanziere. [...].

 

b) I rari tipi costituzionali della «Commedia umana».

 

  E’ innegabile che Balzac abbia definito nella folla che gli stava d’intorno (e che gli servì senza dubbio di modello per le sue creazioni) due tipi morfologico-costituzionali opposti: il longilineo come oggi si direbbe, e il brevilineo, descrivendo a chiare linee, ora uomini lunghi e secchi, ora uomini corti e rotondeggianti (con cenni sulle ripercussioni che tali strutture possono avere sullo spirito e sulla condotta), dei quali tipi opposti pare abbia visto anche le sottovarietà. [...].

 

c) I due tipi opposti: lunghi e brevi.

 

  Il tipo lungo e piatto, da un lato, e il rotondo dall’altro – con le loro connessioni psicologiche – si mostrano assai bene in rilievo nella folla dei personaggi balzacchiani. Eccovi subito le due opposte figure, Clotilde de Grandlieu da un lato e Madame Jeanrenaud dall’altro, due ben diversi esemplari morfo-psicologici. Corpo secco e magro, la prima, quasi un asparagio; tanto è piatto il busto, sul petto, da non ammetere (sic) neppur in alcun modo una qualsiasi imbottitura. E’ vero che quelle linee rigide e dure potevano far pensare, scrive Balzac, ai profili delle antiche statuette medioevali staccantesi sul fondo delle nicchie delle cattedrali (poetica associazione di idee), ma i cinque piedi e cinque pollici di statura della nobile giovane avevano per effetto il mostrare quella donna come se fosse tutta gambe (elle était toute jambes), tanto che in ultima analisi quel difetto di proporzioni dava al tronco (breve e corto in confronto con le gambe) un qualche di deforme. Una tavola piatta, in conclusione (une prestance de planche) (Splendeurs et misères des courtisanes, p. 89).

  L’altra invece, Madame Jeanrenaud, ha una certa faccia rotonda come una pallottola. Tutto in quella brava donna era rotondo. Petto ridicolmente voluminoso, polpacci enormi da far pensare ai piloni di un ponte: del resto, così voluminosa e tonda «da non essere in grado di chinarsi per allacciare le stringhe dei propri stivaletti». Camminando o, meglio, scendendo una scalinata, sembrava rotolasse (L’interdiction, pp. 261-262).

  La prima longilinea – ha pur sulle labbra un certo senso di ironia; ha l’occhio piuttosto freddo e impassibile; è di carattere fiero e contegnoso. La seconda è gioviale e chiacchierona. Poco manca che Balzac non ci dica che la prima è una longilinea introvertita, mentre la seconda è una brevilinea extrovertita e cioè la prima è rinchiusa nell’interno del proprio Io e tra le quattro mura, senza finestre, della propria abitazione psichica, mentre la seconda sta perpetuamente affacciata al balcone per veder quel che accade.

  Insomma, e soprattutto, si prenda nota del fatto che Balzac aveva ben visto l’indice della longilineità (o della brevilineità) non tanto – come erroneamente taluno fa – nell’alta o nella bassa statura, ma nelle proporzioni o rapporti che passano fra il busto, o tronco, e la lunghezza degli arti. Indice, come ognun sa, che costituisce per l’appunto il modo di distinguere il brevilineo (arti corti relativamente allo sviluppo del busto) dal longilineo (arti lunghi in confronto col busto).

  Ancora due morfo-psicologie, diverse e opposte, per diversità di tipo costituzionale: il magistrato d’Albon e il colonnello Philippe de Sucy. Questi è di alta statura e secco, magro e nervoso: lui viso impresso da rughe. L’altro, invece, ha faccia splendente di salute e gioviale, degna di un seguace di Epicuro. Il primo, nonostante i suoi trenta anni, ne mostra quaranta, mentre il secondo, che aveva oltrepassato la quarantina, pare abbia dieci anni di meno (Adieu, p. 72). Le avventure del primo, di amore e di battaglia, sono agitate e tragiche; il secondo, invece, ha vita dominata dalla ragione, e tranquilla. Le avventure – tragiche o pacifiche – dell’uno o dell’altro personaggio sono state forse dettate, o imposte, dalla struttura costituzionale (morfologica e psichica) dell’uno e dell’altro?

  Ancora due personaggi – in pieno contrasto per le loro linee sono, da un lato, l’abate Troubert, lungo e secco, dal «volto giallo e bilioso», e l’abate Birotteau dall’altro, «grassoccio, rotondeggiante e di tinta accesa in volto». Un volto, quest’ultimo, «su cui si dipingeva una bonomia priva affatto di ogni idea»: uno di quei flemmatici, dunque, lenti e bonari – così lenti negli atti del corpo come nel pensiero – di cui è tradizione nella vecchia e nella nuova teoria dei temperamenti. Per contrario, il viso dell’altro, viso lungo e come incavato da profondi solchi, prende a certi momenti una espressione or d’ironia or di sprezzo. Abbiamo di nuovo sotto gli occhi, dunque, il brevilineo e il longilineo? Questo secco e acrimonioso longilineo, ha per di più capelli rossi, studiato e calmo aspetto del viso, occhi abbassati; la sua fisonomia è grave e oscura: scarsa la parola e bassa: mai sorridente. Soltanto a quando a quando, se un principio di sorriso appariva, veniva immediatamente a perdersi tra le pieghe del viso. Vedete, invece, il buon abate Birotteau, il brevilineo: «tutto fatto di espansione e lealtà, amante del buon pasto e capace di trovare divertimento nelle più fanciullesche bazzecole: vero uomo senza fiele e ignorante di ogni malizia». Guardando il primo – l’uomo secco e arido – ci si poteva sentire (narra sempre Balzac) presi da una specie di involontario terrore, mentre il secondo ispirava fiducia e poteva destare benevolo sorriso. In quanto alle movenze – non davvero dimenticate nella colorita e plastica descrizione – guardate, durante le funzioni sacre, l’uomo secco e lungo avanzare con passo solenne, laddove il piccolo e rotondo «va avanti e indietro senza gravità alcuna, quasi trotterellando e scalpicciando ... Si sarebbe detto ruzzolasse su sè stesso» (Le curé de Tours, p. 233). E allora? Allora, due psicologie, due costumi, due vite ... e due «impalcature» materiali e psichiche!

  Ecco altre due figure, come sopra: il curato de Grancour è piccolo, grasso, dal colorito acceso, dagli occhi azzurri ... Le sue opinioni sono del tutto contrastanti con quelle dell’abate Dutheil il quale è grande e alto, magro, dalle linee austere, rigide, di accento grave (Le curé de village, p. 56).

  Tornando al sesso gentile, tipo brevilineo rotondo doveva essere quella ancor piacente Séverine Beauvisage Grevin che è descritta come di piccola statura, grassoccia, petto di neve ondeggiante e pieno, «in modo da disturbare i movimenti del collo, diventato troppo corto; grosse braccia, carnose, e mani piccole, un po’ troppo grasse». E grasso il piede, troppo serrato nella scarpetta. Nessun particolare, come si vede, sfugge all’attenta e realistica descrizione balzacchiana (Le député d'Arcis, p. 53). Donna vivace, tuttavia, che ben sa condurre la casa e il marito. Anche Madame des Grassins – l’amica di casa Grandet – è «piccola, vivace, grassoccia, bianca e rosa», uno di quei tipi che rimangono ancor giovani a quaranta anni (Eugénie Grandet, p. 41).

 

d) Figure piatte e figure rotonde.

 

  Accennavamo, poco sopra, al descrivere che fa Balzac di facce piatte, servendosi, per l’appunto, di tale termine; l’indicazione corrisponde a quella, analoga, adoperata ai nostri dì da Mac Auliffe il quale parla anche, in generale, di un tipo piatto in tutta la sua forma (in contrapposizione a un tipo rotondo) frequente nei longilinei. «Viso stretto e piatto» ha l’antiquario della Peau de chagrin (p. 313). Anche Rosalie de Watteville è una bionda piatta, fragile e sottile (Savarus, p. 208). Il colonnello Chabert. magro e secco, ha volto appiattito (en lame de couteau) ... (Le colonel Chabert, p. 100). Non dimentichiamo il cavaliere d’Espard che, magro, alto e dritto, ha una faccia – pur lui – en lame de couteau, con espressione fredda e aspra; chiuso in se stesso, quando interroga non guarda in faccia, ma ascolta e tiene lo sguardo a terra (L’interdiction, p. 246).

 

c) Varietà di tipi corti e varietà di tipi lunghi; e altri tipi.

 

  E’ di tipo brevilineo, flemmatico, il giovane Amedée de Soulas? Senza dubbio. E’ di statura media, con torace assai sviluppato, e spalle in armonia con quel torace, cosce rotondeggianti, piede grassoccio, mano bianca e rotondetta (potelée), un grosso volto bonaccione ben colorito (rougeaud), naso schiacciato ... Per di più «a grandi passi si avviava, nonostante i suoi venticinque anni, verso l’obesità» (Savarus, p. 203). D’altra parte, un brevilineo debole e flaccido che sembra trovarsi ai confini della stupidità, è Jérôme-Denis Rogron. Faccia stupida, rotonda, fronte schiacciata. Come suo padre, era grosso e corto. Muscoli rilasciati, pelle flaccida e quasi livida (Pierette, p. 21). Eccone un altro (brevilineo ...) senza la stupidità. ma di piena mediocrità; placido e di mediocre talento quell’onesto Pierre Grassou che con tanta fatica maneggia colori e pennello; «grassottello e di media statura ... con una fisonomia piena di salute ma senza espressione». Sarebbe stato più adatto a fare il garzone in una bottega di colorista, piuttosto che gettarsi nella carriera del dipingere, per quanto in questa riuscisse a toccare ogni onore, grazie per l’appunto alla sua mediocrità (Pierre Grassou, p. 299). Ancora una volta, come si vede, Balzac qui si lascia guidare dalla sua teoria pessimistica [...]. Per trionfare nelle lotte della vita, cioè, occorre essere malvagi o semplicemente mediocri, che infatti i primi — senza scrupoli — grazie alla loro mancanza di probità, alla loro crudeltà, al loro amoralismo, strappano il trionfo, mentre i secondi al trionfo possono giungere quasi senza accorgersene per non avere mai suscitato intorno ad essi timori, diffidenze, invidia. E l’illustre Gaudissart, infine, non è pure un brevilineo contento e gioviale? Statura media, grosso e grasso, «dalla faccia rotonda come una zucca e di colore acceso ... una faccia del tipo di quelle adottate dagli scultori di ogni paese per rappresentare l’immagine dell’abbondanza: ventre protuberante die di profilo simigliava a quello di una pera». Il buonumore, la loquacità e la socievolezza di lui sono in rapporto con il suo tipo costituzionale? (L’illustre Gaudissart, p. 228).

  Si passi ora ai longilinei, in alcune loro varietà. Longilineo bilioso (ipertimico e iperepatico?) doveva essere quel maligno Pierre Petit-Claude dall’aspetto lungo e minuto (grêle, maigrelet) capace di tutto: «Sembrava avesse una certa porzione di fiele versata nel sangue; viso dalla tinta sporca e confusa ... Sgarbato e acre» (cassant et pointu) (Illusions perdues, II, p. 174). Altro longilineo bilioso è Simon Giguet, uomo mediocre, avvocato ad Arcis, «cittadina in cui gli avvocati sono assolutamente inutili». E’ magro, e lui volto dalla tinta biliosa, statura alta. A proposito di che l’Autore si lascia sfuggire questa affermazione: «essere cosa rara che nomo di alta statura sia uomo provvisto di eminenti doti intellettuali» (Le député d’Arcis, p. 14). Singolare veduta. Trova riscontro in qualche aforismo della scuola di Lavater? Altro longilineo bilioso dovrebbe essere quel Sauvager, sostituto del Procuratore del Re, e che è presentato come magro e alto, dalla faccia lunga e olivastra, dai capelli neri e crespi, dagli occhi incavati e cerchiati, dalle palpebre rugose e color bistro: ha naso da uccello da preda, bocca dalle labbra serrate, guance appiattite e consunte dallo studio e incavate dall’ambizione (Le cabinet des antiques, p. 132). Altro longilineo è il misterioso Ferragus. Il nostro romanziere si rivolge proprio al volto di Don Chisciotte e a quello di Voltaire (due celebri longilinei) quando parla del viso di quel suo più che romanzesco personaggio, capo dell’Associazione dei Divoranti, uomo lungo e secco, dal viso di piombo, da cui trasparisce pensiero profondo e di ghiaccio (Ferragus, p. 34). Gli uomini eccezionali, in ispecie nel male o in trame infernali, appartengono spesso — nella Commedia balzacchiana — a siffatto tipo architettonico. Non appartiene forse al medesimo tipo il Mefistofele della leggenda?

  Per finire, ecco Lisbeth Fischer che probabilmente è una longilinea melanconica: fu infelice nella sua adolescenza, assidua ed abile, di poi, al lavoro del laboratorio, selvaggia di carattere, chiusa in sè stessa, «gelosa e vendicativa quasi fosse uno di quei selvaggi che parlano poco e pensano molto», insofferente di giogo, invidiosa, «tormentata inutilmente dagli istinti delle nature forti». Era di capello bruno, di colorito olivastro, tagliente lo sguardo, quasi una canna la sua persona, magra e dalle lunghe braccia. Tipo costituzionale longilineo, introvertito? Più in là il ritratto è ritoccato e completato: viso dalle linee rigide, «secchezza calabrese (sic) della carnagione», rigidità del corpo come se fosse un bastone (La cousine Bette).

  E il tipo atletico? Potremmo vederlo, normotipo ma piuttosto tendente al brevilineo forte, nella figura di David Séchard? Quando madre Natura volle destinare taluno a forti lotte, aperte o segrete (dice Balzac, essa dà a un tale essere linee come quelle di David Séchard, figura maschia, proba e tenace. Egli ha «largo petto, fiancheggiato da forti spalle, in armonia con la pienezza di tutte le forze della sua persona ... Viso colorito, su un collo grosso; abbondantissimi i capelli e neri (Illusions perdues, I p. 26). Non si dimentichi che in tale figura Balzac rappresenta sè stesso.

 

f) Massicci, macrosomatici.

 

  Si ferma più volte il nostro Balzac su una architettura somatica che pare abbia in special modo attratto il suo sguardo: l’individuo — maschio o femmina, longilineo o brevilineo che fosse — di fattura massiccia, quasi gigante e quasi, per conseguenza, nell’ambito della patologia. Grossa e forte, ad esempio, longilinea, è la buona Madame Grandet. Maldestra e lenta nei suoi movimenti, col suo personale lungo e secco, le ossa voluminose, e di gran volume pure il naso, la fronte e gli occhi: bocca sdentata e mento a ciabatta (en galoche). Una atipicità, dunque, diremmo noi, anatomica e cinematica di primo ordine? (Eugénie Grandet, p. 24). Ma bravissima donna gigante è tagliata come un Ercole, piantata su due piedi come tengono al regno della bellezza. Si ricordi anche la disgraziatissima e ottima Nanon, una donna gigante e per di più brutta e angolosa, ma di cuor d’oro, di cui è pittura in Eugénie Grandet; è docile, pronta ni sacrificio e rassegnata. Nanon, la grande Nanon, alta un metro e novantatre centimetri (cinque piedi e otto pollici), è un vero granatiere della Guardia, povera serva per tutta la vita sua, coraggiosa e devota verso l’avarissimo padrone, l’avaro Grandet. Quella donna gigante è tagliata come un Ercole, piantata su due piedi come fosse una quercia, dalle anche robuste, dal dorso quadrato, dalle mani da far concorrenza a quelli di un carrettiere, dalle braccia nerborute (p. 271).

  Ed ecco invece, l’aspro, spietato e avarissimo Grandet, con la sua architettura più che massiccia. «Grande statura (cinque piedi), tarchiato o, se si vuole, grosso e forte (trapu), quadrato, con polpacci di dodici pollici di circonferenza, nodose le rotule delle ginocchia, larghe spalle» p. 15). Si veda quest’altra figura ancora: gigante dalla grossa testa, larghe orecchie e busto forte e grosso come un blocco (di pietra) o come quello di un toro, braccia vigorose e mani spesse, dure, larghe, forti; ventre enorme su due coscie così sviluppate come l’intero corpo di una persona adulta; piedi da elefante. E’ Minore-Levrault (maître de poste) (Ursule Mirouet, p. 6).

  Speciale tipo massiccio e brevilineo è figurato nelle linee dell’ex forzato Jacques Collin, grosso, massiccio, disarmonico; spalle larghe, torace sviluppato, muscoli in rilievo, mani grosse quadrate, viso dai lineamenti duri, voce de basse taille (Le père Goriot, p. 17). Altrove, lo stesso ex forzato, tramutato nel falso abate spagnolo Herrera, è ancora descritto «grosso e corto, con larghe mani e largo torace» (Illusions perdues, II, p. 317). Lo stesso brigante (sotto il nome di Vautrin) è anche descritto con busto d’atleta, mani da vecchio soldato, con grandi e robuste spalle che lo facevano somigliare a una cariatide (Splendeurs et misères, ecc. p. 29).

 

10. – Cervello, cuore, nervi: tre «regioni», tre costituzioni.

 

  Sembra che Balzac abbia anche, sebbene incidentalmente di ciò parli, visto o sentito dire che i diversi tipi morfologici potevano essere in rapporto con lo sviluppo «regionale» (come allora si diceva dagli specialisti) di questa o quella parte del corpo, con relative conseguenze psicologiche. Secondo che, infatti, la regione toracica, o la cerebrale, o il sistema nervoso (come Egli diceva) siano più o meno sviluppati, si doveva avere ripercussione immediata nella struttura fisica dell’individuo e anche nella sua vita mentale e morale. Così, almeno, opina quel fantastico personaggio della Commedia che risponde al nome di Louis Lambert le cui genialità e stravaganze finiscono isterilite nella pazzia e le cui sembianze e le cui avventure psichiche (senza la follia) nascondono la personalità stessa di Balzac. Che cosa è la vita dell’uomo? Così si chiede Lambert in una di quelle sue fantasticherie che spumeggiano tra le nuvole della metafisica e della follia, con qualche baleno di verità. «E’ un movimento che si risolve in ogni essere umano per mezzo del Cervello, del Cuore e dei Nervi. A ciascuna di queste tre semplici e volgari parole corrisponde una costituzione, sicché le varietà umane risultano dalle proporzioni con le quali quei tre principi generatori si trovano più o meno efficacemente combinati con le sostanze che essi assimilano dagli ambienti in cui essi si trovano a vivere» (p. 67). [...].

 

13. - Concludendo.

 

  Insomma, volto e persona degli attori della Commedia umana hanno, nella scena balzacchiana, vivaci tinte realistiche; ma non è da credere che inanellino colori – in quelle pitture – del più alto romanticismo e della più fosforescente poesia. Le due categorie, dal più o meno preciso obiettivismo al lirismo più sentimentale, sono frammiste [...] in quelle descrizioni dei volti e delle persone. Esempi dell’aggettivazione poetica e romantica nel descrivere il fisico dei suoi personaggi, da parte di Balzac? Qui uno solo ne daremo, per la fronte.

  Per la fronte – di cui Balzac pur dà obiettive indicazioni: alta, ampia, presentante in rilievo le arcate sopracciliari, quasi idrocefalo, stretta, bassa, sfuggente, piatta, liscia, prominente, con protuberanze, ecc. – lo stesso Balzac dà anche, con fantasiosa aggettivazione, ben altri segnalamenti, ma sempre (si noti) ben espressivi, per quanto fantasiosi, della psicologia del personaggio a cui si riferiscono. L’irrequieto Marcas ha una fronte «carica di pensieri», Zélie ha fronte «imperiosa», mentre Julie d’Aiglemont ha una fronte «religiosa ... che doveva di continuo cacciare in fuga i peccaminosi pensieri involontari, quei pensieri che dalla nostra imperfetta natura vengono ognor suggeriti» ... «Pura» è la fronte del nobile d’Hérouville, «misteriosa» è quella del colonnello Chabert. Vi è una fronte «implacabile», una fronte «minacciosa», e persino una fronte «militante», come rispettivamente per la duchessa d’Argajolo. per il magistrato Bernard, per il battagliero calvinista Chaudieu. L’aggettivazione quasi fiabesca, ma pur sempre psicologicamente espressiva, del Nostro ci porta persino a vedere una fronte «dal senso profetico» per quella di Louis Lambert, e anche una fronte «sognatrice» che «con le sue ondulazioni arresta la luce» per Honorine, oppur una fronte «da angelo decaduto che è orgoglioso dei suoi peccati, nè chiede perdono» per la fronte di Madame de Beauséant. E la fronte della paziente e sventurata Marguerite Claës? Mostra essa «il peso della sfortuna e gli sforzi compiuti per contrastarla». Vi è anche una fronte «annunciante semplicità di vita» come quella di César Birotteau, per non dire di una fronte (quella della povera e dolce Pauline) «di innocenza biblica» o di quella che è propria all’ateo: (proprio così; ma Balzac, a quanto pare, non aveva una idea chiara dell’ateismo o, meglio, delle dottrine che Egli battezzava come materialiste ed atee, proprie – secondo Lui – agli Enciclopedisti). [...].

  La descrizione realistica balzacchiana, e pur la aggettivazione romantico-psicologica, dello stesso Balzac, e ancor quella – con numeri e con altri simboli – del «ritratto parlato», hanno tutte – ciascuna – il proprio valore nel campo specifico (artistico o scientifico) a cui si riferiscono ed è bene che lo studioso della fisonomia e della persona le tenga tutte presenti.

 

 

  Alfredo Niceforo, I segni del “realismo” e del “naturalismo” nelle descrizioni della “Commedia umana”, «Atti dell’Accademia Nazionale di Scienze Morali e Politiche», Volume LXVI (1955), Napoli, Stabilimento Tipografico Guglielmo Genovese, 1955, pp. 172-217.

 

  [...].

 

  1.— Realista, perché descrive obiettivamente e meticolosamente: A) Il paesaggio, la terra, l’uomo.[4]

 

  Quando si hanno da narrare le lunghe e operose giornate del medico di campagna Benassis, la narrazione si presenta sùbito sotto il titolo: «Le pays et l’homme», vale a dire che il lettore deve innanzi tutto «vedere» il paesaggio, e poi — su quel paesaggio — l’uomo. Si sarebbe potuto leggere in quel titolo, invece di: La terra e l’uomo, la frase: La terra è l’uomo? Da cui la necessità di descrivere la terra per comprendere l’uomo. Anzi, in una pagina di quella medesima narrazione (Le médecin de campagne, p. 85) il nostro romanziere realista (che si mostra anche romanziere «naturalista») si abbandona a una digressione che oggi chiameremmo di geografia antropica per la quale si mette in mostra che la natura della terra e del paesaggio determina — o concorre a determinare — la natura degli abitanti. [...]. Si noti che quadri, diremo così, rustici, non abbondano davvero sulla scena perpetuamente cangiante della Commedia umana, ma vi formano essi eccezione, poiché quasi tutti quei drammi, o commedie, o tragedie, hanno per sfondo la vita cittadina. Ciò nonpertanto è di Balzac l’asserzione, più o meno accosto al vero, indicante che «l’influenza esercitata dal luogo geografico sull’anima umana è cosa degna di nota; se la malinconia invade a poco a poco il nostro spirito sulla infinita sponda del mare, cambiano natura e si innalzano i nostri sentimenti nel silenzio dell’alta montagna; quivi le passioni guadagnano in profondità ciò che sembrano perdere di vivacità» (La femme de trente ans, p. 71). È chiaro che il «naturalismo» e il determinismo di tali vedute, uniti al metodo realista, voluto da Balzac, di tutto descrivere (anche le più banali particolarità) portano come conseguenza la necessità di una minuta descrizione: comprendere un paesaggio è comprendere l’uomo, come comprendere un volto è comprendere l’animo. Non si dimentichi che il Nostro, nel primo dei suoi romanzi di carattere realista — per quanto di un realismo tutto venato di fantasia e anche di romanticismo — e cioè nel romanzo Les Chouans, dà principio o quasi alla narrazione con non poche pagine che descrivono minutamente il vasto paesaggio bretone in cui si svolgerà l’azione: valli e montagne, praterie, siepi, lontani e vaporosi orizzonti, ruscelli e boschetti ... paesaggio che vedrà le lotte, le insidie, le imboscate cui dà luogo la sorda e aspra guerra tra i rivoluzionari della Bretagna e l’armata della novissima Repubblica. D’altra parte, le descrizioni balzacchiane di paesaggi, anche di parchi e di ville tra il verde, sono talvolta disegnate con tanta cura come se si trattasse di carte topografiche: l’abbandonato parco dove sta la villa detta dei Bons-Hommes non è forse descritto nel romanzo Adieu! (sic) con ogni minuzia? Di quel parco si dice della sua distesa in metri quadrati, dei suoi rivoli scorrenti, dei suoi vecchi alberi, di qualche sua grotta ... Nell’insieme, una selvaggia tebaide, con il suo bianco muro di cinta, con il suo selvaggio erompere di piante rampicanti e di licheni che dovunque disordinatamente si diffondono. Per la villa stessa, nel parco, si dice della sua posizione, esposizione, architettura e si descrivono porte, terrazze, finestre (una ostinazione descrittiva da inventario) nel loro disordinato abbandono ... «un disordine pieno di armonia, una distruzione non priva di grazia» (Adieu!, p. 74). Due fitte pagine di descrizione! In altra analoga descrizione di villa e parco in pieno abbandono si diletta Balzac quando presenta il vasto quadro della Grande Bretèche (nel romanzo dello stesso nome); mentre la villa dei Bons-Hommes è la villa ove è accolta la follia (una povera demente vi era ricoverata), quella della Grande Bretèche è la villa ove è stato commesso un delitto: tetto in parte rovinato, persiane eternamente chiuse, nidi di rondinelle tra le inferriate dei balconi, arrugginite le serrature, folte erbe sul limitare delle porte d’ingresso e nel circostante giardino, erbe e arbusti che crescono a fantasia loro; quasi sparita ogni traccia di sentiero. Ancora un inventario? (La Grande Bretèche, p. 170). Ancor qui, la materia in piena disgregazione non sta forse a rivelare un segreto dramma del passato? Ancor qui, due e più pagine di descrizione. Senonchè, quanta diversità tra questo lungo descrivere l’abbandonato giardino e un’altra descrizione — pur di abbandonato giardino — dovuta ad altra penna e ad altra tavolozza: la pittura fantasiosa, cioè, con cui Victor Hugo mostrava al lettore l’abbandonato giardino della rue Plumet! Il giardino balzacchiano è una fotografia, in certo senso, per quanto artistica e a colori; il giardino victorughiano, invece, è una lirica romantica e sentimentale in cui sembra sentir dialogare le stelle con i gelsomini ... Descrizione realista, la prima, per quanto passata attraverso lo scintillante filtro della sensibilità del narratore; pura musicalità la seconda.

  Largo paesaggio campestre — pianure, colline, fiumi, montagne, boschi — non doveva venir ritratto, sempre visto in ogni suo particolare, nel romanzo dal titolo: Les paysans? Un romanzo che si potrebbe chiamare anche di genere storico perché narra in qual modo le larghe distese della grande proprietà terriera, a poco a poco insidiate dall’appetito di piccoli borghesi e di contadini, intorno al 1830, vengono a spezzarsi in lotti di piccola proprietà. Ci si fermi a quella parte del paesaggio in cui è raffigurato il parco con la ricca villa al suo centro. Nessun particolare è posto in dimenticanza, anche modesto, umile e umilissimo: porte e cancelli, siepi, viali, boschetti, rivoli scorrenti, acque immobili, praterie e masse di alberi annosi, padiglioni tra il verde, ecc. ecc., e nel fondo il vecchio castello ancora vestito della sua architettura feudale ecc. ... L’«inventario» del parco occupa una decina di pagine (le prime del romanzo) e vi si aggiunge quello (sia detto ancor questo) dell’interno del castello, salone per salone. Si potrebbe, forse, da tutto ciò ritrarre e disegnare un vero e proprio «piano di architetto» come si fa (possiamo dire ancor questo?) quando da una serie di fotografie del medesimo luogo, ricavate da punti diversi, gli Uffici di fotografia giudiziaria scientifica costruiscono a tavolino il «piano di architetto» del luogo ispezionato e da ogni parte fotografato.

  Le descrizioni balzacchiane di paesaggi diventano pur «fotografie» (ma sempre animate dal colore e dall’estro dell’artista) quando, invece di ritrarre vero e proprio paesaggio, Balzac ne crea uno, così come i sogni — i sogni sono desideri! — di lui lo raffigurano. La bella, appassionata, un po’ capricciosa, Louise (ricca a dovizia) si crea in una sua proprietà terriera, tutto un paesaggio artificiale con boschi, laghi, giardini ove nascondere la felicità che essa si propone godere insieme al suo sposo beneamato; quel paesaggio variopinto e quasi fantastico, con la sua architettura, le sue varietà, i suoi fiori e i suoi cespugli, sembra la realizzazione di un sogno. Se un artista o un poeta di genio si proponesse il problema: se fosse in mia potestà il creare un delizioso luogo di riposo, di sorpresa e di bellezza, tra le cascate d’acqua, i duplici filari degli alberi, le aiuole, sotto i raggi del sole, come dovrei disegnare e colorire? Edgardo Poe ebbe a rispondere a tale quesito descrivendo un luogo di delizie di sua immaginazione (nelle novelle: Il dominio d’Arnheim, e Il villino di Landor), composto così come egli sognava; e la stessa cosa pare abbia fatto la bella Louise. Il nostro Balzac fa di quel mirabile paesaggio una descrizione — stiamo per dire — foglia per foglia, pietra per pietra, che ha una distesa di tre fitte pagine. Un inventario ancora una volta creato e steso da un pittore; anzi, da un miniaturista (Mémoires de deux jeunes mariées, p. 180). Per certo, sarebbe per ognuno di noi una delizia vivere in quel fantastico paesaggio ... ma vi troveremmo davvero quella felicità che ognor si va invano cercando? [...].

 

  2. — Perché descrive obiettivamente e minutamente: B) L’edificio, la casa, l’appartamento, anima ed espressione della vita dell’uomo.

 

  Più numerose delle precedenti — e numerosissime — sono le pazienti descrizioni dell’edificio, della casa, dell’appartamento. Descrivere tutto ciò, per Balzac, significa esporre al lettore, tanto per cominciare con l’edificio, un vero e proprio «piano di architetto» e poi far passare quel lettore dalla porta d’ingresso fino all’ultimo piano attraverso corridoi, stanze, saloni, stambugi, scale e scalette dando al tempo stesso indicazione delle finestre per numero ed esposizione; non si dimentica il cortile e, quando è il caso, non si tralascia di condurvi in soffitta, nella bottega o nella retrobottega, o in cantina. Cortile, ad esempio, pianterreno, scale, cucina, cantina, lavanderia, scuderia, ecc., della vasta e antica abitazione della famiglia Rouget, vengono accennati o descritti facendosi pur menzione dei singoli vani, con il loro caminetto, i vecchi quadri, gli specchi, le poltrone, gli orologi a pendolo, i candelabri a sei braccia e via dicendo (Un ménage de garçon, p. 146). Nel medesimo modo, o quasi, si fa descrizione della pittoresca e oscura casa dello spagnolo Perez da Lagounia ove è nascosta la giovane Maria-Juana Pepita; casa pittoresca con i suoi quadri, le sue armi, la sua cucina, il suo vasellame (Les Marana, p. 7). E il vecchio e grande salone ove il cugino Pons aveva raccolto i tesori del suo museo? È descritto con enunciato preciso della larghezza e della lunghezza, per la durata di parecchie pagine, non dimenticando neppure l’altezza e precisamente 25 x 30 x 13 piedi (Le cousin Pons, p. 501).

  La casa – palazzo e appartamento — di Mademoiselle Cormon, nella vecchia città di provincia (Alençon) è descritta con compiacente minuzia: forte architettura, pesanti pietre, finestre, tetto, grondaie, torrette, ecc.; e ancora: immensa porta, cortile, giardino, grande terrazza fiorita, senza dimenticare le case e casupole adiacenti. Naturalmente, si dà puranco topografia dell'appartamento con indicazione del numero di porte e finestre specificando come siano sormontate le porte da pitture decorative. E così di seguito (La vieille fille, p. 80). Altra minuta descrizione, vero inventario, quando si tratta di far vedere l’antica e nobile casa patriarcale, in Bretagna, della famiglia Guénic, descrizione che si stende per nove pagine. Ecco, infatti, l’edificio con le sue torrette, le gallerie e le balaustre, e poi il portone, il cortile, la scuderia, le cucine, la scala, le sculture, i balconi, con relativa descrizione dei saloni e delle varie stanze delle quali si fanno vedere muri e soffitte, caminetti, mobili, lampade. Non si dimentica il giardino. Anzi, poco prima l’Autore aveva descritto lungamente la vecchia città (Guérande in Bretagna), fatta di antiche pietre e di antiche ombre, quasi medievali. Seguiamo il pensiero di Balzac. «Senza la topografia — dice quel grande descrittore e scrutatore naturalista dell’anima umana — senza la descrizione della vecchia città e pur senza la pittura minuziosa del vecchio palazzo, le sorprendenti figure della nobile famiglia quivi abitante non sarebbero forse esattamente comprese; la cornice e lo sfondo hanno da passare prima dei personaggi. Ognuno vedrà che le cose hanno dominato gli uomini; si danno monumenti la cui influenza ben si fa sentire su coloro che vivono intorno e accanto ad essi» (Béatrix, p. 11, p. 19). Medesima minuzia nel descrivere la casa del vecchio Grandet, una casa «pallida, fredda, silenziosa, sotto le rovine delle vecchie mura »; per più di una pagina si parla (nelle prime pagine di Eugénie Grandet) dei pilastri e della volta, del portone d’ingresso, delle pietre che quell’edificio componevano, della sua architettura, dei vecchi bassorilievi anneriti e corrosi, del fogliame e dei rami che su quelle pietre si arrampicavano e parecchie righe sono persino dedicate a descrivere il martello che serve a battere i colpi sulla porta, E così di seguito, per passare poi all’interno dell’abitazione.

 

  3. — Continuando ... Ed anche anima ed espressione dell’epoca e dell’ambiente.

 

  Non si dimentichi che Balzac vuole essere, ed è, uno «storico», sicché le sue descrizioni di luoghi hanno la giusta pretesa di, per così dire, soccorrere alla Storia che va scomparendo. Talché, appunto nel descrivere qualche angolo della vecchia Parigi in via di demolizione, Egli dice che descrizioni di tal genere possono sembrare fastidiose, ma sono necessarie quando il romanziere voglia diventare, come egli desidera, lo storico della Società che scompare (si vedano le prime pagine di Les petits bourgeois in cui si fa pur cenno delle lunghe descrizioni che figurano in Une double famille). Quest’ultimo romanzo prende principio con due pagine in cui — vera acquaforte dai nerissimi tratti —- si fa descrizione della vecchia strada detta del Tourniquet-Saint-Jean, dedalo umido e oscuro, e di un’antica casa che su quella via si affacciava; in quella casa, due misere stanze a pianterreno, minutamente descritte, piene d’ombra e fredde: «il viso pallido e rugoso della povera vecchia che là abitava era in accordo con l’oscurità della strada e la ruggine della casa ... quei grandi occhi grigi mostravano la medesima calma della strada, e le numerose rughe del viso potevano essere confrontate ai crepacci dei muri» (Une double famille). Sempre a tal proposito, la lunga descrizione della casa borghese — dalle mura esterne ai minimi soprammobili — della famiglia Thuillier, pretende mostrare come «la collocazione e l’aspetto di quella casa, facente cornice e sfondo alle scene di usi e costumi che stiamo per descrivere, esalano un certo profumo di piccola borghesia» (Les petits bourgeois, prime pagine).

  Davvero, la casa con il suo esterno aspetto, con i suoi corridoi, i suoi vani, le sue finestre e i suoi balconi, e soprattutto con i suoi mobili, le sue tappezzerie, le sue lampade, è il volto dei suoi abitanti e ciò, sia perché la casa imprime le sue caratteristiche sull’abitante, sia perché, per converso, l’uomo si foggia a propria immagine la propria casa. La severa e ancestrale dimora, nel silenzioso angolo quasi dimenticato, sulla Senna, dietro il giardino di Notre-Dame, ove abitano, in una specie di clausura, uomini dediti a soccorrere e a beneficare nel silenzio ogni infortunio, è in stretto rapporto con il viso di quegli abitanti. Della dimora in questione Balzac fa una di quelle descrizioni che cominciano dagli esterni scalini della porta, o del portone, e via via vanno insino ai tetti per poi inventariare — ma sempre con i più pittoreschi e con i più suggestionanti tocchi di colore, di luci e di ombre — ogni vano, dalle cantine alle soffitte, tratteggiando, infine, le figure dei suoi abitanti quasi fossero altorilievi ombreggiami sulle pietre di quella casa e plasmati nella materia di quelle stesse pietre; «tutti dal volto freddo e chiuso» (figures froides et discrètes) (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 22). Si veda ancora; la fisonomia della giovanissima Marguerite, figlia dell’ostinato ricercatore Balthazar Claës, fisonomia «di estrema semplicità, di candido e puro aspetto» non era forse «in accordo con le caratteristiche dell’abitazione?» (La recherche de l’absolu, p. 89). Altrove: «Se il lettore trova alquanto lunghe, qui, descrizioni di case e di appartamenti, non si meravigli e non accusi la descrizione stessa poiché questa fa, per così dire, corpo con la storia; l’aspetto dell’appartamento ove abitavano le due vicine del pittore Schinner ebbe influenza non poca sui sentimenti e sulle speranze di lui» (La bourse, p. 148). D’altra parte, l’abitazione di un proprietario avaro e usuraio «non può meravigliare per i suoi toni neri e grassi, per le sue tinte oleose, per le sue macchie e per altri accessori di spiacevole aspetto» (La bourse, p. 149). Continuando, ecco il carattere — o le abitudini del buon medico di campagna dottor Benassis far mostra di sé, secondo Balzac, dalla porta stessa dellabitazione di lui; modesta casa campestre la cui porta di ingresso è minutamente descritta nella sua forma, nelle sue screpolature, con i vecchi pilastri che la fiancheggiano; chi per la prima volta ad essa si accostava poteva «conclure promptement du portail à la vie et au caractère» di colui che là dietro abitava (Le médecin de campagne, p. 19).

  Insomma, necessità di descrivere in ogni suo particolare la casa — paesaggio sui generis — in cui vive l’uomo, per comprendere l’uomo. Realismo e naturalismo (determinismo) al tempo stesso; a descrizioni di tal genere nulla sfugge, sia pure di cose di aspetto o tratto umile e umilissimo e persino volgare o apparentemente trascurabile.

 

  4. — Continuando ancora ... L’arredamento.

 

  Il mobilio, insieme al resto dell’arredamento, occupa gran parte nelle bucacchiane descrizioni di appartamenti. A ragione, infatti, fu detto spellare a Balzac l’avere introdotto per primo, nel romanzo, il mobilio e l’arredamento, insieme alle stoffe, ai vestili e ad altre materiali cose che per lo innanzi — dai narratori romantici o non romantici — venivano trascurate o disprezzate. [...].

  Penetrate nella miserrima abitazione ove l’antico magistrato de Boulac era venuto a nascondere la propria miseria; nella descrizione che di essa si fa troverete inventariate da Balzac, le sdruscite carte da parati, le sedie, la scarsa mobilia ischeletrita, le vecchie stampe a colori appiccate al muro e i frangiati tendaggi delle finestre, poveri e logori (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 214). In quell’abitazione della miseria è il mistero di una stanza, sempre chiusa alla quale nessuno ha accesso, stanza in cui da anni riposava immobile sul letto la figlia del vecchio magistrato inchiodata da ignota malattia: quale lusso principesco tra quelle quattro pareti! Anfore e giardiniere colme di fiori, damaschi, specchi, porcellane, quadri di grandi artisti, poltrone dorate, tappeti, candelabri, lampadari, ecc. ecc. ... Tutto è minutamente microfotografato a colori (diciamo così) dal nostro fotografo pittore (p. 231-32). Si sappia che il vecchio padre Boulac, caduto nella più squallida indigenza, voleva far credere alla figlia dilettissima, immobilizzata sul suo letto adorno di damasco, che l’antica ricchezza non era scomparsa; al qual fine egli sacrificava minuto per minuto le ore della sua giornata cercando mantenere intorno all’adorata creatura il luminoso mistero di quella menzogna, e vivendo di fame e di stenti. Tale situazione, oltre che tale figura di uomo, per un romanziere realista, è sovrumanamente irreale e di una sublime irrealtà. Bella e sublime ... appunto perché lontana dalla verità, da quelle lugubri verità che si trascinano — eterne — nel fango della vita quotidiana; ma Balzac, per quanto realista, ha riempito le sue scene di cotali irreali personaggi e di situazioni le più inverosimili. [...].

  In ogni modo, ceco ancora una minuta descrizione di arredamento che sembra far corpo — e spirito — con il corpo c con lo spirito dell’abitante: l’arredamento dell’abitazione dell’avaro e crudele Grandet, di quel Grandet di cui già abbiamo visto l’abitazione nel suo esterno aspetto, pallido e freddo. Si tratta di porte dipinte di grigio, soffitti a travicelli «striati di un bianco ingiallito», caminetto mal scolpito, specchio verdastro, poltrone tappezzate da vecchi arazzi rappresentanti le favole di La Fontaine, ma così scoloriti che difficilmente potevano essere ravvisati i personaggi che esse rappresentavano, scansie lucide di grasso, e poi un vecchio tavolo, un barometro «ovale cerchiato di nero e da nastri scolpiti su legno dorato ove le mosche si erano date tanta libera licenza da rendere invisibile la doratura », ecc., ecc. ...

  Invero, le descrizioni balzacchiane non sono pazientemente redatte per solo desiderio di descrivere, ma come espressione esterna dell’interno stato d’animo degli uomini; a ragione Brunetière ebbe a dire che «les descriptions de Balzac ont toujours quelque raison d’être en dehors d’elles-mêmes», nell’opera: Balzac, Paris, s. d., p. 72. Poltrone sdrucite, dicevamo, che mai sfuggono all’occhio inquisitore del Nostro: la descrizione dell’appartamento di quella Mademoiselle Cormon (di cui già si è fatto cenno) si diffonde per più pagine con minuzie concernenti l’arredamento (La vieille fille, p. 35-38), mostrando i soprammobili quasi a uno a uno con relativa «fotografia» particolareggiatissima della pendola sita sopra il caminetto e si guarda bene dal dimenticare le poltrone, tappezzate con tessuti di cui si descrivono i disegni indicandosi che qua e là qualche punto della stoffa era stato rammendato.

  E tutta la descrizione della misera pensione condotta da Madame Vauquer in quante mai pagine è presentata, a cominciare dalla facciata della casa e dalla strana indicazione scritta sulla porta: Pension bourgoise (sic) des deux sexes et autre, sino al gatto che in quella casa passeggia da sovrano! Cinque o sei pagine di fitta stampa. Il salotto, di triste aspetto, è «ammobiliato con poltrone e sedie tappezzate di stoffa a righe alternate lucenti e scure». Ed ecco tappezzeria, caminetto, vasi decorativi contenenti fiori artificiali invecchiati e ingabbiati (encagées), ecc. senza dimenticare una pendola di marmo bluastro di pessimo gusto; tutt’intorno quell’«odore senza nome che si potrebbe chiamare odeur de pension» (e qui, insistente accenno alle caratteristiche di siffatto odore). Medesime minuzie per la stanza da pranzo, descrivendosi un arredamento per dare idea del quale Balzac ricorre a nove aggettivi: vecchio, screpolato, marcio, tremante, rosicchiato, monco (manchot), guercio (borgne), invalido, moribondo, una descrizione che il nostro realista vorrebbe prolungare se non temesse il rimprovero di lettori frettolosi. Il realismo e il verismo balzacchiano, tuttavia, anche qui si illuminano con i colori dell’arte: quella casa e quell’arredamento esprimono «una miseria senza poesia, una miseria economa, concentrata, sdrucita (râpée), una miseria che se non è ancora coperta di fango è piena di macchie, una miseria seria che se non è ancora in cenci, sta per cadere nel marcio» (Le père Goriot, prime pagine).

  Il Nostro, che mai dimentica di essere un narratore realista, si sofferma a «inventariare» la miseria come il lusso e cioè appartamenti di miseri e appartamenti di ricchi. Per i primi, ecco ancora l’appartamento o, meglio, la stanza — al quinto piano — di Daniel d’Arthez, là dove il giovane costruiva i suoi sogni d’avvenire e di grande scrittore: una libreria di legno dipinto a nero tra due brutte e scadenti finestre, un povero lettuccio di legno dipinto, un comodino comperato presso un rivendugliolo, due poltrone rivestite di una stoffa di crine (couverts en crin) e al muro una tappezzeria oscurata dal fumo e dal tempo. Inoltre, un brutto cassettone (une mauvaise commode); dinanzi al tavolo, una volgare poltrona da ufficio di cui si indica il genere di rivestimento: pelle di un rosso divenuto bianco per il lungo uso, ecc. ecc. (Illusions perdues, I, p. 225).

  E quale abbondanza di tinte, di luci e di ombre, per descrivere, in parecchie pagine di seguito, la fantasmagorica bottega dell’antiquario satanico, bottega in cui alla rinfusa si presentano i più vari oggetti dai più strani profili e in cui «toutes les oeuvres humaines et divines se heurtaient»: coccodrilli impagliati, invetriate di chiesa, mezzi busti, anfore di Sèvres, girarrosti accanto ad ostensori, sciabole e strumenti vari di morte, e così di seguito per pagine e pagine, con richiami ed associazioni di idee della più alta fantasia e quasi diaboliche, tanto che «si sarebbe creduto sentir uscire da quelle inanimate cose delle grida denuncianti drammi oscuri e si sarebbe potuto intravedere qualche soffocato bagliore di luce» (La peau de chagrin, p. 17). II realismo descrittivo di Balzac non sa abbandonare i più vivaci splendori della fantasia (di questo indissolubile connubio avremo modo di dire più in là) talché la descrizione di quella diabolica bottega fa pensare ad analoghe tinte adoperate da Ernesto Teodoro Hoffmann nella sua descrizione dell’antro della strega — la vecchia Lisa nella immaginosa novella: Il vaso d’oro, veglia V — ma è assai più minuziosa oltre che ricca di quelle note veramente veriste che Hoffmann non adoperava nè voleva adoperare. Si noti che il nome di Hoffmann è più volte citato da Balzac, nei suoi romanzi, con ammirazione.

  La casa e l’arredamento, ripetiamo, sono in armonia — da causa a effetto o viceversa — con l’animo dell’abitante. Il modesto appartamento abitato dalla cugina Bette, descritto stanza per stanza, con le sue sedie, i suoi tavoli, le sue tendine, ecc., e con la sua tappezzeria bluastra e sbiadita die dava a tutto l’insieme, già freddo e monotono, un tono grigio, mostrava i segni — dalla stufa di ghisa sino agli utensili di cucina — di quella mediocrità, di quella freddezza e di quel grigiore che accompagnavano, sino all’asprezza e alla cattiveria, tutta la vita della cugina Bette.

  Nel suo Traité de la vie élégante (Oeuvres, vol. XX, p. 505) Balzac non aveva forse scritto che basta varcare la soglia di una dimora per rendersi conto del carattere di colei che quella casa abita e dirige? Il giovane pittore Schinner, accolto nel povero e misterioso appartamento ove abitava la baronessa de Rouville e la figlia di lei Adelaide, come cerca risolvere l’enigma presentato dalla misteriosa vita delle due donne? Analizzando con furtive occhiate i mobili e soprammobili di quella abitazione: «nos sentiments ne sont-ils pas, pour ainsi dire, écrits sur les choses qui nous entourent?» (La bourse, p. 166). La misera abitazione dell’angelico e candido musicista Schmuke (sic), in tutta la sua povertà, in tutto il suo pittoresco disordine, in tutto quell’abbandono in cui doveva lasciarla l’uomo per intero vivente nel paradiso della sua musica, è descritta lungamente, oggetto per oggetto, miseria per miseria, sino all’ultimo granellino di polvere e all’ultimo straccio, in tre fitte pagine, di «inventario» scrupoloso, obbiettivo, fotografico ... non senza i ritocchi dell’arte e quelli dovuti al sentimento del commosso narratore. Il tutto, appunto, per mostrare la rispondenza tra l’uomo e la casa (Une fille d’Eve, p. 325). Ancora l’animo appare quando si descrive l’abitazione di Agathe Bridau, povera abitazione — tappezzeria gialla a fiori verdi, mattoni rossastri non lucidati, stoffe di seta verde a fiori grigiastri ... disordine dovunque — da cui il senso dell’umile vita provinciale e della fedeltà alle vecchie cose (Un ménage de garçon, p. 17-18).

  Si ascolti, continuando. L’appartamento del vecchio abate Chapeloud — nell’antica, severa, silenziosa, claustrale, casa addossata, nel triste giardino, alla chiesa — è descritta assai a lungo. Le pareti, i pavimenti, le inquadrature delle porte e delle finestre, i mobili (a uno a uno), il caminetto, i tendaggi, le severe bellezze decorative che a poco a poco vengono ad abbellire quel rifugio, hanno il loro tocco di malinconia ma pur un espressivo colore che indica l’ascosa armonia tra quegli inanimati oggetti, ma parlanti, e l’anima dell’abitante, tranquilla, composta, religiosa. L’abitazione è l’uomo. Nessun tedio viene a chi legge quell’inventario, tanto quelle nude cose si vestono di strani riflessi e sembra parlino e narrino storie e pensieri di chi vive accanto ad esse, e tanta è la maestria di colui che ne fa catalogo frammezzando realtà e sentimento! (Le curé de Tours, p. 208). Un’altra anima, ugualmente in piena armonia con quell’ambiente, verrà poi ad abitare tra quelle pareti quando l’abate Chapeloud più non sarà tra i vivi.

  Anche il volto è in rapporto con la casa e l’arredamento? La rigidità silenziosa del viso di Angélique, giovane e austera bigotta, non si trova forse nelle ombre tutte della sua ricca casa natale dalle oscure pareti su cui pendono antichi quadri? E ancor tanto brivido di austera freddezza non si trova forse — il che è peggio — nel grande appartamento che la giovane sposa prepara, di sua libera scelta, mobile per mobile, tappezzeria per tappezzeria, decorazione per decorazione, che dovrà servire di nido coniugale? In quella casa, un’apparenza di avarizia e di mistero, insieme combinati, quasi un’umidità che ricorda l’incenso delle cappelle ... Una specie di meschina regolarità e di povertà di idee si sprigiona da ogni cosa e tutto ciò si imprime nei mobili, nelle stampe, nei quadri. In quell’appartamento, preparato da Angélique, nulla di grazioso e amabile che ricreasse lo sguardo; una specie di vuoto un po’ dappertutto. Di già nell’anticamera colori oscuri e velluti opachi; ora, dall’anticamera non si comincia forse ad avere idea di ciò che può essere l’appartamento? Nello stesso modo — crede poter affermare Balzac — si giudica dello spirito di un uomo dalla prima frase che egli pronuncia, essendo l’anticamera una sorta di prefazione che tutto annunzia ... senza nulla promettere. Angélique proveniva da famiglia ove quel medesimo spirito di sagrestia e di incenso regnava sovrano; anche l’appartamento di quell’antica e rispettabile famiglia, infatti, silenzioso nella sua silenziosa provincia, è lungamente descritto: grande salone dal basso soffitto, in tutto simile al parlatorio di un convento; tinte scure e vecchi mobili simmetricamente disposti; scarsi ornamenti o nulli; sovrastante, un grande Crocifisso di ebano e avorio, tra rami di ulivo dalle foglie appassite, mentre nell’oscurità, alle pareti, appena si distinguono antichi quadri di soggetto sacro. Il tutto, lucido di una lucidità monastica (tout brillait d’une propreté monastique) (Une double famille, pp. 307, 215, 323).

  L’abitazione da un lato, dunque, e l’uomo che l’abita, dall’altro (e cioè, l’uomo che quell’abitazione ha scelto, preparato, arredato) rappresentano rispettivamente — scrive Balzac — lo scoglio e l’ostrica: questa fa corpo con quello. Quale triste aspetto — silenzio, oscurità, disordine, abbandono, eterogeneità di mobili e di oggetti — ha l’abitazione dell’avarissimo e intrigantissimo Gobseck! «Costui e la sua abitazione si rassomigliavano; avreste detto dell’uno e dell’altra, appunto, essere l’ostrica e lo scoglio» (Gobseck, p. 278). Oppure, entrate nella stanza del buon dottor Benassis più volte rammentato, un santo che con la sua vita di assoluta dedizione al prossimo vuole scontare qualche errore di gioventù: è stanza nuda, senza ornamento, con vecchia e scolorita carta da parati al muro, qua e là macchiata, semplice letto di ferro verniciato, ecc. ecc., con accenno alla povertà grigia di squallidi tendaggi, al logoro e breve tappetuccio, tavola e sedie di banale fattura ... e via dicendo. Tutto indicava — mura e mobili — «una vita quasi monacale, indifferente alle cose del mondo, piena di sentimento» (Le médecin de campagne, p. 81).

  Non minore compiacenza nel descrivere, allorché si tratta di arredamenti lussuosi e, diremo così, sfolgoranti. Si ricordi la sontuosa e seducente stanza «dont l’atmosphère était parfumée» di Paquita, la bella dagli occhi d’oro: forma semicircolare, caminetto bianco e oro, divani orientali, masse di cuscini, rosse seterie ai muri, arabescate in nero, ecc. ecc. (La fille aux yeux d’or, p. 324). È precisamente. e quasi senza mutare una linea, il salotto che lo stesso Balzac si era composto nel suo appartamento della Rue des Batailles, descritto da Théophile Gautier. Descrizione di sfolgoranti salotti e di lussuosi arredamenti, anche si trova quando si tratta della sedicente e seducente contessa di Godollo che si spacciava per ungherese ma che altro non era se non una spia al servizio della polizia di Corentin, agente segreto. Tappeti a disegno veneziano, quadri d’autore, tappezzerie di valore, oro e seta dovunque, vasi del Giappone, larghe giardiniere fiorite, panoplie d’armi, bronzi, statue, ecc. (Les petits bourgeois, II, p. 65). Il Nostro obbediva forse non solo al suo precetto metodologico di tutto descrivere, ma anche e soprattutto — in questi casi di descrizioni di arredamenti di lusso e fastosi — al piacere che si procura il sognatore quando, ad occhi aperti, sogna luoghi d’incanto in cui vorrebbe vivere e gioire. Balzac, descrivendo, sognava e si vedeva vivere in quel mondo. Ognun sa quanto l’autore della Commedia teneva a far parte di quel mondo di privilegiati ove nobiltà e ricchezza brillavano di luce sia pure superficiale e talvolta falsa, e ognun conosce le ingiuste critiche che a lui furono mosse per aver descritto quel mondo e quegli ambienti, senza averli compresi.

 

  5. — Continuando. L’arredamento è l’uomo ...ma anche l’epoca.

 

  Riassumendo, l’abitazione e l’arredamento, per Balzac, sono l’anima degli abitanti, sia perché influiscono sul sentire di essi, sia e soprattutto perché costituiscono un risultato, cercato e voluto, della personalità dell’abitante stesso. Ma, si badi: abitazione e arredamento non sono pur in rapporto — faremo osservare — col clima dell’epoca, clima che impone — si può così dire? — la propria «volontà» agli individui che in quel clima vivono? Essi ne respirano l’atmosfera e agiscono saturi di essa senza saperlo; anzi, credono agire di spontanea volontà e in modo autonomo, laddove i figli che li muovono vengono da fuori. Non è, in tal caso, la volontà dell’individuo che sceglie e prepara abitazione e arredamento, ma la volontà dell’epoca. Si tratta ancora una volta della sottile questione: la condotta dell’uomo è determinata, o suggerita, dall’Io-io, o dalla Società? [...].

  L’autore della Commedia, sempre a proposito del valore sintomatico dell’abitazione e dell’arredamento, osò persino trapassare dalle avventure degli individui alle avventure della Storia, affermando — con uno di quegli aforismi tanto spesso ricorrenti nelle sue meditazioni e divagazioni — che dall’architettura e dalle suppellettili si divina la Storia poiché l’intera vita dei popoli, scomparsi o no, si può ricostruire dai monumenti, dalle abitazioni, dagli arredamenti. Proprio come accade per la vita degli individui. «Un mosaico rivela tutta una Società, come lo scheletro di un ittiosauro sottintende e fa comprendere un’intera creazione; nell’uno e nell’altro mondo tout se déduit, tout s’enchaîne; la cause fait deviner un effet, comme chaque effet permet de remonter à une cause» (La recherche de l’absolu, p. 2). Invero, quale diversità di mondi, di esistenze, di attività, rivelano l’antica e poetica lucerna di bronzo, a forma di navicella, sormontata dalla piccola fiamma, e l’attuale, inestetico tubo a incandescenza violacea! Maggiore luce, senza dubbio, in questo ultimo caso, all’esterno ... ma anche maggiore luce, davvero, nell’interno e cioè nello spirito?

 

  6. – Realista, perché descrive obiettivamente e minutamente: C) L’abbigliamento. «Fisiologia» e valore sintomatico di esso.

 

  Evidentemente, Balzac descrive l’abbigliamento dei suoi personaggi — spesso senza dimenticare un bottone o una sgualcitura — dal copricapo alle scarpe o scarpette, per obbedire al suo canone realista che impone di tutto descrivere e che Egli di continuo osservava. In siffatte descrizioni, anzi, ogni particolare che potrebbe sembrare di banale o volgare essenza ha, proprio per ciò, da essere messo in linea. Descrizione realista, in omaggio al realismo, alquanto diversa nei suoi motivi ispiratori dalla minuziosa descrizione del vestire e dell’acconciarsi già fatta nei romanzi storici di Walter Scott. Ma vi è altro motivo ancora e forse più impellente, che sospinge il Nostro a far vedere in ogni suo aspetto (e anche nelle minuzie che a prima vista potrebbero passare inosservate) l’abbigliamento delle sue figure. Balzac fu un ammiratore convinto di Lavater il cui nome spesso ricorre — insieme a quello di Gall — nella sua Commedia [...]. Per la qual cosa non è da far meraviglia se Egli, come tutta la fisognomonia di Lavater e seguaci, porti la propria attenzione su quell’indice rivelatore; d’altra parte, il nostro Balzac non è forse quegli stesso che ebbe a scrivere le vivaci ed estrose pagine su La physiologie de la toilette? Basta guardare la cravatta di un uomo prendendone a considerare — si legge in quegli aforismi — la qualità della stoffa, il colore, e soprattutto il modo con cui essa è stata annodata intorno al collo (pensi il lettore alle larghe cravatte, più o meno artisticamente fascianti il collo, che si usavano ai tempi in cui Balzac scriveva e prima ancora) per giudicare l’uomo (Oeuvres diverses, tomo II, p. 140, edizione illustrata, 1902). Invero, il primo capitolo di quella Physiologie porta proprio questo titolo: De la cravate, considérée en elle-même et dans ses rapports avec la société et les individus. E i guanti? Persino i guanti non sono per Balzac — un Balzac che di tanto in tanto ama i paradossi — un segno rivelatore della condotta? In un suo breve scritto, infatti (Etude de moeurs par les gants, nel giornale «La Silhouette», janvier, 1830 e poi in Oeuvres diverses, tomo II, edizione 1902), l’autore della Commedia si domanda come mai, essendovi una scienza che insegna a conoscere il carattere degli uomini dai tratti della loro fisonomia, non potrebbe pur darsi uno «studio del carattere e delle azioni degli uomini, ricavato dalla ispezione dei loro guanti». Infatti, il nostro immaginoso scrittore, ponendo sulla scena la seducente contessa de S... che possiede, per l’appunto, la sovrana facoltà di ricostruire gli avvenimenti dall’esame dei guanti di coloro che presero parte agli avvenimenti stessi, fa assistere a divinazioni di tal genere compiute dalla contessa in questione «per quanto — dice costei — i ritratti che io vi dipingerò non abbiano tutte le sfumature, così delicate, che Lavater ha saputo dare ai suoi» (p. 134 dell’edizione del 1902).

  Vediamo, frattanto, qualche personaggio.

  Del vecchio papà Goriot ecco la camicia di bella tela d’Olanda, lo jabot ornato di grosse spille, il vestito bluastro, il panciotto di piqué bianco sul quale serpeggia una lunga catena d’oro ornata di ciondoli (Le père Goriot, p. 21). Sentite come veste il conte Maxime: abito nero, panciotto di cachemire di un azzurro cupo, a disegno ricamato con fiorellini di un azzurro chiaro, calzoni neri, calze di seta grigia, scarpette verniciale; attraverso il panciotto, da una delle asole al taschino, una elegante catena d’oro (Le député d’Arcis, p. 107). Per contro, i poveri ed equivoci pensionanti di Madame Vauquer hanno redingotes stinte, dai colori problematici, scarpe come quelle che si trovano gettate all’angolo delle strade dei quartieri eleganti, biancheria più che consumata (élimée), vestiti «che più non avevano se non l’anima». Le donne di quella pensione indossano vestiti scoloriti, tinti e ritinti, adorni di vecchi pizzi più volte rammendati; hanno guanti lucenti per il lungo uso, baveri d’un colore tra il giallo e il rosso (rousse), sciarpe sfilacciate (éraillées) (Le père Goriot, p. 13). Miserie di vestiti, miserie di vita, miserie di anime!

  Ed ecco altre figure ancora, altri vestiti ... altre anime e altre vicende della vita. Il vecchio usuraio Taboureau, curvo, dal viso pieno di rughe, dalla bocca stretta e serrata, dal mento aguzzo e dagli zigomi sporgenti, eccolo avanzarsi vestito, di abito azzurrastro «le cui tasche quadrate rebondissaient sur ses hanches e il cui davanti, aperto, lasciava vedere un panciotto bianco ricamato a fiori» (Le médecin de campagne, p. 75), Quando i due uomini di polizia (polizia segreta e più che segreta) si allacciano, nelle primissime pagine del romanzo (precursore del romanzo giudiziario?) che ha per titolo: Une ténébreuse affaire, non si mostra forse di essi, insieme al volto, tutto il vestito in ogni minimo suo particolare? (p. 18 e seguenti). Di uno dei due — subalterno — si descrivono gli stivaloni a larghi risvolti, le calze di seta piuttosto sporche (siamo in Francia nel 1803 ... e descrizioni di tal fatta contribuiscono davvero a documentare la storia dell’abbigliamento), i pantaloni (piuttosto larghi) di stoffa a coste color albicocca, dalle pieghe logore e con bottoni di metallo, il panciotto di piqué sovraccarico di ricami in altorilievo e — si noti il minute particolare — abbottonato con un solo bottone in alto; due catene d’orologio d’acciaio pendevano a destra e a sinistra dei pantaloni mentre la camicia era ornata con una spilla in cui si incastrava una pietra bianca e azzurra. Abito color cannella dalla coda lunghissima; cravatta rilasciata e a grandi pieghe; alle orecchie due grossi anelli d’oro. L’altro uomo di polizia, invece — superiore — è quasi un elegante dell’epoca: scricchiolavano le sue scarpe sulle quali cadeva un pantalone attillatissimo; uno spencer — moda adottata dalla jeunesse dorée dell’epoca — gli stringeva la vita; il colletto gli saliva fino alle orecchie. Un vero muscadin. In sostanza, tuttavia, due spie. Sia detto di passaggio che da quel modo di vestire, per l’uno e per l’altro dei due, e dalla descrizione dei due volti, Balzac — ammiratore di Lavater — ritrae una quantità di induzioni sul carattere e sulle occupazioni dei due personaggi.

  Larghi ed espressivi tocchi per l’abbigliamento femminile. Si ricordi il principio generale, espresso a tal riguardo da Balzac con il seguente assioma: «la toilette, poesia magnifica della vita femminile ... è per la donna la costante manifestazione dell’intimo suo pensiero, un vero linguaggio, un simbolo ... Quanta gioia in un adornarsi sapientemente meditato!» (Une fille d’Eve, p. 284). Le belle figure femminili, viste in tutta la grazia dei loro acconciamenti, sulla scena della Commedia sono numerose, ognor l’una diversa dall’altra. La bella Clementina Laginska è mostrata nel suo peignoir di seta persiana le cui abbondanti pieghe non nascondevano tuttavia i tesori del suo corpo e la svelta linea della sua vita che potevano ammirarsi attraverso gli spessi veli ricamati di fiori e di merletti; i brillanti colori della stoffa si incrociavano sul petto lasciando vedere il bianco collo; le spalle semicoperte e adorne con ricca guarnizione (La fausse maîtresse, p. 59).

  Insomma, tutta una folla, maschile o femminile, ricca o miserabile, in veste di seta o di cenci, minutamente descritta perché il narratore deve essere — tra l’altro — uno «storico» dei costumi e dell’epoca, equivalente a una «placca sensibile» che riceve ogni impressione, anche minima, dall’esterno ed anche perché il vestito è rivelatore della personalità.


  7. Realista ecc., perché le sue narrazioni espongono: D) volgari registri di prezzi, di dare e avere, e conti di cassa.

 

  [...]. Questo voler mettere innanzi assai spesso il registro contabile della vita economica e finanziaria dei suoi personaggi costituisce, per l’appunto, una delle note che fanno di Balzac un realista, una di quelle note che cercavamo proprio indicare al fine di rispondere alla domanda: perché possiamo dire che Balzac è un realista?

  Di già Brunetière nella sua citata opera (p. 128) metteva in evidenza come Balzac fosse il primo tra i romanzieri a mostrare in qual modo si guadagna, in mestieri e traffici diversi, il denaro e cioè non soltanto con l’economia e il lavoro, ma pur con la speculazione sulle terre o in borsa, con la politica, con la diplomazia, con l’usura, per mezzo di un ricco matrimonio, ecc. ... Temi, davvero, di crudo realismo che furono trattati da Balzac con scrupolosa decisione e corredo di cifre; cercheremo di illustrare con qualche esempio.


  a) Innanzi tutto, preoccupazioni balzacchiane per il denaro.

 

  È da notare, tuttavia, e prima di metterci in cammino, che grande abitudine e passione aveva Balzac per tener conti e maneggiare cifre e preciso scrupolo egli sapeva mettere nell’operare in tal senso ... in parte guidato e sospinto, è vero, dalle sue proprie preoccupazioni e catastrofi di ordine finanziario che quasi di continuo lo assillavano. Nella sua Lettre à propos du «Curé de village», pubblicata ne «L’Estafette» del 17 agosto 1839, quali minuziosi conti, in chiare cifre, espone Balzac a proposito dei franchi che avrebbero prodotto le copie dei suoi libri se questi fossero stati protetti dai diritti di Autore! Anche in una sua lettera datata 15 settembre 1832 da Aix alla sorella Laura, dicendo della sua speranza di recarsi a viaggiare in Italia, fa minuto conto di quanto avrebbe dovuto spendere rammentando al tempo stesso che il suo Médecin de campagne avrebbe pagato tutto; e pur nelle lettere alla madre (22 e 23 settembre dello stesso anno) dà minuti particolari sulle possibili spese di viaggio. Più tardi, in una lettera del 19 luglio 1837 alla sua Contessa, espone i conti finanziari di quasi tutta la sua vita cominciando dalla miseria del 1828 quando viveva nella povera via Cassini con centomila franchi di debiti e senza un soldo mentre gli occorrevano seimila franchi per gli interessi e tremila per vivere, ogni anno. Negli anni seguenti aveva guadagnato (in tre anni) trentamila franchi, mentre i due anni che vennero di poi non gli dettero che diecimila franchi. André Billy nella sua Vie de Balzac, Paris, 1944, ha dato larghe notizie degli impegni e bisogni finanziari, in cifre, che afflissero la vita del Nostro e ricorda i computi, da ragioniere imperterrito, di Balzac a tale proposito. D’altra parte, nel suo scritto: Balzac e il mondo giudiziario (Napoli, 1937), Sergio de Pilato espone e analizza cifre analoghe, sempre uscite dalle preoccupazioni e dalla precisa penna da contabile del Nostro. Anzi, qui si rammentano con quale minuzia da ragioniere perito Balzac ricostituì effettivamente lo stato del patrimonio di un uomo (un certo Sebastiano Peytel) accusato di assassinio, sulla fine del 1838, facendo pur calcolo particolareggiato del patrimonio della moglie del Peytel stesso, patrimonio che Balzac, in base al contratto matrimoniale, tra corredo, crediti, capitale e diritti ereditati, fa ascendere a sessantamila franchi. Il Nostro si era appassionatamente occupato di quell’assassinio che aveva destato grande scalpore e sosteneva — come già Voltaire per Calas — che il Peytel era innocente. Si recò sul posto per compiere un vero e proprio sopraluogo da ufficiale giudiziario ... scientifico; del che parleremo altrove, a suo tempo.

 

  b) Conteggi di denaro.

 

  Intanto, per tornare ai personaggi e alle cifre di ordine finanziario della Commedia, ecco qualche richiamo e qualche esempio.

  Quando, poniamo, dopo aver narrato il lungo dramma, oscuro e pietoso, che si era svolto nella misera abitazione del barone de Bourlac, descritta con tanta passione di romanziere e di poesia, si viene a dire della improvvisa e benefica fortuna soccorritrice che sottrae alla miseria il decaduto barone e i suoi figlioli, Balzac fa intervenire il suo crudo realismo da notaio e da registratore di conti dando particolari sui vari capitoli delle entrate; 1.200 franchi di pensione alla figlia del barone, antico magistrato; 1.000 scudi di pensione al magistrato stesso; 5.000 franchi allo stesso Bourlac quale professore alla Sorbona; 1.200 franchi di stipendio al giovane figliuolo impiegato alla Procura generale del Re (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 245). Nel romanzo: La Muse du département (p. 374) si danno minuti particolari sui conti di cassa di Monsieur e di Madame La Baudraye: dapprima, nel periodo di esose economie, 200 franchi mensili a Madame per le sue piccole spese, 1.200 franchi annui alla suocera, ecc. ... E poi, nel periodo del grande arricchimento; 400.000 franchi in proprietà di Madame che vengono impiegati per acquisto di terreni e bonifiche, 72.000 franchi di rendita al netto di ogni imposta, impiego di 800.000 franchi al 4 e mezzo per cento comperando a 80, il che dà una rendita di 45.000 franchi, ecc. ecc. ... E così di seguito per più di una pagina (id. id., p. 459).

  Ecco, continuando, i conti — chiari e precisi -— della famiglia Thuillier, ima famiglia borghese. La sposa ha 6.000 franchi di gratificazione che, aggiunti alla dote, dànno 30.000 franchi; stipendio del marito, 3.400 franchi; impiego del capitale al 5 per cento su titoli comprati a 60, ecc., ecc. ... Medesimo minuto conteggio delle spese e cioè: 500 franchi al mese per Monsieur Thuillier, 50 franchi al mese per Madame, 40 franchi per la zia, 5.000 annue per le spese di casa ecc. ... (Les petits bourgeois, I, p. 24). Quando, d’altra parte, in altro romanzo, si fa l’elenco delle spese del marito di Armanda de Chaulieu, non si specifica che quel degno consorte non spendeva più di 2.000 franchi l’anno? (Mémoires de deux jeunes mariées, lettera LIV). Allorché — in altro romanzo ancora — il caritatevole e pietoso Alain narra la sua vita e le sue tragedie, in quella narrazione troverete ogni particolare concernente il capitale di 9.000 franchi oro da lui posseduto e posto a un interesse che dà 1.600 franchi di rendita; troverete poi notizia dello stipendio annuo, di franchi 1.500, dovuto allo stesso Alain quale modesto impiegato in' un ufficio del Monte di pietà, più 600 franchi annui per un impiego privato cui Alain dedicava la serata (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 92).

  Per certo, i personaggi dei romanzi dell’epoca, prima di Balzac e intorno a lui, non facevano i conti delle loro misere entrate, o ricche, e delle loro spese, ma il realismo balzacchiano — un realismo da «storico» dell’epoca — maneggia con abbondanza tali cifre. Quando si tratta di spiegare come la saggia Madame Rabourdin manda innanzi con decoro la sua casa, compaiono i numeri delle entrate e delle spese; franchi 12.000 annui di entrata per coprire le spese di una famiglia composta di padre e madre, di due figlioletti, di una cameriera e di una cuoca, famiglia abitante un appartamento dal fitto di 100 Luigi doro (2.000 franchi) ... Tutto sommato, Madame Rabourdin non poteva consegnare al marito, per le minute spese di lui, che 30 franchi al mese (Les employés, p. 138). E i conti dell’avarismo (sic) Grandet? Sono esposti, cifra per cifra, quando costui discute con il notaio Cruchot; 60.000 franchi per la vendita dei pioppi, 600 franchi per il fieno, altri 60.000 franchi per altre entrate, ecc., ecc. ... Anche narrando le vicende della vita del marchese di Rochefide e della sua bella Aurélie Schontz, si fanno con qualche minuzia i conti delle entrate e delle spese, tenuti dalla Schontz: franchi 500 mensili in più dei già concessi per l’abbigliamento, 40 franchi al giorno per il vitto, spese totali 2.500 franchi al mese, ecc. (Béatrix, p. 438). La descrizione, realista e poetica al tempo stesso, della grande proprietà Les Aigues, in Borgogna, non è fatta — framezzo ai colori del realismo e della poesia — senza dar notizia dei conti: oltre la tenuta propriamente detta, con castello, 2.000 ettari di bosco, un parco di 900 arpenti, un mulino, tre métairies, una grande fattoria (ferme) e vigneti, da cui un reddito di 72.000 franchi (Les paysans, I, p. 8). Per-sino quando il giovane Luciano Chardon (che più tardi diventerà Luciano de Rubempré) invita a pranzo il suo nuovo amico Daniel d’Arthez il nostro narratore fa sapere che quel pranzo costò 12 franchi (Illusions perdues, I, p. 227).

  Inutile arricchire l’elenco con altre indicazioni contabili, più o meno analoghe a quelle or riferite (indicazioni che spesseggiano nella Commedia), e in ispecie con quelle che risultano in altorilievo nel dramma travolgente l’onesto e ingenuo César Birotteau, ove con tanta frequenza appaiono conti, preventivi, somme a carico e scarico, ecc., ecc. ... Quanto sopra basti per documentare il minuzioso realismo balzacchiano nei riguardi del problema dei conti e del denaro.

 

  8. — Realista, ecc., perché: E) espone prosaiche minute di colazioni e pranzi.

 

  [...].

  c) Le descrizioni balzacchiane.

 

  Il realismo di Balzac è essenzialmente «fotografico» (sia pure con ritocchi) quando si fa a narrare ciò che mangiano i personaggi della Commedia alla loro tavola, o accanto al caminetto, o addirittura in cucina. Allorché, ad esempio, il giovane Mongenod, nella più tragica miseria e disperata, va a cercare conforto e sostegno dall’amico Alain, questi lo trattiene a una colazione di cui si dà ogni particolare (in tanto dramma e in tanto dolore!): ostriche, vino bianco, frittata, rognoni à la brochette, una fetta di buon pasticcio, dessert, caffè, liquori (L’envers de l’histoire contemporaine, p. 74). Altre precise indicazioni si trovano quando si mostrano a colazione i quattro misteriosi associati nella pensione di Madame de la Chanterie: antipasto di miele pasticciato, burro, ravanelli, cetrioli a fette e sardine, e poi: pesce lesso con salsa bianca e patate, insalata e frutta varia e cioè pesche, grappoli d’uva, fragole e mandorle fresche (L’envers de l'histoire contemporaine, p. 36). Il fastoso banchetto di cui è parola nella novella: Les comédiens sans le savoir (questi commedianti senza saperlo, notate bene, sono gli uomini tutti componenti l’umana Società) ha una minuta di questo genere: sei dozzine di ostriche di Ostenda, sei cotolette cucinate secondo la ricetta di Soubise, pollo con salsa Marengo, aragosta con maionese, piselli, torta con funghi, vino di Bordeaux e di Champagne, caffè, liquori, senza dire dell’antipasto (p. 251). Non si potrebbe essere più precisi di così.

  Minuta è anche la descrizione del portentoso banchetto in casa Thuillier per preparare la candidatura del mediocre Thuillier a consigliere municipale, banchetto cui convengono i grandi elettori. Descrizione «con particolari necessari a conoscersi per la storia degli usi e costumi del 1840» (Les petits bourgeois, I, p. 131), e cioè: brodo in tazza, anatre con olive, pasticcio di carne, anguilla con salsa tartara, braciolette con cicoria, il tutto come prima portata a scelta del convitato; poi; magnifica oca ripiena con castagne, insalata verde con barbabietole, rape bianche inzuccherate, timballo di maccheroni ... «un vero pranzo di nozze da portieri o da lavandaie», ecc., ecc. (p. 132), sino al dessert composto di marmellate, montagne di frutta secca, piramidi di arance, canditi e via dicendo (p. 139). E lo squisito banchetto cui prendono parte gioviali, spensierate e audaci figure di giovani uomini e di giovani donne, descritto nella Peau de chagrin? (pp. 52, 65). Cibi di ogni genere, scintillanti sotto la luce dei doppieri, e anche vini di ogni sorta e cioè vini del Rodano, di Tokay, del Roussillon, di Champagne, e liquori. E poi, fragole, ananassi, datteri, uva, pesche, arance, frutti della Cina e infine veri miracoli di pasticcini e di ghiottonerie seducenti (friandises les plus séductrices). Pur quando la bella Coralie invita a merenda gli amici si dà indicazione di ciò che li aspetta: ostriche, burro fresco e vino di Champagne (Illusions perdues, II, p. 16).

  Si noti che per Balzac il pranzo quotidiano costituisce il più sicuro termometro delle finanze di una famiglia; per la famiglia Marneffe: minestra di erbe cotte nell’acqua di fagioli, fetta di carne con patate innaffiate da una bagna di soffritto (eau rousse) a guisa di salsa, piatto di fagioli e qualche ciliegia di ultima qualità ... il tutto presentato e mangiato in piatti scrostati, posate di alpacca (falsa argenteria), vino di colore equivoco comprato all’osteria vicina; salviette in servizio durante una settimana (La cousine Bette, p. 49). Non si mangia meglio nella pensione di Madame Vauquer: avanzi di montone con patate e pere cotte (de selles qui coûtent deux liards — pochi centesimi — la pièce) (Le père Goriot, p. 44).

 

  9. — Ancora realismo: F) personaggi che parlano gerghi di difesa e di offesa, e altri linguaggi speciali.

 

  I personaggi della Commedia umana quando appartengono al mondo del delitto parlano un proprio gergo, speciale ai criminali ... e anche soggetti non criminali, appartenenti ai più vari e diversi cerchi sociali, framezzano il loro dire con le speciali parole dello speciale linguaggio che è proprio a ciascuno di quei cerchi. Senza dubbio, sì tratta di nuovo «segno» del realismo balzacchiano, poiché prima di lui il narratore di novelle o romanzi si sarebbe ben guardato dal far parlare in gergo vero e proprio i suoi delinquenti (si faccia eccezione per la poesia in gergo criminale che figura nella novella victorughiana Le dernier jour d’un condamné à mort che apparve nel 1829). Già nel 1834 Honoré de Balzac, con il suo Le père Goriot, largamente adopera, per bocca dei suoi personaggi, il gergo criminale vero e proprio, e più tardi, nel 1846 e nel 1847 col suo romanzo: Splendeurs et misères des courtisanes, il nostro Balzac tornerà a metter sulle labbra dei suoi delinquenti l’autentico gergo delle prigioni ... Vero è che Eugène Sue nel 1842-43 aveva pubblicato, con enorme successo, i suoi Mystères de Paris in cui figura una cinquantina di parole di gergo criminale, ma sta di fatto che è anche proprio al Nostro il «segno» realistico di cui stiamo facendo cenno. [...].

  Balzac, infatti, fa spesso parlare taluno dei suoi personaggi con parole appartenenti alla fraseologia popolare e più che popolare; inoltre, si diletta nel riprodurre gli errori di linguaggio — quando mette in scena una pescivendola, una bassa servente, una portiera — che siffatta gente commette ciarlando e chiacchierando; riproduce anche le anomalie e le strane particolarità del linguaggio (come le indecisioni nel profferire la parole, gli intercalari) di questa o quella delle persone che Egli mette in scena; e si spinge persino a riprodurre testualmente, con l’ortografia delle parole che Egli riproduce, la pronunzia straniera dei tedeschi o degli inglesi che Egli presenta ... scusandosi anche di non poter riprodurre in tal modo, ortograficamente, la pronunzia slava di qualche suo personaggio «con quel rafforzamento delle consonanti, con cui la lingua slava (sic) protegge le sue vocali». [...]. Anzi, uno scherzoso modo di parlare in uso tra amici, in quell'epoca, consistente nell’aggiungere alla fine di ogni parola il suffisso rama o nel porre le sillabe rama in luogo della fine della parola stessa, è meticolosamente riprodotto in qualche dialogo; si tratta del così detto — come scrive lo stesso Balzac — «parler en rama». [...].

 

  10. — Ancora descrizioni realiste: G) il volto e la persona degli attori della «Commedia umana».

 

  Il tema: come Balzac descrive il volto e la persona — minutamente — dei suoi personaggi, ed anche il tema: perché Balzac con tanta insistenza si ferma su cotali descrizioni (ispirazioni dovute all’ammirazione che il Nostro aveva per gli scritti di Lavater; convincimento che i tratti del volto della persona sono rivelatori dello spirito; infine, adozione intransigente del metodo realista di tutto descrivere) [...].

 

  11. — Realista, ecc. ... perché fotografa i vari ambienti e strati della Società.

 

  Non è, infine, da chiamarsi «realista» il romanziere che, sia pure attraverso la propria colorita sensibilità — anche alterando il mondo che essa vede e sente, e spesso scegliendo e scartando – cerca di ritrarre i più vari ambienti sociali e le diverse stratificazioni sociali con la loro attività economica, morale, ed altra? Ambienti diversi e diversissimi da mostrare al pubblico dei lettori che in quei diversi mondi debbano penetrare, volta a volta ammirando (caso ben raro), meravigliando, condannando, talora piangendo e persino ... inorridendo. Se così è, come negare a Balzac la qualità di narratore «realista», tanto più che, se qualche ambiente o qualche strato sociale era stato prima di lui adombrato in questa o quella narrazione fantastica [...], le «fotografie» dovute — sia pur con ritocchi e alterate tinte — al Nostro riproducono quantità grandissima di ambienti e grande varietà di strati sociali ... quasi l’Universo (proprio come voleva l’Autore) della Società tutta?

  Vero è che, se Balzac dice di voler copiare tutta la Società, in realtà non tutti gli strati sociali (o, quanto meno, non pochi dei più importanti fra essi) vi figurano; d’altra parte, quando personaggi e ambienti riferentisi a certi strati sociali vengono portati sulla scena, la pittura è talora incompleta, o in alcuni tratti la realtà è tanto mascherata dalla fantasia e dall’immaginazione del narratore che più essa non traspare, o ben poco. Manca, ad esempio, il basso popolo e il particolare ambiente ove esso si muove; e manca pur la bassa prostituzione mentre invece — con colori tra il romantico e il realista — appaiono le cortigiane e il loro mondo; nè potrebbe dirsi, per quanto un’intera opera sia consacrata ai contadini, che per intero e con tinte realiste siano mostrati contadini e il loro ambiente per contro, non furono forse tentate — con qualche prolissità non sempre adatta allo svolgimento della narrazione romanzesca, ma con fedele ossequio alla minuziosa e prosaica realtà — descrizione e storia di un’industria (tipografica) con relativo ambiente e personaggi, come si fa nella prima parte delle Illusions perdues? D’altra parte, l’apparato giudiziario con i suoi uomini d’ogni sorta, dall’agente di polizia e dall’usciere al notaio, all’avvocato, al giudice, è rappresentato, ma delitto e delinquenti, anche se questi ultimi parlano il loro autentico gergo, non possono proprio dirsi risultare in toto, o quasi, dall’osservazione realista, sia pur passata attraverso il temperamento squisitamente artistico del narratore. L’ambiente provinciale, d’altro canto, con le sue meschinità e i suoi pettegolezzi, è sentito e trascritto, ma delle scene e ambienti della vita militare pochi tocchi soltanto appaiono; altre pagine, invece, portando il lettore nel grigio ambiente burocratico, mostrando impressionanti tratti della psicologia (acquisita o congenita?) dei burocrati. E quando si entra nel tempio di Esculapio ed appaiono medici e medicine, può dirsi davvero che il narratore abbia risuscitato quel mondo prendendo colori, per dipingerlo, da tavolozza realista? È da dubitarne.

  Come che sia, che più si doveva al sovrumano sforzo del genio balzacchiano di ciò che quel genio riuscì trionfalmente a creare? Le osservazioni or ora avanzate per nulla possono scemare l’ammirazione che artisti, psicologi, sociologi, nutrono e devono nutrire per l’Universo della Commedia umana.

 

  12. – Spirito di osservazione e «realismo».

 

  Abbiamo elencato non pochi segni per i quali può dirsi essere stato Balzac un «realista» o, se si vuole, il precursore, o creatore che sia, del realismo. Ha ora da aggiungersi alcunché sul motivo essenziale di quel realismo: è frutto di voluto e ponderato artificio, o piuttosto ha esso motivi di ordine strettamente spontanei, in corrispondenza con le caratteristiche psicologiche della personalità stessa, sentimentale e mentale, del Nostro?

 

  a) Realismo, voluto o spontaneo?

 

  Grande e ardentissimo immaginativo era lo spirito di lui; acuta e delicatissima la sua sensibilità, ma al tempo stesso — fatto che sembra in contradizione con le due qualità or indicate — sempre vigile e desto il senso della curiosità e dell’osservazione precisa e geometrica. Tale senso, tanto sviluppato, dà motivo e ragione della descrizione realista. Balzac, osservando, tutto sa vedere, e tutto sapendo vedere, tutto vuole descrivere («Balzac è un pedante», scriveva Léon Gozlan e poi Le Breton incalzò dicendo che Balzac ha «il pedantismo dell’osservazione»), anche ispirato come è dal principio che le cose, in ogni minuto particolare, sono espressioni e sintomo di ciò che non si vede. Qui il voluto e ragionevole calcolo si allea alla sempre sollecitante spontaneità.

  A proposito di quanto sopra, e in ispecie a proposito della osservazione quale curiosità o dono che guida ed assiste il narratore realista, vorremmo tentare di chiarire e distinguere, come appresso, sui modi seguiti dal Nostro in tale procedimento.

  Proviene la narrazione balzacchiana da vere e proprie avventure della vita vissuta le quali, debitamente osservate e «fotografate», vengono trasportate, con abili ritocchi, nella finzione; o proviene, invece, la narrazione, dal guardare — che fa il narratore — con assiduità intorno a sè le cose, gli uomini, la umana condotta e dopo quel guardare artisticamente comporre nuovo e romanzesco quadro con i frammenti e i mosaici raccolti? Nel primo caso il fatto di cronaca diventa un romanzo; nel secondo, servono di materia al romanzo stesso i documenti che l’osservatore ha tratto dal suo quotidiano e attento commercio con chi lo avvicina e col mondo ambiente. Ora, nell’opera balzacchiana troviamo risultati di entrambe le categorie di osservazioni e soprattutto della seconda. Qualche parola su tale soggetto.

  Primo punto. Si tratta senza dubbio del risultato di osservazione quando il romanziere adopera il procedimento per il quale egli ricerca nei fatti della vita quotidiana e della cronaca, anche minuta, quelli che possono a lui dare spunto per romanzesche amplificazioni o per una trama su cui variare all’infinito le tinte e i geroglifici del più fantastico disegno: è vero, senza dubbio, che Une ténebreuse affaire, romanzo quasi poliziesco, ebbe ispirazione da un dramma giudiziario; è anche vero che la tremenda avventura che insanguinò la vita della nobile dama de La Chanterie, nel romanzo L’envers de l’histoire contemporaine, è ricalcata da altro terribile dramma giudiziario (anzi, il bandito che, nella vita reale — 1807 — si chiamava Fleur d’Epine, diventa Fleur de Genêt, e par che anche il dramma narrato ne L’auberge rouge abbia preso le mosse da una storia di fucilazione raccontata a Balzac da un medico militare. Inutile dire che, in queste pagine balzacchiane, quanto in altre analoghe, il vero, la cronaca, la storia, si trasformano e prendono colori e riflessi nuovi passando attraverso lo spirito dell’artista, pur senza nascondere del tutto il proprio volto. Le scene della vita, cioè, si fanno romanzo, proprio come certi romanzi — dal più movimentato aspetto — entrano nella vita. Il nostro Balzac faceva giustamente dire al dottor Bianchon (personaggio indimenticabile della Commedia) che «le invenzioni dei romanzieri e dei drammaturghi escono talvolta dal libro e dal teatro per entrare nella realtà della vita, mentre gli avvenimenti della vita reale diventano scene di teatro e avvenimenti da romanzo» (La Muse du département, p. 418). [...]. Naturalmente, ripetiamo, l’osservazione raccolta su avventure o cronache di nessun contenuto estetico, si può trasformare in opera d’arte: l’osservatore artista, in altri termini, compie un miracolo inverso a quello già dovuto alla maga Circe poiché trasforma ciò che è brutto in chiara bellezza e in chiaro spirito, mentre la maga tramutava l’uomo in bruto.

  Secondo punto. Si tratta ancora di osservazione quando, guardando attentamente intorno a sè, l’osservatore descrive con scrupolosa minuzia ciò che vede ... sapendo, tuttavia, ben guardare e scegliere. Grazie a quelle «fotografie» di ambienti, di volti, di persone, accuratamente raccolte e poi — si noti bene —. ritoccate, e talvolta colorite con geniale artificio, il narratore, scegliendo, scartando e persino trasformando, compone la sua nuova «realtà». Ma in questa composizione finale, quante figure rimangono intatte, come nell’originale, o appena tramutate in qualche linea! Valgano ad esempio le fisonomie, gli atteggiamenti e i gesti dei personaggi balzacchiani : vero è che il nostro romanziere dichiara di mai aver ritratto nel volto e nella persona delle sue immaginarie creature i lineamenti e le sagome di persone viventi ed agenti fuori dal mondo fantasmagorico della sua Commedia, eccezione fatta — e con il dovuto permesso — della fisonomia e della persona di G. Planche (celebre critico letterario) rappresentate in Claude Vignon e della fisonomia e della persona di George Sand rappresentate in Camille Maupin (Lettre à l’étrangère, 23 aprile 1843). Senonchè, dichiarazioni di tal genere, anche nelle auto-confessioni più autorevoli e veridiche (ma come mai una auto-confessione può essere del tutto veridica se l’uomo non sempre giunge a conoscere sè stesso e i veri motivi delle proprie azioni?) non sono da accettarsi ad occhi chiusi; è lecito supporre che il nostro pittore facesse tesoro delle dirette osservazioni di fisonomie, atteggiamenti e gesti che egli quotidianamente doveva fare conversando e guardando intorno a sè con l’occhio irrequieto del cercatore di documenti di cui impadronirsi e da assimilare, con istinto (come direbbe qualche psicologo della psicologia profonda) predatorio. Istinto, d’altra parte, che gli entusiasti e pazienti raccoglitori di documenti ben conoscono.

 

  b) Guardare e descrivere.

 

  Frutto dello spirito di osservazione, dunque, il guardare intorno a sè e cercare di ben vedere per raccogliere, registrare, fare tesoro. Laure Surville, sorella di Balzac, nella Notice biographique (1858) scriveva che il fratello «guidé par le génie de l’observation» , scrutava l’alto e il basso della Società umana «et il étudiait, comme Lavater, sur tous les visages les stigmates qu’y impriment les passions ou les vices». Faceva collezione di tali tipi come l’antiquario fa collezione dei suoi preziosi oggetti, ne compiva classificazione e poi di là li estraeva ponendoli al luogo che loro conveniva. Benissimo; come potrebbe credersi, infatti, che alcuni minutissimi particolari descrittivi di tratti, di atteggiamenti, di gesti, quali sono con gran cura esposti dal nostro narratore a proposito dell’uno o dell’altro suo personaggio, siano frutto di pura immaginazione, estratti per artificio dal nulla e non risultanti invece da fedelissima copia che l’osservatore ebbe a fare di quelle minuzie da lui scoperte guardando e vedendo ciò che forse ad altri sfuggiva? Sentite, ad esempio, come si mette in evidenza una specie di tic del buon César Birotteau e dite voi se una cinematografia di tal genere (staremmo per dire: una microfotografia animata) possa essere in tutti i suoi punti inventata, laddove risulta evidentemente quale copia del vero. Si fa egli (Birotteau) a dire nella conversazione un qualche di notevole o bella trovata? Si solleva leggermente sulla punta dei piedi a più riprese, per ricadere volta per volta, pesantemente, sui talloni, quasi che volesse con ciò calcare sul suo dire ... Discutendo, nel calore più alto della discussione eccolo fare improvvisamente dietro fronte, muover qualche passo e poi tornare quasi di carica verso l’avversario (César Birotteau, p. 230). Non si ha sottocchio una vera e propria cinematografia?

 

  c) Guardare, sì; ma saper ben vedere.

 

  Per osservare, tuttavia, occorre saper osservare; guardare non è vedere e molto meno vedere ciò che in superficie non appare. Dono dell’osservazione, ci vuole, dunque, e di una osservazione che sa anche interpretare. Per non dire che occorre anche trovare o conoscere un metodo per ben guardare. Dal tutto deriva l’evidente fatto — per quanto poco notato e poco studiato che, esaminato un oggetto o un insieme di oggetti, o un qualche qualsiasi, da più persone, ognuna di queste descrive a suo modo, e le varie descrizioni sono ben lontane dal sovrapporsi l’una all’altra e cioè dal coincidere tra esse. Senza dubbio, interviene fortemente in ciò la diversità di sensibilità, di temperamento, di complessi delle reazioni psichiche, esistente da individuo a individuo, ma puranco interviene (sia detto di passaggio) il diverso metodo di guardare, di notare, di osservare, metodo che può essere appreso e non difficilmente applicato. [...]. In qual maniera tale spirito funzionasse in Balzac è facile vedere da alcune dichiarazioni fatte dallo stesso sol suo proprio modo di osservare e di trarre conclusioni da tale suo osservare. Abbiamo infatti, a portata di mano, la deposizione che Balzac fa di sè stesso quale osservatore, analizzando il meccanismo psichico — quasi scomponendolo nelle sue ruote — per il quale egli osserva e comprende. Colui che narra la incredibile storia dal titolo Facino Cane e nelle cui espressioni Balzac rivela certamente sè stesso e il modo di funzionare del proprio pensiero, confessa così: «In me l’osservazione è diventata ormai intuitiva; essa penetra nelle anime altrui, senza affatto dimenticare la materia viva che le circonda o, per meglio dire, l’intuizione coglie sì bene i particolari esterni che essa va dritta e di colpo oltre quei particolari e di là da essi». In ragione di ciò, continua il narratore (e cioè Balzac) tale facoltà «mi dà il potere di vivere la vita stessa dell’individuo da me osservato permettendomi di sostituirmi a lui, così come i dervisci delle Mille e una notte subentrano al corpo e allo spirito delle persone sulle quali essi pronunciano magiche parole» (Facino Cane, p. 51). Continuando, il Nostro assicura di avere, grazie alla sua doppia vista che penetra nei corpi umani sino alle anime, fatto analisi degli uomini, così diversi da classe a classe, che popolano ogni strato o cerchio sociale «giungendo a valutarne così le buone come le cattive qualità».

  Balzac, allora, possedeva come Visnù il dono degli avatar? Pare che sì, ma — e così faceva notare Théophile Gautier — se il numero delle incarnazioni di Visnù fu soltanto di dieci, le incarnazioni balzacchiane, nei personaggi che egli crea e di cui mostra l’anima, tante sono da non potersi contare (Th. Gautier, Portraits contemporains, p. 63 dell’edizione 1880, Paris).

 

  d) Come immedesimarsi nello spirito di una persona?

 

  Invero Balzac, più che copiare i personaggi della vita reale quasi automaticamente, si veste dei loro panni, cerca sentire e pensare come essi devono sentire e pensare, cerca vivere idealmente la loro vita, si immedesima nel loro ambiente materiale e morale. Si direbbe che egli di continuo ripetesse lo stato di animo, in sè medesimo, e la miracolosa attività psichica di quella sua Modeste Mignon — nel romanzo dello stesso nome — che aveva la mania e il potere di immedesimarsi in un personaggio romantico e di creare intorno a quel personaggio tutta una rete di fittizie avventure, vivendo la medesima vita e le medesime avventure di lui. È certo, tuttavia, che per immedesimarsi, nei sentimenti e nel pensiero altrui, e quindi per mettersi sulla via della condotta della persona in questione, occorre sbarazzarsi radicalmente del sistema di solito seguito dai più: costoro, nel raffigurarsi o nel prevedere i sentimenti, i pensieri, la condotta, di tale o tale altra persona, fanno sentire, pensare e condursi quella persona trasferendo il proprio essere sensitivo e mentale in quello della persona che è oggetto di tale ideale vivisezione. Occorre procedere ben altrimenti. Occorre, innanzi tutto, ben sapere e ricordare che gli uomini sono profondamente diversi gli uni dagli altri nei riguardi della loro vita sentimentale (la «psicometria» da tempo ha insegnato in quale geometrico modo si distribuiscano tra gli uomini tali differenze, le quali fanno oscillare la massa umana dagli eccezionali in meno agli eccezionali in più). Occorre, inoltre, ben saper ricordare che esistono tanti diversi ambienti fisici, economici, sociali, psichici, ognuno dei quali, con le sue molteplici qualità, viene a influire sull’umana psicologia c sull’umana condotta in modo particolare, il che a sua volta contribuisce a differenziare profondamente i vari gruppi umani formanti la medesima Società e a creare tante mentalità diverse, almeno in superficie, quanti sono i gruppi o cerchi sociali. Ben conoscendo le quali cose si potrà giustamente valutare la speciale forma e categoria di sensibilità e di mentalità dell’individuo nella cui personalità cerchiamo immedesimarci e si potrà per conseguenza porre quell’individuo nella casella psicologica e psicosociologica che gli spetta e di coi conosciamo struttura e meccanismo; potremo in tal modo disegnare la linea risultante dal convergere delle due categorie di forze — fisiopsichiche le une, ambientali e sociali le altre che agiscono e determinano la condotta dellindividuo in questione.

  Il nostro giudizio deve, quindi e in ultima analisi, spogliarsi di tutto ciò che gli è proprio e dovrà sentire, pensare e giudicare soltanto grazie ai suggerimenti che gli vengono dati dalle cognizioni sopra indicate. Il che, ripetiamo, di solito mai o ben di rado si fa, a motivo, sia della ignoranza in cui si trovano i più del delicato meccanismo or ora esposto, sia per le difficoltà intrinseche che presenta la applicazione del sistema in questione dovendosi a fondo conoscete, quasi in seguito a perizia psicologica e pur anco psichiatrica, la personalità dell’individuo che è oggetto di studio e le precise particolarità dell’ambiente in cui vive costui.

 

 

  Carlo Pellegrini, Il romanzo francese, in Carlo Pellegrini, Filippo Donini, Evel Gasparini, Il romanzo dell’800, Roma, Edizioni Radio Italiana/RAI Radiotelevisione Italiana, 1955 («Classe unica», 23), pp. 7-12.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 571.

 

  pp. 9-10. Intorno alla metà del secolo un maggior bisogno di aderenza alla realtà, di osservazione di ambienti, di costumi e di tipi si fa sentire, perché il romanzo sia sempre più un quadro di vita vissuta piuttosto che la rappresentazione di un mondo immaginario; e Balzac affermerà nella prefazione alla Commedia umana, — anche se poi non seguirà sempre, dato il temperamento, le sue affermazioni di principio — la necessità di offrire un quadro più che è possibile esatto della società del tempo. Anzi prenderà ad esempio la figura di un celebre scienziato — Geoffroy de Saint-Hilaire — per sostenere che il romanziere deve fare con le varie categorie sociali che vuol rappresentare né più né meno di quello che lo scienziato fa ordinando, classificando, caratterizzando i vari esseri che rientrano nel campo della sua osservazione. «Io vidi — egli scrive — che ... la Società rassomigliava alla natura. La Società non fa dell’uomo, secondo gli ambienti in cui la sua azione si svolge, tanti uomini diversi quante varietà ci sono nella zoologia? Le differenze fra un soldato, un operaio, un amministratore, un avvocato, un ozioso, un dotto, un uomo di stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero, un prete, per quanto più difficili ad afferrare, sono così considerevoli come quelle che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, il pescecane, la foca, la pecora, ecc. Sono dunque esistite, cd esisteranno in ogni tempo delle specie sociali come ci sono delle specie zoologiche ... Così l’opera da fare doveva avere una triplice forma: gli uomini, le donne e le cose, cioè le persone e la rappresentazione morale che danno del loro pensiero; infine l’uomo e la vita». In tal modo Balzac credeva di nobilitare e innalzare la sua funzione di scrittore.

 

Balzac, pp. 37-41.

 

  La società francese della prima metà del secolo scorso rivive nell’opera di Balzac, che occupa proprio quel periodo con la sua esistenza, ina rivive nel senso che egli si è proposto di rappresentarcela nelle varie classi sociali e nei suoi diversi aspetti, ma non nel senso che il grande narratore debba esser preso per un obiettivo osservatore della realtà. Certo egli cercava di documentarsi prima di rappresentare un dato ambiente o la vita di certe categorie sociali, ma la forza della sua immaginazione era tale che egli veniva trascinato a trasfigurare qualsiasi elemento in qualche cosa di straordinario. Perciò occorre prendere con beneficio le sue affermazioni sulla rappresentazione scientifica delle varie specie sociali, accordando — come egli scrive — «ai fatti costanti, quotidiani, segreti o evidenti, agli atti della vita individuale, alle cause o ai princìpi loro, tanta importanza quanta fino allora gli storici ne hanno data agli avvenimenti della vita pubblica delle nazioni».

  Lavoratore instancabile, animato dall’amore della gloria e mosso spesso anche dal desiderio della ricchezza — per il disordine della vita, la mancanza di senso pratico e la manìa dello sfarzo fu quasi sempre oppresso dai debiti — produsse una lunga serie di volumi, in gran parte raccolti sotto il titolo complessivo La commedia umana. E una folla enorme di personaggi, circa duemila, presi dalle varie classi sociali, e animati dalle passioni e dai desideri più diversi e più sfrenati: l’amore, la ricchezza, la gloria, la potenza. E ognuno di questi esseri vive la sua vita con la maggiore intensità possibile, dato che lo scrittore si compiace soprattutto di rappresentare le varie passioni, i grandi contrasti derivanti dalla lotta per raggiungere uno scopo col quale si identifica la propria stessa felicità. Un mondo di figure che si muovono e si agitano, che soffrono o gioiscono con grande intensità, mettendo in giuoco tutte le forze di cui dispongono, ricorrendo a tutti i mezzi. La vita rappresentata di preferenza è quella di Parigi, dove il soddisfacimento delle diverse ambizioni e dei vari desideri implica il possesso della ricchezza, onde la lotta per giungere a possedere questa nella capitale è più forte che altrove. Di qui un tono febbrile che caratterizza la vita dei personaggi. Più calma l’esistenza nelle campagne, per effetto anche dello sfondo rasserenante offerto dal paesaggio; ma anche qui, se le manifestazioni esteriori sono più moderate, la vita non è meno profonda.

  Nel Giglio della (sic) valle Balzac rivive l’incanto della vallata della Loira nella natia Turenna, a cui erano legati alcuni dei ricordi a lui più cari e l’immagine di donne da lui amate. È la storia della lotta che si svolge nell’animo della signora di Mortsauf, innamorata di Felice di Vandenesse, tra il sentimento del dovere e quello dell’amore, finché essa muore senza venir meno a quanto le imponeva la sua condizione di moglie e di madre. Tema non nuovo certo, anche nella letteratura francese, ma che trovava una eco sincera e profonda nell’animo dello scrittore, che aveva vissuto alcuni di quei motivi nelle sue prime esperienze amorose — a cominciare dalla donna da lui più diletta, la signora de Berny — che avevano avuto per sfondo i luoghi nei quali poneva la vicenda romanzesca. Inoltre egli creava fra questa e i fatti narrati un’armonia perfetta, onde un’atmosfera incantata dalla quale le singolari vicende ricevevano una loro luce tutta particolare. Balzac stesso volle sottolineare l’importanza che aveva ai suoi occhi la lotta rappresentata nel Giglio della valle scrivendo: «La battaglia ignota che si svolge in una valle dell’Indre fra la signora de Mortsauf e la passione è forse grande quanto la più grande delle battaglie conosciute. In queste è in gioco la gloria di un conquistatore, nell’altra si tratta del cielo».

  Tutt’altro carattere ha Eugenia Grandet, che è romanzo più riuscito e più compiuto del precedente: il romanzo di una passione dominante, quella dell’avarizia. Eugenia è un’altra di quelle dolci figure di donne che Balzac sentiva con vivo sentimento poetico: essa vive nel piccolo mondo di provincia dove certe sofferenze sono più acute per l’atmosfera staccata e silenziosa in cui la vita si svolge, vicino a un padre che è tormentato dalla cupidigia del denaro, mentre essa non può trovar conforto nell’affetto della madre, dominata completamente dal marito freddo e calcolatore. In questa rappresentazione di una passione dominante, e dei riflessi che questa ha nella vita di tutta una famiglia, il genio di Balzac trova spesso accenti di rara potenza, che fanno pensare a famose figure dell’avarizia che abbiamo trovato nella letteratura precedente. Un altro personaggio che soffre a causa degli esseri che gli stanno più vicini è quello di Goriot — nel romanzo omonimo — il padre vittima dell’ingratitudine delle figlie, per le quali a poco per volta si riduce, da ricco che era, a non aver più nulla, pur di farle vivere nel lusso, e muore senza che nessuna delle due lo accompagni alla tomba. Anche qui la cornice è ben intonata alla vicenda raccontata nel romanzo: una piccola pensione nella quale, vicino al vecchio tutto preso da questo suo sentimento paterno, ci sono giovani occupati unicamente dal desiderio di vivere con intensità la loro vita, e i cui atteggiamenti contrastano vivacemente con la figura del vecchio padre. Il quale, dopo avere invano atteso a lungo le figlie dimentiche di lui, muore concludendo amaramente: «Bisogna morire per sapere cosa sono i figli! Voi date loro la vita, essi vi danno la morte; voi li fate venire al mondo, essi ve ne scacciano. No, esse non verranno! Lo so da dieci anni: qualche volta lo dicevo a me stesso, ma non osavo crederci».

  Altrove, nel Medico di campagna, Balzac ci fa vedere la figura del dottor Benassis che, dopo una giovinezza animata da visioni romantiche, si è ritirato a vivere in campagna, trovando un nobile scopo alla sua esistenza nel lenire le sofferenze degli umili. In questo romanzo c’è un famoso episodio in cui il narratore — che ebbe sempre un debole per Napoleone, a parte le idee politiche, in quanto vedeva in lui un grande maestro di energia — ci presenta un’evocazione della figura di Bonaparte, come fu visto dal popolo del tempo in base ai racconti dei soldati che erano stati con lui, e che presi dal suo fascino lo consideravano ancora «il padre del popolo e del soldato».

  Si potrebbe continuare a lungo nell’accennare alle molte felici figure create da Balzac, alle sue descrizioni di ambienti e di paesaggi, ai quadri pieni di vita. E tutto questo con ricchezza di umanità, spesso con delicato senso di poesia. In un’opera di una mole così gigantesca non mancano contraddizioni, ineguaglianze, incoerenze, che si riflettono anche nello stile; ma nel suo insieme l’opera di Balzac dà l’impressione di una costruzione gigantesca, di un’interpretazione vigorosa e poetica della vita del suo tempo, che conquista per la sua genialità costruttiva e per il profondo senso di vita che emana dalle pagine del fecondo scrittore.

 

 

  M.[ario] Pic.[chi], Le riviste italiane. Apologia di Balzac, «La Fiera letteraria. Settimanale delle lettere delle arti e delle scienze», Roma, Anno X, N. 26, 26 giugno 1955, p. 6.

 

  La periodicità di Inventario è quanto mai vaga; ma lo spessore dei fascicoli che escono è tale che compensa dei mesi saltati. Abbiamo sott’occhio il grosso numero 3-6 (maggio-dicembre 1954) della rivista diretta da Luigi Berti: il sommario ne è quanto mai interessante. Di esso rammentiamo un ampio studio sulla filosofia di Nietzsche di Cesare Vasoli e il primo capitolo d’un corso di poetica romantica di Renato Poggioli. Troviamo poi un saggio di Ernst Robert Curtius su Balzac; il Curtius è uno studioso di assai vasti interessi, ma per noi il suo nome è particolarmente legato all’interpretazione che ha dato dell’opera di Balzac:

  «Tutti gli imitatori di Balzac hanno copiato i suoi tratti esterni, ma non hanno afferrato gli intimi impulsi della sua opera. Lo credono un seguace del realismo e le nostre insulse storie letterarie continuano ancora a diffondere questa opinione o almeno in parte. Secondo esse la letteratura consiste in una serie di movimenti. Per esempio, nell’Ottocento abbiamo prima il Romanticismo, al quale segue il Realismo, che continua in una forma più snodata come Naturalismo, e a questo succede il Simbolismo che purtroppo non si può definire in modo soddisfacente. Questo è lo schema convenzionale. E’ un grottesco esempio di come dividiamo la letteratura mondiale, secondo la lingua, la razza, il secolo e quindi suddividiamo ognuno di questi in pezzi e pezzetti, perdendo nel falso ogni senso delle proporzioni. [...].

  Balzac non può essere costretto in nessuno dei movimenti e delle rivoluzioni letterarie dell’Ottocento. Egli non compilò mai un programma, non cercò mai di fondare una scuola. La legge fondamentale della sua opera e della sua personalità è lo sviluppo di se stesso; l’attuazione della visione entro di sé ...».

  Il Curtius osserva che la parola «fascino» ricorre con curiosa frequenza nelle opere di Balzac, ed è la parola adatta subire senza limitazioni, Balzac viene collocato tra le poche figure della letteratura europea che si possono chiamar grandi senza riserve. Suarès scrisse, a proposito di Goethe, che «non soltanto è il più alto e il più ampio dei tedeschi, ma si può annoverare fra le dieci o undici maggiori teste del genere umano»; Curtius aggiunge: e Suarès avrebbe ammesso fra esse Pascal, ma nessun altro francese. Ma io credo che anche Balzac possa pretendere un posto in quest’illustre compagnia».

  Insomma, Balzac possiede un potere creatore che si può paragonare a quello dei grandissimi, ma è loro pari come artista? Certo che Balzac non si può misurare con l’ideale artistico di Flaubert; quest’ultimo si poneva lo stile come ideale supremo, mentre per Balzac lo obbiettivo da raggiungere era la rappresentazione della vita in movimento, era la potenza stessa della vita, la sua sintesi. [...].



  Domenico Porzio, Romanzo triste di Eugenia Grandet, «Radiocorriere. Settimanale della radio e della televisione», Torino, Anno XXXII, Numero 35, 28 Agosto-3 Settembre 1955, pp. 8-9; 3 ill.

 

  Molti sono coloro che considerano l’“Eugenia Grandet” il capolavoro di Balzac — Certo questo personaggio votato al grigiore di una continua rinunzia resa amara da un breve momento di luce e di amore, è una delle figure più patetiche del grande romanziere francese.

 

  Eugenia Grandet? «Apparteneva a quel tipo di ragazze di robusta costituzione — scrive Onorato Balzac della sua eroina — come ve ne sono nella piccola borghesia e le cui bellezze possono sembrare volgari; tuttavia le sue forme erano nobilitate da quella soavità di sentimento cristiano che purifica la donna ... Essa aveva una testa enorme, la fronte mascolina, ma delicata, del Giove di Fidia, e occhi grigi ai quali la sua vita casta, raccogliendovisi tutta intera, imprimeva una luce zampillante ... Eugenia, alta e robusta, non possedeva nessuna delle grazie che piacciono alla massa; però era bella di quella bellezza così facile da riconoscersi e di cui si innamorano soltanto gli artisti ... I tratti della giovane donna e le linee del suo corpo. che l’espressione del piacere non aveva mai alterati, né affaticati, assomigliavano alle linee dell’orizzonte che si stagliano così dolcemente nella lontananza dei laghi tranquilli».

  Questo simbolo e trasfigurazione della «ragazza di provincia» venne collocato dal romanziere a Saumur, ma visse, e forse vive ancora, in tutte le città della provincia europea, dove esistono case simili a quella di papà Grandet, «che ispirano una malinconia uguale a quella suscitata dai chiostri più tenebrosi, dalle lande più squallide o dalle più tristi rovine». Il destino stabilito da Balzac per la sua Eugenia, nel romanzo che molti considerano il suo capolavoro, è dei più patetici; una donna votata al grigiore di una continua rinunzia, resa più amara da un breve momento di luce e di amore: una fiammata rapidamente incenerita e la cui brace deve bastare a scaldare la memoria della monotonia degli anni. Giudice e carceriere della giovane è suo padre: il terribile, ricco, avarissimo papà Grandet, forse il più violento e possente personaggio della famiglia balzachiana, scolpito nelle dimensioni di Arpagone e Shylock.

  A Saumur, dunque, l’ex bottaio Grandet ha raggiunto la ricchezza con una serie di riuscite speculazioni e soprattutto con l’aiuto di una incredibile avarizia. Metro per metro i suoi poderi si sono accresciuti fino a divenire vasti possedimenti; franco su franco, il suo capitale è diventato una forza per lucrosi investimenti. «Aveva il viso tondo, abbronzato, butterato dal vaiolo ... era tozzo, squadrato, con polpacci di dodici pollici di circonferenza ... gli occhi avevano l’espressione calma e divoratrice che il popolo attribuisce al basilisco ... Quel volto denotava un acume pericoloso, una probità senza calore, l’egoismo di un uomo abituato a concentrare i propri sentimenti sui piaceri dell'avarizia e sull’unico essere che rappresentasse realmente qualcosa per lui, la figlia Eugenia, la sua sola erede».

  Su Eugenia, che all’apertura del romanzo sta per compiere i ventitré anni e che vive vigilata dal padre ed idolatrata da una debole madre, si appuntano gli occhi cupidi di due famiglie borghesi, i Cruchot e i Des Grassins, i quali sperano di accaparrarsi, mediante un matrimonio, la ricca ereditiera. Nel giorno del compleanno Eugenia riceve dal padre, come ormai da tempo è consuetudine, una moneta d’oro: da mettere da parte, con le altre, per le nozze; un investimento, quindi, e non un regalo. Si fa festa, quel giorno, in casa Grandet; ma quella stessa sera arriva da Parigi uno sconosciuto ed elegantissimo cugino di Eugenia: Carlo Grandet. Lo conduce a Saumur, dallo zio, una disgrazia: il padre, caduto in dissesto economico, si è ucciso. Il suicida affida il figlio, con una lettera, al fratello, perché se ne prenda cura e gli fornisca i mezzi per andare in India in cerca di fortuna. Ma il giova ne parigino è la scintilla, il fuoco che sorprende, investe e sconvolge la figlia del nostro avaro: nei pochi giorni che Carlo passa a Saumur, Eugenia fa in tempo ad innamorarsene per la vita. Ed in nome di questa improvvisa passione ella commette ciò che il padre non le potrà mai perdonare: regala al giovane il suo piccolo tesoro di monete d’oro.

  Partito Carlo, Eugenia, allorché il padre saprà del suo peccato, verrà condannata quasi alla segregazione nella sua stanza. Papà Grandet nel gesto della figlia ha letto il sovvertimento del «suo» ordine naturale delle cose: una bestemmia contro la legge che governa il «suo» mondo. Non si riconcilierà con Eugenia se non quando morta la moglie, temendo per la divisione della eredità della defunta, deve convincere la figlia a firmare un documento di rinuncia.

  Dopo il gran fatto, la vita a Saumur. e con essa il romanzo, si avvia verso la conclusione: il vecchio avaro muore (trascorre gli ultimi giorni facendosi cospargere le coltri del letto con monete d’oro, perché la loro visione lo riscalda e, prima di rendere l’anima, consegnando le sue ricchezze ad Eugenia non sa fare a meno di minacciarla con un: «Mi renderai conto di tutto laggiù»); il cugino Carlo ritorna in Francia, ormai ricco, ma dimentico della ragazza di provincia; Eugenia si rassegna a sposare un suo vecchio pretendente, ma alla condizione che sarà un «matrimonio bianco». Rimasta, poco dopo, vedova sconterà gli anni superstiti nella solitudine ed occupandosi di opere di beneficenza.

  «Non il particolare spirito di un’epoca — scrisse Dostoievski a proposito di Eugenia Grandet — ma solo il lento travaglio di millenni ha potuto far nascere una tale concezione nell’animo dello scrittore».

  Onorato Balzac, allorché scrisse questo romanzo, pubblicato nel 1833, aveva trentaquattro anni; fu questo uno dei momenti più intensi della sua intensissima vita. «Ho ancora cento pagine di Eugénie Grandet — scriveva ad un amico — Ne touchez pas à la hache da finire, La femme aux yeux rouges da fare, e ci vogliono almeno dieci giorni per tutto ciò. Arriverò morto».

  In questi anni collabora frenetico a più di una rivista e trova sia il tempo per inventare romanzi, sia per darsi anche alla politica. Per portare a termine i suoi libri (perennemente assillato dal bisogno di quattrini) si impone clausure feroci. La sua stanza di lavoro è terremotata da fogli di carta, cosparsa di innumerevoli tazze da caffè. la bevanda con la quale si sostenta e finirà per intossicarsi il cuore. E sono pure anni ricchi di esperienze sentimentali: sta per liquidare l’anziana Laura de Berny, la sua affettuosa protettrice; sta inasprendosi l’amicizia con una altra Laura, la d’Abrantès; sta spasimando per la marchesa di Castries, la «crudele» di cui stenderà un vendicativo profilo in La duchesse de Langeais. Ed infine, è già arrivata dalla Ucraina, dal castello di Werzschownia, la lettera della contessa Evelina Rzewuska Hanska con la quale si aprì, son sue le parole, ce grand et beau drame du coeur; Evelina: il grande amore, la donna che dopo un lunghissimo fidanzamento egli sposò pochi mesi prima di morire.

  Nonostante la vasta bibliografia ed il cumulo di leggende e di aneddoti sorto intorno a questo «benedettino del romanzo», la biografia completa di Onorato Balzac non è stata ancora scritta; ed è impresa, forse, impossibile. Nei cinquantun anni della sua vita (1799- 1850) molti avvenimenti rimangono oscuri: perché eccedenti. Si pensi, ad esempio, alla mole del suo lavoro: la sola Commedia umana consta di 91 opere complete, più di 50 abbozzate o già in lavorazione; e dal conto restano fuori le commedie, i romanzi scritti alla macchia, le novelle, la fitta produzione giornalistica, saggi, memorie ed il diluvio di lettere che inviò alle sue amiche. Gautier sospettò che Balzac avesse, come Visnù, il dono dell’avatar, ossia di incarnarsi in corpi differenti e di vivere il tempo necessario per far ciò che voleva. Certo fu un povero, disperato schiavo del suo lavoro: «Amante del moto e dei viaggi — scrisse — con una gran voglia di visitare molti paesi, capace di divertirmi ancora come un ragazzo a fare il rimbalzello coi sassolini in un fiume, sono invece rimasto eternamente seduto, con una penna in mano ...». Seduto, con quella penna, a creare l’intera società francese del secondo impero, inventando i sogni e le illusioni che furono poi realizzati dalla generazione che venne dopo di lui.

 

 

  Gino Raya, Balzac cerca madre: la vecchia amica di un giovane inquieto, «La Sicilia», Catania, 4 febbraio 1955.

 

 

  Giovanni Titta Rosa, Balzac in casa Manzoni, in Aria di casa Manzoni, Milano, Edizioni Ceschina, 1955, pp. 105-109.

 

  Cfr. 1943; 1946; 1948; 1952.

 

 

  Adriano Seroni, Le tesi di Balzac, «Il Contemporaneo. Settimanale di cultura», Roma, Anno II, N. 25, 18 Giugno 1955, p. 3.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 571.


  Anche nella letteratura avviene spesso ciò che avviene nella vita: che una verità conosciuta ci pare una scoperta quando un qualsiasi incidente ci offre il modo di provarla per diretta esperienza, in circostanze tipiche che ci richiamano alle circostanze stesse in cui quella verità fu scoperta e formulata. È il caso, in letteratura, del libro conosciuto e studiato, venerato come «classico» che, poi, riletto in circostanze particolari, capisci meglio e ti sembra di nuovamente scoprire. Quante volte si è parlato dell’«attualità» di Balzac, riferendoci a un giudizio o definizione ormai incontrastati, quale l’essere egli il «padre del realismo», e perciò stesso, oggi, attuale! Ora, la riprova nel senso che accennavamo ci viene da un semplice fatto editoriale: gli Editori riuniti francesi (una casa editrice legata, com’è noto, al movimento popolare francese) ristampano a Parigi, in un foltissimo volume, i tre romanzi che sotto il titolo complessivo di Illusions perdues costituiscono tino dei capolavori delle Scene della vita di provincia. Un lavoro che costò a Balzac anni di fatica e di ricerca, che si rispecchiano fedelmente ed efficacemente nelle date (1837, 1839, 1844) e nelle prefazioni polemiche premesse ai tre romanzi.

  Alla domanda «Perché questa ristampa popolare?», la risposta, dato il carattere particolare della casa editrice, non può essere fondata su soli fatti esteriori: la ragione della ristampa sarà proprio da ricercarsi in un fatto sostanziale di attualità. Ora, avere questa ristampa balzacchiana davanti gli occhi e pensare, per elementare e subitanea associazione d’idee, alla situazione attuale della stampa nei paesi a regime capitalistico, ove domina ancora oggi quella borghesia che Balzac studiò e tradusse in personaggi indimenticabili, è un fatto che ti par logico: e rivedi, d’altra parte, quasi fossero fatti di oggi, una battaglia e una polemica di cent’anni fa, cui Balzac partecipò direttamente con quel singolare scritto del 1843, Monographie de la presse parisienne, cui partecipò Victor Hugo, cui Daumier dedicò alcune delle sue più forti impressioni ispirate sia alla rappresentazione del potere della stampa nella società moderna, sia alla lotta per la difesa della libertà di stampa e contro la censura e le leggi preventive. Ti metti così a rileggere un libro di più d’un secolo fa, e ti trovi nel bel mezzo d’un problema che per noi oggi è appassionante e vitale.

  A questo punto posso immaginarmi tanti critici che subito m’aggrediscono con una obiezione che, secondo loro, tiene dei canoni d’una estetica universale: «L’attualità starebbe dunque nel contenuto, nell’argomento, nella tesi!». Obiezione trionfante, se Balzac non avesse scritto dei romanzi, creato dei personaggi, fatto vivere un’epoca e degli ambienti. Se Balzac, in altre parole, non fosse un artista. Ma Balzac non aveva paura della tesi, tanto è vero che nelle sue prefazioni ai maggiori romanzi si trovò più volte ad esporla, a chiarirla, ad insisterci. Egli la chiamava, di solito, realtà oppure verità, e «un atto di coraggio oltre che una storia piena di verità» addirittura definisce, riferendo un giudizio che correva in giro, le sue Illusioni perdute, nella breve dedicatoria dell’opera a Victor Hugo. Con più precisione, nella prefazione alla seconda parte della trilogia, quando la storia si vien facendo più stringente e drammatica e l’autore entra nel vivo dell’argomento, annota che il giornalismo «giuoca un ruolo così importante nella storia del costume contemporaneo», che egli forse avrebbe potuto più tardi esser tacciato di pusillanimità, se avesse trascurato questa scena del grande dramma che si rappresenta in Francia; e aggiunge che il quadro ch’egli ne offre potrà forse sembrare al lettore troppo a tinte forti: ma, si sappia bene, tutto è invece di una «réalité désespérante».

  Naturalmente, se queste prefazioni (come, in generale, tutte le prefazioni balzacchiane) sono preziose per meglio comprendere lo scrittore e approfondire le ragioni storiche della sua opera, noi abbiamo bene il diritto di dimenticarle quando ci immergiamo nella lettura del romanzo, al quale noi dobbiamo chiedere soltanto dei personaggi che esprimano, da uomini vivi, diremmo quasi in carne ed ossa, quella realtà, quelle verità; cioè la realtà vista criticamente, e un giudizio su di essa. Ebbene, nel caso di Illusioni perdute, Lucien è un tal personaggio. Figlio di un farmacista, amorosamente e viziosamente allevato da una madre ridotta alla miseria; coccolato da una sorella che vive per lui e non vede che per lui, Lucien è un bel giovine ventunenne quando un caso fortunato gli offre la possibilità di diventare l’amico fraterno e inseparabile di un giovane proprietario di una piccola tipografia di provincia: un’amicizia che gli dà, con un piccolo stipendio di proto, la possibilità di cullare le sue illusioni di poeta e l’aggiunta di un amico che parteciperà anch’egli di quell’assoluta ammirazione cui la famiglia l’aveva abituato. Una amante matura e nobile, ansiosa di rivelare un nuovo poeta, compirà l’opera: presto Lucien partirà, come il Rastignac de Le père Goriot, alla conquista di Parigi. Dove, finito il suo amore nella difficile lotta dei salotti nobiliari, finirà anche la sua poesia in un indegno commercio della penna, che gli farà sì gustare una momentanea gioia di vendetta sull’amante che l’ha tradito e lasciato, ma che insieme lo condurrà alla rovina, lo respingerà prima nella provincia, poi ai margini della vita ch’egli sognava, segretario, anzi «creatura» di un diplomatico spagnolo.

  Una storia balzacchiana, si dirà, che assomiglia a tante altre storie uscite dalla penna di Balzac; un personaggio che assomiglia a tanti altri suoi personaggi, in ambienti che Balzac ha tratto più e più volte a materia della sua arte. O forse, dirà qualcuno, un motivo eterno della vita umana trasformato in personaggio; così come un uguale motivo eterno può esser ritrovato nell’amico di Lucien, quel David Séchard, onesto marito e padre di famiglia, vittima delle ambizioni di Lucien, e finito collezionista d’insetti dopo d’aver provato le smanie e i dolori dell’«inventore». Ma Balzac muove, anche nelle Illusioni, dalla realtà della vita: quando vuol mostrarci Lucien affogato tra i viveurs parigini — così come quando, nel Colonnello Bridau, ci presenta i «vitelloni» che terrorizzano con le loro fanatiche burle in piccolo centro di provincia — non lascia mai la cosa nel generico, cerca le radici di certi fenomeni sociali nella condizione storica di un’epoca. Chi aveva creato i viveurs parigini, se non «l’ilotismo al quale la Restaurazione aveva condannato la giovinezza»? I giovani intellettuali che non sapevano come impiegare le loro forze, non le gettavano soltanto nel giornalismo, negli intrighi, nella letteratura e nelle arti, ma le dissipavano nei più strani eccessi. Era una giovinezza che voleva la sua parte nella vita; «e la politica non faceva loro nessuna parte». E i «vitelloni» che terrorizzano Issoudun non sono altro che gli ufficiali delle ex-armate napoleoniche, che la Restaurazione costringe all’inattività e alla noia e spinge al ruolo di avventurieri provinciali. Di eterno in questi personaggi non vi è che un naturale impulso proprio di ogni giovane a farsi strada nel mondo.

  Quale società trovano questi giovani personaggi di Balzac? Ecco la domanda indispensabile di fronte all’opera dello scrittore francese; ed è una domanda che può trasformarsi in una precisa affermazione: per Balzac non esiste personaggio, qualunque sia la sua origine e classe sociale, la sua formazione intellettuale, la sua caratteristica predominante, che viva staccato dalla società, che non sia in un rapporto continuo e costante con ciò che avviene attorno a lui e dentro di lui si riflette. Le condizioni politiche generali, la situazione economica non astrattamente considerata ma vista e analizzata nel suo continuo movimento e intreccio e nelle sue crisi, il progresso delle scienze e della tecnica e, conseguentemente, il costume di un’epoca nel suo variare sono elementi indispensabili alla creazione del personaggio, alla sua vita nella realtà, al suo movimento e sviluppo, alla comprensione dei suoi atti e dei suoi gesti. Com’è che il Lucien delle Illusioni perdute diviene un viveur? Probabilmente perché la sua già errata educazione familiare e la sua situazione di provinciale vien completata da un Lousteau, pilastro del giornalismo parigino, che gli insegna il mestiere, ammonendolo che un giornalista è come un acrobata e deve abituarsi agli inconvenienti della professione; e gli suggerisce e gli propone una vera e propria tecnica del giornalismo, con le frasi che servono a cattivarsi la simpatia del pubblico, a blandire i lettori, e con gli accorgimenti necessari a non inimicarsi gli amici del proprietario del giornale. La tecnica, insomma, che produce quei maître Jacques, di cui Balzac ci parla nella citata Monografia della stampa parigina, che, «se il giornale cambia di proprietario o d’opinione, lui non cambia mai di posto!».

  Ci siamo forse dilungati troppo sul pretesto offertoci dalla ristampa di Illusions perdues, dimenticando il problema più generale che qui c’interessa, di Balzac e il realismo; ma la ristampa in parola ci offriva un esempio tra i più probanti della posizione storica di Balzac e della sua funzione di «padre del realismo». Il filo che si sdipana attraverso i novantasei romanzi della Commedia umana costituisce la poetica stessa di Balzac, che con le sue stesse parole si può definire come la storia di un presente che si muove e si trasforma: il secolo stesso di Balzac, il secolo XIX. Storia che diviene tale attraverso la trasposizione della cronaca sul piano dell’arte. La cronaca è in principio, è il quadro vitale che Balzac ha di fronte a sé e del quale utilizza ogni elemento (è ben questo che voleva dire Sainte-Beuve, quando gli rimproverava di gettarsi nella sua opera a testa bassa): l’occhio vigile dello scrittore è attento agli aspetti multiformi della vita, anche ai più spiccioli, dalle tecniche della produzione al funzionamento di una bottega, dalla moda e dall’arredamento al giuoco del lotto, dalla scena di cospirazione tipica del salotto nobiliare al fattaccio dei vicoli; entra nei palazzi e nelle case di campagna, indugia nella piccola merceria e nella vendita di libri e stampe, penetra nei palchetti dei teatri e nelle redazioni dei giornali, annota la tecnica dell’artista e quella del più umile artigiano. Ma è ugualmente attento ad ogni fatto intellettuale perché d’altronde ci serve per spiegare il metodo e pronto a farne esperienza; non è un filosofo né tale si crede, non è politico né scienziato; ma nel suo arsenale di scrittore ogni corrente filosofica, ogni scoperta scientifica, ogni movimento politico è accolto e analizzato, utilizzato allo scopo di conoscere il suo secolo. Tutto ciò Balzac lo ha detto da sé, con espressioni in funzione chiaramente polemica, ora divenute celebri, e di cui la critica idealistica si è troppo spesso servita per svisare la natura e il carattere dell’arte balzacchiana: «peintre des tvpes humains», «nomenclateur des professions», «archéologue du mobilier social»; o, in altre parole, il suo «faire concurrence à l’État Civil».

  Voi non troverete, infatti, personaggio balzacchiano realmente esistito o immaginario, di cui l’autore non presenti la scheda anagrafica: la nascita, e di quale origine e ceto, l’origine sociale dei genitori e dei parenti prossimi che possano aver influito sulla sua formazione intellettuale, e via dicendo. A questo scopo egli non esita neppure ad interrompere la narrazione di un episodio importante e magari appassionante, per provvedere a redigere la scheda del personaggio che, irrompendo sulla scena, provoca la catastrofe. Il lettore moderno, abituato ad uno stile rapido, a volte cinematografico — come si dice — di narrazione, trova (e può talora trattarsi di lettori illustri) che per questa ragione proprio Balzac è noioso; e protesta, affermando che per costruire una storia basta conoscere i sentimenti fondamentali dell’uomo, e i particolari cronachistici non servono.

  Ora, noi insistiamo su questo aspetto, della cronaca, perché si tratta di un elemento che ricorre così di frequente nelle attuali discussioni sul realismo, e di lavoro di Balzac. Il quale, dunque — e non ne fa mistero — ha bisogno, per muoversi nei suoi momenti migliori, di tenere i piedi ben saldi su questo terreno. Che è il terreno, quello della vita che scorre di giorno in giorno, di ora in ora quasi, sul quale si muovono gli uomini, sia i piccoli che i grandi: così lui, pittore di tipi umani, ha bisogno di conoscere questi elementi: un bollettino finanziario, il sistema cambiario, i modi del commercio, i miglioramenti tecnici nella confezione di un certo prodotto sono, ad esempio, elementi indispensabili per creare la figura di un personaggio destinato a rappresentare il tipo di affarista in una determinata epoca della storia.

  Ma dobbiamo subito osservare che la cronaca si identifica per Balzac con la multiformità della vita, in cui ognuno di quegli elementi si carica di passione umana e ogni «scheda» di stato civile offre le cifre di un dramma umano. L’occhio dello scrittore, che di fronte agli elementi della cronaca si fa critico nel senso che giunge a sceverare e riconoscere gli essenziali, in un processo di tipizzazione, è già in partenza occhio d’artista, che quegli elementi e quei dati non scorge e considera freddi e morti, ma animati dall’uomo. Certo, per recare ancora un esempio, le pagine dedicate, nel Colonnello Bridau, alle origini di Issoudun (la scheda anagrafica della città) sarebbero un documento freddo e inutile, e davvero noioso, se ad esse non si legasse, anzi se in esse non vivesse un elemento fondamentale del romanzo, il campanilismo degli abitanti di quella cittadina, la loro vanagloria di provinciali. E la nota-spese del procedimento penale Métivier contro Séchard e Lucien Chardon. nella terza parte di Illusioni perdute, costituirebbe davvero un mezzuccio fastidioso, se non fosse, nel pieno crollo delle ambizioni del protagonista, una pagina molto più eloquente di venti pagine d’analisi e di considerazioni morali.

  Una siffatta cronaca, umana s’è detto, genera insieme personaggi e problemi; o meglio, personaggi, problemi e fatti della cronaca vengono ad unirsi, intrecciarsi, si presentano come elementi interdipendenti.

  I problemi: quelli che all’inizio di quest’articolo abbiamo indicato — seguendo una formulazione corrente e confusa — come tesi. Ma ora possiamo correggere e precisare: ché il problema non è la tesi: una determinata condizione degli affari del commercio. della produzione crea dei problemi che investono i personaggi, li avvolgono nella loro rete, li pongono di fronte ad una scelta, li obbligano a prendere una decisione piuttosto che un’altra; in altre parole, i problemi nascono dalla vita quale si svolge quotidianamente in un determinato momento; i problemi non nascono dalla mente dello scrittore, ma dalla realtà che egli assume a materia d’arte. Così, ad esempio, ciò che rende attuale le Illusioni perdute non è la tesi balzacchiana sulla stampa (che è accennata, se mai, nelle prefazioni), ma il problema della stampa nella società moderna. Questo problema non lo ha inventato Balzac; così come non ha inventato i soldati napoleonici congedati e costretti in provincia o la politica della Restaurazione nei confronti dei giovani, ecc. È la storia che crea questi problemi, i quali umanamente, nei confronti cioè del personaggio, si manifestano attraverso la cronaca dei fatti di ogni giorno, gli aspetti del costume, l’ambiente. E i problemi si intrecciano e talora si ripetono, assumono aspetti diversi a seconda dell’ambiente sociale in cui si agitano.

  Ma i personaggi, presi in questo intreccio, non rischiano di uscirne senza vita, quasi manichini sballottati dagli eventi, senza volontà né personalità? La migliore risposta a questa domanda ce la potrebbero offrire i grandi personaggi balzacchiani, che noi sentiamo vivere e muoversi nella Commedia umana. In termini critici, la risposta può esser più approfondita. Noi abbiamo dianzi parlato della «scheda» dei personaggi balzacchiani: ora, questa schedatura significa che, nell’opera di Balzac, nessun personaggio entra in scena senza che lo scrittore ci abbia fatto sapere qual è stata la sua formazione intellettuale. Prendete Giuseppe Bridau, il pittore, fratello del colonnello dell’omonimo romanzo: quanti mai scrittori se la sarebbero cavata con lui presentandocelo dotato di vocazione e di genio, semplicemente. Balzac non nega al suo personaggio né l’una né l’altro, ma egli sa bene che se vuole collocare il suo personaggio nella realtà, deve spiegarci come avvenne che vocazione e genio poterono affermarsi in quella direzione in cui si affermarono. E comincia col mostrarci la decadenza di una famiglia borghese, una madre rimasta vedova con due figli e una spiccata predilezione per il primogenito, un necessario cambiamento di abitazione che conduce la famiglia in quella via Mazzarino dov’è l’Istituto di Belle Arti: i vagabondaggi di Giuseppe Bridau, che lo portano di frequente ad osservare il lavoro dei pittori: «tutto il complesso dei fatti e delle circostanze che forma il preambolo di questo racconto — scrive Balzac — racchiude probabilmente gli elementi generatori ai quali dobbiamo Giuseppe Bridau, uno dei grandi pittori della scuola francese contemporanea». La formazione intellettuale del personaggio si compie dunque in un complesso di condizioni obbiettive che influiscono potentemente sul suo carattere e sul suo stesso avvenire. Influiscono, s’è detto, non predeterminano (Balzac non è un determinista!): una personalità si afferma, un’altra cede, vi è Rastignac e vi è Eugenia Grandet.

  Ma Balzac non sarebbe così grande come ci appare, né potremmo considerarlo uno dei fondatori del realismo moderno, se non scorgesse i limiti che si pongono alla volontà stessa dell’uomo di fronte alla condizione reale della società in cui si trova a vivere. Balzac comprende che quella società borghese del suo secolo, che egli osserva e studia in ogni più riposta piega e in ogni particolare aspetto, deve dargli la possibilità di identificare una legge generale che la muova e che gli consenta di esprimere su di essa un giudizio, di vedere in altre parole la realtà del suo tempo criticamente e storicamente. Questa legge è la conquista del potere, cioè della ricchezza. È una legge che a prima vista può sembrare generalizzata da Balzac come un fatto eterno che lo conduca ad una concezione pessimistica della vita. Ma se noi riandiamo a quella viva e vivace cronaca umana che esaminavamo, ci accorgiamo facilmente che Balzac scorge le origini di questa legge, che è molla di corruzione di una società e di un’epoca, nel nuovo tipo di rapporti economici (l’economia della libera concorrenza) creatosi dopo la Rivoluzione del terzo stato. Forse egli — guidato dalla sua stessa formazione intellettuale e morale che lo fa difensore della corona e dell’altare — accentua della società borghese i lati negativi, e talora manifesta una accoratissima nostalgia per il passato. Ma, in generale, la sua analisi ci appare oggi storicamente esatta.

  Di qui, dunque, da un’analisi che si esercita non sul personaggio astratto ma sull’intera società della sua epoca, prendono corpo e vita i grandi personaggi balzacchiani, che, creati da una potente fantasia, vivono in quella realtà; le idee generali che agiscono su di essi, i loro stessi sentimenti, i loro eroismi e le loro viltà, gli amori e i tradimenti nascono da quella realtà, di essa vivono e s’investono, senza di essa sarebbero incomprensibili. La potenza fantastica di Balzac agisce nel crearli come tipi di quella realtà, nel trarli dalla cronaca per consegnarli — ma con i mezzi proprii dell’artista — alla storia.

 

 

  Italo Siciliano, Romanticismo francese. Da Prévost à Sartre, Venezia, La Goliardica, 1955 e successivamente: Firenze, Sansoni Editore, 1964.

 

  Segnalato da P. Russo, Primo inventario ... cit., p. 571.

 

Evasione ed involuzione della fantasia.

 

  pp. 98-100. Se Nodier può essere considerato un visionario che non è abbandonato mai — o quasi mai — dalla coscienza, Balzac non è l’eterno visionario che qualche immaginifico va scoprendo[5], nemmeno quando si abbandona, con l’entusiasmo che mette in ogni sua cosa, a piacevoli interviste con la Sfinge o a rapide danze davanti all’arca dell’arcano. Avido di possesso piuttosto che posseduto, visivo più che veggente, il «realista» della Umana Commedia può ingrandire a dismisura le cose viste, può dare talvolta l’impressione dell’assoluto al mulino a vento (scatenato piuttosto da Sancio che da don Chisciotte), ma — nella vita come nell’opera — Balzac non è che la vittima (felice vittima) della sua immaginazione, che è grande quanto la sua ingenuità e la sua chiaroveggenza, e che tuttavia — come l’una e l’altra — resta nei limiti dell’umano e nella legittima gratuità del fatto letterario: nel quale il buon romantico vive un po’ l’esistenza dei suoi eroi e l’ottimo romanziere conferisce alla realtà il necessario prestigio della fantasia ed alla fantasia l’aspetto naturale della realtà.

  Balzac era dotato anche di una esuberante vitalità che non sempre evita il pletorico: e se a forza di scavare, e di dilatare, perviene a scoprire, nella sua galleria di creature vive e di statue di bronzo o di cera, note e tratti di rara acuità, ignota allo stesso Molière, non di rado, o troppo spesso, non evita di falsare toni e prospettive per eccessiva ricerca di effetti spettacolari e per cumulo di particolari oziosi. Curioso, fiducioso, portato — come Hugo — alla concezione totalitaria di un umano universo confuso con la Enciclopedia, Balzac non si stacca mai della sua missione o velleità di grande artefice ed architetto: e questo sorveglia continuamente l’artista, lo interrompe per dargli istruzioni e consigli, per spiegare il senso delle sue creazioni, per abbandonarsi quindi a considerazioni e divagazioni critiche o filosofiche che imbarazzano l’artista non meno del lettore.

  Egli cerca dappertutto la materia per il libro, e tutto gli diviene materia di accensione fantastica. Sempre in ascolto, ed al corrente, potenziando il naturale entusiasmo con l’entusiasmo giovanile, scopre Saint-Martin, si interessa a Lavater, pone Mesmer sullo stesso piano di Descartes e di Newton, segue la moda tentando anche lui una Commedia del diavolo, imitando Hoffmann in un Elixir de longue vie, rifacendo Faust, o dandone una variante, in Peau de Chagrin (1831). È il Balzac minore. E, qualche anno dopo, è il Balzac «curioso» di Louis Lambert e di Séraphita, il Balzac che crede sul serio che Swedenborg sia un «grand prophète».

  Che abbia conosciuto il visionario svedese attraverso un riassunto delle opere o che queste tenga (come scrive nel 1832) in un posto particolare della sua biblioteca, non importa : l’ancor giovane Honoré, che si diletta di futilità filosofiche, accetta senz’altro — e con il solito entusiasmo — le futilità mistiche della terra che è un uomo e dell’uomo naturale che può divenire uomo spirituale, cioè angelo, ma non vive le visioni del Maestro, ed anzi le altera e le tradisce trasportandole nel campo della fantasia e romanzandole secondo le esigenze della sua fantasia e dello spirito del tempo. È, come s’è visto, il tempo del male del secolo: ed il giovane Louis Lambert, che tenta l’avventura angelica, e ne resta vittima perché non è riuscito a sbarazzarsi né dell’abito critico (infesto alla dottrina) né della filosofica volontà di conoscenza (funesta all’evasione angelica), non ci dà, nel fallimento in cui si risolve la ricerca dell’Assoluto, o dell’assunzione in excelsis, che una variante del male del secolo, e precisamente, diremmo, la variante dcl dramma dei Werther e dei René confuso con il dramma dei Faust e degli Obermann[6]

  È, d’altra parte, tempo di angeli o, piuttosto, di semiangeli, di angeli che «si sono accoppiati con le figlie degli uomini», di angeli ribelli, banditi, caduti e decaduti. Ben venga, dunque, Swedenborg che, seminando a piene mani angeli in ogni angolo dell’universo, permette a Balzac di credere che non il cielo ma la terra sia la «pepinière» degli angeli e di darci quindi in Séraphita una variante nell’itinerario tradizionale, facendoci assistere non alla caduta dell’angelo sulla terra, ma alla sua ascesa alla patria celeste[7].

  Per Balzac, l'esperienza angelica (fallita in Louis Lambert, felicemente realizzata in Séraphita) serve soprattutto all’esperimento letterario; e le allucinazioni del mistologo, «naturalizzandosi» nella mitologia poetica, non forniscono che spinte e spunti eterodossi ad una fantasia che opera secondo le sue ortodosse leggi nel mistico scenario angelico come nelle realistiche scene provinciali e parigine.

  «Giuochi», quelli di Balzac, di Nodier, di Gautier o di Merimée, secondo la migliore tradizione letteraria: giuochi leciti, anche quando assumono l’apparenza del proibito, giuochi innocenti, giuochi di prestigio, giuochi magari ambigui, nei quali la buona fede si mescola con un po’ di «tricherie», ed il mistificatore non sempre evita di mistificarsi. Giuochi, come andiamo vedendo, di moda.

 

 

  Ines Travaini, La Fortuna di Balzac nelle Riviste e nei giornali milanesi dal 1830 al 1850. Tesi di laurea. Relatore: prof. Vittorio Scardovi, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Magistero, 1955.

 

 

  Marisa Zini, Balzac Honoré de, in AA.VV., Grande Dizionario Enciclopedico fondato da Pietro Fedele, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1955, Vol. II, pp. 128-130; 1 ill.

 

  Romanziere francese, nacque a Tours il 20-V-1799, di famiglia paesana, ma non della Touraine: il padre oriundo del mezzogiorno di Francia, spirito mutevole d'una vivacità e di una gaiezza esuberante, fecondo di idee geniali e inattuabili, spesso chimerico e mal equilibrato (e molto B. risentirà del temperamento paterno), si era però istruito e addottorato in legge; passato quindi attraverso la Rivoluzione, si era sempre mantenuto olimpico e gioviale, e a 50 anni aveva sposato in seconde nozze una giovane donna, la madre di Honoré, nervosa, meticolosa, autoritaria. Il fanciullo fu messo nel 1807 al collegio degli Oratoriani a Vendôme, dove passò inosservato, o meglio, notato per la sua apatia, per il suo stato di torpore intellettuale; sottomano però egli divorava alla rinfusa gran parte della biblioteca del collegio, ricca dei libri più disparati, senza nulla dare a divedere all’esterno, tranne una prostrazione fisica che obbligò i parenti a ritirarlo perché si ritemprasse un anno all’aperta vita dei campi. Essendosi la famiglia trasferita a Parigi, B. fu iscritto nel 1816 alla Sorbonne, e contemporaneamente avviato dal padre agli studi notarili; indifferente anche a questo mestiere, quasi a sua insaputa B. apprese qui tutto ciò che questi atti, testamenti, liquidazioni, ecc., rappresentano nella società umana, e da maestro egli saprà sfruttarlo nei suoi romanzi. Ma il giovane, stanco di questa carriera, espresse con irremovibile volontà ai suoi l’idea di darsi alle lettere, quando nulla di lui faceva presagire tale disposizione; e per due anni, volontario recluso, egli fu confinato a Parigi, Rue Lesdiguière (sic), lasciato nel più completo abbandono e nella più assoluta miseria dai familiari, che attendevano il capolavoro. Venne invece l’insuccesso del Cromwell (tragedia del 1821), che non sgomentò affatto il giovane autore; ben deciso a proseguire, assillato dal bisogno di denaro si diede a scrivere furiosamente, mantenendo però lo pseudonimo, romanzi adatti al gusto del pubblico, fantastici, pieni di atrocità (Le Vicaire des Ardennes; Argowl e (sic) Pirate, Jeanne la pâle, 1822-25), alla maniera di Pigault-Lebrun, della Radcliffe, di Lewis. Furono questi gli anni della sua relazione con Madame de Berny, la «dilecta» di B., la donna che, oltre a rivelargli la passione, gli dette tutte le cure d’amica, di madre, di sorella, che credette per prima al suo genio e il cui ricordo rimarrà incancellabile nell’esistenza del romanziere. Le donne d’altronde sono una delle chiavi dell’opera di B. e le sue ispiratrici; Madame de Berny e poi Madame de Castrie (sic), lo aiutarono non poco a penetrare nel mondo delle passioni e della psicologia femminile.

  Dal 1825 al 1828 disastri finanziari in seguito a speculazioni sbagliate e al fallimento di una stamperia, ridussero B. sull’orlo della catastrofe, indebitato per forti somme con la sua famiglia e con Madame de Berny; con tutto questo, senza scoraggiarsi, anzi vieppiù incitato, egli tornava ai romanzi, e nel 1829 uscivano Les Chouans. Dal 1830 la vita dell’uomo è unita strettamente con quella dell’artista; lavoro indefesso, febbrile, continuato per almeno quattordici ore al giorno; più che la prima stesura dei romanzi erano faticose le correzioni, le aggiunte, le sostituzioni fatte sugli ampi margini lasciati apposta nelle pagine.

  In pari tempo egli persegue ancora chimeriche imprese finanziarie, tenta la carriera politica nel 1835, subito abbandonata, stringe amicizie con Hugo, Gauthier (sic), George Sand. Assai intimi i rapporti con la sorella Madame Surville e con Zulma Carraud, un’amica intelligente e affezionatissima con la quale B. tenne rapporti dal 1829 fino alla fine della sua vita, come testimonia un interessantissimo epistolario pubblicato a cura di Bouteron (Parigi, 1951). Fra gli amori, dopo le due donne già ricordate, Madame Hanska, una nobile polacca, l’étrangère, sua ammiratrice e corrispondente ignota fin dal 1832. B. la conobbe più tardi, e fece un viaggio in Ukraina nel 1847; infine dopo 17 anni di attesa, dopo molti contrasti, già malato e stanco, egli riuscì a sposarla nel marzo del 1850; finalmente tranquillo per gli agi e le comodità materiali, 5 mesi dopo egli moriva, il 18 agosto, logorato dal troppo intenso lavoro degli anni precedenti.

  Dopo gli Chouans, è un succedersi vertiginoso di volumi. La lista delle opere balzachiane è spaventosa: 10 volumi di Oeuvres de jeunesse, 96 volumi della Comédie humaine, 5 o 6 pièces teatrali, 30 Contes drolatiques, il delassement dell’autore; qualche centinaio di articoli e di opuscoli. E tutto ciò, a parte le opere giovanili, B., artefice instancabile, turbinoso, scrive dal 1829 al 1848. Dopo alcuni romanzi, quali Le curé de Tours, La peau de chagrin, Louis Lambert, dopo aver raggiunto il vertice dell’arte con Eugénie Grandet, Le médecin de Campagne, Le Père Goriot, B. dal 1834 ebbe l’idea, già vagheggiata forse dal 1831, di far entrare questi suoi volumi in una vasta classificazione col titolo di Études de Moeurs che doveva comprendere: Scènes de la vie privée, Scènes de la vie de province, Scènes de la vie parisienne, Scènes de la vie politique, Scènes de la vie militaire, Scènes de la vie de campagne; Études philosophiques; Études analytiques. Ma nel 1841 egli al titolo troppo meschino per una così vasta concezione, preferì quell’altro. ben più largo e profondo, forse suggeritogli da un amico, il marchese de Belloy, di ritorno dall’Italia e tutto invasato dal ricordo della Divina Commedia: La Comédie Humaine, quasi contrapponendo questa sua immane opera a quella del fiorentino. Il meccanismo però della Comédie Humaine, B. aveva dovuto scoprirlo una sera del 1833 sul punto d’iniziare il Père Goriot, quando era corso dai Surville a dire: «ho trovato un idea meravigliosa». Era il ritorno dei personaggi, ora gli uni ora gli altri, nei romanzi, con tutti quegli effetti che B. saprà trarne, per cui viene ad esistere una realtà della Comédie Humaine che va oltre le opere isolate.

  Anzitutto vien fatto di chiedersi donde questo genio così potente abbia tratto alimento, quali radici abbiano nutrito la selva così folta e intricata della sua produzione. Varie sono le correnti che hanno contribuito ad arricchirla: innegabilmente c’è una parte dell’opera di B. che proviene dal romanzo popolare a forti tinte, romanzo d’intrigo che si compiace di accumulare orrori e misteri (es.: Vautrin il forzato); ci sono gli elementi romantici che lo portano a esagerare nella perversità come nella perfezione: ma ci sono d’altra parte le suggestioni filosofiche-scientifiche che percorrono il secolo, come pure la grande passione dell’800 per Scott, e l’alta scuola dei grandi moralisti francesi, Molière, La Bruyère, Saint-Simon. Se si vuole però penetrare la concezione della Comédie Humaine, dobbiamo partire dalla grande scoperta di B., quella cioè della «natura sociale», che è una natura dentro la natura, fatta di tre elementi: uomini, donne e cose, ossia città, paesi, vie, case, mobili, arredi, tutto quanto serve all’uomo per modificare il pianeta in cui vive. Questo metodo d’indagine che B. ereditò da Walter Scott, applicato all’età contemporanea, lo condusse alla creazione di quel vastissimo mondo fantastico in cui trovano posto tutte le categorie sociali, dall’infimo al sommo grado, dal forzato al grande finanziere, nell’immane tentativo di catalogare l’umanità, secondo i vari gradi di sviluppo, in tante classi distinte: contadini, impiegati, commercianti, militari e via dicendo (metodo di Cuvier, Geoffrov de Saint-Hilaire).

  Si tratta di quella società prodotto della rivoluzione di luglio, caratterizzata dall’avvento e dal trionfo completo della borghesia affaristica, avida solo di guadagno e di denaro. La frase del ministro Guizot «enrichissez-vous», è commentata splendidamente nei romanzi balzachiani in cui la nota dominante è appunto l'affare, l’interesse, la caccia sfrenata all’oro, strumento di conquista e di potere, ideale supremo di questo periodo della monarchia borghese di Luigi Filippo. La sconfinata energia creatrice, gli ideali di grandezza e di conquista, eredità napoleoniche (volentieri B. amava mettersi accanto a Napoleone) che sono lo stimolo dell’attività frenetica del romanziere, B. li trasferisce su molti dei suoi personaggi, incarnazione appunto di questa volontà creatrice, i De Marsay, i Rastignac, i Rubempré, i Claës, i Birotteau, gente che si lancia all’assalto della società, del potere, della ricchezza, dell’assoluto anche. Sognatori utopisti o rapaci cacciatori di preda, tendenti al bene o al male, vincitori o sconfitti, sono tutte creature impastate di «volontà»; e questa stessa concentrazione d’energia si risolve nella faculté maîtresse che investe tutto un individuo: donde i celebri tipi di monomania di «mostri» nel senso etimologico della parola, nei quali il vizio o la passione si dilata in proporzioni pressoché folli; così l'avarizia, la mania della speculazione in Gobsek (sic) o in Grandet, la lussuria in Hulot, la gelosia che non conosce freni in Bette, e, per contrasto, la rassegnazione e la sublimità angelicate in Adeline Hulot o in Eugénie Grandet, l’amor paterno spinto fino alla morbosità e alla sete di martirio in Goriot, le Christ de la paternité. Sono creature d’eccezione fantasticate da quel grande visionario che fu B., eppure al tempo stesso impregnate di verità e di realismo grazie al suo minutissimo metodo descrittivo che non lasciava nulla d’inesplorato nè dell’aspetto del personaggio, giuochi di fisionomia, gesti, vestiario, nè dell’ambiente: avremo perciò nell’opera balzachiana una trasfigurazione della realtà e al tempo stesso una precisione cronistica, una tipizzazione, un modo di osservare secondo uno schema preconcetto, e un’aderenza all’umile realtà della vita.

  A tale svolta attraverso molti approfondimenti è giunta la critica abbandonando la tesi di un B. capostipite del «realismo», per equilibrarne la costruzione con altrettanto «spiritualismo»; in tale prospettiva acquistano importanza i Romans philosophiques, dai quali la Comédie Humaine non può prescindere, poiché da essi, come dai primi tentativi (Louis Lambert), traspare la tendenza a costruire una filosofia, una metafisica. Il concetto della «specialità», cardine del pensiero di B., ossia il concetto di cogliere le «specie», le «essenze» attraverso le cose, fa sì che nei romanzi i personaggi possano essere messaggeri d’idee, tipi e individui al tempo stesso, donde il punto di vista filosofico sotto cui si prospetta il romanzo.

  Rientra nella concezione filosofica del romanziere anche il suo atteggiamento nei confronti dell’ordinamento sociale-politico-religioso, che fu un atteggiamento di conservatore, quasi reazionario, con qua e là sprazzi di socialismo paternalistico; logico quindi ch’egli veda la religione e il cattolicesimo in funziono di ordine e di stabilità morale e sociale; ma dal suo mondo romanzesco, il vero spirito del cristianesimo è assente: il mondo implacabile dei De Marsay, dei Rastignac, di questi conquistatori senza scrupoli, è decisamente lontano da Cristo. Così non c’è rimorso in questa razza di predatori, ma solo tristezza per la lucida constatazione di onesta realtà di male che domina il mondo degli uomini. Non che B. non veda e non apprezzi il bene e non l’abbia incarnato in alcune figure come Popinot, i Birotteau, Ursule Mirouet, Eugénie Grandet; e non è neppure assente nell’opera sua un filone «mistico», per così dire, che sfocia nei poemi Seraphita (sic), Le Lys dans la vallée: perciò quasi si può parlare di un «manicheismo di B.», i cui regno si divide ugualmente fra le tenebre e la luce; ed ecco come, in questo senso, B. possa avere risonanza fino agli ultimi romanzieri cattolici francesi, Bernanos, Mauriac steso.

  Un accenno allo stile è ancora necessario: «B. scrive male» è stata un’accusa più volte formulata dalla critica professorale, opponendogli la prosa d’arte flaubertiana; mancanza di gusto, situazioni o tirate melodrammatiche, mano pesante nelle descrizioni della natura o del mondo elegante. Ma ad una concezione così nuova e grandiosa e così complessa doveva corrispondere uno stile a cui la preziosità fosse estranea, uno stile ricco e sanguigno, un po’ caotico se si vuole, e a volte violento, più potente che musicale, quale è quello che si dispiega, robusto e intenso nel suo vigore grandioso, per tutta l’amplissima serie delle opere che compongono la Comédie Humaine.

  Eugénie Grandet. - La stesura di Eugénie Grandet fu iniziata nel 1833, e B. ne dava l’annuncio a Madame Hanska nell’agosto, classificandola tra le Scènes de la vie de province e considerandola una novella; due mesi dopo egli si accorse che Eugénie Grandet sta diventando un romanzo e che non rassomiglia a nulla di ciò che aveva fin qui descritto. Eugénie Grandet si accosta agli (sic) Études philosophiques ed è la storia di un’idea distruttrice, l’avarizia o meglio l’avidità di guadagno, che rode a poco a poco non solo chi ne è posseduto, ma tutto quanto lo circonda, persone e cose. Il conflitto tra il monomane e gli altri scoppia quando Eugenie, la figlia di Grandet, rivela nel carattere la stessa implacabilità paterna, quando cioè, sotto l’impulso d’amore per il giovane ed elegante cugino Carlo, finanziariamente rovinato e giunto a Saumur nella tetra casa dello zio, Eugénie trova in sè l’energia per lottare contro il vizio paterno. E dapprima la sfida alla taccagneria del vecchio consiste nei timidi preparativi di una colazione più appetitosa per l’ospite (il burro, lo zucchero), per spingersi poi al dono delle monete d’oro, pegno d’amore al giovane, che parte per terre lontane. Questo dono dell’oro Grandet non lo perdonerà più alla figlia, che dopo il distacco da Carlo, ormai l’unica sua ragione di vita, continuerà ad intristire accanto alla madre malaticcia che va via via affievolendosi, e accanto al padre, che, mortagli la moglie, si riconcilia con Eugénie; anch’egli è ormai vecchio e stanco, e a poco a poco consegna a lei tutti i suoi beni, cosicché alla sua morte Eugénie si troverà padrona di un immenso patrimonio. Nulla però essa cambia delle austere abitudini della casa, poiché, sebbene generosissima e quanto mai benefica, ha nel sangue la parsimonia paterna. Quand’ecco che, dopo sette anni, Carlo torna in Francia; rifattasi una discreta posizione, egli si prepara a un matrimonio di convenienza. In una lunga lettera spiega alla cugina che la loro reciproca promessa era stata una ragazzata; ora egli si è fatto uomo, e ha un altro concetto del matrimonio e della vita. Leggendo tali propositi, Eugénie ha la sensazione che tutto le crolli intorno, ma non si abbandona a scene isteriche di disperazione: decide e agisce in conseguenza. Quando la avvertono che il matrimonio Carlo rischia di andare a monte perché i genitori della sposa non intendono dare la figlia all’erede di un fallito i cui debiti non sono ancora stati saldati Eugénie paga per lui fino all’ultimo centesimo. Dopo di che spentasi in lei fin l’ultima speranza, propone a uno dei vecchi pretendenti di sposarla per avere un aiuto nell’amministrazione dei beni. Il matrimonio non durerà a lungo: Eugénie, vedova a trent’anni, finirà i suoi giorni come una sepolta viva (traduz. ital., Torino, 1951).

  Papà Goriot. — Il 18-X-1834 B. annunciava a Madame Hanska la sua nuova opera: rappresentazione di un sentimento così grande che niente l’esaurisce, né le offese, né le ferite, né l’ingiustizia; un uomo che è padre, come un santo, un martire, è cristiano. Partendo da questa premessa si svolge la storia di Papà Goriot. Per la prima volta i personaggi, la tecnica, le idee che erano stati elaborati nelle opere precedenti, assumono forma definitiva e, presentati in una nuova luce, tutto il loro significato simbolico.

  Nella pensione Vaquer vivono uno studente, Eugène de Rastignac, un rispettabile commerciante, Vautrin, la signora Coutrou con sua nipote Victorine, una vecchia zitella misteriosa, Mademoiselle Michonneau, e, oltre a tanti altri, Papà Goriot. Intorno all’amore quasi insensato di Goriot per le sue due figlie, per le quali egli si rovina materialmente e moralmente, gravitano gli altri personaggi, i cui destini si intrecciano e si aggrovigliano; Rastignac, cavalier servente della baronessa di Nucingen, figlia di Goriot; Vautrin, che, dopo aver introdotto Rastignac in società, è riconosciuto da Mademoiselle Michonneau come un famoso ergastolano; la mite Victorine, innamorata di Rastignac. Le Père Goriot è il primo racconto delle Scènes de la vie parisienne (sic), e il primo grande romanzo drammatico di Balzac. Qui il dramma della vanità, vanità continua e implacabile, sfocia tutta un tratto nel dramma di Parigi. Parigi entra a far parte della Comédie Humaine e da ora in poi ogni romanzo sarà un caso particolare di questa storia di carriere e di patrimoni, ambientata nel grande scenario parigino (traduz. ital., Roma, 1951).

  La pelle di zigrino. – Tra il 1830 e il 1831 B., sotto l’influsso di Hoffmann assai in voga allora, scrisse i Romans Philosophiques, in cui si riflettono gli avvenimenti de la vita dell’autore in quegli anni: vita di giovane scapestrato, frequentatore della società elegante, e nello stesso tempo studioso dei massimi problemi umani. B. parte dall’idea fondamentale del potere distruttore del pensiero; tale idea è sviluppata nella storia, cui si ricollegano tutti gli altri romanzi filosofici, della Peau de Chagrin (La pelle di zigrino).

  Nella prima parte, il Talismano, Raphaël de Valentin, dopo aver perso al giuoco la sua ultima moneta d’oro, decide di suicidarsi; aspettando la sera per mettere in atto il triste proposito, entra nella bottega di un antiquario che dopo avergli mostrato le sue più interessanti curiosità, gli offre in regalo una «pelle di zigrino»: chi la possiede può ottenere tutto ciò che desidera, ma nel momento stesso in cui il desiderio si attua, la vita gli si accorcia di tanto quanto la pelle si rimpicciolisce. Per provare le capacità del talismano Raphaël si augura di prender parte a un fastoso banchetto, ed ecco che incontra tre amici che lo accompagnano appunto a un’orgia senza eguali: cibi, vino, cortigiane; e la festa si prolunga fino all’alba. La seconda parte è il racconto che Raphaël fa a un amico della propria vita di studente povero (l’autobiografia di B.), e del suo amore non corrisposto per una donna di mondo civetta e egoista. Anche la seconda parte che pare lontana dai simboli della prima, è invece riccamente allusiva: Fedora rappresenta la società cattiva e senza cuore, come già l’antiquario; Raphaël incarna gli istinti generosi che nulla possono contro l’ostilità del mondo: infatti, quando ormai ricco per una lauta eredità, ritrova Pauline, il suo primo amore, è assolutamente inutile che egli si costringa a vivere lontano da ogni tentazione: la pelle di zigrino si rimpicciolisce ad ogni istante. Nè la scienza, nè il cambiare ambiente, nè l’eseguire atti contrari alla propria volontà, servono; ognuno rotola sul pendio su cui si trova, e le esperienze altrui non valgono di esempio (traduz. ital., Torino, 1947).

  Bibl.Oeuvres di B., a cura di Bouteron e Longnon, in 40 vol., 1912-40; ediz. della Pléiade in 10 voll., a cura di Bouteron. La Correspondance fu pubblicata nel 1876, 1899. 1900, 1933; Lettres à l’étrangère, altri carteggi sono pubblicati in Cahiers balzaciens.

  Oltre ai saggi di Saint-Beuve, di Taine, alle pagine del Lanson, ai giudizi acutissimi del Baudelaire, che definì il B. un «visionnaire passionné», si vedano Gozla (sic), B. en pantoufles, Parigi, 1949; W. H. Royce, Bibliographie de B., Parigi, 1930. Notevoli gli studi di Le Breton, Parigi, 1905; Brunetière, Parigi, 1906; Bellessort, Parigi, 1925; Béguin, B. visionnaire, Parigi, 1948. Bardèche, in B. romancier, Parigi, 1940, insiste particolarmente sul valore documentario dei Romans philosophiques nel panorama dell’opera complessiva di Balzac. Numerosi gli studi particolari su certi tipi o classi balzachiane, come i medici, i contadini, ecc., oppure sull’ambiente, Parigi, la provincia. Per l’analisi di una filosofia balzachiana, senza tener conto degli aspetti letterari, cfr. Ezequiel Martinez Estrada, Philosophie et métaphisique (sic) de B., in Hommage a B., Parigi. 1950; libro che contiene pure un saggio di Alain, il quale aveva già dato nel 1937 un Avec Balzac. Interessante e pure nella stessa opera miscellanea il saggio di F. Mauriac, Actualité de B., che esamina l’opera di B. da un punto di vista cristiano. Si vedano inoltre P. Arcari, B., Brescia, 1934; S. Zweig, B., traduz. italiana, Milano, 1950. Grande fioritura di libri e saggi vi fu tra il 1949-50 in occasione del centocinquantenario della nascita e del centenario della morte: essa sta a dimostrare la crescente ripresa degli studi balzachiani.

 

 

 

Adattamenti radiofonici.

 

 

  Eugenia Grandet, di Honoré de Balzac. Adattamento di Ada Supino. Allestimento di Vittorio Brignole, Secondo Programma, 31 agosto-7 settembre 1955 (quattro puntate).



  Il gioco di Soleima. Opera in un atto di Elio Anceschi da Honoré de Balzac e Giosuè Borsi. Musica di Antonio Maggioni, Programma nazionale, 19 novembre 1955.

 

 

  La pelle di zigrino. Riduzione radiofonica in cinque puntate del romanzo omonimo dello scrittore francese Honoré de Balzac. Riduzione radiofonica dello scrittore e poeta Enrico Pannunzio e dello scrittore e sceneggiatore Gino Montesanto. Commenti musicali di Bruno Rigacci. Compagnia di Prosa di Firenze della Radiotelevisione italiana con Corrado Gaipa (il marchese Raffaello de Valentin), Fernando Farese (Rastignac), Mila Vannucci (Paolina), Nella Bonora (la contessa Fedora), Adriana Innocenti (Giustina, la cameriera). Regia di Amerigo Gomez. Secondo programma, 7-16 febbraio 1955.

 

 

  La Zitella di Honoré de Balzac. Adattamento di Dico De Palma. Compagnia di prosa di Firenze, regia di Umberto Benedetto. Personaggi e gli interpreti: La zitella, Maria Cormon: Nella Bonora; Il Cavaliere di Valois: Fernando Farese; L’Abate di Sponde, zio della zitella Franco Luzzi; Il Signor di Bousquier: Giorgio Piamonti; la Signora Granson: Wanda Pasquini: Il Visconte di Troisvilles: Corrado Gaipa; Il Signor di Ronceret: Rodolfo Martini; Suzanne: Giovanna Galletti; Césarine: Carla Terreni; Jacqueline: Giuliana Corbellini; Manette: Bianca Maria Carella; Josette: Marcella Novelli, Secondo Programma, 18 Novembre 1955.




Adattamenti televisivi.


 

  Novelle celebri: Il colonnello Chabert, di Honoré de Balzac. Regia di Lewis Allan. Produzione Ziz Television. Interpreti: Adolphe Menjou, Gertrude Michael, John Alvin, 30 ottobre 1955.



[1] Naturalmente bisognerebbe studiare anche Séraphita, Physiologie du Mariage, César Birotteau, Gambara, La recherche de l’absolu, e altri romanzi. [N. d. A.].

[2] Ph. Bertault, Balzac et la religion, Paris, 1942; […] B. Guyon, La pensée politique et sociale de Balzac, Paris, 1947 […]. [N. d. A.].

[3] Cfr. A. Niceforo, Realismo e non realismo nell’arte narrativa di Honoré de Balzac [...], 1954.

[4] Le opere di Balzac qui citate sono quasi tutte dell’edizione non illustrata del Centenario (Paris, 1900 e anni seguenti); per altre si tratta dell’edizione illustrata del 1853-55 o di quella, anche illustrata, del Centenario. [N. d. A.].

[5] A. Béguin (Balzac visionnaire, 193 6, 1947; e cf. anche Castex, op. cit. [Le conte fantastique en France de Nodier à Maupassant, 1951], p. 195) pretende che anche quando Balzac «revient plus rarement à l’expression fantastique et à l’intrusion manifeste du surnaturel», anche cioè nei grandi romanzi della Comédie humaine, resta sempre un visionario e che «le monde réel ne paraît si réel que parce qu’il est la surface transparente de l’autre» (pp. 75-76). Il Béguin confonde, in altri termini, non solo il tema ed il tipo con il simbolo, ma addirittura l’attività creatrice dell’immaginazione con la passività dell’allucinazione. Il che significa chieder troppo alle parole, fino a vuotarle di ogni senso, e voler farci credere, per esempio, che anche i Molière e i Racine non sono che dei visionari. [N. d. A.].

[6] «Ce pauvre poète (cioè Louis Lambert) si nerveusement constitué, souvent vaporeux autant qu’une femme, dominé par une mélancolie chronique ...» (etc.; e non manca il riferimento preciso a René: «René n’est l’esclave que d’un désir, L. L. était toute une âme esclave») ha, come il suo autore, la testa piena di una indigesta congerie di dottrine, di nomi (Gall, Lavater, Mesmer, Cardano, Plotino, Locke ...) e di termini come volonté, volition, idée, acte, abstraction, instinct, être actionnel, etc.

  Come in Séraphitus-Séraphita, in Louis Lambert si disserta molto della vita e delle opere di Swedenborg. E, nell’uno e nell’altro racconto, è la continua divagazione in uno stile più del solito fiacco e monotono. [N. d. A.].

[7] Come ha ben visto il Castex, Séraphita, nato o nata dall’unione di un uomo con uno spirito angelico, non è l’androgino che crede il Béguin (Balzac visionnaire, p. 86), ma l’essere senza sesso, la creatura spirituale di Swedenborg che vive la sua avventura, o infanzia, terrestre fra gli uomini naturali. E uomo (o Séraphitus) per Minna, la ragazza innamorata, e donna (o Séraphita) per l’innamorato Wilfrid. E, s’intende, non è né l’uno né l’altra. La malattia è quindi per Séraphita il principio della guarigione dall’umano, e la terrena morte è il principio della vita celeste. [N. d. A.].


Marco Stupazzoni

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