venerdì 6 settembre 2019


1937


 

Estratti.

 

 

  Onorato di Balzac, Due finestre gotiche [Lettera alla contessa Hanska], «L’Italiano. Periodico della rivoluzione fascista», Roma, Anno XII, n. 52-53, Settembre-Ottobre 1937, pag. 34-35.

 

  È tradotto un estratto della lettera di Balzac a M.me Hanska datata: Florence, 10 avril 1837.

 

  Venezia vista soltanto per cinque giornate, di cui due piovose, m’à rapito. Non so se abbiate notato sul Canal Grande, dopo il palazzo, una piccola casa con due finestre gotiche; tutta la facciata è d’un gotico puro. Ogni giorno mi fermavo a guardarla e spesso ne sono stato commosso fino alle lagrime. Ho pensato a tutta la felicità che di là due persone potrebbero provare sentendosi fuori da tutto il resto del mondo.

 

 

 

Studî e riferimenti critici.

 

 

  Corriere milanese. Spettacolo alla Scala di fuori e d’intorno, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 4, 5 gennaio 1937, p. 5.

 

  E a chi vede oggi il magnifico salone, riesce incredibile che un tempo fosse diviso in camerini, stanzoni, cucine, e che un anno vi siano stati impiantati persino venti tavoli con tappeto verde per il giuoco del faraone, della bassetta, del biribisso. Il ridotto era aperto giorno e notte e Balzac vi vide gli aristocratici milanesi giocare «con gente che non si riceverebbe in casa».

 

 

  Vita musicale. Teatri. Prime rappresentazioni. “Nozze in Turenna” tre atti e sei quadri, libretto e musica di M. Stradivari, al Ponchielli di Cremona (6 febbraio 1937), «Musica d’oggi», Anno XIX, N. 2, Febbraio 1937, p. 56.

 

  L’autore, avvocato professionista e discendente del celebre liutaio cremonese, ha scritto quest’opera per diletto, traendone la trama da una novella di Balzac ed aiutato, per quanto riguarda la strumentazione, da Franco Vittadini.

  «La musica facile — ci fa sapere Il Regime Fascista — è stata subito affrontata dal pubblico. ... Vi è stata insomma quella immediata compenetrazione che non è davvero caratteristica delle musiche nuove.

... Contare tutte le chiamate è lavoro arduo, tanto sono state numerose. Basterà dire che tutte le pagine più caratteristiche sono state sottolineate da scroscianti battimani con numerose chiamate all’autore ed agli interpreti».

  Tra questi vanno ricordati, oltre il direttore Edoardo Guarnieri, Elisa Fioroni, Aldo Sinnone, Conati e Marone.

 

 

  Corriere dei teatri. «Nozze di Turenna» di Mario Stradivari al Ponchielli di Cremona, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 33, 7 febbraio 1937, p. 5.

 

  Cremona 6 febbraio.

 

  Stasera al teatro Ponchielli è andato in scena l'ultimo spettacolo di questa stagione lirica: l’opera nuovissima in tre atti e sei quadri Nozze in Turenna, di Mario Stradivari, uno dei discendenti del celebre liutaio. Il soggetto è tolto da una novella di Balzac che lo stesso autore della musica ha ridotto in versi. Il pubblico era assai numeroso e le accoglienze sono state assai cordiali sia all’autore che agli interpreti. Le parti principali erano affidate ad Elisa Fioroni, Aldo Sinnone, Lorenzo Conati ed Albino Marone. L’opera è stata concertata e diretta dal maestro Edmondo Guarnieri. Le chiamate sono state numerose ed entusiastiche alla fine di ogni atto sia agli interpreti che all’autore.



  Stazioni straniere. Il Colonnello Chabert. Radiorecita di S. Bloch (da Balzac) (Lione P.T.T., ore 21,30 circa), «Radiocorriere», Torino, Anno XIII, N. 16, 18-24 Aprile 1937, p. 48.

 

  Il colonnello Chabert è creduto morto nella battaglia di Eylau, dove comandava un reggimento di cavalleria. Morto e sotterrato. In realtà, raccolto orribilmente ferito alla testa sotto un mucchio di cadaveri e curato da una brava donna accorsa sul campo della strage, il bravo colonnello, guarito, ha trascorso all’estero molti anni, e finalmente ritorna in patria dove non soltanto nessuno lo riconosce, ma dove è respinto dalla moglie che al è legittimamente sposata in seconde nozze. La contessa Ferraud non ne vuol sapere di quel vecchio invalido, e il colonnello è preso per un simulatore. Ma lui ha le carte in. regola e può fornire all’avvocato di sua moglie le prove documentarie, irrefutabili della sua identità. Atterrita, la contessa, che prima lo aveva trattato da impostore, cerca con ogni mezzo di commuovere quel rudere d’uomo, del quale, fra parentesi, ha anche ereditato il denaro. Rosina, contessa di Ferraud, supposta vedova Chabert, ha una famiglia, un marito, dei figli! Dei figli! E’ specialmente su questo fatto che la contessa insiste e riesce finalmente a commuovere il colonnello che si decide generosamente a rinunciare ai suoi diritti e a scomparire; non potendo ritornare tra i morti di Eylau, sarà semplicemente il vecchio «Giacinto». La contessa ricompensa questa sublime generosità con la maggior perfidia: non mantiene i patti concordati e, forte del documento che ha carpito al magnanimo redivivo, ne rinnega l'identità. E «Giacinto», rottame umano, precipitando sempre più giù nella china della miseria, non ha neanche più la forza di insorgere. Morto che cammina, intruso e inutile, quest’uomo, nato nell’Ospizio dell’infanzia abbandonata e diventato per il suo coraggio colonnello, Gran Cordone della Legion d’Onore e conte dell’Impero, finisce oscuramente agli Invalidi, l’ospizio dei veterani napoleonici.



  Stazioni straniere. La Maison du chat qui pelote. Rappresentazione drammatica in otto quadri (da H. De Balzac) (Parigi T.E., Lione, ore 20,30), «Radiocorriere», Torino, Anno XIII, N. 23, 6-12 Giugno 1937, p. 40.

 

  L’insegna del «Gatto che gioca a palla» troneggia in un venerando edilizio di via San Dionigi. Un rudere della vecchia Parigi. A quell’insegna del XVI secolo il vecchio Guillaume tiene un commercio di stoffe. Il mercante ha due figlie: Virginia, la maggiore, brutta, e Agostina, la minore, bellissima. Di costei si innamora il celebre pittore di Sommervieux che, dopo lunghe vicende, riesce a farla sua moglie. Ma la piccola borghese Agostina non può vivere in quell’ambiente di modelle e di ammiratrici di suo marito e, dopo un lungo calvario, muore a ventisette anni. «I modesti ed umili fiori che sbocciano nella valle muoiono quando vengono trapiantati nelle alte vette, troppo vicino ai cieli, lassù dove il sole arde e si formano gli uragani».

 

 

  Corriere dei teatri. Notiziario, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 214, 8 settembre 1937, p. 4.

 

  Alfredo De Sanctis si propone di svolgere prossimamente con una costituenda Compagnia un programma di rappresentazioni di repertorio e classiche. Tra le novità annuncia: «Una notte di Balzac» (Vera e falsa), in tre atti di L. D’Ambra; […].

 

 

  Corriere dei teatri. Notiziario, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 220, 15 settembre 1937, p. 2.

 

  Lucio d’Ambra ha scritto — come una sua «Falsa e vera» sceneggiata — una commedia in tre atti intitolata «Balzac o la Commedia a cinque mani». Questo lavoro, ridotto per le scene francesi da Frédéric Lefèvre, sarà rappresentato nell’inverno a Parigi. Dopo Parigi, la nuova commedia sarà rappresentata in Italia, durante un apposito «giro», da Alfredo de Sanctis.



  Balzac, in La Vita dei Grandi Uomini, Milano, Istituto Editoriale Moderno, s. d. [1937], pp. 255-263; 1 tav. [ritratto di Balzac].

 

  Onorato Balzac nacque a Tours, il 20 maggio del 1799, da famiglia agiata. Il padre cinquantenne, oriundo della Linguadoca, durante la grande rivoluzione era impiegato alla sussistenza militare e aveva conosciuto e sposata Laura Sallambier, ventenne. Ottenuto il posto di direttore dei viveri alla Divisione militare di Tours vi si trasferì con la moglie.

  Dopo Onorato nacquero due figlie e un figlio: Laura, la sola con la quale lo scrittore tenne per tutta la vita affettuosi rapporti fraterni, Laurence, futura Madame de Montzaigle, ed Henry.

  L’infanzia di Balzac, di colui che fu, poi, il più grande romanziere di Francia, e tra i più grandi del mondo, non gravò molto sulla famiglia sua: a quattro anni egli visse, con la nutrice, alle porte della città, dove lo raggiunse presto la sorella Laura.

  Tornati in famiglia, i due bimbi furono affidati alle cure di un’istitutrice.

  Dagli otto ai quattordici anni Onorato fu nel Collegio degli Oratoriens, a Vendôme, dove le note caratteristiche del ragazzo sono conservate nei registri scolastici. Da questi si apprende che «ha carattere sanguigno facilmente infiammabile, che ha aspetto paffuto ed è rosso in viso».

  Nell’inverno i geloni alle mani e ai piedi, di cui Onorato soffrì sempre, impedivano ai maestri di adoperare con lui i mezzi punitivi allora in uso, perciò, sovente, i colpi di frusta gli venivano mutati in carcere.

  I castighi al Balzac erano sempre dati per la sua taciturnità, per la noncuranza e la grande originalità in ogni manifestazione.

  Il carcere del collegio, in un certo senso, fu benefico al Balzac, perché, pur tenendolo privo delle lezioni, gli permetteva una continua, intensa lettura di tutta quanta la biblioteca del collegio; però, un giorno del 1813, il direttore degli «Oratoriens» dovette chiamare urgentemente i genitori del ragazzo i quali accorsero e lo portarono via, date le condizioni di salute disastrose in cui l’avevano ridotto il carcere e le letture continue.

  Questo stato patologico che segue una «congestione di idee» venne dal Balzac studiato, più tardi, nel romanzo «Louis Lambert».

  Tornato a Tours, dopo sei anni di collegio, egli ritrovò, con la salute, la gaiezza forte e arguta, la loquace sicurezza di sè e una certa spavalderia che non piacque troppo ai suoi nuovi maestri.

  Nel 1814 la famiglia Balzac, per l’impiego del padre, si stabilì a Parigi, perciò Onorato, dopo due anni di studi a Tours, passò alla capitale e qui il padre decise ch’egli diventasse avvocato.

  Il giovane desiderava ardentemente di entrare alla Sorbona, per udire le lezioni dei grandi letterati, e il padre acconsentì a patto che, contemporaneamente, studiasse il Diritto.

  Egli infatti accettò di far tirocinio presso un avvocato e presso un notaio.

  Per tre anni il giovane Balzac farà la vita di intensa attività che, salvo pochi intervalli, sarà sempre la sua vita. Dalla Sorbona allo studio, dalle, lezioni di letteratura, che lo entusiasmano e di cui parlerà animatamente nei brevi istanti della colazione in famiglia, al codice civile, alle scritture legali di cui la sua grossa mano febbrilmente riempie fogli e fogli.

  La sera, giocando a carte con la nonna che gli vuol molto bene, guadagna i soldi per comperarsi i libri prediletti: la dolce e amabile vecchia, a forza di distrazioni e di errori volontari, lo favorisce così.

  A vent’anni, il tirocinio notarile giovane è compiuto e, mentre il padre, smesso il lavoro, deve trasportare la famiglia, per ragioni economiche, da Parigi a Villeparisis, Onorato rimane alla capitale. Gli si propone un impiego presso un amico notaio solo e ricco il quale gli cederà, a suo tempo, lo studio; ma il giovane a tale proposta si ribella: non vuol più saperne di notai e d’avvocati; sorge lui prepotente il bisogno di darsi alla letteratura: poesia, teatro e giornalismo lo attraggono con fascino invincibile. Questo fascino gli dà la forza di lottare con tutti i parenti.

  Dopo una burrascosa e lunga discussione familiare la volontà del giovine ha il sopravvento sull’indignazione paterna e sul sarcasmo materno senza tenerezza nè comprensione.

  Egli ottiene di dedicarsi alla letteratura, per un periodo di prova: due anni, durante i quali rimarrà solo Parigi e si vedrà se le sue ambizioni letterarie, sono giustificate; però, non deve farsi notare dai conoscenti, ai quali i parenti diranno che Onorato è in campagna presso un cugino, per rimettersi da un’indisposizione. La professione di letterato avrebbe, secondo la madre Balzac, intaccata la reputazione di tutta la famiglia!

 

***

 

  In una cameretta della via Lesdiguères il Balzac iniziò la sua vita letteraria. Dopo molti tentativi, egli risolse di scrivere una tragedia su Cromwell. Vi dedicò tutto l’inverno: mal difeso dal freddo, facendo vita ritiratissima, disponendo di un modestissimo assegno paterno.

  Finita la tragedia il Balzac, per intromissione dei parenti, la sottopose giudizio di un letterato, il quale decretò che egli avrebbe potuto impiegar meglio il suo tempo. Il primo anno della prova concessa al giovane dalla famiglia si concludeva, dunque, con una delusione amarissima!

  Il 1° settembre 1821, il matrimonio della sorella Laurence con De-Montzaigle, indusse il padre a mettere la particella nobiliare avanti al nome e così la famiglia divenne De-Balzac. Erroneamente si crede, in generale, che tale cambiamento sia stato voluto Onorato.

  Intanto il giovane letterato pensa al romanzo, genere allora favorito dal pubblico, a tinte fosche, grossolane, complicate, e, nel 1822, pubblica «L’heritière de Birague» romanzo storico popolato di spettri e d’assassini; e «Jean-Louis» o «La fille trouvée», tutto voli e sentimentalità.

  Il pubblico è soddisfatto, ma il giovane scrive alla sorella che «conscio delle proprie forze è addolorato di sacrificare il fiore delle sue idee a delle assurdità».

  I primi romanzi portano lo pseudonimo di «Lord R’Hoone», e più tardi «Le Centenaire» e «Le Vicaire des Ardennes», quello di «Horace de Saint-Aubin».

 

***

 

  Nel 1822 il giovane, a Villaparisis. conobbe un’amica di famiglia: Laura Luisa Antonietta de Berny, figlia di un arpista di Maria Antonietta e sposa ad un consigliere di Corte. A 45 anni, la de Berny, conserva ancora la tenera sentimentalità che la sua nascita e la vita romantica, nonostante la freddezza del marito e numerosi figli, avevano impressa al suo carattere.

  La tenerezza un poco materna, la confidenza, la comprensione che questa donna ha per il giovane letterato sono tali che egli la ama profondamente e, per 14 anni, cioè fino alla morte di lei, i loro rapporti saranno benefici al giovane.

  Nell’amore della De Berny egli troverà l’incoraggiamento e la fede necessari a perseverare e ad affermarsi nell’arte, a risollevarsi da passeggere delusioni, a concretare sogni e propositi.

  Per accrescere gli scarsi guadagni, con l’aiuto finanziario della sua «Dilecta» (la De Berny), il Balzac comperò una stamperia a Parigi e più tardi una fonderia di caratteri. Le due imprese andarono male e iniziarono la serie di debiti insanabili che, per tutta l’esistenza, egli trascinò: divoratori dei frutti anche assai lauti della sua opera di romanziere.

  Laboriosissimo, ingenuo, entusiasta, il Balzac affrontò le difficoltà più svariate e complicate, le vinse o le dimenticò, per arrivare, alcune volte attraverso veri eroismi letterari, a quella rappresentazione della società contemporanea che, appassionandolo, fu la sua gloria.

  Concentrata la sua attenzione su Sterne, Walter Scott, Fenimore Cooper, il Balzac, nel 1829, pubblica il primo romanzo degno di lui: «Les Chouans». Da questo lavoro appare lo studio profondo dei caratteri, moventi, interessi personali, mescolati alla lotta politica, nel momento storico della rivoluzione francese, che lo avvicina alle scene dell’età sua.

  In breve tempo, attraverso studî sempre più profondi di psicologia d’ambiente, il Balzac darà alle stampe romanzi come «La vendette» (sic), «Gobseck», «Le chef d’oeuvre inconnu», «Le colonel Chabert», «Le curé de Tours»; attraverso prove di una fantasia singolarmente vivace, soffusa di superstizione e di misticismo, «Le (sic) peau de chagrin», «Louis Lambert»: e s’innalzerà ai capolavori quali «Le medicien (sic) de campagne», «Eugène (sic) Grandet», «Le père Goriot». Negli ultimi due campeggiano le passioni violente, dominatrici, deliranti del vecchio Grandet e di Goriot: l’avarizia del primo e l’amor paterno del secondo. E’ notevole osservare, per capire la passione artistica del Balzac, che le due passioni sono trattate allo stesso modo. Nel vizio dell’avaro Grandet c’è una pietosa e terribile grandezza, come nella dedizione del padre alle figlie colpevoli c’è il motivo cui la coscienza la dignità di Goriot vengono ottenebrate.

  Il Balzac vuol essere l’osservatore acutissimo e il pittore della vita suo tempo, per cui, intorno alle passioni eterne dell’uomo, che fanno da centro ai suoi romanzi, assumendo piena e forte drammaticità, la vita si svolge nei suoi più minuti e realistici particolari di costumi, di ambienti e oggetti consueti. Egli ha già vagheggiato di riunire in una più vasta trama i suoi romanzi, per abbracciare in un solo ciclo tutte le classi, le condizioni, le apparenze della società contemporanea.

  Nel 1830 pubblica un gruppo di sei racconti «Scènes de la vie privée», ai quali aggiunge, due anni dopo, una più ampia raccolta.

  Nel 1833, scrivendo alla sorella, manifesta il proposito di collegare tra loro tutti i personaggi dei suoi lavori per formare «una società completa» alla quale vorrebbe dare il titolo di «Études de moeurs au XIX siècle».

  Tra il 1834 e il ’37 esce infatti questa raccolta, ripartita in «Scènes de vie privée», «Scènes de la vie de province», «Scènes de la vie parisienne», a cui s’accompagna una serie di «Contes et romans philosophiques» in seguito «Études philosophiques».

  Del vasto orizzonte in cui spazia la fantasia del grande scrittore egli non è ancora soddisfatto e vagheggia un ciclo ancor più vasto sotto il titolo di «Études sociales», ma nel 1841, su uno spunto datogli da Augusto de Belloy reduce dall’Italia, si ferma sul titolo «La comédie humaine».

  Molti anni prima il Balzac, nella prima redazione della «Fille aux yeux d’or», aveva scritto:

  — Parigi, inferno che un giorno avrà forse il suo Dante. —

  La «Comédie Humaine», in sedici volumi, assorbe le due serie di «Études de moeurs e Philosophiques», insieme con le nuove opere composte dal romanziere, quasi ad indicare la vastità del suo ciclo moderno di fronte alla «Divina Commedia».

 

***

 

  Nel «Père Goriot» si presentano alcuni personaggi destinati a grandeggiare nella «Comédie Humaine» come Rastignac, gentiluomo povero e ambizioso che, giunto dalla provincia, si fa scaltro nell’alta società parigina fino a diventarne il dominatore elegante e spregiudicato; Vautrin, galeotto evaso, maestro nelle più impensate metamorfosi sociali, ricco di smisurate energie, che finisce poliziotto. Le figlie Goriot, sposate, si collegano a nuove famiglie e a nuove figure che il Balzac richiama dall’uno all’altro romanzo, in modo da dare l’illusione di persone già note, che tornano alla nostra memoria coi tratti già conosciuti e definiti, per agire in una vastissima azione.

  I grandi personaggi del Balzac sono tutti radicati in un fenomeno sociale e ne rivelano una crisi interessantissima.

  Tutte le condizioni sociali sono scrutate dal Balzac, col suo occhio magistralmente profondo, per scoprire i germi distruttori delle passioni e atteggiarne gli sviluppi con osservazioni adeguate ai singoli ambienti.

  Passa in rassegna tutta una schiera di uomini politici, di banchieri, di usurai d’ogni risma, di giornalisti, di medici, d’artisti, d’avvocati, d’impiegati, di piccoli borghesi, di contadini.

  Con le varie classi il Balzac passa in rassegna le varie regioni della Francia, con speciale curiosità per la vita di provincia, cui fa contrasto il fascino della vita parigina.

  Egli nutrì sempre grande interesse ai retroscena della vita politica.

  Tentò anche il teatro con minor fortuna: il suo primo dramma e il più importante, «Mercadet l’affarista», abbozzato nel ’838, venne rappresentato nel 1851, dopo la morte dell’autore, ritoccato dal D’Ennery.

 

***

 

  Dal 1830 in poi la vita dell’uomo si confonde, quasi interamente, con la vita dell’artista. Nell’immaginazione, più che nella realtà, si svolgono le sue grandi imprese finanziarie.

  Il Balzac, nel 1835, pensò alla vita politica e desiderò la deputazione, mi non riuscì nel proposito. Aspirò all’Accademia Francese, ma non venne accolto nell’alto consesso, perché il romanzo (suo lavoro prevalente) non era considerato allora un genere abbastanza serio ed elevato.

  Immerso, come perduto, nel lavoro colossale, molte volte nascosto per sfuggire ai creditori, non s’accorge che il lavoro lo uccide.

  Werdet, editore di Balzac per anni, parla di lui così: «Il Balzac dorme dalle otto della sera alle due mattino, lavora dalle due alle sei, dalle sei alle otto prende il bagno e una leggera colazione; dallo otto alle nove riceve il suo editore, riprende il lavoro fino a mezzogiorno, fa colazione fino all’una, lavora ancora dall’una alle sei, poi consacra due ore alle visite e al pranzo».

  Questa intensa vita è quasi consueta dai trent’anni fino alla morte, poiché la sua opera è copiosissima.

  Avido di sfarzo e di grandezze, in antitesi con i modesti mezzi di cui dispone, è sovente oberato di debiti; coltiva poche amicizie fra gli scrittori romantici.

  Hugo, la Sand, Gautier gli vollero bene e riconobbero in lui elementi di simpatia.

 

***

 

  L’aspetto fisico del Balzac è interessantissimo, se molti scrittori contemporanei ne hanno sentito un fascino immenso.

  Sophie Koslofska scrive:

  «Non si può definire il Balzac un bell’uomo, perché è piccolo, grasso, rotondo, panciuto; ha larghe spalle e una grossa testa. Il suo naso è grosso e dà l’impressione di una gomma elastica; ha larghe narici, ma la bocca è bellissima, nonostante scarseggi di denti. I capelli sono nerissimi, mescolati a fili bianchi. Ma la vera bellezza del Balzac sta negli occhi: c’è in questi occhi nerissimi un fuoco, un’espressione così forte e strana che guardandolo vien fatto di esclamare che vi sono poche teste così belle!».

  Gabriel Nichard dice, a proposito degli occhi di Balzac:

  «Le sue pupille brillano di fuoco inestinguibile, ricordano l’occhio di aquila che i vecchi soldati dell’impero vedevano in Napoleone il Grande».

  Il Balzac ebbe sincere e oneste amicizie femminili: oltre la signora De Berny, che l’amò e l’aiutò molto, ebbe una relazione intellettuale benefica con Zulma Carraud, donna superiore, le cui lettere al Balzac si leggono con ammirazione sempre crescente. L’affezione profonda che la Carraud nutrì verso il grande romanziere non deviò mai nella sentimentalità.

  Segue ad essa qualche idillio aristocratico, come quello con la marchesa de Castries, idillio di cui la Carraud soffrì moltissimo, traendone vendetta con l’arte sua.

  La «Duchessa di Langeais» allude alla Castries.

 Il 28 febbraio del 1832 (cioè per una strana coincidenza, il giorno in cui conobbe la Castries), il Balzac ricevette una lettera firmata «L’étrangère», proveniente da Odessa. Per lungo tempo la straniera continuò a scrivere, interessando il Balzac per il profondo senso critico che ella manifestava.

  Nel dicembre dello stesso anno ella chiede una parola di risposta per mezzo del giornale «Quotidienne».

  Il Balzac risponde, involontario inventore della corrispondenza sentimentale a mezzo dei giornali!

  La straniera si manifesta: è una gran dama polacca, la contessa Èva Hanska maritata ad un gentiluomo polacco, col quale vive in Ucraina.

  Il capolavoro «Le medicin (sic) de campagne» risente l’influenza dell’«Imitazione di Cristo» che l’amica straniera ha inviato in dono al romanziere.

  Tra i due la corrispondenza è continua e intensa. Il Balzac vede la dama per la prima volta in Isvizzera nel 1833, la rivede a Vienna nel ’35 e più frequentemente dal ’43 in poi, quando ella, già vedova, passa dall’una all’altra città d’Europa.

  Il Balzac vagheggia le nozze con la Hanska, ma ella protrae sempre l’avvenimento, per la pressione contraria che i di lei parenti fanno a questo legame.

  Nel 1847 il romanziere la raggiunge io Ucraina e due anni dopo di nuovo la raggiunge in pessime condizioni di salute.

  L’assistenza che la signora fa al povero innamorato malato è commovente e, quando vede che nessuna speranza di miglioramento dà il cuore malato di lui, ella vuole accontentarlo Il 15 marzo del 1850 un vescovo di Jitomir, benedice le nozze di Balzac con la contessa Èva Hanska.

  Gli sposi si accingono a tornare in Francia, ma il viaggio aggrava le condizioni cardiache del grande scrittore. Pochi giorni dopo il ritorno, egli si mette a letto per non rialzarsi più.

  Il 20 (sic) agosto del 1850 il gran cuore di Onorato Balzac, troppo stanco dal lavoro eccessivo, cessava di battere

  Un corteo immenso seguiva, il giorno dopo, verso il «Père-Lachaise» le spoglie mortali di quello che fu ed è tra gli immortali genî dell’arte.

  Il Balzac conobbe l’Italia: fu in diverse riprese a Torino, a Genova Milano, dove frequentò il salotto la Contessa Maffei, a Venezia, a Roma con la Hanska; visitò la Sardegna dove una miniera d’argento aveva attratta l’attenzione del suo spirito affaristico; studiò il Rinascimento nostro, sedotto dalle sue bellezze più che non lo fosse da ogni altra epoca della storia d’Italia.



  AA.VV., Inno alla Morte. Pensieri d’Iniziati, di Grandi Maestri, di Apostooi, di Filosofi, di Poeti ... di eroici affermatori dell’invisibile, «Mondo Occulto. Rivista iniziatica esoterico-spiritica», Napoli, Anno XVII, Num. 1, 31 Gennaio 1937, pp. 1-6.

 

  p. 6. ... Addio granito, tu diventerai fiore, addio fiore, tu diventerai colomba; addio colomba, tu diventerai donna; addio donna, tu diventerai dolore; addio uomo tu diventerai Fede; addio voi che diventerete tutto: Amore e Preghiera (dal romanzo «Séraphita») Balzac.

 

 

  F. A., Corriere dei teatri. Le prime alla Scala. Il “Mosè” di Rossini in serata di gala, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 87, 11 aprile 1937, p. 6.

 

  Non a caso le edizioni del Mosè di Rossini furono due, compiute dall’autore a distanza di nove anni con sorprendente ricchezza di aggiunte, soppressioni e spostamenti, da far rizzare il pelo alla logica rigorosamente estetica; ma neppure a caso, va detto per la verità storica, il dramma sacro sollevò un coro di approvazioni tra i musicisti dell’epoca rossiniana, inducendo a occuparsene con entusiasmo perfino alcuni colossi della filosofia e della letteratura ottocentesca, da Stendhal a Balzac a Mazzini.

 

 

  F. A., Corriere dei teatri. Prime alla Scala. […] “Madonna Imperia” di Alfano, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 99, 27 aprile 1937, p. 5 e p. 6.

 

  Di tutt’altro contenuto, drammatico e sonoro, era invece la commedia musicale in un atto Madonna Imperia di Franco Alfano, pure rappresentata ieri sera, per la prima volta a Milano, successivamente al Notturno di Pick-Mangiagalli. Il libretto, com’è stato qui avvertito, fu tratto da Arturo Rossato da uno dei Contes drolatiques di Onorato Balzac, del quale in verità è apparso completamente tra sformato lo spirito caustico, deviato l’intendimento satirico, gravemente alterato il carattere dei personaggi principali. Per dire di Madonna Imperia, che Balzac raffigurava quale una cortigiana scaltra e spregiudicata, e di Filippo Mala che il racconto dipinge finto sciocco e vero astuto, salta subito agli occhi la metamorfosi psicologica che il Rossato fa loro subire nel libretto, ove la prima appare una romantica creatura assetata di sogni e di poesia domestica, e il secondo un ingenuo e poco men che eroico e ornatissimo menestrello. Inoltre è scomparsa ogni traccia degli alti prelati, sostituiti da tronfi e sciocchi statisti, è eliminato il contrasto fra l’atmosfera da Concilio e il profumo della tavola e dell’alcova, è sensibilmente immiserito l’elemento originale, e sia pure audace, della franca comicità, per lasciare il posto a un certo equivoco sentimentalismo che d’altra parte fa a cazzotti con le finezze letterarie e con l’arguzia dell’«arrubinato» stile del Rossato.

  Il parziale sacrificio del racconto balzachiano era forse inevitabile, dovendosi trasferire l’argomento dalla prosa narrativa alla commedia verseggiata; è sembrato poi opportunissimo se considerato in vantaggio della rappresentazione scenica e anche più del commento musicale di Franco Alfano, per la cui nota sensibilità artistica, calda e vibrante, le modificazioni apportate da Rossato al soggetto originale sono apparse convenienti. […].

 

 

  Corrado Alvaro, Nuovo romanticismo, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 125, 27 Maggio 1937, p. 3.

 

  Gli artisti immaginarono dunque una specie di sopramondo nel mondo quotidiano e imperniarono in personaggi le forze oscure che agiscono nella società Pensiamo alla Parigi dei libri di Balzac, alla Pietroburgo di Dostoievski, perfino alla Roma di D’Annunzio. E agli scenari nati dalla fantasia di questi scrittori, ai personaggi che li animano: gli eroi di romanzo.

 

 

  G.[iovan] B.[attista] Angioletti, Quando Balzac cercava l’argento in Sardegna, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 191, 12 agosto 1937, p. 3.

 

  L’êra romantica delle avventure minerarie è ormai tramontata; specialmente in Italia, non ci si affida ai visionari e agli affaristi, ma ai tecnici e agli esperti.

 

  Il 2 aprile 1838 salpava da Ajaccio, diretta ad Alghero, una barca corallifera che portava uno strano viaggiatore, grosso e pallido, accigliato, impaziente, provvisto di scarsissimo danaro: Honoré de Balzac, partito per la sua «expédition en Sardaigne» alla ricerca del vello d’oro. Il vello d’oro erano le miniere dell’Argentiera, sulle quali il romanziere, ormai più assetato di ricchezze che non di gloria, fondava tutte le sue speranze per liberarsi dall’eterno assedio dei creditori e procurarsi finalmente i mezzi per vivere da gran signore. Valendosi di notizie avute da un certo Giuseppe Pezzi negoziante a Genova, e delle indicazioni del signor Carnaud (sic), direttore della Scuola Militare di Saint-Cyr, lo scrittore francese riteneva che i Romani e i cercatori del Medio Evo avessero lasciato all’Argentiera una grande quantità di scorie che dovevano contenere ancora parecchio argento. Queste vaghe informazioni, e la certezza che Carnaud possedesse «il segreto di cavar l’oro, senza grandi spese, da qualsiasi materia nella quale fosse mescolato», accesero tanto l’immaginazione dello sfortunato homme d’affaires, da indurlo a partire con lo stesso animo e gli stessi mezzi con i quali i primi cercatori d’oro affrontavano le solitudini dell’Alaska. «Non arrischio — scriveva alla sua amica signora Hanska — che un mese di tempo e cinquecento franchi, contro una bella e grande ricchezza».

 

Le bizze del pioniere.

 

  Balzac arrivò dunque con la sua fragile barca, disfatto dal mal di mare, nel piccolo porto d’Alghero, in prossimità della fascinosa Argentiera. Ma proprio ad Alghero cominciarono i guai. Il governatore della città, Don Andrea Cugia, gli impose, come in quei tempi imponeva a tutti i viaggiatori provenienti dalla Francia, una quarantena di cinque giorni, e impedì a lui e al suo gramo equipaggio di accostarsi alla banchina. Balzac si infuriò, tempestò, sballottato dalle onde e sempre più straziato dal mal di mare, tentò perfino un colpo di mano, un giorno che il vento minacciava di sospingerlo al largo, ordinando a un marinalo di gettarsi in acqua e legare l’imbarcazione a un anello infisso su una gettata. Ma Don Cugia vegliava, fece tagliare prontamente il canapo, e il povero romanziere, più che mai invelenito, dovette tornare a soffrire tutti i suoi tormenti fino al termine della quarantena.

  Ottenuto finalmente il permesso di sbarcare, Balzac arriva all’agognata Argentiera; esamina le scorie, se ne entusiasma e riprende, con rinnovato ottimismo, a sognar milioni sotto il gran cielo indifferente e tra le colline riarse donde non veniva una voce nè un segno di vita. Monta a cavallo, trotta per quaranta chilometri senza riprender fiato fino a Sassari, e di lì con una diligenza attraversa tutta l’isola per arrivare a Cagliari, dove contava forse di fondare la sua brava società di exploitation. Ma nel frattempo il Pezzi di Genova, che agiva per proprio conto e con più pratici sistemi, aveva ottenuto dal Governo piemontese il permesso di esplorazione dell’Argentiera; e con l’aiuto di esperti marsigliesi aveva assodato che dalle scorie si poteva estrarre il dieci per cento di piombo, e da questo il dieci per cento d’argento. L’affaire, ad ogni modo, restava legalmente in mani sue.

  La «spedizione», durata una cinquantina di giorni, naufragò dunque miseramente. E Balzac dovette tornarsene a Parigi, sfinito, senza più un soldo, probabilmente più indebitato di prima; e pieno di ingiusto rancore contro l’isola nella quale il suo scarso senso pratico gli aveva fatto incontrare i peg­giori disagi e le più amare delusioni. Giunse a paragonare la Sardegna alla Polinesia e — come scrive l’ottimo storico Dionigi Scano che raccolse preziose notizie intorno a quel viaggio — narrò di aver attraversato foreste vergini, di aver visto uomini e donne nudi ammucchiati dentro misere tane, di aver assistito alla fabbricazione di pane fatto con ghiande e argilla; e fra tante altre corbellerie di questo genere, non si peritò neppure di chiamare sauvages gli abitanti di Alghero, i quali gli avevano impedito di sbarcare per misure profilattiche più che giustificate in quegli anni.

  Lasciando da parte questi sfoghi malevoli bisogna riconoscere che Balzac, nel suo viaggio all’Argentiera. aveva avuto in origine una buona idea. Vent’anni dopo, infatti, il patriota Enrico Serpieri, associato con una ditta di Marsiglia, dimostrò che la fondita delle scorie poteva dare davvero ottimi risultati; e iniziò a Domusnovas, presso Iglesias, uno sfruttamento che può essere considerato come l’inizio della «ripresa» mineraria che oggi ha assunto in Sardegna proporzioni tanto grandiose.

  Balzac fu dunque un precursore; e, come quasi tutti i precursori, dominato più dalla visione chimerica del risultato che non dalla conoscenza dei mezzi atti a raggiungerlo. La sfortunata impresa balzacchiana nacque da un’intuizione feconda, alla quale mancò il freno della freddezza calcolatrice. Con cinquecento franchi di capitale, gran parte dei quali già spesi prima d'arrivare sul posto, lo scrittore s’illudeva di poter iniziare lo sfruttamento industriale di una miniera abbandonata in una isola dove le comunicazioni erano più che difficili, i rapporti sociali complicati, la mano d’opera ancora inadatta a quel lavoro. Anche questa è una caratteristica degli uomini immaginosi, esser sicuri che una buona idea vale di per sè stessa, è una calamita che attira il danaro, così come un buon libro dovrebbe attirare i lettori. Infatti Balzac iniziava quasi tutte le sue imprese affaristiche proprio come iniziava un romanzo: con il solo ausilio della sua fantasia. E questo è il lato più commovente della sua vita angosciata, il suo più autentico tratto poetico.

  L’èra romantica delle ricerche minerarie, così bene caratterizzata dall’avventura di Balzac, è ormai tramontata. Specialmente in Italia, non si tratta tanto di scoprire quanto di saper sfruttare il già scoperto, non si tratta di affidarsi ai visionari e agli affaristi ma ai tecnici e agli esperti. Non solo, ma al cercatore isolato, che tutto osava per crearsi una ricchezza a suo uso esclusivo, si è sostituita l’azienda industriale vigilata dallo Stato, la quale deve prudentemente operare nell’interesse di tutto il Paese.

 

Il piombo dell’Argentiera.

 

  Dove Balzac sognava di trasformare la galena in begli scudi sonanti per tacitare i suoi creditori e possedere carrozze e cavalli di lusso, in quella stessa Argentiera oggi una impresa perfettamente attrezzata cava ogni giorno tonnellate di piombo e chilogrammi d’argento che vanno ad accrescere il patrimonio nazionale. […].

  Un’altra cosa alla quale Balzac non pensava soverchiamente sono le condizioni di vita dei minatori. Non per colpa sua, ma perché l’epoca crudamente borghese nella quale viveva tendeva troppo ai grossi guadagni per preoccuparsi dei mezzi con i quali ottenerli. Con l’istinto dell’homme d’affaires, tutto intento alle fluttuazioni dei valori in borsa, forse neppure lui, che pure aveva un gran cuore, si sarebbe mai dato eccessivo pensiero dei rischi anche mortali affrontati dagli operai purché quei valori continuassero a salire. Una volta fondata la sua società, Balzac se ne sarebbe tornato a Parigi, a covarla di lontano, trasformata in cifre, in un nugolo di cifre dietro le quali sarebbero scomparsi gli uomini vivi e doloranti.

  Oggi all’Argentiera, come nelle vicine miniere di ferro della Nurra. e come in quelle di antimonio a Villasalto. di argento nativo a Baccu Arrodas, di piombo a Montevecchio e Monteponi, di stagno a Monte Mannu, di rame a Sa Duchessa e Domusnovas, di nichelio a Gonnosfanadiga, di manganese all’isola di San Pietro, in tutte le miniere sarde, un Balza redivivo si sentirebbe più interessato come scrittore che come affarista: perché l’uomo, finalmente, è in primo piano, l’uomo conta più della galena, del quarzo, della blenda. […].

  I minatori devono essere considerati un po’ come i marinai: lavoratori d’eccezione, cioè, che hanno un loro orgoglio, magari una loro spavalderia, giustificati dalla fatica e dal rischio che il loro mestiere comporta. La vecchia società ne faceva degli schiavi, legati gli uni al remo delle galere, gli altri alle catene delle miniere, e in alcune nazioni, che si considerano all’avanguardia della civiltà, essi servono ancora oggi alle varie plutocrazie più di quanto servano agli interessi collettivi. In Italia essi sanno invece che il maggior disagio e il maggior pericolo non si debbono considerare come un castigo ma come il riconoscimento della forza e dell’abnegazione. Il minatore sardo è il simbolo di una coscienza risorta: fenomeno questo che Balzac, viaggiatore irritato e lunatico, non poteva certo prevedere: ma se il suo animo fosse stato in quei giorni più sereno, egli avrebbe forse intuito che il popolo sardo aveva in sè tante virtù e tanta vera civiltà da garantire la resurrezione di quella coscienza, appena una voce gli parlasse con accento umano e fiducioso.

 

 

  Antonio Antonucci, Microscopie. Sul genere di …, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 267, 9 Novembre 1937, p. 2.

 

  Un raccontino di Alfonso Allais narra di un uomo il quale si vedeva nella veste di personaggi illustri, in seguito a un particolare momentaneo. Egli diceva, per esempio:

  «Io ... sono un tipo sul genere di Balzac. Bevo una quantità enorme di caffè».

 

 

  Arrigo Benedetti, Il Sofà delle Muse. La sorte letteraria, «Omnibus. Settimanale di attualità politica e letteraria», Roma, Anno I, N. 31, 30 Ottobre 1937, p. 7.

 

  Nella letteratura francese, Giraudoux non trova pagine che dicano con verità l’amore e la miseria; ma molte che dell’amore e della miseria danno il concetto. Più che il concetto il simbolo, diremmo: Emma Bovary e Papà Grandet sono i simboli della passione amorosa e dell’avarizia.

 

 

  V. Beonio Bocchieri, Giorni d’Australia. Discesa all’Inferno, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 249, 19 ottobre 1937, p. 3.

 

  E io penso che Balzac ha avuto un’intuizione filosofica quando descrisse l’avaro padre Grandet in uno stato d’esaltazione paranoica a cospetto dell’oro.

  Sarebbe da scrivere «Romanzo dell’oro». In tutti i Paesi del mondo gli annali più drammatici, i racconti più pittoreschi e truci aleggiano intorno al ricordo delle scoperte aurifere.

 

 

  Francesco Bernardelli, Narratori. Riccardo Bacchelli – “Iride”, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 252, 22 Ottobre 1937, p. 3.

 

  Nostalgia, aspirazione, rimpianto di un che di Ideale e alato e sognato, egli rivela qui, nell’idealissima, e pur così concreta, viva a amabile Iride, che per molte, e a tratti quasi celestiali ragioni di purezza e nobiltà, bene assomiglia a tante eroine del romanzo ottocentesco (e basti ricordare Balzac), e che è poi tutta penetrata dalla carezzevole, delicata comprensione dell’anima e dell’intimità femminile, che è propria del Bacchelli.

 

 

  Nino Cappellani, I contadini e la terra in Balzac, Zola, Verga, «Meridiano di Roma», Roma, Anno II, N. 47, 21 Novembre 1937, p. IV.

 

  Quando si considera Verga sul piano europeo, ci si limita comunemente a collocarlo tra i veristi, come seguace dogli scrittori francesi della seconda metà dell’ottocento, e si aggiunge che tra verismo francese e verismo italiano c’è soprattutto questa differenza, che il primo fu cittadino, anzi parigino, e il secondo regionale, provinciale.

  Si potrebbe fare un lungo discorso intorno all’argomento; comunque, per dimostrare che tale distinzione è imprecisa, tralasciando scrittori troppo provinciali come Mistral, Aubanel e, in un certo senso, Daudet, basta notare che, dei tre romanzieri maggiori del verismo francese, Balzac dedicò le Scene della vita di campagna e le scene della vita di provincia allo studio di ambienti non parigini; Flaubert pose l’azione di Madama Bovary in una cittadina di provincia: e Zola scrisse, sì, romanzi parigini come La Cuccagna e Il Ventre di Parigi, ma anche romanzi provinciali come Germinal e La Terra.

  Per studiare, quindi, comparativamente il Verga bisogna guardare al verismo paesano e provinciale della Francia, più che a quello parigino. Da tale studio il Verga esce ingrandito, con la statura di maestro del verismo europeo, perché resta provato che alla sua innegabile originalità di creatore, corrisponde un approfondimento di problemi e di contenuti, di cui hanno poi fatto tesoro altri autori veristi della letteratura europea.

  Le opere francesi più verghiane. sono, a mio parere, I Contadini (1835) di Balzac e La Terra (1888) di Zola. Potrebbero aggiungersi Madama Bovary di Flaubert e parecchie novelle e qualche romanzo di Maupassant: ma tra le opere di questi autori e il mondo verghiano gli accostamenti riguarderebbero più lo stile e la forma, più la misura e il tono della narrazione, che il contenuto e i problemi; ora quegli attributi dell’arte sono tanto personali e individuali che è quasi impossibile studiarli comparativamente senza cadere nell’arbitrario e nell’erroneo. Di Maupassant va notata la seguente frase: «Il realista, se è un artista, cercherà non di mostrarci la fotografia banale della vita, ma di darcene una visione più completa, più commovente, più probativa della realtà stessa»; e va ricordato che egli, come Verga, «sotto l'apparente obiettività nascondeva una concezione della vita costantemente pessimista e un metodo che faceva intervenire nella scelta degli elementi la persona dell’autore» (Prampolini).

  Narra Balzac, ne I Contadini, la storia di un ufficiale napoleonico, un generale, il conte di Montcornet, che dopo avere, al comando dei corazzieri della guardia, combattuto per lunghi anni della sua vita, si è trovato fornito del denaro necessario per comprare la grande tenuta delle Aigues. Iroso e buono, egli è dominato e guidato dalla donnina debole e delicata che è sua moglie. Il generale dei corazzieri tenta la sua avventura agricola con la mentalità dell’uomo di guerra. Il denaro versato gli dà i diritti del conquistatore; la sicurezza dei diritti gli dà la certezza della vittoria. La politica di cui si serve è quella imparata nella caserma e si basa sulla franchezza e l’autorità, su la forza e sull’encomio solenne. Intorno a lui però ogni cosa si popola di resistenza passiva e di odi soffocati; si moltiplicano gli ostacoli, si livellano si subordinano gli interessi contrari; il castello del generale si trova ben presto come uno fortezza assediata in territorio ostile. Contro la superiorità militare dell’usurpatore i contadini organizzano la guerriglia. E’ questo mondo esterno ai protagonisti che attira l’attenzione di Balzac e perciò il romanzo presenta il continuo equivoco di protagonisti che sono tali solo nella difesa, mentre intorno intorno è tutta una folla di umili che si organizza e agisce lentamente, ma inesorabile, fino alla capitolazione degli assediati e al trionfo dei «vinti». L’eroe del romanzo non è. quindi, l'eroe del campo di battaglia, ma il Gaubertin, che, prima amministratore disonesto della tenuta del generale, quando ne è scacciato, continua a nutrire per le terre lasciate un vero amore, da Mastro don Gesualdo, e, con tenacia e fortuna e intrighi degni di quest’ultimo, sa tanto bene manovrare, che infine, quando l’avversario decide di vendere le Aigues, egli ne è uno dei principali compratori.

  Nelle linee generali il romanzo ha di verghiano soltanto qualche modesto particolare. Il conte di Montcornet è un figlio del popolo, arrivato ai più alti gradi della gerarchia militare, ma questa vicenda non fa parte dell’azione del romanzo. C’è l’ascendente vittorioso del Gubertin: un eroe che combatte con la tenacia di un Malavoglia, ma non ne conosce le sconfitte. Verghiana è l’idea centrale, espressa da uno dei sottotitoli dell’opera, che «Chi ha terra ha guerra», ma è, in Balzac, una guerra che conosce una chiara sconfitta da una parte e una inequivocabile vittoria dall’altra. C’è di verghiano tutto il mondo contadinesco, con tipi inobliabili, come papà Fourchon, vecchio settantenne, che, se avesse un più largo respiro, al di sopra della spicciola furfanteria, sarebbe per sapienza popolare, per furberia, e ... per miseria un padron ‘Ntoni in sedicesimo.

  C’è già in Balzac un mondo di umili effettivamente tali. Attorno a babbo Fourchon sono diecine e diecine di contadini, bettolieri, ragazzi e ragazze della campagna, vecchie ladruncole di boschi; ma questi umili restano ancora non degni di assurgere al ruolo di veri protagonisti: danno il titolo al romanzo, ma sono protagonisti in quanto classe, non in quanto individui. L’occhio penetrantissimo dell’autore scende in mezzo a loro e, con l’acutezza del genio, vede giusto e a fondo, anche se pare che sorvoli sulle cose, e scopre segreti di questo piccolo mondo, che saranno poi ripresi e meglio espressi dall’arte dei veristi successivi. Così egli dà, in un brano del primo capitolo del suo libro, tutta una teoria sintetica del verismo: «Non aspettatevi un racconto passionale, ma la verità, che è sempre, anch’essa, un po’ drammatica. Del resto, lo storico non deve mai dimenticare che la sua missione è di dare a ciascuno quel che si merita; poveri e ricchi sono uguali innanzi alla sua penna; per lui il contadino ha la grandezza delle miserie e il ricco la ridicola grettezza; il ricco ha delle passioni e il contadino soltanto dei bisogni ed è quindi doppiamente povero». In queste parole sono i principali errori e i meriti dell’estetica verista. C’è la distinzione arbitraria tra racconti passionali, noi diremmo di immaginazione, e verità; c’è affermato il fecondo principio che non esistono contenuti poetici; c’è espressa l’opinione, che sarà di tutti i veristi, anche del nostro Verga, che il ricco abbia delle passioni e il contadino soltanto dei bisogni.

  In Balzac i contadini, «queste comparse tanto necessarie all’azione che forse non si esiterebbe a scegliere tra esse e i protagonisti». sanno di essere così bestie che con le bestie se la intendono. Hanno uno sottile astuzia, come in Verga, per cui si esprimono soprattutto con prudenti chiacchierate, in cui spesso questi umili recitano meravigliosamente una farsa, per prendere al laccio qualcuno che non sia della loro specie: la loro «moralità, che non si deve confondere con la religione», è quasi nulla perché la moralità «comincia con l’agiatezza». Se hanno dei contrasti, combattono cin tutti i mezzi e la cavalleria rusticana non rifugge dal celebre tradimento del pugno di terra che acceca l’avversario. Gli affetti sono negati a questi esseri e la coscienza che essi hanno di questa loro inferiorità, è come una chiaroveggenza filosofica, come un pessimismo diventato essenza di vita: pare di sentire la rassegnazione di comare Mena Malavoglia nelle parole di babbo Fourchon: «E’ così bestia da essere geloso: dico bestia, perché un contadino non deve sentire affetto; è un sentimento permesso ai soli ricchi». Balzac riconosce nei contadini un «machiavellismo incredibile», che spesso si esprime col «mutismo, caratteristico negli uomini rurali», perché generalmente «il contadino e il selvaggio parlano soltanto quando vogliono tendere agguati agli avversari». Per questo machiavellismo spesso, secondo Balzac, vincono proprio coloro che normalmente sono dei vinti; e difatti il romanzo di Balzac si chiude con la ritirata del prode generale dei corazzieri dinanzi a dei contadini coalizzati. La terra spezzettata, vinta, ma anche resa più bella e rigogliosa, ritorna a coloro che hanno per essa una fedeltà come nei grandi amori. Quando l’intruso, il conquistatore è partito, ecco il miracolo: «la campagna pareva il campionario d’un sarto; i contadini avevano preso possesso delle terre da vincitori. Esse erano già divise in più di mille lotti e la popolazione si era triplicata».

  E Zola? In Zola pare che le cose siano guardate al microscopio, da vicino, con osservazione tangente alla superficie loro. Pare che l’autore e il lettore affondino il loro viso in mezzo alle erbe, al grano e ai forti odori della campagna. La terra di Zola è quindi a portata di mano, non osservata dall’alto di un castello, come in Balzac. Il romanzo che porta proprio il titolo La Terra, con lungaggini e ripetizioni, narra il caso di un contadino agiato che, giunto in età avanzata, si decide a distribuire le sue terre ai suoi eredi, due figli e una figlia. Da questo momento la sua posizione cambia: egli diventa un vagabondo senza casa e senza rispetto; sta ora con l’uno ora con l’altro dei suoi figli e tutti infine lo scacciano; anche gli estranei non lo tengono più in considerazione, perché non ha più nulla del suo, e la vita è invece legata al possesso di qualche cosa. Dei tre figli, due sono personaggi secondari, ma caratteristici, nel romanzo; il terzo, Buteau, è il vero protagonista. Egli rappresenta quasi la giovinezza del padre; e la storia del padre è come la malinconia della sua vecchiaia: verrà anche lui, per questo eroe del possesso, il giorno in cui dovrà cedere il comando ad altri. Buteau, quando comincia il romanzo ha già violato Lisa, una delle due sorelle che sono le protagoniste nel campo femminile. La fecondità di questa donna è in contrasto con la selvatica resistenza all’amore della sorella Francesca. Nella divisione dei beni paterni Buteau è il più attivo. C’è in lui l’attesa della terra e della casa. Pare che egli abbia reso incinta la Lisa per cominciare a costruire la sua posizione futura. Il matrimonio però egli lo conclude quando ha la sua terra. Allora egli si procura la casa, sposando la sua donna. Senonchè la casa appartiene alla moglie, ma anche alla cognata Francesca; e da qui tutti gli sviluppi della situazione. Francesca è senza dubbio il personaggio più grande del romanzo. In un mondo di bestiali desideri e di crude verità, questa fanciulla che conosce ogni particolare della vita delle bestie e che è l'oggetto dei più lascivi desideri e dei più interessati tentativi, conserva un carattere austero, quasi di rinunzia, che dà alla sua figura un tono che, in confronto con l’ambiente che la circonda, può dirsi spirituale In lei Buteau vede la donna piacente, ma vede anche personificata della buona terra al sole e metà della casa in cui egli abita. E’ duplice quindi l’anima di quel desiderio di possesso, che lo spinge a volere la cognata fin sotto gli occhi della moglie. Ma Francesca e Giovanni, suo amante e poi marito, rappresentano l’antitesi di Buteau e Lisa. Francesca, che si nega al cognato e per lunghi anni si nega a Giovanni, anche dopo che costui l’ha posseduta, è fredda anche dopo le nozze; e Giovanni a sua volta sa attendere e rinunziare al possesso. Essi non costruiranno, quindi, mai una casa. Dal fianco di lei non uscirà il figlio. Così Zola ci dice quasi che la vita è dei Butean e vuole eroi del possesso e non rinunzie; che le vicende del mondo devono intendersi come una lotta tra coloro che amano la terra e coloro che non la amano e la vita consiste nel desiderio stesso di vita. In breve: Buteau logicamente non indietreggia neppure dinanzi al delitto, pur di realizzare la sua passione. Quando la casa gli è tolta da Francesca, e più dagli intrighi di una consigliera di Francesca, nell’atto di abbandonarla egli tra le imprecazioni sente che è temporaneo il suo allontanarsi, che egli ritornerà. Nella spartizione delle terre con Francesca il campo di questa viene a conficcarsi come un coltello in mezzo ai suoi poderi. Allora la necessità della violenza e del delitto urge nella sua mente. Il possesso della donna deve servire al possesso della cosa. Selvaggia è la scena in cui egli, aiutato dalla propria moglie, violenta Francesca in aperta campagna. Segue una zuffa fra le due sorelle e Francesca spinta da Lisa su una falce, resta ferita a morte; muore il frutto del suo seno; Giovanni perde la casa e torna ad essere per la famiglia quell’estraneo che era stato sempre anche per Francesca. Lisa e Buteau trionfano; ma tra questi due coniugi non è l’amore che stringe i rapporti. L’amore, paro che voglia dire con melanconica fantasia lo scrittore, non è possesso. L’unico personaggio veramente innamorato, sia pure inconsciamente, è infatti Francesca. Forse l’amore, secondo Zola, deve nutrirsi di rinunzia, o forse è un sentimento che è difficile avvertire in mezzo al discordante tumulto dei sensi; una realtà di cui spesso ci si accorge quando non è più possibile afferrarla. Certo è che la protagonista di questo romanzo s’accorge di amare Buteau soltanto quando nell’amplesso a cui segue la morte, mentre le sue labbra sono pronte ad offendere, il suo cuore palpita di consenso e le sue braccia si stringono all’uomo che credono di odiare.

  Così il problema del verismo, in Zola, ha più ampio, più completo e, per alcuni riguardi, più profondo svolgimento che in Balzac. Ma Verga segna a sua volta un nuovo approfondimento. La tragedia del possesso, che in Balzac è ancora vista sotto l’aspetto puramene economico, come lotta tra contadini e non contadini, e che in Zola è già bramosia di vita, a cui l’uomo sacrifica anche il proprio padre e per cui si serve come di un mezzo anche dell’amore, in Verga acquista il valore drammatico di lotta per il progresso, di ansia di arrivare più in alto, si colora della coscienza che è inane ogni tentativo ed è tanto più vinto l’uomo, in definitiva, quanto più sembra all’esterno e agli occhi degli altri un vincitore. In Verga il problema degli umili, arricchito di tutte le esperienze di un mondo prima estraneo all’indagine letteraria, tende a riconfluire nel gran mare dell’umanità. Non più antitesi di classi, contrapposizione di umili a non umili. La legge dei «vinti» abbraccia i Malavoglia e Mastro don Gesualdo, e avrebbe afferrato la Duchessa de Levra, l’Onorevole Scipioni e l’Uomo di lusso. L’umanità, nel dolore, torna ad apparire affratellata. L’uomo nudo, non siciliano, né italiano, né europeo, né ricco, né povero, ma sempre vinto e nudo perché uomo, si contorce di passione e di fame e non trova nulla nel mondo dei sensi e delle cose, che veramente lo sfami.

  Su questo problema Balzac s’affacciò con la fuggente passione d’un giornalista. Ci sono infatti ne I Contadini pagine notevoli di ambiente borghese e provinciale; ci sono frasi da critico, come là dove l’autore afferma che «il romanziere deve rendere tutto probabile, anche il vero», o là dove parla della «tavola anatomica dello studio dei costumi»; c’è insomma una varietà che molto contribuisce indubbiamente a rendere leggibile il romanzo e in generale opere di Balzac; ma da tutto traspare un senso di fretta e di provvisorio. Certo il problema intimo del possesso non sfuggì a Balzac, almeno in altre occasioni, come nella Pelle di Zigrino, là dove il mito della pelle misteriosa, che dava al possessore, Raffaello de Valentin, ogni potere, ma si raccorciava ad ogni desiderio appagato è, come l'autore stesso dichiara in una sua pagina acuta, il simbolo del grande mistero della via umana: «Il volere ci brucia e il potere ci consuma».

  In Zola il mondo degli umili ha un’anima patologica, per cui par che la vita stessa sia una malattia o un delitto; ma quasi tutto è così, ed è, quindi, superata l’antitesi romantica della società divisa in buoni o cattivi. Ma egli ha dimenticato l’insegnamento balzacchiano, che il romanziere deve rendere tutto probabile, anche il vero. Egli si trova nelle estreme posizioni del verismo. In Balzac c’è ancora, per un verista, troppo cultura e troppe notizie apprese dai libri, piuttosto che dalla vita; in Zola pare irreale la mancanza di una vita meno fosca e sanguinosa.

  Al confronto risalto la superiorità, come artista, del nostro Verga, che è ugualmente distante da Balzac e da Zola, più concreto e profondo del primo, meno brutale e unilaterale del secondo, nel ritrarre gli umili. Gli eroi del mondo verghiano sono chiusi nella loro taciturna tragedia: ma essi non hanno soltanto istinti: la loro elementarità è essenzialità. Non sanno mascherare e travestire i loro bisogni, facendone delle passioni; non sanno subire con apparente decoro la sconfitta; mostrano le piaghe della loro tragedia. Le loro passioni sono più semplici, ma non diverse da quelle degli eroi maggiori; Padron ‘Ntoni e Mastro don Gesualdo sono fratelli di Napoleone a S. Elena. Per questo il tono generale del mondo verghiano, pur essendo molto più tragico e pessimista anche di quello zoliano, è più sereno, più animato da un palpito universale e, quindi, più vicino alla grandissima arte. Zola sa descrivere nella monotonia «di piani uniformi fino a perdita d’occhio un oceano di terra immobile» alla maniera di Bojer; sa che «la terra uno non se la porta via quando se ne va»; sa vedere in questa passione quello che c’è di «sentimentale, di intellettuale; per così dire»; sa che la terra è diversa dal «pane, che si consuma mangiandolo»: ma non ha scritto pagine alee e nobilissime come quelle in cui la Mena rinunzia alle nozze con compare Alfio Mosca, o quelle altre dell’addio di Diodata a Mastro don Gesualdo o della morte di costui, solo e abbandonato nel freddo palazzo del duca de Leyra. Sarebbe facile stabilire tanti altri confronti tra l’opera dei due artisti e sovrattutto sarebbe da studiare «Germinal». il poema dei minatori del nord, che ha evidenti caratteri verghiani ed è vicino, anche nella tela generale, all’ultimo romanzo del Verga «Dal tuo al mio». E, per quanto riguarda Balzac, sarebbe possibile qualche utile raffronto tra gli eroi verghiani e un papà Goriot o un papà Grandet. Ma. evidentemente, le relazioni non subirebbero notevoli modifiche dal come io le ho prospettate.

  Verga ereditò più o meno consapevolmente. quanto di meglio e di più umano c’era nell’esperienza romantica e seppe immergerlo, come in un lavacro, nel realismo dei nuovi tempi, senza sciuparne la poeticità o tradirne l’ansia.

 

 

  Bruno Cassinelli, La pazzia nell’arte. I documenti umani, in Storia della pazzia. Seconda edizione riveduta, Milano, Edizioni Corbaccio, 1937 (1936), pp. 275-318.

 

  p. 275. Balzac fu il primo a fare, del romanzo, secondo la sua formula, la storia naturale dell’uomo civilizzato; Zola — meno filosofo e più microscopista — arrivò alla storia naturale e sociale di una famiglia del secondo Impero, innestando il suo naturalismo sulla teoria scientifica del determinismo. Abolizione dell’elemento romanzesco, abolizione dell’eroe; non forze soprannaturali, ma naturali, non più rivelazione, ma evoluzione. L’intreccio è affidato al giuoco delle cellule e dei precedenti fisiologici.

  Tra Onorato Balzac ed Emilio Zola sta Gustavo Flaubert con le tenerezze ammalate della degenerazione morale di M.me Bovary.

 

  pp. 284-285. Balzac stampa nelle «fronti sfuggenti», nel «volto di faina» e nelle «mascelle tozze», il conio dell’anima criminale. Per Balzac il volto umano era una volontà pietrificata; per questo amore per la fisionomia simpatizzava con la dottrina topografica delle facoltà cerebrali (Gall e Lavater). Affermava di ravvisare in ciascuno la fisionomia di un animale. Precorrendo la scuola italiana positiva, questo grande patologo della vita sociale si domanda: «Il delitto e la follia hanno somiglianza fra di loro?».

  Nella Fanciulla dagli occhi d’oro Balzac ha descritto l’omosessuale omicida; l’avaro sadico in Eugenia Grandet; l’ambizioso imbecille in Cesare Birotteau; il monomaniaco geniale nel Capolavoro sconosciuto. Con Papà Goriot portò in altro campo il shakespeariano tormento di Lear; nel Giglio nella valle rappresento il dramma dell’amore platonico che si trasforma in una specie di ermafroditismo morale. Desplein, lo studente in medicina; Rastignac, l’ambizioso brutale e subdolo; Louis Lambert, il filosofo, Bridau, il pittore; Rubempré, il giornalista: tutti borghesi più tragici dei personaggi della tragedia perché — ammalati nei nervi e nei pensieri — si concentrano in una sola idea, assorbendo in una sola passione tutti i succhi destinati agli altri sentimenti (Zweig).

  Nel pensiero di Vautrin ribolle l’alcool di tutte le vendemmie sanguinarie: «Non vi sono principi, ma fatti; la corruzione è una forza; l’onestà è possibile se i bisogni e i nervi la permettono». La sua formula mentale è quella del criminale: «per me uccidere è una bella partita». L’insensibilità fisica di questo Vautrin — descritto «tozzo, quadrato, con le falangi fitte di pelo rosso» — è tale che può cambiarsi i connotati del viso con reagenti chimici.

  Ben duemila personaggi — con genealogia precisa e più precisa biografia — si agitano nell’opera di Balzac. «Colombo e Ariosto di una selva di carne umana». Per la sua opera il romanzo divenne il più grande magazzino di documenti umani, da Shakespeare in poi; e con lui — meteorologo delle correnti sociali e alchimista delle passioni — comincia l’idea del romanzo quale enciclopedia del mondo interiore (Taine).

  Mentre Balzac chiedeva alla psichiatria, che allora con Pinel cominciava ad affermarsi, i caratteri dei suoi personaggi, sorgeva, in Francia con Victor Hugo, in Inghilterra con Dickens, in Italia con Manzoni, l’aurora romantica. Tutti e tre hanno descritto la triplice categoria dei delinquenti occasionali, nati e passionali, ma Dickens ha trattato il pazzo.

  p. 305. Balzac in «Vautrin» descrive un egual procedimento: «Creare delle necessità terribili, scavare la mina, riempirla di polvere, e, nel momento critico, dire al complice: fai un cenno di testa, tutto va in aria».



  Lucio D’Ambra, Balzac o la Commedia a cinque mani, commedia in tre atti, 1937.

 

 

  Lucio D’Ambra, Trilogia romantica. Conversazioni di mezzanotte. Romanzo, A. Mondadori, 1937.

 

  p. 131. Da ora – e il 1932, - quattordici anni … E sono, oramai, uno più di quaranta. L’età alla quale Balzac già da dieci anni aveva sepolto le donne …

  Beffa a parte, Rosalba è bellissima. Balzac ha torto […].

 

 

  Lucio d’Ambra, 20 Marzo, in AA.VV., Almanacco dei Visacci. Calendario letterario-artistico-gastronomico-agricolo-religioso-storico-biografico-umoristico. Sotto gli auspici del Sindacato fiorentino Autori e Scrittori, Firenze, Vallecchi Editore, 1937-XV, p. 190.

 

  S. Claudia vergine.

 

  Nasce Balzac (sic). E da quarant’anni, su la mia tavola da lavoro, c’è una piccola festa di fiori davanti al suo piccolo ritratto. Nasce, Balzac, nel 1799, alla vigilia, cioè, del secolo decimonono che s’empirà della sua gloria. Nasce Balzac, il 20 marzo alla vigilia, cioè, di quella che sarà, per opera sua, la meravigliosa primavera del romanzo moderno.

 

 

  Lucio d’Ambra, I Rubens di carta, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 170, 19 luglio 1937, p. 3.

 

  In fondo è bene che di Balzac sia scomparsa, nelle demolizioni del barone Haussmann, la casa dov’è morto, e che ci sia rimasta, invece, quella dove per dieci anni visse e lavorò. Nella casa di lusso della rue Fortunée, per il grande romanziere così sfortunata, abitò per tre mesi — tre mesi sognati da trent’anni — un Balzac già malato di cuore, ricco finalmente grazie a sua moglie, un Balzac che non poteva più lavorare. Sotto l’oscuro presagio della sua morte a cinquant’anni egli entrò, tornando da due anni d’amoroso esilio in Russia presso madame Hanska, in quella casa adorata e maledetta e, nella sera dell’arrivo, sinistramente illuminata da un servo pazzo senza che ci fosse nessuno. A noi è cara invece quest’altra casa della rue Basse, oggi via Raynouard, in fondo a Passy, a metà della lunga strada in salita per la collina, questo bizzarro padiglione in un giardino sepolto negli alberi fra due strade e due case baracchina di cinque stanze a un solo piano, al quale dalla via Raynouard 47 si accede scendendo, e non salendo, due rampe di scale; che in un segreto sgabuzzino mostra tuttora un passaggio segreto dal quale, per una scaletta di legno, monsieur de Balzac riusciva a prendere il largo, sbucando nell’altra via, quando uno dei mille creditori riusciva a sapere che nel signor de Breugnolles, affittuario di quella casa, si nascondeva alle persecuzioni il romanziere della «Commedia Umana».

  Perché questa dove ancóra una volta sono ritornato è la casa di monsieur de Breugnolles. Bisogna pur dare al proprio portinaio, per gli amici e la corrispondenza, un nome qualunque. Anche una casa nascondiglio non può essere anonima. Dovendo firmare il contratto col proprietario della casa, Balzac si rivolge alla propria serva: «Come vi chiamate, buona donna? — Celestina Breugnolles. — Due elle ed esse? — Due elle ed esse, sissignore ...» E Balzac firma sopra il foglio: Monsieur de Breugnolles. Ché, aristocratico com’è anche negli episodî più plebei della sua vita, consente a prendere per sé il nome della sua cuoca, ma non lascia d’aggiungervi, dal suo famoso «de Balzac», quel suo caro «de» che per lui nobilita tutto, e di cui per nulla al mondo, gli promettessero in cambio la gloria, potrebbe fare a meno.

  Caro Balzac in cerca d’un rifugio per nascondersi e lavorare! Si ficca tra gli alberi, qui in fondo a Passy, quartiere allora lontano dalla metropoli e dove i parigini più ricchi venivano a villeggiare. La finestra dello studio di Balzac si apriva su quella che era stata la casa di campagna della principessa di Lamballe. Senonché la casa di colei che doveva avere il collo reciso, poiché amica di Maria Antonietta, dalla mannaia rivoluzionaria cade in rovina. E sùbito Balzac scrive a madame Hanska, promessa sposa per circa vent’anni e moglie per tre mesi: «Ho un’idea. Non appena romanzo o teatro mi daranno il danaro necessario, comprare la casa della Lamballe, restaurarla, rimetterla su per voi, com’era sotto l’Ancien Régime. Voi vivreste lì. E io rimarrei qui, nella mia bicocca, a lavorare. Investire denari in questi terreni di Passy è ottima cosa. Un giorno, Parigi allungandosi da questa parte, varranno milioni». La palazzina, invece, finisce più tardi nelle mani di altri e, rimodernandola intorno all’ottanta, il dottor Blanche, famoso alienista, viene a mettervi la sua casa di salute. In questa casa del dottor Blanche, in una mattina di gennaio del 1890 portano dalla Costa Azzurra, con la gola tagliata in un accesso di follia suicida, Guy de Maupassant. E qui, davanti alla casa di Balzac, muore due anni dopo, senza sapere né di morire né di morir proprio qui, il grande novelliere nella sua miserabile demenza, che non ha più, nelle tenebre improvvise, un solo spiraglio di luce.

  Mi sono affacciato alla finestra dello studio di Balzac. Cent’anni quasi dalla sua morte. Cinquant’anni da quella di Maupassant. Anche il dottor Blanche è sepolto da un pezzo e la casa di salute non c’è più. Ma gente amica delle cose belle e delle sacre memorie ha ricomprato la palazzina e ha fatto quello che Balzac avrebbe voluto fare: ricostruire, nel suo stile settecentesco, la casa e il giardino della principessa di Lamballe, delizioso cantuccio fuori tempo e fuori moda, in mezzo a queste vecchie case di Passy che ora alternano alla intimità delle dimore un po’ campagnuole del tempo balzacchiano i grossi dadi tutti buchi delle maisons de rapport stile novecento. Nella piccola casa di Balzac, conservata invece così com’era, siamo in pieno milleottocentotrenta romantico, coi soffitti a travicelli, le boiseries alle pareti, i damaschi rossi nei pannelli della stanzetta dove Balzac scriveva, da lui scelti di così solida qualità che ancóra oggi son freschi. Questa è l’alta poltrona Luigi XIII dove Balzac inchiodava per intere notti la massiccia persona, lasciando correr la penna nell’improvvisazione senza riposo sopra un tavolinetto così piccolo e così fragile che stupisce vederlo preso come campo di lavoro e di battaglia da uno scrittore così grosso e così potente. Pure su questo tavolo rettangolare, che nel lato più lungo non tocca il metro, Balzac ha scritto i capolavori del secondo tempo; dalla Rabouilleuse alla Ténébreuse Affaire ed a quei miracoli di vita e di verità — «Scene della vita di famiglia» — che sono i libri dei due cugini: la Cousine Bette e il Cousin Pons. Ma le pareti oggi son piene di autografi, di ritratti, di manoscritti, d’antiche stampe, di curiosità balzacchiane. Allora erano vuote. O c’erano, sospese ai damaschi, queste cornici dorate attorno ad un foglio di carta sul quale con bella calligrafia Balzac aveva scritto: «Qui un Rubens» e «Qui un Raffaello». Ché immaginare il possesso e la presenza valeva presenza e possesso per questo grande fantastico,

  Guardo su la tavola la mano di bronzo del creatore d’uomini e di passioni riprodotta da quella che, fatta di muscoli, di sangue e di nervi, in meno di dieci anni qui scrisse, nella rue Basse, quarantadue opere tra grandi romanzi e vasti racconti. E qui lavorava, il caro grand’uomo, lottando con la volontà eroica contro il sòffoco o il gelo. Da questa tavola scrive alla contessa lontana: «Lavoro. E lavorare vuol dire, contessa cara, levarmi tutte le sere a mezzanotte, scrivere sino alle otto del mattino, senza prendere fiato; far colazione in un quarto d’ora e ricominciare, come se nulla fosse, fino alle cinque del pomeriggio. Poi mettermi a letto e domani daccapo ...» Costui, stando a tavolino ogni giorno sedici ore, un grande romanzo metteva giù in men d’un mese. D’inverno batteva i denti e sentiva rattrappirsi le dita su l’asticciuola della penna. D’estate scriveva a madame Hanska: «Lavoro con 60 gradi di calore. Ho qua dentro 15 gradi di più di quanto s’abbia al sole. Ho sotto il mio studio una lavanderia che mette carbone su carbone, come in una locomotiva, durante l’intera giornata. E sopra di me, nel solleone, ho lo zinco infuocato. Scrivo bruciando in una stufa ...». Ma sedici ore al giorno non bastano a Balzac. Occorre annientare. C’è qui la lettera a sua sorella Laura: «Gli avvenimenti precipitano sopra di me. Eccomi senza denaro, perseguitato anche da quelli che prima mi aiutavano. Dovrò lavorare, per difendermi e resistere, diciotto ore al giorno ...». Due di più. E pensa a vendere, per salvarsi almeno durante tre o quattro settimane, il Cristo di Girardou che sta sopra il caminetto: «L’ho pagato — scrive — 150 franchi. Me ne offrono 5.000. Ne voglio, con la cornice, 20.000». E il Cristo di Girardou è ancora qui, davanti a me, nella stanzetta.

  Le altre piccole stanze contano meno: qui dormiva, lì pranzava, in questo salotto riceveva. La stanza viva, la stanza sua, la stanza «nostra», è qui, in questo studio dove i busti e i ritratti, dal piccolo pastello senza firma al grande busto di Davide d’Angers, ce lo rimettono davanti vivo.

  Guardo intorno a me nella casa di Balzac, mentre la signora russa che la custodisce mi dice: «Sino a pochi mesi prima di morire, monsieur Bourget veniva sovente qui, a fine di giornata, per rivedere ancóra i manoscritti e i ricordi del grande maestro del romanzo moderno ...». Davanti a una pagina di manoscritto balzacchiano son puntati gli occhiali d’una signora inglese. Una coppia tedesca contempla, in una custodia, ciò che rimane della guardaroba di Balzac: una vecchia camicia che s’apriva dal collo e un panciotto ricavato da una vecchia veste da camera. Una signora olandese non ha occhi che per i ritratti di madame Hanska. C’è un tedesco. C’è uno spagnuolo. C’è un americano. Esco nel giardinetto dove, tra pagina e pagina, Balzac veniva a riprender fiato: giardino largo quanto un fazzoletto, dove ancóra sono gli alberi e il lillà che Balzac conobbe. Questo po’ di verde tra le case gli era sufficiente per fargli cogliere in una mattina di marzo del 1843 — c’è qui la lettera — un primo fiorellino da nulla per metterlo in una busta e scrivere a madame Hanska: «Vi mando, in mezzo alle vostre nevi, la Primavera».

 

 

  Nicola D’Aniello, Balzac, la ricchezza e l’amore. Romanzo, Milano, Edizioni del “Giornale dell’arte”, 1937, pp. 5-209.

 

  Romanzo in ventiquattro capitoli ambientato durante il soggiorno di Balzac in Sardegna nel 1838: l’atmosfera di fraterna cordialità mostrata dal popolo sardo nei confronti dello scrittore francese determina, in Balzac, un sentimento di profonda e sentita appartenenza sentimentale e letteraria nei riguardi dell’Isola, nonostante le disavventure che il romanziere dovette affrontare nel tentativo di portare a termine il suo progetto di sfruttamento delle miniere argentifere. Durante il suo soggiorno, Balzac progetta di scrivere tre romanzi di ambientazione sarda: Il Palazzo del Re Barbaro, La Figlia del sole e, in particolare, Il baratto, «un romanzo in parte autobiografico, i cui personaggi principali si chiamerebbero Nora [la bella ragazza bruna di cui lo scrittore si innamora] e Onorato» (p. 162), la cui finalità, proclama Balzac, è quella di richiamare sulla Sardegna «l’attenzione del mondo» (p. 207) per «risollevare le sorti» (p. 209) di quell’isola taciturna.



  Lionello Fiumi, I contributi storici e letterari di F. Gentili di Giuseppe, «Le Opere e i giorni. Rassegna mensile di politica – lettere – arti – ecc.», Genova, Anno XVI N. 1, 1° Gennaio 1937, pp. 29-35.

 

  p. 33. Due lettere inedite ha pubblicato, il Gentili, in due diverse riprese, di Honoré de Balzac, e il più eminente balzacchista, Marcel Bouteron, gli è stato largo di applausi. Una, scritta da Issoudun, nel 1838, e piena di tenere «taquineries», è indirizzata alla donna che il sommo romanziere non cessò mai di amare la Marchesa di Castries; l’autografo presenta la bizzarria di avere avuto incollato sulla parola d’esordio, Cara (in italiano nel testo) un pudico pezzettino di caria, di mano, forse, della Marchesa stessa. La seconda, assai bella di contenuta veemenza, a Emile Chevalet, è la sola lettera conosciuta del Balzac a questo destinatario, a parte un biglietto di due righe pubblicato dal Bouteron.



  Galar, «Massimilla Doni», «Radiocorriere», Torino, Anno XIII, N. 15, 11-17 Aprile 1937, p. 46.

 

  Di Schoeck Otham, notissimo e valoroso musicista svizzero la cui fama si è estesa e consolidata in questi ultimi anni anche da noi grazie alla frequenza delle trasmissioni delle sue composizioni da parte di varie stazioni straniere, si segnala un successo del quale si può prendere atto con simpatia. [...].

  La nuova opera dello Schoeck, che fra l’altro ha musicato anche un libretto di Busoni: Das Wandbild, rappresentato ad Halle nel 1921, ha per titolo Massimilla Doni, e la trama non è altro che la riduzione dell’omonima novella di Balzac. Particolare curioso da notare: la lunga e non bellissima novella balzachiana, scritta nel 1837, contiene la diffusa narrazione di una rappresentazione del Mosè di Rossini, alla quale il Balzac probabilmente assistette. Ma nella prima versione della novella la descrizione non esisteva: l’autore l’aggiunse soltanto nel ‘39. Perché? Lo si ignora.

  Emilio Memmi, discendente di un’antica nobile famiglia veneziana, e Massimilla Doni, la giovane sposa trascurata (mutata da Schoeck in fidanzata) del duca Cattaneo, sono due grandi fanciulli che si amano e non riescono ad avvicinarsi divisi come sono par une montagne de poésie, perché Emilio est en proie à celle noble maladie qui n’attaque que les très jeunes gens et les vieillards. Una Circe seduttrice — la fatale Tinti, celebre cantante e donna irresistibile — manda all’aria i timidi progetti del sognatore inesperto che vorrebbe scontare con la morte volontaria il tradimento, ma il librettista, Arminio Reuger, ha voluto dare una conclusione meno sanguinosa alla novella veneziana ed i quattro atti, per altro movimentati e d’interesse sempre crescente, terminano con una calda invocazione alla Madonna, accompagnata da un celestiale coro di bimbi invisibili.

  Il soggetto della novella non è certo originalissimo, né modernissimo ma non manca di pittoresco con uno sfondo coloristico così ricco come Venezia.

  Un personaggio dell’opera rappresenta la città: è Vendramin (l’amico di Emilio) e di questo veneziano tipico dell’Ottocento il musicista svizzero ha tracciato un profilo stupendo. Pagine di intenso lirismo si riscontrano nelle patetiche melodie di Massimilla e nelle concitate espressioni di Emilio. Altro personaggio riuscito è il pittoresco «tenore Genovesi», anche lui pazzamente innamorato della sfuggente Tinti. Ma è soprattutto nella descrizione musicale dì lei, la perfida bella sensuale e capricciosa Tinti, che il maestro ha raggiunto altissime vette. I vocalizzi vari e bizzarri come il carattere della cantante-stregona usciti dalla mente del valoroso compositore richiamano alla memoria le più belle melodie del genere nate nel ricchissimo Ottocento e tuttora vivissime. [...].



  Lorenzo Giusso, Giudizî su Balzac, «La Nazione», Firenze, Anno LXXIX, 8 Agosto 1937, p. 3.

 

  Abbiamo assistito, negli ultimi anni, ad una violenta depressione di Balzac. La gioventù europea era calamitata da Stendhal: Stendhal, ingrandito dalle numerose ristampe e dal mezzo inedito Lucien Leuwen, era il gusto dell’avventura, della passione spastoiata, della «gratuità» verso il male ed il bene in anticipazione su Gide: era il non-conformismo elevato a sistema. Balzac era un fabbricante in grande di spettacolosi giocattoli, un gigantesco inscenatore di terribilità artificiali, un enorme emporio di merce di deteriore qualità. Tale era l’oroscopo prevalente. Contro quest’oroscopo sembra insorgere, con la sua consueta finezza, Alain, autore egli stesso d’un saggio su Stendhal, in questo recente Avec Balzac («Nouvelle Revue Française» 1937). Il bilancio di Alain è precisamente il contrario d’una negazione. E', all’opposto, una demolizione di tutti i pregiudizii elevati a danno di Balzac. E perfino la giustificazione di quello che si può chiamare il suo procedimento d’inventariamento notarile. Il paragone Stendhal-Balzac giace, come un dittico, dietro il libro: e, strano a dirsi, Balzac non ne esce stritolato.

 

***

 

  E’ probabile che la gioventù europea continuerà a guardare allo «stile da codice civile» di Stendhal» come a un’aurora senza ritorno. Stendhal non ha avuto epigoni, come ne hanno avuto George Sand, Maupassant, Zola: controprova estrinseca d’una maestria ineguagliabile. Il romanzo di Stendhal è una sorta di fusione di tutti generi in cui l’avventuroso viene prodigato a piene mani, e creatore dai complicati tessuti psicologici si sbozzano fra intrecci polizieschi, mentre sul tutto fluttua la vernice mordace, scanzonata, corrosiva che fu dei racconti del secolo XVIII. Balzac ama invece gl’inventarii, i procedimenti giudiziarii, la psicofisiologia delle epoche e degli ambienti, la meccanica sociale. Egli crede potere stabilire invariabili leggi d’attrazione e di gravitazione dell'uomo associato. Balzac non ha «il passo di carica» di Stendhal. Egli si vanta di trasportare nel suo cranio un’intera società con magazzini e depositi Ma nonostante le impalcature scientifiche e la meccanica sociale da lui vagheggiate, Balzac resta un ineguagliabile sinfonista d’anime. Lo si è paragonato ai classici per la potenza di certe sue creazioni diventate simbolizzatrici della lussuria, dell’avarizia o del fabbrile e prepotente arrivismo. La verità è che Balzac oltrepassa continuamente i postulati della sua meccanica. Egli crede di potere dirigere a sua posta gli stantuffi ed i bollitoi del forno locomotore, ma si accorge ben presto che quei congegni rimandano ad altri congegni ancora più complicati Di qui quel senso di mistero, e quella frattura fra le intenzioni e le realizzazioni che una sorta di Provvidenza oscura può sola colmare, che Alain elogia intensamente in taluni romanzi di Balzac.

  «Balzac è naturalmente misterioso per un accumulamento di materia- Ne procedono degli effetti di sorpresa e delle cavità d’ombra nelle quali cadiamo. A proposito di Une Ténébreuse affaire, Alain si sbilancia a dire che non «si dà romanzo meglio costruito. Come si operò il cambiamento del Consolato in Impero? Balzac risponde ampiamente, e meravigliosamente; ma risponde da artista; direi altrimenti che risponde attraverso la materia. Il posto d’osservazione del romanziere non è installato nel centro formale, ma in una provincia dove si vede che la forza governante viene a spirare, presso Troyes, in un dominio signorile; di là sono viste e risentite le grandi scosse della storia astratta». Balzac introduce nelle sue creature più riuscite una certa quantità d’inafferrabile, che è il segreto della loro potenza. Le più perfette fra queste creature sono poliedriche; viste a distanza del tempo e degli eventi, mostrano dei profili o delle rughe insospettate; il loro itinerario attraverso la vita è pieno d’inciampi e di oscure interruzioni. Il loro untore sente di non averne mai esaurito la profondità. Quest’opera si potrebbe paragonare ad un altopiano, oltre il quale s’intravvedono sempre nuove piattaforme. Hulot non è solamente la personificazione della lussuria senile, Lucien de Rubempré non è la maschera dell'arrivismo, Du (sic) Marsay avrà dei moti di pietà umana, come in Vautrin si scoprono viscere paterne. Nell’avaro Grandet si cela una cieca adorazione della figlia tiranneggiata, come la grande passione di Félix de Vandenesse è contrappesata dall’ambizione mondana. Mentre le ragazze di Balzac sono così adamantine nella loro composizione da mancare di qualche tratto di furberia o di vanità. Quando Balzac crede avere scoperto la formula chimica del suo personaggio, si arresta e sotto la sua lente fermentano sostanze non isolate prima. E’ quanto dire che questi personaggi sono cangianti Nessuna passone li esaurisce, come l’ipocrisia esaurisce Tartuffe. la galanteria Don Giovanni e la misantropia Alceste. Il paragone con Molière e coi maestri della commedia classica, tante volte invocato per Balzac, non sussiste. Balzac avrebbe intravisto, in contrasto coi classici un uomo a più dimensioni e meno facilmente calcolabile.

 

***

 

  Questa rivalutazione di Balzac non è senza significato nè opportunità. Un certo numero di romanzieri odierni, impressionati dalle scoperte della psicanalisi, hanno trasformato i loro racconti in una grafia dell’Inconscio. Il romanzo si trasforma nelle loro mani in una gelatina uniforme; in una poltiglia di ricordi, in una condensazione d’imagini procedenti da emozioni sessuali, in cui ogni carattere si perde. La giusta esigenza di riproduzione delle durate intime non autorizzava i virtuosi dei romanzi in ventiquattro ore dell’Ulisse di Joyce o dell’Orlando di Virginia Woolf. Ed i «romanzi in ventiquattr’ore» per la loro stessa tecnica, comportano una materia sempre uguale: uomini alla deriva, esseri abulici, creature in spappolamento: immagini quanto mai in contrasto con un’epoca che non ha solo tragedie interiori o che le sue tragedie interiori vede innestarsi sulle tragedie del lavoro, dell’economia, delle classi e degli Stati. Il romanzo psicanalitico ci rappresenta una realtà allungata sui cuscini d’un Kurhaus, distesa al sole anodino filtrante dalle tende, visitata e tastata al polso due volte al giorno dai dottori. Ebbene, l’umanità dei romanzi psicanalitici non è che una forsennata caricatura di quella che miete, forgia, si pigia nelle fabbriche e negli ufficii di collocamento. Balzac ebbe più alte, sovrane aspirazioni. Egli concepì il mondo come un’orchestra di passioni; immaginò una scala di caratteri che va dal verme ributtante fino all’angelica farfalla; ebbe un senso vertiginoso delle immense distanze psichiche che corrono da un uomo all’altro; egli ebbe presenti, come un prodigioso demiurgo, una varietà di forme interiori umane che dà il senso dell’infinito. Egli immaginò la sua opera come una di quelle cosmogonie medievali in cui agli angelici violini rispondono i digrignamenti infernali; egli si cimentò con tutte le esistenze possibili, ossesso da una titanica smania di scomporre il mondo e di ricomporlo poi nei suoi romanzi, a volta a volta: polizieschi, metropolitani, campagnuoli, storici, e perfino spirituali e magici. Balzac, scrive Alain, «è altrettanto candido di Omero. Perciò egli inventa dei miti, egli crede a tutto, come credono gli appassionati».

  Balzac professò un sovrano entusiasmo proprio d’ogni epopea, per la materia del suo raccontare, che era poi l’Umanità; egli vi vide, com’è proprio dell’epopea, conflitti di forze straordinariamente grandi, tempestose, oceaniche e, nella loro ultima istanza, incalcolabili Il suo romanzo sorge da questo desiderio d’universale deciframento.

 

 

  D. H. Lawrence, Il Sofà delle Muse. Giovanni Verga (trad. di Elio Vittorini), «Omnibus. Settimanale di attualità politica e letteraria», Roma, Anno I, N. 28, 9 Ottobre 1937, p. 7.

 

  Nella maggior parte dei libri del secolo, anche in Madame Bovary, per non dire del Lys dans la Vallée di Balzac, c’è un venti per cento di tragedia di cui si avrebbe potuto far benissimo a meno.

 

 

  Riccardo Marchi, Saluto all’illustre Gaudissart, «Perseo. Quindicinale di vita italiana», Milano, Anno VIII, N. 5, 1° Marzo 1937, p. 6.

 

  Con grande solennità gli abitanti di Vouvray hanno inaugurato un monumento a Gaudissart, personaggio balzacchiano.

(Dai giornali)

 

  Voglio deporre, anch’io, un piccolo fiore sul monumento che i gai e saggi abitanti di Turenna hanno elevato all’illustre Gaudissart, commesso viaggiatore di fama balzacchiana: un piccolo fiore dalla fragranza tenue e ammalata, di quelli che sbocciano ad ogni aurora durante questa magnifica estate dei morti.

  E’ anche la stagione del vin nuovo, caro ed ottimo Gaudissart; la stagione dei tordi allo spiedo, del primo maiale che sfrigola allo schidione sopra l’allegra fiammata; il tempo in cui tutti i saggi e sanguigni gabbamondo non si curano del cader delle foglie e sanno conciliarsi con la vita.

  Osservate l’andirivieni tutt’altro che irrispettoso dei rabelaisiani che vollero abbinare alla commemorazione dei meriti vostri quella di una celebrità gastronomica: gente che ha da poco vendemmiato e vuol godersela.

  Provvida idea è stata, la loro, di erigervi un monumento. Accanto al rurale, al minatore, al ferroviere, il commesso viaggiatore doveva essere celebrato in quest’epoca che tende tutto a spersonalizzare. Gli abitanti di Vouvray, in Turenna, non potevano far di meglio che personificarlo in voi, Gaudissart, quasi per dare più tangibile forma, se fosse possibile, a quello che Onorato De Balzac scolpì nella celebre novella di cui siete il protagonista: grassottello, ridanciano, astuto, procacciante ai margini dell’altrui credulità, commissionario di società di assicurazioni, di abbonamenti giornalistici e di altre più solide mercanzie, potete oggi guardare con un certo disinteressato sussiego il mondo che è tutto cambiato.

  E vi domanderete se proprio i turennesi vi eran debitori di tanto onore dal momento che Balzac li improvvisa autori dell’unica grande beffa giuocatavi durante la vostra portentosa carriera e terminata, la Dio mercè, nel vino e nell’allegria.

 

*

 

  La professione — l’uomo che vi sta davanti col fiore in mano se ne intende — comporta d’altronde, anche oggi, quel minimo di onesta cialtroneria con la quale si può sempre incantare qualcuno. Ma diviene ogni giorno più difficile: tanto scaltrita è divenuta la gente.

  Domandatelo a quei raperini elegantoni delle grandi intraprese commerciali che si aggirano per i nostri mercati rurali. Loro non hanno tempo di gettar l’esca di un affare e di raccogliere qualche beffa. Li sentono al puzzo e li scartano, tanto l’odor di Colonia di cui sono imbevuti fa arricciare il naso a chi sa di grasce, di fieno e di vaccina.

  Sotto i loggiati delle città toscane dove si affacciano, senza troppe pretese, tesori di tabernacoli e di bifore, sosta si addensa e tumultua la gente di campagna che è tanto simile ai turennesi d’ieri e di sempre.

  Ha più fretta, oggi, si capisce; all’osteria si ferma molto meno ed aborre, più di prima, le chiacchiere, che sanno d’imbroglio e di raggiro.

  Orbene, che fortuna possono avere fra costoro i poveri commessi viaggiatori?

  Le schiene diritte e impalamidate si destreggiano a mala pena fra i contadini tozzi di corpo ma di cervello finissimo. Gli scarpini lucidi, impastoiati nelle ghette, che ricordano quelle delle civette uccellatrici, n’escon sempre malconci. (Qui non si uccella nessuno, signori commessi viaggiatori; risparmiatevi le moine e rintuzzate in anticipo l’eloquenza).

  Le borse dei campionari si afflosciano fra le mani delicate di chi le porta e i meschini elegantoni devono battere il tacco, come stranieri in una terra dove è impossibile ogni intesa e che nessuna arte od astuzia potrà rendere famigliare.

  Una frase insinuante e ben tornita, un’argomentazione che non fa una grinza, è rintuzzata appena da un sorriso sdegnoso, da una tanfata di tabacco forte o da un motteggio.

  Nessuna lezione, sapiente Gaudissart, può salvarli da naufragio certo.

  La timidezza allora li prende alla gola, poverini; e questo, che non era mai successo, può segnare perfino l’inizio del crollo professionale, la perdita della fiducia nei propri mezzi, primo segreto del successo.

  Via, presto, malcapitati, da questa terra infida. Avvicinatevi, piuttosto, ai negozi di città e di paese, agli scagni dell’affarista che compra vende e baratta con meno scrupolo del ramaio di Prato; fra gente più compiacente a cianciare di cose vaghe; a domandar notizie delle famiglie che neppure conoscono di vista, a disquisire di malattie: a contrarre e fingere amicizie e a tendere, con simili arti, il vischio in attesa che qualcuno vi s’impani.

 

*

 

  Ma quanto è difficile la professione di costoro, signor Gaudissart, benché non sembri ai profani.

  Voi avete imparalo a sorridere, nella buona e nella malasorte.

  Avete insegnato l’arte di divertire la gente con chiacchiere argute per averne il compenso di un affare concluso. Difficile arte, divertire i borghesi, più di quanto pensasse il saggio Molière.

  Nel caso nostro l’illusione non è mai alimentata dalle luci della ribalta e si tratta sempre di lucrare qualcosa di più del biglietto di ingresso pagato dallo spettatore.

  Viene un tempo in cui la voce più stentorea arrochisce: la fantasia si estingue. Un affare è un po’ come un romanzo, piccolo se volete, ma alla costruzione della cui trama occorre sempre una buona dose di fantasia!

  Ora, invece, ahimè, non si tirano più le fila di un affare. E’ il tempo del pessimismo nero in cui s’inveisce, a torto od a ragione, contro la nequizia del secolo.

  Le giornate si concludono con attese snervanti alle stazioni di campagna dove i campanelli che annunciano i treni trillano a tempo col gracidare dei rospi dei fossati.

  E il libro delle commissioni (barbarismo terribile, incubo professionale!) è vuoto come l’anima di chi lo porta dentro la borsa sgualcita.

  Tutti i clienti hanno accolto il malcapitato con un: «Siamo provvisti», emesso con volto duro e spietato da non incoraggiare lenocini eloquenti.

  La lingua più scaltra, in simili casi, s’incolla al palato; insistere ed elemosinare è stessa cosa.

  E le scarpe sono logorate dal troppo camminare; l’auto è un lusso da non permettersi; lisi sono i vestiti; consumata l’anima da quella lima sottile che è lo spettro della sopravveniente miseria.

  Bisogna, allora, pensare a cambiare articolo, passare dalla competenza specifica al generico, (berretti, abbonamenti di giornali, polizze, mirabolante signor Gaudissart) e sovente il cambiamento è un’avventura che porta al peggio.

  Poveri commessi viaggiatori, che se il nobile e squattrinato De Balzac avesse provato a immaginarvi invecchiato in meritata opulenza, o Gaudissart, vi avrebbe per certo fatto diventare filantropo.

  Allora sarebbe stato facile incontrarvi per il mondo, lungo i marciapiedi delle stazioni ferroviarie, in cerca di viaggiatori sfortunati, per improvvisar loro una commissione purchessia, pur di salvarli dall’estremo declino.

  Che fortuna spalancare gli occhi appesantiti dalla stanchezza sul sedile del vagone di terza classe, fra il lezzo dei passeggeri imbarcatisi trecento chilometri prima, e imbattersi nei vostri, splendidi, luminosi, prodighi di nuova speranza. E, mercè la vostra compagnia, dimenticare il salumiere che affettava il prosciutto e non prestava attenzione ai vostri discorsi, l’occhio ammiccante della moglie che lo invitava ad esser diffidente; non ricordarsi del commesso incaricato di dire che il padrone non c’è e che il negozio è ben provvisto per sei mesi almeno, o il cartello affisso alla porta d’ingresso dell’ufficio, con sopra scritto: «Non si ricevono i sigg. viaggiatori».

 

*

 

  Non sono queste divagazioni oziose, caro e illustre signore.

  Volevo ricordare, da competente, spirito rabelaisiano a parte, che la professione ha le sue spine e merita il monumento ch’è stato eretto in vostro onore.

  Io vi sto davanti tenendo in mano il fiore di questa estate dei morti che, nel frattempo, si è un poco sgualcito.

  Questo rito mi ha commosso ... Perché anch’io, ve ne sarete accorto, scaltro Gaudissart, sono stato un tempo commesso viaggiatore.

  E penso con mestizia a quello che mi avvenne pochi mesi or sono, durante un di quei mercati librari in cui gl’illusi come me s’erano piccati di poter vendere carta stampata nei luoghi normalmente destinati alle trattative di grasce o di quadrupedi da stalla. Magri affari, quelli degli scrittori che hanno preso il posto dei campagnoli.

  I quali, dal di fuori, osservano i loggiati, di cui sono normalmente i padroni, ridono sotto i baffi e compatiscono noi meschinelli.

  Mi sento abbordare da uno di codesti salumai conosciuto tempo addietro: unto come le sue mortadelle, inanellato e felice del suo lardo, ricco di molti poderi, di una moglie pingue, di due figlie astiate per la loro sfrontata bellezza e per la dote.

  Costui, all’oscuro delle curiose metamorfosi della mia vita, ponendomi la manaccia sulla spalla:

  — Lei — dice — proprio lei; e non mi sembrava, in un primo tempo, O che fa qua? Ha cambiato di nuovo mestiere? Bravo, speriamo che questo basto l’entri sul serio. Mi fa piacere saperla commesso di libreria. Eh, già, sempre venditore di chiacchiere, lei ...

 

 

  Federico Marconcini, Attualità di Lamartine “economista-poeta”, «Rivista di storia economica», Torino, Anno II. N. 1, Marzo 1937, pp. 31-54.

 

  p. 48. Ed infine, per non citare il famoso «discorso di Magonza» di Guglielmo Emanuele von Ketteler sulla proprietà, che nel 1848 aveva destato eco profonda pur oltre la sponda del Reno, ecco lo stesso Balzac, il più formidabile e informato romanziere di Francia, dopo aver dettato studi «Sur les ouvriers» nella «Revue Parisienne» del 1840, scrivere nel 1848, con intonazione etico-cattolica, quella sua «Lettre sur le travail» che solo più tardi lo Spoelberch pubblicherà nella «Revue des deux mondes».

 

 

  Angelo Mascherpa, “Nozze in Turenna”. In una cornice lussuosa la nuova opera è stata presentata al Teatro Ponchielli, «Il Regime fascista», Cremona, Anno XXIV, N. 33, 7 Febbraio 1937, p. 6.

 

  Mario Stradivari quella notte d’estate non può dormire. Ha appena finito di leggere uno dei Contes Drolatiques di Balzac e già nella sua mente è uno scaturire di figurazioni sceniche e di note musicali, che si sovrappongono, si rincorrono, si armonizzano e sfociano in ampli canti e in coretti graziosi. Che non vogliono seguire Balzac nella chiusa tragica, ma, finiscono in trilli di gloria, in balli giocondi, in una fuga alla Falstaff. […].



  F.[rancesco] Ernesto Morando, Il capolavoro di Carlo Bini, «Camicia rossa. Rassegna mensile di pensiero e di azione», Roma, Anno XIII, N. 1, Gennaio 1937, pp. 13-15.

 

  p. 13. [Dalle bozze di stampa di uno studio su Carlo Bini. [...] ed il Balzac meditava la negazione filosofica della Peau de chagrin, la concezione spaventosa di Séraphita Séraphitus, e la logica inflessibile di Luigi Lambert.

 

 

  Curio Mortari, Itinerario balzachiano. La misteriosa pausa di Tours, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 143, 17 Giugno 1937, p. 3.

 

  Scoperta davanti a un caffè – Un ignorato fanciullo prodigio – Come finì il “Trattato sulla volontà” – Blum e Onorato Balzac ...

 

  Tours, giugno.

 

  Fu poco dopo le nozze del Duca di Windsor con la signora Warfield, che quest’idea mi venne, per così dire dall’alto. Dopo l’orgasmo giornalistico e telefonico della giornata nuziale e la conclusione di questo eccezionale romanzo d’amore che univa in matrimonio l’ex-Sovrano del Regno Unito ed ex-Imperatore delle Indie con l’elettrizzante signora nord-americana; […]. Così sedetti tranquillamente a un tavolino del «Café de l’Univers». ritrovo dal nome sensazionale ma dall’aspetto onestamente tranquillo, che sorge proprio davanti al Municipio di Tours. […].

  Intorno ad esso gli strilloni dei giornali e i venditori di arachidi contrasto venivano a deporre la loro mercanzia. Più discreti, i passeri saltellavano sotto i piedi dell’illustre uomo al quale il monumento era dedicato.

  Certo io non avrei mai pensato a decifrare l’epigrafe scalpellata sul podio di granito (ci sono troppi monumenti nel mondo!) se un mio sconosciuto vicino — forse straniero come me — non avesse pronunziato il nome di Balzac. Allora, attingendo allo schedario della mia memoria, mi sovvenni che il grande romanziere della «Commedia Umana» era nato appunto a Tours il 20 maggio dell'anno 1799, cioè, secondo il calendario, della Rivoluzione Francese, il 1.o Pratile dell’Anno VII.

  Girando alquanto la mia seggiola, potei leggere, incisa sul piedestallo del monumento, questa epigrafe:

 

A

H. DE BALZAC

LA VILLE DE TOURS.

 

  Effettivamente era lui; tutto in bronzo ormai annerito dal tempo; seduto su una borghesissima poltrona, secondo gli ideali dell’epoca da cui il monumento era sorto, e impugnante una visibilissima penna d’oca. Senonchè lo scultore, pur rendendo omaggio alle tendenze sedentarie dell’epoca, non aveva dimenticato la testa chiomata e leonina di questo anticipatore di tempi, geniale scrutatore di futuri, romanziere veggente di un secolo che sarebbe venuto dopo di lui, dopo la sua immatura morte: il vulcanico, parossistico, rivoluzionario XX°.

 

Divinatore del XX Secolo.

 

  Quale scrittore infatti, più d'Onorato Balzac, aveva più profondamente intuito, alle soglie dell’Ottocento, il ritmo del tempo in cui viviamo? Chi, sorvolando un secolo aveva spinto più addentro, negli abissi della psicologia contemporanea, uno sguardo che oserei chiamare incandescente come una fiamma ossidrica? Chi meglio di questo scrittore latino era riuscito a penetrare le segrete, talvolta, infami relazioni tra il sentimento e l’affare, tra l’intelligenza e l’oro; tutto ciò insomma che influisce ancor oggi sulle concezioni del mondo e ne crea, indirettamente, le inquietudini, le agitazioni e i lieviti rivoluzionari? Chi era penetrato, prima di Balzac nei bassifondi e anche in quelli che chiamerei gli «altifondi» della società umana, ricavandone tipi, or sinistri e or sublimi; mettendo in contrasto micidiale quel che è l’estremismo della psicologia del Duemila, creatore di martiri assoluti e di assolute canaglie, di fedi infrangibili e di nequizie senza limite?

  Tale risorgeva davanti a me la figura di questo vulcanico forgiatore d’uomini e di ambienti, certo assai più alto e scultorio del monumento alla cui discreta ombra io riposavo.

  D’altronde la figura di questo grande poeta della prosaicità moderna doveva riuscire particolarmente simpatica a un Italiano del tempo di Mussolini. Uscito dal crepuscolo della Rivoluzione francese, ma già preso entro l’alone fosforescente creato dalla gesta napoleonica e quindi ammiratore fanatico del folgorante Imperatore latino, Balzac aveva avuto, si può dire, fin dalla propria nascita un battesimo di fuoco anche se non del fuoco. I nomi di Marengo, d’Austerlitz, di Jena, di Bautzen avevano vibrato in lui. Egli era sbocciato da una atmosfera d’epopea e da essa aveva ricevuto il crisma e l’ispirazione per tutta la sua opera futura.

  E mentre già, durante l’adolescenza di Balzac, la stella napoleonica cominciava a volgere verso gli orizzonti occidentali e purtroppo verso il tramonto, lo scrittore giovinetto aveva dovuto lottare, con tutta la sua anima impetuosa e la sua fede entusiastica contro i sintomi di dissoluzione scettica che già invadevano la Francia e si ripercotevano anche in questa verde e aristocratica sua provincia.

 

Un periodo misterioso...

 

  Tra l’altro, il periodo della adolescenza di Onorato Balzac — perioda in cui tuttavia il so Genio cominciava a fiorire, sebbene insospettato dai contemporanei e dai suoi stessi famigliari – appariva tinche il meno conosciuto dai suoi biografi, il più misterioso quantunque fecondo (come del resto tutte le adolescenze dei grandi) di ogni idea e d’ogni progetto futuri. Nè Teofilo Gautier, che con la sua penna intinta nei colorati inchiostri della magia aveva prefazionato i primi volumi delle «Scene della vita privata», né i commentatori successivi, fino al recentissimo René Benjamin, autore d’una eccezionale «Vita prodigiosa di Balzac» avevano potuto, per scarsezza di dati storici e di ricordi locali, penetrare l’enigma di questa favolosa puerizia, promettente come una vigna del Paradiso Terrestre.

  Si sapeva soltanto che questo figlio di una onesta famiglia borghese di Tours, aveva scritto, nelle fredde solitudini del collegio un «Trattato sulla volontà», che un cattivo precettore aveva poi sorpreso in manoscritto e distrutto, iscrivendo così il suo nome tra i criminali imbecilli che disconosco e torturano le esordienti genialità dell’adolescenza umana, in nome di una Regola fredda e passiva.

  Quale meraviglioso viaggio dunque, – pensavo, sedendo sotto la statua di Balzac – avrei potuto intraprendere, senza eccessive spese, senza preoccupazioni di orari e di coincidenze! Un viaggio in quei misteriosi paesi d’Infinito che soltanto le anime dei grandi scrittori sanno additare, oltre i confini terrestri e talvolta celesti! Avrei rifatto, entro le mura di una città, nelle verdi anse della Loira, nel giro di pochi chilometri, l’itinerario compiuto da questo meraviglioso fanciullo, misconosciuto dai contemporanei e dalla madre stessa considerato un piccolo e disutile stravagante.

 

Balzac ... Blum e Cot!

 

  Perciò, (suonavano le 11 alla torre municipale di Tours) mi sono alzato senz’altro dal tavolino del «Café de l'Univers» e salutando con la mano il Grande, sulla cui fronte i passeri saltellavano, mi sono messo in cerca di dati, di informazioni, di indicazioni storiche, di vecchie carte topografiche per sapere esattamente dove Onorato Balzac fanciullo avesse abitato, dove avesse trascorso le sue ore; dove avesse fatto le sue passeggiate e le sue prime inchieste; dove il suo cervello, ancora plastico come la cera vergine, avesse ricevuto le sue prime impressioni, che un giorno avrebbero dovuto tradursi in pagine destinate alla gloria e all’eternità. Senonchè le difficoltà apparvero subito assai grandi e la misconoscenza (non dirò l’ignoranza) degli uomini, inconcepibile ... Questo mio «Itinerario balzachiano» se appariva favorito dai luoghi e dai paesaggi, che hanno sempre un loro segreto e indimenticabile linguaggio; non trovava altrettanta rispondenza negli abitanti e, tanto peggio, negli specialisti di questo genere di ricerche.

  Ma d'altronde perché stupire se i buoni cittadini di Tours, nella loro grande maggioranza ignoravano il Genio nato dalla loro terra, mentre conoscevano a menadito le storielle riguardanti il signor Léon Blum o il sig. Cot? Sappiamo perfettamente di quale pasta siano fatti, in genere, i contemporanei e come sia golgothiano destino dell’uomo di genio essere ignorato, misconosciuto, deriso e talvolta suppliziato. E’ stato il miracoloso destino di Cristo!

  Tuttavia, negli articoli che seguiranno, i lettori potranno anche accorgersi come una misteriosa fortuna guidi gli ammiratori dei grandi e come non sempre queste biografie siano apocalittiche perché l'umorismo le condisce, quando non le renda addirittura piccanti col suo pepe di Cayenna. E’ un modo per rendere leggibili questi episodi istruttivi anche a coloro che non desiderano tormentarsi l’anima di cui considerano i problemi come invenzione di letterati perdigiorno.

 

 

  Curio Mortari, Itinerario balzachiano. La casa dove nacque e dove fece i primi sogni di gloria, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 150, 25 Giugno 1937, p. 3.

 

  «E’ un fatto melanconico che quasi sempre le ore mattutine di un grande destino rimangano inosservate ...». La frase non è mia, ma di uno scrittore francese contemporaneo: René Benjamin, a proposito della già citata «Vita prodigiosa di Balzac». Se la cito a proposito di questa mia errante inchiesta sulla adolescenza del grande scrittore, non sarò tacciato d’indelicatezza verso le leggi dell’ospitalità — sacre allo spirito romano e latino.

  Certo che quando domandai, in alcuni posti pubblicitari di Tours, ove si trovasse la casa di Balzac, non ebbi mai risposte esaurienti. Parlo sopratutto di chioschi librari e di librerie propriamente dette.

  In questi casi bisogna invece rivolgersi al vecchio e disprezzato topo di biblioteca: egli solo rianima i fuochi delle antiche are. Rendiamogli questa giustizia. Per lui la ebbra fase demofagica di Stalin, il dittatore rosso, e il pericolare delle finanze hanno molto minor importanza del cervo volante che Balzac usava nei suoi giochi infantili. (Troveranno, comunque, in un tempo come questo, il modo di accusarlo d’appartenenza, alle «Croci di fuoco» o al partito di Doriot …).

 

Dal 25 al 33.

 

  Approssimativi informatori mi avevano indicato dapprima una «Rue Honoré de Balzac» presso il Palazzo Municipale. Via secondaria, tranquilla, con vecchi fanali, sonnecchiante nell’atmosfera aurea del pomeriggio; essa mi ricordava certe solitarie vie di Siviglia nell’agosto scorso. Esse erano rimaste col loro fascino di vecchia. Spagna nonostante la fiammeggiante insurrezione.

  All’angolo della «Rue de Balzac» una tabella, recava, sotto il nome e il cognome del grande romanziere, le date della sua nascita e della sua morte: 1799-1850. Soltanto 51 anni d’esistenza; ma quale esistenza! Senonchè in questa «via Balzac» non c’è alcun segno che si riferisca, all’abitazione dello scrittore. Si tratta semplicemente di un pensierino dedicatogli dalla municipalità di Tours. La via non è certo tra le più vaste e popolose della città...

  Continuando a girare trovo infine un negozietto di stampe, ove mi viene mostrata una «Guida della Turenna», che al capitolo di Tours accenna a Balzac e addita la sua abitazione in «Rue Nationale n. 25». Mi dirigo quindi a questa volta.

  Arteriale, nel pieno senso che dà il concetto circolatorio a questa, parola, questo corso di Tours incanala tutto il movimento meccanico e umano della città: prospetta le vetrine dei più pittoreschi negozi e dei bazar più forniti; presenta le insegne più eclettiche che il commercio sappia comporre con le sue truculente tavolozze e i suoi bizzarri alfabeti. «Rue Nationale» è una via veramente balzachiana: — rispecchia bene il carattere acceso, fantasioso, totale, talvolta turgido e quasi pletorico, della prosa scorrente entro l’alveo della «Commedia Umana». Se esiste un Fato diciamo così naturistico, collimante col Fato degli uomini di genio, esso è palese qui!

  Io conto intanto i numeri delle porte: – dall’1 al 19. – Ma questa forma aritmetica elementare non riesce facile. Queste targhe numerarie piuttosto antiche, forse risalenti alla stessa epoca di Balzac, come farebbero credere le loro cifre ampie, tonde, quasi bodoniane, non sono facili da rintracciare. Insegne di ogni colore, invasioni di tabelle e di campionari, tendono ad occultarle. Ecco il n. 21. Ed ecco anche il 23 … Ma il 25 non si trova assolutamente: è sparito forse sotto gli affissi e le lampadine di un cinema. Scoperta pittoresca, ma che purtroppo metterebbe fine alla mia inchiesta. Non m resterebbe infatti che prendere un biglietto, entrare, sedere su di una poltroncina, assistere a un qualunque spettacolo. Evidentemente tutti i piani della casa si sono polverizzati nel vuoto di un salone da proiezioni. Tutt’al più potrei chiedere al proprietario il permesso di salire qualche scala d’accesso. E potrei ad esempio, immaginare che la famosa stanza in cui il piccolo Onorato dormiva sia diventata un magazzino di vecchie pellicole o di arnesi del mestiere.

  In questo attimo di perplessità è una semplice commessa a venirmi in aiuto. Spesso le donne — in generale più osservatrici, più attente e anche più ispirate degli uomini — rendono al giornalista e allo scrittore inestimabili favori. Mentre infatti io percorro con sguardo la facciata della casa, una ragazza, dalla soglia d’un bazar, mi viene in auto, chiedendomi se cerco qualche indirizzo. Alla mia risposta ella ribatte, ridendo:

  «Ma, signore, la casa di Balzac è più avanti, al n. 39!».

  E poiché io sembro dubitare un poco, ella aggiunge:

  «C’è perfino una targa con l’epigrafe …».

 

Ecco la casa.

 

  Or ecco, finalmente, il n. 39. E’ una porta rettangolare, aperta in una modesta e onesta casa, proprio all’angolo di una viuzza, sulla quale sta la scritta «Rue Richelieu». Poco distane appare la cubitale targa del «Crédit Lyonnais».

  Accanto alla porta della casa balzachiana c’è il grosso negozio di un gioielliere. Sulla porta c’è la targa di un dentista.

  Anche questi particolari di vita quotidiana sembrano venir incontro come una pagina di romanzo balzachiano! Una banca, una gioielleria, un dentista! E’ un lampo di quell'enorme prisma che si chiama «Commedia Umana». E’ il culto del particolare descrittivo e dell’analisi esauriente proprio del grande scrittore; e la sua voracità d’elementi moderni, di cui egli traduce i nomi in neologismi inusitati. Soltanto la facciata della casa sembra aver mantenuto i colori del passato. Nessuna opera muraria è venuta a mutarla e a ringiovanirla; nessuna affissione pubblicitaria ha osato superare il listone del primo piano. L’edificio è rimasto polveroso, rugoso, identico, dall’epoca in cui questa via si chiamava «Rue de l’Armée d'Italie» e l’eco delle ultime vittorie napoleoniche la pervadeva ancora. Tra le finestre del primo piano spicca una piccola targa di bronzo, con una minuscola testa di Balzac in bassorilievo e una epigrafe che dice:

 

Honoré de Balzac

est né en cette maison

le I Prairial An VII

20 Mai 1799

Mort à Paris le 2 Août 1850.

 

  I diversi movimenti e le complicate evoluzioni che io compio nella via affollata dal traffico meridiano, per cogliere questo documento col mio obiettivo, deve certo destare una certa stupefazione in tutta questa gente non abituata a certe ingenuità turistico-letterarie!

  Terminata la fase fotografica, mi sottraggo alla curiosità della gente varcando la soglia del numero 39. Entrando, scorgo a sinistra il bottone di un campanello elettrico, sul quale una targa d’ottone porta la scritta: «Sonette du médecin dentiste». Le scale sono anguste, di legno oscurato e patinato dal tempo, Le ringhiere sono a spranghe di ferro tòrtili.

  Il mio passo risuona esageratamente su questi gradini: inutile dissimularsi.

 

Forse qui sua madre ...

 

  Al piano rialzato, attraverso un uscio dai battenti spalancati, scorgo seduta, a uno scrittoio una signorina, che mi scruta dietro le lenti circolari. Continuo a salire. Ma la signorina viene sulla soglia e, con voce investigativa, mi domanda:

  — Che cosa cerca il signore? Forse il dentista?

  — No, signorina, per mia. fortuna! Cerco la casa, di Onorato Balzac, il grande romanziere, nato a Tours ...

  Con voce che sembra lontana, quasi svanita in un tempo incalcolabilmente remoto, la signorina risponde:

  — Ah, Balzac... E’ vero! Si dice che egli abbia abitato qui, tanti anni fa ... Ma ormai, signore, non rimane più nulla, veramente nulla di tutto questo ...

  Immagino. Lo studio dentistico, con le sue poltrone meccaniche e girevoli, le sue vetrine di ferri bizzarri e i suoi tavolini di cristallo deve aver ormai fatto scomparire ogni traccia della austera casa, del dott. Balzac, padre di Onorato e studioso, oltreché di problemi igienici, di questioni bibliche.

  La severa sala da pranzo in cui l’adolescente genio sedeva, compunto a tavola, sotto lo sguardo freddo della madre, mentre la sua immaginazione popolava l’aria di quelle meravigliose, iridiscenti bolle di sapone che erano i suoi sogni, come si è trasformata? I mobili antichi, in vecchio noce barocco, sono andati forse sparpagliati per la regione, oppure qualcuno si trova ancora nella sala d’aspetto del dentista di Tours? Certo le camere sono rimaste, dal punto di vista architettonico, tali e quali. Lo studio di Madame Balzac, lettrice assidua, di Swedenborg e d’ogni freddo mistico del Nord, deve aver conservato quel senso glaciale che tanto pesò sulla adolescenza esuberante e alata del grande romanziere.

  Non era forse suo amaro destino essere incompreso proprio da colei che gli aveva dato la vita? Ella lo considerava un ragazzo fantastico, lunatico, viziato. E quando egli rompeva nelle sue strane grida d’ambizione e di gloria («Sarò un grande scrittore? Sarò un grande generale? O un re?») ella frenava il meraviglioso fanciullo non soltanto con la sua boreale ironia, ma anche con duri colpi sulle dita e sulle gote.

  Forse in lei (bisogna essere giusti) parlava l’istinto materno, che presentiva a quale suggestiva ma dannata vita avrebbero condotto quei sogni fuor della regola umana.

 

L’abbaino dei sogni.

 

  Ma più della camera da pranzo (dove, tra un’atmosfera artica si consumavano i pasti della famiglia Balzac): più della stanza da letto ove ogni sera il piccolo Onorato era accompagnato a letto da una stecchita damigella (la «bonne» dei nostri giorni), c’è un posto che meriterebbe da solo una epigrafe commemorativa. E’ l’abbaino in cui Onorato saliva, per sfuggire alla oculata irascibilità della madre, prima dell’ora di cena. Vi saliva insieme alla donna che forse egli più adorò nella sua vita, pur fatta d’adorazioni verso le donne: cioè la piccola sorella Laura, che aveva per Onorato una speciale predilezione unita a una strana benchè infantile intuizione del suo genio. Laura sola sapeva ascoltare le lunghe, turbolente, talvolta frenetiche elucubrazioni del singolare giovinetto. Ella sola poteva, con occhi meravigliati, sostenere l’aspetto di quel volto pieno, irradiante come la luna primaverile e in cui tuttavia, insieme al riverbero di sogni gloriosi, precocemente veniva stampandosi la maschera della virilità. Questa anticipazione fisica è un privilegio dei genii?

  Era l’ora in cui il giorno volgeva alla sua fine. Tra le enormi nuvole rosate gonfiantisi pigramente come vele di vascelli, sui verdi orizzonti della Loira, il concerto delle campane clamanti dalle chiese e dalla cattedrale di Tours saliva, come un coro di folle lontane, come un’eco d'epoche e di glorie.

  Come non avrebbe dovuto l’anima di Balzac giovinetto popolare di fantasmi passati e futuri quest’ora mitica, in un’età mitica quale è l’adolescenza, in una mitica atmosfera quale è quella in cui vivono privilegiatamente gli uomini di genio?

  «Era l’ora grave — ha ben detto il Benjamin — in cui si forma la persona, l’ora della pubertà, prima ora solenne: gli avi si ridestano e parlano insieme ...».

  Ho cercato invano di penetrare in questo abbaino. Mi sono accontentato di contemplarne la porta. Chissà che qualcuno, vedendomi in quello strano atteggiamento, non abbia dubitato di me.

  E’ così ammalato di «giallo» questo strambo XX secolo!

 

 

  Curio Mortari, Itinerario balzachiano. All’ombra della Cattedrale, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 156, 2 Luglio 1937, p. 3.

 

  Come un tetro istitutore distrusse il manoscritto del «Trattato sulla volontà» che il giovane collegiale aveva composto durante la notte mentre i suoi compagni dormivano.

 

  Fu soltanto tornando dalle tristi camerate del Collegio di Vendôme che Onorato Balzac giovinetto cominciò a tirare i conti sulla esistenza umana, che egli aveva ormai misurata tutta, con quell’intuito che è proprio dei geni.

  Nel collegio di Vendôme Onorato giovinetto aveva potuto sondare tutto un abisso di psicologia umana. Nulla rimane più impresso, nell’anima di un grande, che certi ricordi dell’adolescenza. Sembra che gli avvenimenti posteriori, più vasti e talvolta ciclonici, possano cancellare queste reminiscenze d’un’età che è ancora tenera come la cera; ma certe impronte rimangono invece indelebili e influenzano talvolta il Fato futuro.

 

Un manoscritto fatto a pezzi ...

 

  A Vendôme Onorato Balzac provò uno dei più grandi dolori della sua vita. Un tetro istitutore, certo Padre Haugoult, sorprese una volta nel cassetto di Onorato un curioso manoscritto: il «Trattato sulla volontà».

  — Che cos’è questa roba? Di che cosa vi occupate, che non sia il vostro stretto dovere, giovane Onorato?

  — Vi prego, signore — supplicava il giovane Balzac — lasciatemi questo scartafaccio. E’ una cosa tutta mia, tutta personale ...

  Ma Padre Haugoult sfogliava e scorreva con lo sguardo le pagine del grosso quaderno. Strani aforismi, riflessioni filosofiche, accenti or meditabondi ed or entusiasti ne scaturivano, di periodo in periodo. Padre Haugoult aggrottava sempre più le sopracciglia; poi d’un tratto:

  — Ah, voi — esclamò — invece di fare i vostri compiti e di studiare i vostri libri scolastici scrivete queste cose? E quando? E come? Padre Haugoult infatti non sapeva rendersi conto come, mai il giovinetto, già gravato di punizioni e di «pensi» per la sua condotta piuttosto eccentrica, avesse potuto trovare il tempo per scrivere quel grosso volume. Viene iniziata una rapida inchiesta. Si viene a sapere che il giovane Onorato, durante la notte, con l’aiuto di un altro Padre (il bibliotecario) uno studioso dall’animo certo più mite e d’ingegno più penetrante che Padre Haugoult, leggeva nascostamente volumi esulati dalla «tetra Babele della biblioteca» e scriveva, scriveva mentre gli altri suoi compagni dormivano come ghiri. E’ così che Padre Haugoult, senza lasciarsi piegare dalle lacrimose supplicazioni del giovane Balzac, prende lo scartafaccio fra l’indice e il medio di ciascuna mano e lo fa in pezzi.

  — Fu — confessava più tardi Balzac alla sorella Laura — il più grande dolore della mia vita! Egli cercò anche, negli anni posteriori, di ricostruire nel Louis Lambert quel tesoro della sua adolescenza, ripescando frammenti e brandelli della sua memoria.

  Ma il perduto che i grandi scrittori cercano di ricostruire sopra una falsariga, non conserva mai gli stessi lineamenti, quantunque non ne perda lo spirito. Ogni creazione del genio ha uno stile inconfondibile che, come gli spettacoli della Natura, non si ripete, quantunque abbia il senso delle somiglianze ...

 

Ambiente avvelenato.

 

  Il «dramma» di Vendôme fu, d’altra parte, benefico al giovane Onorato: gli permise di gettare lo sguardo in un nuovo abisso psicologico e in tutto un ambiente della Francia di allora. Come avrebbe egli potuto, senza questo dramma, vedere i tipi, le macchiette, i chiostri, gli oscuri salotti, le sotterranee congreghe della vecchia Tours clericale nonché legittimista, pimentata tuttavia da qualche tossina e da qualche lievito dei tempi nuovi?

  Così dev’essere nato quel meraviglioso racconto che s’intitola il «Curato di Tours», in cui tutta la vecchia città della Turenna rivive con le sue antiche chiese, i suoi ermetici palazzi, le sue mura incrostate di torri e di bastioni, le sue piazzette solitarie sulle quali dondolano gli echi delle campane. La ritrovo stasera tale e quale, questa vecchia Tours, nella cui descrizione Balzac ha scoperto un pezzo della Francia più profondo e forse più attuale di quanto si creda!

  Qui tutti, gli intrighi, che si sogliono dire appartenenti allo stile diplomatico, tutte le acide sfumature d’una psicologia sotterranea e corrosiva, che avrebbe dovuto essere seppellita nel fango sanguigno della Rivoluzione e invece le sopravviveva, tornano a galla.

  Ecco la storia del buon canonico Birotteau, che per aver urtato la sensibilità scorticata e la suscettibilità menopàusica d’una vecchia zitella Gamard, astuta pensionante di preti e di vecchi celibatari in tonaca, finisce per essere rovinato nella salute e nella carriera e per vedersi scavalcato dal più felino e calcolatore abate Troubert. Storia terribilmente eloquente. Balzac scopre tutte le strane combutte e le perfide mistificazioni d’un mondo che va dalla superba Cattedrale al chiostro di Saint Gratien, dalla «Rue dell'Armée d’Italie» alla Loira; un mondo che sembra ristretto ed è invece profondato, con radici millenarie, in questo terreno ricco di succhi ma anche di tossine; un mondo che, sotto le apparenze più miti, più vellutate, più smussate, è perfidamente gattesco, irto d’unghie micidiali, forato di trabocchetti.

  Qui riappare la terribile esperienza psicologica del dramma di Vendôme. Il genio, per quanto giovinetto, ha visto le trappole della vita, che sembra così bella e così gioiosa; ha penetrato gli nomini anche sotto le loro apparenze varie, molto spesso ingannatrici.

 

Epilogo cristiano.

 

  Soltanto, con quella profonda onestà, superiore a ogni spirito bassamente settario, che è propria dei geni, egli sa essere obiettivo e giusto. Egli non fa nel «Curato di Tours» opera così detta anticlericale, come tanto sarebbe piaciuto a certi francesi contemporanei. Egli vede il buono e il cattivo d’un mondo complesso; ma sa esaltare le virtù, anche se spietatamente colpisce i vizi.

  Balzac sa, con sottile ironia, svelare gli ori falsi dei salotti legittimisti, ma sa anche scoprire, tra questi orpelli, qualche anima d’oro puro. E il finale di questo dramma cauto e felpato, svolgentesi nella grassa città della Loira, è un finale cristiano e cattolico — un grande finale che rende, sotto le nocche, il suono del metallo prezioso. Nella solitaria chiesa di Saint Symphorien, al di là dal fiume, il povero sacerdote Birotteau, paralizzato e quasi agonizzante, traluce dall’anima una luce che è quella di Cristo.

  Passando per una vecchia via di Tours e giungendo sotto la babelica costruzione della Cattedrale, che, fasciata oggi di armature restauratrici, non rivela meno le corolle di marmo e le candide gemme d’un gotico deliziosamente fiorito, mi è parso che le ombre del povero prete Birotteau e di Onorato Balzac mi accompagnassero in questa visita solitaria.

  Meraviglioso il pomeriggio, esultante di glorie solari; magnifico il monumento che sembrava proiettare di getto verso il cielo le sue due torri come due gigantesche mani giunte.

  Un uomo tirando un carrettino, veniva avanti, nel piazzale, fischiando una canzone atea e comunarda.

  Senonchè, giunto davanti al monumentale portale, il fischio gli morì sulle labbra. L’ombra gigantesca della Cattedrale sembrava sommergerlo. Ed egli forse ne sentì il freddo, nelle ossa.

  Vi sono idee che sono più grandi degli uomini e che, alla fine, hanno ragione di loro.

  Mi sembrò che, in quel momento, anche l'ombra di Balzac apparisse sulla soglia sacra, e sorridesse. Gli uomini comprendono alla fine la vanità di certi loro atteggiamenti.

  Non si insultano le stelle d'una notte serena. Sarebbe stupido.

 

 

  Curio Mortari, Itinerario balzachiano. Nell’isola di San Luigi, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 159, 6 Luglio 1937, p. 3.

 

  Dove Balzac chiuse il periodo della sua misteriosa adolescenza per iniziare quello della sua gloriosa virilità.

 

  Soltanto l’ardore d'una giovinezza che cerca orizzonti nuovi, può rendere meno amaro l’addio alla terra natale; addio che è il più doloroso fra quanti attristano esistenza umana.

  Non sappiamo quali lacrime abbia versato Balzac giovinetto lasciando Tours, i suoi freschi giardini e le verdi georgiche della Loira. Certo è che queste lacrime devono essere evaporate rapidamente al fuoco degli entusiasmi divampanti nell’anima adolescente. La meta era Parigi, sogno di tutte le nature enciclopediche, miraggio di tutte le province.

 

Un’adorazione: Napoleone!

 

  Il padre di Onorato era stato nominato medico agli approvvigionamenti dell’esercito imperiale. Una promozione. Ma per Onorato, Parigi non significa soltanto la capitale caleidoscopica; ma la città su cui sfavilla ancora, sia pur di luce più sanguigna, l’astro napoleonico. Napoleone è, per Balzac giovanetto, l’incarnazione delle glorie e degli apogèi d’un’epoca: egli è il genio della giovinezza battagliera, il Sovrano del fasto, il capo delle armate invitte, il politico delle nuove geografie, il legislatore d’impronta cesàrea. Napoleone: adorazione, febbre, stimolo, del genio letterario di Balzac!

  La fantasia dell’adolescente corre ora, ben più veloce della vettura postigliona e degli echi propagati dalle sue trombe. In fondo all’orizzonte scintilla l’enorme focolaio metropolitano, dal quale devono tener distanti le ali anche le aquile, se non vogliono bruciarle. C’è in questi sogni adolescenti molta esagerazione; ma nell’attimo in cui essi sono così vivi, da sembrare veri, che importa la critica?

  L'ombra; certo, verrà subito a velarli. E’ destino che il povero Balzac per raggiungere le proprio mete debba subire tutte le umiliazioni della realtà. Egli deve, fin dall’inizio, fare appello a quelle riserve di pazienza e di volontà che hanno sorretto tutto il grandioso sforzo della sua vita, quando essa tanto spesso vacillava fra le strette della necessità.

  C’è ancora una volta, all’inizio di questa carriera geniale, l’oppositrice rigidezza della madre, che vede l’esistenza attraverso inflessibili schemi. Onorato dovrà dedicarsi totalmente agli studi per addottorarsi; gli saranno quindi necessarie sentenzia la genitrice implacabile un’oculata sorveglianza e un luogo tranquillo, quasi una clausura. Egli sarà quindi affidato al signor Lepitre e abiterà nel quartiere di San Luigi. Chi è questo misterioso signore presso il quale Balzac sarà allogato?

 

A Parigi senza veder Parigi ...

 

  Anche in questo caso i documenti che servirebbero al biografo per illuminare la figura di questo pensionante-istitutore, sono andati sparpagliati nel vento degli anni...

  Ma il paradosso non sarà qui: Balzac, che ha sognato Parigi, arriverà a Parigi, abiterà a Parigi, ma ancora non la vedrà ... Bisogna sapere infatti che cos’è il quartiere di San Luigi! E’ un'isola della Senna, riunita alla capitale da ponti, ma essa rappresenta, nella metropoli, una specie di chiusa e anacronistica parentesi. Quando vi arrivò Balzac le sue vie dovevano essere anguste e le facciate delle case dovevano apparire maculate dall’umidità e quasi eczematiche.

  E’ lecito arguire questa breve descrizione 1816 dall’aspetto che ancor oggi l’Isola di San Luigi presenta al visitatore. Essa non sembra appartenere alla Parigi novecentistica, che si rinnova e si verticalizza, fra cicloni sonori di motori e di claxon.

  Il quartiere dell’anno 1937 è piatto, a fessure anguste, e conserva quel «colore» che conviene a certi vecchi dagherrotipi. Esso è rimasto, in sostanza, all’800. Non è un fatto che sbalordisca. Il criterio del tempo va riveduto; la storia non è consecutiva; cioè non sempre va concepita in senso cronologico, ma spaziale. Ancor oggi, sulla superficie terrestre, esistono vertici e acmi che appartengono, coi loro panorami di grattacieli, al 2000; ma noti lontano da essi appaiono edifìci, zone, paesi che sono contemporaneamente più arretrati. Il tubo catodico che illumina le vetrine di un corso metropolitano, diventa nel borgo lontano una ventina di chilometri, il fanale a gas del 1900; per diventare nel paesello di montagna, lontano altri 50 chilometri, la semplice lanterna medievale.

  Così è di quest’Isola di San Luigi, dove trovo, dopo il «Bar du Progrès», la vecchia «Plomberie» che ricorda la guerra del ‘70; il negozietto del carbonaio, la finestra alla quale è appesa la gabbia col canarino — come in un sonetto di François Coppée e le mura lebbrose che rievocano l’epoca comunarda, Thiers, le barricate ...

 

Balzac e ... il franco.

 

  Domando qua e là (ingenuità!) qualche informazione. Ma si scambia Balzac per il giovane poeta Arvers, morto di mal sottile e di cui si ricorda una targa applicata sotto un vetusto balcone.

  Balzac? Je m’en f... bien! mi si risponde.

  C’è il franco che scende: questa è la preoccupazione del giorno Devo lavorar d’induzioni. Dove abitava il signor Lepitre? Probabilmente nella «Rue Saint Louis de l’Ile», il corso di questo quartiere acquatico! Ma a quale numero? E in quale abbaino il giovane Onorato tolse dalla vecchia valigia il suo piccolo corredo e i pochi libri, per schierarli sul vecchio cassettone?

  Stanze nere, quasi stambugi in cui sorride soltanto, di quando in quando, qualche freccia d’oro solare.

  Come non dovette il giovane Onorato, con l’anima ancor piena di miraggi d’oro, sentirsi depresso, almeno nei primi giorni? Poteva forse consolarlo, al di là d’una cortina d’alberi, sull’altra riva della Senna, la visione di Notre-Dame, con le sue due meravigliose torri e i suoi grandi rosoni di pietra. Il tempio illustre rappresentava una parte di quella Parigi storica che egli non riusciva ancora a vedere tutta!

  Eppure fu proprio in quest’isola, entro questi limiti circoscritti, che il genio dello scrittore dovette, appunto perché chiuso, lievitare, fervere, prorompere, rivelandosi a se stesso.

  Il vapore abbandonato all’aria non è che un làbile pennacchio di fumo; ma, chiuso in una caldaia, diventa potenza, moto, velocità ...

  Balzac dovette sentire che questo limitato antro era la fucina del suo genio.

  E’ appunto l’epoca in cui egli va alla caccia d’ogni elemento, di ogni particolare, d’ogni nutrimento e d’ogni fermento, atto a nutrire la sua personalità espansiva. Già armato d’una curiosità terribilmente vorace, Onorato è affamato d’ogni notizia e d’ogni studio: egli legge, cerca, analizza, scruta. Come avviene ai genii pubescenti egli si trova in quello stadio di cosmicità e d’ecclettismo che permette di abbracciar tutto e di voler tutto. Rimonta quindi a questo contristato e felice periodo quella fenomenale erudizione, che trapelerà ed essuderà poi da tutte le sue opere e gli permetterà di conglobare tutti i più vari e disparati problemi della coltura e della vita: dalla politica alla sociologia, dalla filosofia alle scienze fisiche; dalla Storia alle Storie naturali; dall’astronomia alla geografia?

 

Le baracche della Senna.

 

  Ma quali sono le prime fonti alle quali si abbevera questa sete enciclopedica? Prima delle biblioteche — che Onorato non riesce subito a approfondire con la sua sonda magica — le fonti sono costituite forse da quei bancherottoli che famosamente si schierano, da circa due secoli, lungo le rive della Senna. Eccoli là, ancor oggi, con i loro allineamenti di libri usati, questi banchi non banali, frequentati da curve figure di ricercatori, di bibliofili, e anche sorvolati da quei sordidi avvoltoi della letteratura, che sono i plagiari e gli sfruttatori d’idee altrui! Tutte le discipline dell’Universo riappaiono qui, tra vecchie rilegature e fogli ingialliti: — volumi di storia, di filosofia, di viaggi, di costumi, di eboristeria (sic?) e persino di magia ... E, coi libri, le tavole illustrate e le stampe.

  E’ ben questo il mondo di cui il genio giovinetto di Balzac comincia a impadronirsi! Queste biblioteche rotabili e vagabonde, queste «carovane» libresche, questi baracconi dello scibile, possono ben costituire l’«Introduzione» a tutto quel mondo babelico ed eloquente che è costituito dalla serie interminabile della «Commedia Umana». E certamente Onorato Balzac, — in quel periodo di pochi mesi trascorso nell’Isola di San Luigi, — deve aver varcato innumeri volte i ponti della Senna per arrestarsi davanti a questi banchi, dai quali esalava l’odore cartaceo dei secoli, di tutti i secoli della storia, con le loro glorie e le loro infamie, le loro epopee e le loro abiezioni.

  Una targa non è stata apposta ancora sopra una qualunque casa dell’Isola di San Luigi e forse non lo sarà mai. Ma comunque essa potrebbe portare questa scritta: «Qui Onorato Balzac chiuse il periodo della sua misteriosa adolescenza per iniziare quello della sua gloriosa virilità».



 Romolo Murri, L’Idea universale di Roma dalle origini al Fascismo, Milano, Valentino Bompiani, 1937.

 

 p. 157. C’è in Balzac (1) una curiosa definizione del cattolicismo, data dal canonico spagnuolo, viaggiante con segreta missione diplomatica, nel quale si imbatte de Rubempré. Egli dice: «Io credo in Dio, ma credo assai più nel nostro ordine e il nostro ordine non crede che nel potere temporale. Per rendere il potere temporale più forte, il nostro ordine mantiene la Chiesa cattolica, apostolica, romana, cioè l’insieme dei sentimenti che tengono il popolo nell’obbedienza». Questa concezione della Chiesa, che distende dal medioevo, è assai più comune, anche oggi, che non si creda.

 (1) Illusions perdues, II, p. 314.

 

 

  Alfredo Niceforo, L’istruttoria giudiziaria nel romanzo e nella scienza, «La Giustizia penale. Rivista critica di dottrina, giurisprudenza, legislazione», Roma, Anno XLIII, Volume XLIII (III della 5° serie), Gennaio 1937, pp. 1-9; Aprile 1937, pp. 232-244; Maggio 1937, pp. 332-342.

 

  Una pagina di Honoré de Balzac. Le impronte di piedi di «maître» Cornélius (1831), pp. 7-8.

 

  Pagina mai ricordata, si capisce, dagli studiosi dell'investigazione giudiziaria, ma nota e notissima – ed anzi assai cara — ai lettori devoti del maestro.

  Un nero castello, ai tempi di Luigi undecimo di Francia; e, nel castello, un vecchio e richissimo (sic) avaro: e accanto all'avaro, in un nascondiglio, un tesoro. Ma chi sottrae a notte alta, da quel tesoro, i sontuosi zecchini, e le collane, e le gemme? Si sono intraviste, nel buio, ombre inafferrabili scivolanti per le scale della torre e per i lungi» corridoi, qualche misero servo è stato arrestato e messo alla tortura. Il mistero permane Ha finalmente un’idea, l’avaro: stendere, segretamente, e a notte fatta, un velo di farina bianchissima sulle lastre che pavimentano il corridoio e su quelle delle scale conducenti al tesoro. E una mattina su quel velo, come di neve, l’avaro trova, nette e taglienti, le impronte dei piedi del ladro: un’intera traccia, come — sulla sabbia del mare—quella del viandante. Si misurano le impronte, si cerca, si indaga, si sospetta, e si trova ... Si trova che le impronte corrispondevano al piede stesso dell’avaro il quale, di notte, in istato di sonnambulismo derubava se stesso, e in altro nascondiglio (dimenticato allo stato di veglia) nascondeva quel che a se stesso rapiva.

  Questa novella di Maître Cornélius scritta nel 1831 è tra le prime in cui occorra nella letteratura romanzesca del XIX secolo il tema delle traccie di piede, rivelatrici.

 

  A proposito di “Maître Cornélius”: un «detective» dell’Antico Testamento, pp. 8-9.

 

  p. 8. Scoprire tracce di piedi spargendo a terra un velo di polvere che all’insaputa del colpevole ne raccolse le orme ... L’ingegnosa trovata è forse uscita tutta dal fervidissimo genio di Honoré de Balzac? Oppure, l'autore della Commedia umana aveva letto il cap. XVI del libro di Daniele, nel Vecchio Testamento, quel capo dal titolo: De idolo Bel et cibo eius? […].

 

  Astuzia e intrigo: il tipo dell’agente Corentin nella «Commedia umana» di H. de Balzac [1], pp. 233-235.

 

  Vecchio tipo: saper tendere misteriosamente intorno all’accusato, o al sospettato, una fitta rete — e invisibile — di inganni, entro cui il colpevole, o creduto tale, prima o dopo dovrà precipitare; anzi, l’astuto cacciatore sospingerà egli stesso l’ingenuo nel trabocchetto. In tal modo agisce Corentin, l’astutissimo arnese di polizia — uscito dall’incandescente pensiero di Honoré de Balzac — quando, lanciato sulle tracce della vittima, ha da portarla ad ogni costo nei ferri del carcere. Corentin, l’astuto «dalla faccia dissanguata, dagli occhi verdi e impenetrabili, dalle labbia sottili e serrate ..., capace di invischiare nella bava della calunnia e dell’intrigo l’innocenza e la virtù»: così è descritto nelle prime pagine di Une ténébreuse affaire (anno 1841: Cap. I, pag. 20 dell’edizione del centenario). Triste figura che già si trovava negli Chouans (1827). Sciacallo in attesa della preda, capace di tutto falsificare e di tutti ingannare, con arte diabolica. Siffatta figura fu assai cara alle creazioni romanzesche di or fa molti anni, ed è ancora assai cara all’immaginazione delle folle. Non ricami finissimi e visioni ultramicroscopiche di logica, nè uso scientifico di tracce scoperte ispezionando luoghi ed esaminando attentamente oggetti e persone; ma soltanto astuzia di cacciatore crudele.

  L’agente Corentin è maestro — come tutti gli agenti suoi pari — nel travestimento. Il travestimento, anzi, non è uno dei principali ferri del mestiere di questi indagatori vecchio stile? Il romanzo giudiziario di Gaboriau e dei suoi imitatori, o il romanzo giudiziario di Conan Doyle, non conosce che per eccezione la ricetta del travestimento, poiché ben altri mezzi l’indagatore possiede per seguire, grazie al filo d’Arianna della sua intelligenza, la via della verità nell’oscuro labirinto del dramma o del delitto. Ma le vecchie pagine e i vecchi romanzi fanno del travestimento uno dei più allettanti ingredienti della narrazione. Corentin, dunque, sa travestirsi e mettere una volta di più la maschera sul proprio viso.

  Quando, sotto mentite spoglie, parte da Parigi e si reca a Mansle per fare un’inchiesta sui pretesi milioni di Lucien de Rubembré, come è diverso dal suo solito aspetto! Si era composto una faccia di vecchio, piena di rughe, livida, e aveva reso grigi i capelli. Dinanzi agli occhi, un paio di occhiali affumicati All’asola del suo vestito nero, il nastrino rosso della Legion d’onore (Où mènent les mauvais chemins, pag. 251).

  Dei quali travestimenti, o analoghi, v’è dovizia nelle descrizioni balzacchiane. L’agente Peyrade — uno dei tanti formanti la pleiade degli spioni — si trasforma in perfetto inglese, così nel vestito come nel modo di parlare, e sa così bene mistificare il pubblico da far concorrenza a quel Musson che passava per essere il più grande mistificatone del tempo: anzi, i suoi colleghi stessi potevano non riconoscerlo ( mènent ecc., pag. 212). «Ghette di stoffa nera che gli montavano fino alle ginocchia e imbottite in modo da ingrossargli fortemente le gambe: grosso pantalone foderato da un enorme strato di ovatta: panciotto abbottonato sino al mento e una grande cravata (sic) azzurra, serrante il collo sino alle guancie; per di più, una parrucca rossa che nasconde la metà della fronte: ed infine abito a coda quadrato, nero, ampio, e di vero taglio inglese» (id. id., pag. 218). Anche di Contenson, un altro «artista en espionage (sic)» il romanziere mostra i travestimenti, ora in mulatto (niente di meno!), ora in onesto mercante, ora ancora in facchino del mercato «porteur de la halle» (id. id., pag. 215-216). Si potrebbe continuare ricordando Carlos Herrera, falso abate ed ex forzato: costui non ischerza in fatto di travestimenti; ne assume a suo piacimento, e per aumentare la sua statura colloca un mazzo di carte entro le proprie scarpe ... ma il già nominato Corentin, maestro anche esso in travestimenti, sùbito si accorge del trucco. «Cela se voit à la position du pied dans le soulier» (id. id., pag. 225).

  È inutile rammentare che Honoré de Balzac assai si compiace nel dipingere talvolta anche quei basso-fondi ove aveva regnato e regnava, come forzato prima, come ideatore e capo della squadra di polizia poi, il famigerato Vidocq, le cui avventure di ergastolano e di uomo di polizia tanto clamore avevano destato[2]. E sul modello di quel Vidocq appunto il romanziere ritrae taluno dei suoi agenti di polizia.

  Per questo egli dava alla figura dei suoi romanzeschi agenti le romanzesche qualità che avevano reso celebre l’antico forzato Vidocq, esagerandole; e cioè l’astuzia, l’audacia, la sfrontatezza, la diabolica concezione dei piani più perfidi.

  È spirito diabolico; non ha di genio, che l’astuzia intelligente: la quale sta al genio come la falsa perla alla vera[3].

  L’autore della Commedia umana, del resto, non prospetta quasi l’enigma giudiziario nel drammatico o — s si vuole — angoscioso modo, tanto caro al romanzo giudiziario propriamente detto, e cioè: un delitto è commesso; il corpo dell’ucciso giace nel sangue; chi è, dov’è l’assassino? Non nascono, dunque, né potevano nascere le situazioni che formano i quadri del romanzo giudiziario moderno: esame del cadavere, esame delle tracce, interpretazioni, deduzioni.

  In una sola novella balzacchiana. tuttavia, guizza il lampo precursore, in quella che si intitola Maître Cornélius (1831): in cui, come già dicemmo, l’incognito visitatore notturno di un ricco tesoro si accusa. da se stesso, grazie alle tracce di passi lasciate sul suolo.

 

  Astuzia e abilità: il Giudice istruttore Camusot, ancora di H. de Balzac, pp. 235-236.

 

  L’autore della Commedia umana, tuttavia, non porta soltanto e di preferenza sulla scena dei suoi drammi le figure più o meno losche di agenti polizieschi; vi ha pur condotto la figura del Giudice istruttore. E lo mostra vivacemente e sapientemente all’azione. Ma quale Giudice istruttore? Il giudice, forse, che sa ricorrere alla interpretazione scientifica di documenti e tracce, o piuttosto quello che ancora una volta ricorre — agente di polizia in grande stile — alla propria sottilissima abilità, al perfido giuoco dell’astuzia e, diciamo pure, ai vecchi metodi e al vecchio armamentario dell’istruttoria giudiziaria?

  Sicuro Proprio a questa seconda categoria appartiene l’enigmatico viso dell’istruttore, quale è descritto in non poche pagine dei romanzi balzacchiani. Alludiamo alla indimenticabile figura del giudice Camusot, incaricato, fra l’altro, di istruire per omicidio e per furto contro un celebre ex forzato e un giovane uomo di mondo amato e vezzeggiato da tutto il faubourg Saint Germain[4] ...

  Senza dubbio, il giudice Camusot non ha completamente libero lo spirito durante la sottile istruttoria, poiché uno dei due arrestati era quel Lucien de Rubempré – giovane e bello — che contava altissime protezioni nel mondo dell’aristocrazia e della politica. E per di più il giudice Camusot era dotato di una intelligentissima moglie, intelligentissima nell’intrigo; che si era incaricata — sempre in virtù dell’intrigo e di una sapiente diplomazia femminile — di far fare al marito una brillante carriera. Questa moglie, insistendo, suggerisce al marito, ossia al giudice, come ha da comportarsi: cercando di rendere innocente il colpevole o cercando fare proprio il contrario, il magistrato avrebbe potuto beneficiare della protezione potentissima di questo o quel personaggio che portava interesse all’innocenza o alla colpabilità di Luciano. L’Istruttore, in tal modo, non avrebbe potuto tramutare la sua toga di giudice in quella di consigliere alla Corte? (Où mènent les mauvais chemins, pag. 314-315). Il mondo va così. Ieri ... e domani.

  Ciò nondimeno — e cioè nonostante i consigli di Amélie, moglie diplomatica e nonostante che il marito avesse desiderio grandissimo di seguire i consigli della compagna — il Giudice istruttore fa ... da Giudice istruttore. Rendere servigi (sin d’allora si diceva così), procurarsi la promozione, sta bene; «mais tout passait chez Camusot après le désir de savoir la vérité, de la deviner, quitte à la taire» (id. id., pag. 364).

 

Tre interrogatori, p. 235.

 

  Assistiamo, così, a tre interrogatori. In primo luogo al più difficile e tortuoso: si tratta di scoprire se l’interrogato, che si vanta essere l’abate Carlos Herrera in missione segreta di S. M. il Re di Spagna, altro non sia invece che il terribile forzato evaso Gacques (sic) Collin detto anche Trompe-la-mort, detto anche Vautrin. E poi il giudice interroga Luciano, disfatto per la vergogna e il terrore, cercando carpirgli la confessione: non fu egli il protetto, il figlio spirituale, il complice del falso abate? L’uno e l’altro — il falso abate e il bel Luciano — incolpati non solo di furto di non poche centinaia di migliaia di franchi, ma anche di omicidio nella persona della giovane Esther, la bella cortigiana trasformata dall’idealismo del romanziere (che pur fu capo della scuola naturalista e verista) in un giglio purissimo. Mostreremo altrove — sia detto tra parentesi —, e a proposito del romanzo naturalista e verista, che i romanzieri naturalisti e veristi sono tali ... appunto perché idealisti; interpretazione che rende assai più comprensibili le pagine tutte di costoro, da quelle di Honoré de Balzac a quelle di Emilio Zola, e che mostra come il dispregiato «naturalista» sia in realtà più idealista dell’idealista di professione.

  Il terzo interrogatorio infine porta alla ribalta una certa persona che avrebbe dovuto riconoscere, sotto le spoglie del travestimento sacerdotale, l’antico forzato.

  L’Istruttore sa interrogare. All’antica, ben s’intende, |possedendo tutto l’antico armamentario dell’interrogatorio. Facciamo rassegna dei vari strumenti, materiali e psicologici, di tale armamentario.

 

Le «ricette» del giudice Camusot, pp. 236-237.

 

  Il forzato sta di fronte al giudice, ma in modo che dalla finestra la luce gli cada sul volto, mentre il giudice invece guarda ed interroga quasi nell’ombra: «les magistrats sont comme des peintres; ils ont besoin de la lumière égale et pure qui vient du nord, car le visage de leurs criminels est un tableau dont l‘étude doit être constante ... (pag. 341).

  È regola sacra per l’istruttore — fa notare a questo proposito l’autore della Comédie humaine — prendere aria distratta ed indifferente durante l’interrogatorio. Tale è il secondo punto della ricetta per un perfetto Istruttore dell’epoca, consistendo il primo punto nel far cadere la luce sul volto dell’inquisito oppure nel nascondere gli occhi dietro le lenti nere di un paio di occhiali d’occasione (id. id., pag. 341).

  A parte l’uso dei sopraddetti metodi, per così dire meccanici, quali il giuoco dell’ombra e della luce o l’ingenua astuzia degli occhiali neri, il vero strumento del perfetto istruttore per Honoré de Balzac è squisitamente psicologico. Innanzi tutto: saper leggere nel viso dell’interrogato le impercettibili reazioni alle apparentemente semplici ma subdole ed infernali domande «C’est à un subit changement de visage observé par ce moyen et causé par une question faite à brûle-pourpoint que fut due la découverte du crime commis par Castaing (celebre malfattore) au moment où, après une longue délibération avec le procureur général, le juge allait rendre ce criminel à la société, faute de preuves» (id. id., pag. 341). Scena glaciale ed ardente al tempo stesso, in cui uno sguardo, un accento, un sussulto, il più leggero ma improvviso colorarsi o scolorarsi del volto fanno pensare ai perigliosi drammi in cui «les souvages (sic) s’observent pour se découvrir et se tuer» (id. id., pag. 342). Che cosa è mai il nudo e secco processo verbale ove sono consegnate le risposte dell’imputato, di fronte a tale tragico duello, se non che la cenere di tanto incendio? (id. id., pag. 342).

  Così, sapendo guardare mentre si interroga, «un éclair, un mot, une inflexion de voix, une hésitation suffisent pour indiquer le fait, la trahison, le crime» (id. id., pag. 364).

  Il giudice Camusot sa usare assai bene tali metodi. Dalla maniera con cui si siede l’ex forzato prendendo posto dinanzi al cancelliere, Camusot intuisce che la grave malattia di cui l’imputato si lamentava era pura finzione (id. id., pag. 363). Nello stesso modo, quando sotto gli occhi dell’ex-forzato. durante l’interrogatorio, il giudice sfoglia rapidamente le lettere del complice, il giudice si accorge che l’imputato «y a jeté le coup d’oeil d’un homme qui voulait voir si quelque autre paquet ne s'y trouvait pas ...», e sempre il giudice si accorge che l’ex forzato lascia sfuggire un impercettibile movimento di soddisfazione. «Ce regard de voleur — dirà più tardi Camusot narrando il fatto — évaluant un trésor, ce geste de prévenu qui se dit: J’ai mes armes, m’on (sic) fait comprendre un monde de choses» (La dernière incarnation de Vautrin, pag. 8).

  Luce e ombra, od occhiali neri: e poi saper guardare il viso, il gesto, la movenza e saper discernere le impercettibili reazioni alle domande traditrici. Ma soprattutto, giuocar d’astuzia. Tutto l’interrogatorio, infatti, deve essere da parte del giudice un giuoco di astuzia: nuovo arnese dell’armamentario istruttorio secondo questo tipo balzacchiano di indagatore. Camusot interroga « en déployant les ruses que se permet le magistrat plus intègre».

  Interrogando, il vero Istruttore — e Camusot era un istruttore di tal genere — ha da essere come la donna gelosa; «se livre à mille suppositions et les fouille avec le poignard du soupçon comme le sacrificateur antique éventrait les victimes; puis il s’arrête non pas au vrai, mais au probable, et il finit par entrevoir le vrai» (Où mènent les mauvais chemins, pag. 364). Una donna che ami, non interroga forse l’uomo amato — quando il veleno del sospetto penetra nel suo spirito — come il giudice interroga l’accusato?

  Soccombe, sotto i colpi di tali procedimenti, il giovane Luciano, «confondu par la subtilité du juge, épauvanté (sic) par sa cruelle adresse, par la rapidité des coups qu’il lui avait portés» (id. id. pag. 371). «Il se voyait au fond d’un précipice où l’avait fait rouler le juge d’instruction, à la bonhomie de qui, lui, poëte, il s’etaìt laissé prendre» (id. id., pag. 371). L’interrogatorio, in tal modo, diventa ... infernale: per quoto non senza ragione Lucien de Rubompré (sic) dopo essere stato così interrogato, esclama: «Si ha ben ragione di dire nel vostro gergo giudiziario che si subisce un interrogatorio! Tra la tortura fisica dei tempi passati e la tortura morale di oggi, preferisco la tortura dell’aguzzino. Che cosa volete ancora da me?» (id. id.. pag. 373).

  Interrogando e poi riepilogando, il giudice ha da saper costruire ipotesi, trovar tutte le possibili soluzioni e scegliere tra esse; nuova ed indispensabile qualità dell’istrumentario psicologico istruttorio. «L’istruttoria giudiziaria? Basta un nonnulla — dice il giudice Camusot alla fedele compagna, in uno di quei dialoghi, in cui i coniugi dibattono sull’avvenire e sulla carriera del giudice — basta un filo, saputo afferrare, per trovar il gomitolo grazie al quale ci si può addentrare nel labirinto delle coscenze (sic) più tenebrose o dei fatti più densi di mistero» (La dernière incarnation de Vautrin, pag. 8).

 

L’ausilio della polizia, pp. 237-238.

 

  Ma la grande arma del Giudice istruttore — del Giudice istruttore dell’epoca o, se si vuole, del Giudice istruttore quale è Honoré de Balzac col suo Camusot — è lo spionaggio. Uno spionaggio, beninteso, non esercitato dal giudice stesso, ma dalla polizia, la quale serve così da braccio destro al magistrato.

  Con una ammirevole foga verbale, ricca di aggettivi e di altorilievi, il nostro romanziere si abbandona ad una delle sue solite divagazioni, tanto seducenti, sulla strapotenza della polizia a Parigi in quell’epoca e sul formidabile servizio di spionaggio che, verso tutti e contro tutti, essa intesseva. Il giudice Camusot si serve per l’appunto di questi segreti rapporti, nei quali è descritta la vita tutta di personaggi, innocenti o colpevoli, grandi o piccoli. La polizia, scrive il romanziere, possiede incartamenti su tutte le famiglie e su tutti gli individui la cui vita è sospetta, o quasi. Nulla le sfugge. Si tratta di un vero e proprio registro universale, vero bilancio delle coscienze umane, che è tenuto con lo stesso scrupolo con cui è tenuto il registro delle entrate e delle uscite della Banca di Francia. Proprio come la Banca si affretta a denunciare ogni minimo ritardo di pagamento, o sa valutare fino al centesimo ogni credito o sa rendersi conto delle qualità e delle possibilità di ogni capitalista, seguendolo da lontano in ogni sua operazione, così fa la polizia per gli abitanti della città. Per quanto in alto sia collocata questa o quella famiglia, mai potrà essa trovarsi al riparo da indagini siffatte che, in fondo, costituiscono una vera provvidenza sociale … La discrezione e il segreto regnano sovrani in tale occulto lavoro di informazioni. «Cette immense quantité de procès verbaux des commissaires de police, de rapports, de notes, de dossiers, cet oçèan (sic) de renseignements, dort immobile, profond et calme comme la mer ...». Sorge il minimo incidente, si affaccia lo scandalo, si prospetta un delitto? La giustizia si rivolge alla polizia, e immediatamente il giudice riceve l’incartamento che si riferisce all’indagine da condurre.

  L’incartamento stesso – è necessario dirlo? —, nato segreto, rimane segreto e muore tra le pareti del Palazzo di giustizia, nel gabinetto stesso del Giudice istruttore. «La justice n’en peut en faire aucun usage légal, elle s’en éclaire, elle s’en sert, voilà tout». Carte segrete, queste, che costituiscono in certa guisa il rovescio del ricamo del delitto, la causa prima ed ignorata del delitto stesso. «C’est enfin la vérité condamnée à rester dans son puits comme partout et toujours». (Où mènent les mauvais chemins, pag. 320).

  Di tali incartamenti, che narrano vita e miracoli di ognuno dei personaggi da interrogare, e delle relazioni che costoro avevano con le più alte personalità dell’aristocrazia e della politica, il giudice Camusot prende conoscenza prima di indagare e di interrogare.

 

  Una pagina delle Memorie di un Prefetto di polizia (1830-1848), pp. 238-240.

 

  pp. 239-240. Gli agenti segreti erano sparsi dovunque, ma il loro vero nome non era neanche conosciuto dai segretari del prefetto, i quali, cionondimeno, dovevano ricevere da essi le comunicazioni verbali, quando il prefetto non poteva ciò fare. Agenti segreti che, sconosciuti gli uni agli altri, firmavano i loro rapporti con uno pseudonimo o con una sigla, di cui il solo prefetto conosceva il segreto ...

  Notizie e descrizioni di tal genere, passando attraverso l'immaginoso cervello del creatore della Commedia umana, non dovevano forse portare a quelle sue pagine sopra ricordate, in cui si mostra ogni strato di popolazione della città sotto l’invisibile sorveglianza delle forze poliziesche? E in cui i rapporti segreti, su personaggi tanto diversi gli uni dagli altri per posizione sociale, forgiati dall’oscuro lavoro degli agenti invisibili, vengono messi a disposizione del giudice istruttore Camusot?

  Tutto sommato, in ogni modo il romanziere non fa un eroe del suo Camusot. Nel dipingere tale figura di Istruttore, il nostro autore prende ancora una volta quei colori che gli servono a dipingere le figure sinistre, e dimentica gli altri, dei quali pur aveva tanta ricchezza, che gli servono a dipingere gli angeli. Del resto, proprio quando per la prima volta Camusot si affaccia in uno degli episodi della Commedia umana, quando cioè si tratta di affidare ad uno zelante servitore l’istruttoria di un certo processo, Camusot è dipinto così: biondo e pallido, pieno di nascoste ambizioni, pronto a condannare e a servire, «prêt à pendre et à dépendre, au bon plaisir des rois de la terre, les innocents aussi bien que les coupables, et à suivre l’exemple des Laubardemont, plutôt que celui des Molé» (L’interdiction, pag, 292. data dal 1836)[5].

 

  Ancora un personaggio della «Commedia umana»: il giudice Popinot, pp. 241-242.

 

  Non si nega che de Balzac abbia anche visto il tipo dell’istruttore logico; chè, nel tratteggiare l’austera e commovente figura del giudice istruttore Popinot, faceva osservare che occorre al giudice una «seconda vista giudiziaria, così nel civile come nel penale». Seconda vista che il giudice Popinot possedeva appieno: «aidé pas sa seconde vue judiciaire, il perçait l’enveloppe du double mensonge sous lequel les plaideurs cachent l’intérieur dés procés (sic)» (L’interdiction, pag. 214). Il giudice — continuava H. de Balzac – ha da penetrare nelle coscienze come il chirurgo nel corpo umano: e per questo l’istruttore Popinot frugava un processo, come Cuvier frugava nell’humus del globo. Era capace, come quello, di trapassare di deduzione in deduzione; sicché nello stesso modo con cui Cuvier ricostruiva un gigante fossile e per sempre scomparso, così il giudice sapeva riprodurre e ricostruire il passato di una coscienza. Dall’esame dei fatti, il giudice Popinot era capace di risalire ai pensieri più segreti: quante volte in piena notte, fugato il sonno, era colpito da un raggio di verità, che gli brillava all’improvviso nel pensiero! (id. id., pag. 214).

  Dal visibile, debitamente guardato ed ispezionato con ogni minuzia, Popinot risaliva all’invisibile. Quando, ad esempio, il giudice è fatto entrare nel salotto della marchesa d’Espard, eccolo osservare con ogni minuzia mentre aspetta — i mobili, i gingilli del salotto stesso, e da quell’esame comprendere e spiegare l’animo della marchesa. «Il était parti de l'éléphant doré qui soutenait la pendule, pour questionner ce luxe et venait de lire au fond du cœur de cette femme» (L‘interdiction, pag. 237). Genio di osservazione veramente bifronte, poiché sapeva egli divinare le virtù della miseria, i sacrifizi oscuri e sconosciuti da un lato; era capace, dall’altro, di cercar nel fondo delle coscienze i più scoloriti lineamenti del delitto, i più sottili fili delle male azioni (id. id., pag. 218). Appunto perché ognuno gli riconosceva singolare genialità nel saper «vedere» e lucidità e penetrazione profonda nel giudizio, fu suo destino essere per tutta la vita condannato a esercitare «les pénibles fonctions de juge d’instruction» (id. id., pag. 215). Uomo di profonda bontà, semplice e distratto, sapeva tuttavia indovinare le astuzie dei più abietti abitanti delle prigioni, mettere in iscacco le furberie e le ipocrisie delle donne perdute, portare alla confessione ogni scellerato (id. id., pag. 215).

  Si badi bene: vi è profonda differenza tra il modo con cui nel romanzo balzacchiano si presenta l’azione di questo ricercatore penetrante e logico e il modo con cui, invece, è presentato il ricercatore logico nel romanzo di E. Gaboriau. Honoré de Balzac indica con i più sorprendenti chiaroscuri le formidabili qualità di penetrazione e di logica del suo Popinot, ma non descrive nelle sue successive fasi il modo con cui il giudice esercita la sua penetrazione e il suo potere logico, esplorando questo o quell’oggetto e indagando su questo o quel mistero. Laddove, in descrizione di tal genere appunto eccelle ed insiste l’indagatore di Gaboriau e assai più quello —che verrà dopo — creato da Conan Doyle. Ora, proprio in questa particolareggiata descrizione della maniera con cui dall’ignoto si passa a poco a poco, grazie alla deduzione o all’induzione, alla scoperta del mistero o alla soluzione dell’enigma, sta tutta la forza di seduzione del romanzo giudiziario di Gaboriau e di Conan Doyle.

  Il giudice Popinot è un logicissimo e profondissimo scrutatore di uomini e di cose, ma il romanzo non mostra gli intimi meccanismi che muovono le ruote d’acciaio del suo cervello; eppure, proprio nel disvelare al lettore questo intimo meccanismo non sta forse l’effetto e la fortuna del vero romanzo giudiziario?

 

  Il giudice istruttore Popinot è anche il «bon juge» Popinot, pp. 242-244.

 

  Non sarebbe completo il ritratto, se ci limitassimo a mostrare del giudice Popinot la squisita chiaroveggenza e l’acuta forza di penetrazione. Il giudice Popinot era anche — così lo mostra il romanziere — il «bon juge». E così occorre che anche qui sia presentato al lettore.

  Si è molto parlato, in sul principio del presente secolo, del «bon juge» e di un bon juge — si noti bene — in carne e ossa: il giudice Magnaud, divenuto poi il buon presidente Magnaud. Probabilmente, questa figura in carne e ossa è oggi dimenticata: ma 40 anni or sono tutta una letteratura, espressa in articoli di giornale, in polemiche ed anche in un volume che raccoglieva le sentenze del buon giudice, ebbe a fiorire.

  Il buon giudice Magnaud giudicava — come si diceva allora — non tanto secondo la legge, quanto secondo l’equità; di qui, l’entusiastica approvazione degli uni, ma le violente diatribe da parte degli altri, che sostenevano doversi innanzi tutto applicare la legge. Vale forse la pena di rammentare che il giudice Popinot è proprio da considerarsi, secondo la precisa descrizione psicologica che se ne trova nella Commedia umana, come un autentico antenato del bon juge Magnaud.

  Poiché Honoré de Balzac era essenzialmente un pessimista, qual meraviglia che di questo bon juge l’autore della Commedia umana mostrasse rimanere la carriera sempre oscura e sperduta, là dove gli altri tutti, meno probi e meno coscienziosi, vedevano sempre più arricchirsi di fregi la propria toga?

  Magistrati, avvocati, procuratori, tutti coloro che vivono nel mondo giudiziario – scrive Honoré de Balzac — distinguono, in ogni causa o processo, due elementi, e cioè l’equità e il diritto. Un tale può benissimo aver ragione in equità ma torto in giustizia; tra la coscienza e il fatto — è sempre il romanziere che parla — esiste una tumultuosa folla di cause determinanti che il giudice ignora ... ma che il buon giudice Popinot sa estrarre dalle tenebre e prendere in considerazione. Vero cadì parigino, annegato nella civiltà parigina, il giudice Popinot, a forza di cercar entro la legge per ricavarne lo spirito, giunge a concludere che il magistrato doveva ben guardarsi dal compiere applicazioni violente e spontanee della legge. Colpito dolorosamente dalle profonde ingiustizie formanti l’epilogo di tante lotte tra uomo e uomo, in cui tutto combatte contro l’onestà c tutto è di profitto ai bricconi, Popinot «concluait souvent contre le droit en faveur de l‘équité, dans toutes les causes où il s’agissait de questions en quelque sorte divinatoires» (id. id., pag. 214). Era giudice, ma «un autre homme plus grand et moins connu se trouvait en lui»: già presidente della commissione istituita per portar soccorso ai poveri, egli era penetrato nelle soffitte, si era messo in contatto con le quotidiane miserie dei reietti ed era divenuto, per così dire, il San Vincenzo di Paola di tanti sofferenti ...

  Povero Popinot, nessuna carriera, grazie a tale suo modo di essere e di agire: sempre al medesimo posto di Giudice istruttore; e neppure il nastro rosso della Legion d’onore! Anzi ... con quanta grazia il presidente gli toglie di mano un importante procedimento, avendo compreso che il magistrato avrebbe concluso in modo ben diverso da quel che in alto luogo si desiderava! E chi viene mai sostituito al buon Popinot? Il giudice Camusot ... di cui abbiamo detto poco sopra.

  Sempre col pensiero fisso alla ricerca del vero dietro il falso, della realtà sotto l’apparenza, della sostanza nascosta dalla futile forma esterna, Popinot — povero Popinot! — è un distratto che non sa curare nè la propria persona, nè le proprie cose, nè gli oggetti tutti della sua dimora, accanto ai quali è pur chiamato a vivere e a soffrire. Vecchi pantaloni neri resi lucidi dal tempo, grosse calze di lana troppo usate, scarponi deformi, biancheria scolorita ... Occorre dire che giacca e panciotto si trovavano sempre in armonia con i vecchi e sdruciti pantaloni? E che il raro giorno in cui un vestito nuovo veniva a trasformare la persona del giudice, di subito l’abito si copriva di macchie e di profonde pieghe? E che il nostro eroe non cambiava cappello se non quando la fedele domestica gli dava l’avvertimento della impossibilità di continuare a mostrarsi in pubblico con un copricapo impresentabile? Cravatta e collo della camicia … nelle medesime condizioni di incuria (L’interdiction, pag. 210).

  Come Honoré de Balzac profondamente si compiaceva nel descrivere con ogni particolare l’abbigliamento dei suoi personaggi! Cosa nuova e nuovissima per il romanzo dell’epoca. Tale minuzia descrittiva risultava, senza dubbio, dal concetto che l’autore della Commedia umana si faceva del romanzo: una vera storia naturale della vita sociale, la quale a sua volta è il frutto dell’ambiente e delle particolari qualità degli individui. Non si poteva quindi far comprendere un personaggio — secondo Balzac — senza mostrare innanzi tutto il suo viso e le caratteristiche fisiche della sua persona, senza far vedere e far comprendere (sic) il paese ove il personaggio era nato, la casa ove era stato allevato, la stanza ove viveva. Categorie tutte di fatti – l’ambiente, le caratteristiche fisiche, la condotta – intimamente legate le une alle altre [6].

  Per le suddette ragioni, il modo, di vestire assurge a indice della personalità: dimmi come vesti, e ti dirò chi sei! Scrive anzi Ferdinand Brunetière, in una delle visioni critiche così profondamente «scientifiche» (nonostante che Brunetière stesso più volte si dichiarasse nemico della «scienza» e del metodo scientifico), che la descrizione dei vestiti, nel romanzo, appare per la prima volta nei romanzi balzacchiani; i quali sono, per così dire, romanzi «costumés» ed anche romanzi «meublés»[7]. Quante pagine della Commedia umana, infatti, sono consacrate alla descrizione minuziosissima dell’abbigliamento, sì che con i documenti della Commedia stessa si potrebbe fare — sempre come scrive F. Brunetière — la Storia della moda tra il 1820 e il 1848: nel romanzo dal titolo Mémoires de deux jeunes mariées (1841) è la descrizione del primo vestito da ballo di Luise de Chaulieu, nel Cousin Pons (1847) si descrivono lo spencer del povero Pons e i nodi della sua cravatta di mussolina ...

  Medesimamente con ogni particolare sono da descrivere i mobili, poiché mobili e gingilli fanno parte, per così dire, dell'animo di chi li possiede e di chi se ne circonda. Certe pagine balzacchiane sono davvero un inventario, ma un inventario tutto lumeggiato dai bagliori del genio descrittivo dell’autore; si ricordi la bottega dell’antiquario nella Peau de chagrin (1831), o la descrizione dei mobili dell’olandese Claës nella Recherche de l’absolu (1834), quella del salotto color papavero selvaggio o rosso fuoco della Fille aux yeux d’or (1834), anche la più che naturalistica descrizione della modesta stanza da pranzo della pensione Vauquer, nel Père Goriot (1834).

  Del suo buon giudice. Popinot tutto assorto nella sua opera di carità e di ricerca del vero, tutto chiuso ad ogni ambizione e ad ogni cura mondana, per non vivere che nei sogni del proprio spirito, Balzac non poteva non descrivere il non curato vestito, nè poteva dimenticare l’intimo ambiente della stanza da lavoro. L’incuria dell’uomo, assorbito da un’idea dominante, imprimeva il suo strano sigillo in ogni angolo della dimora del giudice: polvere dovunque, nessun oggetto al proprio posto, rotoli di carta provvisoriamente collocati dentro vasi da fiori, montagne di libri aperti l’uno sull’altro, qua e là un piatto o una candela dimenticati, o una bottiglia d’inchiostro vuota, e una libreria che sembrava essere stata messa a sacco ... Povero Popinot! (L’interdiction, pag. 224).

  Povero Popinot, che non viveva — ignaro di tutto ciò che lo circondava, e di tutto noncurante — se non dei propri pensieri di ricercatore e di indagatore!

 

L’istruttoria giudiziaria nel romanzo e nella scienza, pp. 332-342.

 

  pp. 332-333. Nel far la rassegna dei vari tipi di investigatore creati dal romanzo giudiziario, additammo — nel precedente paragrafo — l’investigatore che è tutto astuzia e intrigo (il tipo dell’agente Corentin nella Commedia umana di Honoré de Balzac), e poi quello che pur conosce le vie dell’astuzia, ma le illumina, per così dire, con vivace spirito di osservazione e di abilità (il Giudice istruttore Camusot. ancora nella Commedia umana di Balzac), notando tuttavia che l’uno e l’altro tipo costituiscono, ormai, sorpassate figure dell’indagatore giudiziario: anzi, del modo di procedere di tali indagatori abbiamo presentato le vecchie ricette. Infine presentammo quel singolare profilo di istruttore – sempre nella Commedia umana di H. de Balzac -in cui è forse da ravvisare uno dei precursori logici di Sherlok (sic) Holmes (il giudice istruttore Popinot).

 

 

  Pànfilo, La casa delle lettere francesi, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 179, 3 febbraio 1937, p. 3.

 

  [Su: Albert Thibaudet, Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours. Paris, Stock].

 

  Ma la grande generazione che sorse dal terreno lavorato a fondo dalla Rivoluzione e dalle guerre, quella che ebbe più potenza vitale nel secolo, forse in tutti i secoli della letteratura francese, fu quella del 1820: la romantica, tutta inventiva, di Lamartine, di Balzac, di Hugo, ma anche di Dumas e perfino di George Sand.

 

 

  Pànfilo, Romanzi in scena. «Madame Bovary» in venti quadri con rosei fantasmi. […], «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 36, 11 febbraio 1937, p. 5.

 

  E poi c’è tutto il romanzo da riversare nel teatro. Cosa che si è fatta sempre, e qui si fa più che mai. Anche l’ultima novità dell’«Odéon», il secondo teatro di prosa dello Stato francese, è una Eugénie Grandet, estratta dal romanzo di Balzac.

  In Balzac, romanziere meticoloso ma potenzialmente teatrale, ci sono urti netti, contrasti violenti che chiamano la scena declamata Ma Gaston Baty ha preso Flaubert e ha fatto un’azione drammatica di Madame Bovary.

 

 

  Pànfilo, Strade di Vandea. Il castello di René, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 218, 12 settembre 1937, p. 3.

 

  — Qui si capisce come poterono essere le guerre in Vandea.

  Chi me lo fa osservare, compagna e guida di viaggio, conosce bene le sue strade e i suoi autori di Francia (conosce per lo meno altrettanto gli autori d’Italia, e con parecchi di questi, autori vivi, ha contraccambiata amicizia che fa buona strada fra i due Paesi, naturali e letterari; italianizzante con il cuore, con la penna e con lautomobile è Juliette Bertrand). Ma ora, sulla strada fra Alençon e Mayenne, pensa al suo francesissimo Balzac e precisamente agli chouans: un romanzo che, a rileggerlo come urto di creature in amore, ormai poco prende; ma lo sfondo di furore politico e di guerra partigiano che genera l’episodio drammatico è documento caldo di storia. L’episodio è dell’ultima ripresa di lotta — il titolo originario era Le dernier chouan — fra i Brètoni fedeli al Trono e all’Altare e la Rivoluzione regicida e deicida, quando questa stava vincendo come, patriottismo unificatore perché già Bonaparte la aveva vinta e arrotata per la sua gloria. La chouannerie riprendeva in quell’anno 1790 perché Bonaparte era lontano, in Egitto; e queste strade rividero le imboscate dei contadini armati al passaggio dei soldati coscritti dalla Repubblica che voleva la Francia una e indivisibile. […].

  Così questo tratto della «strada verde» richiama le storiche ombre dei pastori inferociti e dei gentiluomini eroici che furono terrore della rivoluzione terrorizzante. Attraversando Mayenne, un cancello separa la strada dal giardino di una bella villa settecentesca, bianca e rossa: questo cancello — vi è scritto — si aprì il 3 novembre 1793 per ricevere il corpo del generale Lescure morto di ferite alla Pellérine, Lescure, i fratelli Cotterau, eroi della prima chouannerie. Dopo Mayenne si sale questa costa della Pellérine, dove anche Balzac apre il romanzo con uno scontro fra i bleus, che inquadravano i coscritti reclutati a Fougères, e i chouans che attaccano al loro solito modo dai due terrapieni: l'im­boscata è per liberare i coscritti, i quali infatti, alle prime schioppettate, spariscono dalle due parti della strada, buoni a diventare chouans al richiamo fischiato dai compagni.

 

 

  Giovanni Papini, Disamore all’amore, «Il Frontespizio. Rassegna mensile», Firenze, Anno IX, Numero 4, Aprile 1937, pp. 243-255.

 

  pp. 245-246. Dopo il Voltaire e il Manzoni, si potrebbero citare il Balzac e il Tommaseo, sempre per fare la coppia tra un italiano e un francese.

  Il Tommaseo temeva che l’amore in letteratura dipendesse dal fatto che molte scritture dovevano «piacere più alle donne che agli uomini, o a quella razza di uomini che somigliano più del conveniente alle donne».

  Così l’amore (in letteratura) veniva da lui considerato un po’ come debolezza di effeminati. (Poi c’ era l’amore ingrediente dei romanzi storici: «Perché dovrà egli questo bamboccio dell’amore aggirarsi sempre tra i pugnali e gli spettri?»).

  Del Balzac disse, in una sua famosa lettera, il Brunetière:

  «L’amore, il grande amore, l’amore passione, che si dispiega nei drammi dello Shakespeare o nelle tragedie del Racine, è molto raro, e forse conviene rallegrarsene. Non conviene moltiplicare la razza dei cavalieri De Greux e delle «Valentine» e delle «Indiane». Ce ne sarà sempre abbastanza! Soprattutto è vero, che mostrando di far dell’amore l’unica preoccupazione dei suoi eroi, il romanzo, fino a Balzac, ha falsato la rappresentazione della vita. L’umanità in generale è preoccupata di tutt’altra cosa che dell’amore: altri interessi la sollecitano, altre necessità la gravano. L’amore è, è sempre stato e non può essere che il grande affare di alcuni disoccupati, il cui tempo non è consacrato nè al danaro, nè al lavoro, nè all’azione, nè a nulla che possa trasformarsi in utilità sociale».

  Dove già è chiara, la preferenza al «denaro» come «utilità sociale», a svantaggio dell’«amore», «affare da disoccupati»!

 

 

  Pepa, Musica e teatro. Suoni ed echi. Massimilla Doni, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 71, 24 Marzo 1937, p. 2.

 

  Massimilla Doni è il titolo della nuova opera di Oshmar Schoeck, il forte compositore compositore svizzero alla Staataoper di Dresda il 2 del corrente mese. […]. In questa opera, il cui libretto è tratto dalla nota novella di Balzac, lo Schoeck ci mostra Venezia verso il 1830, un tempo nel quale tutta l’Europa era sotto il fascino del rossianesimo. La vita nel teatro La Fenice e davanti al teatro stesso, le eccitazioni e la banalità d‘una prova teatrale, i capricci e le discussioni estetiche sul teatro fra nobili mecenati, l’atmosfera pericolosa che circonda le primedonne alla Catalani, tutto ciò si rispecchia in quest’opera sullo sfondo dei vecchi palazzi e delle gondole piene di mistero. Il gioco del teatro e dell’amore che trascina nei suoi vortici la giovane diva Tinti mette in subbuglio mezza Venezia. E’ quasi una Zerbinetta straussiana all’ennesima potenza: lo è per il temperamento, come pure per la profusione dei gorgheggi e cadenze. La parte della Tinti è nella letteratura moderna la migliore del suo genere. La Duchessa Massimilla Doni, la rivale della Tinti, non sembra appartenere alla generazione del 1830, coma l’esige il programma, ma si direbbe piuttosto una contemporanea di Dante e di Petrarca. Ogni volta ch’ella apparisce sulla scena, lievi accordi giungono al nostro orecchio come d’una musica del rinascimento. […].

 

 

  Francesco Picco, Notizie bibliografiche. Critica e Storia letteraria. Sergio de Pilato, “Balzac e il mondo giudiziario”, Napoli Ediz. «La Toga», 1937, L. 5, «L’Italia che scrive. Rassegna per il mondo che legge. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, A. F. Formíggini, Anno Ventesimo, N. 9, Settembre 1937, p. 224.

 

  Lo scopo di questo libro, informatissimo dell’argomento, scritto con brio da uno studioso che vive egli stesso nel mondo «giudiziario» rievocato, non è quello che possa pensarsi a prima giunta e cioè la «rappresentazione» che di detto mondo il Balzac fece nei suoi romanzi. Prima di indagare in un apposito volume, in preparazione, «la concezione balzachiana della giustizia», e i riflessi artistici che nella sua vulcanica produzione romanzesca trovano i fati e gli atti che si svolgono nelle severe aule dei Tribunali, il de Pilato ci offre un’analisi diciamo così, biografica, dettata con un intento tutto particolare. Il Balzac è egli stesso «personaggio romanzesco» di queste sue vissute vicende; ne è il critico e, in certo senso, lo storico, e solo in seguito ne sarà il romanziere. Avviato a studi e, di poi, a pratica legale presso un notaio e un avvocato, il futuro autore della Comédie Humaine, ha modo di cogliere dal vero molte scene comiche e drammatiche. Egli stesso approfondisce argomenti giuridici e ne scrive con conoscenza di causa; e anche quando, seguendo la sua vocazione, si rifiuta alla toga per consacrarsi alle lettere, non dimentica né il diritto né la pratica legale, facendola, in un caso tipico, da avvocato vero e proprio, componendo scritti di pretto carattere giuridico, occupandosi, com’è ovvio, sopratutto, di diritti d’autore, di contratti letterari con una competenza che molti legislatori in materia avrebbero potuto invidiargli; formula addirittura un Code Littéraire, sottoposto nel 1841 ai Deputati che così costituivano «la Commission de la Loi sur la propriété littéraire». Quasi non bastasse, la sua affannosa ricerca di danaro, che lo gettò in mezzo alle più svariate professioni, involontariamente, lo trasse a contestazioni, a liti, lo coinvolse in un tal groviglio di vicende giudiziarie ... da farci confondere l’autore con qualcuno dei più agitati protagonisti di certi suoi romanzi. La transazione Guidoboni-Visconti; il processo di Sebastiano Peytel; le cause che piovvero sul capo della sua amata contessa Hanska, sono, sì, da un punto di vista umano, deplorevoli perché contribuirono, con l’eccessivo lavoro, con gli insoddisfatti desideri, a trasformare la sua vita in un doloroso calvario. Ma dal punto di vista artistico furono provvide perché valsero a fornirlo d‘una documentazione, d'una personale esperienza sì vasta e profonda che gli permisero di darci del mondo giudiziario una riproduzione realistica piena e compiuta.

 

 

  Salvatore de Pilato, Balzac e il mondo giudiziario, Napoli, Edizioni «La Toga», 1937, pp. 155.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Introduzione, pp. 5-9;

  I. La famiglia, studi, pratica legale, scritti giuridici, pp. 11-35;

  II. Vicende giudiziarie di Balzac, pp. 37-66;

  III. La transazione Guidoboni-Visconti, amori, viaggi e nuove vicende giudiziarie, pp. 67-93;

  IV. Il processo di Sebastiano Peytel, pp. 95-110;

  V. La contessa Hanska e le sue cause, pp. 111-122;

  VI. Il calvario della sua vita, pp. 123-150;

  Note Bibliografiche, pp. 151-154.

 

  Trascriviamo integralmente le pagine relative all’Introduzione:

 

  I maggiori studiosi di Balzac riconoscono concordemente che nella sua molteplice prodigiosa produzione romanzesca rivela una competenza particolare, una cognizione approfondita spesso addirittura mirabile di argomenti tecnici, nei campi più svariati, dalle collezioni di arte all’agricoltura, dalle porcellane all’industria della carta, dai commerci più diversi alla fabbricazione dei profumi, dalla tipografia alla chimica, dai problemi economici a quelli contabili, dalle banche alle industrie minerarie e forestali, alle opere idrauliche. Lo stesso, a maggior ragione, va detto pel mondo giudiziario. Chi abbia pratica di esso o appena conoscenza, contrariamente a quello che nota in genere in tante altre opere che ad esso si ispirano, ne ritrova nei romanzi balzacchiani una rievocazione così felice, una esattezza così minuziosa, una precisione finanche nel linguaggio così spiccata che ne resta sorpreso, anzi vi vede, si potrebbe dire, una certa compiacenza nel rievocarlo, tanto che pure per argomenti che non hanno con esso stretta attinenza si ricorre a parole e cose legali per trarne immagini, forme, paragoni. In quasi tutti i suoi romanzi e le sue novelle, figure principali o semplici macchiette, appaiono magistrati, avvocati, notai, procuratori, commessi, uscieri; frequentemente, argomenti centrali o episodi secondari, si ritrovano istruttorie, processi, liti, atti, documenti, arringhe forensi, vi si narrano intrighi e trappole, interferenze ed inframmettenze della giustizia, lungherie della procedura, deformazioni della verità, talora vi si parla addirittura di problemi giudiziari , o di riforme legislative.

  In rapporto al mondo giudiziario la cosa si spiega facilmente. E non soltanto con la pronta intuizione assimilatrice, con lo spirito di osservazione così realistico penetrante e sintetico che erano in lui, non soltanto con quel bisogno di conoscere e l’insaziabile ansiosa curiosità del suo intelletto eclettico ed enciclopedico che lo sospingeva ad interessarsi, ad approfondire le più diverse conoscenze e, propenso com'era alla discussione ed alla amplificazione, ad intervenire con la sua persona anche nei suoi libri, non soltanto con quelle speciali condizioni di vita che, come scriveva all’Evelina nel marzo del 1833, lo avevano «jeté à travers tantes (sic) de professions involontairement». Balzac aveva compiuti studi di legge, aveva fatta la sua pratica giudiziaria presso un notaio ed un avvocato, aveva scritto anche di argomenti giuridici, ma soprattutto nella sua vita tumultuosa, febbrile, tormentosa, aveva avuto conoscenze ed esperienze dirette del mondo giudiziario, raccogliendo così un dovizioso materiale di sensazioni, osservazioni, impressioni, episodi, di cui si servì largamente trasfondendolo nei suoi romanzi, trasformandolo ed elaborandolo con la sua fantasia e la sua arte.

  Trarre dalle vicende della vita e dalle opere di Balzac tutto quello che si riferisce al mondo giudiziario, rievocarne e studiarne le conoscenze ed esperienze personali, ricordare i suoi saggi e scritti giuridici, ecco l’oggetto di queste pagine, le quali saranno completate ed integrate con un altro lavoro in cui insieme alla concezione balzacchiana della giustizia sarà studiata la rappresentazione che del mondo giudiziario Balzac ha fatto nei suoi libri[8]. Ma poiché col mondo giudiziario Balzac ebbe nella sua esistenza pur breve un così continuo, intenso e svariato contatto, attraverso queste pagine il lettore ritroverà anche la rievocazione e ricostruzione di tutta la sua vita, così piena, così interessante, così romanzesca ma pure così dolorosa.

  Sull’argomento in Italia abbiamo soltanto due studi del Morello e del Sighele, che risalgono al 1901 e al 1911, entrambi però ristretti più specialmente all’antropologia criminale, come allora usava, e in epoca più recente uno studio del D’Amelio limitato al fallimento di Cesare Birotteau: in Francia non vi è che un solo libro, quello del Roux su Balzac giureconsulto e criminalista, che risale al 1906, e quindi, a parte tutto, non tiene conto nè poteva degli altri scritti di Balzac, e i pochi altri studi, ricordiamo quelli del Bréal, del Blondet, o sono «discours de rentrée» quasi introvabili o trattano soltanto qualche argomento particolare o strettamente tecnico.

  Il nostro quindi vuole essere un primo saggio, compiuto ed organico, o tra i primi, che ricerca e studia il mondo giudiziario in rapporto alla vita, alle vicende personali di Balzac, ai suoi scritti legali.

  Ed un po’ diverso dagli altri il nostro lavoro ci sembra altresì per la ricostruzione della vita, del carattere, del temperamento di Balzac che ne diamo in queste pagine, attraverso le quali è ben mutata l'immagine del romanziere di Tours come per solito si trova in libri che lo riguardano e che si ripete troppo in maniera stereotipata, convenzionale, preordinata, ben lontana dalla realtà e dalla verità.

  Come il lettore s’accorgerà facilmente anche dalle note che abbiamo relegate in fine per non interrompere la narrativa, si è tenuto conto con ogni accuratezza di tutto ciò che di più importante si è scritto su Balzac e delle sue opere meno conosciute, ma chiediamo venia per omissioni eventuali ed involontarie manchevolezze: vivendo in provincia, assorbiti da ben diverse cure e da altri studi, non abbiamo avuto sempre l’agio di più larghe informazioni e comunicazioni, nè ci è stato possibile, come pure avremmo voluto, ricercare direttamente e personalmente in Francia le fonti più vive e più fresche degli studi balzacchiani. Dopo di noi altri potrà fare meglio di noi.

 

 

  Guido Piovene, La bella natura, «Corriere della Sera», Milano, Anno 62, N. 179, 29 luglio 1937, p. 3.

 

  Ad aprir questi spiragli sulla natura, alla rinfusa, in tutte le parti del mondo, come quando alla fiera si guardano i quadri storici attraverso una fila di lenti su una parete, a fare questo ricamo di paesi esotici e di pensieri sedentari, ci si avvezza a vedere anche la natura come da un balcone. Bello vederla così scompartita dall’alto, poli, deserti e foreste, come un paesaggetto ordinato, diviso tra le diverse colture, il frumento, il granturco, la vigna, il pascolo e il villaggio con la chiesetta e il campanile. Accade lo stesso quando si legge Balzac, e si ha davanti il panorama delle passioni umane e delle loro gradazioni e mischianze, tutte con un’etichetta, lussuria, avarizia, gola. Un po’ per volta si vedono anche i paesaggi come passioni e sentimenti e azioni della natura, simili a quelle di noi uomini, buone da farne un romanzo o un trattatello di psicologia.

 

 

  Carlo Ricciardi, Appendice di “Stampa Sera” (64). La ruota del destino. Grande romanzo inedito di Carlo Ricciardi, «Stampa Sera», Torino, Anno 71, Num. 173, 22 Luglio 1937, p. 4.

 

  Forse Giovanni Darcières non sarà mai uomo di alta finanza; ma vi sono altre mète, oltre quelle dell’oro, signor Fenestrange.

  — La gloria? Ha detto Balzac che è il sole dei morti.

  — E anche dei vivi! E Giovanni la conquisterà fra poco.

 

 

  Margherita G. Sarfatti, Arte indipendente, «La Stampa», Torino, Anno 71, Num. 299, 16 Dicembre 1937, p. 3.

 

  Lo stesso Rodin, che a noi pare oramai consacrato dalla storia ed entrato nel definitivo del museo, sino a quel punto di legittima e ingiusta reazione, per cui lo si considera sorpassato; il famoso Rodin, in Francia, è ancora un mezzo eretico dell’arte ufficiale, tanto questa ha il rancore lungo e la scomunica tenace. Trenta o quaranta anni fa, la Società dei Letterati, che gli aveva ordinato un monumento a Balzac, non esitò innanzi all’enorme ridicolo di rifiutarglielo, come troppo ardito, moderno e incomprensibile. E ancora oggi, quella statua del Balzac, che rappresenta il suo capolavoro, non è accettata su nessuna pubblica piazza di Parigi o della provincia.



  Agata Sofia Sassernò, Poesie. A cura e con un saggio su ‘La cultura femminile piemontese dalle origini al 1860’ di Maria Adriana Prolo, Milano, Fratelli Treves Editori, 1937.

 

  p. CXVVII (nota 101). Honoré de Balzac, che conobbe la marchesa a Torino, scriveva nel 1838, a Madame Hanska: «J’ai été frappé du peu de ressources qu’il y a chez les Italiennes; elles n’ont ni esprit ni instruction: elles comprennent à peine ce qu’on leur dit: dans ce pays-ci, la critique n’existe pas et je commence à croire que la renommée a raison quand’elle attribue aux Italiennes quelque chose de trop matiriel (sic) en amour. La seule femme instruite ea spirituelle que j’ai recontrée (sic) jusqu’ici en Italie est la Cortanse de Turin ». Cfr. Correspondance de H. de B., Paris, 1876, vol. I, pag. 415. Il giudizio è esagerato perché oltre alla contessa Gabriella Sclopis di Condove che il Balzac conobbe nella sua visita a Torino nel 1836 (vedi: H. Prior, Balzac à Turin, in «Revue de Paris», 15 gennaio 1924) parecchie altre dame potevano stare a pari per intelligenza e coltura alla marchesa Roero di Cortanze.



  G. Sommi Picenardi, Il bel canto, «Radiocorriere. Settimanale dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche», Torino, Anno XIII, N. 1, 3-9 Gennaio 1937, p. 11.

 

  Io non morirò, dunque, senza avere ascoltati i gorgheggi eseguiti come li udii spesso in certi sogni, e svegliandomi credevo di vedere i suoni volteggiare nell’aria. Il gorgheggio è la più alta espressione dell’arte ... Destinato a svegliare nell’anima nostra mille idee dormienti, traversa lo spazio gittandone i germi, che, raccolti dall’orecchio, fioriscono nel fondo del cuore ... La voce del cantante colpisce in noi, non già il pensiero, non il ricordo delle nostre felicità, ma gli elementi del pensiero e mette in moto i principi! stessi delle nostre sensazioni. E’ una cosa spiacevole che il gusto involgarito abbia costretto i musicisti ad applicare le loro espressioni a delle parole ... Il gorgheggio è l’unico punto lasciato agli amici della musica pura.


  Queste linee sono del Balzac, tolte da una sua bizzarra novella veneziana, intitolata «Massimilla Doni». Il personaggio che si esprime così è un vecchio italiano, appassionato del bel canto, che si lamenta, per l’interposta penna del grande narratore, di vederlo decadere e sparire, vittima della modernità.

 

 

  Pietro Zama, Libri e periodici. Francesco Cazzamini Mussi, “Meneghino ride... (ma non sempre). Nuovi aneddoti milanesi”; A. F. Formìggini editore in Roma, in-8°, pp. 292. L. 9, «Rassegna storica del Risorgimento», Roma, Anno XXIV, Fasc. XII, Dicembre 1937, p. 1987.

 

  Nessun libro di storia propriamente detta ci potrebbe, per esempio, documentare quello che passava nell’animo dei Milanesi nel 1857 a proposito di Francesco Giuseppe, come l’episodio che riguarda il suo arrivo a Milano in quell’anno medesimo. […].

  Nè potremmo trovare in manuali di storia della letteratura o di storia napoleonica, quelle opinioni così ferme e severe che Manzoni ebbe a proposito del grande Corso, quali appunto apprendiamo mediante questa controllata aneddotica. E le citazioni potrebbero continuare ed in realtà ci lusingano, particolarmente quando ci riferiamo al tempo della dominazione austriaca; ma difficile sarebbe fare una scelta, e quindi ci dilungheremmo troppo.

  Piuttosto ci piace di rievocare l’opinione di Balzac che considerava gli aneddoti come gli antinarcotici della storia; e forse non sarebbe male ricordarsi, qualche volta e in determinati casi, di questa opinione che non è certamente spregevole.

 



[1] Citando l’opera balzacchiana, citeremo sempre l’edizione detta del centenario (Edition du centenaire). L’episodio mènent les mauvais chemins si trova nel volume intitolato Splendeurs et misères des courtisanes; quello intitolato La dernière incarnation de Vautrin, nel volume che porta questo stesso titolo (e comprende anche altri romanzi); il romanzo, infine, su L’interdiction si trova nel volume che ha per titolo Honorine (e comprende anche altri romanzi). [N. d. A.].

 

[2] Vedi, ad es., di Balzac, l’episodio che fa séguito a Splendeurs et misères, ecc., intitolato: La dernière incarnation de Vautrin (1847), ove in bocca ai foschi personaggi — nell’ambiente del carcere e del delitto — il romanziere fa risuonare il gergo dei criminali, «ce chiffre diplomatique appliqué au language (sic)» (pag. 80 dell’edizione citata, nel volume intitolato: La dernière incarnation de Vautrin). [N. d. A.].


[3] Della figura di questo astuto agente — il diabolico Corentin — particolarmente avremo modo di discorrere nel volume, in preparazione, sul romanzo giudiziario nell’arte, nella vita e nella scienza; volume di cui le presenti pagine non costituiscono che breve frammento. Accanto alla figura di Corentin avremo modo di ricordare e tratteggiare — sempre nel citato volume in preparazione — una serie di personaggi del medesimo genere usciti dai vivaci codici della tavolozza di Honoré de Balzac, arnesi di polizia di second’ordine e formanti intorno a Corentin una specie di Pleiade, se è permesso adoperare immagine così nobile per figure di tal genere. [N. d. A.].

 

[4] Ci tratteniamo alquanto sul Giudice istruttore Camusot che è tanta parte delle avventure balzacchiane culminanti nei due episodî: Où mènent les mauvais chemins (1846), e La dernière incarnation de Vautrin (1847), perché nessuno tra gli studiosi del romanzo giudiziario o dei romanzi analoghi ha creduto mettere in luce tale personaggio e tale figura di Giudice istruttore; ciò non fu fatto nemmeno da quel Regis Messac, autore del denso volume sul Detective «novel» già più volte da noi citato. [N. d. A.].


[5] Honoré de Balzac allude qui a Jean Martin de Laubardemont, Consigliere di Stato e magistrato, di cui si servì Richelieu per mandare al rogo Urbain Grandier; e a Edouard Molé, Consigliere al Parlamento di Parigi, vittima delle persecuzioni che ebbe a subire il Parlamento nel 1589, prigioniero nella Bastiglia, ma sempre fedele, nonostante ogni pericolo, al partito del Re.

 

[6] In ultima analisi, tale dottrina coincide con quella— della nostra scuola italiana — da indicarsi sotto il nome di «parallelogramma delle forze»: la condotta umana è posta sotto la pressione delle forze o fattori, o cause, o concause, o fatti d’ordine ambientale geografico, ambientale sociale, o biologico individuale, e può quindi considerarsi come la risultante di tali forze, proprio come la diagonale ultima di una serie di parallelogrammi.

  Il medesimo si dica per il fatto sociale, che è anche esso da considerarsi quale una risultante come sopra. […].

  È da notare tuttavia che uno studio completo sul modo di pensare e di vedere, su tale soggetto, di H. de Balzac mostrerebbe l’esistenza di concezioni alquanto diverse; il che non è da far meraviglia, quando si consideri il carattere tumultuoso e talvolta contraddittorio della imponente creazione geniale di questo grande. [N. d. A.].


[7] F. Brunetière, Honoré de Balzac, Paris (s. d.), pag. 133. [N. d. A.].

 

[8] Di questo scritto, annunciato in queste pagine da Sergio de Pilato (1875-1956), non abbiamo trovato alcuna traccia.


Marco Stupazzoni

Nessun commento:

Posta un commento