sabato 11 gennaio 2020



1947

 

 


Adattamenti.

 

 

  O. de Balzac, Eugenia Grandet, «I grandi cine-romanzi illustrati. Bisettimanale – Cine-Romanzo – Novelle – Varietà», Torino, N. 154, 24 Agosto 1947, pp. 1-16.

 

  Si tratta del cine-romanzo riguardante il film diretto da Mario Soldati (1946) e tratto da Eugénie Grandet. Di questo adattamento del capolavoro balzachiano, trascriviamo, qui sotto, le sequenze iniziali:

 

  La Minerva Film presenta: Eugenia Grandet. Una produzione «Excelsa» tratta dal romanzo di O. de Balzac.

  Personaggi principali e interpreti:

  Eugenia Grandet: Alida Valli;

  Papà Grandet: Gualtiero Tumiati;

  Carlo Grandet: Giorgio de Lullo.

 

  pp. 1-2. L’ampia valle della Loira, che rispecchia nelle acque del suo fiume regale, fra Orléans e Tours, tanti meravigliosi castelli, fra cui primeggia, incomparabile per la grazia del suo purissimo stile Rinascimento, quello di Blois, si allarga ancor più nel suo corso inferiore, facendosi ricca di vigneti, che le tolgono un poco il suo carattere aristocratico, ma in cambio le danno una grande prosperità, specialmente nella regione attorno a Saumur, che produce vini pregiatissimi.

  Prima della grande Rivoluzione le migliori vigne di quella vasta zona erano possedute dai conventi. Nel 1792 i beni delle corporazioni religiose passarono in proprietà della nazione, ed il governo rivoluzionario li vendette ai migliori offerenti. Era un ottimo investimento per chi aveva danaro contante e non temeva d’essere votato al fuoco eterno quale usurpatore del patrimonio della Chiesa. Il bottaio Grandet di Saumur, danaroso e noncurante delle minacce dei sacerdoti «refrattari» — era un fegataccio che non aveva paura nè di Dio nè del diavolo — acquistò a vile prezzo le terre dei carmelitani e dei cappuccini. Calmatasi la tormenta rivoluzionaria, coll’avvento del Direttorio gli «assegnati» vennero assorbiti e la moneta fu rivalorizzata e stabilizzata. Allora Grandet fece i suoi conti in franchi buoni e si trovò milionario. Occupato ad arricchirsi, era giunto a quarant’anni senza pensare a sposarsi. Prima che fosse troppo tardi, si ammogliò. Non era bello e neppure simpatico. Basso di statura, tozzo, con mani e piedi enormi, aveva un’aria contadinesca ed una fisionomia volgare. I piccoli occhi duri ed inespressivi, soverchiati da sopracciglia foltissime ed ispide, eli s’illuminavano soltanto alla vista dell’oro, dei biglietti di banca ed alla prospettiva di un guadagno. Ciò nonostante trovò una nobile famiglia decaduta che gli diede la figlia, una ragazza già sul trent’anni, non brutta, ma di un pallore malaticcio e di una biondezza scialba, che pareva si accordassero colla docilità del suo carattere. La signora Grandet, ch’era stata un modello di obbedienza ai genitori, fu schiava del marito. Dinnanzi a lui, specialmente nei primi tempi, non osava alzare gli occhi, non fiatava. A poco a poco si abituò al suo despota e osò arrischiare qualche parola, quando lo vedeva di buon umore. Fortunatamente la nascita di una bambina mise presto un po’ di sole nel grigiore della sua vita coniugale.




Traduzioni.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. Traduzione di Camillo Sbarbaro, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1947 («Narratori stranieri tradotti», XXXVI), pp. X-217; 1 ill.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Camillo Sbarbaro, Prefazione, pp. VII-X; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  La pelle di zigrino, pp. 3-214.

 

  Non sono riportate, nel testo, né l’epigrafe nè la dedica del romanzo ‘À Monsieur Savary’ (quest’ultima inserita da Balzac nell’edizione Furne del 1845).

  Siamo di fronte ad una traduzione che Camillo Sbarbaro conduce, per larghi tratti, in maniera piuttosto libera e personale e con aderenza tutt’altro che rigorosa al modello francese. Si consideri l’estratto, che qui sotto riportiamo, tratto dall’incipit del romanzo:

 

  pp. 57-58 [cfr. Balzac, La Peau de chagrin, a cura di Pierre Citron, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléaide’, 1979, t. X].

 

  Vers la fin du mois d’octobre dernier, un jeune homme entra dans le Palais-Royal au moment où les maisons de jeu s’ouvraient, conformément à la loi qui protège une passion essentiellement imposable. Sans trop hésiter, il monta l’escalier du tripot désigné sous le nom de numéro 36.

  «Monsieur, votre chapeau, s’il vous plaît? Lui cria d’une voix sèche et grondeuse un petit vieillard blême accroupi dans l’ombre, protégé par une barricade, et qui se leva soudain en montrant une figure moulée sur un type ignoble.

  Quand vous entrez dans une maison de jeu, la loi commence par vous dépouiller de votre chapeau. Est-ce une parabole évangélique et providentielle? N’est-ce pas plutôt une manière de conclure un contrat infernal avec vous en exigeant je ne sais quel gage? Serait-ce pour vous obliger à garder un maintien respectueux devant ceux qui vont gagner votre argent? Est-cela police tapie dans tous les égouts sociaux qui tient à savoir le nom de votre chapelier ou le vôtre, si vous l’avez inscrit sur la coiffe? Est-ce enfin pour prendre la mesure de votre crâne et dresser une statistique instructive sur la capacité cérébrale des joueurs? Sur ce point l’administration garde un silence complet. Mais, sachez-le bien, à peine avez-vous fait un pas vers le tapis vert, déjà votre chapeau ne vous appartient pas plus que vous ne vous appartenez à vous-même: vous êtes au jeu, vous, votre fortune, votre coiffe, votre canne et votre manteau. À votre sortie, le JEU vous démontrera, par une atroce épigramme en action, qu’il vous laisse encore quelque chose en vous rendant votre bagage. Si toutefois vous avez une coiffure neuve, vous apprendrez à vos dépens qu’il faut se faire un costume de joueur. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 3. Verso la fine dello scorso ottobre, un giovane entrava al Palais-Royal giusto all’ora che s’aprivano le case da gioco, a norma della legge che protegge una passione così redditizia per lo Stato. Esitato un attimo, egli sali la scala della bisca contrassegnata col numero 36.

  — Il cappello, signore, prego! — gli gridò d’una voce secca e ringhiosa uno squallido vecchietto, sorgendo improvvisamente di dietro un riparo dove si teneva rannicchiato nell’ombra e mostrando una faccia ignobile.

  All’entrare in una casa da gioco, per prima cosa la legge ti spoglia del cappello. Che contenga questa precauzione un avvertimento evangelico e provvidenziale? O non sarà, piuttosto mia specie di pegno che la legge esige a conclusione dell’infernale contratto che stringe con te? Sarà per obbligarti a conservare un contegno rispettoso davanti a chi intascherà il tuo danaro? Oppure è la polizia, in agguato in tutte le fogne sociali, che ci tiene a conoscere il tuo nome, se hai l’abitudine di farlo comparire sul copricapo, o quanto meno il nome del tuo cappellaio? Sarà infine por rilevare la circonferenza del tuo cranio e stabilire una statistica sulla capacità cerebrale di chi gioca? L’amministrazione serba su questo punto mi assoluto silenzio.

  Comunque, sappilo bene, basterà che t’incammini verso il tappeto verde, perché già il tuo cappello non ti appartenga, più di quello che non appartieni tu a te stesso: sei in gioco tu, il tuo danaro, il tuo copricapo, la tua canna, il tuo mantello. Quando uscirai di là, il GIOCO per un’atroce ironia ti dimostrerà che qualche cosa ancora ti lascia col renderti ciò che avevi depositato alla porta. Ma se il cappello era nuovo, imparerai a tue spese che un costume adatto non è meno indispensabile al giocatore di quello che lo è, poniamo, all’alpinista.

 

 

  Honoré de Balzac, La pelle di zigrino. A cura di Giorgina Vivanti. Seconda ristampa stereotipa della prima edizione, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese (già Ditta Pomba), 1947 («I Grandi Scrittori Stranieri. Collana di traduzioni diretta da Arturo Farinelli», n. 47), pp. 325; 1 tavola [ritratto di Balzac].

 

  Struttura dell’opera:

 

  G.[iorgina] V.[ivanti], Introduzione, pp. 5-18; [cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici].

  La pelle di zigrino, pp. 19-323.

 

  La traduzione che Giorgina Vivanti fornisce della ‘étude philosophique’ balzachiana può ritenersi, nel complesso, abbastanza corretta.

 

 

  Honoré de Balzac, Tre racconti. Il colonnello Chabert. La messa dell’ateo. L’interdizione. A cura di Michele Lessona. Ristampa della prima edizione, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese (già Ditta Pomba), 1947 («I Grandi Scrittori Stranieri. Collana di traduzioni diretta da Arturo Farinelli», n. 122), pp. 221; 1 tavola.

 

  Cfr. 1946.

 

 

  Balzac, La pelle di zigrino. Traduzione di A. Rovinelli, Milano, Ed. Ultra, 1947.

 

  Opera segnalata alla voce “Pelle di zigrino, La” nel Dizionario dei capolavori della letteratura, del teatro e delle arti, a cura di Aldo Gabrielli (Milano, Ultra; edizione successiva al 1947), della quale, purtroppo, non si è trovata traccia.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  La garitta di Napoleone, «Il Tribuno del Popolo. Settimanale indipendente di Capitanata», Foggia, Anno II, N. 1, 3 Gennaio 1947, p. 3.

 

  Nel campo di Boulogne, come ricorda Balzac, sorgeva una garitta “stregata”. Un soldato di guardia vi si era ucciso e tutti i successivi, che nelle lunghe notti di veglia si rimettevano al riparo dal vento, dalla neve e dalla pioggia, suggestionati da chissà qual diabolica influenza, facevano la stessa fine: si trafiggevano con la baionetta o si sparavano ... Garitta stregata, maledetta, e Napoleone si vide costretto a dar ordine di bruciarla come se fosse una fattucchiera del Medio Evo condannata al rogo.

 

 

  Gli spettacoli. “Papà Goriot”, «La Provincia del Po. Quotidiano di Cremona», Cremona, Anno I, N. 24, 27 maggio 1947, p. 2.

 

  Onorato de Balzac non ha fortuna sullo schermo. I suoi romanzi infatti sembrano racchiudere un dramma visivo ma è soltanto impressione. Tradotti in immagini essi rivelano la caducità ambientale, il loro carattere narrativo prettamente letterario e la impostazione dei personaggi non ben definita nel loro intimo personalismo.

  «Papà Goriot» è un farraginoso fatto ottocentesco denso di attenzioni per quella che si chiama «etichetta di corte» e per una descrizione di caratteri ambientali. Il dramma è in superficie e resta tale anche nei momenti più intensi. Ottima sceneggiatura dovuta a Charles Spaak e dialoghi di Zimmer che non riescono a superare un noioso convenzionalismo di regia e dove né la tecnica, né l’interpretazione riescono ad annullarsi.

  Pierre Renoir non è all’altezza di sue ben note precedenti interpretazioni.

 

 

  Spettacoli, «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno I, Numero 43, 5 Giugno e Numero 44, 6 Giugno 1947, p. 2.

 

Oggi all’Ambrosio

Alida Valli

Nel film che la lanciò in America

Eugenia Grandet

Dal grande romanzo di Balzac

Eugenia Grandet

 

  È una delicata figura di donna innamorata e sacrificata che Balzac ha inciso con i tratti più profondi della sua arte incomparabile, facendone la commovente eroina d’una cruda vicenda ottocentesca che il film evoca con gusto prezioso. [...].



  Nicola D’Agostino, Avaro (L’), in AA.VV., Dizionario letterario Bompiani delle Opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature. Volume ottavo. Personaggi: A-Z, Milano, Valentino Bompiani Editore, 1947, pp. 88-91.

 

  p. 90. Invece, se passiamo a Balzac, troviamo l’avarizia analizzata con la fredda obbiettività dello scienziato, incasellata nell’enorme schedario della sua trattatistica psicologica, non meno tabaccosa a volte di quel trattatello del settecentesco Lyncherus il cui titolo è il sublime del barboso (De Cacophilargyria seu Auri Sacra Fames, Halae, 1737). Per Balzac l’avaro è più un eroe della riflessione che non un esaltato amante dell’oro e del dominio. Papà Grandet [...], che è l’avaro più celebre della galleria balzacchiana, è un uomo di freddo giudizio e di ferma condotta che si impone una vita miserabile con l’occhio a uno scopo preciso. D’una perspicacia tutta contadinesca, sospettoso e gelido senza essere crudele, ambizioso ma riservato e schivo, sa attendere paziente come una serpe il momento in cui aprirà «la gola della sua borsa». Ma non è un monomane: à una stretta linea di condotta, e a questa sacrifica ogni sentimento ma solo quando è necessario. Dice Balzac: l’amore dell’oro in sé è nell’avaro un fenomeno di indebolimento senile, ed è l’impotenza che spinge l’avaro a ripiegarsi sul simbolo della sua passione. A due passi dalla fossa Grandet riscalda le vene vizze al luccichio dei luigi d’oro che sua figlia gli posa dinanzi sul tavolo, e fa un gesto spaventoso per acchiappare il crocefisso d’argento che il prete gli porge all’estrema unzione. Ordine, disciplina, rinuncia sono alla base della prassi di Gobseck che sedendo alla luce della lampa nella sua miserabile bottega si sente dominatore del mondo. Egli à superato le emozioni umane e à attinto la calma suprema dello stoico: la sua vita gretta è la prova del suo disprezzo, esprime la dignità del suo stato. Solo vicino alla morte decade, come Grandet. A petto di questi grandi avari Hochon di Casa da scapolo è un dilettante, un semplice tirchio, uno che si fa distrarre da altri interessi e deve ricorrere a gratuite considerazioni morali per giustificare dinanzi a se stesso la propria passione. Il caso di La Baudraye (in La musa del dipartimento) può invece interpretarsi freudianamente: ambizioso e incapace, à scaricato sul denaro la sua libidine: è avaro perché è codardo e privo di grandezza. Altri avari non si contentano di un potere astratto e cercano le gioie materiali: è il caso di Rigou dei Contadini, «profondo come un monaco, silenzioso come un benedettino, dissimulatore, sempre in regola con la legge, un uomo che avrebbe potuto essere un Tiberio ... o un Richelieu ... e si accontenta di essere un voluttuoso», un sadico che gode dei sudori e dei dolori altrui. E infine altri come Graslin del Curato del villaggio è avaro per tendenza innata che egli tenta invano di inibire.

 

 

  Sibilla Aleramo, Non Proust e non Balzac, «Milano sera», Milano, Anno III, 20-21 Ottobre 1947, p. 3.

 

  Quante esistenze ho rasentate, dalla giovinezza in qua! E tutte m’hanno raccontato i loro casi, tormenti, speranze, realizzazioni, e io ho veduto subito, sempre, come in un’illuminazione, di che era composta la loro più segreta essenza, qual era l’intimo loro valore. Quante! Centinaia, migliaia. E di quante ho dimenticato tutto, il volto, le vicende, il nome. E di nessuna ho approfittato, io scrittrice, non ne ho fatto soggetto di nessuna novella. Ma quell’io che solo ha formato l’argomento di ogni mio libro (a dispetto d’ogni rimprovero di critici e anche d’amici) s’è andato nei decenni arricchendo di tutta quella sostanza vitale, sia di quella a cui aderiva come di quella da cui ripugnava: s’è, il mio io, di tanta complessa esperienza umana, giovato silenziosamente, quasi inavvertitamente, non come un Balzac o un Proust, ma per approfondirsi e insieme affinarsi, nella lunga diuturna autocreazione che non cesserà se non con l’ultimo respiro ...

  Perché nulla va perduto nell’esistenza del poeta, anche se ii poeta si trasmette al futuro soltanto in pochi accenti ...

  Nulla va perduto del tempo che si trascorre accanto a persone che riteniamo ci siano indifferenti, e che magari realmente lo sono, nè di quello che viviamo in una solitudine che sembra inattiva ...



  G.[iorgio] Ba.[ssani], Eugenia Grandet [Eugénie Grandet], in AA.VV., Dizionario letterario Bompiani ... Personaggi: A-Z, p. 317.

 

  Protagonista dell’omonimo romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850). Figlia di un avaro e ricchissimo affarista di provincia, rappresentante tipico della nuova borghesia affermatasi con la Rivoluzione, e di una mite e dolce figura di succube domestica, Eugenia à ereditato dal padre, duro e autoritario, la fermezza del carattere; dalla madre, rassegnata e santa, la pietà e la spiritualità: in una sorta di sintesi delle qualità migliori dei due coniugi che par quasi riflettersi nella forte e placida serenità della sua bellezza casta e raccolta. Ed è appunto questa bellezza che, già centro delle mire ambiziose dei «partiti» più cospicui di Saumur, non sembra indegna dell’interesse del cugino Carlo, delicato e viziato parigino in visita agli zii provinciali, del quale Eugenia perdutamente si innamora. L’amore di Eugenia, avversato dal padre calcolatore per la sopraggiunta rovina finanziaria di Carlo, non andrà oltre la dolcezza senza peccato dei primi giuramenti di fedeltà eterna, in un primo casto bacio: e se per Carlo, sospinto dallo zio verso le Indie lontane in cerca di fortuna, il ricordo del piccolo intrigo con la cugina non resterà presto nella memoria che come una parentesi assurdamente sentimentale e romantica da dimenticare e da arrossirne ora che la vita « vera», con tutti i suoi diritti, lo richiama alla realtà delle cose, per Eugenia, invece, questo ricordo rimarrà incancellabile, a esso ella resterà fedele come al più prezioso di tutti i suoi averi, di esso la sua vita, tutta interiore, si nutrirà per sempre, con l’abbandono fidente di uno spirito piamente religioso. La legittimità poetica di Eugenia è tutta raccolta nell’iperbole della sua vocazione di bontà, nel suo viso dolce, tranquillo e bello «come quello della Madonna». È un personaggio costruito senza nessun lusso di perplessità psicologiche, semplice e solenne come un esempio tipico, platonico, vivo di una inestinguibile vita ideale.



  Maurizio Blanc, Le donne di “de” Balzac, «La Voce repubblicana. Quotidiano del Partito repubblicano italiano», Roma, Anno XXVII, N. 124, 29 Maggio 1947, pag. 3.


  Uno strano contratto - La “sublime femme” rimane al verde - Una donna e una fortuna – Manie snobistiche – Due lettere anonime - Madame de Hanska e la Contesta Guidoboni Visconti.



  Carlo Bo, Primi dati su Proust, «Letteratura», Anno IX, Fascicolo 6, Novembre-Dicembre 1947, pp. 26 e sgg.; ora in Della lettura e altri saggi, Firenze, Vallecchi Editore, 1953, pp. 148-179.

 

  E mettiamolo senza tardare un mi­nuto vicino a Balzac, vicino a quello che fino ad oggi è il maggior inventore nel campo del romanzo: la vita per Balzac conserva sempre un dato, sia pure minimo, di occasione, di mistero, di solito il suo lettore si trova nel centro della vita senza accorgersene, senza sapere, cioè, la strada che ha fatto per arrivare a quel dato punto, c’è un attimo di sorpresa, la scintilla del miracolo. La verità che sembra incarnarsi in un personaggio come è quello di Madame Marneffe è però una verità incontrollata e forse per questo Balzac sembra ancora più grande (e uno spirito attento come quello di Ramon Fernandez lo metteva al di sopra di Proust). La stessa verità vive in Proust ma controllata o almeno si può segnare la strada che ci ha portato a quel punto, né conta se all’ultimo momento anche per lui interviene lo stato di grazia, quel minimo di voce segreta che sistema definitivamente l’intera nozione. La differenza fra Proust e Balzac sta piuttosto nella disposizione delle loro anime, Balzac era preoccupato di creare, Proust vuol soltanto sapere, conoscere; il primo crede che l’immagine possa chiudere in sé una parte intera di vita, il secondo accetta l’immagine come sollecitazione, come la prima forma dell’idea e per questo le verità che ci offre Balzac hanno sempre qualcosa di provvisorio e allora il lettore deve dire: «già, la vita è così, non ce la possiamo spiegare» mentre con Proust almeno per il tempo che dura il giuoco, la verità appare chiara e legittima, completamente giustificata e il lettore trova che forse per la prima volta la nostra intelligenza è riuscita a porre un limite al giuoco della fortuna, alla volontà del mistero. Quella che è stata definita come attenzione scientifica di Proust non è che il primato della coscienza, il segno di una lotta sproporzionata accettata con coraggio fino in fondo: in questo Proust è davvero figlio del suo tempo e viene dopo il grande tentativo dell’ultima letteratura dell’ottocento. Potrebbe sembrare soltanto una boutade ma non la è, prima di Proust c’è stato Mallarmé o se preferite c’è stato la cifra comune di des Esseintes, una cifra d’altra parte che ha contato moltissimo per un altro suo coetaneo, il Valéry. L’importanza della letteratura francese della fine dell’ottocento, per quello che aveva di maggiormente degno e cioè per la lezione simbolista, sta nel dramma aperto in modo assoluto fra vita e letteratura. Per un Balzac la letteratura è ancora una forma interna della vita, quando dice «ma ritorniamo alla realtà, pensiamo a Vautrin» non scherza affatto, significa che per lui tutto si svolge sullo stesso piano e il libro non è che uno specchio, il famoso specchio tenuto davanti al giuoco della vita.

 

 

  Mario Bonfantini, Addio [Adieu], in AA.VV., Dizionario letterario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature. Volume primo. Opere: A-B, Milano, Valentino Bompiani editore, 1947, pp. 24-25.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850): pubblicato nel 1830. Due vecchi amici d’infanzia, il marchese d’Albon, magistrato. e il colonnello Philippe de Sucy, da poco reduce dalla Russia dov’era rimasto prigioniero, dopo un’infruttuosa partita di caccia nei dintorni di Parigi, sono in cerca di un luogo dove ristorarsi e riposare, quando nei pressi di una vecchia casa in rovina, alla vista di una strana donna che al loro apparire scompare nel vicino bosco, il colonnello cade, colpito da malore. Egli non si era ingannato riconoscendo in lei la donna un tempo amata, la contessa Stéphanie. Essa aveva seguito il marito, il vecchio generale conte di Vandières. nella disastrosa campagna di Russia; salvata nei momenti più tragici della ritirata dal suo amante, il maggiore Philippe de Sucy, doveva infine la vita all’abnegazione di questo eroico ufficiale, che le cedeva l’unico posto rimasto libero nella zattera che la portava salva alla riva opposta della Beresina Ma quell’addio tragico l’aveva resa folle. Ora Philippe, che ha ritrovata la sua donna, studia il modo di ridarle la ragione. Dopo vari tentativi non riusciti, Philippe de Sucy pensa di far rivivere davanti agli occhi della donna, in tutta la sua tragica realtà, il momento della loro separazione sulla Beresina. L’esperimento riesce, ma il ritorno alla conoscenza e all’amore è sensazione troppo forte per quel debole organismo e l’uccide. Il racconto appartiene alla prima maniera del B., assolutamente romantica, ma già alcune possenti pagine (tra cui la descrizione del passaggio della Beresina, rimasta celebre) mostrano anche qui allo scoperto tutto il vigore del suo genio.

 

  Albergo rosso (L’) [L’Auberge rouge], pp. 55-56.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850). pubblicato nel 1831. Alla fine di un pranzo, nell’alta società, a Parigi, il banchiere Herman, tedesco, racconta la strana e drammatica vicenda di cui egli era stato informato dallo stesso protagonista, molti anni prima, ai tempi delle guerre napoleoniche, trovandosi in prigione ad Andernach, per essere stato arrestato dai francesi invasori come franco tiratore Due giovani chirurghi militari. Prosper Magnan e un suo amico, pernottano in un alberghetto di Andernach. Essi dividono la cena e l’unica camera rimasta libera con un industriale, fuggito dalla sua manifattura distrutta; costui, nei fumi del vino, confida ai due giovani d’avere nella valigia centomila franchi in oro e diamanti. Tutti e tre poi si coricano, ma Prosper Magnan non riesce a prender sonno, ossessionato dall’idea dei vantaggi che gli darebbe un facile delitto, destinato con tutta probabilità a restare segreto e impunito. Tuttavia, dopo una terribile lotta interiore, la sua coscienza si risveglia e il giovane, che già si era levato nel buio, ritorna a letto dove piomba in un sonno profondo. Al mattino è destato da numerose persone che entrano nella stanza, e vede con raccapriccio il corpo dell’industriale orribilmente straziato: le coperte, persino le sue mani, sono imbrattate di sangue, e sul letto si scorge lo strumento di chirurgia col quale egli aveva meditato di compiere l’assassinio. Davanti al consiglio di guerra Prosper Magnan, sconvolto, afferma d’aver pensato al delitto, ma sostiene la sua innocenza e l’incapacità del suo amico a compiere un simile atto. Troppi indizi sono però contro di lui, ed egli sarà perciò fucilato dopo aver protestato ancora una volta la verità, nella confessione che egli ha fatto al suo casuale compagno di prigionia. Il racconto dello Herman arriva fin qui, quando uno degli invitati, Fréderic Taillefer. il quale durante la narrazione ha dato segni evidenti di agitazione, è colpito improvvisamente da un grave malore che in breve tempo lo condurrà alla tomba: il Taillefer (il quale non era altri che l’amico di Prosper Magnan e che doveva la sua ricchezza a quel delitto per cui l’altro era stato fucilato) è stato così raggiunto dalla giustizia divina. In questo scritto giovanile B realizzò, con mano già sicura, quel suo gusto per i tragici e complicati intrighi e quel senso di una drammatica trama segreta che si cela sotto le ordinarie apparenze della vita sociale, che saranno tra i temi capitali di tutta la sua grande opera. L’analisi dell’angoscioso stato d’animo del protagonista appar condotta con effetti di paurosa ossessione così precisi nella loro estrema violenza, da giustificare il successo del racconto.

 

  Alberto Savarus, pp. 57-58.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850). pubblicato nel 1842. A Beçanson, tra gli ultimi anni della Restaurazione e i primi anni del regno di Luigi Filippo, la baronessa di Watteville, donna ancor giovane, ricca e imperiosa, domina il debole marito e l’unica figlia Rosalie. Suo cavalier servente è il bell’Amedée di Soulas il "lion" della città, che essa destina alla figlia Ma nell’animo, della giovinetta, oppressa da una tirannica educazione. covano ribelli sogni romanzeschi. In città si è stabilito da poco un avvocato, Savaron de Savarus. la cui possente e misteriosa personalità imbarazza non poco la pettegola società di Besançon, e Rosalie concepisce per lui una romantica passione, che cresce morbosamente in segreto, stimolata dagli stessi ostacoli. Savarus prepara la sua candidatura per le prossime elezioni del Parlamento, mentre Rosalie di Watteville cerca di carpire il suo segreto e lo sorveglia. Savarus pubblica una lunga novella nel gusto del tempo. “L’ambizioso per amore”: romantica storia di un giovine bastardo di nobile origine durante un viaggio di vacanze in Svizzera si innamora pazzamente di una bellissima italiana, esiliata in quel paese con il vecchio marito per ragioni politiche; scopre poi che essa è nientemeno che la principessa Colonna che aveva sposato per ragioni tutte speciali un nobile napoletano con cinquant’anni più di lei, ha la gioia di sapersi riamato, e si separa dalla sua donna col giuramento di conquistarsi in pochi anni una posizione che gli permetta di sposarla quando sopraggiunga la morte del marito, che non potrà molto tardare. Rosalie intuisce che l’eroe della storia non è altri che lo stesso Savarus, e ben presto i suoi sospetti sono confermati dalla corrispondenza dell’avvocato che essa fa intercettare. Quando sopraggiungono le elezioni, Savarus, nel momento più delicato della campagna elettorale, misteriosamente scompare. La giovinetta, sapendo che la principessa Colonna era ormai vedova, con una diabolica macchinazione epistolare era riuscita a farle credere che Savarus non l’amava più. Quando l’avvocato riesce a mettere in chiaro l’inganno, la superba principessa, per vendetta, è già passata a nuove nozze. Savarus si ritira in un convento di trappisti. Rosalie, dopo la morte del padre, si separa dalla madre (che sposa il bell’Amedée) e si ritira anch’essa dal mondo, in una sua proprietà di campagna Il racconto, che appartiene al primo periodo dell’arte di B., mostra una tipica mescolanza di vigoroso realismo e di stravagante romanticismo. Esso vive solo negli episodi, dove il possente stile analitico del grande narratore fa le sue prime prove. Presenta anche uno speciale interesse per il fatto che B. ha conferito alla suggestiva figura dell’ambizioso Savarus molti lineamenti del suo carattere.

 

  Ballo di Sceaux (Il) [Le bal de Sceaux], p. 384.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1830. Nella sua brevità, la novella appare densissima di saporosi particolari, ricca di vasti quadri di costume. Il vecchio conte di Fontaine. monarchico fedelissimo, uno degli eroi della guerra di Vandea, si adopera felicemente, presso Luigi XVIII, per restaurare la fortuna della famiglia, completamente distrutta durante la rivoluzione. E la sistemazione dei suoi tre figli e il matrimonio delle due prime figliole forniscono già al B. l'occasione per disegnare con mano felicissima una serie di arguti episodi. Ma l’ultima figlia del vecchio gentiluomo, Emilie, spiritosa e bellissima giovinetta di molti meriti ma troppo bizzarra e orgogliosa, dichiara che sposerà soltanto un Pari di Francia. Villeggiando con la famiglia nei suoi possessi di Sceaux, è conquistata alfine dalla suggestiva e signorile grazia di un giovine che si rivela ben presto adorno di tutte le perfezioni, Maximilien Longueville. Alcuni facili equivoci la persuadono che costui sia nobile, ed Emilie resta convinta d’aver trovato il suo ideale. Ma tornata a Parigi viene a sapere che Maximilien lavora in una grande azienda commerciale, e tronca senz’altro sdegnata Più tardi lo ritrova in un ballo, conosce un fratello di lui, diplomatico, e può averne certe informazioni che per un attimo la fanno vacillare nella sua decisione Ma l’orgoglio di Emilie è troppo forte, e si urta d’altronde a un pari orgoglio da parte di Maximilien offeso: benché intimamente straziata, essa finisce per rinunciare, e si preclude ogni pentimento sposando un suo vecchio parente ricchissimo, l’ammiraglio di Kergarout, mentre Maximilien salirà alle più alte fortune, dopo la Rivoluzione del 1830, divenendo deputato e poi Pari di Francia A parte la romanzesca forzatura della conclusione, il racconto, che è tra le prime opere di B., sfiora già le vette dell’arte sua, per la ricchezza e la vitalità artistica di molte pagine e l’efficacia dello stile, che fonde in un equilibrio perfetto le più squisite sottigliezze analitiche coi tratti più audacemente pittoreschi.


  Béatrix, pp. 406-407.

 

  Opera narrativa di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicata nel 1839. Nella casa del padre, vecchio vandeano, e nell’angusta vita provinciale della vecchia Bretagna, il giovane Calyste de Guénic arde dal desiderio di evadere verso un ideale diverso di vita. Tale ideale gli sembra personificato dalla ancor giovane Félicité de Touches, una scrittrice e musicista che si è già acquistata larga fama con lo pseudonimo di Camillo Maupin. Ma Félicité ha presso di sé Claude Vignon, un notissimo scrittore che ambisce a lei. Tra quei due, il cui amore è cerebralità e ragionamento più che sentimento e passione, Calyste rappresenta la schiettezza del cuore, l’ardore ingenuo della giovinezza Un giorno arriva, ospite, la marchesa di Rochefide, accompagnata dall’amante, il musicista Conti, che già era stato amato da Félicité e l’aveva tradita per lei. Il gioco delle rivalità ora si complica; e il giovane Calyste, già attratto dalla bionda e bellissima marchesa è spinto verso di lei dall’arte sottile di Félicité, la quale pensa di vendicarsi in tal modo del Conti. Senonché Calyste ingenuamente tradisce il suo piano, e il musicista, insospettito, parte portandosi via la marchesa. Il giovane, straziato da questa duplice delusione, cade in un funesto abbattimento dal quale però Félicité lo salva portandolo a Parigi e favorendo la sua unione con Sabine di Grandlieu, a cui essa dona una parte della sua immensa ricchezza. Dopo di che a questa grande amatrice mancata, ridottasi a questa parte di protezione quasi materna, non resta che chiudersi in un convento. Le ulteriori vicende amorose di Calyste non aggiungono gran che alla fisionomia di questo strano romanzo, nel quale la bravura del B. si mostra in certo modo avulsa dalle ragioni vere del dramma: che a sua volta oscilla senza un centro preciso, in bilico tra il tema della “educazione sentimentale” del giovane protagonista dal cuore poetico e appassionato ma dal fatuo carattere, e l’intima tragedia del destino di Félicité.

 

  Borsa (La) [La Bourse], p. 455.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1832. Il giovane pittore Hyppolyte Schinner, avendo stretto conoscenza con due sue vicine, la bellissima Adelaide di Rouville e la sua vecchia madre, è colpito dal contrasto tra i modi signorili delle due donne e la miseria della loro casa, nella quale spiccano alcuni resti di antica grandezza Mentre egli intreccia con Adelaide un tenero idillio, alcuni amici gli dicono di aver motivi di dubitare della moralità della sua bella vicina; la casa Rouville è frequentata da due vecchi gentiluomini dell’antico regime, con una familiarità che può sembrare eccessiva: si gioca alle carte, ed essi perdono abitualmente somme abbastanza rilevanti; e lo stesso pittore, avendo dimenticato una sera una borsa con del denaro, è assai sorpreso di non vedersela restituire da Adelaide, che nega con un certo imbarazzo d’averla mai vista. Ma alfine tutto si chiarisce per il meglio: la fanciulla aveva voluto semplicemente sostituirgli la vecchia borsa con un’altra, preziosamente lavorata con le sue stesse mani; e i vecchi gentiluomini si rivelano per amici intimi e compagni di guerra del signor di Rouville, morto in battaglia tanti anni prima, che avevano immaginato l’espediente del gioco per soccorrere l’orgogliosa miseria della vedova. Sicché nulla si oppone alla felice conclusione dell’amore di Hyppolite e Adelaide. Il bizzarro racconto è condotto con una estrema delicatezza, assai rara anche in un grande scrittore come il B., sempre potentissimo ma talvolta troppo greve e insistente.

 

  Volume secondo. Opere: C-D:

 

  Capolavoro sconosciuto (Il) [Le chef-d’oeuvre inconnu], p. 110.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799- 1850), pubblicato nel 1832. Sono saliti allo studio del pittore Porbus il giovane artista Nicola Pussin (sic), uno sconosciuto, e il vecchio maestro Frenhofer, ed entrambi ammirano un grande quadro rappresentante Maria Egiziaca, che i primi raggi del sole illuminano. Il vecchio maestro è contento del lavoro, ma trova che la creazione è incompleta; poi, come preso da frenesia creatrice, afferra pennello e tavolozza e, con alcuni tocchi nervosi e sicuri, compie il miracolo di far rivivere quella figura d’arte. Ma Frenhofer, padrone della tecnica, non à ancora compiuto il suo capolavoro, la «Belle-Noiseuse», a cui lavora da dieci anni e che nessuno à mai potuto vedere: non à ancora trovato la donna che gli ispiri la perfezione a cui mira. Nicola Pussin, pur d’impossessarsi del segreto d’arte del maestro, propone di far posare la donna che ama. Alla vista di questa incomparabile bellezza, il vecchio Frenhofer compie in un attimo la sua opera e la mostra ai due artisti che, stupefatti, riescono a scorgere appena, in un angolo della tela, la punta d’un piede nudo, delizioso, vivente sperduto in un caos di colori, di toni, di sfumature, in una specie di nebbia informe. La delusione che si legge sul volto dei due artisti uccide il maestro e il suo grande sogno di perfezione. C’è qui, come in Gambara, l’ambizione di scandagliare i misteri della psiche umana e il miracolo della creazione artistica. Nello stupore dei due giovani pittori davanti alle informe (sic) audacie del quadro sembra volutamente adombrata la fatale incomprensione del pubblico di fronte alle possenti e oscure originalità di ogni vera o profonda rivoluzione artistica.

 

  Casa da scapolo [Un ménage de garçon], p. 148.

 

  Titolo definitivo d’un romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), uscito nel 1842, che venne a far parte della triade dei «Celibi». Il titolo primitivo dell’opera era quello di La Rabouilleuse, che è il soprannome della protagonista del racconto, la bella Flora Brazier, datole da contadini del luogo quand’essa, cenciosa ragazzetta orfana e vagabonda, assolveva per pochi soldi i più umili servigi («rabouiller» nel dialetto di quelle campagne significa batter l’acqua dei fossi per snidarne i pesci). Ora essa è entrata, in qualità di serva-padrona, in casa di un vecchio possidente ricco e celibatario, Giangiacomo Rouget, irretito dalla sua procace bellezza, ed è additata, nel borgo di Issoudun, come sua probabile erede. Ma il personaggio di maggior rilievo nel racconto è Filippo Brideau, un nipote del vecchio Rouget, ex-ufficiale napoleonico rovinato dalla Restaurazione. Ospite dello zio, Brideau valuta subito la situazione: scopre una tresca di Flora con un losco figuro del posto, il capitano Gilet, che aspetta anch’egli la fine del vecchio Rouget invalido e prossimo alla morte; lo provoca a duello e lo uccide; poi, sbarazzatosi del rivale, persuade lo zio a sposare Flora «in extremis», e la sposa lui stesso appena essa è rimasta vedova, venendo così in possesso di tutta l’eredità. Ricchissimo, può rientrare nell’esercito, acquistare un feudo col titolo di conte. Adesso la povera Flora però gli è d’impaccio, e Brideau ne provoca la morte, in un incidente che può sembrare fortuito. Sopraggiunta l’impresa d’Africa, l’avventuriero vi prende parte col grado di colonnello, e trova la morte sul campo, ricordando in quel momento supremo i giovanili sogni di gloria, con l’esclamazione ch’egli rivolge a se stesso: «Un colonnello dell’Impero!». Il Balzac infatti à voluto conferire alla cupa vicenda del suo truce eroe un carattere esemplare: Brideau rappresenta il destino di tutta una generazione che si era lanciata nell'epopea napoleonica pronta a conquistarsi a rischio della vita il più fulgido avvenire, e che, trovandosi di colpo ridotta nell’oscurità e nelle strettezze, aveva finito per rivolgere spesso in spregiudicato arrivismo la naturale energia. Ma della sua eroica giovinezza Brideau à conservato solo l’audacia, e la sua fantastica figura diviene il simbolo del più spietato cinismo.   

  * Émile Fabre (n. 1870) trasse dal romanzo un dramma in tre atti, La Rabouilleuse (1903: titolo italiano Il colonnello Brideau), in cui la vicenda termina con la morte del capitano Gilet e lo smascheramento degli Intrighi di Flora.

 

  Casa del gatto che gioca a palla (La) [La maison du chat-qui-pelote], p. 149.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1830, una delle primissime opere del grande romanziere. D bizzarro titolo ricorda l’insegna di una antichissima azienda commerciale, nella Parigi del Primo Impero. Il signor Guillaume, «successore di Chevrel», ricchissimo e potente mercanto di stoffe, vive in quella casa con austerità tradizionale, con la moglie, le due figliole Virginia e Agostina, e quattro commessi, il primo dei quali, Giuseppe Lebas, è da lui destinato a sposare la figlia maggiore e preconizzato erede dell’azienda. Ma il giovine pittore Teodoro di Sommervieux, dal brillante e focoso ingegno, ricco, nobile e di vita disordinata, si è innamorato della bellissima figlia minore Agostina e ne è riamato. L’amore dei due giovani vince le prevenzioni dei coniugi Guillaume e di tutto il loro ambiente, verso una unione così male assortita: Agostina, sfruttando una certa debolezza del padre verso di lei, riesce a sposare il suo pittore. Ma, dopo i primi mesi di ebbrezza, la vita coniugale le riserva ogni sorta di dolori e delusioni: trasportata d’un tratto in un ambiente fastoso e mondano, raffinato e corrotto, essa vi si trova sperduta; mentre lo stesso Teodoro, ripreso nel giro delle vecchie abitudini, finisce per trascurarla, la tradisce, risponde con brutalità alle sue rimostranze, e si mostra chiaramente pentito della scelta, fatta con giovanile precipitazione. L’infelice Agostina, straziata, cede a una malattia che finisce col portarla alla morte dopo pochi anni. La tragica vicenda è presentata dal giovane Balzac con tutta la vigoria di stile, la chiaroveggenza psicologica, il vivo colorito e l’energia del tratto che dovevano presto renderlo famoso. Celebre la minuziosa, insistita e suggestiva descrizione della Casa Guillaume, nelle prime pagine; già notevole l’eccesso della tendenza moralizzatrice.

 

  Casa Nucingen (La) [La Maison Nucingen], p. 154.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), uscito nel 1838. Illustrando la fortuna del banchiere a origine alsaziana Nucingen nella Parigi della Restaurazione e di Luigi Filippo, il Balzac à voluto investire con la sua analisi tutto il mondo dell’alta finanza. Goffredo de Beudenord, elegante «dandy» già diplomatico, desideroso di sistemare la sua vita e metter su casa, per consiglio del tutore vende le sue rendite e affida il capitale a Nucingen, il banchiere già famoso al quale astuti colpi ànno procurato un illustre nome. Proprio a un ballo in casa Nucingen, Goffredo conosce Isaura d’Aldrigger, l’orfana del banchiere alsaziano Aldrigger presso il quale Nucingen aveva fatto le sue prime armi. Tra i due giovani nasce l’amore, e il loro avvenire sembra assicurato dalla prosperità del banchiere che amministra i loro averi. Ma Nucingen sta preparando uno dei suoi colpi: metterà in liquidazione la sua Casa e sparirà per qualche tempo. Rastignac, allora, l’amante della moglie del banchiere e il suo braccio destro, previene l’amico Goffredo perché chieda a Nucingen di impiegare i suoi fondi in azioni «Claparon»; e così fanno anche la vedova Aldrigger e la figlia. Goffredo e Isaura si sposano. Ma tosto il diabolico banchiere provoca un altro colpo di scena: la sua ditta à già liquidato le sue passività d’accordo coi creditori, quando i giornali annunciano il ritorno del banchiere, e poco dopo si segnala l’arrivo di due bastimenti carichi di metallo, a Bordeaux, per il valore di sette milioni di franchi, per conto della Casa Nucingen. Il finanziere torna dunque in auge più che mai, mentre la Società Claparon, che non è altro che una sua creazione fittizia, non tarderà a precipitare. Goffredo e Laura si trovano così rovinati. Il valore intrinseco di quest’opera di Balzac non è in sé grande, giacché il romanziere, nell’ambizione di mostrare le molle segrete del gran gioco della Finanza, à curato meno i caratteri: lo stesso Nucingen appare piuttosto un simbolo che una persona viva. Il libro serba tuttavia un notevole valore documentario, ed è quasi una chiave per intendere molta parte della rimanente opera narrativa del Balzac, i cui personaggi più tipici ricorrono qui non di rado.

 

  Caterina de’ Medici (Su) [Sur Catherine de Médicis], p. 170.

 

  Composita e vasta opera narrativa in tre parti di Honoré de Balzac (1799-1850), scritta in due riprese nel 1828 e nel 1836, pubblicata integralmente nel 1843. Nella prima parte, Il Martire calvinista, gli intrighi della complicata politica di Caterina de’ Medici, ai tempi del debole Francesco II e dell’astuta Maria Stuarda, sono illuminati di viva luce romanzesca in una serie di drammatici episodi che si collettano all’avventura di un immaginario protagonista: il giovane Cristoforo, figlio di Licamus (sic) (il pellettiere della Casa Reale). Questo Cristoforo, fervente adepto della riforma calvinista, dopo aver preso parte a una serie di segreti maneggi nei quali è implicata anche la Regina Madre, affronta eroicamente crudi martiri per non compromettere la sua complice regale. Egli trova poi la sua ricompensa quando, divenuta reggente dopo la caduta del Guisa con l’ascesa al trono del figlio minore Carlo IX, Caterina lo nomina consigliere al Parlamento, ciò che lo porta ad abiurare e a placare il suo idealismo eroico nel quieto e interessato conservatorismo paterno. Con la seconda parte, La confidenza dei Ruggieri, l’autore vuole illustrare quel leggendario mondo di stregoni e istrioni che viveva legato alla corte di Caterina de’ Medici. Lorenzo e Cosimo Ruggieri sembrano realmente dotati di potere divinatorio, che essi però sfruttano rivestendolo di molti inganni. Caterina si vale di loro nei suoi intrighi per soddisfare la sua sete di dominio, e per asservire la volontà del figlio Carlo IX. Dopo una complicata avventura il re riesce ad avere in suo potere i fratelli Ruggieri, e sta per metterli a morte; ma in un colloquio con loro (e son pagine drammatiche e curiosissime nelle quali si aduna in verità tutto l’interesse del racconto) resta affascinato dalla loro furbesca abilità, colpito e turbato profondamente da alcuni prognostici che si avvereranno in pieno, e finisce per conceder loro la salvezza. La terza parte, I due sogni, ci trasporta del tutto nel mondo fantastico. A un pranzo settecentesco due provinciali sconosciuti raccontano i loro sogni. L’uno, che è avvocato, dice di aver sognato Caterina de’ Medici, la quale à esaltato la notte di San Bartolomeo, che, a suo giudizio, non è stata realmente efficace, solo perché la strage purificatrice non fu condotta fino in fondo; e l'ombra di Caterina lo à ammonito perché un simile errore non si ripeta. L’altro, un chirurgo, racconta d’aver sognato d’un malato, che egli avrebbe dovuto operare il giorno dopo, sotto la cui pelle viveva una straordinaria quantità di esseri in lotta fra di loro: cosicché quando egli piantava il suo bisturi nella coscia cancrenosa del malato, ne uccideva migliaia e migliaia ... Bizzarra fantasia la quale vuole in sostanza dimostrare che l’esemplo e i metodi di Caterina de’ Medici possono benissimo avere ispirato la politica di certi uomini della Rivoluzione francese: l’avvocato sarebbe Robespierre, e il chirurgo, Marat. La farraginosa opera, ricca di pagine pittoresche e di episodi disegnati con eccezionale vigore, pur nell’intima debolezza della costruzione, dimostra un Balzac attirato ancora dal romanzo storico che tenta di applicare quella sistematica e sottilissima analisi psicologica e quei fantasiosi scandagli nelle misteriose profondità della vita sociale dai quali trae frutti ben maggiori quando li volge allo studio della vita contemporanea.

 

  Colonnello Chabert (Il) [Le colonel Chabert], pp. 308-309.

 

  Questo romanzo, o meglio, lungo racconto, uscito nel 1832, è una delle prime opere di Honoré de Balzac (1799-1850) destinato a far parte della Commedia umana. Un giovane avvocato riceve un giorno a Parigi, pochi anni dopo la caduta dell’Impero, la visita d’un vecchio miserabile, il quale gli rivela d'essere il celebre colonnello Chabert, dato per morto quasi dieci anni prima alla battaglia di Eylau, dove egli aveva procacciato la vittoria con una celebre carica di cavalleria. Il vecchio gli narra come, risvegliandosi in una fossa tra i cadaveri, con un’orribile ferita al cranio, e raccolto da certi contadini, fosse riuscito a guarire e a ritornare in Francia dopo esser passato attraverso una lunga odissea. Nessuno però l’à voluto riconoscere: sua moglie, presunta vedova, ed erede della sua fortuna, à sposato un conte della Restaurazione, mentre lui, il colonnello, è ridotto all’estrema miseria e stimato pazzo da tutti quelli ai quali si rivolge per aiuto. Il giovine avvocato gli crede, lo soccorre, e promette di sostenere la sua causa. Siccome la moglie teme lo scandalo, egli riesce a persuaderla a venire a una transazione: il colonnello Chabert riavrà da lei parte della sua fortuna, e intenterà una duplice azione giudiziaria, per ottenere al tempo stesso l’annullamento dell’atto di decesso e del matrimonio. Ma questo piano non conviene alla signora, la quale, speculando sull’amore che il colonnello Chabert continua a sentire per lei e sulla nobiltà d’animo del vecchio soldato, sta per ottenere da lui ch’egli continui a passare per morto e scompaia per non distruggere la sua felicità. Ma un errore di tatto dell’uomo d’affari provoca una reazione del vecchio colonnello, il quale viene a comprendere che la moglie à finto per lui affetto e gratitudine, ma in realtà lo odia, nel suo mostruoso egoismo. Questa rivelazione fa sorgere nell’animo semplice e leale di Chabert un tale senso di disgusto, che egli volontariamente si ritira, rinuncia a tutto e diviene un vagabondo senza tetto e senza nome. Una dozzina d’anni più tardi, l’avvocato lo riconosce in un vecchio rimbecillito e maniaco che trascina gli ultimi suoi giorni in un ospizio. La morale del racconto sta nelle parole dell’avvocato a un suo giovane amico: «esistono nella nostra società tre uomini, il prete, il medico e luomo di legge, che non possono stimare il mondo. Essi vanno vestiti di nero forse perché portano il lutto di tutte le virtù e di tutte le illusioni». La capacità di Balzac di creare dei personaggi più veri di quelli reali, il suo stile minuzioso colorito ed energico, la violenta passione che egli porta nelle sue analisi del cuore umano, concorrono a fare di questo piccolo libro un capolavoro.

 

  Commedianti senza saperlo (I) [Les comédiens sans le savoir], p. 320.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1846. La breve narrazione, costruita quasi secondo la tecnica della moderna «rivista» teatrale, poggia su un’esilissima trama. Il signor Silvestro Palafox-Castel-Gazonal, nobiluomo di provincia, piccolo industriale del Rossiglione, è venuto a Parigi per un processo che à con l’amministrazione della sua provincia. Il bravuomo si ricorda di avere a Parigi un lontano cugino diventato il pittore alla moda della capitale, Leone De Lora, e ricorre a lui cercando una raccomandazione presso il Governo. Costui riesce ad accontentarlo, ma intanto, colpito dalla pittoresca ingenuità di Gazonal, m unisce all’amico Bixou, il famoso caricaturista, e si toglie il gusto di condurre in giro per un paio di giorni il cugino negli ambienti più caratteristici della capitale: Gazonal vede così un salotto aristocratico, fa conoscenza col mondo delle attrici e delle mondane di lusso, con un cappellaio scrittore e filosofo, con una chiromante usa ad esser consultata dai ministri, entra per un istante nell’ambiente del giornalismo, del quale intravede con stupore i complicati intrighi, sente discorrere con sbalorditiva eloquenza una specie di re dei parrucchieri invasato dell’arte sua, e persino pedicure dottrinario della rivoluzione sociale. Lo spiritoso scritto fu per il Balzac poco più che un gioco; ma questa piccola folla di ciarlatani entusiasti, di geniali affaristi, di ingenui esaltati e astuti profittatori si agita nelle sue pagine con una vivacità straordinaria; e le osservazioni di questo sentenzioso scrittore presentano anche un interesse non indifferente per la storia del costume.

 

  Commedia umana (La) [La comédie humaine], pp. 321-322; 1 ill. [Balzac. (Ritratto di Bertall)].

 

  Così Honoré de Balzac (1799-1850) volle chiamare il gigantesco ciclo di racconti e romanzi che si compone di tutta la sua opera narrativa. Il titolo (chiaramente ispirato a quello tradizionale del poema di Dante) ben corrisponde all'ambizione del Balzac di offrire un quadro completo dei pensieri, dei sentimenti, degli ideali e delle passioni dell’umanità, con preciso riferimento ai costumi sociali della sua epoca, alla Francia del Primo Impero, della Restaurazione e di Luigi Filippo, della quale egli volle essere al tempo stesso lo storico, l’interprete e il giudice. Giacché l’opera sua, benché animata da un poderoso temperamento poetico e ricchissima di libere creazioni fantastiche, d’altra parte, precorrendo le teorie e le pretese del realismo e del naturalismo, ambì a una precisione di analisi che egli chiamò «scientifica», e appare nutrita da preoccupazioni sociologiche e moralistiche rivelando chiaramente le idee politiche dell’autore, inclini a un rigoroso tradizionalismo illuminato. Le prime opere, stampate nel 1830, appaiono scritte in realtà senza un piano ben definito; ma egli le pubblicava già sotto il titolo generico e programmatico di «Scene della Vita Privata», provvedendo ben presto a collegare tra loro i diversi racconti facendovi ricorrere certi personaggi fissi. Successivamente, dal 1834 al ’37, cominciò a suddividere la sua produzione, che si accresceva con ritmo vertiginoso, in tre grandi Parti: «Studi di Costumi», «Studi Filosofici» e «Studi Analitici»; ciascuna delle quali comprendeva diverse sezioni, in modo da stabilire quasi una serie di riquadri che egli andava man mano riempiendo. Il titolo generale del ciclo doveva essere dapprima quello di «Studi sociali», mentre quello definitivo, della Commedia umana, compare solo nel 1841. In quell’anno il Balzac provvedeva a una prima edizione completa dell’opera sua in sedici volumi (divenuti poi diciassette), che cominciò a uscire nel 1842. Nel 1845 venne a un altro riordinamento (che si può considerare definitivo, salvo pochi ritocchi posteriori), stendendo un «piano» che comprendeva i titoli di 135 romanzi, di cui 85 finiti e 50 abbozzati o progettati; i quali ultimi restarono incompiuti, mentre il Balzac aggiunse agli 85 già fatti altri sei romanzi, del tutto nuovi, ideati e stesi in seguito. Abbiamo così in effetto ben 91 narrazioni, frutto del lavoro di circa vent’anni, pubblicate dal 1830 al 1847, che figurano distirbuite (sic) secondo il seguente schema. – Parte Prima, «Studi di Costume» [«Études de Moeurs»]: a) «Scene della Vita Privata» [«Scènes de la Vie Privée»], I: La casa del gatto che gioca alla pelota, Il ballo di Sceaux, Memorie di due giovani spose, La borsa, Modesta Mignon, Un esordio nella vita, Alberto Savarus, La vendetta, Una doppia famiglia, La pace in famiglia, La Signora Firmiani, Studio di donna; II: La falsa amante, Una figlia d’Eva, Il messaggio, La granatiera, La donna abbandonata, Onorina, Beatrice, Gobseck, La donna di trent’anni, Papà Goriot, Il colonnello Chabert, La messa dell’ateo; III: L’interdizione, Il contratto di matrimonio, Altro studio di donna. b) «Scene della Vita di Provincia» [«Scènes de la Vie de Province»], I: Orsola Mirouet, Eugenia Grandet, I celibi (Pierrette, Il curato di Tours, Casa di scapolo o La Rabouilleuse); II: Parigini in Provincia (L’illustre Gaudissart, La Musa del dipartimento), Le rivalità (La vecchia zitella, Il gabinetto delle antichità), Le (sic) illusioni perdute (I due poeti, Un grand’uomo di provincia a Parigi, I tormenti dell’inventore). c) «Scene della Vita Parigina» [«Scènes de la Vie Parisienne»], I: Storia dei Tredici (Ferragus, La duchessa di Langeais, La ragazza dagli occhi d’oro), Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau, Casa Nucingen, Splendori e miserie delle cortigiane (L’amore delle cortigiane, Quanto costa l’amore ai vecchi, Le cattive strade, L’ultima incarnazione di Vautrin); II: I segreti della principessa di Cadignan, Facino Cane, Sarrasine, Pietro Grassou, Parenti poveri (La cugina Betta, Il cugino Pons), Un uomo d’affari, Un principe della bohème, Gaudissart; III : Gli impiegati; IV: Commedianti senza saperlo, I piccoli borghesi, Il rovescio della Storia Contemporanea (Madame de La Chanterie, L’iniziato). d) «Scene della Vita Politica» [«Scènes de la Vie Politique»): Un episodio sotto il Terrore, Un tenebroso affare, Il deputato di Arcis, Z. Marcas. e) «Scene della Vita Militare» [«Scènes de la Vie Militaire»]: Gli Sciuani, Una passione nel deserto. f) «Scene della Vita di Campagna» [«Scènes de la Vie de Campagne»): I contadini, Il medico di campagna, Il curato del villaggio, Il giglio della (sic) valle. – Parte Seconda, «Studi Filosofici» [«Études Philosophiques»]: I: La pelle di Zigrino, Gesù Cristo in Fiandra, Melmoth riconciliato, Massimilla Doni, Il capolavoro sconosciuto, Gambara, La ricerca dell’Assoluto, Il figlio maledetto, Addio, I Marana, Il requisizionario, El Verdugo, Un dramma sulla riva del mare, Mastro Cornelius, L’albergo rosso; II: Su Caterina De Medici, L’elisir di lunga vita, I proscritti, Luigi Lambert, Séraphita. Parte Terza, «Studi Analitici» [«Études Analytiques»]: Fisiologia del matrimonio, Piccole miserie della vita coniugale

  Balzac è grande! I suoi caratteri sono opera di una mente universale! Non lo spirito del tempo, ma interi millenni ànno preparato con la loro lotta un tale scioglimento nell’anima dell’uomo. (Dostoevskij).

  Balzac, il primo genio del secolo, si dibatte trent’anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi e invece di alzare un monumento fonda una città. (Oriani).

  Lo scopo di Balzac era di fare per l’umanità ciò che ha fatto Buffon nella creazione animale. Come il naturalista descriveva leoni e tigri, il romanziere studiava uomini e donne. (Wilde).

 

  Contadini (I) [Les paysans], p. 400.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), scritto e pubblicato nel 1844. È da annoverarsi tra le sue opere artisticamente più felici, rappresentando la piena maturità del suo genio di scrittore. A differenza della maggior parte dei racconti di Balzac. l’intreccio è semplice. Il generale di Montcornet, già brillante ufficiale dell’Impero (v. La pace domestica), sotto la Restaurazione e precisamente negli anni dal 1823 al ‘26 vuole assicurare più solide basi alla sua fortuna trasformandosi in grande proprietario terriero. Compra perciò in Borgogna un fondo estesissimo e di grande valore, «Les Aigues»; ma il suo carattere altero e i suoi modi tipicamente cittadini rivelano ben presto all’elemento locale, sospettoso e irritato, che egli non è uomo di campagna. A opera del pericoloso intrigante Rigou, che si allea con due sindaci dei paesi vicini, Gaubertin e Soudri, si forma contro di lui una vera congiura. Ogni tentativo del nuovo proprietario è destinato a svolgersi in un ambiente di ostilità e incontra nei suoi stessi contadini una testarda e segreta resistenza la quale si rivela in episodi sempre più minacciosi e irritanti: cosicché il Montcornet finisce per scoraggiarsi e abbandonare l’impresa, vendendo le sue terre, che i suoi nemici si dividono con gran profitto. La lineare vicenda si arricchisce di una quantità di particolari, studiati e resi con ostinata energia, in modo da suggerire un’idea della società campagnola particolarmente paurosa e opprimente. Quasi l’autore avesse lasciato deliberatamente da parte ogni immagine idilliaca tradizionale, i contadini del Balzac sono uomini cupidi, pazienti e ostinati, intenti solo a farsi sempre più padroni della terra da cui son nati. Anche qui il Balzac à voluto atteggiarsi a storico di un grande fenomeno sociale, scatenato come tanti altri dalla Rivoluzione; nell’oscuro formarsi di una nuova società terriera che sorge silenziosamente e brutalmente ai danni di una società già civile ma fatalmente devitalizzata, egli sembra vedere l’espressione forse più significativa del dramma proprio della sua epoca. Nei Contadini queste nuove forze vengono direttamente dalla terra, e ànno la stessa lenta, cieca e sagace violenza di una forza di natura. L’opera segna così una data nella storia del romanzo francese, preannunciando l’acuto impassibile realismo di un Flaubert, come il naturalismo sociale di uno Zola.

 

  Curato di Tours (Il) [Le curé de Tours], p. 542.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1832. Nella città di Tours il buon abate Birotteau, parroco della cattedrale, ci vien presentato come un placido sacerdote soddisfatto di sé e della vita. Con la morte dell’amico suo e protettore, l’abate Chapeloud, egli à ereditato da lui un confortevole alloggio nella casa della vecchia zitella bigotta Mademoiselle Gamard; ma il bravuomo, nella sua semplicità, non sospetta l’inimicizia dell’altro pensionante della matura signorina, l’abate Troubert, un terribile ambizioso; e per di più egli trova modo di urtare e ferire profondamente, senza saperlo, le ambizioni mondane della Gamard. Per opera loro il povero Birotteau, con un semplice tranello legale in virtù di un imprudente contratto di locazione che egli aveva firmato, viene cacciato di casa e spogliato d’ogni suo avere a beneficio dell’abate Troubert. Segue un processo; la lite si ingrossa e si invelenisce assumendo aspetti politici, e tutte le conseguenze si rovesciano sul capo dell’abate Birotteau, il quale si vede contristati gli ultimi suoi giorni e ridotto a una miserevole fine. La romanzesca storia è resa con un senso del pittoresco e con una finezza d’analisi insuperabili; oltre a una quantità di personaggi di contorno, le figure del semplicione Birotteau, dell’inaridita zitella Gamard e del terribile abate Troubert appaiono disegnate con tale felicità artistica da poter essere compreso nel novero delle più indovinate creazioni di questo grande romanziere che si vantava di «far concorrenza allo stato civile». Solo nella pagina finale Balzac trae il succo dottrinario della vicenda: da quando la Chiesa è stata quasi completamente allontanata dalla sfera dei grandi affari politici, nature ardenti ed energiche come quelle dell’abate Troubert vengono a formare una classe di «celibatari», che si chiamerebbero modernamente «refoulés», pronti a rivolgere all’occasione in spietati intrighi le loro ammirevoli e temibili qualità.

 

  Deputato d’Arcis (Il) [Le député d’Arcis], pp. 604-605.

 

  Titolo di un romanzo incompiuto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1847. Nella cittadina di Arcis-sur-Aube, nel 1839, il giovane avvocato Simone Giguet, fondandosi sul buon nome del vecchio padre ex-colonnello dell’impero, e spinto dalla vanità della zia, madame Marion, decide di porre la sua candidatura per le prossime elezioni politiche. Quel mandamento è stato sinora rappresentato da un finanziere, il vecchio Keller, genero del conte di Gondreville; egli è stato fatto Pari, e vorrebbe far eleggere il figliolo, ufficiale in Africa. L’avvocato Giguet riesce a ottenere l’assenso dei più importanti elettori, e la sopraggiunta notizia della morte del giovane Keller sembra assicurargli la vittoria. Ma egli à per nemici i rappresentanti del governo, e precisamente il sotto prefetto Goulard, il giudice Martener, il procuratore del re Marest, e Olivier Dinet, suo sostituto; i primi tre ànno anche contro di lui un’altra ragione di rivalità. La più ricca ereditiera della città è infatti la bella Cecilia Beauvisage, la figlia del sindaco, sulla quale à concentrato tutte le sue ambizioni la madre, figlia a sua volta del ricco e ottuagenario notaio Grévin, che sogna per Cecilia e quindi per sé un’alta posizione sociale a Parigi; e il giudice il sottoprefetto e il procuratore ànno chiesto invano la mano della ragazza, alla quale spera di giungere invece il Giguet con la sua elezione. Le cose sono a questo punto quando tutto quel piccolo mondo è messo in subbuglio dall’arrivo di un forestiero, un elegantissimo uomo di mezza età dalla condotta misteriosa. Esso è Maxine de Trailles, già apparso in altre opere di Balzac (v. Gobseck), come il «principe degli scapestrati», di Parigi; giunto al quarantott’anni egli à ormai deciso di rinsavire e «mettersi a posto»: à perciò accettato dall’amico Rastignac il difficile compito di portarsi come candidato ministeriale ad Arcis, con la speranza di trovare in provincia il ricco matrimonio di cui à bisogno; ed è facile indovinare che sua preda sarà la bella Cecilia. Questo testo di Balzac, uscito in appendice ne «L’Union Monarchique» col titolo L’Elezione (L’Election) non ebbe mai dall’autore il suo seguito. Dopo la morte di Balzac il romanzo fu ripreso dal giornalista Charles Rabou, il quale ne fece ben tredici volumi, pubblicati dal 1853 al 1854, coi titoli; Il deputato d’Arcis, Il Conte di Sallenauve, La famiglia Beauvisage. Pure incompiuta, quest’opera del grande romanziere offre tali qualità da essere considerata tra le sue cose migliori. Il quadro di costume vi appare spoglio di quelle apocalittiche digressioni che appesantiscono spesso i romanzi del Balzac della prima maniera; la psicologia dei personaggi, dove poco o nulla si ritrova dei soliti violenti chiaroscuri di ispirazione romantica, conserva, pur nell’abituale minuzia, una potente sobrietà di linee.

 

  Donna abbandonata (La) [La femme abandonnée], p. 824.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1832. Nel piccolo chiuso mondo dell’aristocrazia di Bayeux, cittadina della bassa Normandia, intorno all’anno 1822, il giovane barone Gastone di Nueil venuto a passare qualche tempo in campagna presso una parente, s’innamora con tutto l’impeto dei suoi vent’anni della viscontessa Clara di Beauséant, misteriosa figura di donna ancor giovine e già rattristata da una tragica esperienza amorosa, che si è ritirata nelle sue terre dopo d’essersi separata dal marito. Clara non resiste all’appassionata tenacia del giovane: dopo drammatiche esitazioni, i due rifugiano in Svizzera e passano insieme un lungo periodo di assoluta felicità. Dopo dodici anni li ritroviamo in Francia, dove Clara à comprato un castello presso le terre dell’amico. Essa à ormai passato la quarantina, Nueil è ancora giovane, e il lungo legame sembra pesargli: circuito dai parenti e irritato dalla superba chiaroveggenza della donna, si decide a rompere la vecchia relazione per fare un matrimonio di ragione. Ma questa nuova esperienza non gli procura che delusioni: tormentato dal rimpianto, egli tenta di ritornare a Clara e, respinto con orrore da lei, si uccide. Il lungo racconto s’inizia sul tono di un realismo minuzioso e fremente di poesia al tempo stesso, secondo la maniera del miglior Balzac, per inclinare poi rapidamente a una catastrofe di stile romantico, affrettata e piuttosto arbitraria.

 

  Donna di trent’anni (La) [La femme de trente ans], pp. 828-829.

 

  Titolo di un romanzo di Honoré de Balzac (1709-1850) che, uscito la prima volta nel 1831 e più volte ritoccato e ristampato fino al ’34, conta fra le prime manifestazioni importanti del genio narrativo del grande scrittore. È la vita di una donna, in una serie di quadri staccati. Giulia, la protagonista, ci appare dapprima nel 1813, innamorata di un brillante ufficiale suo lontano parente, Vittorio conte di Aiglemont. D padre della giovanetta, vecchio gentiluomo malato che conosce la profonda delicatezza d’animo della figliola e la intima grossolanità di Vittorio, certa invano di opporsi a questo amore. Pochi mesi dopo i due giovani sono già sposati: la fatale incompatibilità dei loro caratteri (complicata, da parte della donna, da una vera insofferenza fisica) tormenta crudelmente Giulia, e intacca la sua fragile costituzione. La situazione è tragicamente aggravata da un grande amore sentimentale della protagonista per un giovane aristocratico inglese, Arturo Ormond, amore cui essa resiste con tutte le sue forze e che provoca, in una serie di ultraromanzeschi incidenti, la morte di Arturo. Dopo questa tempestosa giovinezza, ritroviamo Giulia a trent’anni, nel pieno flore della sua bellezza, rassegnata ormai anche alle sporadiche infedeltà del marito, e disposta a trattarlo come un buon amico, preziosa alleata della crescente fortuna politica e mondana di lui. Essa per conto suo trova consolazione in un nuovo amore, assai meno ideale del primo, per il diplomatico Carlo di Vandenesse, dal quale à pure un figlio. Dopo questa prima parte, degna del miglior Balzac, tutta la seconda non è che una serie di caotici e stravaganti episodi drammatici, intesi a dimostrare che la povera Giulia invano à sperato di costruire la sua felicità violando le leggi umane e divine. Assistiamo così al tragico annegamento del suo bambino, frutto della colpa. Poi, dieci anni dopo, la figlia maggiore fugge con un bandito che Vittorio di Aiglemont si è trovato per caso a ospitare nel suo palazzo; e il padre stesso, caduto in rovina e di ritorno dall’America dove era andato a rifare la sua fortuna, la ritroverà col marito nientemeno che capitana di una nave corsara. Giulia infine, rimasta con un’unica figlia cui tutto à sacrificato, muore dal dolore di doverla riconoscere dissoluta e ingrata. Nella sua limacciosa abbondanza, il romanzo si presenta come un tipico esempio del vulcanico genio di Balzac alle prime prove della sua folgorante carriera, e ne mette in evidenza con chiarezza esemplare i pregi e i difetti. Tutte le idee e i motivi dell’arte sua vi si affermano con caratteristica vigorìa e vi si accavallano in un pittoresco disordine. Tradd. di C. Alvaro, A. Balsamo Crivelli, Massimo Bontempelli (Roma, 1928).

 

  Doppia famiglia (Una) [Une double famille], p. 842.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799- 1850), pubblicato nel 1830. In una antica via di Parigi, oscura e miserabile, abita con la madre una deliziosa fanciulla, Carolina Crochard. L’unica distrazione delle due donne, che passano la giornata a una finestra terrena lavorando di cucito, è lo spettacolo dei rari passanti, uno del quali presto si impone alla loro attenzione per la sua signorile figura e la nobile fisionomia che sembra attristata da una pena segreta. Tra Carolina e lo sconosciuto nasce un amore, prima cauto e timoroso, poi sempre più avido e travolgente; cosicché dopo qualche anno ritroviamo la povera cucitrice nel lusso, padrona di un elegante appartamento allietato da due bei bambini. Essa però non è sposata, perché il suo fedele amico, che è il conte Roger de Granville, si è rivelato già legato fin dalla prima gioventù da un matrimonio infelice. E a questo punto il narratore si rifà indietro, disegnando con rapide e mordenti analisi tutta la storia del Granville, giovane e brillante magistrato dell’Impero, e della sua vita familiare fatalmente funestata dall’invincibile bigottismo giansenista di una donna sposata troppo facilmente per ragioni di interesse. La soluzione extra-legale, benché nata sotto i più incantevoli auspici, non sembra però portar fortuna all’infelice magistrato, che finirà per essere a sua volta crudelmente tradito e abbandonato da Carolina. Lo scrittore à complicato il semplice motivo iniziale, sovraccaricando la favola di sempre nuovi temi, aggravandola di significati moralistici, e risolvendo infine l’intrigo con una frettolosa catastrofe alquanto arbitraria. Ma tutta la prima metà del racconto, con la squisita immagine della giovane Carolina e la delicatissima storia del primo amore, assurge a un tono poetico di assoluta purezza, e fa parte a sé, levandosi all’altezza delle più felici creazioni del Balzac.

 

  Dramma in riva al mare (Un) [Un drame au bord de la mer], p. 854.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato a Parigi nel 1835, che appartiene al grande ciclo della Commedia Umana («Studi filosofici»). Sulle coste brettoni, tra le rocce, un uomo vive da eremita; a chi si avventura per quel luogo solitario, l’uomo sembra ormai un frammento di roccia addossato ad altre rocce davanti all’oceano. Un tempo, Cambremer (tale è il nome del vecchio eremita), abitava un isolotto poco distante con la moglie e un figlio, e lavorava da marinaio con barche di sua proprietà. A sedici anni il figlio era già dedito a tutti i vizi, s’indebitava e rubava in casa. La madre costernata nascondeva le sue malefatte, attribuendo a estranei i continui furti in famiglia. Ma Cambremer, messo in sospetto dalla vita di divertimenti del figlio, lo controlla e à la prova delle sue ruberie che portavano la famiglia alla rovina. Brettone probo, geloso della tradizionale onestà di famiglia, ma inesorabile nella repressione del vizio, processa il figliolo davanti ai parenti appositamente convocati e al confessore di famiglia, e, avuta la prova che il disgraziato oltre che ladro è anche spergiuro, nottetempo lo sorprende nel sonno, lo immobilizza e lo va a buttare in alto mare con una barca. La mamma muore di dolore, e il vecchio Cambremer espia il delitto con una vita di solitudine e di purificazione tra le rocce davanti al suo mare. Il racconto appartiene a quel gruppetto di storie tragiche nelle quali il Balzac sembra aver di proposito ricercato atroci situazioni, le quali dovessero servire all’artista per meglio scandagliare certe misteriose profondità dell’anima umana. Scopo che però non si può dire in genere pienamente raggiunto. E anche qui solo in certe pagine ricche e succose, dedicate, all’ambiente e ai caratteri della forte terra di Brettagna, ritroviamo le grandi qualità descrittive e il magico realismo delle rievocazioni, che sono tra le più vere caratteristiche del miglior Balzac. 


  Volume terzo. Opere: E-H.

 

  Elisir di lunga vita (L’) [L’elixir de longue vie], p. 69.

 

  Bizzarro racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1830. Bartolomeo Belvidéro, ricchissimo nonagenario, è in fin di vita mentre suo figlio Juan nello stesso palazzo si diverte con amici c cortigiane. Fatto chiamare il figlio, il vecchio gli indica un piccolo flacone, tenuto lungamente nascosto; e poiché sente approssimarsi la fine gli chiede di versargli addosso tutta l’acqua che contiene non appena avrà esalato l’ultimo respiro; dopo di che egli risusciterebbe. La morte arriva, ma don Juan tiene per sé il flacone miracoloso; preso poi da curiosità vuol far la prova e deterge con l’acqua un occhio del cadavere, l’occhio all’istante rivive e guarda don Juan con espressione di rimprovero, di condanna e di odio. Don Juan si acquieta soltanto quando sa il padre chiuso per sempre nella tomba. Fatto avaro e cinico, la sua vita è una beffa continua agli uomini e alle cose. A sessant’anni si stabilisce nella Spagna e sposa un’andalusa. E quando sente che le forze gli vengono meno chiama a sé il suo unico figlio Filippo e, fingendosi gran peccatore, gli affida il miracoloso flacone dicendogli che contiene acqua benedetta che spargerà appena egli sarà morto, su ogni parte del corpo a scopo di purificazione. Ma tale è lo spavento che prende il giovane alla vista del prodigioso rinascere delle membra umettate del cadavere, che fa cadere il flacone e dispergerne l’acqua lasciando così incompiuta l’opera di risurrezione del padre. Si grida al miracolo e don Juan viene venerato come santo sugli altari da cui vomita oscenità e beffe sacrileghe che i fedeli, creduli, ritengono quintessenza di divinità. Se la concezione è più bizzarra che originale, l’autore vi à però profuso uno stile un po’ volgare a volte, ma brioso e scanzonato, come la vicenda dello scettico e beffardo don Juan.

 

  Episodio ai tempi del Terrore (Un) [Un épisode sous la Terreur], p. 120.

 

  È uno dei più celebri racconti di Honoré de Balzac (1709-1850), pubblicato nel 1830. Il 22 gennaio 1793, a Parigi, una vecchietta nobile ed ex-monaca, nelle tenebre d’una terribile notte di neve, si accorge di essere ostinatamente pedinata da un misterioso individuo. Costui penetra dietro di lei nella miserabile casa dove essa ospita, con una sua compagna, un prete «non giurato». La presenza dello sconosciuto getta lo sgomento in quelle tre miti creature che vivono nella privazione e nel terrore di essere scoperte. L’uomo però non è venuto se non per assistere a una messa, che egli richiede «per l’anima d’una persona sacra il cui corpo non riposerà mai in terra santa». Compito l’ufficio funebre, egli scompare dopo d’aver regalato al prete una curiosa reliquia: un fazzoletto macchiato di sangue. Da quel giorno i tre sventurati si accorgono di essere misteriosamente protetti, pur nella loro vita piena di angoscia. Un anno dopo, alla stessa data, l’uomo ricompare, per la messa dell’anniversario; ma neppure allora essi riescono a cogliere il segreto della sua personalità. Solo qualche mese dopo l’abate riconosce il misterioso visitatore nel boia di Parigi, e capisce che il fazzoletto era appartenuto al Re Luigi XVI, ghigliottinato il 21 gennaio 1793. Il racconto, che appartiene alla produzione giovanile del grande romanziere, realizza mirabilmente un’atmosfera di misterioso terrore, di pietà religiosa e di intensa semplicità spirituale, in uno stile vigoroso e pittoresco dai colori altamente suggestivi, tanto da giustificare la tenace ammirazione dei lettori.

 

  Eugenia Grandet [Eugénie Grandet], pp. 255-256; 1 ill.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato sulla fine del 1833. È il primo dei suoi grandi libri, secondo alcuni il suo capolavoro. Nella città di Saumur il terribile papà Grandet, ex-bottaio, à raggiunto con una serie di felici speculazioni la ricchezza, e l’aumenta con una eroica e atroce avarizia. Il lettore è trasportato senz’altro nel seno della sua famiglia, tra la fedele serva Nannina, la debole moglie e la figlia giovinetta Eugenia [...], un essere di luminosa bellezza, d’animo nobile e delicato, attorno al quale si intrecciano le cupidigie delle due grandi famiglie borghesi della città, i Cruchot e i Des Grassins, che sperano e lottano per legarsi con un matrimonio alla ricchissima ereditiera. La sera stessa del compleanno di Eugenia, occasione a una piccola festa in casa Grandet, arriva improvvisamente Carlo Grandet: un giovine parigino educato nel lusso e nell’ozio, figlio di un fratello del vecchio Grandet, il quale, in seguito a un fallimento di quattro milioni, si è fatto saltare le cervella. Il vecchio avaro apprendo la morte del fratello da una lettera, che lo prega di curarsi della liquidazione e di fornire al figlio i mezzi per andare a tentare la fortuna in India, Nei pochi giorni che il giovine, sconvolto dalla sventura, passa in casa Grandet, in Eugenia nasce pel cugino una profonda passione, un vero grande amore che Carlo, scosso, mostra di contraccambiare. Poi il giovane parte, non senza giuramenti di eterna fedeltà. Questa prima parte è la migliore: i personaggi acquistano incomparabile rilievo, i fatti si intrecciano e sviluppano classicamente nel giro di brevi giorni, e l’amore di Eugenia è colto con una delicatezza che non fu forse mai più raggiunta dal Balzac. Il resto non è che la conclusione: la storia della vita di Eugenia, tutta condizionata da quel primo episodio decisivo, cui si contrappone il classico ritratto dell’avaro, il personaggio del padre, che va acquistando via via una terribile imponenza. Informato che la figlia à consegnato al cugino partente tutto il piccolo tesoro che egli le aveva regalato, il vecchio la condanna letteralmente alla prigionia nella sua camera, e non si riconcilia con lei se non quando sa che la moglie è ormai vicina a morte, spinto allora e dalla pietà e dalla voce dell’interesse, temendo che Eugenia rivendichi la parte che le spetta del patrimonio. Carlo intanto non dà notizie, ma Eugenia resta incrollabilmente fedele al suo sogno. Papà Grandet, ormai ottantenne, passa progressivamente nelle mani della figlia la sua immensa fortuna, e viene a morte (episodio celebre, vero brano da antologia, con la tremenda ultima battuta del vecchio, nell'affidare tanto oro alla figlia: «Mi renderai conto di tutto laggiù»). Il cugino ritorna, nuovamente ricco, dopo una dura vita di avventuriero, ormai fatto simile quasi allo zio: non pensa più alla piccola signorina di provincia di cui egli ignora l’enorme patrimonio, e si lascia persuadere a un mediocre matrimonio mondano d’interesse. Eugenia, che lo ama sempre, paga i debiti del padre di Carlo che egli non vuol più riconoscere, poi acconsente a sposare uno dei vecchi pretendenti di Saumur, col patto che sarà un «matrimonio bianco». Vedova a trentasei anni, finisce la sua vita nella solitudine, riversando in beneficenza quanto più può dei suoi tesori. Debole, affrettata in questa parte, l’opera tuttavia splende di una forza d’arte incomparabile: il personaggio di Eugenia e quello del padre sono giustamente considerati tra i più felici della numerosissima schiera dovuta alla penna di questo genio creatore. Lo stile appare qui non meno mobile, penetrante e sentito, e senza dubbio assai meno minuzioso e greve che non in molte altre opere dello stesso romanziere, il quale non si è abbandonato quasi mai a quelle troppo lunghe digressioni moralistico-sociali che conferiscono interesse a molte delle sue opere ma ne alterano la pura linea.

  La conclusione e la seduzione frequente degli imbarazzi romanzeschi in cui Balzac colloca i suoi personaggi è la miniera d’oro di cui egli à la facoltà di arricchirli. (Sainte-Beuve).

  Non il particolare spirito di un’epoca, ma solo il lento travaglio di millenni à potuto far nascere una tale concezione nell’animo dell’uomo. (Dostoevskij).

 

  Facino Cane, p. 276.

 

  Racconto Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1836, il quale appartiene al grande ciclo della Commedia Umana («Scene della vita parigina»). Al festeggiamento di un matrimonio di povera gente, nell’orchestrina composta di tre ciechi, colpisce l’autore l’espressione amara e dolorosa del suonatore di clarinetto, che i colleghi chiamano «Doge». Il suo vero nome è Marco Facino Cane, principe di Varese, discendente del famoso condottiero. Nel 1700 s’era innamorato d’una Vendramini maritata a un Sagredo, e questa passione l'aveva portato all’uccisione del Sagredo e al carcere. Durante la prigionia, una iscrizione araba trovata nella cella gl’indica un lavoro di escavazione incompiuto e il modo di continuarlo. Dopo un mese di duro e rischioso lavoro l’escavazione lo conduce in un sotterraneo dove sono ammassati i tesori della Repubblica: ed egli fugge col carceriere arricchito da un enorme bottino di oro e diamanti. Nel 1770 viene a Parigi sotto nome spagnolo e si dà alla vita brillante fino a che non è colpito da cecità. Una donna, cui si era ingenuamente confidato, lo abbandona dopo averlo accortamente spogliato di tutta la sua fortuna. Ora il vecchio, raccolto nell’ospizio dei ciechi, sogna il tesoro rimasto nei sotterranei del carcere di Venezia e vorrebbe tornarvi certo di trovare, benché cicco, l’oro che vi si nasconde. L’oro, la sua vivida lucentezza, la forza arcana e corruttrice che da esso emana gli motivo conduttore di questo racconto, la sua unica nota artisticamente saliente. Per il resto il quadro del racconto, quell’avventurosa venturosa Italia settecentesca che ritorna in altri brevi romanzi balzachiani (Massimilla Doni e [...] Sarrasine), è cosa tutta di maniera, e l’opera sembra essere stata per il grande narratore poco più che un divertimento. Curioso lo spunto della misteriosa iscrizione in carcere e della segreta galleria, che si direbbe esser stato presente al Dumas nella prima parte del suo famoso Conte di Montecristo.

 

  Falsa amante (La) [La fausse maîtresse], p. 280.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1842. Il giovane polacco Adam Mitgislas Laginski, di antica e nobilissima famiglia, è riuscito a scampare a stento alla proscrizione del ’32, e a Parigi si abbandona a tutte le seduzioni di una vita elegante e brillante. Adam à un amico, compagno di guerra e di esilio, a cui egli à salvato due volte la vita: un gentiluomo povero appartenente alla famosa stirpe dei Paç (che sarebbero discendenti dei Pazzi fiorentini), il quale si dedica completamente a lui, si fa volontariamente suo intendente, e riesce con cento geniali espedienti a permettere al prodigo e spensierato giovane di condurre gran vita senza troppo intaccare la sua fortuna. Quando Adam sposa la bellissima Clementina du Rouvre costei, imbarazzata dalla misteriosa figura di Paç, è tratta a interessarsi a lui, e cerca per innata civetteria di farsene un adoratore. Ma in realtà l’infelice Paç già la amava fin da quando essa era entrata in casa di Adam, e aveva sempre lottato contro questa passione per non tradire l’amico. Ora la situazione si è fatta assai difficile, perché l’imprudente Clementina rischia di restar presa nel suo stesso gioco, mentre le sue insistenze ànno rinfocolato l’amore di Paç. Questi, per ingannare Clementina e difendere il suo segreto, si prende una «falsa amante», ostentando una finta relazione con una celebre cavallerizza da circo equestre chiamata Malaga, e si espone così alle affettuose riprensioni dell’ignaro Adam e allo sdegno della donna amata: finché, non resistendo più, confessa la verità e scompare. La stravagante favola, con i suoi episodi di tipo schiettamente romanzesco, è una interessantissima testimonianza di quella vena di truculento romanticismo che alimentò più o meno segretamente tutta la grande opera del Balzac: rigorosamente controllata e oggettivata su un piano possentemente realistico nei capolavori, pronta a risorgere in tutta la sua fantasiosa arbitrarietà negli scritti minori, come questo in cui tuttavia il Balzac trova modo di lasciare qua e là il segno del suo genio.

 

  Figlia d’Eva (Una) [Une fille d’Ève], p. 396.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato la prima volta nel ’34 e poi nel ’38 con alcuni importanti ritocchi. Le due figlie del conte di Granville sono state cresciute dalla madre con una scrupolosa ed esagerata austerità che non le à preparate per nulla alla vita mondana nella quale si trovano lanciate dai loro due matrimoni. L’una, Maria Eugenia, à sposato il grande banchiere Ferdinando Du Tillet, che nasconde sotto gioviali e fastose apparenze un animo crudele e tirannico. Maria Angelica invece à avuto in sorte un marito alquanto più anziano di lei. Felice di Vandenesse, che, giunto al matrimonio dopo una giovinezza da dongiovanni, la circonda di una tenerezza quasi paterna. Ma la giovane donna si lascia irretire dalle appassionate galanterie di un giornalista e letterato alla moda, Raoul Nathan. Costui a sua volta è legato da anni all’attrice Florine, ed è consocio e vittima del banchiere Du Tillet e del suo degno compare, il barone Nucingen, in una arrischiata speculazione giornalistica. Ne nasce una situazione assai complessa, nella quale l’amore di Angelica e Nathan (che è in realtà una passioncella tipicamente cerebrale) si complica e rischia di trascinare la donna alla colpa e allo scandalo. Per fortuna interviene in tempo il marito, penetrante e indulgente, che salva da ogni pericolo Angelica e la riconquista pienamente, con la sua superiore e affettuosa saviezza. Nella sua complicata brevità, quest’opera evita il pericolo, comune a tante altre di questo scrittore, del soverchio abbandono a sentenziose predicazioni sociologiche o moralistiche: il vasto quadro si riduce sapientemente a un gioco penetrante e leggero, e le ultime scene ànno tutta la squisita disinvoltura della grande commedia di costume. Il racconto è dunque da annoverarsi tra le opere più felici e più perfettamente riuscite del Balzac, se non tra le più importanti.

 

  Figlio maledetto (Il) [L’enfant maudit], p. 405.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1836. Nei tempi bui della guerra civile tra cattolici e ugonotti, la mite e dolce Giovanna di Saint-Savin, che aveva amato un giovane cugino ugonotto, per salvare l’amante e la propria famiglia à dovuto sposare il conte d’Héronville, vecchio e feroce realista di Normandia, ora agli ordini di Enrico IV. La donna à un figlio, che il conte però non crede suo; il piccolo è così bandito dal castello e deve crescere nella casa d’un pescatore. La morte, prima della contessa e quindi di Massimiliano, un secondo figlio, fa ricordare al vecchio che le fortune e la continuazione della famiglia d’Héronville dipendono ora da Stefano, il figlio maledetto. Questi è tolto dall’eremitaggio e, dovendo il conte allontanarsi, viene affidato al medico di famiglia con il compito di prepararlo alle conoscenze della vita. Il medico avvicina a Stefano la sua figliola Gabriella; i due giovani non tardano ad amarsi. Il conte, quando ne è informato, torna precipitosamente accompagnato dalla contessa di Grandlieu e da sua figlia, che deve essere la sposa di Stefano. Ma il giovane sfida l’odio del padre e, chiamata al suo fianco Gabriella, osa riconfermare il suo amore. Il vecchio non esita allora a uccidere i giovani amanti e a offrirsi sposo alla signorina Grandlieu. Alle origini della grande opera del Balzac, il breve e macchinoso romanzo à soprattutto un valore documentario. Il punto di partenza è il romanzo storico alla Scott, nel quale però le passioni e le posizioni dei personaggi tendono a far nodo drammatico, ad acquistare un significato sociale e un valore ideale che potranno attingere in pieno solo quando, liberate dall'archeologia storica, saranno portate nel vivo della vita sociale contemporanea.

 

  Gabinetto delle antichità (Il) [Le cabinet des antiques], pp. 535-536.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1838, e riunito col breve romanzo La Zitella. La vicenda si svolge negli anni della Restaurazione in una piccola città di cui l’autore tace il nome, ed è simbolo del vasto dramma della vecchia nobiltà di provincia, rovinata dalla Rivoluzione, osteggiata da Napoleone cui non aveva voluto accostarsi, trascurata dai Borboni al loro ritorno, incrollabilmente fedele ai principi tradizionali, ignara del mutamento dei tempi e del corso della storia, che profondeva tesori di virtù e le più nobili qualità del carattere a difendere i resti di una posizione sociale oramai insostenibile. Il vecchio marchese d’Esgrignon è il capo del partito dei nobili, i quali sogliono riunirsi in casa sua, in un salone terreno rimasto immutato da oltre un secolo, offrendo così agli abitanti della città, che sogguardano dalle finestre, uno spettacolo che giustifica il soprannome crudele di «Gabinetto delle antichità». Il marchese d’Esgrignon, malgrado stoici sforzi per salvare le apparenze, è quasi ridotto alla miseria. Una sua sorella, assai minore di lui, è stata chiesta in sposa da un nuovo ricco, Du Croisier, il quale però è stato rifiutato sdegnosamente. Du Croisier giura vendetta e segue ostinatamente le azioni del figlio del marchese, il giovane Victurnien, bellissimo e ardito, ma debole di carattere, viziato e troppo amante del lusso. Victurnien è mandato a Parigi a cercar fortuna presso la Corte. Colà invece diviene amante della duchessa di Maufrigneuse, sperpera il suo peculio in breve tempo e, vittima di una macchinazione del Du Croisier che gli fa prestar denari, commette un falso e si trova implicato in un grave processo. Mastro Chesnel, il fedele notaio dei d’Esgrignon, d’accordo con la zia e con la stessa Maufrigneuse, che interviene in modo affatto romanzesco, riesce a salvarlo opponendo intrigo a intrigo; ma il fallimento del giovane riesce fatale al vecchio genitore. Morto il padre, Victurnien si acconcerà a chieder grazia al suo nemico desideroso di nobilitare la propria famiglia, e sposerà una nipote di lui. L’opera, per tutta la prima parte prevalentemente descrittiva, per certi larghi quadri di costume sfiora chiaramente il capolavoro. Senonché la vicenda del giovane Victurnien appare eccessivamente sviluppata in elementi di quel romanzesco macchinoso e quasi poliziesco che rappresenta il pericolo di tante narrazioni del Balzac, e anche lo stile viene spesso a perdere qui la sua misurata energia per apparire troppo mosso e caricato, come sempre quando il romanziere dà troppo libero corso alla sua naturale esuberanza.

 

  Gambara, p. 539.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1837. A Parigi, nel 1831, il giovane conte italiano Andrea Marcosini, in una modesta trattoria frequentata da connazionali conosce una donna verso cui già lo portava il più vivo desiderio. È la signora Marianna, moglie d’un geniale e incompreso artista italiano, Girolamo Gambara. Per distogliere Marianna dall’uomo che essa ama e ammira, il giovane s’insinua nella loro vita con propositi da mecenate. Si accorge così che l’artista, perseguendo chimeriche rivoluzioni dell’arte, compone musica che è un’accozzaglia di note e di dissonanze, ma costruisce nel contempo geniali strumenti capaci di armonie superiori; inoltre egli supera questo suo folle smarrimento allorché si trova in istato d’ebbrezza. Il giovane mecenate crede allora di poter risanare questo autentico genio e fa dei migliori vini d’Italia la medicina più efficace. Ma, allorché l’artista si avvede che tutto ciò ripugna alla compagna delle sue pene e delle sue aspirazioni, preferisce ritornare all’amore della sua donna e della sua arte. Marianna fugge ugualmente con Andrea Marcosini divenuto suo amante, per ritornare sei anni dopo, invecchiata e imbruttita, accolta ancora dall’artista, che la vita sempre avversa à ridotto suonatore ambulante. Racconto volutamente bizzarro, nel quale la vicenda chiaramente fantastica è trattata con tutte le più squisite risorse di una tecnica naturalistica, tale da riuscire a quella sorta di «realismo magico» nel quale il Balzac fu insuperato maestro.

 

  Gobseck, p. 682.

 

  Titolo di uno dei più famosi racconti di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1830. La viscontessa De Grandlieu si mostra preoccupata della simpatia che la figliola Camilla testimonia a un suo corteggiatore, il contino Ernesto di Restaud, il quale è giovane di belle doti ma povero, e à una madre screditata da dissipazioni e disordini (la quale è la figlia di quel Goriot, che sarà protagonista del celebratissimo Papà Goriot). Interviene l’avvocato Derville, un fedelissimo amico di casa, recando informazioni destinate a interessare l’innamorata giovanotta e sua madre. Risalendo ai tempi in cui egli era un povero studente, Derville narra d’essere allora entrato nelle grazie d’un suo vicino, Gobseck: un originalissimo vecchio che dopo un misterioso e avventuroso passato si era dedicato all’usura come alla vera vocazione della sua vita, e aveva ammassato sotto modeste apparenze enormi ricchezze. Gobseck aveva finito per onorare il suo giovane amico di qualche confidenza, e fra i diversi segreti della vita mondana che egli aveva potuto penetrare per mezzo del terribile vecchio, c’era appunto la storia della contessa di Restaud: costei, dominata da un pericolosissimo e brillante avventuriero, Massimo di Trailles, stava distruggendo letteralmente il proprio patrimonio e quello della famiglia, giacche il marito, galantuomo ingenuo e troppo debole, non riusciva a resisterle. La contessa ricorreva spesso a Gobseck, e anche suo marito, intervenendo per cercar di salvare il salvabile, aveva finito per far conoscenza con l’usuraio e con lo stesso Derville; nacque così nell’animo del conte l’idea di fare una serie di fittizie cessioni di tutta la sua sostanza a Gobseck, il quale in cambio si sarebbe impegnato con un documento a conservarla per il figlio di Restaud, il contino Ernesto, e consegnarla a lui appena questi giungesse alla maggiore età. Così avvenne. Ma, morendo di lì a qualche anno il conte, la moglie, persuasa che egli avesse voluto diseredare lei e tutti i figli, si affretta a bruciare tutte le sue carte, tra cui anche il prezioso documento: cosicché Gobseck restava padrone della sostanza dei Restaud, senza più nessun obbligo legale di restituzione. Giungendo però egli stesso a morte, vecchissimo e carico di ricchezze, l’usuraio fa esecutore testamentario lo stesso avvocato Derville, e lo incarica tra l’altro di restituire scrupolosamente, appena scocchi il termine, tutti i suoi averi, aumentati dei debiti interessi, al contino di Restaud. L’avvocato conclude il suo racconto ricordando che Ernesto Restaud sarà maggiorenne tra pochi giorni ... La romanzesca storia vale per la formidabile figura di Gobseck che tutta la riempie: l’implacabile vecchio, che si è fatta dell’usura un’arte, e ne ricava delizie di ordine squisitamente spirituale, rispettando con assoluta onestà certe regole che egli ha imposto al suo gioco e che valgono forse a renderlo più interessante, conta tra le più potenti creazioni del Balzac. Questa celebre figura, che troviamo al principio dell’opera di Balzac, fa riscontro a un altro «ritratto d’avaro» forse ancor più noto, il papà Grandet del romanzo Eugenia Grandet. Ma Gobseck, al paragone, si presenta come un personaggio assai più ricco di curiose sfumature, e più profondamente originale.

 

  Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau [Grandeur et décadence de César Birotteau], pp. 700-701.

 

  Titolo di uno dei più famosi romanzi di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1837. Cesare Birotteau, mercante profumiere, vice-sindaco del secondo circondario di Parigi, candidato cavaliere della Legion d’Onore è assai soddisfatto dell’andamento dei suoi affari. Secondo lui è necessario adeguare il regime della famiglia alle mutate esigenze sociali, e à deciso perciò che l’ampliamento e l’abbellimento della loro casa sia un fatto compiuto per l’epoca della sua nomina a cavaliere. Inoltre Roguin, il notaio, gli à proposto una speculazione in società con amici, con l’acquisto di terreni che si potranno avere per il quarto del valore a cui dovranno arrivare in breve tempo. La sua buona moglie, spaventata dei rischi dell’affare, cerca dissuaderlo, ma invano. Ideatore della simulazione è il giovane Du Tillet, già commesso di Birotteau, assurto ora ai fastigi dell’alta finanza. Du Tillet, che aveva tentato di sedurre la moglie Costanza e aveva sottratto all’azienda mille scudi prima d’andarsene, non perdonerà mai a Birotteau e famiglia d’essere a conoscenza d’un suo fallo giovanile. L’ultimo sprazzo di luce delle fortune di Birotteau è dato dal grande banchetto e dal ballo a cui ànno preso parto i rappresentanti della scienza, della politica e della finanza. Intanto il contratto per i terreni, già varato, impegna Birotteau per 300 mila franchi. Ciò dà l’abbrivo al declino. Numerosi creditori battono alla porta, mentre in cassa manca ogni disponibilità. Poi il colpo decisivo: il notalo Roguin fugge dopo aver dilapidato le somme affidategli per l’affare dei terreni. È il tracollo dell’azienda che è messa in liquidazione. Caduto con dignità, Birotteau accetta per sé e per i suoi un impiego che amici fedeli gli procurano; ma la sua idea fissa è la riabilitazione che vuol raggiungere a qualsiasi prezzo. Il povero uomo avrà quest’ultima soddisfazione aiutato dai suoi, ma soprattutto dal suo ex-commesso, poi socio e fidanzato della figliola Cesarina, il buono e generoso Popinot, che deve a lui la sua florida azienda di profumi e la sua promettente fortuna. Il libro è il classico romanzo della piccola borghesia parigina che, nel turbinoso rigoglio finanziario nel primo Ottocento, ambisce a salire e si mischia al mondo dell’alta banca e dei grandi affari, non senza portarvi spesso una naturale ingenuità che la dispone a far la parte di vittima. Ma non è tanto il romanzo di un ambizioso quanto la storia di un uomo, e l’interesse del racconto si concentra sul personaggio che è minutamente analizzato e seguito in un’atmosfera di bonaria umanità: la stessa sua fine non è un disastro, ma sembra il coronamento logico e riposante di tutta una tormentata vicenda.

 

  Grenadière (La), p. 708.

 

  Titolo di un racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1832. La «Grenadière» è il nome di una antica casa di campagna situata in una incantevole posizione in riva alla Loira, di fronte alla città di Tours. La villa è affittata, nei primi anni della Restaurazione, da una signora ancor giovane la cui delicata bellezza appare minata da una grave malattia. Essa, che si fa chiamare Madame Willemsens, vive colà, sfuggendo a ogni contatto col mondo, dedicandosi completamente all’educazione dei suoi due figli. Dopo due anni appena la povera signora viene a morte, lasciando i due ragazzi soli al mondo. Ma il figlio maggiore, Luigi, appena quindicenne, forte di un carattere naturalmente animoso e della esemplare educazione ricevuta, dà chiaramente a vedere di essere in grado di mantenere la promessa fatta alla madre, vegliando con paterna sollecitudine sul fratellino, e disponendosi ad affrontare con eroica baldanza la lotta per la vita. Dalla confessione della madre morente al figliolo, nonché da altri particolari inseriti qua e là come per caso, l’autore ci fa intravvedere il tempestoso passato di Madame Willemsens: tutta la romantica storia di una colpevole passione con le sue tragiche conseguenze, nobilitata dalla sventura e riscattata dall’amore materno. Ma questi elementi tipicamente romanzeschi restano per così dire nello sfondo; si afferma in primo piano semplicemente la cronaca del soggiorno alla Grenadière: un quadro di vita familiare trattato con appassionata tenerezza, in uno stile che non rinuncia alle insistite analisi sempre care al Balzac, ma supera le pretese realistiche e le digressioni moralistiche per raggiungere una poetica atmosfera di singolare purezza, una efficacia quasi esclusivamente figurativa, che fa trovare al racconto un posto a sé nell’opera così abbondante e diversa del grande narratore.

 

  Volume Quarto. Opere: I-M.

 

  Illusioni perdute (Le) [Les illusions perdues] (sic), pp. 40-41.

 

  Titolo generale di una delle più importanti opere narrative di Honoré de Balzac (1799-1850), la quale fa parte della seconda sezione del ciclo della Commedia Umana («Scene della vita di provincia» II), e consta di tre racconti in continuazione, coi titoli rispettivi di I due poeti [Les deux poètes, 1837], Un grand’uomo di provincia a Parigi [Un grand homme de province à Paris, 1839], e Le sofferenze dell’inventore [Les souffrances de l’inventeur, 1843]. Nel primo di essi l’azione si svolge ad Angoulême, al tempo della Restaurazione. Davide Séchard, figlio di Nicolas, curiosa figura di stampatore, astutissimo, analfabeta e ubriacone, è un allievo di Diderot, che à studiato a Parigi e à l'ingegno e l’animo d’uno scienziato. Egli e l’amico Luciano Chardon, giovinetto di spiccate tendenze letterarie, bellissimo, pronto e audace, si consolano della miseria presente, sognando ciascuno a suo modo un grande avvenire. Il padre di Davide lascia la tipografia al figlio a condizioni così onerose da spingerlo infallibilmente alla rovina; ma costui affronta coraggiosamente la situazione, sposa la bellissima Eva Chardon, sorella di Luciano, e si immerge in pazienti studi rivolti alla ricerca di un nuovo procedimento per la fabbricazione della carta, che rivoluzionerà l’industria moderna. Luciano, dal canto suo, trova una protettrice dei suoi precoci talenti di romanziere e di poeta in una dama dell’alta nobiltà, Anaïs de Bargeton, la quale gli apre il suo salone e si anima per lui d’una passioncella che inebria il giovane ambizioso, Poco dopo Anaïs de Bargeton riesce a liberarsi del vecchio marito e fugge col suo poetino a Parigi. Le prime esperienze di Luciano a Parigi sono l’argomento di Un grand’uomo di provincia a Parigi. Mentre la gentildonna si inizia alla vita elegante di Parigi, e si stacca dal giovane, questi, sperduto e senza risorse, vive dapprima dei sussidi del cognato Davide e cerca invano di collocare un suo romanzo; ma si fortifica contro la sventura con l’amicizia e i consigli dell’austero giovine filosofo D’Arthe (sic) e di un cenacolo di puri e ardenti dottrinari che si stringe attorno a costui. Presto però si stanca di quella vita troppo austera; l’amicizia di Étienne Lousteau (v. La Musa del Dipartimento), lo introduce nell’ambiente dei giornalisti, dove le sue brillanti qualità lo portano a immediati successi. Luciano ama riamato una deliziosa giovane attrice, Coralia; i facili guadagni e l’ambiente lo inducono a una vita eccessivamente lussuosa, i bisogni e le ambizioni lo spingono dalla letteratura alla politica e lo inducono a passare dal campo dei liberali al partito realista. Ma a tal punto, assalito dai vecchi amici e mal sostenuto dai nuovi, egli subisce una serie di rovesci, e alla completa rovina finanziaria si unisce la morte di Coralia; cosicché, malato e miserabile, deve riparare nuovamente ad Angoulême per chiedere aiuto al cognato e alla sorella. Quivi giunto egli trova Davide Séchard in un’angosciosa situazione (Le sofferenze dell’inventore): lo stampatore è già sicuro della sua invenzione, ma intanto due suoi colleghi, i fratelli Cointet, con una rovinosa concorrenza sono riusciti a toglier lavoro al suo stabilimento e impigliarlo in un pericoloso giro di debiti. Così egli viene processato e arrestato proprio per un’imprudenza del cognato: Luciano non regge a quest’ultima sventura e fugge, risoluto a uccidersi. Ma è salvato dal suicidio da una strana figura di avventuriero, Carlos Herrera, che si presenta a lui in veste di abate e di diplomatico spagnolo e gli promette di condurlo a trionfare nuovamente di quel mondo che l’à tradito e respinto, per mezzo dei suoi consigli, offrendogli i diabolici conforti di una crudele e spregiudicata filosofia, nonché una somma di denaro, in cambio di un curioso e oscuro patto di alleanza ... Nel frattempo Davide Séchard è riuscito a venire a patti coi suoi creditori e a combinare un accordo coi fratelli Cointet, che si associano a lui per sfruttar la sua invenzione. L’ingenuo scienziato à così raggiunto la serenità e una placida agiatezza. Luciano invece si appresta a rientrare a Parigi per riprendere la lotta. Il romanzo è senza dubbio uno dei più notevoli del Balzac: straordinariamente vivace ed efficace, ricco di scintillanti paradossi, di incisive sentenze e di scene suggestive in alcune parti (quasi tutto l'ambiente parigino nel quale si svolgono le avventure di Luciano), esso tocca il massimo della potenza nel ritratto del vecchio padre di Davide, nel quadro dell’amore di Davide ed Eva Chardon, e soprattutto nella figura di Luciano Chardon, una delle più riuscite creature balzacchiane. Solamente il gusto dei tenebrosi e macchinosi intrighi a sfondo giudiziario appesantisce tutta l’ultima parte, dove persin lo stile, pieghevole, rapido e pittoresco, si carica di troppe minuzie e si offusca.

  Balzac, grande, terribile, complesso anche, rappresenta il mostro d’una civiltà con tutte le sue lotte, le sue ambizioni e i suoi furori. (Baudelaire).

  La differenza tra un libro come l’Ammazzatoio di Zola e le Illusioni perdute di Balzac è la differenza che passa tra realismo senza immaginazione e realtà immaginativa. (Wilde).

 

  Illustre Gaudissart (L’) [L’illustre Gaudissart], p. 42.

 

  Notissimo racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1833, Vi domina la figura di Felice Gaudissart che è, come tanti di Balzac, un personaggio-tipo, raccogliendo in sé tutti. 1 caratteri, i vizi e le virtù del perfetto commesso viaggiatore. Ancor giovine ma già quasi calvo, piccolo, grassoccio e vigoroso, con la faccia colorita, Gaudissart porta con disinvoltura il soprannome ormai tradizionale di «illustre»; brillante, servizievole, pieno di motti e di facezie dotato di un ottimismo travolgente, di un’instancabile attività; à incominciato dai cappelli, ma la sua genialità lo à portato via via agli «articoli di Parigi», alle assicurazioni, persino ai giornali. Poco dopo la rivoluzione del 1830 egli si prepara a un lungo giro in provincia incaricato di collocare abbonamenti per il sansimoniano «Globo» e per il repubblicano «Movimento», nonché per il nuovissimo «Giornale dei bambini»; e noi lo seguiamo in gran parte del suo giro. L’interesse del racconto si riassume però nell’episodio principale: arrivato in Turenna, in quella pacifica e felice terra di vignaiuoli maliziosi e diffidenti, nemici del progresso e sempre pronti alla burla, nel paese di Rabelais insomma, Gaudissart incontra il primo grave scacco della sua vita. Introdotto presso un notabile, costui gli gioca il tiro di portarlo da un pazzo, presentandoglielo come un personaggio influentissimo del paese. Il pazzo si comporta così bene che Gaudissart abbocca in pieno, e dopo una stupefacente conversazione dove egli mette in opera tutta la sua meravigliosa eloquenza, se ne va senza aver concluso gran che, ma avendo acquistato in cambio due botti di vino che il pazzo in realtà non possedeva. L’ira di Gaudissart quando scopre la mistificazione è grande; chiede riparazione, e ne segue un burlesco duello con l’organizzatore dello scherzo. Dopo di che egli si sente così scoraggiato che lascia il paese senza avervi esercitato la sua «missione». Anche qui il Balzac non si trattiene, specie sul principio, dal moralizzare, e dal fare le più nere previsioni sul prossimo trionfo della democrazia livellatrice, della quale il commesso viaggiatore sarebbe una specie di ambasciatore e di pericoloso propagandista nella pacifica provincia francese. Ma ben presto il gusto del suo soggetto lo trascina, ed egli si abbandona a dipingere del personaggio uno dei suoi minuziosi e coloriti ritratti. Il contrasto tra il progressista Gaudissart e lo scettico tradizionalismo della Turenna, benché un po’ insistito, è pieno di sapore; «la lunga schermaglia tra il pazzo Margheritis, dal contegno grave e incoraggiante ma dalle risposte stranamente elusive, e l’instancabile eloquenza di Gaudissart, è animata da una «vis comica» incomparabile.

 

  Impiegati (Gli) [Les Employés], p. 51.

 

  Titolo di un’opera narrativa di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicata nel 1837. Il barone di La Billardière, capo di divisione del Ministero, è in fin di vita, e la successione mette in conflitto i due capi ufficio, che aspirano all’avanzamento, e le rispettive famiglie, Rabourdin è il capo ufficio serio, capace, con necessaria anzianità, il successore di diritto; Baudoyer è il capo ufficio che manca di tutti i requisiti del suo antagonista, ma non pertanto à dalla sua parte non minori probabilità di riuscita, in virtù dell’intrigo. La giovane e bella signora Rabourdin manovra con accortezza e con le arti infallibili della dolce lusinga il segretario generale del Ministero, il signor Des Lapeaulx (sic), e attraverso questo il ministro; ma la signora Elisabetta Baudoyer metto in moto il vasto parentado, fa una donazione alla chiesa per ottenerne l’appoggio, e si serve degli usurai Gigonnet e Gobseck, lontani parenti, che vantano crediti sul Lapeaulx. Mentre la signora Rabourdin fa la sua parte di scaltra affascinatrice e ottiene anche dal ministro la promessa dell’avanzamento del marito, Elisabetta Baudoyer, la cui causa è pubblicamente sorretta dalla stampa clericale e monarchica, manda al segretario generale Gigonnet e Gobseck per assicurargli l’annullamento dei suoi debiti e un ampliamento delle terre attorno alla bicocca paterna tale da permettergli di divenire elettore del grande Collegio, conte, e quindi deputato. Va da sé che Lapeaulx preferisce la proposta che gli assicura un brillante avvenire, ai sorrisi di Madama Rabourdin che non gli assicurano nulla. La sua decisione a favore dell’insignificante Baudoyer sarà motivata davanti al meravigliato ministro con la esibizione d’un documento segreto, sottratto a Rabourdin da un suo infedele impiegato, nel quale il capo ufficio, ai fini di una vasta riforma dei servizi ch’era in via di proporre al Ministero, analizzava con acume e inesorabilità tutte le insufficienze e tare morali del personale preposto all’amministrazione dello Stato. L’amarezza di questa conclusione appare temperata, nell’assieme dell’opera, da quel tono di franca commedia nel quale il complicato intrigo trova un’espressione di straordinaria naturalezza e vivacità. Balzac non à qui voluto guidarci a drammatiche scoperte, quanto cogliere con una specie di brioso distacco i caratteri di quel piccolo mondo della burocrazia che egli ha fissato con una energia di stile esemplare. E da questo punto di vista il libro è rimasto come un classico del genere, e à fissato temi destinati a lunga fortuna in tutta l’arte narrativa francese, da molte novelle di Maupassant fino al capolavoro di Courteline, I signori dalle mezze maniche.

  In quei fastidiosi Impiegati ci sono quadri di una realtà intensa. (Lanson).

 

  Interdizione (L’) [L’interdiction], pp. 101-102.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1836. La marchesa d’Espard viene a sapere che il marito intende restituire una ingente parte della sua sostanza ai discendenti di coloro che ne erano stati ingiustamente spogliati da un suo avo e, temendo sacrifici nella sua vita lussuosa, si separa da lui e cerca di farlo interdire come non sano di mente. Il celebre arrivista Rastignac, che è all’oscuro di tutto ma medita di lasciare la sua vecchia amica madame de Nucingen per la d’Espard, induce un amico, il medico Bianchon a raccomandare la causa di costei a un suo zio, il giudice Jean-Jules Popinot. Il giudice, uomo di grande esperienza e di nobilissimo carattere, insospettito, conduce una piccola inchiesta per conto suo, e proprio seguendo la storia di queste ricerche e dei suoi colloqui noi veniamo a conoscenza dei principali personaggi e dei particolari di tutta la vicenda. Nella breve e suggestiva narrazione il Balzac spiega quel suo gusto dei complicati intrighi giudiziari che potrebbe farlo considerare tra gli inventori del moderno romanzo poliziesco. Ma questo raffinato e cerebrale diletto è assolutamente soverchiato dalla passione dello studio di costumi, e più ancora da quella del creatore di caratteri. Il sant’uomo Popinot, il nobile marchese d’Espard, l’egoista e perversa marchesa, sono figure indimenticabili, analizzate con accanita minuzia e ricostruite con toccante efficacia, e i loro incontri dànno luogo a scene di alta commedia, tali da far considerare questo breve scritto tra le letture balzacchiane più affascinanti.

 

  Luigi Lambert [Louis Lambert], pp. 460-461.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1832. L’autore, ancora adolescente, compie gli studi nel collegio Vendôme, dove conosce una singolare figura di giovinetto. Lambert, figlio di povera gente che Madame de Staël fa studiare a sue spese per avere riscontrato in lui straordinarie e precocissime doti di intelligenza. Nella mediocre vita di collegio i due giovani, che il caso e certe affinità ànno accostato, rappresentano un po’ l’eccezione contro cui si appuntano dileggi e derisioni. Dopo qualche anno l’autore, ammalatosi, lascia il collegio, portando impresso nella mente e nel cuore il ricordo del pensiero mistico che Lambert era andato delineando nel suo Trattato della Volontà, che la direzione del collegio aveva un giorno sequestrato e venduto per carta straccia. Più tardi lo stesso Lambert lascia il collegio e viene a Parigi per tentare la fortuna: quivi completa la sua preparazione scientifica approfondendo il suo pensiero e mirando a individuare e definire i rapporti «reali» esistenti tra l’uomo e Dio, tra il mondo fisico e il metafisico. Ma la sua salute cede alle privazioni di questa vita agitata e febbrile, travagliata dalla miseria: Lambert, sfiduciato, torna al suo paese dove vivacchia presso uno zio prete. Qui nell’amore improvviso e violento per una ricca ereditiera, Pauline de Villenoix, il suo cuore rinasce alla vita, e le sue lunghe sofferenze sembrano trovare un termine in quella improvvisa fortuna. Senonché il suo sistema nervoso cede a tanta tensione ed egli impazzisce alla vigilia delle nozze. Il romanzo, in parte autobiografico, testimonia le molteplici ambizioni con le quali il Balzac affrontò la sua carriera, e le varie tendenze (filosofiche scientifiche e realistiche) che confluiranno nell’arte sua di romanziere senza riuscire sempre ad armonizzarsi. In realtà la tragedia di Louis Lambert, nelle pagine di questo libro geniale e ineguale, non supera il momento lirico e speculativo, cosicché l’opera rimane nel clima romantico. Ma nella pittura d’ambiente, della vita collegiale soprattutto, già si manifesta il possente realismo balzacchiano.

  Di tutti i romanzi di Balzac è senza dubbio il meno riuscito. (A. Gide).

 

  Marana (Le) [Les Marana], pp. 536-537.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1833. In Ispagna fin dal tredicesimo secolo il nome Marana à sempre significato ovunque «donna di piacere». La Marana del diciannovesimo secolo, volendo rompere questa tradizione, affida la figliola, col falso nome di Giovanna de Mancini, a un’onesta famiglia di mercanti di stoffe di Tarragona. La bellezza della fanciulla colpisce il capitano italiano Montefiore, che riesce ad avvicinarla. Giovanna, messa per la prima volta a contatto con un uomo senza scrupoli, crede alla sincerità di quell’amore; la sera del fatale convegno piomba in casa, la madre arrivata precipitosamente dall’Italia e la sorprende in braccio all’amante. Il capitano Montefiore sarebbe stato finito a pugnalate dalla Marana se alle sue grida non fosse accorso un suo amico di reggimento, Il capitano Diard che, affascinato dalla bellezza della fanciulla e dalla vistosa dote, si offre di sposarla. Matrimonio disgraziato: Diard, datosi al gioco, perde in pochi anni tutta la fortuna; per rifarsi conduce la famiglia a Bordeaux e tenta l’ultima carta giocando alle Acque. Qui incontra il vecchio amico Montefiore, col quale perde quanto possedeva e s’indebita d’una somma considerevole. Pensa allora al delitto. Invita Montefiore a casa sua, e lì presso lo uccide e lo deruba. A casa confessa il delitto alla moglie; questa, tutta amore per i figli, al sopraggiungere della polizia lo costringe a uccidersi per l’onore della famiglia. Storia romantica, la quale mette in luce il caratteristico aspetto di un Balzac minore, intento a raggiungere l’effetto artistico più attraverso la pittoresca bizzarria di una vicenda, che non con l’analisi approfondita calda e minuziosa dell’intimità umana dei personaggi.

 

  Maestro Cornelius [Maître Cornélius], p. 579.

 

  Breve romanzo di Honoré de Balzac (1709-1850), pubblicato nel 1831. La fantastica vicenda si svolge a Tours, nel 1479. Il giovane nobile Giorgio d’Estouteville, volendo a tutti i costi giungere alla donna amata, contessa Maria di Saint-Valier, severamente guardata dalla gelosia del marito, entra con un falso nome al servizio di mastro Cornelio, un ricchissimo e avaro mercante di Gand che era consigliere e banchiere di Luigi XI, e la cui casa era addossata al palazzo della Contessa. Senonché mastro Cornelius è ossessionato da una serie di numerosi furti che si verificano in modo misterioso nella sua casa: proprio il mattino seguente alla notte in cui Giorgio d’Estouteville à potuto mettere in opera il suo ardito progetto, il banchiere scopre un nuovo ammanco al suo tesoro, e ne incolpa il garzone il quale, non potendo scolparsi per rispetto all’amore della sua donna corre rischio di venir giustiziato. La contessa allora confessa arditamente al re il suo fallo, e salva il giovane. Ma Luigi XI vuol veder chiaro nella storia dei misteriosi furti, dei quali risulterà autore inconsapevole lo stesso mastro Cornelius, il quale agiva di notte in stato di sonnambulismo. La bizzarra favola, benché condotta con innegabile maestria, appare però più illustrata con tutte le risorse di uno stile minuzioso e pittoresco, lussureggiante di tratti di raro rilievo, che non ricreata dall’interno: documento dell’arte di Balzac narratore nel suo primo periodo, volto ancora a un romanticismo pittoresco e truculento, non trasfigurato dalla prepotente passione realistica come nei futuri capolavori.

 

  Melmoth riconciliato [Melmoth réconcilié], p. 614.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1835. Negli uffici della Casa Nucingen, a tarda ora, il cassiere Castanier, che à già sottratto somme ingenti alla cassa, si accinge a fare un colpo più grosso degli altri, per poi fuggire. Senonché è sorpreso dall’improvvisa e inesplicabile apparizione di un uomo il quale, con la scusa di esigere la riscossione di una lettera di cambio a firma John Melmoth, gli si presenta, indovina il suo progetto e gli impedisce di effettuarlo. Da quel momento il terribile Melmoth si vale del potere che egli à preso sulla debole anima di Castanier e della conoscenza del suo ontoso segreto per ricattarlo continuamente e spingerlo alla completa disperazione. Ma a questo punto gli promette un mercato che potrà salvarlo e farlo ricco e potente: lui, Melmoth, à in passato venduta l’anima al diavolo; ora vuole per sé l'anima di Castanier il quale, vendendogliela, erediterà in cambio il diabolico potere del quale Melmoth à fino ad allora goduto. Castanier accetta il mercato, e ne gode i vantaggi. Ma, dopo una breve ebbrezza, si accorge di aver concluso un pessimo affare, ed è angosciato dall’idea della inevitabile dannazione. Cerca allora di Melmoth, e viene a sapere che costui, riconquistata un’anima, se n’era valso per pentirsi ed era morto santamente, riconciliato con Dio. A Castanier non resta che imitarlo: ci riesce, comperando a sua volta l’anima del banchiere Claperon, che si trova pressato dal bisogno e minacciato di fallimento. In questa bizzarra «diavoleria filosofica» il Balzac à sfruttato con disinvolta fantasia il suo gusto per quel nucleo misterioso che egli pensava alla base della nostra vita interiore, ricavandone effetti di innegabile suggestione, in uno stile d’una insolita stringatezza.

 

  Memorie di due giovani spose [Mémoires de deux jeunes mariées], pp. 632-633.

 

  Pubblicato nel 1841-1842, è uno dei romanzi più estesi e macchinosi di Honoré de Balzac (1799-1850), studio minuzioso e completo di due differenti caratteri di donne, i quali si rivelano attraverso il carteggio delle protagoniste, nonché ad altre lettere di vari personaggi. Luisa di Chaulieu e Renata di Maucombe, amicissime, educate assieme in un convento nel Nord della Francia, ne escono per tornare alle loro famiglie. Di casato principesco Luisa, destinata monaca dai genitori, che volevan sacrificarla alla brillante carriera dei fratelli, è protetta dalla nonna, la quale morendo le lascia la sua sostanza; e nella lotta tanto maggiormente si è temprato il suo ardente e fiero carattere. Essa si innamora del suo maestro di spagnolo, il quale non è altri che don Filippo Henarez, duca di Soria, ex-ministro del governo costituzionale di Spagna, bandito e fuggiasco dopo la spedizione del duca di Angoulême del 1823. Dopo molti romanzeschi contrasti, costui rientra in possesso della sua fortuna, e Luisa lo sposa e passa con lui brevi anni di febbrile felicità, interrotta però tragicamente dalla precoce morte di don Filippo. Ma quattro anni dopo un nuovo amore strappa l’eroina al suo accasciamento: questa volta si tratta di un poeta, di nobilissimo sentire, giovane e povero, con quattro anni meno di lei. Luisa si ritira con lui in campagna, gelosa e trepida, nel dubbio che il destino voglia infrangere ancora questa ritrovata felicità. E quando un fatale equivoco lo fa credere di essere tradita dal giovane, il suo folle orgoglio e il suo dolore la spingono al suicidio. A contrasto con questo drammatico carattere, l’amica Renata, rassegnata fin dall’inizio a una placida mediocrità, obbediente al volere dei genitori e alle convenienze sociali, si è acconciata a un matrimonio di ragione con un onesto gentiluomo del suo paese, à saputo pazientemente formarne il carattere, sorreggerlo sulla via degli onori, e à costruito grado a grado, con la sua illuminata prudenza, la fortuna della famiglia. Dal che traspare evidente la tesi del libro, che è da collegare alle idee reazionarie del Balzac e alla sua diffidenza verso le pericolose novità del costume sociale contemporaneo. Informe e disordinata, l’opera si presenta piuttosto come una successione di racconti, e vive di scintillanti episodi. non sempre giustificati, se pure svolti in uno stile di prepotente efficacia. La parte più bella è di gran lunga la prima, dove, nell’amore tra Luisa e don Filippo in veste di precettore, si notano evidenti influssi stendhaliani (v. Rosso e Nero).

 

  Mercadet, l’affarista [Mercadet, le Faiseur], pp. 672-673.

 

  Commedia in tre atti di Honoré de Balzac (1799-1850), rappresentata nel 1840. Augusto Mercadet è, nella specie dei moderni uomini d’affari, un esemplare dei più simpatici: se gioca in borsa sfrenatamente e non bada troppo ai mezzi coi quali conseguire il successo, egli à d’altra parte la scusante del tradimento di Godeau, un socio che molti anni prima è fuggito in America portando seco la cassa, e lo à obbligato così, per mantenere il suo decoro, a iniziare la serie delle sue acrobazie finanziarie. Ma le ultime speculazioni sono andate male, perché l’affarista, abilissimo nel darla a bere ed estorcere sempre nuovo denaro dai più impensati accomandatari, è però credulone e fiducioso anche lui, e troppo facile a persuadersi d’aver trovato ogni volta l’espediente infallibile e l’uomo di tutta fiducia; i creditori non vogliono sentir più ragioni e lo assediano, Il padrone di casa minaccia di pignorargli i mobili. Mercadet si difende con le risorse della sua prestigiosa eloquenza, e cerca di guadagnar tempo, perché spera d’aver combinato un ricco matrimonio per la figlia Giulia, che lo toglierà d’impaccio. Buon padre di famiglia, egli ama teneramente la figliola, ma è così preso nel suo gioco da non esitare a sacrificarla, persuaso di operare per il suo bene, e a indurla a rompere col suo innamorato, l’onesto e buon Minard, un semplice impiegato. Senonché il futuro sposo, De La Brive in realtà più spiantato di lui, è venuto solo sperando di rimettersi a galla con la dote di Giulia, ed è perseguitato dagli usurai sotto il suo più vero nome di Michonnin. Mercadet vacilla sotto il colpo. L’innamorato Minard, conosciuta la vera situazione, rifiuta di rinunciare a Giulia, e viene a offrirgli i suoi risparmi. L’affarista, in un accesso di onestà li rifiuta. Ma tosto se ne pente. Riprendendosi, ordisce però l’inganno più rischioso della sua carriera: egli già altre volte è riuscito a tacitare i creditori facendo balenar la possibilità del ritorno dell’antico socio Godeau (il quale, in verità, fuggendo, gli aveva lasciato scritto di confidare in lui, che sarebbe tornato ricco dall’America a farlo partecipe della sua fortuna); ora egli immagina di far travestire Michonnin da Godeau, e presentarlo ai creditori, riuscendo a guadagnare i pochi giorni necessari alla riuscita di un suo colpo di borsa che dovrà rimetterlo a galla. Così, quando, nel corso di una tumultuosa seduta a casa sua coi creditori furibondi, sua moglie si precipita ad annunciargli il ritorno di Godeau, egli stupisce che anch’essa si presti all’inganno, ma prontamente ne approfitta; trema poco dopo sentendo che l’unico creditore il quale conosceva di persona Godeau vuole andar di là a vederlo anche lui; per salire tosto al colmo dello stupore, quando gli vengono a dire che Godeau si è messo a pagar tutti in contanti! In realtà il Godeau arrivato a casa sua è quello vero, ricco e pronto a farsi perdonare dall’antico socio. E così prende lieto fine l’angosciosa giornata di Mercadet, e la complicata commedia, la quale, costruita con innegabile bravura e ricca di scene pittoresche e spiritose, conserva ancor oggi tutta la sua freschezza. Nonostante che il nome di Balzac e l’arguzia delle invenzioni le abbiano assicurato larghissima fama, il suo valore intrinseco non è grande: passando dal romanzo alla commedia, il grande narratore sembra aver perso quelle qualità di minuziosa finezza e vigorosa profondità che sono proprie del suo genio; lo stile è qui brillante ma secco, la psicologia ingegnosa ma semplicista, e l’aggettivo di «molieresco», tributato all’opera da molti ammiratori, appare più giustificato da qualche saporito particolare che non dalla sua intima natura.

 

  Messa dell’ateo (La) [La messe de l’athée], p. 680.

 

  Uno del più brevi e più toccanti racconti di Honoré de Balzac, pubblicato nel 1836. Accanto al grande chirurgo Desplein, uomo di ferrea volontà, chiuso e freddo, ricco di contraddizioni, esoso e generoso al tempo stesso, superbo spregiatore degli uomini ma non privo di meschina vanità, vive il suo prediletto discepolo, Orazio Bianchon, un giovane povero, allegro e leale, che diventa presto l’amico e il confidente del Maestro. Desplein è ateo, col violento fanatismo di un uomo che crede solo nella scienza. Grande è dunque la meraviglia del fedele Bianchon, quando vede il suo maestro ascoltare devotamente e segretamente una messa a San Sulpizio, e finisce per scoprire ch’egli si reca quattro volte all’anno a tal messa da lui stesso «fondata». Apprende allora da lui la storia della sua lontana giovinezza: la terribile lotta ch’egli aveva condotto per tanti anni contro la miseria, sorretto dalla selvaggia sicurezza di essere destinato a grandi cose. Quando era quasi per morire di fatiche e di stenti, né poteva dar gli esami per mancanza di denari, aveva trovato miracolosamente un amico e un protettore nella persona di un suo vicino, un povero alverniate portatore d’acqua, anziano e solo al mondo, che aveva saputo indovinare la sua tragedia, ammirare il suo coraggio e condividere le sue speranze. Il brav’uomo aveva finito per far casa comune con lo studente: gli aveva tenuto luogo di padre per anni e anni, sacrificandogli senza esitare i suoi risparmi, godendo dei suoi primi successi, ed era morto dopo aver appena potuto gustare la filiale riconoscenza di Desplein e la gioia di veder coronata la sua missione. La messa di San Sulpizio era per Desplein l’estremo onore che egli rendeva alla memoria del suo vecchio amico, anima devotamente religiosa. La rapidità stessa del racconto concorre alla rara potenza dell’effetto, salvando lo stile del Balzac, sempre nervoso e ardente, dalle eccessive soprastrutture ideologiche cui egli spesso si abbandona nelle sue opere di maggior portata.

 

  Messaggio (Il) [Le Message], p. 682.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1860), pubblicato nel 1832. È cosa in sé assai tenue, che si raccomanda soprattutto per l’energia e la finezza di alcuni particolari. Il protagonista, che parla in prima persona, durante un viaggio in diligenza da Parigi a Moulins, attacca discorso con un simpatico giovanotto della sua età, un viscontino, e la conversazione diventa sempre più intima, volgendo ben presto a reciproche confessioni. Il visconte parla con accorata eloquenza dell’amore che lo lega a una bella dama già matura, di squisite qualità; e le cose sono a questo punto quando, per un tragico incidente di viaggio, lo sventurato giovane, cadendo sotto la vettura ribaltata, resta ferito a morte. Egli à appena il tempo di incaricare il suo improvvisato amico di una triste e delicata missione: cercar di avvisare della sua morte coi debiti riguardi la donna del suo cuore. Il narratore accetta con profonda commozione l’incarico: riesce a introdursi nel castello della dama, che è una contessa di Montpersan, e ne riparte dopo di aver assolto al suo triste compito, riportandone una indimenticabile immagine di donna innamorata e straziata dal dolore. Nel racconto troviamo una curiosa mistura di sentimentalismo romanzesco e di preciso realismo: due elementi sulla cui sintesi si basa l’arte del miglior Balzac, ma che restano qui scissi e contrasti. Tuttavia la naturale potenza dello scrittore lo porta a superare agevolmente i limiti del suo gracile tema: la figura di Juliette de Montpersan è rievocata con una serie di tratti magistrali, sicuri e penetranti come se realmente sorgesse a poco a poco dall’incognito per imporsi alla fantasia del lettore con tutta la sua suggestiva umanità.

 

  Modesta Mignon [Modeste Mignon], pp. 777-778.

 

  Titolo di uno dei più lunghi e importanti romanzi di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1841. La giovinetta Modesta, anima appassionata di squisita gentilezza in un corpo dalla grazia trionfalmente raffinata, vive con la madre in una elegante casetta di Le Havre, ed è strettamente sorvegliata da un gruppo di fedeli amici del padre. Questi, il nobile provenzale Carlo Mignon de La Bastie, che à fatto tutte le campagne napoleoniche, à sposato la ricca figlia di un baronetto tedesco, e dopo la caduta dell’Impero è venuto a costruirsi una rapida fortuna col commercio nella città di Le Havre. Incapace di sopportare la rovina di un improvviso fallimento, Carlo Mignon è scomparso da quattro anni per arricchir nuovamente nei mari del Sud; ma prima di partire era stato tanto straziato dalla sventura della prima figlia Bettina-Carolina (fuggita di casa con un seduttore indegno di lei e morta tragicamente) da indursi ad affidare ai suoi fedeli la missione di preservare a tutti i costi l’altra sua figlia da ogni contatto col mondo, fino al suo ritorno. Modesta non à in verità da rimproverarsi nessun colpevole intrigo. Tuttavia ella ama, esaltata dalle sue letture, il grande poeta Canalis, il quale, giovane ancora, vive a Parigi, accarezzato dall’alta società, inebriato dai suoi precoci e persistenti trionfi. La giovinetta, con uno stratagemma, inizia una amorosa corrispondenza col poeta. Ma colui che risponde alle sue lettere ingenuamente appassionate con missive non meno riboccanti di slanci ideali non è già Canalis, ma il suo segretario, il giovine Ernesto de La Brière, un uomo di mondo colto e fine, timido e romantico nell’intimo del cuore. Ernesto, sempre sotto mentite spoglie vede Modesta e la ama. Uno dei fedeli di Mignon, Anne Dumay, coglie il segreto della giovanetta, va a Parigi a chieder soddisfazione a Canalis, e scopre l’inganno proprio nei giorni in cui ritorna dall’India, nuovamente ricco, Carlo Mignon. Al quale intanto l’innamorato Ernesto confessa la sincerità dei suoi sentimenti, riuscendo a placarne lo sdegno e a conquistarselo: mentre invece Modesta, profondamente offesa da quella che essa considera una bassa soperchieria, non vuol più saperne. Allora Carlo Mignon, rientrato nelle vesti di un gran signore, invita a Le Havre Canalis (allettato all’idea di un ricchissimo matrimonio e incuriosito dal suggestivo personaggio di Modesta) e il suo segretario con lui, perché la figlia possa scegliere a ragion veduta, concedendole un mese. Ai due pretendenti se ne unisce un terzo, nella persona del marchese di Hérouville, gran signore brettone; e nel corso di una scintillante successione di feste, ricevimenti e conversazioni. Canalis e il marchese fanno sfoggio di tutti i loro meriti, mentre Ernesto sempre più disperato si tiene volutamente nell’ombra. Finché Modesta, dopo d’essersi lasciata attrarre successivamente e momentaneamente dai primi due, ritorna a lui. Opera di limpidezza esemplare, malgrado i lussureggianti particolari, Modesta Mignon è da contare tra i capolavori del Balzac. In essa la libera invenzione romanzesca e il violento realismo, due elementi di solito contrastanti nell’arte del grande narratore, si fondono con squisita naturalezza: all’appassionato studio di questo delizioso e romantico carattere di giovinetta, fa riscontro il meraviglioso ritratto di Canalis (pel quale sembra che il Balzac si sia ispirato a Lamartine), il gran letterato mondano metà genio e metà istrione, elegiaco e sentimentale nei versi quanto freddo calcolatore e scettico ambizioso nella vita.

 

  Musa del dipartimento (La) [La muse du département], p. 846.

 

  Breve romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1843. Nella cittadina di Sancerre. dopo la Restauratone, il signor Giovanni-Atanasio-Polidoro Milaud de la Baudraye vuole ricostruire lo sparso patrimonio, e si dedica all’opera con una energia che par miracolosa a paragone del suo fisico comicamente meschino Già innanzi negli anni, sposa una giovinetta di ricca famiglia borghese, celebre per la sua bellezza, la buona educazione e l’ingegno, che diviene un «bas-bleu», e scrive e pubblica versi sotto uno pseudonimo, onde i provinciali vedono in lei quasi una rivale di George Sand. Chiamati da lei, soggiornano nel suo castello due compatrioti che si son fatti un nome nella capitale, il medico Bianchon e il giornalista Lousteau. Quest’ultimo, uomo di spirito dal cuore frusto, scettico e disordinato muove senz’altro alla conquista della bella Dinah; lo scherzo si tramuta presto, almeno da parte di lei, in una violenta passione, cui il giornalista non sa più sottrarsi. Tornato a Parigi, lo raggiunge Dinah, incinta di lui, decisa a vivere fino alle estreme conseguenze la grande passiono romantica; la quale in realtà si trascina per qualche anno nella penosa parabola di una relazione irregolare. Non così la intende il signor de la Baudraye: egli à da un pezzo rinunciato all’amore della moglie, ma troppo lo interessa la continuità della famiglia e del nome: è sulla via degli onori politici, e Dinah à due figli, che sono legalmente suoi. Tormentata dalla miseria, dal senso della falsità della sua posizione, ma soprattutto dalla crescente indifferenza di Lousteau che arriva a veri e propri tradimenti, seguita dalla tenacia del marito, assalita dalla religione della madre e dall’eroica devozione del magistrato Clagny (l’unico dei suoi vecchi adoratori che abbia continuato ad amarla), la donna finisce per rientrare nell’ordine. La storia, benché trattata con la ben nota maestria di questo grande creatore di personaggi, appare tuttavia condotta con troppo rapida disinvoltura, verso una troppo chiara moralità. La figura del marito è imponente, una delle più riuscite del Balzac, ma il dramma di Dinah appare soffocato sotto troppi altri motivi. Ci nono anche digressioni di psicologia sociale, di critica letteraria e di politica, persino un omaggio al genio di Stendhal (che il Balzac fu tra i pochi a riconoscere a quei tempi, e al quale molto egli deve), e una serie di confidenze e consigli sulla carriera del letterato. Tuttavia proprio a questa confusa abbondanza di temi il romanzo deve il suo originale sapore e il suo eccezionale interesse.



  Ma.[rio] B.[onfantini], Chabert [Il colonnello], in Dizionario letterario Bompiani ... cit. Personaggi: A-Z, Milano, Valentino Bompiani Editore, 1947, p. 167.

 

  Protagonista del romanzo Il colonnello Chabert di Honoré de Balzac (1799-1850), egli è uno di quei semplici eroi dell’avventura napoleonica che il valore e una specie di primitiva grandezza d’animo ànno portato agli onori e alla gloria. Creduto morto alla battaglia di Eylau (1807). dopo pietose vicende e una lunga segregazione in un manicomio egli ritorna a Parigi povero e sconosciuto. L’Impero è ormai caduto: la bella moglie da lui tanto amata è passata a nuove nozze con il conte Ferraud, e finge dapprima di non riconoscerlo per non rinunciare alla nuova brillante posizione e tenersi la fortuna di lui. Aiutato da qualche anima pietosa, il vecchio e nobile ufficiale lotta per riavere il suo nome e il suo posto nel mondo; ma il vile inganno della moglie, la quale a un bel momento finge di amarlo ancora per carpirgli le armi legali che egli à in sua mano, lo disgusta talmente della vita, che Chabert rinuncia a tutto e ritorna volontariamente nell’ombra, attendendo la morte in un ospizio di poveri. Qualche tratto della sua mentalità e della sua storia potrebbe additarci in Chabert un precursore dei personaggi pirandelliani; ma in realtà egli non è un rappresentante del dramma della personalità quanto uno di quei vinti a cui si rivolgeva con sincera commozione il pessimismo di Balzac: anime troppo semplici e pure nella loro modestia per trionfare nelle lotte della vita. E il dramma di Chabert rientra in quello della generazione degli eroi della grande avventura napoleonica i quali, ricaduti da quel mondo semplice della gloria e della disciplina militare che era il loro nelle sottili complicazioni di una società tutta borghese, non possono far altro che arrendersi e scomparire, se buoni, o dare sfogo alla loro energia, quando sono di tempra meno onesta, in un selvaggio arrivismo che può giungere al delitto, come Bridau, o nel vizio che li condurrà allo sfacelo, come il barone Hulot.

 

 

  Grandet [Félix Grandet], pp. 427-428.

 

  Il romanzo di Honoré de Balzac (1799-1800) Eugenia Grandet è veramente dominato dalla figura del padre, avaro possente e maniaco, ritratto con una terribile evidenza. Felice Grandet, bottaio, s'innalza gradatamente, approfittando dei rivolgimenti economici che accompagnarono la Rivoluzione francese, sino a diventare uno degli uomini più ricchi del suo paese. Ma la sua passione tirannica aduggia tutta la famiglia; Eugenia, cresciuta nello spavento di quella casa, quando s’innamora del cugino Carlo osa contrapporsi alla volontà del padre, ma ogni sua aspirazione, e il suo stesso amore, s'infrangono nell’impari lotta. E in Grandet, presso a morire, il crocifisso dorato desta un ultimo lampo di cupidigia: segno visibile, e quasi simbolico, di un’anima ch’è divenuta una cosa sola con il suo vizio. Il vecchio personaggio dell’avaro, passando dalla commedia nel romanzo, riesce, dopo tante sconfitte che, nella tradizione, l’avevano sopraffatto e deriso, a imporre drammaticamente il suo clima. Perché in Grandet il vizio diviene potenza e, come tale, finisce col trionfare sottomettendo a sè tutta la vita che lo circonda. Vi sono, in lui, tutta la forza dell’uomo nuovo che approfitta brutalmente di un periodo di mutamenti e, insieme, l’atteggiamento statico e universale della sua natura inferiore: è una maschera divenuta improvvisamente e terribilmente uomo. Al pari di Rigou dei Contadini è un prodotto dei nuovi tempi, senza i quali sarebbe rimasto probabilmente un bottaio, come Rigou sarebbe rimasto, probabilmente, un frate: ma prodotto attivo, anzi, l’unico fattore veramente attivo di un’epoca in cui la decadenza delle vecchie classi dirigenti e il crollo degli ideali che esse rappresentavano à dato via libera alle cupidigie e allo sfrenato arrivismo della gente nuova, la quale si afferma in nome di quell’unico principio che il pessimismo balzacchiano vedeva avviato al dominio della società moderna, la potenza del denaro. Félix Grandet à dunque semplicemente tramutato in vizio e follìa la vile passione dominante della sua epoca. Ma appunto la sua follìa lo salva e gli concede un raggio di simpatia umana nell’animo del suo creatore come degli spettatori. La terribile energia di quest’uomo, tutto teso a un solo scopo, à conquistato lo stesso Balzac, e il personaggio finisce col comporsi nella memoria in linee di una vera se pur tremenda grandezza. E grandiosa è infatti la scena della sua morte: con la lucidità mirabile che conserva fino agli estremi momenti, con la minuziosa e stoica freddezza onde precisa tutto il suo avere alla figlia, concludendo la sua vicenda in quelle formidabili parole: «Mi renderai conto di tutto laggiù».

 

 

  Arrigo Cajumi, Pensieri di un libertino di Arrigo Cajumi. Uomini e libri. 1935/1945, Milano, Longanesi & C., 1947 («I Marmi», Volume 3), pp. 93-94.

 

Eresie (1935).

 

  pp. 23-24. Lasciamo andare le ideologie, che siamo ridotti ad augurarci la politica di Voltaire, e le sue possibilità di sfogarsi. Ma bisognerà pure un giorno fare il processo all’Ottocento, per vedere da vicino cosa ha guastato del gran secolo, con tutte le migliori intenzioni di perfezionarlo e di progredire. Anche in letteratura, che disastri ha combinato! E non ha fatto nulla di più «vero»: il grossolano romanzesco degli intrecci di Balzac è altrettanto arbitrario delle fantasie di Voltaire, e molto meno divertente.

 

Levate di scudi (1936).

 

  p. 60. Serviti da uno stile grossolano ma efficace, Guerrazzi, Barbey d’Aurevilly, vanno a spron battuto. Balzac, allorché ci si prova, si scopre di più: in lui, l’immaginazione è raramente poetica, e sincera: gli scenari scricchiolano. Peggio ancora in Sue e compagni, che sono oggi illeggibili, sebbene le vicende dei loro libri, se fossero riscritte e condensate (cfr. per es., I misteri di Parigi al cinematografo) conserverebbero ancora una certa forza d’illusione. Il genio di un Guerrazzi e di un Barbey d’Aurevilly c’è: se i particolari si sfaldano, l’impostazione del quadro e della scena, resiste. [...]. Balzac, che è divorato dalla modernità dalla mondanità, dalla sociologia, non fa di questi miracoli fantastici. A Vautrin, manca lo sfondo appropriato: ti sembra un forzato di quelli che ritrovi nelle cronache dei giornali. La vena borghese lo assorbe.

 

  p. 81. Rileggo i due primi tomi del Journal di Stendhal, e mi si conferma l’impressione del «romanticismo» tenace e inguaribile dell’uomo, il quale si trastullò con gli ideologi, ma non seppe mai vedere come il pensiero di Helvétius presupponesse un sistema di vita assai diverso da quello ch’egli, Stendhal, eleggeva. Tutte le storie del culte de moi sono sistematizzazioni confuse, com’erano confuse le idee e le teorie di Stendhal. In realtà, attenuando il vanitoso arrivismo e la grossolanità del secondo, tra Stendhal e Balzac c’è una parentela di frenesia, d’ingenuità, di ideali femminili e mondani. (In Mérimée, la coscienza del romanticismo è più viva, sorvegliata). A cavallo fra i due secoli, Stendhal - come Foscolo - pende dalla parte del XIX, mentre Courier è il Settecento puro, non guasto dalla tabe sentimentale. Gli stessi esordi teatrali in Balzac e in Stendhal, gente negata al teatro, ma per cui questo rappresenta successo, denari, attrici, gloria monetizzabile.

 

  p. 82. Ci voleva un professore come Taine per pigliare tutto per buono, per non accorgersi dell’imparaticcio e dello scolastico.

  Sainte-Beuve anche stavolta ha visto bene, come nel caso di Balzac. Se avesse avuto fra le mani il Journal (prezioso come documento) avrebbe protestato: l’arte non vi può cavar niente.

 

  p. 84. Ebbene, diciamo la parola. C’è in Stendhal tutto un lato «infantile» che lo guasta, un che di collegiale e di pacchiano che lo tien sotto. Gli dicono che la tale è buona da godersi en levrette, e lui ci rimugina su non so quante volte. Tiene al «de», e avrebbe dato qualcosa per essere fatto barone. Parentela schietta con Balzac, per l’arrivismo.

 

  p. 91. Ogni tanto, sbuca fuori il genio di Balzac. E io per contrapposto penso al genio di Flaubert, che veramente prese quella materia inverosimile, lutulenta, confusa, che era il romanzo balzachiano, e ne cavò le opere che sei ancor lì a leggere col senso del definitivo, di ciò che è e starà nei secoli. Anche qui, Sainte-Beuve aveva veduto giusto, fatta la parte a Sue, Dumas padre, ecc. Al solito, lo vituperano senza posa.

 

Il malpensante (1937).

 

  pp. 93-94. Finirò per non poter più leggere Balzac. Sfoglio, a quasi vent’anni di distanza, il saggio di Brunetière, e inorridisco: Carmen, La Vénus d’Ille, due gioielli che un lettore bennato si riprende di anno in anno almeno, guardati con disprezzo; Adolphe, senza sfondo; Flaubert, a petto del quale Balzac è un Sue o un Ponson du Terrail, pigliato sottogamba, ecc. Molto, molto meglio il Balzac di Faguet, che non si faceva traviare, e notava lo scucito degli intrecci, le inverosimiglianze della «osservazione», il fango dello stile, la volgarità dell’invenzione, e metteva Flaubert al suo posto di re del romanzo dell’Ottocento post-romantico (ma finiva con la nota stonata del parallelo con La Bruyère!) Più lo si vede da vicino, più il romanzo di Balzac appare «inventato», e scritto approssimativamente. Brunetière ha il coraggio di confrontare il realismo dell’Assommoir e di Germinal, che nessuno ha più saputo rifare, con quello di Balzac, per dar la palma a questi. Thibaudet, nella sua postuma Histoire de la littérature française au XIXe siècle difende persino Le lys dans la vallée e fa di Balzac un colosso. Ohibò, di colossi l’Ottocento francese ne ha visto uno solo: Hugo.

 

  pp. 96-97. Leggo Le cabinet des antiques. Questo preteso osservatore è, in realtà, un feuilletonista. La parte riserbata all’invenzione è mostruosa. Con la mia indulgenza pel romanzo d’appendice tipo A Tale of Two Cities, trovo che pur tuttavia Balzac esagera. Non che gli altri faccian molto diverso da lui, ma non hanno le sue pretese di sociologo, pensatore, ecc. o le tengono su un piano di meno sfacciata ambizione. Quel pochino di Dickens che sono riuscito a trangugiare, ha almeno una bonomia, un’osservazione di particolari umani, che a Balzac difetta.

  L’artista, è Thackeray.

 

L’anno dell’angoscia (1938).

 

  p. 127. Quei coglioni che si sodo scandalizzati a tempo e a comando per la ristampa del libro di Blum sul matrimonio non hanno mai letto la vecchia Physiologie du mariage di Balzac, a cui egli espressamente si richiama, né la Physiologie di Bourget, che mi pare eviti di ricordare.

 

  p. 145. Dopo, li vedi cercare nel Capitale ragioni e giustificazioni, pigliarsela col mur d’argent. Hanno sbagliato testo: piglino un qualsiasi manuale del commerciante, e lo leggano. Marx era, in affari, della forza di Balzac, e chi mai è andato a consiglio presso il romanziere?

 

Il «libertino» (1939).

 

  p. 171. Leggo un altro Simenon, Chez Krull: vi si vede l’evoluzione della scuola di Balzac, e del gusto dei lettori. Simenon ha dovuto abbandonare tutto il ciarpame del Lys dans la vallée: quel sentimentalismo romantico non è più di moda, dopo cento anni. Anche i tratti della vita provinciale si sono scarniti, diventando più amari e risolutamente torbidi [...]. Balzac intrufola nelle sue pagine un Dio remuneratore e vendicatore; Simenon, non l’osa più.

 

  p. 198. Balzac è un Monnier allucinato e pretenzioso, e quindi falso: fa impressione a chi, come Gide, ignora la realtà, ma non illude gli altri.

 

  p. 219. Le ineffabili asinerie di Balzac: «Il offrait le type des enfants de cette pure et noble Germanie, si fertile en caractères honorables, et dont les paisibles moeurs ne se sont jamais démenties, même après sept invasions». È tutto in questo stile; e non parliamo della puerile arbitrarietà del racconto!

 

Il porco di Epicuro (1940).

 

  p. 227. Curiosissimo, Pierre or the Ambiguities di H. Melville, l’autore di Moby Dick. Pagine e capitoli di gran stile poetico, caratteri assurdi e tenebrosi che paiono muovere dagli elisabettiani, infantilismo a profusione, il tono di La peau de chagrin che il libro molto sovente arieggia tanto da ricordare un Balzac trapiantato e ritardatario.

 

  pp. 273-274. L’amico Trompeo ha per consuetudine di leggersi un romanzo di Balzac all’anno, durante le vacanze. A me accade di procedere più assiduamente, ma ogni volta sono delusioni. Béatrix mi spingerebbe a guardar da vicino dove è nata la leggenda del «realismo» balzachiano (riprendere Les romanciers naturalistes di Zola), giudizio volgare che fa sempre testo, sebbene infondato. Raramente infatti la realtà fu obliata, stravolta, vituperata, vilipesa come da questo preteso «realista», i cui personaggi sono visti con la lente d’ingrandimento, senza coerenza, minuzia, verosimiglianza psicologica. Comicissimo parlar di «verità» delle courtisanes balzachiane a raffronto di Manon Lescaut; o delle duchesses di Balzac, a petto di quelle di Crébillon fils. Ci si chiede in che le donne di Balzac differiscano da quelle della Sand. Forse per la truculenta immaginazione del primo, la grossolanità del suo stile, gli effettacci scenografici che lo attirano? Ché, per languido convenzionalismo, leziosità e sentimentalismo, i due restano sullo stesso piano.

 

  p. 277. Questa immagine dei grandi capitoli centrali di Port-Royal [di Sainte-Beuve], e l’indagine su Montaigne e Pascal donde nasce, mi riconducono a considerare come sia scaduta non soltanto la serietà degli studi, ma la natura delle preoccupazioni degli uomini dotati di raziocinio (o è forse il numero di questi ultimi che si restringe con la rapidità della peau de chagrin?).

 

Le anime morte (1941).

 

  pp. 314-315. Rileggo Splendeurs et misères des courtisanes, e ancora una volta la volgarità chiassosa di Balzac mi urta, cosicché che mi ribello decisamente a metterlo molto più in alto di Sue. La manía dingigantire fatti e persone mediante epiteti ammirativi, sproloqui di chi si dà laria di guazzar nei segreti della storia politica e di costume, è davvero buffa. Che cos’è Lucien se non uno dei tanti cacciatori di dote, associato a un ex galeotto e alla banda di questi? A sentire Balzac qualificar formidabili i loro progetti, sublimi i sentimenti, straordinarie le astuzie di cui si servono (e che sono quelle dei vecchi melodrammi) chi è avvezzo a guardar da vicino le cose e gli nomini, si sente montar la mosca al naso. Nucingen è un babbione che non si trova neppure in una commedia di Terenzio, e la sua prodigalità formicola d’inverosimiglianze. Esther Gobseck è ridicolissima per chi conosce le filles, e al suo confronto la Dame aux camélias o Nana sono prodigi di realismo e di osservazione. Lucien è il giovane arrivista dichiarato, il cui destino è di non arrivare mai, come quello di tutti i professionisti dell’ambizione: anche qui, pigliate Bel Ami, e vedrete come Maupassant mirava giusto. Jacques Colin (sic), alias Vautrin, e le sue accolite Europa e Asia, sono pupazzi adorni e mossi da aggettivi, ma pieni di crusca. Taccio di Corantin (sic) e della sua schiera di cartapesta. Questo per i tipi. Né la pletorica e retorica scrittura balzachiana, e la costruzione che si vale delle consuete impalcature da feuilleton, giustificano davvero l’ascesa di Balzac a un gradino superiore a quello su cui siedono Dumas padre e Sue.

  Taper su Balzac sarà forse uno dei miei trastulli, ma, tutte le volte che ci casco, mi convinco che Taine, Brunetière, Faguet e altri professori che non conoscevano il mondo, sono stati gl’inventori del presunto «genio» balzachiano.

 

Truth (1943).

 

  p. 389. Ancor ragazzo, conoscevo, leggevo, ammiravo i «medaglioni» di Enrico Nencioni. Uscita ora una grossa antologia, mi ci getto. Ahimè! Poco più di un conferenziere piacevole, di un lettore superficialmente elegante, di un poeta tutto echi e riverberi. Maniaco della storia, non posso più sopportare certe facili bravure, raggriccio dinanzi alle inesattezze, m’inalbero alle citazioni troppo evidenti. Presentare Balzac in quel modo da gazzettiere [...].

 

  p. 412. Dostoevskij, dà veramente il senso di una continua creazione psicologica, mentre Balzac, a lui tanto inferiore, sceneggia alla Scribe.

 

Provvisorio epilogo (1945).

 

  p. 486. Non ho nessuna difficoltà a confessare che in politica ho una bestia nera: Mazzini; e in letteratura un’altra: Balzac, su cui mi diverto a taper, non per sfogarmi su entrambi, ma per meglio conoscere — reagendo — me stesso.

 

 

  Sebastiano Di Massa, Balzac a Milano, «La Martinella di Milano. Echi dell’anima lombarda», Milano, Volume I, fascicolo VI, novembre 1947, pp. 83-84; 1 ill.

 

  Balzac è a Milano, per la seconda volta nel maggio del 1838. Egli ritorna stanco e avvilito dalla Sardegna, ove, nel più circospetto segreto, si è recato ad esplorare le possibilità di sfruttare le scorie di piombo giacenti a montagne presso le miniere d’argento dell’isola; ma, sul posto, è stato informato che la concessione di tale impresa è già assegnata dalla Corte di Sardegna a quel Giuseppe Pezzi, mercante genovese, col quale egli, fiducioso ed incauto, aveva discusso l’idea un anno prima a Genova, durante il periodo di quarantena nel lazzaretto di quella città.

  A Milano lo chiamano le cure degli interessi della famiglia Guidoboni-Visconti, da lui assunte.

  E’, questo, il terzo dei suoi viaggi in Italia, occasione dei quali è stata sempre la cura degli interessi della famiglia Guidoboni-Visconti. Il Conte, in séguito alla morte della madre sua, doveva sistemare la successione ereditaria.

  La Contessa, Sarah Frances Lovell, di origine inglese, molto amica di Balzac, ed alla quale egli dedicò il romanzo Béatrix, suggerì al marito di affidare allo scrittore, espertissimo in questioni giudiziarie, l’incarico di condurre a termine le complicate pratiche della successione. Balzac, munito di procura rogata dal notaio Outrabon, venne così nel luglio 1836 a Torino, e il 19 febbraio 1837, ripartito ancora da Parigi, giunse a Milano.

  La prima visita di Balzac a Milano fu trionfale. La Gazzetta privilegiata annunziò il suo arrivo e nel Corriere delle dame A. Piazza scrisse un entusiastico articolo sullo scrittore ormai celebre in tutta Europa.

  Introdotto dalla Contessa Sanseverino nel salotto di Chiarina Maffei, Balzac conobbe il gran mondo milanese: d’Azeglio, Grossi, Hayez, il principe Porcia, il marchese Trivulzio, il marchese Porro Lambertenghi, il conte Taverna, Gaetano Melzi, le famiglie Cicogna, Orsini, Sormani e tante altre; godè largamente della ospitalità lombarda; presentato dal marchese Felice di Santommaso fu ricevuto da Alessandro Manzoni; Cesare Cantù, che vi fu presente, scrisse dell’incontro e del colloquio fra i due grandi uomini; lo scultore Puttinati ritrasse in marmo il Balzac, e questi, grato, gli dedicò il racconto La Vendetta.

  Durante questa prima visita Balzac alloggiò all’Albergo Venezia in Piazza S. Fedele, e con l’aiuto degli avvocati Mozzoni-Fresconi e Carlo Marocco, patroni del Conte, riuscì a stipulare una conveniente transazione.

 

 

  Quanto diverso da quello euforico della prima, è lo stato d’animo di Balzac in questa seconda visita a Milano. Attraverso la lettura del diario scritto alla Contessa Hanska, sua amata, possiamo penetrare nella profonda tristezza che lo dominava in quei giorni, e seguirne le azioni e le reazioni.

  Milano «est tout en l’air pour le couronnement de l’empereur en qualité de roi de Lombardie, et il s’agit pour la maison d’Autriche de se mettre en frais et in fiocchi»; ma in quest’aria di festa il romanziere è «comme un oiseau en cage qui s’est heurté à tous les barreaux, il reste immobile sur son bâton, car une main blanche a étendu au dessus le réseau vert qui lui défend de se casser la tête». Egli è triste, profondamente triste. Ed il 20 maggio, giorno del suo compleanno, egli dà sfogo alla piena del suo abbattimento: «Je commence l’année au bout de laquelle j’appartiendrai au grand et nombreux régiment des êtres résignés ... Ma philosophie sera fille de la lassitude et non du désespoir ...».

  Pure in questo stato di depressione l’ispirazione non lo abbandona, anzi viene a lui inattesa: «Je suis venu chercher ici une occasion pour m’en retourner en France, et j’y suis resté pour faire un ouvrage dont l’inspiration m’y est venue après avoir été vainement implorée depuis quelques années». Egli comincia a scrivere proprio a Milano uno dei suoi romanzi psicologici più delicati, le (sic) «Mémoires de deux jeunes mariées», del quale così scrive : «je n’ai jamais vu des livres ou (sic) l’amour heureux, l’amour satisfait ait été dépeint ... Je veux terminer ma jeunesse — pas toute ma jeunesse! — par une oeuvre en dehors de toutes mes oeuvres».

  Grazie all’amicizia del Principe Porcia egli è alloggiato ora non all’albergo ma «dans une jolie chambre qui donne sur des jardins et ou je travaille très à mon aise ...». Ma anche questa amichevole ospitalità desta in lui amare considerazioni. Il principe è innamoratissimo della contessa Bolognini ed è corrisposto, mentre il povero e grande scrittore ha un amore, un grande amore, quello per la Hanska, così contrastato.

  Frattanto egli rivede la città, ritorna in luoghi a cui lo legano cari ricordi, ma il suo animo è ora disincantato. «J’ai revu le Duomo, j’ai fait le tour du Corso, mais je n’ai rien à vous dire que vous ne sachiez déjà. J’ai fait connaissance avec toutes les chimères du grand chandelier de l’autel [de] la Vierge, que je n’avais vu que très-superficiellement, ainsi qu’avec le Saint Barthélemy qui tient sa peau en forme de manteau; j’ai revu mes délicieux anges qui soutiennent le tour du chœur, voilà tout. J’ai entendu, à la Scala, la Boccabadati dans la Zelmira». E la tristezza, col disincanto, fa nascere acuta in lui la nostalgia: «J’ai le mal du pays; la France avec son ciel gris la plupart du temps, me serre le coeur sous ce beau ciel pur de Milan; le Duomo, paré de ses dentelles, m’engourdit l’âme d’indifférence; les Alpes ne me disent rien; cet air lâche et doux me brise; je vais et viens sans vie et sans pouvoir dire ce que j’ai ... quel horrible mal que celui de la nostalgie! il est insaisissable, indescrivible ...».

  Il 24 maggio va a Saronno a vedere gli affreschi del Luini: «elles m’ont paru dignes de leur réputation. Celle qui représent (si) le mariage de la Vierge est d’une suavité particulière, les figures sont angéliques et, ce qui est très-rare dans les fresques, les tons en sont doux et harmonieux».

  Il 5 giugno egli trova alla posta una lettera della contessa Thürhein amica sua e della Hanska. Dolci lontani ricordi le parole, dell’amica suscitano nell’animo di Balzac, ed egli tutto si abbondona all’ondata delle memorie care: «Je me suis assis sur un banc et suis reste près d’une heure les yeux attachés sur le Duomo, fasciné par tout ce que cette lettre rappelait ... Le Dôme était bien beau, bien sublime pour moi le 5 juin à onze heures; j’ai vécu là pour une année».

  L’indomani, 6 giugno 1838, Balzac riparte da Milano per Parigi con le sue nuove illusioni, e, certo, col vivo ricordo della bellezza del Duomo, visto in quell’ora in cui i ricordi del passato suscitarono nel suo animo ardente nuove speranze per l’avvenire.

 

 

  Don Marzio, La bottega del caffè, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 241, 10-11 ottobre 1947, p. 2.

 

  Compiono cent’anni, precisamente in questo mese di ottobre, i due capolavori di Balzac: Il cugino Pons e La cugina Betta, che furono licenziati alle stampe nell’ottobre 1847.



  G.[iacomo] Fa.[lco], Filippo Bridau [Philippe Bridau], in AA.VV., Dizionario letterario Bompiani ... cit. Personaggi: A-Z, p. 349.

 

  L’antico comandante di squadrone dei dragoni della guardia imperiale, il reduce di Waterloo, il tenente colonnello Filippo Bridau, personaggio del romanzo Casa da scapolo di Honoré do Balzac (1799- 1850), rientra nell’esercito dopo anni di isolamento e di ozio, sotto gli aborriti Borboni che aveva giurato di non mai servire: e godrà, com’era nei suoi voti, di una ricchezza più che fastosa congiunta a un titolo di conte. Se un coraggio fisico a tutta prova può riunirsi, in un sol uomo, a un animo di infinita bassezza, a una totale assenza di scrupoli, ai calcoli più avvedutamente egoistici, alla mostruosa mancanza di ogni affetto familiare, alla capacità di non indietreggiare di fronte a qualsiasi scelleratezza, in Filippo Bridau son congiunte senza riserva, integralmente, queste possibilità. L’isolamento dalla vita militare, dopo la caduta di Bonaparte, sarebbe assai dignitoso, in altro personaggio che sapesse accettare una vita povera e raccolta; l’ufficiale in ritiro imporrebbe rispetto. Ma in Filippo, come si accresce ogni giorno lo spirito godereccio, così va tristamente perfezionandosi quello spirito di simulazione nel quale, alla lunga, sarà maestro. La prova generale avviene nella scena col fratello, quando finge — dicendo e non dicendo — di volersi uccidere; e non è che un’abietta farsa: il vigliacco, pur splendido sul campo di battaglia, non sa morire. Senza tradirsi, sarà capace poi di recitare la lunga commedia della moralità, col vecchio zio, a Issoudun, per giungere alla bramata eredita; e ancora, è naturale, con quella maschera seria di reduce onorato, dalla decorazione all’occhiello, godrà del plauso dei benpensanti, come un restauratore dell’ordine, della famiglia. Gli Arabi che gli mozzano il capo, in Algeria, dove s’è riconfermato eroe alla sua maniera, fanno la tardiva vendetta di tutte le sue vittime, di tutte le lagrime ch’egli fece, impassibilmente, versare. Chiama al soccorso: ma nessuno gli risponde.

 

 

  Mercadet, p. 573.

 

  Protagonista della commedia Mercadet, l’affarista, di Honoré de Balzac (1799-1850). Se la commedia è invecchiata, il carattere dell’uomo d’affari, pur grossamente trattato, è ancor vivo, interprete del formarsi, un secolo fa, della società industriale francese. Quegli uomini di speculazione e di borsa (gli stessi che appaiono in tanti romanzi del tempo) sembrano, a volta a volta, maghi o furfanti: il riprodursi dell’esemplare, pur meno chiassoso, e ormai tutto agghindato di giuridici cavilli e men superficialmente macchinoso nel creare trovate che consentano di evitare il fallimento, induce a pensare quanto siano tuttora ingenui e creduloni quegli uomini d’affari che dovrebbero essere, fra tutti, i più avveduti. Mercadet in sostanza, cialtrone e amorale qual è (benché non antipatico e goldonianamente interessante per le invenzioni del suo fertile cervello), non è tuttavia un malvagio, un uomo d’integrale malafede: rovinato dalla fuga d’un socio, Godeau, egli ora crede nelle sue fantasie, nelle imprese imaginarie delle sue società anonime; è pur sempre convinto che la ricchezza arriverà domani, che il tocco della bacchetta magica muterà tutto, d’un colpo. Mercadet è un visionario, poiché crede nell’inverosimile e in questo soltanto. Non può invece approvare l’amore sincero di due giovani, poiché è cosa troppo semplice e umana: non può prestar fede alla notizia del vero arrivo di Godeau dalle Indie, che gli riporta il danaro, poiché egli aveva invece già ordito una truffa, in base a un falso arrivo, e come può attuarsi nella realtà una sua fantasia? La vita, invece, gli si mostra più leale: ci sono fidanzati che non chieggono la dote, colpevoli, pentiti, che si redimono, amici che non tradiscono. Quando le cose impensate accadono, il vecchio affarista palesa una grande stanchezza: la commedia dell’inganno à infine affaticato l’incrollabile sorridente attore. Ed esce dalla scena, dall’azione, ma si pensa che ancora, nella solitudine della campagna farneticherà progetti d’imprese, rialzi d’azioni, ricchezze senza limiti, e lo scenario dei suoi sogni, ancora e sempre, sarà l’affascinante Borsa.



  G. Forbicini, Considerazioni anarchiche su Balzac, «Umanità Nova. Settimanale anarchico», Roma, Anno XXVII, N. 13, 30 Marzo 1947, p. 3.

 

  Cercare delle idee nelle opere voluminose di scrittori di fama, come Balzac, Zola. Turghenieff e molti altri, non è difficile; ma, cercare delle idealità per metterle a confronto di quelle destinate a far da fiaccola al buio della vita e a ridestare l’umanità non è sempre facile, benché, anche i più retrogradi, se pure reazionari, hanno delle scappate che sfuggono al loro controllo, e tali da farle, alle volte sembrare genialità filosofiche ispirate e progressive.

  [...]. Come nell’Ibsen e nel Gorki, nel Balzac si trovano a manciate sofisticazioni anarchiche, uscite dalla sua penna; a sua insaputa gli sfuggono sentenze formidabili contro la borghesia e contro l’aristocrazia e la burocrazia che sembrano dettate da Bakunin o da Proudhon. Molti anarchici, anche di quelli di vecchio stampo, non si sono azzardati a lanciare contro le camorre politiche del nostro tempo, invettive più sanguinose e più severe di questo scrittore che ha vissuto e lavorato solo per avidità e per ambizione.

  Noi, dal punto di vista anarchico, non abbiamo interesse di giudicare tali opere; ma scorrendo queste pagine e trovando dei cimeli di critica nostra, perché non elogiarli?

  Ieri, leggendo nella terza pagina del Momento «sulle prime cinematografiche», il titolo suggestivo di Eugenia Grandet, opera eminente del grande scrittore, ha richiamato la mia attenzione, ma ho trovato il lavoro mal compreso, mal ridotto. Trascurato, per curare la scena. Tutta la parte psicologica e morale mancante.

  E’ una lezione. L’opera viene sguidata dal suo scopo per diventare grottesca e inverosimile.

  Nelle opere Balzachiane si trovano dei soggetti immaginati ma verosimili, i quali benché escano dall’ordinario per emozionare il lettore, questo, a sua volta, ci si immedesima e a tanti sembrerà di trovar se stessi peggiorati o migliorati!

  Si incontrano sovente dei soggetti che par di averli conosciuti nella realtà Nella creazione dei delinquenti ha una specialità Non li fa nascere tali, ma li mostra quasi sempre vittime dell’ambiente in cui vivono e questo è un modo di studiare il carattere dei pervertiti nelle cause cha ne determinano gli eccessi.

  Certi personaggi di Emilio Zola, sono meno anatomizzati di quelli presentatici dal Balzac. Zola è socialista e Balzac è legittimista e reazionario, che spesso urla e inciampa nella via che si è imposta e per necessita finisce per trovar bello quello che aveva deciso di definir brutto e trova buona la ribellione che voleva condannare.

  Il suo carattere indagatore non riesce sempre ad ottenere l’uomo come lui lo vorrebbe quando lo trascina con eccessivo verismo a fargli tare una conversione fuori scena. Finisce perciò a farlo individualista e ne forma l’anarchico. Ravachol, vissuto e morto dopo di lui, si trovò spesso nei suoi lavori più forti. Vi passa e lascia qualche cosa di sé e dei suoi gesti. Ci sono dei soggetti che non sanno liberarsi dei pregiudizi, ma che sanno liberarsi dalle persone che li pregiudicano.

  Si sente la ribellione dei sensi, che si unisce a quella dei sentimenti; ma anziché cercare di trovare il campo di battaglia sociale per giustificarlo trova il delitto, l’intrigo, il matrimonio, l'adulterio, e tante bassezze che pregiudicano la morale dei suoi lavori migliori. La commedia umana di Balzac sa di tragedia più che di dramma. Spesso, li veleno del serpe, più che il morso del cane, opera nei suoi personaggi.

  La donna non ha, a mio credere, saputo conoscerla. Pare che l’abbia trovata in casa e lasciata in casa. La sua audacia contro l’aristocrazia femminile fece dire a certe donne: «Ma chi è quell’intruso che vuol giudicare l’aristocrazia senza sapere neppure dove sta di casa?». Lui non ha mai risposto; pure ha seguitato a sognare un avvenire aristocratico (che poi raggiunse).

  Vincenzo Morello, in un articolo scritto nel 1900 e pubblicato poi sulla Nuova Antologia, osserva che i positivisti della nuova scuola non si erano ancora affermati sull’opera di Balzac il quale nella sua Commedia umana aveva saputo mettere una certa qualità di delinquenti artistici che, né Lambroso (sic), né Ferri, né Sighele, avevano fino allora scorti. E questi delinquenti dell’arte, se la loro arte e la loro passione l’avessero messa in un ramo qualunque dello scibile politico, avrebbero toccato l’apice ugualmente della celebrità. [...].

  Balzac è stato forse troppo studiato da molti sommi da permetter, a me di fare su di lui un lavoro di critica nuovo. La sua vita, le sue opere, il suo eterno affanno per uscir fuori da una crisi alata l’ha descritte da sé, per sé lui ha detto ciò che devono dire gli altri. E per questo che noi, guardando le ricchezze, i valori letterari e le creazioni sempre più nuove dei suoi originali troviamo la ragione di persuaderci (come scriveva il Morello) che Balzac «a buon diritto poteva essere professore di scienze sociali, e senza esagerazione, gloriarsi d’aver portato una società intera nel suo lavoro».

  I libri, di questo grande indagatore delle abitudini aristocratiche e borghesi, hanno tutti qualche cosa di vero accanto al molto che hanno di probabile. Ma io credo che i valori maggiori siano nelle pagine di quelli meno letti e meno studiati, forse perché meno catastrofici

  Non deve sorprendere, certo, chi è abituato a cercare valori di fisionomia eccezionali, in tutte le manifestazioni operate ed operanti del lavoro intellettuale e manuale della vita, il ritrovamento di qualche gemma filosofica e poetica, sperduta nella letteratura sbadata, di tutti questi che preferiscono far poco anziché far niente. Di questi valori messi da critici pregiudicati, fuori moda, per il patrizio pudore di classe, noi non disdegniamo essere i cercatori e di comunicarli a quelli che sentono il diritto se non il bisogno di biasimo o di elogio. [...].

  Il leggere Balzac è un intraprendere un viaggio infinito, traverso le passioni, le tristezze, i vizi e le ambizioni di questo secolo che ha raccolto tutto quello che non fu logorato e sepolto nella tomba del passato, tentando di adattarlo ai nostri studi.

  Le figure, i tipi, i soggetti che s’incontrano nei volumi di questo instancabile lavoratore della penna, non sono tutte creazioni uscite fuori a casa per soddisfare la lettura e il passatempo. Vi sono anche delle fotografie, che, se posate controluce, prendono ugualmente vita somigliante a quella che si vive e che non si vorrebbe viverle così.

  Un padiglione d’immortali, soggetti trovati scolpiti, dipinti e viventi in giro nei suoi libri saltano fuori e sembra che ognuno di essi abbia una missione, un dovere o un diritto da compiere. Anzi, osservava un lettore in proposito che «nelle analisi criminali ognuno vi trova un pochino del prossimo».

  Leggendo Zola, Gorki, Gian Giacomo, Mariani, Murri ed altri, si troveranno manicomi, galere, salotti e tuguri senza spavento e con svariate impressioni per finire coll’aver compreso che questo immenso alveare che ha ridotto il tempo, lo spazio e la vita ai suoi abitanti, va riformato, va giudicato e colpito. Leggendo Balzac si troverà invece una clinica, ove un enorme scheletro è disteso sulla tavola anatomica per essere sezionato e studiato, e non per essere spezzato.

  La commedia umana si cambia troppo spesso in tragedia: ed è per lui, così, la vita. Lui esamina, morde, ferisce tutti senza una precisa idea sociale.

  La panna elegante e sarcastica di Alfredo Orfani ha saputo individuare persone nuove allo studio critico ed ha messo con molta maestria i suoi esemplari alla berlina, ma anche a lui è mancata la forza antisocietaria di dir basta. Scorrendo la cronaca postbellica vi si trova tanta e tale materia da riabilitare non solo gli eroi Balzachiani ma anche quelli Rocamboleschi del romanzo francese.

  La società vista da Balzac e quella che lui fa vivere nei suoi volumi è tutto un mondo da studiare con eroi, vittime e martiri di cui ognuno sogna e si prepara al riscatto con mezzi propri.

  In questa cloaca non si cerca che la polvere d’oro. Tutti i mezzi sono buoni per trovarla. L’esposizione della moralità politica è in tutte le sue pagine. Egli cerca di evadere dai suoi libri, ma i personaggi che vi esistono e operano per sé, per il loro bene, anche a danno di tutto il corpo sociale nella sua mente e non si sa se vivono per essere condannati o per essere tollerati.

  Il periodo politico dei suoi lavori, opera, dalla decadenza dell’impero a quella del III Napoleone e dopo, da lui, fino a Filippo ed in questo periodo della sua commedia frusta la diplomazia, il parlamento, l’aristocrazia, la borghesia e il clero.

  L’artigiano, il contadino, il servo passa come la polvere della strada, quando l’alza il vento, la quale soffoca e fa chiuder gli occhi. Balzac questa polvere minacciosa incosciente non l’ha mai vista, la rivoluzione dell’89 e del ‘93 non l’ha illuminato.

  Levando le tele di ragno alla sapienza di quegli anni, egli fa comprendere che cerca invano lo scienziato della conoscenza che chiamò: «un bastone che si adopera per battere l’amico più vicino». La diplomazia infida e bugiarda è per lui «la scienza di coloro che non ne hanno alcuna e che sono profondi perché son vuoti».

  Della religione, dice che «per diritto divino serve a confermare che il danaro degli stupidi è patrimonio degli astuti», e così di seguito, dà sentenze che assumono importanza moderna. Parla con poca reverenza dei diritti delle masse, delle folle, delle turbe, le quali si abbandonano troppo spesso al delitto, che lui senza avvedersene, ammette per i singoli soltanto, trovandogli una psicologia che si adatta alla tragedia umana, ma non a quella sociale.

  Gli Enciclopedisti non hanno fatto breccia in quell’animo avido di gloria. In una lettera che scriveva alla sorella diceva di avere due soli scopi nella vita: «quello di essere amato e di diventare celebre». In tutte le sue altre manifestazioni, non adorava che la tavola e l’ara; oltre a ciò amava anche l’eleganza.

  La sua letteratura si potrebbe definire «fabbrica di prodotti eccezionali della specie umana».

 

 

  Michele Fuiano, Emilio Zola, «La Gazzetta del Mezzogiorno. La Gazzetta di Puglia. Corriere delle Puglie», Bari, Anno LX, Numero 91, 10 Aprile 1947, p. 3.

 

  Lo studio dell’uomo, spinto dallo Zola fino alla profondità e al groviglio della specie (come ne La bête humaine), quasi vivisezione del tipo e della famiglia, ha i suoi precedenti nel Balzac e nel Flaubert. Il Balzac penetra nel vivo della società, ma ha un suo modo quasi pudico di manifestare i vizi e le brutture umane. Sembra accompagnarlo un sorriso di bonomia, di comprensione, quasi dicesse: «Questi sono gli uomini; che farci?».

 

 

  Eugenio Gara, Nacque per far ridere l’ottimista De Kock, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 130, 2-3 giugno 1947, p. 3.

 

  Se Balzac, (e perché no Daumier?) fu lo storico di quel mondo in sviluppo, De Kock ne fu il brillante cronista.



  Antonio Gramsci, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. XXIV. Carcere di Milano, 26 dicembre 1927, «Volterra libera. Settimanale cittadino», Volterra, Anno IV, N. 45, 8 Novembre 1947, p. 3.

 

  Cfr. 1927.

 

 

  B. L., Balzac tale quale, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 85, 9-10 aprile 1947, p. 3; 2 ill.

 

  Mr. Royce di Brooklyn veste, lavora e vive come il grande scrittore, non si occupa che di lui e perfino gli assomiglia.

 

  C’è a Brooklyn un tipo, certo William Hobart Royce. che si potrebbe chiamare, alla buona, un bel matto, ma che non lo è. O che lo è fino a un certo punto, essendo matto in maniera artistica, imitativa e creativa. Royce ha sessantotto anni e ha trascorso la vita in un tal culto per Balzac che — a somiglianza dei primitivi divoranti il nemico per appropriarsene lo spirito, o magari spinte da un quasi religioso desiderio di assimilazione — non studiando. non invocando. non sognando. non amando, non mangiando, non imitando insomma altro che Balzac, è diventato lui stesso Balzac. Un tal culto che, pur non avendo mai messo piede in Francia e pur parlando con difficolta il francese, se qualche balzachiano lo vede, esclama subito: «Balzac in carne e ossa!». Come Balzac, molto più carne che ossa: come capelli e baffi. Balzac: come Balzac, Royce lavora dalla mezzanotte in avanti indossando una tonaca fratesca, bevendo pinte di caffè forte e fumando il Latakia, tabacco favorito dal grand’uomo. La sua abitazione è balzachiana, il suo giardino pure, e così tante altre cose che circondano e addirittura fanno il Signor Royce. Vogliamo esser crudeli? Gli manca di essere morto a cinquant’anni, gli mancano i debiti, gli manca la polacca contessa Hanska ... sposa e breve felicità finale di Balzac. Royce possiede, invece, una semplice Mrs. Rovce, domestica donna, che indulge benevola alle anacronistiche fantasie del marito e gli tesse le famose vesti da camera a foggia di tonaca. Manca infine a Mr. Royce d’aver scritto la Comédie Humaine. La metempsicosi non è dunque perfetta. Però ha scritto e sèguita a scrivere come un matto: è il caso e no di dirlo. Royce il matto in questo non lo è per niente. Tutti gli studiosi di Balzac riconoscono in lui uno dei più autorevoli conoscitori del maestro. Per la sua Vita di Balzac, Stefan Zweig si servì moltissimo del lavoro di Royce, e fanno parte della Balzac Society of America, fondata da Royce, André Maurois e Jules Romains. Royce ha riempito una grossa libreria di propri scritti sul suo dio, ha ricomposto nei più fini loro intrichi otto amori del suo eroe, ha fatto un’infinità di scoperte circa le abitudini e la vita quotidiana del suo sosia ideale, ha riconosciuto in persone contemporanee del romanziere cinquanta o sessanta fra i duemila tipi della Comédie, e ha innalzato un vero monumento a Balzac con una definitiva bibliografia i cui due primi volumi sono stati pubblicati dalla stamperia dell’Università di Chicago.

  Le idee fisse possono condurre alla pazzia; ma senza idee fisse non si conclude nulla, non c’è memoria. Anzi, l’umanità cammina, bene o male grazie alle idee dei grandi «fissati». Royce non è un grande e un modesto impiegato che lavora di notte per mandare a memoria e indovinare il suo Balzac anche in questo modo: ma anche perché di giorno lavora in ufficio. Quanti tipi abbiamo incontrato che imitano Dante imparandolo tutto a memoria o che imitano D’Annunzio profittando di una naturale calvizie e lasciandosi crescere il pizzo. Chi ama imita l’amato e viene a somigliargli. Facile principio. Tutto sta a combinare qualcosa di buono. Càpita ogni tanto che a creature isteriche vengano le stimmate, e non si tratta di vere e fattive imitazioni di Gesù come quella francescana. Royce non è neppure San Francesco, beninteso: ma qualcosa di utile lo combina. Non è un matto. Ne ha quel tanto, di pazzia, che deve avere ogni savio. Ma tutta quella fantasia, quel costume? ... Cari miei, un povero impiegato che già si sacrifica il giorno ammattirebbe davvero se lavorasse la notte senza formarsi un mondo poetico. Per lui imitare Balzac equivale a far dell’arte e a salvarsi.

 

 

  Lan., Rassegna cinematografica. “Eugenia Grandet”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 72, N. 121, 22 maggio 1947, p. 2.

 

  Dal festival di Venezia a Milano «Eugenia Grandet», di Mario Soldati, dev’essere venuta in gondola, per via fluviale; è una supposizione che potrebbe spiegare il ritardo e le lunghe soste che questa pellicola ha già fatto nei cinematografi dei paesi e dei villaggi. In definitiva, fretta non c’era. Il film, che ha avuto a Venezia un successo dubbio, e che rivela spesso i regni dell’intelligenza, non si dimostra, a un esame attento. alleggerito dei difetti che spiacquero al suo primo apparire. Il famoso racconto di Balzac che narra la triste vita e gli accorati sospiri d’una ragazza provinciale innamorata del cugino, cui sacrifica i suoi anni più belli e le sue monete d’oro, senza ch’egli apprezzi doni tanto generosi è tradotto sulla celluloide nello stile meno vigilato del Soldati. La sceneggiatura sbanda, è discontinua, manca di armonia: gonfia di particolari minuti e inutili per tre quarti, diviene sommaria e precipitosa nel quarto ultimo. Eccessivo sviluppo è dato alla cupidigia del sordido avaro padre di Eugenia: prolisse le sequenze della sua malattia e della sua morte. Le architetture sono talvolta caotiche; paesaggi e scenografia arbitrari Una lunga passeggiata sulle rive di un fiume è fotografata senza che il fiume si veda né si senta. Ma il difetto-base è nella recitazione: teatrale e squillante in Gualtiero Tumiati, che ha la parte del vecchio danaroso; dilettantesca e sbiadita nel giovane Giorgio De Lullo, davvero acerbo: lenta e monotona in Alida Valli, pure la sola che nobiliti, con l’espressività di certi momenti, un lavoro che, visibilmente, è spesso sfuggito al controllo del suo direttore. Il taglio della fotografia. quando non pecca di preziosismo, è pregevole; ed ecco una cosa ben strana che di un regista intellettuale com’è il Soldati si debba lodare soprattutto un merito tecnico.

 

 

  V. M., La ghigliottina che non si trova, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 92, 17-18 aprile 1947, p. 2.

 

  Tutto consumato il suo considerevole patrimonio, fece dei debiti, non potè pagarli, un bel giorno del 1817 fu imprigionato a Clichy.

  Ciò significava per Clemente Sanson la perdita dell’impiego. Ma i creditori di quel tempo erano inesorabili, non valsero le sue suppliche: che egli era lo strumento della giustizia, che la società non poteva fare a meno di lui. Il suo Gobseck non si piegò; pose a Clemente per rimetterlo in libertà una condizione che il Gobseck di Balzac gli avrebbe invidiata: consegnasse a lui come pegno la ghigliottina! Lo sciagurato acconsentì. Ma pochi giorni dopo ecco che il procuratore generale abbisogna del boia per una esecuzione.

 

 

  Giuseppe Marotta, La fuga, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 280, 26-27 novembre 1947, p. 3.

 

  Io ho superato i quarant’anni (non mi dolsero, fu come un attimo di distrazione, vuoto, durante un discorso; fino a quel momento avevo sempre detto: domani; poi dissi sempre: ieri; ma continuai a parlare, e solo perché continuavo a parlare sembrò che niente fosse accaduto); ho superato i quarant’anni, ho fra le mani l’ultimo pezzo della mia pelle di zigrino e siccome voglio che non si restringa rapidamente evito gli errori del personaggio di Balzac, faccio piuttosto sospettare, a chi mi conosce e a chi mi ama, che io sia matto.

 

 

  Ferdinando Neri, Nel segreto di Stendhal, «La Stampa», Torino, Anno III, Numero 205, 31 Agosto 1947, p. 3.

 

  Letta la Chartreuse de Parme, Balzac, ch’era un maestro riconosciuto del romanzo, mentre l’autore di quel libro, già vicino a morte, era noto a pochissimi, giudicò che Stendhal disponeva di una lampada meravigliosa ... E a più di cento anni di distanza, ora che Stendhal è forse anche più letto di Balzac — ciò si può dire certamente per l’Italia; ed è di questa primavera la accolta milanese degli stendhaliani — ci si torna a chiedere, si cerca di meglio penetrare in che stia il fascino di quella sua luce, di quella sua visione singolare. Tale è il proposito d’un nuovo libro, di Maurice Bardèche (Stendhal romancier, Parigi, La Table ronde, 1947) [...].

 

 

  Ferdinando Neri, “Pensieri d’un libertino”, «La Stampa», Torino, Anno III, Num. 265, 12 Novembre 1947, p. 1.

 

  Può darsi, ma non è che un sospetto. che l’avversione dichiarata per il Balzac (una sua «bestia nera»; l’altra è il Mazzini) abbia le sue radici nell’ostilità che il Sainte-Beuve e il romanziere si ricambiavano cordialmente. Tuttavia, quando Cajumi addita in Alessandro Luzio un «vero tipo balzachiano» lo coglie proprio a filo: conta pur qualcosa la fantasia di Balzac!

 

 

  Ferdinando Neri, Proust, «La Stampa», Torino, Anno III, Numero 278, 27 Novembre 1947, p. 3.

 

  Proust ha il suo posto, che sulle prime fu additato al livello di Balzac, per la vastità del campo d’osservazione e l’energica modellatura dei caratteri, e poi fu portato, per una somiglianza di altra natura, per la sottigliezza e l’acutezza psicologica, che s’insinua nella più ascosa intimità, nel clima di Montaigne e di Saint-Simon. Nomi che valsero ad orientare giustamente la critica verso il grado e l’altezza del suo valore letterario.

 

 

  Ferdinando Neri, Cugina Betta (La) [La cousine Bette], in AA.VV., Dizionario letterario Bompiani … cit., Volume Secondo, p. 535.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1846. Lisbeth Fischer, soprannominata «La cugina Betta», è il tipo della zitella inasprita, invidiosa, che si rode nel chiuso dei suoi rancori e delle sue gelosie. Ne è la vittima la bella e gentile cugina, Adelina, festeggiata nella sua giovinezza, e unita in matrimonio al barone Hulot d’Ervy; si aggiunga che la figlia, Ortensia Hulot, à sposato il conte Venceslao Steinbock, che la cugina Betta aveva soccorso nella disperazione dell’esilio, dedicandogli un affetto fervido e cupo. Trama allora la sua vendetta, gettando successivamente il conte Steinbock e il barone Hulot fra le braccia della signora Marneffe, ch’è un’autentica e cupida cortigiana: sì che n’è distrutta la pace e l’onore di due famiglie. Le quali continuano a ignorare qual parte abbia avuto nel basso intrigo la modesta Lisbeth, e la considerano sino all’ultimo come il loro angelo tutelare. La cugina Betta è una nuova e significativa personificazione di quella forza demoniaca che Balzac vede nel fondo cieco dell’uomo per spingerlo ad attuare i suoi istinti inferiori con potenza e scaltrezza istintive. Se, in opere maggiori, questa oscura energia sembra propria delle genti nuove, pervenute a dominare la società approfittando di un’epoca di mutamenti, qui si annida nell’animo di una donnetta senza avvenire e, apparentemente, senza forze, e acquista così l’universalità di un potere malefico contro cui è vana ogni lotta. Per questo l’inevitabile trionfo del male sul bene, che sembra stare a fondamento della concezione balzacchiana, appare sentito a traverso un’attonita religiosità che non permette mai un pessimismo completo suggerendo, di fronte alle palesi forze del male, la presenza invisibile di un bene più potente e più alto anche se l’animo non riesce mai a contemplarlo. E si comprende così in Balzac il continuo tentativo di dare forma a questo trionfo conclusivo e redentore fino a concludere praticamente con il Rovescio della storia contemporanea la sua opera di romanziere. La cugina Betta e Il cugino Pons sono riuniti, nella Commedia umanaScene della vita parigina – sotto il titolo comune I parenti poveri [Les parents pauvres].

 

  Cugino Pons (Il) [Le cousin Pons], pp. 535-536.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1847. Insieme con la Cugina Betta costituisce il gruppo intitolato I parenti poveri [Les parents pauvres], compreso nella Commedia umana - Scene della vita parigina. Silvano Pons, musicista, d’animo semplice e buono, dotato di un vivo gusto d’arte, raduna, con il modesto frutto delle sue lezioni d’armonia, e limitando ogni altra spesa, una bella collezione di quadri e di curiosità, di cui ignora egli stesso l’alto valore commerciale. Il suo lato comico, oltre alla sua ridicola bruttezza (che gli à impedito di sposarsi), sta nella ghiottoneria, che lo inclina al parassitismo presso i suoi parenti. È amico di un altro brav’uomo, il pianista Schmucke, scapolo un po’ strano, ma simpatico, come lui. La sua collezione desta la cupidigia di tutto un gruppo di predoni (a cui non sono estranei i suoi parenti ricchi) che affrettano la sua morte; egli ne lascia erede il suo caro Schmucke, il quale a sua volta, deve lottare contro quei corvi e soccombe alle loro spietate manovre. Torna, nel Cugino Pons, il motivo caratteristico nell’opera balzacchiana della sopraffazione degli spiriti più raffinati e sensibili da parte delle forze brutalmente avide degli inferiori. Ma, questa volta, il tono appena caricaturale e, insieme, patetico del protagonista dà all’opera una sottigliezza nuova, e una diffusa commozione attenua i bruschi passaggi dalla luce all’ombra in quel gioco di chiaroscuri in cui Balzac è maestro.

 

  Curato del villaggio (Il) [Le curé de village], p. 542.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1709-1850), pubblicato nel 1839, compreso nella Commedia umana - Scene della vita di campagna. Il curato del villaggio è l'abate Bonnet, il quale, a Mantégnac, nel Limosino, assiste la signora Graslin nelle sue generose opere di beneficenza. L’intreccio del romanzo volge su di un antico delitto, commesso da un operaio, Jean-Francois Tascheron, il quale era stato segretamente l’amante della signora Graslin ed era salito al patibolo senza far nessuna rivelazione. E invero un’ombra di mistero circonda, anche per il lettore, quella cupa storia; il Tascheron (che col suo delitto aveva cercato di procurarsi i mezzi per la fuga con la donna amata) appare soprattutto come uno sventurato, e tanto più ci sgomenta la sua condotta e la sua fine. La signora Graslin, sebbene innocente quanto al delitto, soggiace per tutta la vita al peso del rimorso; si consacra interamente al soccorso dei poveri e degli infelici, e prima di morire si confessa pubblicamente, suscitando la commozione e la reverente compassione del buon curato e di quanti l’ascoltano. È questa una delle opere in cui Balzac cercò giungere a una conclusione pacificatrice, tenendosi fra il truce e il patetico e illuminando un fosco antefatto con la presenza di una figura di bontà. Luce non intensa, tuttavia, ché l’abate Bonnet rimane piuttosto lo spettatore di una vicenda il cui significato sfugge anche a lui, e di cui la signora Graslin cerca di liberarsi con la confessione più di quanto non riesca a superarla. 


  Volume Terzo. Opere: E-H.

 

  Fisiologia del matrimonio (La) [La Physiologie du mariage] (sic), p. 466.

 

  Libro giovanile di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1829, proprio agli inizi del suo gran lavoro di romanziere, accolto poi nella Commedia umanaStudi analitici. La Fisiologia del matrimonio appartiene a un genere leggero e discorsivo che godeva di gran favore a quel tempo: di tutto si componevano «fisiologie», ch’erano poi divagazioni più o meno argute e istruttive. Quella del Balzac conobbe un successo di scandalo, per un’affettazione di cinismo nel ridurre quasi per intero la vita coniugale all’alcova. Balzac vi mise un po’ della sua forza e molto della sua volgarità: quella volgarità che nelle sue creazioni più alte resta confusa e dominata dalla potenza della fantasia.

  Balzac era una notevolissima combinazione del temperamento artistico con lo spirito scientifico. (Wilde). 

 

  Giglio della (sic) valle (Il) [Le Lys dans la vallée], pp. 613-614; 1 ill.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1836, accolto nella Commedia umana «Scene della vita di provincia». Ne è protagonista la contessa di Mortsauf: donna gentile e sensibile che, dopo una triste giovinezza, il matrimonio à deluso nelle sue aspirazioni più profonde. Le è di conforto l’affetto per i figli, e di esso in un certo senso si colora l’idillio col giovine Vandenesse, che l’ama con entusiasmo: egli è respinto, ma di quella sua iniziazione sentimentale con una donna d’animo così puro, serberà sempre un’impronta generosa. Il romanzo, sebbene sia fra i più celebri, non è dei migliori di Balzac, il quale non seppe mantenergli quel tono ideale, e quella intima gentilezza ch’era nel suo proposito, e forse nel suo ricordo della signora de Berny (amata da lui in giovinezza). La sua mano, avvezza ai grandi rilievi, trattò in maniera un po’ goffa quel fiore delicato, e meritò, sotto questo aspetto, la critica pungente del Sainte-Beuve.

 

  Volume Quarto. Opere: I-M.

 

  Massimilla Doni, p. 577.

 

  Racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), pubblicato nel 1839, accolto poi nella Commedia umana - Parte 2a «Studi filosofici». Insieme con l’altro intitolato Gambara, ci offre l’immagine che lo scrittore francese si era formata dell’Italia, nel periodo che precede il nostro Risorgimento: nobile, impoverita, assorta nelle languide dolcezze del sentimento e della musica, Massimilla, di antica famiglia fiorentina, sposa al duca Cattaneo, di Venezia, s’innamora di Emilio Memmi principe (decaduto) di Varese, e, rimasta vedova, si unisce a lui e con lui vive a Parigi. Lo sfondo di questo idillio è dato, dapprima, dagli spettacoli d’opera rappresentati al teatro della Fenice, poi a Parigi, dall’incontro di Paolo Gambara, musicista maniaco, ridotto a cantare per le vie con la consorte Marianina. Clima italiano di maniera, dunque, quale, sotto altro aspetto, aveva introdotto la Staël con la sua Corinna, e, in fondo, semplice variazione su motivi che stavano divenendo tradizionali così da rendere incerta e spesso minacciata anche la mano sicura di un Balzac.

 

  Medico di campagna (Il) [Le médecin de campagne], p. 605.

 

  Romanzo di Honoré de Balzac (1799- 1850), pubblicato nel 1833, accolto poi nella Commedia umana - «Scene della vita di campagna». Ne è protagonista il dottor Benassis, il quale, dopo una vita dissipata e due amori sventurati, si ritira nei dintorni di Grenoble e diventa lo spirito benefico di un povero villaggio, che per opera sua e per la saggezza delle sue provvidenze sociali raggiunge grande prosperità. È il libro di Balzac, in cui l’elemento romanzesco à la minor parte, e che considera soprattutto, con serietà e buon senno, i problemi dell’amministrazione e del lavoro. Un notevole episodio è quello di una veglia di contadini, in cui un reduce delle campagne imperiali narra l’epopea napoleonica, nelle forme di una visione popolare e leggendaria. Come in altre opere in cui tentò una conclusione pacificatrice, il pessimista Balzac vede, anche qui, nella beneficenza sociale una forma, e forse l’unica, di superamento morale in una società in cui sembravano dover necessariamente trionfare i valori inferiori. Ma rimane, anche questo, una bontà, in fondo, esteriore, che cerca contrapporre gesto a gesto piuttosto che spirito a spirito: il dottor Benassis fa del bene, ma non porta un nuovo messaggio di bontà, rivelatore di uno schietto e immediato atteggiamento dello spirito: quel messaggio che Balzac oscuramente e vanamente attendeva in tutta la sua opera.

 

 

  F.[erdinando] N.[eri], Birotteau [César Birotteau], in AA.VV., Dizionario letterario Bompiani ... Personaggi: A-Z, p. 121.

 

  Cesare Birotteau è il protagonista del romanzo di Honoré de Balzac (1790-1850), Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau, che fa parte del ciclo della Commedia umana. Profumiere, all’insegna della «Regina delle rose», nel centro di Parigi, è dapprima favorito dalla fortuna, arricchisce e offre in casa sua un gran ballo, ch’è il principio della sua rovina. In preda a speculatori disonesti, precipita sino al fallimento; e Balzac descrive con una crudele precisione, e non senza un raggio di simpatia, il labirinto d’intrighi finanziari in cui il povero commerciante si trova giorno per giorno travolto. Birotteau è vanitoso, d’ingegno limitato, ma à un fondo di solida onestà, che lo rende quasi eroico nel suo tenace sforzo di riabilitazione; vi riesce, paga sino all’ultimo i suoi debiti, e non gli resta che il tempo di morire. Suo fratello, l’abate Francesco Birotteau, è il protagonista del Curato di Tours. Un pover uomo anche lui, un po’ meschino, ma d’animo semplice e buono esposto all’inimicizia di un terribile gesuita, l’abate Troubert, soggiace alle sue trame, come una vittima inerme e innocente. Tutti e due questi personaggi, e specialmente il primo, debbono la lor fama pressoché universale all’essere protagonisti di due opere del grande Balzac che sono stimato a ragione fra i suoi capolavori. Ma, una volta tanto, l’attenzione del Balzac e andava assai più alla trama che ai personaggi, i quali ne sono stati come riassorbiti. Personaggi assai semplici in ogni caso, dei quali il Balzac à fatto quasi due simboli d’una bonaria onestà non priva di veniali difetti (la vanità in Cesare, l’amore soverchio del quieto vivere nel fratello), dotati però d’una bontà troppo fiacca e passiva, senza un vero raggio di ideale: onde la loro sconfitta di fronte alle forze crudeli della società moderna, non desta in noi se non una indulgente commiserazione. Ed è naturale che ben maggior rilievo assumano, nella loro vicenda, certi personaggi secondari, i «cattivi», come per esempio il terribile abate Troubert.

 

  Corentin, pp. 198-199.

 

  Abile agente di polizia, che figura In vari romanzi di Honoré di Balzac (1799-1850), specialmente Gli Sciuani, Un tenebrano affare, Splendori e miserie delle cortigiane. Balzac lascia sospettare che fosse figlio naturale di Fouché, il quale lo impiegò in missioni delicate e difficili, di carattere politico: nelle mene antirivoluzionarie di Brettagna (insieme con Mademoiselle de Verneuil) e nel «tenebroso affare» del ratto del senatore Malin, ch’è in relazione con una cospirazione antinapoleonica al tempo della battaglia di Marengo. Il Balzac, il quale sentiva un profondo interesse per queste figure, che nell’ombra guidano molte volte gli eventi storici, ci rappresenta in Corentin un carattere freddo, ma animato nell’intimo da un orgoglio suscettibile; sì ch’egli farà scontare duramente a Laurence de Cinq-Cygne il suo disprezzo, coinvolgendo i suoi cugini Hauteserre e Simeuse nella trama di un reato, di cui sono innocenti. Corentin lavorò anche agli ordini di Talleyrand, più tardi lotterà sordamente, e vittoriosamente, contro Vautrin, causando la rovina di Luciano de Rubempré.

 

  Duchessa di Langeais [Duchesse de Langeais], p. 268.

 

  Appare in un episodio della Storia dei tredici di Honoré de Balzac (1799-1850). Donna bellissima e intelligente, à una lunga scherma d’amore col marchese di Montriveau, ch’è uno del Tredici. D’un tratto scompare e si rifugia fra le Carmelitane spagnuole, in un’isola donde Montriveau non può rapirla che morta. Non è creatura di penitenza patetica, ma espressione viva di un gioco di contrasti, rappresentante di una società balzacchiana in cui, spesso, gli estremi si toccano. Il brusco passaggio dalla vita frivola e fatua dell’alta società parigina a un‘avventura violenta di passione spirituale è la sua ragione d’essere, e l’effetto che ne deriva riannoda le due vite distinte in un unico personaggio.

 

  Gaudissart, pp. 374-375, anzi «l’illustre Gaudissart» secondo il titolo, ch’ebbe fortuna, di un racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), rimase come il tipo del commesso viaggiatore, leggero e loquace. S’incontra, come figura episodica, nella Storia della grandezza e della decadenza di Cesare Birotteau, in Splendori e miserie delle cortigiane, nel Cugino Pons, in Onorina. Nella storia di cui è il protagonista, dopo aver combinato un imbroglio, egli si trova ad avere la peggio ed è beffato, ma, a sentir lui, tutte è andato per il meglio, e a suo onore. In un breve bozzetto, Gaudissart II, Il Balzac si è valso del nome per descrivere l’astuzia di un mercante di fronte a una cliente diffìcile e vanitosa. Semplice macchietta, ma tale da introdurre un tipo, Gaudissart porta un contributo di vivacità e di buon umore nella ricca, nuova società dei personaggi balzacchiani. È il commesso viaggiatore per eccellenza, con la parlantina facile e una specie di cultura avventurosa e raccogliticcia, tutto devoto al Progresso, del quale al considera come un apostolo. Egli è popolare in tutti gli alberghi di provincia, dove rallegra la tavolata con le sue storielle: capace di collocare indifferentemente una partita di sapone, uno specifico contro la tosse, le azioni di una nuova compagnia commerciale, di una rivista per famiglie o d’un giornale politico. In Gaudissart, personaggio tipico della nuova società meccanica e affaristica, Balzac à sfogato un po’ del suo pessimismo riguardo ai tempi nuovi, ma, creandolo, è stato come conquiso egli stesso dalla irresistibile simpatia umana del tipo, e lo à lietamente dotato di una parte nell’inarrivabile vitalità della sua fantasia. 

 

  Gobseck, p. 420.

 

  Protagonista del racconto di Honoré de Balzac (1799-1850), che porta questo nome. È un usuraio, figlio di un Olandese e di una Ebrea; nelle colonie dell’India, e in lunghi viaggi pel mondo, speculando, commerciando, in rapporto coi pirati, è preso dalla passione dell’oro, che lo soggioga fino all’estrema vecchiezza. Il Balzac ce lo rappresenta, appunto quand’è già vecchio, e l’oro non gli giova più se non a soddisfare una profonda ossessione; raccolto nell’ombra, e quasi in un covo dove raduna le sue prede, Gobseck sta nel cuore di Parigi, come un ragno al centro della sua tela, e appare come una fra le terribili figure simboliche della società moderna, dominata dalla forza del denaro. L’usuraio assume, in certo modo, l’aspetto di un mago, nel cerchio di una inesausta cupidigia umana, di cui egli è a un tempo la vittima e ti tiranno. Appartengono alla famiglia Gobseck Sara e sua figlia Ester, entrambe cortigiane a Parigi; la seconda, che amò sinceramente Lucien de Rubempré, e fu asservita ai loschi disegni di Vautrin, è un personaggio principale del romanzo Splendori e miserie delle cortigiane. 

 

  Goriot, p. 426.

 

  Protagonista del romanzo Papà Goriot di Honoré de Balzac (1799-1850). Nella creazione di questo carattere il Balzac à emulato la possente semplicità dei classici, riducendo il suo tipo all’espressione di una passione unica e dominante. Come giù Grandet, che vive della sola sua avarizia, Goriot non è che padre. Ma lo stesso sentimento paterno assume in lui le forme di un’ossessione, di una mania, e quasi, com’egli stesso dice, di un vizio: poiché tutto ciò che fanno le sue due figlie, anche quando sono crudeli, anche quando sono frivole e colpevoli, lo esalta di compiacenza e di ammirazione. Egli sconta la sua passione paterna con lunghe sofferenze e con una triste fine, da cui il suo giovine amico Rastignac, che solo ne accompagna la salma al cimitero, trae una morale dolorosa e un impulso a lottare duramente nella selva, e ora diremmo nella giungla, della società moderna, governata dall’egoismo, dal vizio e dalla vanità. Il pessimismo che si accentuerà sempre più nello sviluppo ciclico della Commedia umana si delinea già ben chiaro nella conclusione del Papà Goriot. 

 

  Hulot [Hector Hulot], p. 446.

 

  Fra i vari personaggi di questa famiglia, che Honoré de Balzac (1799- 1850) immagina in auge al tempo dell’impero napoleonico, il più noto è il barone Ettore Hulot d’Ervy, che à larga parte nel romanzo La cugina Betta. Il vizio, la lussuria dissolvono per intero la sua persona morale, e la storia di questa decadenza, a cui nessun freno della volontà, della dignità, o del rimorso può opporsi, mentre una fiorente famiglia ne è rovinata e distrutta, è condotta con una delle più profonde e spietate analisi del romanzo «realista» che, sotto questo aspetto, fu preso a modello della scuola «naturalista» dello Zola. Con Ettore Hulot si affaccia alle soglie del romanzo moderno il dramma della decadenza: decadenza morale di una classe ormai incapace di mantenere la direttiva, e che consuma la sua scarsa vitalità in un estremo tentativo di vita intensa. Alla fine del secolo questo processo sarà visto, più nell’intimo, in quel che à di misterioso e conclusivo, e troverà in Thomas Mann il suo autore. 

 

  Marneffe, p. 557.

 

  È una coppia che figura nel romanzo La cugina Betta di Honoré de Balzac (1799-1850): all’estremo della corruzione e della bassezza morale. La bella signora Marneffe esercita con freddezza, e con impegno, coronato dal successo, la più sfacciata galanteria; il signor Marneffe, impiegatuccio sparuto, senza luce d’ingegno e di dignità, collabora agl’intrighi della moglie, che gli giovano ad avanzare di carriera e a godere di molti agi. I casi dei due coniugi non sono di grande interesse (rimasta vedova, Valérie passa a seconde nozze con il ricco mercante Crevel, ch’era già stato, come il barone Hulot, il brasiliano Montés e altri, suo amante); ma nel rappresentarli il Balzac è giunto al realismo più crudo e più amaro, sì che a essi specialmente il romanzo deve quel tono fosco e pessimista, che lo fece considerare dallo Zola e dagli altri scrittori naturalisti come il primo e aperto annunzio della loro scuola. 

 

  Marsay, p. 557.


  Senza dominare nessuno dei grandi romanzi della Commedia umana di Honoré de Balzac (1799-1850), Enrico (Henry) de Marsav vi appare di frequente con un suo carattere di eleganza, di lucida freddezza, di lunga e profonda esperienza mondana. Simile, sotto più di un aspetto, a Rastignac, è più risoluto di lui, e conosce anche meglio di lui i terribili segreti di molte fortune e di molte grandezze. Figlio di lord Dudley e della marchesa di Vordac (divenuta poi la signora de Marsay), si aggrega ai «tredici» legati da un oscuro patto d’alleanza per aiutarsi nella lotta a coltello dell’alta società parigina [...]; un primo amore in cui scopre l’inganno di una dama abilissima, lo rende scettico per sempre e ben padrone di sé [...]; è mescolato in molti intrighi e avventure di cui taluna assai torbida; è lui che spiega tutto il retroscena politico dell’«affare Malin» alla fine del romanzo Un tenebroso affare. 

 

  Rastignac [Eugène de Rastignac], pp. 712-713.

 

  Personaggio di Honoré de Balzac (1799-1850), che compare per la prima volta nel Papà Goriot e che incontriamo, più fuggevolmente, in molti altri romanzi. Giovane, studente di legge, venuto a Parigi dalla provincia, di famiglia nobile ma assai povera, egli rimane come affascinato dagli splendori e dalle miserie della capitale; e vive i suoi primi mesi parigini nella modestissima pensione della vedova Vauquer, combattuto tra il desiderio di penetrare nella gran società e il proposito di farsi la sua strada con una vita paziente di lavoro e di sacrificio. Nella sua stessa pensione abitano Vautrin e Goriot, che ànno entrambi molta influenza sul suo destino: Vautrin gli dà parecchie lezioni di morale parigina, aprendogli gli occhi sulle infamie della società e insistendo che per vivere bisogna farsi o pecore o lupi. Il forzato in incognito, che prova simpatia per il giovane studente, gli propone un affare strano e piuttosto losco: pensi a ingraziarsi il cuore di Vittorina Taillefer, povera fanciulla che vive nella stessa pensione, diseredata dal padre a favore del fratello; a fare scomparire il fratello, e a procurare così a Vittorina una ricca dote, penserà lui, Vautrin. Rastignac, inorridito, rifiuta e cerca di evitare questo delitto, ma, ubriacato da Vautrin, non fa in tempo. Vautrin viene intanto scoperto e arrestato, e Rastignac va a stare in un piccolo appartamento preparato per lui da Goriot, padre della baronessa di Nucingen, che è divenuta l’amante del giovane. Ma poco tempo dopo, papà Goriot, straziato e ridotto in miseria dalle esigenze finanziarie delle sue figliuole, muore in completo abbandono, assistito dal solo Rastignac. Questi, accompagnato al cimitero il pover’uomo, si volge verso Parigi come a sfidarla. Ora egli à veduto in fondo alla vita, e non si meraviglierà più di nulla. Negli incontri che facciamo con lui in altri romanzi, Illusioni perdute, Splendori e miserie delle cortigiane, La casa Nucingen, I segreti della principessa di Cadignan, ecc., vediamo che egli diventa ricco, influente, e per due volte ministro: conte e Pari di Francia. Rastignac è dunque, in parte, una contropartita di Rubempré. Privo come lui di un sicuro ideale, egli à però tanta fredda energia e così sicuro dominio delle sue passioni da non cedere alle tentazioni del mondo in cui sale una volta per tutte: sfruttandone i vizi a suo vantaggio e conservando nella propria eleganza e consapevolezza almeno una certa onestà programmatica. Il suo atteggiamento dopo la morte di Goriot diviene il modello su cui cercherà di formarsi un tipo non solamente letterario: il suo scetticismo gli impedisce di illudersi ma non lo costringe a disperare; il suo arrivismo non è fine a se stesso, ma piuttosto un mezzo per sopperire, in stile di alta mondanità, a valori più profondi a cui l’epoca non permette di affermarsi; e, più che una mancanza di fede, vi è in lui la signorile accettazione di un ambiente che non sa più credere. In questo ambiente Rastignac domina pur conoscendone i difetti: è un «désabusé» vincitore perché à salvato la sua dignità; e il suo atteggiamento è, in lui, naturale e necessario, anche se fondato su un giuoco di equilibri che, nelle successive incarnazioni del suo tipo, non tarderà a irrigidirsi in una posa. Figlio prediletto della fantasia di Balzac, che vide in lui l’unico dei suoi tanti personaggi capace di superare con qualche lode il suo compito, restò fra i più tipici rappresentanti di una concezione della vita elegante, scettica, esperta «e delli vizi umani, e del valore». 

 

  Rigou [Grégoire Rigou], p. 724.

 

  Personaggio del romanzo I contadini di Honoré de Balzac (1799-1850). È uno di quei tipi che interessavano profondamente la fantasia del grande scrittore, dotati dello spirito calcolatore, machiavellico, di un Richelieu, di un Talleyrand, di un Fouché, e capaci di portarlo nelle più oscure vicende della vita borghese. Gregorio Rigou, alla Rivoluzione, lascia la tonaca di benedettino, si sposa, arricchisce, diventa una autorità del suo paese, e, quando il generale di Montcornet vi acquista una grande proprietà, egli costituirà il centro della subdola e possente cospirazione dell’elemento locale, che finisce per vincerla sul nuovo venuto. Ben s’intende che Rigou à la sua parte cospicua nella divisione dello spoglio. È dunque l’uomo che, nel complesso periodo di transizione in cui vive, sente risvegliarsi e affermarsi una vitalità e una cupidigia un tempo sopite e forse insospettate: la sua vita non segue un programma ideologico, ma si svolge necessariamente, quasi indipendentemente dalla sua volontà stessa, secondo una volontà che in lui è più segreta e potente. In questo, Rigou è vero rappresentante dei tempi nuovi, l’uomo cioè che non à fatto la sua epoca quanto ne è stato fatto, misto di istinto e di calcolo, deciso a sfruttare le situazioni in ogni modo e favorito dai nuovi eventi che gli permettono di sfrenare bruscamente avidità altrimenti costrette a un gioco più paziente e più lento. 

 

  Rubempré [Lucien de Rubempré], p. 742.

 

  Luciano di Rubempré à il personaggio intorno a cui si svolge l’azione complessa delle Illusioni perdute e degli Splendori e miserie delle cortigiane di Honoré de Balzac (1799-1850). Giovinetto, appare come la precoce gloria letteraria di Angoulême, poeta sentimentale e autore di un romanzo storico; favorito della signora di Bargeton, la segue a Parigi, pieno il capo di grandi sogni ambiziosi. Ma a Parigi molte illusioni svaniscono, e prima fra tutte l’amore della nobile signora, che non giudica più il poetino abbastanza elegante. Luciano entra nel giornalismo, si batte in duello a causa di un suo articolo, è amato dall’attrice Coralie e ne accetta gli aiuti finanziari. È un carattere debole, e facile all’entusiasmo come allo scoraggiamento. Alla morte di Coralie, ritorna in provincia e causa nuovi dissesti nella sua famiglia. Pensa di uccidersi, quando incontra Vautrin, travestito da canonico spagnolo: il terribile forzato lo prende sotto la sua protezione e lo riconduce a Parigi, dove il giovane s’innamora della cortigiana Ester Gobseck, che lo ricambia con vera passione: si abbandona nuovamente alla vita mondana e, nonostante l’intervento di Vautrin, finisce in carcere, sotto un’ingiusta accusa, dopo la morte di Ester; e in carcere chiude, impiccandosi, le sue ultime illusioni. Luciano di Rubempré è rimasto il tipico esempio del giovine provinciale di mediocre o infima condizione, dotato di brillante ingegno e di qualità forse grandi, ma di volontà troppo debole, che l’ambizione di salire travolge nel gorgo della Capitale dove la sua fiacca tempra lo getterà in preda di quel mondo che egli vorrebbe dominare. Il suo è il dramma dell’ambizione dell’arrivismo in animi abbastanza nobili per non saper scegliere senz’altro le vie del male, epperò vacillanti fra tutte le tentazioni perché privi in sostanza di una sicura fede. Dramma che era interpretato in quell’epoca con vigore ed eleganza assai maggiori dal genio di Stendhal, nella figura di Giuliano Sorel. Senonché il Luciano di Balzac. pel fatto stesso di essere creatura più facilmente romanzesca e di più volgare impasto, meglio si prestava a quella celebrità leggendaria che facilmente ottenne e che non si è spenta ancor oggi. 

 

  Vandenesse [Félix de Vandenesse], p. 850.

 

 Personaggio che ricorre più volte nella Commedia umana di Honoré de Balzac (1799-1850). Dopo Rastignac e Marsay, si può dire che il conte de Vandenease rappresenti il tipo intelligente ed elegante, il fiore di quella società parigina, di cui il grande romanziere foggiò quasi un mito, diffuso per tutto l'Ottocento europeo. Anzi, Vandenesse, che à un risalto minore come eroe di romanzo, è forse, nelle sue varie apparizioni, l’interprete più fine di quell’ideale mondano, con un tratto signorile, con una schietta natura di gentiluomo. Il suo amore giovanile per la signora di Mortsauf nel Giglio della valle (sic) è ingenuo e puro; la sua relazione con Natalie de Manerville nel Contratto di matrimonio, le sue nozze con Angélique de Granville nei Segreti della principessa di Cadignan e in Una figlia d’Eva, seguano lo sviluppo della sua vita privata, in cui dimostrò una lucida saggezza, salvando in tempo la moglie da una fugace tentazione di peccato. Né gli mancarono, nella vita pubblica, gli alti uffici e la considerazione dei suoi grandi contemporanei (v. Illusioni perdute e Memorie di due giovani spose). 

 

  Vautrin, pp. 852-853.

 

  Questo personaggio. Ch’è una delle più forti creazioni di Honoré de Balzac (1799-1850), appare per la prima volta, sotto questo nome, nel romanzo Papà Goriot. Vive in una modestissima pensione, si mostra bonario, cordiale, ma alquanto misterioso; vorrebbe proteggere Rastignac e gli offre di far uccidere in duello il fratello di Vittorina, affinché egli possa sposarla come ricca ereditiera; infine si scopre che è Jacques Colin (sic), forzato evaso: la polizia lo acciuffa e lo rimanda in galera. Ritroviamo Vautrin nella veste di un prelato spagnolo, Carlos Herrera, che prende a proteggere il giovine poeta Luciano di Rubempré, la cui vicenda, dopo gli amori con Ester Gobseck, finisce tragicamente (v. Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane). L’antico forzato si trasforma allora in capo della polizia segreta (v. L’Ultima incarnazione di Vautrin), e qui Balzac si ispirava, come più tardi Victor Hugo, al personaggio reale di Vidocq. Gli altri casi, e la fine di Jacques Colin, ucciso da un falso monetario, ànno minor risalto nell’intreccio della Commedia umana; ma la figura di Vautrin, fuori della sua cupa ombra, e di una segreta perversione, che Balzac lascia intendere abbastanza, serba una certa grandezza, come di uno spirito ribelle, che à riconosciuto il congegno di molte iniquità e che dall’abisso in cui è stato travolto, si solleva con energia titanica, o demonica, per lottare contro tutte le forze sociali e piegarle a un suo disegno di dominio che finisce per coincidere con la missione stessa della polizia, ch’era stata fino a quel punto la sua nemica mortale, e in cui Vautrin riconosce (quale interprete di un pensiero costante di Balzac) il potere necessario, vigile, e per tanta parte deluso, ch’è l’ultimo sostegno di una moralità sociale, insidiata dalla violenza e dalla corruzione. In lui e in Rastignac Balzac sembra vedere le uniche espressioni positive e, in certo modo, trionfanti della società che rappresenta e fra cui vive: trionfo, tuttavia, personale e provvisorio, non conclusivo né pacificatore. Rastignac supera tempi nuovi e corrotti smascherandone ogni illusoria lusinga, dimostrandosi abbastanza forte per potervi primeggiare e abbastanza indipendente per non esserne soggiogato e imporre loro una forma di signorile e sottilmente scettica eleganza; Vautrin si mette decisamente contro la società, bandito dapprima, poliziotto poi, fuori legge sempre. In fondo sono, l’uno e l’altro, due solitari senza sorriso. Da un giudizio pessimista sul mondo e dal naturale bisogno di primeggiare essi traggono le forze e la giustificazione di un arrivismo senza scrupoli, che però vogliono a tutti i costi conciliare con un certo desiderio di operare il bene anche a dispetto della società e quasi facendosi gioco di essa, come per obbedire a una non sopita esigenza di nobiltà. Contrasto romantico che fa appunto la loro suggestione.

 

 

  Francesco Nitti, Il vero Balzac, in Meditazioni dell’esilio, II edizione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1947, pp. 363-365.

 

  Balzac ch’era grande artista esuberante e disordinato e mirabile conoscitore delle passioni umane, non per osservazione, ma per intuizione, aveva tutte le forme della vanità e scarsa serietà morale.

  E la cosa cui più teneva, forse a causa stessa della oscurità delle sue origini, era a essere nobile e la cosa che faceva più volentieri era l’apologia della monarchia, della reazione e della nobiltà, pur dichiarando di non credere alla religione cattolica.

 

* * *


  Di una povera famiglia di Albi non si chiamava Honoré de Balzac. Il suo vero cognome era Balssa. Il fratello di suo padre, Louis Balssa, aveva assassinato una donna incinta ed era stato ghigliottinato. La famiglia Balssa intera aveva allora cambiato nome ed era diventata Balzac e il padre, Bernard-François Balzac, aveva chiamato il figlio, che doveva essere la gloria della famiglia, Honoré Balzac.

  Per onorarsi anche più Honoré, dopo i primi lavori letterari, fece una modificazione sostanziale al suo cognome. Si chiamo Honoré de Balzac. Più tardi si fabbricò uno stemma e poi si fece anche chiamare marchese de Balzac. E quando viaggiava, anche nel periodo in cui era più tormentato dai suoi creditori, non mancava di mettere sulle sue valige 1 contrassegni della fantastica nobiltà.

 

***

 

  Le sue idee politiche e sociali, o almeno quelle che manifestava in tutti i suoi libri e i suoi articoli, sono sempre quelle della reazione.

  E perciò anche oggi i nazionalisti francesi, che vivono di luoghi comuni tradizionali delle reazioni, ma che urlano come dervisci ubriachi le loro brutalità, pretendendo ristabilire la Francia monarchica e cattolica, riproducono spesso le idee e perfino le parole di Balzac.

  Balzac affermava che, scrivendo, era guidato da due «verità eterne» la religione e la monarchia, secondo lui due necessità.

  Nello stesso tempo dichiarava di non essere cattolico, ma di difendere il cattolicesimo non per sentiment, ma per convenance e per reazione. Arrivava cioè, assai più di un secolo prima, al ragionamento degli stupidi conservatori del nostro tempo, secondo cui il popolo deve credere per potere più docilmente servire: lo Stato sorretto dal parroco e dal gendarme.

 

* * *

  Andando in Russia, nella speranza di un vantaggioso matrimonio, in cui entrava forse l’amore, ma entravano certamente i titoli di grande nobiltà e la grande ricchezza, Balzac ne coglieva occasione per esprimere la più servile ammirazione per i governi assoluti e fare l’apologia dello czarismo e dello czar!

  Per lo czar, prima di tutto, perché era il solo sovrano che esercitava il governo da padrone e perché era in Europa il solo grande autocrate. Balzac aggiungeva che, se fosse vissuto a lungo, sarebbe volentieri diventato suddito russo.

  Volendo fare l’apoteosi dell’assolutismo e della aristocrazia, finiva anche con mostrare avversione per quelle istituzioni e quelle riforme che erano la causa del suo successo. Attribuiva, come una femminella ignorante o come un prete di villaggio, il disordine della società moderna alla invenzione della stampa, alla Riforma e ai movimenti di libertà.

 

***

  Sempre candidato e mai preso sul serio ed eletto all’assemblea legislativa francese, non celava la sua indignazione e il suo disgusto il giorno in cui erano stati eletti (enorme scandalo) cinque operai e un chansonnier. Il canzoniere era Béranger, uno dei più grandi artisti del tempo e il più popolare, di cui Wolfango Goethe parlava invece spessissimo con ammirazione (Conversazioni di Eckermann, 18 aprile 1825, 14 marzo 1830, ecc.), come di uno dei più grandi poeti della Francia moderna.

  Béranger era per Balzac un uomo del popolo, figlio di operai e in gioventù operaio egli stesso.

 

* * *

  Ma nell’artista tutte le idee politiche e sociali, quando sono frutto di vanità e di convenienze non possono annullare nè le facoltà dell’osservazione, che erano in Balzac mediocri, nè quelle dell’intuizione, che erano viceversa grandissime.

  Dopo Molière, Balzac è stato lo scrittore francese che ha dato all’arte il più grande numero di tipi umani che sono ancora viventi.

  Basta vedere che cosa sono i tipi che egli ha creato per vedere anche la negazione dei principii che affermava.

  Poteva bene scrivere stupidità come l’affermazione solenne, e tante volte ripetuta nei suoi scritti, che la libertà finisce nel comunismo, ma i suoi tipi erano assai spesso la negazione dei principii che proclamava.

 

 

  T. P., Spettacoli. Cinema. “Eugenia Grandet” di Mario Soldati [...], «Nuova Stampa Sera», Torino, Anno I, Numero 45, 7 Giugno 1947, p. 2.

 

  Ci pare che questa Eugenia Grandet, tratta dal celebre romanzo di Balzac, sia stata più tartassata che non meritasse. Il motivo sentimentale, il romanzetto dentro al romanzo, il tetràgono amore della provinciale per il cugino che solo passando nella vita di lei la condiziona tutta, sospendendola in un tempo di mitica attesa, è sì trattato nel film con convenzionale mollezza; ma la rappresentazione dell’avaro, che è poi il nerbo del libro, e di ciò che cade nel suo raggio e respira con lui l’aria riarsa dal vizio, è resa con bella efficacia [...].

 

 

  Federico Petriccione, L’arte di contrarre debiti. Il dilettante Balzac e la teoria della catena, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 184, 4-5 agosto 1947, p. 3.

 

  — Balzac non sapeva fare i debiti. Si gravò d’obbligazioni per esercitare il mestiere d’editore, di stampatore, persino di fonditore di caratteri tipografici. Fallì, s’indebitò ancora, andò avanti a furia di cambiali, che scontava e rinnovava accrescendo inutilmente il proprio passivo. I creditori erano la sua tortura, il danaro fu il persecutore e il tiranno di tutta la sua vita.

  «Ma il capolavoro del disordine Balzac lo compì quando fece costruire a Ville d’Avray il suo villino che intitolò Les Jardies: una casa il cui terreno serviva di garanzia all’architetto costruttore, mentre lo stabile prestava sicurtà con ipoteca al proprietario del suolo. Povero illuso! Sognava di poter accumulare col proprio lavoro delle somme ingenti, solo per poter pagare gli interessi ai creditori. Nel terreno aridissimo della sua villetta si riprometteva di coltivar gli ananassi: così, almeno, annunciò a Teofilo Gauthier (sic) che era andato a fargli visita. E già che l’altro gli faceva notare che quel terreno era argilloso e perciò inadatto, non riusciva a nascondere il proprio disappunto ed esclamava: «Gauthier, io stimo molto il vostro ingegno, ma avete un difettaccio insoffribile: siete troppo pignolo!».

  Come il lettore constata, la requisitoria di Adeodato Bradiver contro Balzac è inesorabile. Sono tornato a far visita all’economista, e l’ho trovato pronto a demolire il povero Honoré.

  — Qualche trovatina, sì, voglio concederglielo, l’ebbe a quando a quando. Poca cosa come argomentazione di un ingegno che si difenda ma, da un punto di vista esclusivamente letterario, non indegna di elogio. Ecco. Siamo, intorno al 1830 e l’autore della «Commedia Umana» — ripeto le sue parole, vede? — è a pranzo, in casa di un ricco notaio parigino. Ma Balzac, al pari di tre o quattro suoi colleghi, anch’essi convitati, non brilla per eccessiva gaiezza. «Signori, — fa loro il notaio — cos’è questo malumore? Bisognerà far ricorso allo spumante vino di Sciampagna per fugarlo».

 

Il vero maestro.

 

  Il romanziere ha un’idea, osa esprimerla: «Ma credete che si possa mostrarsi allegri, alla vigilia di una scadenza, quando non si ha il danaro per ritirare la cambiale?». Il notaio era generoso. Chiese quanto occorresse. Oh, una miseria, mille franchi. (E, cento e più anni fa, era somma ragguardevolissima). «Eccoli — rispose l’uomo delle scritture e delle autentiche — me li restituirete sul vostro primo lavoro». «Sul mio miglior lavoro se non vi duole». «Accettato, sul vostro miglior lavoro». Seduta stante, fu stesa l’obbligazione, e il desinare terminò in franca allegria. Dopo tre anni il notaio inviava al romanziere la seguente letterina: «Caro Balzac, terminata la lettura di Eugenia Grandet, sono lieto di testimoniarvi la mia ammirazione per tale capolavoro, che è senza dubbio la migliore delle vostre opere». L’amico non esitò a rispondere: «Caro notaio, credete proprio ch’io non possa inventare più nulla? Pazientate un poco ... e vedrete». E trascorsero altri dieci anni. Il notaio, che intanto aveva venduto lo studio, pensò di recuperare il credito, e scrisse daccapo: «Caro amico, ho letto I parenti poveri, avete degnamente completata la vostra opera, non potrete mai far di meglio». Ma s’ebbe ancora per risposta: «Errate. Farò di meglio e di più».

  Sulle mie labbra doveva errare un risolino di vittoria? Bradiver lo scorse, anche se non v’era. Mi squadrò dall’alto in basso, concluse:

  — Caro giornalista, non trionfi. Prima di morire, povero e indebitato per quanto celebre, il suo Balzac pagò al notaio il capitale e gli interessi. La bravura, di debitore del suo romanziere diletto, bravura limitata a qualche battuta e a qualche aforisma, non lascia tracce nella storia. Vuole ora che le parli di un grande debitore, di un autentico maestro nell’arte di far debiti? [...].

 

 

  Federico Petriccione, Primo colloquio con un economista d’eccezione. L’arte di contrarre debiti, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 178, 28-29 luglio 1947, p. 3.

 

  Invece, avrei voglia di citarle l’aureo precetto del Talmud che ammonisce: «quando hai dato del danaro a prestito, evita di incontrarti col tuo debitore», oppure la sentenza, che meglio anzi direi assioma, di Balzac: «L’eguaglianza non sarà mal altro che una parola. Noi saremo sempre divisi in due caste: i debitori e i creditori».

  — Infatti, — volli commentare — l’autore della «Commedia umana» fu il più indebitato degli uomini d’affari. E un volume di studio sull’arte di far debiti non potrebbe in nessun modo trascurare di dedicargli uno o più capitoli.

  Bradiver scosse il capo, a indicarmi una netta disapprovazione.

  — Siamo fuori strada, — aggiunse —. Non divido la sua ammirazione. Forse la sola cosa ch’io ammiri del romanziere troppo esaltato è l’assioma che poc’anzi le ho enunciato. L’arrogante alterigia di lui, dirò meglio la superbia — già che si tratta appunto del primo dei peccati mortali, quello che dà origine a tutti gli altri — lo spinse a scrivere sul fodero della spada di Napoleone, in una statuetta che Balzac conservava in camera: «Ciò ch’egli non potè finire con la spada io compirò con la mia penna». Gonfia insolenza che definisce il letterato e lo condanna. Il debitore, poi, oh, quello che le cronache hanno tanto celebrato, non era che un ingenuo dilettante. Ma lasciamo perdere. Altra volta, se vuole, potremo discorrere di lui.

 

 

  Nelo Risi, Balzac inventore del vero, «Avanti! Quotidiano del Partito socialista», Milano, Anno LI – Nuova Serie, N. 261, 4 Novembre 1947, p. 3.

 

  Si è parlato tanto del realista, fedele osservatore di una società e dei suoi ambienti, assorbito da preoccupazioni giornalistiche di mestiere in contrasto col bello scrivere che non si insisterà mai abbastanza sulla verità e sull’originalità di certe sue scoperte.

 

  La fortuna di Balzac. della sua vitalissima opera, può essere accostata a quella di certe figure storiche troppo popolari che vengono tramandate secondo un cliché che raramente ci prendiamo la briga di verificare. Quando ciò accade, le sorprese — in senso positivo e negativo — sono grosse e talvolta così importanti da offrirci un’immagine nuova, anche se in contrasto con l’ortodossia della tradizione. Nel caso de La Commedia Umana il luogo comune ha incrostato la tela rendendola opaca, muta nei suoi colori più vivi od autentici, privando l’opera immensa di quella libertà fantastica e profonda che il suo autore aveva tenacemente, sopra ogni altra cosa, ricercato. Si è parlato tanto di un Balzac realista, fedele osservatore di una società e dei suoi ambienti, assorbito da preoccupazioni giornalistiche di mestiere in contrasto col bello scrivere, incapace di uno stile proprio, che non si insisterà mai abbastanza sulla verità di certe sue scoperte, sulla visione originale del romanziere, sulla potenza verbale e sulla trasfigurazione dei suoi personaggi tolti di peso dalla vita quotidiana.

  E’ un peccato che la recente, accurata traduzione di Sbarbaro de La peau de chagrin (La pelle di zigrino, Einaudi editore) non riporti la prefazione scritta nel 1831 che contiene alcuni punti davvero rivelatori. Dice Balzac: «I poeti o gli scrittori realmente filosofi hanno quasi una seconda vista che permette di presagire la verità in tutte le situazioni possibili; meglio ancora, non so quale forza che li trasporta là dove devono o vogliono essere. Essi inventano il vero, per analogia, o vedono l’oggetto da ritrarre, sia che l’oggetto venga loro incontro, sia che essi vadano verso l’oggetto». E più avanti, sviluppando il motivo della creazione poetica, insistendo sulla interiorizzazione delle immagini e sulla continua metamorfosi che si deve operare nel corpo della trita realtà per toccare il piano dell’arte: «Gli uomini hanno il potere di richiamare l’universo nel loro cervello, o il loro cervello è un talismano che annulla le leggi del tempo e dello spazio? E’ regola costante che l’ispirazione appresti al poeta innumerevoli trasfigurazioni simili alle magiche fantasmagorie dei nostri sogni».

  Altro che scrittore poco cosciente dei propri mezzi!; è questa specie di seconda vista, la capacità appunto di inventare il vero e di contenerlo in un’enorme architettura romanzesca, che fa di Balzac il più grande costruttore di miti della sua epoca. e che permette a Baudelaire di definirlo un visionario appassionato, contro l’opinione corrente di un secolo positivista. Ma lo sconfinamento dal reale non impedisce alla Commedia Umana di rimanere un’opera essenzialmente terrestre; solo, passioni e vizi sono ingigantiti fino ad assurgere a valore di simboli, e i personaggi animati da una volontà talvolta angelica, più spesso demoniaca, mai ridotta nei limiti usuali dei pentimenti. E’ la stessa energia vitale che anima l’uomo Balzac, che lo spinge al furore della composizione veloce, alla mole del lavoro quotidiano, che gli fa credere nei suoi eroi al punto da parlarne con la sorella o con gli amici come di creature reali, quella stessa energia che gli brucerà l’esistenza troncandola nel pieno delle forze e dell’ingegno come già era accaduto a Vautrin, Goriot. Raphaël, Esther, a una folla di suoi personaggi.

  La pelle di zigrino è un romanzo che ci dice molto in proposito; è la storia di un giovane — Raffaello — che un violento amore inappagato e il démone del gioco hanno ridotto allo stremo delle forze, lasciandogli la sola prospettiva del suicidio. A questo punto entra in scena l’elemento sovrannaturale; un talismano, dono di un antiquario mefistofelico, lo trae d’imbarazzo dandogli sui due piedi ricchezze favolose e amore (ma nei patti col diavolo c’è sempre un ma ...) effimeri se ogni sua volontà, appena espressa, ha il potere, avverandosi, di ridurre in proporzione la pelle di zigrino. Nulla varranno gli sforzi di Raffaello per neutralizzare l’incantesimo: «Il giovane soffocava in sè ogni minimo desiderio e viveva in guisa da non provocare la più lieve contrazione nello spaventoso talismano. Era divenuta per lui, quella pelle di zigrino, come una tigre con cui fosse costretto a vivere, continuamente preoccupato di non destarne la ferocia». Finirà, consumato come la pelle, col morire nel terrore di una morte giorno per giorno presentita.

  Il tema è vecchio, ma dilatato e trascritto nei colori più violenti, rigoroso nell’allineamento dei fatti e delle situazioni quanto più libera è la fantasia che lo ha ripreso.

  Raffaello, l’amante platonico della nobile e frigida Fedora, il compagno dell’amorosa Paolina, il ragazzo acceso da ambiziosi sogni di gloria, abdica alla vita per poter vivere, è ridotto a un automa che lotta col tempo, in un’agonia accentuata dalla solitudine. La pelle è il suo vero specchio, l’anima fatta concreta che non si può tradire con le piccole grandi vigliaccherie giornaliere. Una vita dove ogni atto anche minimo è fissato e riflesso con inesorabile chiarezza non è più una vita, è un inferno. La realtà che acquista valore di ammonimento è usata da Balzac con quello spreco del naturale che accentua la drammaticità delle immagini familiari, dei gesti banali. Allo stesso modo che in Kafka, qui ci troviamo in presenza di dati normali (ecco il famoso realismo di Balzac) che sono tanti ostacoli e pericoli, e in presenza di forze che agiscono senza comparire. Ma a differenza di Kafka, Balzac guida i suoi personaggi, sa dove condurli; la loro parabola è già tracciata. Anzi, a volte uno dei personaggi partecipa di questa forza dall’alto ma, pur conoscendo il suo destino (è il caso di Raffaello), non può nulla per modificarlo in suo favore; la sua lucidità sarà motivo solo di una più grande cosciente sventura. Un esempio, fra tanti: Raffaello e Paolina vivono apparentemente felici, nello stesso letto, ignari del mondo. Paolina ha notato che durante la notte l’amante tossiva, e in uno slancio romantico lo vede malato, entrambi malati e puerilmente se ne compiace: «Io non ci tengo a diventar vecchia. Moriamo giovani insieme e saliamo al cielo con le mani traboccanti di fiori. — Sono cose che si dicono quando si è sani, — e Raffaello le passava le dita nei capelli; quando fu assalito da un pauroso accesso di tosse, di quella tosse cavernosa e violenta che parla di morte vicina».

  Balzac ama giocare a carte scoperte e l’elemento sovrannaturale, anzichè venir sminuito, trova posto nella realtà e vi si adatta a meraviglia con un risalto che rifiuta i colori tenui della favola. Così la società e le celebrate pitture di ambiente, valgono non in quanto fedeli riproduzioni di un’epoca, ma come vivaio inesauribile di una titanica fantasia. In Balzac non esistono mezze misure e nella sua tavolozza trovano posto quasi esclusivamente i colori fondamentali; si direbbe che scriva solo con le maiuscole. Concepisce l’amore come passione, la vita come esaltazione e come dramma, il tempo come lotta e come movimento; il delitto, la virtù, il lusso, la miseria, tutto in lui tende all’assoluto. Il suo stile abusa dell’iperbole, che è un segno dì vitalità esagerata, e scorre impetuoso come un fiume in piena travolgendo le innumerevoli figure della Commedia Umana. E quando trovi una creatura innocente, un angelo di sopportazione, fiducioso come la Paolina de La pelle di zigrino, il romanziere avrà cura di avvertirti, in una chiusa che ti incanta, che «la regina delle illusioni, la donna che passa come un bacio, la donna viva come il lampo, come il lampo sgorgata ardente dal cielo, l’increata creatura, tutta anima, tutto amore» non è che una fuggevole chimera, vaporosa, inafferrabile apparizione.

 

 

  Sav., Cultura e arte. «Eugenia Grandet» al Fenice, «La Voce libera. Quotidiano politico d’informazioni», Trieste, Anno III, 1 settembre 1947, p. 2.

 

  Il soggetto di «Eugenia Grandet» — tratto da un romanzo di Balzac — non è certo tale da presentare eccessive possibilità di trarne un buon film; ma anche quelle poche sono state trascurate o rese sterili addirittura dalla solita letteratura e dai soliti compiacimenti pittorici di Mario Soldati — il regista letterato che ormai ripete con esaspe­rante monotonia se stesso — e dalla rigogliosa e lussureggiante teatralità «ancien-regime» del buon vecchio Tu­miati.

  Come conseguenza ne è uscito un film slegato e sconnesso nel quale intenzioni del regista, personalità degli attori, ca­ratteri dei personaggi e necessità cinematografiche vanno ognuno per conto, mentre soltanto Alida Valli riesce ad essere contemporaneamente se stessa ed Eugenia Grandet. A Giuditta Rissone, con qualche attenuante, si potrebbero fare gli stessi rimproveri che al Tumiati mentre Giorgio de Lullo non dice assolutamente nulla. Comunque il film è stato abbastanza bene accolto dal pubblico ansioso di vedere Alida nella sua ultima interpretazione italiana.

 

 

  Camillo Sbarbaro, Prefazione, in Honoré de Balzac, La pelle di zigrino ... cit., pp. VII-X.

 

  Balzac, fu detto, voit grand.

  L’osservazione è esatta se si intende nel senso modesto che i personaggi della Comédie humaine eccedono nel bene e nel male – nel male più spesso che nel bene — la statura umana. Né solo i personaggi; paesaggi, ambienti, idee, tutto ciò insomma che la penna di Balzac tocca, evade dall’ordinario, assume nella pagina spicco e proporzioni insolite.

  Non v’è libro, fra i troppi che Balzac scrisse, il quale non documenti ad apertura di pagina questa insofferenza del suo autore a tenersi nei limiti del consueto.

  Senza uscire dal romanzo che diamo tradotto: il protagonista medita il suicidio? o si propone di abbandonarsi alla crapula? Del suicidio e della crapula lo scultore parte come un razzo in deliranti quanto ingenue esaltazioni:

  « Chaque suicide est un poème sublime de mélancolie. Où trouverez-vous, dans l’océan des littératures, un livre surnageant qui puisse lutter de génie avec cet entrefilet:

  «Hier, a (sic) quatre heures, une jeune femme s’est jetée dans la Seine du haut du pont des Arts»?

  «La débauche est certainement un art comme la poésie et veut des âmes fortes. Pour en saisir les mystères, pour en savourer les beautés, un homme doit s’adonner à des consciencieuses études ... » e avanti su questo tono per oltre due pagine.

  Ecco con quali colori è presentata Aquilina, femmina di professione e, nel romanzo, semplice comparsa:

  «Ses yeux et son sourire effrayent la pensée. Semblable à ces prophétesses agitées par le démon, elle étonnait ... Toutes les espressions (sic) passaient par masses et comme par éclairs sur sa figure mobile ... C’était une statue colossale, sublime à distance, mais grossière à voir de près ... On la comparait à une tragédie de Shakespeare, espèce d’arabesque admirable où la joie hurle, où l’amour a je ne sais quoi de sauvage ...; monstre qui sait mordre et caresser, rire comme un démon, pleurer comme les anges ...; enfin, se détruire elle-même comme fait un peuple insurgé».

  Si fonda un giornale? Il banchetto che celebra l’avvenimento diventa nelle mani del romanziere un’orgia, dove col caffè vengono servite le più belle donne di Parigi. E se il suo diabolico talismano il protagonista si contenta di trovarlo in una bottega di antichità, si tratta però d’una bottega il cui mirabolante inventario occupa parecchie pagine e dove — alla rinfusa con boa impagliati, ostensori e girarrosti — è in vendita una «statua sublime» di ... Michelangelo.

  Perché nella sbornia della «creazione» Balzac perde, con quello della misura, il senso del ridicolo. In nulla in quel momento crede più che nella realtà di ciò che gli esce dalla penna; d’ogni idea, d’ogni trovata si entusiasma o meglio, per dirla alla francese, s’emballe.

  Temperamento esuberante, Balzac sguazza nel superlativo (già nelle poche righe citate, si veda l’abuso di aggettivi come sublime, colossale). La mediocrità lo mortifica. L’umanità egli l’accetta solo ingigantita nelle virtù e nei vizi. La vuole, diciamo, della sua statura. Solo «sublimata» così, la giudica degna del Napoléon des Lettres, ch’egli si sente.

 

***

 

  Come scrittore, se d’altri a ragione si dice che gli nocque la fretta, per lui è il caso di dire il contrario.

  Fatto sta che quando Balzac si ricorda d’essere un grande scrittore — il che gli accade ogniqualvolta ne ha il tempo — il suo stile diventa pretenzioso, la pagina gli si inzeppa di metafore e immagini le più incongrue e barocche.

  Nella sua smania di strafare, non rifugge neanche dagli artifizi più ingenui e scoperti; per dire: «Senza darvi un soldo, vi farò ricco» arrivando persino a scrivere — ed è uno dei suoi vezzi stilistici più frequenti —: «Sans vous donner un centime de France, un parat du Levant, un tarain de Sicile, un kreutzer d’Allemagne, un copeck de Russie, un farthing d’Ecosse, une seule des sesterces ou des oboles de l’ancien, ni une piastre du nouveau monde ...»; procedimento retorico familiare ai venditori di piazza.

  È lecito quindi affermare che furono le deprecate quindici ore di lavoro cui si sobbarcava giornalmente — e cioè la necessità che aveva di correre diritto allo scopo — a salvare in parte l’opera dalla magagna dell’artifizio.

  Dispensato da obblighi di stile, Balzac si sente soltanto quando lascia la parola ai suoi personaggi. La naturalezza diventa allora l’unica ispiratrice della sua pagina. Ed è qui la ragione per cui il dialogo stacca nettamente sul testo e, realizzando un vero stile di teatro, è della sua opera di scrittore la parte più valida.

 

***

  Come avviene allora, che con tante manchevolezze di contenuto e di forma, l’opera di Balzac sopravviva?

  Intanto, i personaggi ch’egli creò sono in gran parte ancor vivi, persuadono ancora, perché la loro rappresentazione muove da dati d’osservazione esatti; e quindi la loro psicologia resta valida a dispetto di tutte le esagerazioni.

  E poi — e sta qui forse il vero segreto della vitalità della Comédie — il comporre fu per Balzac talmente un atto di vita, che la pagina traspira ancora la convinzione che la dettò; la garantisce, la convalida.

  Narrano i suoi biografi che, in preda all’ispirazione, Balzac si alzasse di notte e aspettasse con impazienza l’alba per correre a far parte al primo venuto della trama che gli era balenata; e che, contagiata dall’estro del narratore, dal piglio, dal brillare del suo sguardo, anche la portinaia scordasse il daffare per pendergli incantata dal labbro.

  Ebbene: qualche cosa di simile succede a noi a tanta distanza d’anni. Il lettore che s’abbandona è come avesse ancora davanti l’autore a sostenere il suo racconto con l’eloquenza del gesto, sto per dire col calore della voce. Ma neppure il lettore più avvertito si sottrae al fascino di questo prepotente narratore per istinto, s’anche nella lettura non gli si spegne mai sulla bocca un’ombra di sorriso che dice: «So bene che me la conti grossa».

 

  Nato a Tours nel 1799, Honoré de Balzac, fu dapprima giovane di studio di un notaio, poi sodo in una tipografia: impresa nella quale riuscì solo ad indebitarsi. Dal 1829 si mise a scrivere, ammazzandosi dal lavoro prima per pagare i debiti, poi per soddisfare la sua inclinazione per una vita agiata e spendereccia, e per riparare ai disastri finanziari in cui finivano immancabilmente le speculazioni nelle quali si metteva. Aveva allora sposato la contessa polacca Hanska (con la quale scambiava da quindici anni una corrispondenza appassionata: «Lettres à l'Etrangère») quando, in pieno lavoro, moriva fulminato dall’apoplessia nel 1850.

  Lasciava sotto il titolo generale di La Comédie humaine un gran numero di romanzi, i principali dei quali sono:

  Scènes de la vie privée: Gobseck (1830); La Maison du Chat-qui-pelote (1830); La Femme de Trente ans (1831-1842); Le Colonel Chabert (18329.

  Scènes de la vie de province: Eugénie Grandet (1833); Le Lys dans la Vallée (1835); Les (sic) Illusions perdues (1837-1843); Ursule Mirouet (1841); Un Ménage de Garçon (1842).

  Scènes de la vie parisienne: Le Père Goriot (1834); Grandeur et Décadence de César Birotteau (1837); La Cousine Bette (1847); Le Cousin Pons (1847).

  Scènes de la vie politique: Une ténébreuse Affaire (1841).

  Scènes de la vie militaire: Les Chouans (1829).

  Scènes de la vie de campagne: Le Médecin de campagne (1833); Le Curé de Village (1839-1846); Les Paysans (1844).

  Etudes philosophiques: La recherche de l’Absolu (1834).

  Théâtre: Mercadet (1838).

 

 

  G.[iorgina] V.[ivanti], Introduzione, in Honoré de Balzac, La pelle di zigrino ... cit., pp. 5-18.

 

  Il desiderio di potenza e di gloria, insieme col bisogno di penetrare nella vita universale per mezzo della conoscenza e della comprensione, costituisce il motivo intimo e fondamentale, la ragione pratica e spirituale dell’umanità di Balzac, ed è anche la molla, talora segreta, talora palese, di tutta la sua opera d’arte, perpetuamente concepita e proiettata in un clima di vita attiva.

  Nell’uomo-artista, questo complesso motivo si traduce in una forma di volontà, dapprima vaga e indeterminata, poi più precisa e consapevole, e si sviluppa attraverso il lavoro paziente, la ricerca continua, l’esperienza feconda, sboccando nell’opera immane in cui esso trova integrazione e continuazione.

  Nell’opera, il motivo umano-artistico che vi sfocia come un fiume nel mare, irradiando ma non disperdendo la sua forza, si ritrova nei diversi tipi che ne rappresentano alcuni degli innumerevoli aspetti, sotto forma di naturali tendenze o passioni, individuate e precise, che si concretano nell’unico ambiente ad esse connaturato e seguono la propria parabola sino al conseguimento della loro totale espansione e alla conclusione della loro massima esperienza.

  Il simbolo di questo motivo fondamentale, la chiave di tutta la filosofia e di tutto il pensiero che innerva e vivifica il mondo dalla Comédie humaine, e quindi la ragione prima ed essenziale dell’arte e della vita di Balzac, sono racchiusi nell’occulto significato della «pelle di zigrino» e trovano la loro dimostrazione filosofica nel dramma vissuto dal suo possessore Raphaël de Valentin.

  Questa magica pelle, dice lo stesso Balzac, simboleggia «la vita alle prese col desiderio, principio di ogni passione». E il vecchio antiquario, nell’offrire a Raphaël il fatale talismano, afferma: «L’uomo si esaurisce con due atti istintivamente compiuti, che inaridiscono le sorgenti della sua esistenza. Due verbi esprimono tutte le forme assunte da queste due cause di morte: VOLERE e POTERE ...». Il talismano riunisce in sè tutte le facoltà del volere e del potere. Chi lo possiede otterrà ciò che desidera, ma il desiderio, nel suo anelito verso l’infinito, attraverso i transitori possessi, consumerà ardendo la vita stessa che lo alimenta.

  Raphaël percorrerà infatti il breve ciclo della sua esistenza terrena nell’ansia della conquista e nell’ebrezza del potere, e dimostrerà, in una drammatica esperienza, l’inadeguatezza della vita a ogni sogno e a qualsiasi aspirazione dell’umanità. Generalizzando in sè le passioni nel desiderio, che ne è il principio fondamentale, Raphaël rappresenterà appunto il dramma della loro incapacità a soddisfarsi.

  Così, i personaggi della Comédie humaine, nell’incarnare ciascuno la propria tipica passione, quale ne sia il miraggio, di ricchezza o di piacere, di potere o di scienza, concluderanno sempre la loro esperienza allo stesso modo di Raphaël.

  E Balzac, destinato dalla sua volontà a inseguire, con ambizione non mai stanca, gloria e fortuna, a sperimentare la forza divoratrice del volere e del potere sulla propria esistenza, e egli stesso il prototipo delle sue creature d’arte: somma e risultante dei loro riflessi.

 

***

 

  Per meglio comprenderne l’opera, per vedere come essa sia intimamente legata all’autore, è quindi essenziale conoscere Balzac nella sua vita, nei tratti più caratteristici del suo spirito, e coglierne gli atteggiamenti maggiormente significativi in rapporto all’ambiente, agli avvenimenti e all’arte.

  Il padre Bernard, prima funzionario nell’Amministrazione militare, poi direttore dell’Ospedale di Tours, era un ottimo parlatore, un divoratore di libri, e passava per un uomo strano, ma buono, di carattere dolce e tollerante. La madre, Laure Sallambier, di trentadue anni più giovane del marito, era bella e intelligente, dotata di grande energia, ma di carattere ineguale, severa coi figli, portata alle scienze occulte. Honoré, nato a Tours il 20 maggio 1799, eredita dai genitori sopratutto l’energia, l’espansività, l’interesse alla vita in tutte le sue manifestazioni.

  L’infanzia di Balzac trascorre normale come quella di un qualunque fanciullo e non presenta nulla di eccezionale. Il fulgore delle vittorie napoleoniche, la gloria dell’Impero, proiettano tuttavia la loro luce sulla sua anima già sensibilissima ed egli ne respira l’elettrizzante atmosfera d’eroismo e di grandezza. Dovrà però soffocare l’innata esuberanza, comprimere il prepotente bisogno d’espansione, tra le mura del Collegio di Vendôme dove, entrato a sette anni, per uscirne quattordicenne, soffrirà la prima esperienza dell’incomprensione degli uomini e affinerà, nel crogiolo dei primi dolori e delle prime delusioni, le forze ancora latenti della sua natura. Questo periodo, il cui ricordo gli ispirerà più tardi una parte di Louis Lambert, è capitale nella formazione spirituale di Balzac. Il fanciullo sano, allegro, vivace, vi si trasforma in un piccolo uomo fiero e taciturno che osserva e fantastica. Non studia, scontenta i maestri, ma divora di nascosto quanti più libri della ricca biblioteca del Collegio càpitano tra le sue mani; e con le letture comincia a farsi strada in lui l’idea di poter anch’egli un giorno compiere qualcosa di grande come gli eroi di cui legge la storia. È in questo tempo che si delineano quelli che saranno lo spirito, la tendenza filosofica della sua vita e della sua arte. A tredici anni scrive un Traité de la volonté, che un professore confisca e, senza leggere, distrugge. In questo trattato, che lo scolaro di Vendôme credeva destinato a rinnovare la scienza, c’era, in germe, la curiosità scientifica di risalire alle cause attraverso le concatenazioni degli effetti, che caratterizzerà tutta l’opera balzacchiana e troverà uno dei suoi maggiori riferimenti nella stessa Peau de chagrin. Tale trattato, così prezioso al cuore di Balzac, oltre che in Louis Lambert, si rispecchia infatti nella Théorie de la volonté di Raphaël de Valentin, il quale, vero fratello spirituale di Honoré, vuol penetrare nei misteri del pensiero, sapere come nascono e muoiono le idee, e valutar matematicamente la somma delle forze e il potere determinante dei sentimenti umani.

  A quattordici anni tutto questo turbinio d’idee e di pensieri, tutto questo fervore d’immaginazione, si risolvono in una grave forma di encefalite, e il fanciullo deve essere immediatamente ripreso dalla famiglia. Pochi mesi però di vita sana all’aria aperta e di cure affettuose sono sufficienti a ridargli con la salute la gaiezza e la vivacità proprie della sua indole e della sua età. Riprende allora gli studi interrotti e le appassionanti letture, e alla sorella Laure, che sarà sempre la sua più fida amica e consigliera, dice il suo segreto proposito, la sua ostinata convinzione di diventare un giorno un grand’uomo.

  Trasferitosi nel 1814 a Parigi con la famiglia, prosegue gli studi all’Istituto Lepitre, di cui più tardi parlerà nel Lys dans la vallée, frequenta i corsi della Sorbonne, dove le eloquenti improvvisazioni del Villemain, del Guizot e del Cousin lo accendono d’entusiasmo; quindi, iscrittosi alla facoltà di legge, ne segue i corsi, facendo nello stesso tempo pratica presso un notaio.

  In questo tempo, tenuto a stecchetto dal padre, conduce la vita dura e penosa dello studente povero, il cui ricordo rivive nella descrizione della giovinezza di Raphaël. Ed è in questo periodo che la sua ambizione si concreta con la coscienza della vocazione letteraria. Ma s’egli si crede destinato a grandi cose, la famiglia non è altrettanto ottimista, e il padre, che sogna per lui la carriera tranquilla e sicura del notaio, finisce con l’arrendersi soltanto perché la volontà del figliuolo è già più forte e tenace della sua. Due anni gli sono accordati dalla famiglia per dimostrare le sue capacità, e in questi due anni (1819-1821), in una soffitta della Rue Lesdiguières, Balzac si tempra alle difficoltà della lotta, lavorando con ardore instancabile e con indomita fede, che le prime immancabili delusioni e le angustie di una vita povera e disagiata non riescono a scuotere. Egli medita un gran numero di lavori, ha un’infinità di cose da dire e, come un fanciullo, non sa da che parte incominciare. Si decide infine per una tragedia su Cromwell, e vi lavora indefessamente per diversi mesi. Intanto legge con passione i classici e, nelle sue passeggiate al cimitero del Père-Lachaise, riflette e s’ispira agli epitaffi dei grandi che vi sono sepolti, guarda dall’alto Parigi e, come Rastignac nelle ultime pagine del Père Goriot, già si sente padrone di tutto quel mondo.

  Finalmente Cromwell è finito, ma, alla speranza della riuscita, segue il più amaro disinganno. Un vecchio professore, amico di casa, scelto dalla famiglia d’Honoré come giudice supremo, dopo una lettura coscienziosa, dichiara che il giovane «deve fare qualunque cosa, salvo che della letteratura». Il colpo è grave, ma non basta a smuovere Balzac dal suo proposito. Le tragedie non fanno per lui, pazienza, la sua penna saprà fare altro. Si rimette dunque al lavoro, e da questo momento, per lo spazio di cinque anni, scrive e pubblica, sotto diversi pseudonimi, una lunga serie di romanzi ai quali riconosce il solo merito di insegnargli a scrivere. Ma intanto, pur nel lavoro ingrato, le idee maturano, ed egli vive con gioia il suo tempo, interessandosi, attraverso una sensibilità che si va sempre più raffinando a tutte le manifestazioni dell’attività e dell’intelligenza umana. Nell’osservare i diversi tipi sociali, nell’esplorare le anime e le cose, ritrova nelle teorie del Gall e del Lavater, del Cuvier e di Geoffroy-Saint-Hilaire, una segreta rispondenza con le sue più fervide intuizioni di artista e di poeta. Così, saggiando le proprie forze, accarezza un’idea grandiosa: aspira a spiegare l’uomo, descrivendone l’anima e i costumi, e a trovarne, come lo scienziato, le leggi naturali Sogna di nuovo la gloria e sogna anche, a coronarla, una grandissima passione. In questi anni ha conosciuto l’amore: ma non è Madame Laure de Berny, l’amica di sua madre, di tanti anni maggiore di lui, che possa dargli il sognato amore prodigioso e perfetto. Ella, che lo ama al punto di essere anche solo una madre per lui, avrà sempre un posto nel suo cuore, sarà sempre la dilecta, ma non potrà impedirgli di continuare tutta la vita a inseguire la sua chimera. Quanto alla gloria, essa è ancora lontana, e a volte gli sembra irraggiungibile. Il suo lavoro gli è di tormento, il guadagno è scarso. Egli soffre delle continue ristrettezze ed angustie che minacciano dì soffocarlo. Il problema del danaro, che agiterà la Comédie humaine, è già in questo momento vivo e assillante. Per risolverlo e conquistare con la ricchezza l’indipendenza necessaria al suo lavoro, egli si lancia allora in imprese commerciali, fa l’editore, lo stampatore, il fonditore di caratteri; ma non è nato per il commercio e, dopo una serie di disgraziate speculazioni, si salva appena dal fallimento.

  Le conseguenze di tutto ciò sono quanto mai dolorose. A ventinove anni Balzac si trova, come scrittore, a dover tutto ricominciare: pieno di debiti, che trascinerà per tutta la vita, non avrà, per pagarli, se non la sua penna, alla quale nessuno riconosce ancora valore alcuno. Vive dunque ore terribili e, certo, queste gli hanno suggerito le amare meditazioni sul suicidio più tardi da lui attribuite a Raphaël. Tuttavia la triste esperienza che, pagando di persona, egli ha fatto degli uomini e della vita è stata una grande scuola per il suo ingegno e per il suo carattere; e, pur senza appoggi e senza incoraggiamenti — solo Madame de Berny e la sorella Laure non perdono la fiducia in lui — sostenuto soltanto dalla fede e dall’amor proprio che gli impongono di vivere e di lavorare per soddisfare l’ambizione e gli impegni, si rimette a scrivere e compone Les Chouans, il primo libro pubblicato col suo nome. Ammiratore entusiasta di Walter Scott, come lui vorrebbe rappresentare nelle sue fasi principali la storia dei costumi del proprio paese. Con Catherine de Médicis, che seguirà l’anno dopo, Les Chouans testimonia di questo progetto più tardi abbandonato per il più vasto piano della Comédie humaine, ed è il primo libro, il quale, cominciando a rivelare le qualità migliori di Balzac, gli attiri l’attenzione del pubblico e della critica. Da questo momento, egli prosegue con rinnovato ardore nel suo lavoro, e intanto allaccia importanti relazioni nell’ambiente letterario-mondano di Parigi dove, tra altri, conosce Madame Récamier, Chateaubriand, George Sand. Così, mentre accresce il mondo delle sue esperienze mondane e si mette sempre più in contatto con le idee altrui, arricchisce il mondo immaginario della sua fantasia e lo popola di tutte le creature intra-viste, conosciute o anche soltanto intuite. Il suo cervello è ormai una fucina dove si agitano e vivono gli attori di quella che sarà la Comédie humaine. Intorno a queste figure si formano i diversi cicli di vita che, sospingendosi, compenetrandosi gli uni negli altri, urgono, premono, ansiosi della loro definizione artistica.

  Mentre scrive La peau de chagrin, è costretto dal prepotente bisogno creativo, a buttar giù le prime pagine dell’Auberge Rouge, e intanto già lo incalza possente la figura del Père Goriot, circondata dalle immagini ancora lontane, ma già vive e precise, dei diversi personaggi che formeranno l’ambiente e lo sfondo della «Pension Vauquer».

  Ai primi del luglio 1831, La peau de chagrin, cui Balzac ha lavorato indefessamente per alcuni mesi, e compiuta, ed è il suo primo reale successo. Questo libro, punto di partenza per i successivi capolavori, segna veramente una pietra miliare nell’arte di Balzac, che in esso le tendenze e qualità dello scrittore già appaiono nel loro carattere essenziale. Sulla trama e nello sfondo romantico, di cui Balzac particolarmente si compiace, e intorno al tema filosofico che ne costituisce l’innervatura centrale, già ne La peau de chagrin si distaccano ed emergono figure caratteristiche, indimenticabili, le quali, come nella visibile realtà, si muovono e respirano in armonia col proprio ambiente, creandosi un’atmosfera fisica e morale, dove le vicende sono conseguenza naturale e necessaria dei loro pensieri e dei loro atti, emanazione spontanea della vita trasfusa in esse dall’artista. Accanto a Raphaël, giovane appassionato ed illuso, poeta e pensatore, pieno di scetticismo e d’ingenuità, cui Balzac ha trasmesso tanta parte di sè, la contessa Fedora, la «donna senza cuore», vuol raffigurare la società contemporanea ambigua e crudele nell’ingannevole fascino degli allettamenti esteriori, nella vanità della sua fredda corruzione, nel suo elegante egoismo, ma, oltre e più di un simbolo, la figura di lei s’impone come quella di una donna reale, quale Balzac può aver conosciuto ed amato, dalla quale può essere stato respinto (forse M.lle Olympe Pélissier, più tardi divenuta la moglie di Gioacchino Rossini?), e che l’artista ha saputo riplasmare nell’arte con l’inconfondibile segno della vita vissuta e sofferta. Così Paolina, l’eterea creatura nella quale il Poeta ha voluto trasfigurare l’eterno ideale della donna, dileguante per l’inafferrabile fascino della bellezza e della poesia, non è soltanto una finzione d’arte, ma una fanciulla forse conosciuta e sognata dall’artista, cui ci è facile prestar fede quando di lei dice, scrivendo a un’amica: «... Paolina esiste, ed è anche più bella. Se ne ho fatto un’illusione è stato perché nessuno conoscesse il mio segreto».

 Insieme con la virtù di far vivere i suoi personaggi e di farne emergere i caratteri sui fatti e nell’ambiente, già ne La peau de chagrin si delinea la tendenza più originale di Balzac, quella di rappresentare gli uomini del suo tempo nei loro rapporti sociali, e di scoprire i moventi delle loro azioni per mezzo delle analogie tra le leggi fisiche della natura e le leggi morali della società che governano in ciascun campo le correlazioni tra cause ed effetti. Donde quel suo bisogno di ricorrere a tutti gli aiuti che potesse largirgli la conoscenza umana e l’affluire degli elementi più diversi della scienza e della tecnica, non sempre dominati dal temperamento irruente, esuberante dell’Autore, nè ordinati armoniosamente nell’espressione artistica. Quindi, da un lato, originalità e grandiosità di concezione, ricchezza di pensiero e di stile, interesse non solo artistico, ma umano e universale; dall’altro, naturali squilibri nella composizione, ridondanza d’immagini e di concetti, non sempre chiari e coerenti, che ci allontanano dai personaggi e disperdono l’interesse all’azione.

  Il successo di La peau de chagrin e dei libri seguenti scuote finalmente l’apatia della critica, ma è ancor lungi dal procurare all’autore quel guadagno di cui egli ha necessità per poter lavorare. Per sfuggire alla persecuzione dei creditori, è costretto a firmare cambiali su cambiali e, per pagarle, deve compiere prodigi di lavoro. Dorme ormai poche ore per notte, vince il sonno a forza di caffè, e, pur non tralasciando di scrivere, architetta continuamente progetti di nuove speculazioni che possan dargli finalmente l’agognata ricchezza. La tirannia del danaro, che per tutta la vita non cesserà mai di perseguitarlo, gli rivela quale importanza esso abbia nella società moderna, qual formidabile leva esso sia nel conflitto degli uomini con le loro passioni; ed egli ne esprime mirabilmente la potenza, dandogli nelle proprie opere il posto che gli spetta nel meccanismo dei rapporti sociali. Sotto l’assillo del danaro il suo lavoro diventa accanito come una battaglia da vincere, in cui siano in giuoco tutte le facoltà produttive della sua mente. Nuovi libri si susseguono rapidamente e ognuno di essi rappresenta un superamento, una più ampia prospettiva nell’orizzonte della vita sociale. Egli si sente vivere, sente il suo genio maturare con la vita stessa e vuole che la sua arte non sia letteratura, ma creazione e conquista di uomini, di società, di nazioni. Sul caminetto della camera dov’egli lavora, v’è una statuetta di Napoleone: sul fodero della spada, Balzac un giorno ha scritto: «Ciò ch’egli non ha potuto compiere con la spada, io lo compirò con la penna».

  Nel 1833, poco dopo la pubblicazione del Médecin de campagne, lo spirito di Balzac, giunto ormai a un massimo grado di lucidità, ha finalmente la visione sintetica della vasta opera compiuta e da compiere, ne vede il filo conduttore e sente giunto il momento di organizzarla e definirla secondo i rapporti e gli sviluppi delle varie parti. La speranza in un nuovo grandissimo amore, quello della Étrangère, che, dalla Polonia, gli scrive lettere tutte pervase d’ammirata comprensione, esalta l’immaginazione dell’artista. Il mondo dei suoi personaggi si fa sempre più vivo e vibrante, si sovrappone a quello reale, lo trascende. Come nella vita, egli vede stabilirsi tra essi quella rete d’influssi diretti e indiretti attraverso i quali le esistenze umane, pur in ambienti diversi e per diversa vicenda, interferiscono le une nelle altre, prolungandosi, negli atti e nei pensieri, all’infinito. Condotto da tale visione, egli risolve di raccogliere i propri libri e di integrarli in modo che dal loro insieme sorga compiuto il quadro della società francese del suo tempo. Intitolerà per ora quest’opera Études de moeurs; la suddividerà in Scènes de la vie privée, de la vie de campagne, de la vie de province, de la vie parisienne; e le affiancherà la serie dei Contes et romans philosophiques (destinati a divenire più tardi gli (sic) Études philosophiques), costruendo così già tutta l’impalcatura della Comédie humaine, titolo generale ch’egli adotterà nel 1841, aggiungendovi le Scènes de la vie politique e de la vie militaire.

  A questo punto il destino di Balzac può dirsi definitivamente tracciato sino al suo compimento estremo. Gli eventi esteriori non potranno più farne deviare il corso. Egli è ormai come una forza della natura che lo spirito abbia dominata e incanalata per trarne la massima efficienza. Le aspirazioni di gloria e di potenza dello scolaro di Vendôme si fanno realtà in quella sfera dell’immaginazione e dell’arte in cui l’uomo ha irradiato tanto di sè. Anche l’amore è parte di essa, e si fonde col sogno di gloria. La lontana Étrangère, nella quale egli vede e adora l’incarnazione del più sublime ideale femminile, non può certo essere la fredda e superba contessa Ève Hanska che acconsentirà a sposarlo soltanto quando sarà ben sicura della imminente fine di lui; ma anch’essa è una trasfigurazione del suo spirito che la elegge celeste dea del suo magico regno. In questo regno egli è veramente re. La passione ha compiuto il miracolo, il sogno è diventato realtà, la sua realtà. Ma, come i desideri di Raphaël de Valentin si attuarono a prezzo della sua esistenza terrena, così le aspirazioni di Balzac si attuano nella vita dell’artista a spese della vita dell’uomo, che le alimenta col suo cervello, coi suoi muscoli col suo sangue. Maturato quindi il destino, non molti sono gli anni che gli restano da vivere. E, in questi anni, il successo, la fama, i viaggi, i soggiorni all’estero, le amicizie illustri, le fasi gaudiose e dolorose del suo amore, l’assillo sempre incalzante del danaro, le incomprensioni della famiglia c degli uomini, la malattia mortale, tutto passa lieve nel tempo e acquista valore solo in quanto si riferisce al mondo della Comédie humaine e affluisce nella ricca linfa che lo vivifica. Qui dimora il suo spirito, e qui la vita reale aderisce ormai tanto a quella artistica, ch’egli non ha neppur più bisogno di osservarla e studiarla per accrescere il popolo di sua creazione. Una fisionomia, un atteggiamento, uno sguardo sono sufficienti perché egli ne identifichi il corrispondente tratto morale, lo incardini in un carattere, ne ricostruisca la storia; così come la facciata di una casa, la decorazione di un interno, un cortile bastano a suggerirgli i gusti, le abitudini, l’indole delle persone che vi abitano, e a porgergli il filo per seguirne le diverse vicende.

  Questa intuizione divinatrice, comune ai veri poeti, si lega in Balzac ad una curiosità non mai sazia e ad un pensiero possente che considera l’uomo quale fenomeno non isolato, non finito in se stesso, ma inserito nell’organismo sociale come una indispensabile cellula, solidale con la natura di cui esprime uno degli infiniti modi di essere.

  Alla morte di Balzac, avvenuta a Parigi il 18 agosto 1850, la Comédie humaine è ancor lungi dall’essere compiuta. Molti aspetti della vita sociale, ch’egli voleva rappresentarvi, perché il quadro della società e dei costumi del suo tempo fosse completo, ancora mancano, come mancano le pagine degli (sic) Études analytiques, i quali, accanto agli Études philosophiques, che ne spiegano le cause, avrebbero dovuto spiegarne i principî. Ma, così com’è, interrotta dalla morte, la Comédie humaine aggiunge al valore artistico un valore umano che lo integra e in certo senso lo supera. Essa non avrebbe potuto essere compiuta mai, se anche l’autore fosse vissuto mill’anni. Che infiniti sono i modi ed aspetti della vita, e nessuna classificazione nè rappresentazione potrebbe mai contenerli e definirli tutti. Ma se l’opera non può obiettivamente darci piena misura della società che l’ha ispirata, essa basta tuttavia a darci intera la misura del genio che l’ha concepita. In realtà, questa immane impresa di giungere alla universale unità attraverso la molteplicità dei tipi e delle loro esperienze rappresenta uno dei tentativi più coraggiosi ed eroici che mai lo spirito abbia osato intraprendere nei domini dell’arte.

 

  Nota.

 

  Sull’origine del talismano che dà il nome a La peau de chagrin, F. Baldensperger, nel suo volume Orientations étrangères chez Honoré de Balzac (Parigi, 1927), suggerisce che Balzac possa averne trovato gli elementi nelle narrazioni fantastiche dell’Asia; e segnala un articolo comparso nella Bibliothèque orientale, in cui si tratta di una pergamena sulla quale Alì e Giafa Sadek avevano scritto in caratteri mistici il destino del loro popolo; nonché la 596a delle Mille e una notte (Storia della principessa di Daryabar), in cui la pelle di zigrino è considerata come spoglia di un asino selvatico.

  Il serpe riprodotto sotto il titolo di La peau de chagrin è tratto dal disegno serpentino di Tristam Shandy (cap. IV, libro IX) dello Sterne, del quale Balzac era ammiratore entusiasta. F. Davin, nella Préface de 1834 (Spoelberch, p. 203), così spiega il significato di questo simbolo in riferimento all’opera dello Sterne: «L’effetto prodotto dal desiderio, dalla passione sul capitale delle forze umane, non vi è forse magnificamente indicato? Di qui, quella morale tanto energicamente espressa dal caporale Trim col mulinello da lui tracciato in aria col bastone, e del quale H. de Balzac ha fatto una epigrafe mal compresa dalla maggior parte dei lettori. Pochi sono coloro i quali abbiano capito come, in conseguenza di questo giudizio sull’organizzazione della nostra società, non vi sia altra risorsa per la generalità degli uomini che abbandonarsi al movimento serpentino della vita».

 

 

  M. V., Scarmigliato appare Balzac nel salotto di Madame Récamier, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 198, 21-22 agosto 1947, p. 2.

 

  A L’ultimo Chouan, il primo libro firmato col suo nome, non era mancato un certo successo. Lettere di ammiratrici, inviti a pranzo nel mondo politico e letterario. La sua amante, la Dilecta, gli aveva detto: «E’ una gran pagina di storia». E sua madre: «L’ho letto d’un fiato ... Credo che dovresti venderne ... almeno da rimborsarci un po’ le spese». Suo padre consentì di leggerlo anche lui, dichiarandogli poi: «Non parli mica male dell’amore, ma ... c’è la contropartita. Pensa a fare ciò che ti ho detto: un libro sul matrimonio».

  Ci pensava, il giovane Balzac; anzi, quand’era tipografo, ne aveva buttato giù e fatto comporre un primo abbozzo, che, poi, rileggendo ... Ora avrebbe potuto riprenderlo. «Ma prima bisogna — si disse — che ne riparli con lui. E’ stupefacente, mio padre, sulle donne!».

  Ricordò di averlo sorpreso, già ultrasettantenne, ma sempre gagliardo come una quercia, pizzicare, in campagna, una bella ragazza. E a tavola, nella casa di Tours, mai che guardasse la suocera! Questa per indispettirlo, domandava alla figlia: «Quante copie ha venduto tuo marito, della sua Storia dell’idrofobia? Un milione?». Nanche (sic) con la moglie, donna del Nord, andava troppo d’accordo, papà Balzac, uomo del Sud. E diceva che il matrimonio, a causa delle donne, era per gli uomini un inferno. Onorato avrebbe dovuto essere il Dante di questo inferno. Perché no? Ma c’era tempo. Se non che due mesi dopo l’uscita dell’Ultimo Chouan, una tranquilla e serena sera di giugno, gli annunziarono brutalmente che suo padre era morto. Ne provò un dolore acuto e silenzioso. Ebbe la sensazione che egli, invece di abbandonare la terra, entrasse in lui con la sua saggezza ironica. Perché un gran de lutto, facendoci meditare sul nostro destino, rianima in noi le eredità che ci sono più care. Suo padre continuava a vivere in lui; e appena tornato dal funerale, subito si mise a scrivere, prima d’ogni altro, il libro consigliatogli sul matrimonio.

  Visse l’estate e l’autunno in intima comunione con il pensiero paterno. Tendendo l’orecchio, gli pareva di riudire il vecchio motteggiare sulla virtù delle donne, narrargli i più impensati casi di adulterio. Scritto un capitolo, lo leggeva alla sua materna amante, la signora di Berny, che si divertiva a quelle verità paradossali, ma anche controbatteva le frecciate maschili con pungenti osservazioni di donna accorta. Balzac, che capiva a volo, temperava allora le affermazioni eccessive. E per tale collaborazione avvenne che un libro destinato a beffare il matrimonio, cioè la vita degli uomini divisa con le donne, quelli rese responsabili di tutti i peccati di queste.

  La Fisiologia del matrimonio, meditazioni sulla felicità o l’infelicità coniugale, uscì in dicembre, incontrando vivo successo. Nei salotti non si parlava d’altro, e si voleva conoscerne l’autore, che vi si esibiva senza farsi troppo pregare, sebbene mancasse di un abito conveniente. Ma egli si diceva: «Tu es vêtu de ta renommée; c’est ce qui se fait de mieux!». Disgraziatamente, aveva delle scarpe chiodate che graffiavano i tappeti ...

  Balzac andò a visitare all’Abbaye-aux-Bois anche l’ex-marescialla Junot, la duchessa d’Abrantès, quella che aveva civettato — fino a qual punto? — con Napoleone, Essa una volta gli aveva detto: «Vostra amica ora e sempre, mio caro Onorato, e vostra amante, quando vorrete»; e, adesso, letta la Fisiologia del matrimonio, gli aveva scritto: «Voi siete il diavolo in persona. Sapete che vi ho sempre amato; vi rivedrò, con tanto piacere».

 

Difensore delle donne.

 

  Durante la visita, che fu cordiale, venne fuori il nome della signora Récamier anch’essa all’Abbazia. Quello della «divina Giulietta», la cui coquetterie andava al di là dell’amicizia senza giungere fino all’amore, l’amica di tutti e l’amante di nessuno, la regina del mondo parigino era un nome che faceva sognare Balzac, incline per natura a ogni magnificenza e perciò fu lietissimo quando Laura d’Abrantès gli disse: «Mandatele subito il vostro libro, tornate fra otto giorni, e io vi condurrò da lei ...».

  Tornò Balzac il giorno fissato all’Abbazia. «Ma senza neanche esservi fatto tagliare un po’ i capelli? Avete l’aspetto d’un leone!» rise l’amica, E poiché nel marzo di quell’anno 1830 s’era dato l’Ernani, declamò: «Vous êtes mon lion superbe et généreux». Poi annunziandogli che c’era anche Chateaubriand, l’aveva visto passare, lo condusse dalla Récamier, la quale lo ricevette in un salotto dorato dal sole, dove spiccava un grande ritratto di M.me de Staël. Egli le s’inchinò goffamente, ma la «divina» Giulietta, sorvolando: «Come ha l’aria buona!» disse subito a Laura d’Abrantès.

  «Cosa rara nei letterati, vero signora?», mormora Chateaubriand. Balzac, che non l’ha mai visto, lo guarda. Solenne come un monumento sembra non accorgersi di lui. Ghette bianche, petto in fuori, una mano nel panciotto come Napoleone, e una rosa all’occhiello, in disordine i capelli e la cravatta, vaga lontano il suo sguardo. Forse risogna le foreste d’America. Non risponde alla signora Récamier che gli dice: «Il faut mon cher ami, que je vous donne le livre de M. Balzac»; non ode il signor Ballanche definirlo un libro che difende le donne, tanto che egli aveva dubitato del sesso dell’autore.

  E l’autore, sfavillante di gioia, ascolta la dolce voce di Giulietta, che se lo è fatto sedere accanto, dirgli che le donne hanno gran bisogno d’essere difese: «Vous avez fait là, monsieur, oeuvre excellente, et st spirituelle!».

 

Sempre creditori.

 

  Pur tracagnotto e panciutello com’è si sente delle ali Balzac quando la sera rincasa per via Cassini. E si addormenta felice. Ma il sonno gli è turbato da un sogno. Chi gli tira le orecchie come a un ragazzo? Suo padre. E’ lì nel suo giubbone ovattato di seta color pulce, la testa affondata nelle spalle cosicché i suoi favoriti carezzano l’alta cravatta bianca; e ha in mano un libro: la Fisiologia del matrimonio.

  «Bel servizio, m’hai reso! — lo rimprovera —. Tutto il contrario di ciò che ti avevo detto, di ciò che avevamo combinato. Completamente cambiate le carte in tavola, ad opera, si capisce, di qualche donna. Ti sei lasciato infinocchiare come un merlo dalle donne ...».

  E, sghignazzando beffardo, gli scaraventa il libro sulla testa.

  Balzac si risveglia a quel colpo. Ma è un colpo all’uscio. Ripicchiano, chiamano: «Signor Balzac». Riconosce la voce d’un creditore. Neanche dormire sugli allori, lo lasciano!

 

 

  Diego Valeri, Neuchâtel, in Taccuino svizzero, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 1947, pp. 147-150.

 

  pp. 149-150. Infine (sarà stato un caso, ma, anche come caso, è da contare), fu a Neuchâtel che Balzac, l’eterno ragazzo-prodigio, incontrò per la prima volta il suo «ange chéri», la misteriosa «Straniera», che fin allora, attraverso tante lettere ardenti, era stata per lui soltanto un amore di terra lontana.

  Nell’estate del 1833 la giovane signora Hanski (ventisett’anni) era venuta, dal fondo dell’Ucraina, con la figliuola e col marito (sessant’anni), a villeggiare sulle rive del dolce lago. Alla fine di settembre Balzac corre a raggiungerla, a conoscerla. Sceso al Faucon, esce súbito, per farsi un’idea del luogo; e súbito incontra una donna che lo colpisce per la bellezza del viso e l’intensità dello sguardo. È lei, pensa ... Infatti era lei. (Tutti sanno quel che seguì: la lunga tormentosa passione, e infine il matrimonio, che precedette di pochi mesi, nel 1850, la morte del poeta).

  A voler inventare apposta una città per un tale incontro, che cosa si potrebbe trovar di meglio di Neuchâtel, la città mattutina, la città dei giovani amori?

 

 

  Alessandro Varaldo, Balzac e la miniera d’argento, in Leggende e storie dell’Ottocento, Milano, Casa editrice Ceschina, 1947, pp. 133-141.

 

  Cfr. 1942 («Stampa Sera», 6 Maggio 1942, p. 3).

 

 

  Orio Vergani, Come vivono i romanzieri, «Corriere d’informazione», Milano, Anno III, N. 79, 2-3 aprile 1947, p. 3.

 

  Se pure carico di debiti, Balzac visse di romanzi.


Marco Stupazzoni

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