venerdì 14 giugno 2019



1931

 


Edizioni in lingua francese.

 

 

  Onorato Balzac, Nouvelles: Un Episode sous la Terreur. Le Réquisitionnaire. Le Passage de la Bérésina (Adieu). El Verdugo. Le colonel Chabert. Avec introduction et notes d’Armand Landini, Milan, Charles Signorelli Editeur, 1931 («Scrittori francesi», N. 77), pp. 119.

 

  Struttura dell’opera:

 

  A. L., Honoré de Balzac, pp. 5-9;

  Paul Bourget, Balzac nouvelliste par Paul Bourget, pp. 9-11; (cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici);

  Un Épisode sous la Terreur, pp. 13-28;

  Le Réquisitionnaire, pp. 29-42;

  Le passage de la Bérésina (Adieu), pp. 42-56;

  El Verdugo, pp. 57-66;

  Le colonel Chabert, pp. 67-117.

 

  Dei cinque testi balzachiani qui raccolti, solamente Un Épisode sous la Terreur e El Verdugo sono presentati in forma integrale. Le restanti opere sono pubblicate in forma parziale con tagli e omissioni di sequenze testuali in alcuni casi piuttosto rilevanti. 




Estratti.


 

  O. di Balzac, Eugenia Grandet, trad. di Grazia Deledda, «Gazzetta di Venezia», Venezia, Anno CLXXXIX, N. 68, 9 Marzo 1931, p. 3.

 

  Escono in questi giorni tre nuovi volumi della nota Collezione Romantica diretta da G. A. Borgese [...].

  Per gentile concessione dell’Editore Mondadori, stralciamo appunto da quest’ultimo volume [Eugenia Grandet] una mirabile pagina che descrive il nascere dell’amore di Eugenia per il suo bel cugino.


 


Traduzioni.

 

 

  O. Balzac, L’Amante immaginaria, «Il Romanzo Quattrini. Settimanale illustrato. Romanzi – Novelle – Varietà», Milano, Anno XXII, N. 931, 8 Marzo 1931, pp. 2-8.

 

  Siamo di fronte alla traduzione piuttosto approssimativa di La Fausse Maîtresse: il testo balzachiano è strutturato arbitrariamente in dieci capitoli (cinque soltanto erano i capitoli in cui il romanzo era suddiviso nell’edizione del Siècle – dicembre 1841 – che Balzac sopprimerà nell’edizione definitiva Furne del 1842).

  Particolarmente evidente è l’errore, all’inizio del romanzo, riguardante l’anno nel quale sono collocati gli eventi narrati, trascritto in 1875 (sic) in luogo di 1835.

 

 

  O. Balzac, L’Angelo e il Semidio. Romanzo, Roma-Milano, “Augustea” (Roma, Tipografia del Senato del Dott. G. Bardi), 1931, pp. 75.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Ugo Cuesta, [Prefazione], pp. 5-6; L’Angelo e il Semidio, pp. 7-73.

 

  Con il titolo di: L’Angelo e il Semidio, è pubblicata la traduzione della prima che forma la trilogia del Livre mystique, ossia Les Proscrits.

  Questa edizione italiana del testo balzachiano il quale, nella nota introduttiva di Ugo Cuesta (che trascriveremo integralmente nella sezione: Studî e riferimenti critici), è indicato con il titolo di: Les exilés, presenta una suddivisione del tutto arbitraria dell’opera in undici capitoli[1]: All’ombra di Nôtre-Dame; Il Tiracarne sente puzzo di zolfo; I due stranieri; «Io sono la contessa Mahaut»; La via Fouarre; La lezione di Sigier; «Dio è la luce»; La città mirabile; L’orrore; Teresa Donati; Verso la Patria.

  Anche la traduzione si rivela in più punti alquanto libera e, in taluni casi, tutt’altro che soddisfacente. Vistoso, ad esempio, è l’errore in cui cade il compilatore nella traduzione dell’incipit del romanzo:

 

  p. 525 [cfr. Balzac, Les Proscrits, a cura di René Guise, in La Comédie humaine, Paris, ‘Nouvelle Pléiade’, 1980, t. XI).

 

  En 1308, il existait peu de maisons sur le Terrain formé par les alluvions et par les sables de la Seine, en haut de la Cité, derrière l’église Notre-Dame. [Il corsivo è nostro].

 

  p. 7. Poche cose si vedevano, nel 1308, sul terreno formato dalle alluvioni e le sabbie della Senna, a monte della Cité, dietro la chiesa di Nôtre-Dame.

 

 

  Onorato Balzac, I Celibi. Pierina. Il curato di Tours, Milano, Fratelli Treves Editori, 1931 («Biblioteca Amena”, N. 373), pp. 260.

 

  Cfr. 1907; 1916; 1918; 1922; 1930.

 

 

  Balzac, Cesare Birotteau. Traduzione originale e prefazione di Decio Cinti, Milano, Antonio Vallardi Editore, 1931 («Pagine straniere. Collana diretta da Paolo Bellezza»), pp. 260.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Decio Cinti, Prefazione, pp. 7-11. (cfr. la sezione: Studî e riferimenti critici);

  Scene della vita parigina. Grandezza e decadenza di Cesare Birotteau Profumiere Vice-Sindaco del II Circondario di Parigi Cavaliere della Legion d’Onore ecc., pp. 13-260.

 

  Esemplata sul testo dell’edizione definitiva del romanzo («Musée littéraire» del Siècle, 1847), questa traduzione che Decio Cinti fornisce dell’opera di Balzac può considerarsi complessivamente adeguata.

 

 

  O. Balzac, Eugenia Grandet. Romanzo, Milano, Casa Editrice Bietti, s. d. [1931?] («Biblioteca réclame», 33), pp. 221.

 

  Cfr. 1924; 1928; 1929.

 

 

  Balzac, Eugenia Grandet. Traduzione di Grazia Deledda, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1931 («Biblioteca Romantica, diretta da G. A. Borgese», VII), pp. 245.

 

  Cfr. 1930.

 

 

  Balzac, Fisiologia del matrimonio o Meditazioni sulla felicità e la infelicità coniugale, Firenze, Adriano Salani Editore, 1931 («Biblioteca Salani Illustrata», 20), pp. 255.

 

  Cfr. 1885 e ristampe successive.

 

 

  Onorato Balzac, Non toccar la mannaja. Seguito al volume La Storia dei Tredici, Milano, A. Gorlini Editore, 1931 («Il Romanzo quindicinale», 2), pp. 175.

 

  Cfr. 1928.

 

 

  Balzac, La Pelle di zigrino. Traduzione italiana di Emilio Girardi, Milano, Casa editrice Sonzogno, [1931?] («Collezione Sonzogno», 17), pp. 253.

 

  Cfr. 1904; 1921.

 

 

  Balzac, Scene della vita privata. Incomincia una vita. La Signora Firmiani. Il Messaggio. La Messa dell’ateo. Traduzione di Amilcare Locatelli, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1931 («Tutto Balzac», 23), pp. 331.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Incomincia una vita [Un début dans la vie], pp. 7-245;

  La Signora Firmiani, pp. 247-280;

  Il Messaggio, pp. 281-301;

  La Messa dell’ateo, pp. 303-330.

 

  I modelli di riferimento per la traduzione, non sempre puntuale, di queste ‘scènes de la vie privée’ sono quelli delle edizioni definitive Furne pubblicate tra il 1842 e il 1845.

 

 

  Balzac, Scene della vita privata. Il Contratto di matrimonio. Il “Cespuglio”. Gobseck. Traduzione di Amilcare Locatelli, Milano, Edizioni Corbaccio, 1931 («Tutto Balzac», 25), pp. 336.

 

  Struttura dell’opera:

 

  Il Contratto di matrimonio, pp. 7-208;

  Il “Cespuglio” [La Grenadière], pp. 209-245;

  Gobseck, pp. 247-334.

 

  A volte un po’ troppo libere e disinvolte, le traduzioni qui raccolte sono esemplate secondo il modello delle rispettive edizioni definitive pubblicate da Furne nel 1842.

 

 

  Onorato Balzac, Storia dei Tredici. Scene della vita parigina. Ferragus. La Duchessa di Langeais. La Ragazza dagli occhi d’oro, Milano, Casa Editrice Sonzogno, [1931?] («Collezione Sonzogno», 18), pp. 315.

 

  Cfr. 1903 e successive ristampe.

 

 

  Balzac, Studi filosofici. Serafita. Gesù Cristo in Fiandra. Melmoth riconciliato, L’Elisir di lunga vita. Traduzione di Gildo Passini, Milano, Edizioni “Corbaccio”, 1931 («Tutto Balzac», 24), pp. 356.

 

  Struttura dell’opera:


  Serafita, pp. 7-224; Gesù Cristo in Fiandria, pp. 225-254;

  Melmoth riconciliato, pp. 255-328;

  L’elisir di lunga vita, pp. 329-368.

 

  Le traduzioni, che giudichiamo, nel complesso, corrette si fondano sul testo delle rispettive edizioni definitive pubblicate da Furne nel 1845 e nel 1846. 


 


Studî e riferimenti critici.

 

 

  Recensioni e note bibliografiche. Marcel Fosseyeux – “Il y a cent ans” (Paris Medical en 1930); Parigi Libreria Le Français un vol. in 10° di pag. 154 con figure, prezzo 10 frs., «Bollettino dell’Istituto Storico Italiano dell’Arte Sanitaria», Roma, Anno XI, N. 1, Gennaio-Febbraio 1931, p. 51.

 

  Ancora un centenario? sì ma questa volta non di un uomo ma di una collettività! Del resto questo si confonde con il centenario del romanticismo, tanto che questo studio avrebbe potuto essere stato intitolato il romanticismo e la medicina. Vi trovate la facondia ed il modo di fare di Alibert, che fa le sue lezioni all’aperto sotto i tigli dell’ospedale di S. Luigi ed il fervore e lo spirito sistematico di Broussais che si esaurisce in acerbe polemiche. Ma questa tela a grandi pennellate non fissa solamente un’epoca curiosa della professione medica. Grazie all’erudizione variata del suo autore, segretario generale della Società Francese di Storia della Medicina e membro della Commissione del Vieux Paris noi riviviamo in questa lettura nella Parigi del 1830 senza marciapiedi, senza elettricità, senza metro, senza autobus; in questa Parigi lontana, che percorrono affaccendati o sfaccendati i personaggi di Balzac. Ecco la grande ombra dello scrittore che si profila nel mezzo di quel mondo medico ed eccolo iniziantesi presso il suo medico Nacquart ai misteri della frenologia, frequentando i taumaturghi ed i magnetizzatori, prendendo quali personaggi per i suoi romanzi i medici più illustri contemporanei alterandone di poco i nomi: Récamier diventa Cameristus, Broussais si cambia in Broussel Magendie in Mangredie, Bouillaud in Blanchen, Dupuytren in Desplein, scrivendo egli stesso una fisiologia del matrimonio, mentre Agusto Comte cura un’accesso (sic) di follia nella casa di salute di Esquirol ad Ivry. Ed oltre ai citati l’A. ci fa sfilare come innanzi ad uno schermo cinematografico Amussat, Andrai, Bailly, Baudeloque, Bichat, Boyer, Cabanis, Chomel, Cruveilhler, Descuret, il frenologo italiano Fossati, Fournier, Laennec, Lisfranc, Lugol, Orfila, Pelletan, Richerand, Trousseau, Velpeau e tanti altri, indicandone e descrivendone le abitazioni sulle due rive della Senna, raccontandone aneddoti della vita e notizie storiche culturali.

  Bisogna leggere questo interessante studio del Fosseyeux lavoro d’analisi e di sintesi che interessa nello stesso tempo il letterato, lo storico e lo scienziato.

 

 

  Pétain all’Accademia di Francia. L’elogio di Foch pronunciato dal Maresciallo, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno X, N. 20, 23 Gennaio 1931, p. 5.

 

  Balzac cento anni fa scriveva: «Senza darsi pena di asciugarsi i piedi inzuppati nel sangue fino alla caviglia, l’Europa non sembra impaziente di ricominciare la guerra». «Non si direbbe che l'umanità, per quanto lucida e ragionevole, incapace di sacrificare i suoi impulsi alla coscienza e i suoi odii ai suoi dolori, si comporti come uno sciame dì assurdi e miserevoli insetti irresistibilmente attratti dalla fiamma?».

 

 

  Il solenne ricevimento di Pétain all’Accademia di Francia, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 20, 23 Gennaio 1931, p. 7.

 

  Sembra che le difficoltà della pace facciano impallidire le atrocità della guerra. Balzac cento anni fa scriveva: «Senza prendersi il tempo di asciugarsi i piedi inzuppati nel sangue fino alla caviglia, l’Europa non sembra impaziente che di ricominciare la guerra».

 

 

  Notizie bibliografiche. Mario Gromo, “I bugiardi. Romanzo”, Milano, Mondadori, 1931, pp. 327, in 16°, L. 12, «L’Italia che scrive. Rassegna per coloro che leggono. Supplemento mensile a tutti i periodici», Roma, A. F. Formíggini Editore, Anno Quattordicesimo, N. 2, Febbraio 1931, p. 40.

 

  Caratteri anzitutto, d’un rilievo che fa pensare persino a Balzac. Certe trovate di Aldo ricordano per esempio Mercadet l’affarista. Balzacchiana è la figura di Nodàri: ciarlatano disgraziato perché è il primo lui a cadere nelle proprie reti, a credere alle proprie panzane.

 

 

  Corriere teatrale. Notiziario, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 63, 14 Marzo 1931, p. 5.

 

  Fra le nuove commedie che saranno prossimamente rappresentate sono: «Fiamme in Vandea» di Cesare Giardini, dramma in 4 atti tratto dal romanzo di Balzac «Les Chouans»; […].



  Clan, «Le grandi firme. Quindicinale di novelle dei massimi scrittori diretta da Pitigrilli», Torino, Anno VIII, N. 162, 15 marzo 1931, pp. 44-47.

 

  p. 44. Jules Janin così scrive del Père Goriot:

  «M. de Balzac avait trouvé là une excellente introduction, un roman qui pouvait être excellent mais, malheureusement, le roman est misérable et tout à fait manqué».

 

 

  Cronaca cittadina. La morte di Dante Signorini, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 68, 20 Marzo 1931, p. 4; Num. 69, 21 Marzo 1931, p. 2.

 

  L’ultima sua opera teatrale rappresentata fu, se non andiamo errati, un «drammone» — così egli scrisse — tratto da Balzac: L’uomo d’acciaio. Signorini non solo ci fece assistere alle stupefacenti avventure di Gabba-la-morte, l’uomo dei mille volti e dotta scaltrezza diabolica, ma seppe colorire il dramma con pennellate felici e indovinatissime: il vecchio, prodigioso mondo balzacchiano non rimase senza eco nella nuova ricostruzione scenica […].

 

 

  Marginalia. Fra Balzac e Henry Monnier, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXVI, N. 12, 22 Marzo 1931, p. 3.

 

  I rapporti fra il romanziere e il caricaturista umorista furono dei più singolari. Come ricorda un collaboratore delle Nouvelles Littéraires — 7 marzo[2] — avendo essi la precisa età parvero fatti per intendersi e diventarono subito assai intimi. Si può dire anzi che Balzac scoprisse il genio comico di Monnier nella sua nota incarnazione di Joseph Prudhomme e fosse il primo o fra i primi a dilettarsi delle sue piacevoli invenzioni. Certo Balzac fu buon profeta annunziandogli una felice carriera. Ma il fatto veramente singolare in questi rapporti consiste nel modo col quale lo stesso Balzac ha rappresentato il Monnier accoppiando molta esattezza di particolari e di connotati con le valutazioni e gli apprezzamenti più sgradevoli se non addirittura offensivi. Dice infatti di questo suo personaggio, che è poi il notissimo Bixiou. che «era spiritoso ma alla maniera di una scimmia ... egoista avaro e spendereccio nel tempo stesso, nel senso che spendeva il suo danaro soltanto per sé: urtante aggressivo e indiscreto faceva il male per il male ...». Soggiungeva che la sua lingua maledica diceva male di tutto e di tutti essendo pronta a «insultare specialmente quello che non capiva ...». Quanto all’artista non si poteva negargli la vivacità dello spirito e una fecondità d’idee che lo rendevano attraente ai buongustai, ma «nessuno dei suoi amici gli voleva bene» sapendo come fosse disposto a massacrarli per un motto di spirito. Per giustificare questo ritratto più che malevolo, Champfleury noto biografo di Monnier suppone che Balzac fosse urtato dal fatto che non aveva trovato in lui quell’arrendevolezza di oscura collaborazione a cui il romanziere era abituato fra gli amici. Comunque stiano le cose, rimane da spiegare l’enigma dell’invito rivolto da Balzac nel 1843 al Monnier di collaborare all’illustrazione della «Commedia Umana» disegnandogli qualche tipo di questa e «tanto meglio se si fosse indotto a raffigurarsi sotto i tratti di Bixiou». Ciò che il Monnier fece realmente, forse cogliendo volentieri l’occasione di lasciare intendere al romanziere che egli si era riconosciuto nel poco simpatico personaggio. Ciò che non esclude che egli serbasse vivo ricordo ed anche qualche rancore del modo col quale era stato trattato da Balzac. In una sua lettera del ‘57 Monnier constata con soddisfazione che nei gabinetti di lettura le opere di Paolo De Kok (sic) portano tracce d’uso ben più visibili e accentuate che non quelle di Balzac e così giudica lo scrittore: «Balzac, nonostante le sue dimensioni gigantesche, ha il torto di metterci la morte nell’anima ... non crede e non ha creduto mai a niente: è il solo uomo che io abbia conosciuto senza un amico e senza alcun desiderio di averne. Il mondo per lui era un limone che una volta spremuto si poteva buttare alla spazzatura». Dove la frase relativa all’amicizia sembra una precisa risposta a quanto Balzac aveva scritto nel suo romanzo di Bixiou e cioè dello stesso Henry Monnier.

 

 

  Il doloroso romanzo d’un soldato ch’era considerato morto, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno X, N. 152, 27 Giugno 1931, p. 5.

 

  Balzac ha narrato il tragico e doloroso romanzo del colonnello Chabert il quale, scampato ad una guerra nella quale era, stato considerato come morto, tornò, a casa, trovò sua moglie rimaritata, la sua famiglia dispersa, e comprendendo di non essere più che un guastafeste, se ne va lontano a morire una seconda volta. Un’avventura analoga ha messo sottosopra la cittadina di Bavay, ove in questi giorni è ricomparso certo Alfredo Allart, il cui nome figura sul monumento ai caduti e che ha nel cimitero della città una targa, commemorativa con la sua fotografia e questa iscrizione: «A nostro padre Alfredo Allart, morto per la Francia il 15 novembre 1914, a 32 anni».

 

 

  Ricompare e scompare dopo 16 anni di silenzio, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 152, 27 Giugno 1931, p. 5.

 

  Balzac ha narrato il tragico e doloroso romanzo del colonnello Chabert il quale. scampato a una guerra nel corso della quale ora stato considerato come morto, torna a casa sua, ma trova sua moglie rimaritata, la sua famiglia scomparsa e, comprendendo di non essere più che un guastafeste, se ne va lontano a nascondersi e a morire una seconda volta. Una avventura analoga ho messo sossopra la cittadina di Bavay ove, in questi giorni, è ricomparso certo Alfredo Allart […].



  Il matrimonio di Balzac e la servitù della gleba, «Ultime notizie. Il Piccolo delle ore diciotto», Trieste, Anno IX, 20 agosto 1931, p. III.

 

Il dott. Cébutikin, uno dei personaggi di «Le tre sorelle» di Cécof, racconta a un certo punto che Balzac- prese moglie in una lurida sconosciuta cittadina, a Verdyczew; la battuta viene accolta con ilarità dal pubblico, il quale ignora che effettivamente il celebre romanziere sposò la confessa Hanska precisamente in quella cittadina. Solo ora però si apprendono i particolari del romantico viaggio, particolari che sono narrati dallo stesso Balzac in una lettera da Kiev che uno studioso berlinese ha scoperta in un archivio privato di Varsavia.

  Balzac lasciò Parigi il 5 settembre 1845, e per giungere alla meta impiegò la bellezza di dieci giorni. «Il viaggio massacrante — osserva a un certo punto — ha avuto peraltro il suo lato buono: ho imparato a conoscere persone e cose, e sono riuscito in tal guisa a rivedere certi miei giudizi».

  A proposito dei contadini russi afferma che essi «sono molto più felici dei venti milioni di francesi; essi vivono spensierati come fanciulli; i latifondisti danno loro da mangiare, da bere e di che vestirsi; insomma, vien fatto di giungere a questa conclusione: che la, servitù della gleba è per essi una fonte di pace e di felicità; della libertà, hanno un concetto analogo a quello dei negri: per essi vorrebbe dire ubriacarsi e non far niente».

  Queste considerazioni appaiono abbastanza strane sulle labbra del grande scrittore il quale, in fatto di libertà, fece parlare ben diversamente i personaggi dei propri romanzi.

 

 

  Marginalia. Lettere d’amore e letteratura, «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXVI, N. 39, 27 Settembre 1931, p. 4.

 

  Le lettere d’amore dei letterati celebri corrono il pericolo di essere esaminate al microscopio della posterità, non soltanto per le indagini consuete intorno alla maggiore o minore sincerità dei sentimenti che esprimono. Può darsi che pazienti ricercatori corrano in traccia delle «fonti» così come si farebbe, o si è fatto, per un poema o per un romanzo anche a proposito di epistolari. Il caso è toccato a Balzac, di cui un collaboratore della Revue de Littérature comparée — nel numero luglio-settembre 1931 [Quelques passages intéressants de la correspondance de Balzac] — ha voluto vagliare qualche passo delle lettere indirizzate alla Dilecta — Madame de Bernis (sic) — proponendosi appunto di accertarne l’origine o piuttosto la derivazione, che egli aveva «fiutato» dover esecro di pura marca letteraria. Il brano sul quale si sono concentrate le sue ricerche coi massimi resultati è una piccola dissertazione sull’amore, un esercizio stilistico di effetto patetico e abbastanza generico per poter esser adoperato da ogni innamorato. In questo brano si insiste soprattutto sul noto fenomeno per cui chi ama quando sia lontano dall’oggetto amato si sente ricco delle idee più ingegnose atte ad esprimere e ad illustrare i sentimenti che prova, mentre la presenza della persona amata porta come effetto immancabile il vuoto cerebrale, l’ammutolimento. Altre minori «contradizioni» tutte proprie dell’amore vi sono pure accennate di volo. Il critico ha dunque accettato che la stessa esercitazione stilistica, con pochi cambiamenti di forma, affatto secondari, si ritrova in uno dei romanzi della prima maniera di Balzac. che furono romanzi da strapazzo, come tutti sanno. Ma non può dire se l’innamorato abbia fatto suo pro dal romanziere o se viceversa il romanziere abbia attinto alla prosa dell’innamorato. Certo se la cronologia non mente entrambi hanno travasato lo squarcio patetico da un romanzo anteriore: e cioè dalla traduzione francese di «Melmoth» il famoso romanzo di Maturin. Segue la citazione del brano fonte che è molto più diffuso e di peggior gusto, certo, delle frasi balzacchiane, così della lettera a Mad. de Bernis come del romanzo. Non seguiremo l’articolista in altri minori esempi di «appropriazione» o piuttosto di contaminazione letteraria sempre a proposito del carteggio di Balzac con Mad. de Bernis. L’articolista, dopo gli accertamenti in verità assai magri, si scandalizza e ha gravi parole di rampogna. Forse esagera. Queste «contaminazioni» sono tutt’altro che infrequenti negli epistolari amorosi di scrittori e scrittrici di grido E nel caso speciale di Balzac. si tratta di peccatuzzi di gioventù, e cioè dei più perdonabili.



 Spigolature, «Gazzetta di Venezia», Venezia. Anno CLXXXIX, N. 359, 26 Dicembre 1931, pag. II.

 

 Senza dubbio Balzac si è ingannato – scrive l’Excelsior – quando descrisse la donna di trent’anni come una vecchietta che nulla più spera dall’avvenire. All’epoca nella quale l’illustre romanziere scriveva era forse così. Ma quale donna moderna potrebbe mai dare ragione a quel pessimista? [...].

 

 

  Mariano d’Amelio, Il fallimento di Cesare Birotteau, «Nuova Antologia. Rivista di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Società Anonima La Nuova Antologia; Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli, Settima Serie, Volume CCLXXX della Raccolta CCCLVIII, Fascicolo 1431, 1° Novembre 1931, pp. 14-24.

 

  Il Saint-Beuve (sic), scrivendo del Balzac, osserva che l’autore della Comédie humaine parla come un dictionnaire des arts et métiers, comme un manuel de philosophie allemande et comme une encyclopédie de sciences naturelles. Il Saint-Beuve esagera, soprattutto nel senso critico che è in queste parole; ma la sua osservazione sta a dimostrare che il Balzac colpisce i lettori per quella esattezza tecnica, ch’egli usa nei romanzi, e che costituisce in parte il segreto del successo di alcuni di essi, press’a poco come la verità storica ha formato, a suo tempo, la fortuna del romanzo storico. Molti dei romanzi del Balzac hanno come sfondo la vita dei commerci, dell’industria o, in generale, degli affari. Ne La Maison Nucingen le banche e la borsa, col famoso colpo delle mines des Wortschin; nelle Illusions perdues la fabbricazione della carta, per la quale il romanziere annunzia nuovi metodi e nuove materie prime, che l’industria ha poi adottato; nel Médecin de campagne l’impresa agraria; in Curé de village i lavori idraulici; in Grandeur et décadence de César Birotteau le imprese edilizie, coi celebri terreni della Madeleine, destinati all’ingrandimento di Parigi; in tutti questi romanzi e in altri, che un lettore della Comédie humaine ricorderà facilmente, i personaggi non sono che gli esponenti della vita intensa, movimentata, insidiosa, delittuosa o benefica degli affari. La trama degli avvenimenti è lieve; talvolta quasi priva d’importanza. Sembra un semplice pretesto per la descrizione di quella vita e per la risoluzione di quel problema. Nell’un compito e nell’altro il Balzac dimostra una conoscenza tecnica fuori del comune, che non sembra appresa per l’occasione di quel romanzo, ma da gran tempo assimilata e meditata. Evidentemente egli aveva una geniale inclinazione agli affari. Forse più teorica che pratica, perché non ha saputo mai trarne profitto. L’impresa editoriale e quella di una fonderia di caratteri, che ancor giovane assunse a Parigi, con l'’iuto di madama di Berny, finirono assai male.

  Fra le regioni in cui sperò di svolgerla fu la nostra Sardegna. Egli vi si recò nell’aprile del 1838 per visitare i giacimenti minerarii a nord di Alghero e poi quelli della regione d’Iglesias. Sperava di riprendere i lavori di ricerca e di sfruttamento, che i romani, i pisani e gli spagnuoli avevano abbandonati e che il progresso dei mezzi moderni di estrazione avrebbe potuto ancor rendere vantaggiosi. Raccolse esemplari del materiale, notizie, piante topografiche ed ogni altro elemento di informazione, che la popolazione locale poteva dare, ignara oramai di quell’industria. Ma più che l'amore per le miniere poterono i disagi e le condizioni non buone di salute. Egli lasciò l’isola e i propositi, pieno l’animo d’amara disillusione. Quarant’anni dopo chi gli diè ragione fu Quintino Sella, recatosi in Sardegna nel 1869 per rimettere in attività le stesse miniere che il Balzac aveva visitate e delle quali ci ha dato una classica relazione, considerata un modello del genere (Torino, 1870, F.lli Doyen ed.). Veramente, a questa data i minerali di piombo avevano acquistato ben altro valore!

  Ma dovunque il romanziere si trovi, anche casualmente, il suo occhio scruta ciò che gli è dintorno e il buon dèmone della speculazione gli suggerisce idee e progetti. Ospite di Madame d’Agoult nella Valle del Grésivaudan, spinge lo sguardo sui monti lontani coperti di foreste e al torrente Gabau, rumoroso fra le loro insenature, e concepisce il piano della trasformazione agraria della regione e il «barrage» del torrente per formare dei grandi laghi artificiali; nel suo ultimo viaggio in Polonia, per recarsi da madame Hanska — e fu la volta buona — percorre regioni ricche di foreste e studia l’opportunità di concessioni per profittare del legno di qualità dura che ivi abbonda, molto acconcio per le traversine occorrenti alle strade ferrate, che in Francia si andavano rapidamente costruendo. Un suo schietto ammiratore, René Bouvier (Balzac, homme d’affaires, Paris, Champion, 1930), ha voluto trarre dalla Comédie Humaine molteplici esempii dell’intuito felice che il romanziere aveva negli affari e la sua particolare competenza in ogni loro ramo. Ciò mi ha suggerito di soffermarmi su di un altro lato di questo spirito poliedrico, quello della sua competenza giuridica, e mi è parso che l’episodio del fallimento di César Birotteau ne desse buona prova, e che il ricordare alcune sue osservazioni al riguardo non fosse del tutto inutile, mentre ferve l’opera di riforma dei nostri istituti fallimentari.

 

* * *

  La storia di César Birotteau si svolge a Parigi verso il 1820. Il romanzo è fra i più noti. Basta qui ricordare quella parte che è utile per questo studio.

  Il Birotteau era un onesto negoziante di profumi, con la sua bottega in rue St. Honoré, nei pressi di piazza Vendôme, con l’insegna La reine des roses. Aveva avuto buon successo con due produzioni: la Pâte des Sultanes e l’Eau carminative. Godeva ottima reputazione. Realista, ebbe l’onore di lottare contro Napoleone sui gradini di St. Roch; fu ferito, e nella lunga convalescenza che seguì la guarigione «il résolut d’être purement et simplement un parfumeur royaliste, sans jamais plus se compromettre et s’adonna corps et âme à sa partie». Fu nominato assessore al tribunale di commercio; poi aggiunto alla mairie del suo circondario, e decorato della Legion d’Onore. Aveva sposato Costanza Pillerault, una commessa, alta e bionda, di uno di quei primi emporii della riva sinistra che precedettero i grands magasins, e dalle nozze felici aveva avuto una figlia, Cesarina, delicata creatura con «une vague melanconie physique, dont sont atteintes les jeunes filles qui n’ont jamais quitté l’aile maternelle». Aveva fatto delle economie. Possedeva un patrimonio di centomila franchi. La sua attitudine specifica di profumiere (gli era stata riconosciuta dall’antico proprietario della Reine des roses, il sig. Ragon. profumiere di S. M. la Regina Antonietta, che gli cede il negozio quando si ritirò dagli affari), lo induceva a creare nuovi prodotti, ed uno particolarmente da opporre alla Macassar Oil, rimedio per far crescere i capelli, che ebbe in Francia, e per molti anni, una grande voga. Fu così creata l’Huile Céphalique, estratto di nocciuole, col metodo della pressione, secondo i suggerimenti del Vauquelin, membro dell’Istituto. Per diffonderlo, il Birotteau si associò un suo giovane commesso, il Popinot, onesto e laborioso, segreto e discreto innamorato della figlia. Tutto andava bene nella sua casa. Furono la carica pubblica e il desiderio di migliorare la sua posizione morale, che lo indussero ai primi mali passi. Rinnovare la sua abitazione, ingrandirla, trasformarla, abbellirla, porla in condizione di darvi un gran ballo per festeggiare la Restaurazione e la sua croce di cavaliere: ecco la sua ambizione. Invano la savia moglie ne lo dissuade e l’ammonisce. L’architetto Grindot l’asseconda a meraviglia; la casa diventa un appartamento di gran lusso, in cui la piccola famigliuola entra piena di timore e di reverenza. Le spese si elevano a sessantamila franchi. Ha luogo la festa da ballo, che segna una data storica per la famiglia Birotteau. I debiti verso l’architetto, il costruttore, il muratore, il decoratore, l’ebanista e quelli verso i fornitori della grande festa da ballo cominciano a gravare penosamente su quel piccolo bi­lancio famigliare. Sono, tuttavia, colpe riparabili. Ma ecco che il Birotteau si lancia in una grande impresa. Il profumiere diventa speculatore in terreni da costruzione. Acquista alla Madeleine un terreno in ottima posizione per ottocentomila franchi, insieme con Claperon, uomo di paglia del notaio Roguin. Come pagherà la sua quota di quattrocentomila franchi? Innanzi tutto versa le sue economie, centomila franchi, nelle mani del notaio; poi ottiene un prestito di quarantamila franchi, mediante ipoteca sull’immobile di via Faubourg du Temple, l’officina che produceva la Pâte des Sultanes e l’Eau Carminative; lo zio di sua moglie, Pillerault, e il Ragon, suo predecessore nella bottega La reine des roses, vi aggiungono centomila franchi, che il Birotteau garentisce; vi è ancóra una differenza di centosessantamila franchi, e questa è coperta con cambiali a firma Birotteau. che riceve l’assicurazione che gli effetti non saranno posti in circolazione.

  L’affare in se stesso è eccellente, perché i terreni alla Madeleine sono destinati a un grande avvenire; ma per il Birotteau è pericoloso, giacché i redditi della piccola industria non bastano per i bisogni della famiglia e per gli interessi sui prestiti. Il Birotteau spera nei redditi del nuovo suo prodotto, l’Huile Céphalique, che il fido ed intelligente Popinot va lanciando sul mercato; ma si sa che nei primi tempi non si può fare assegnamento su di essi, ché le spese d’impianto, quelle di pubblicità, i compensi a qualche giornalista poco scrupoloso, che vi ha dedicato un articolo su un gran giornale, li assorbono completamente. Peggiore è l’affare dal punto di vista morale. Dietro il notaio Roguin è il banchiere Tillet, uno dei personaggi meglio tratteggiati della Comédie Humaine. Egli fu piccolo commesso nel negozio del Birotteau; tentò la virtù di madama Costanza, e un bel giorno rubò una somma della cassa. Il Birotteau perdonò e rimise col suo il danaro mancante. Il Tillet andò via e continuò la sua vita senza scrupolo, e in rapida ascesa. Quando, più tardi, il Birotteau ha bisogno di denaro, il Tillet gli fa prestito (nel fallimento del Birotteau, il Tillet figura per un credito di diecimila franchi), ma si offende mortalmente alla dichiarazione, che gli fa Birotteau, di ridargli tutta la stima, con evidente allusione al passato, sottolineata dalla citazione del verso di Voltarie: «Il fit du repentir la vertu des mortels». Il Tillet non può perdonargli il ricordo del delitto e giura la sua rovina.

  Questa si inizia con la fuga del notaio Roguin. Gliela consiglia il Tillet, che è l’amante della moglie. Nella libera Svizzera il notaio si sottrae alla responsabilità di tutte le malefatte, fra le quali l’appropriazione del denaro del Birotteau. Gli effetti cambiarii, che questi aveva consegnati al notaio, passano nelle mani del Tillet; triste istrumento in tristi mani. Il Tillet divulga il disagio finanziario del suo antico padrone. La folla dei creditori per la casa e la festa da ballo accorre. Chi più strilla è la mère Madou, colei che ha venduto a credito le nocciuole per l’Huile Céphalique. Va a far scandalo in rue St Honoré, avanti la bottega La reine des roses, ma si acqueta alle oneste promesse del Birotteau; pittoresca figura di piccola commerciante parigina del tempo del Balzac, pronta alla violenza per l'aspra difesa dei proprii interessi e alla commiserazione di fronte alla sventura. Ma la minaccia travolgente è Claperon, portatore degli effetti, che. istigato dal Tillet, non dà tregua.

  Allora il Birotteau si pone alla ricerca del denaro. Il credito può salvarlo. In fondo, egli aveva un’azienda sana. La sua antica bottega, La reine des roses, rendeva bene: meglio prometteva quella del Papinot con l’Huile Céphalique; il rialzo del valore dei terreni alla Madeleine era cosa sicura; ina frattanto urgeva il denaro e il credito non avrebbe potuto essere restìo a venirgli in aiuto. Questa necessità del credito per l’industria era stata sempre l'idea dominante del Birotteau. Egli lamentava anche nei tempi della floridezza, che financo la Banca di Francia non facesse che poco o nulla per il commercio. «Elle m’a toujours paru manquer à sa destination quand elle s’applaudit, en présentant le compte de ses bénéfices, de n’avoir perdu que 100 à 200mille francs avec le commerce parisien. Elle en est la tutrice». Il Birotteau comincia la sua via crucis. Prima, dal banchiere Keller, parlamentare di sinistra, uomo di immenso prestigio, che tratta bene il realista Birotteau e lo invia al fratello, il quale, però non trova sufficienti le garenzie. e avrebbe preferito prender parte all’affare dei terreni della Madeleine. se gli effetti fossero stati pagati; poi. dal Tillet, che gli concede il prestito di diecimila franchi per le esigenze del momento, e lo invia al barone Nucingen, il protagonista dell’altro romanzo del Balzac, La Maison Nucingen, con lettera firmata Tillet, senza punto sull’i, segno convenzionale che significava non doversene tener conto. Il Nucingen gli chiude la porta sul viso; poi, da Molineux, che vuol fare prestiti sicuri, e tali non sono quelli ad un commerciante, poiché «un commerçant n’est à l’abris des revers que quand il est retiré»; e, infine, da Popinot, il devoto ed umile aspirante alla mano di Césarine, il fido commesso, che, consigliato dallo zio, il giudice Popinot, trova del tutto inutile firmare cambiali a novanta giorni, quando è sicuro che non potrà pagarle, e che serviranno soltanto a trascinare anche lui nella catastrofe. È vero che pochi giorni dopo Popinot offre cinquantamila franchi d’effetti al Birotteau, come corrispettivo di una ingegnosa vendita con diritto di riscatto della parte di proprietà dell’Huile Céphalique, suggerita dallo zio giudice; ma questa volta e il Pillerault, la più dritta coscienza di quella compagnia, che strappa gli effetti dalle mani del Birotteau, li lacera e li getta al fuoco per impedire il comune errore. Anche il fratello di Birotteau, vicario della chiesa cattedrale di St. Gatien di Tours, cui Cesar si era rivolto, risponde con molta commozione che alle sue orazioni ha aggiunto quella pro meo fratre Caesare, lo conforta ad aver fede nella Provvidenza e si limita ad inviargli mille franchi.

  Il Birotteau. dopo un’altalena di speranze e di disillusioni, di tormenti e di spaventi, tanto più dolorosi in quanto aveva voluto tener tutto celato alla sua savia moglie, pur confidandosi con la giovanissima figlia, accetta il consiglio di Pillerault e, in un momento di mortale angoscia, firma il bilancio, che va a depositare al tribunale di commercio. Mentre egli firma, tutta la famiglia è in ginocchio intorno a lui.

 

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  Noi possiamo facilmente conoscere le passività e le attività del fallimento. L’onesto Birotteau le riassume con franchezza quando ancòra spera evitar la catastrofe: «Mon passif en effets à payer s’élève à 235.000 frcs., à savoir: 65.000 frcs. pour ma maison et 175.000 frcs. pour les terrains. Or, pour suffire à ces paiements j’ai le dividend Roguin, qui sera peut-être de 100mille frcs.; je puis faire annuler l’emprunt sur mes terrains, en tout 140. Il s’agit de gagner cent mille frcs. avec l’Huile Céphalique et d’attendre avec quelques billets de service ou par un crédit chez un banquier, le moment où j’aurai réparé la perte et où les terrains arriveront à leur plus-value».

  Al momento, però, in cui depose il bilancio, le cose erano un po’ mutate. Noi possiamo precisare le varie partite; ma quanto a quelle attive, non possiamo indicarne il valore, che sarà conosciuto soltanto dopo la liquidazione.

Egli doveva:

ai fornitori per la casa e la festa da ballo, frcs. 60.000

per i terreni alla Madeleine frcs. 400.000

per il credito Tillet frcs. 10.000

alla mère Madou per l’acquisto delle nocciuole frcs. 2.000

Totale frcs. 472.000.

 

  È da notare, però, che una parte del debito per i terreni, per frcs. 100.000, era rappresentato dalla garenzia che il Birotteau prestò per la somma versata da Pillerault e Ragon, i quali non insinuarono, come oggi si direbbe, i loro crediti nel fallimento.

  Il suo attivo era costituito:

  dal terreno e dalla fabbrica di rue Faubourg du Temple;

  dalla sua azienda e dalle merci della Reine des roses;

  dai erediti verso i clienti;

  dalla partecipazione all'azienda di Popinot per l’Huile Céphalique;

  dal credito nella liquidazione Roguin.

  In base a questo bilancio appare manifesto che l'industria della profumeria andava a vele gonfie, perché di passività per tale commercio non vi ha che una sola partita, quella della mère Madou, e per soli franchi duemila, contro una importante attività. Ad ammazzarla interviene un elemento estraneo, l’affare dei terreni. Si può dedurre da ciò l’insegnamento che ogni commerciante, se non per precetto di legge, per onesto costume, non deve sconfinare dalla zona della propria attività, nella quale ha acquistato esperienza e competenza, e non correre avventure di affari a lui non noti. Ma lo stesso affare dei terreni per il Birotteau non sarebbe stato disastroso, se egli avesse trovato del credito. In fondo, le previsioni del rialzo del valore erano esatte; lo stesso banchiere Keller, in massima, non disdegnava l'affare; ma il credito era allora assai restìo, e il denaro diffidava dell’industriale e del commercio. Sono periodi noti e che ritornano di tratto in tratto nella storia finanziaria. Essi segnano la frequenza dei fallimenti in determinati anni. Uno di questi periodi si ebbe, appunto, nell’epoca della nostra storia. Il Balzac stesso l’ha descritto in Modeste Mignon. La Banca di Francia nel 1826 ha protestato in soli 3 mesi 8 milioni di effetti, cifra spaventosa per quei tempi. Noi l’abbiamo sopportato dal 1927 al 1930: le crisi commerciali di questi ultimi anni sono dovute, in parte, al difetto di numerario. Se il credito non fosse mancato, una buona parte delle ditte fallite avrebbe ora una vita sana e feconda. Talvolta, la colpa è del momento economico e finanziario più che del commerciante. Ricade, tuttavia, su lui e sui creditori, e finisce per dissolvere una parte più o meno notevole della ricchezza nazionale. È da domandare se in casi simili i rimedi veri siano proprio il fallimento e la sua forma attenuata del concordato preventivo.

 

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  Il fallimento del Birotteau si svolse sotto il regime del Codice di commercio francese del 1807. Si era ancora lontani dalla liquidazione giudiziaria, proclamata in Francia con la legge del 4 giugno 1889. Forse il Birotteau oggi sarebbe stato ammesso al beneficio di questa procedura, sempre quando il Tillet, che vantava l’enorme maggioranza dei crediti, avesse avuto la bontà di non ostacolarla. Ma ciò poco toglie all'importanza delle considerazioni che il fallimento del Birotteau ispira al Balzac, le quali finiscono per persuaderlo che il fallimento è una monstrueuse plaisanterie légale.

  M. Ragon, che era esperto di procedura fallimentare, perché, come il Birotteau, era stato per parecchi anni giudice del tribunale di commercio, in epoca non sospetta, osservava: «Si le failli est honnête homme et se refait, il vous payera. Si il reste sans ressource et qu’il soit purement malheureux, pourquoi le tourmenter? Si c’est un fripon, vous n’aurez jamais rien». Il Ragon parlava dal punto di vista privatistico. Il Balzac prende subito in considerazione gli elementi estranei d’ordine pubblico che si intromettono nel fallimento e ne turbano la procedura. Dichiarato il fallimento del Birotteau, il Pillerault si diresse verso la Borsa per ascoltarne i commenti. Nell’alto commercio, allora costituzionale, se ne faceva un gran parlare. I commercianti liberali osservavano che la festa del Birotteau, era stata un’offesa ai loro sentimenti. Gli oppositori del governo, che negavano ai realisti di poter amare oltre del Re anche la Patria, si compiacevano della caduta di un ministeriale, che aveva insultato la libertà e si era battuto contro la rivoluzione. Questi sentimenti trovavano facili vie per giungere al tribunale, costituito non da giudici togati, ma da commercianti, ancora tutti presi dagli affari. Il doloroso quadro della procedura fallimentare si scopre tutto agli occhi del Balzac. Egli vi getta audacemente il suo sguardo penetrante.

  Egli censura, innanzi tutto, lo stato di incapacità che colpisce il commerciante, che la legge dichiara minore e rinchiude in una crisalide, durante il tempo necessario a concludere il concordato. Il «concordato», ecco una parola la quale «indique assez que la concorde règne après la tempête soulevée entre les intérêts violemment contrariés». Ma la legge non si accorge che tutto ciò che tocca alla fortuna privata ha per effetto di sviluppare enormemente la furberia dello spirito. Il Balzac rileva, quindi, i difetti dell’istituzione del giudice commissario e dei sindaci provvisori, i quali quasi mai sono sostituiti da quelli definitivi. Dopo il primo eccitamento anche i creditori si disinteressano della procedura fallimentare. Malgrado che essi siano stati ingannati, giocati, rubati, turlupinati e beffati, non esiste a Parigi una passione commerciale, che duri più di quaranta giorni. Il bel dramma del fallimento ha tre atti distinti: quello dell’agente, quello dei sindaci e quello del concordato. Come tutte le produzioni teatrali, offre un duplice spettacolo: una rappresentazione per il pubblico e una rappresentazione per il dietro-scena. Nel dietro-scena sono il fallito, l’avvocato dei commercianti, il sindaco, l’agente ed il giudice commissario. L’attività dell’agente è decisiva. Spesso, invece di essere l’uomo del creditore, egli è l’uomo del debitore. All’epoca della nostra storia, il romanziere afferma che accadeva quasi sempre che persona del fallito andasse a trovare il giudice-commissario e gli suggerisce il nome dell’agente da nominare, come colui che aveva la miglior conoscenza degli affari del commerciante da dichiarar fallito e che avrebbe potuto meglio conciliare l'interesse della massa dei creditori con quello del debitore. Tutta la psicologia dell'agente con le sue furberie, col suo spirito di transazione, col desiderio di complicare la procedura o di risolverla nell’interesse del debitore o di qualche creditore, è studiata accuratamente. Le debolezze o le insufficienze degli altri personaggi sono del pari messe in evidenza, ma noi possiamo trascurarle, perché concernono specificamente la vita del tribunale di commercio, istituzione presso noi tramontata da tempo.

  Dall’altra parte, cioè nella platea, vi sono i creditori. Vi hanno due categorie di creditori. Scernere gli uni dagli altri non è cosa facile. «Les créanciers gais et illégitimes sont comme de faux électeurs introduits dans le collège électoral. Que peut faire le créancier sérieux et légitime contre les créanciers gais et illégitimes? S’en débarasser en les attaquant! Bien. Pour chasser l'intrus le créancier sérieux et légitime doit abandonner ses affaires, charger un agréé de sa cause, lequel agréé, n’y gagnant presque rien, préfère diriger des faillites et mène peu rondement ce procillon. Pour débusquer le créancier gai, besoin est d’entrer dans le dédale des opérations, de remonter à des époques éloignées, fouiller les livres, obtenir par autorité de justice l’apport de ceux du faux créancier, découvrir l’invraisemblance de la fiction, la démontrer aux juges du tribunal, plaider, aller, venir, chauffer beaucoup de cœurs froids; puis faire ce métier de don Quichotte à l’endroit de chaque créancier illégitime et gai, lequel, s’il vient à être convaincu de gaité, se retire en saluant les juges et dit: «Excusez-moi, vous vous trompez, je suis très sérieux». Le tout sans préjudice des droits, du failli, qui peut mener le don Quichotte en cour royale. Durant ce temps, les affaires du don Quichotte vont mal, il est susceptible de déposer son bilan».

  La formazione della maggioranza è altro argomento di preoccupazioni allarmanti. La maggioranza, secondo la legge, deve essere di somme e di persone. «Cette grande œuvre exige une habile diplomatie dirigée au milieu des intérêts contraires, qui se croisent et se heurtent par le failli, par ses syndics et son agréé. La manœuvre habituelle, vulgaire, consiste à offrir, à la portion des créanciers qui fait la majorité voulue par la loi, des primes à payer par le débiteur, en outre des dividendes consentis au concordat. A cette immense fraude il n’est aucun remède: les trente tribunaux de commerce qui se sont succédé les uns aux autres la connaissent pour l’avoir pratiquée. Eclairés par un long usage, ils on (sic) fini dernièrement par se décider à annuler les effets entachés de fraude; et comme les faillis ont intérêt à se plaindre de cette extorsion, les juges espèrent moraliser ainsi la faillite; mais ils arriveront à la rendre encore plus immorale: les créanciers inventeront quelques actes encore plus coquins, que les juges flétriront comme juges, et dont ils profiteront comme négociants».

  Motivo di timori è anche l’impugnativa di annullamento delle operazioni compiute dal commerciante nel periodo sospetto precedente al fallimento, o dalla data cui rimonta il suo dissesto. Vi sono delle persone accorte, che avvicinano i creditori dei quali i crediti rimontano a tale data, descrivono a foschi colori la condizione del fallimento, acquistano per poco prezzo i crediti in parola, e diventano i padroni della situazione per concludere il concordato, in cui i crediti propri originali e quelli acquistati ottengono una percentuale di soddisfazione assai superiore a quella offerta.

  Tutti questi motivi, secondo il Balzac, inducono i commercianti di Parigi a considerare il fallimento come una disgrazia senza rimedio, a porre le perdite in conto dei profitti e perdite, e a non sciupare altro tempo. I grandi commercianti poi, che dovrebbero depositare i bilanci, offrono una amichevole liquidazione. Evitano così il disonore, i ritardi giudiziari, i deprezzamenti delle merci. Si stima generalmente che il fallimento rende meno della liquidazione. Perché? Ecco la conclusione finale del romanziere. «La faillite est la fermeture plus ou moins hermétique d’une maison où le pillage a laissé quelques sacs d'argent. Heureux le négociant qui se glisse par la fenêtre, par le toit, par les caves, par un trou, qui prend un sac et grossit sa part! Dans cette déroute où se crie le sauve-qui-peut de la Bérésina, tout est illégal et légal, faux et vrai, honnête et deshonnête. Un homme est admiré s’il se couvre. Se couvrir est s’emparer de quelques valeurs au détriment des autres créanciers».

  La conclusione è di un pessimismo desolante; eppure, oggi, per quanti fallimenti essa è ancora una dolorosa verità!

 

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  Il fallimento del Birotteau dal punto di vista economico fu un errore: un errore imposto dalla legge. La sua procedura si svolse assai rapidamente, data la semplicità e chiarezza del suo bilancio, il desiderio di non chieder dilazioni — i cavalli di Frisia giudiziarii, — di non opporre nullità di sorta. La liquidazione del suo attivo rag­giunse 265.000 franchi, permise di pagare il 56 per cento ai creditori. In base a tali risultati fu concluso il concordato. I magistrati ebbero parole di elogio per la condotta del fallito. La sua onestà parve evidente. Diciotto mesi dopo, la parte dei crediti non coperta dal concordato veniva egualmente soddisfatta. Pillerault e Ragon conseguivano ciascuno 30.000 franchi nella liquidazione del fallimento Roguin e il debito del Birotteau si ridusse di egual somma. Il Pillerault, inoltre, rinunziò alla differenza ancor dovutagli di 20.000 franchi; Popinot anticipò i dividendi dell’anno seguente sull’azienda de l’Huile Céphalique e liquidò alcuni rapporti con il Tillet, in modo da versare 105.124 franchi. La famiglia, a sua volta, che si era posta tutta al lavoro, economizzò 28.000 franchi; ed infine anche il re Luigi XVIII volle concorrere con il dono di 6.000 franchi.

  I creditori riscossero così integralmente il loro avere, con gli interessi relativi.

  A che cosa era servito il fallimento? A distruggere un’industria. Per fortuna che si trattava di cosa di modesta importanza, come l’azienda La reine des roses, e che l’agente non curò, come oggi avrebbe tentato il curatore, di estendere il fallimento anche all’azienda de L’Huile Céphalique. Un aneurisma, malattia di chi ha sofferto emozioni e dolori, poco dopo il matrimonio di Césarine con Popinot, spezzò la vita al Birotteau. «Ecco la fine di un uomo giusto!» esclamò l’abate Loraux, ripetendo il gesto di Cristo nel famoso quadro di Rembrandt, La resurrezione di Lazzaro.

  Due vittime, dunque, della difficoltà del credito e del rigore di una legge uniforme, che non distingue abbastanza fra il commerciante disonesto e quello incolpevole, fra un’attività fondamentalmente errata ed un’altra razionalmente costituita, fra le difficoltà personali di un’azienda e quelle di carattere generale; e che invece di concedere una moratoria al lavoratore, esige la fine del lavoro.

  Il Balzac, generalizzando il caso Birotteau e risalendo a principii generali, nota: «Il ne savait pas, et d’ailleurs ni les nations ni les rois n’ont tenté d’écrire en caractères ineffaçables la cause de ce renversement, dont l’histoire est grosse, dont, tant de maisons souveraines ou commerciales offrent de si grands exemples. Pourquoi de nouvelles pyramides ne rappelleraient pas incessamment ce principe, qui doit dominer la politique des nations aussi bien que celle des particuliers: quand l’effet produit n’est plus en rapport direct ni en proportion égale avec sa cause, la désorganisation commence?». Ecco ciò che veramente merita di esser meditato su questo atomo opaco del male, che è l’episodio Birotteau. «Puisse cette histoire — notava fin dalle prime pagine il Balzac — être le poème des vicissitudes bourgeoises auxquelles nulle voix n’a songé, tant elles semblent dénuées de grandeur, tandis qu’elles sont au même titre immenses: il ne s’agit pas d’un seul homme ici, mais de tout un peuple de douleurs».

 

 

  Lucio d’Ambra, Ricordi aneddotici di un giornalista. Errori di francese, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 38, 13 Febbraio 1931, p. 3.

 

  Difatti, la mattina seguente alla pagina per Verdi, Oliva mi assume come critico drammatico e articolista di terza pagina. E io, balzacchiano, scelgo subito il primo pseudonimo: già accaparrato Rastignac, mi prendo Rubempré.

 

 

  Lucio d’Ambra, Reminiscenze romane e parigine. Ombre di letterati, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 72, 25 Marzo 1931, p. 3.

 

  «Boulevard des Italiens»... Nome recente. Era invece il «Boulevard de Gand» quando Alfredo de Musset, biondo e sottile, paggio elegantissimo che cantava romanze di Spagna e canzoni d’Italia, dava il tono di Brummel alla «jeunesse dorée» del suo tempo, maneggiando con eleganza un bastoncino e ruminando in cuore capolavori. Ma d’improvviso fischia in aria una frusta. Una voce grida «Largo!». Passa guidando il suo «cabriolet» azzurro con ruote giallo-canarino «monsieur» de Balzac, romanziere discusso a furia di «piccoli» romanzi, come li chiama Sainte-Beuve, gran signore indiscutibile per virtù di grossissimi debiti. […].

  Camminate per Parigi. Gl’incontri sono continui. Scendete le stradette del Quartiere Latino: ecco i cenciosi e sognanti eroi di Murger senza letto se non all’ospedale, ecco i poeti, le crestaie, i bei giovani poveri, i vecchi grotteschi e ricchi sfondati. Un vegliardo sinistro vi viene incontro lungo i «quais» della Senna: Balzac, papà Grandet ... Un altro vecchio, questo luminoso, esce da una pensione con un po’ di briciole di pane su la cravatta e granelli di forfora sul colletto: riconoscete papà Goriot, re Lear borghese. Al «Bois» una signora con gli occhi al cielo e accanto un galante che sospira: è «madame» Bovary di passaggio a Parigi. Il Parlamento: un uomo sale in vettura fra le genuflessioni: Sua Eccellenza Eugenio Rougon. La Borsa: scende la scalea un uomo schiacciato da una catastrofe: César Birotteau, profumiere.

 

 

  Lucio d’Ambra, Gli errori giudiziari della letteratura. Dal “Cid” a “Madame Bovary”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 78, 1 Aprile 1931, p. 3.

 

  [Su: J. G. Prod’homme, Vingt chefs-d’œuvre jugés par leurs contemporains, Paris, Stock, 1931].

 

  I critici contemporanei rimproverano a Balzac la sua straordinaria, favolosa fecondità. Uno dice: «Non dà alla critica tempo di respirare ...» L’altro afferma: «Produzione frettolosa offerta al consumo delle biblioteche circolanti ...» E un terzo giura: «Opere mediocri ...» Poi esce, nella ressa dei libri, il Père Goriot ... E un critico dice: «L’autore ha fallito il suo bersaglio ... Non di meno anche in questo libro mancato c’è il segno del talento ...» Meno male. E un altro: «Il vizio capitale di Balzac è di voler accumulare la gloria. Senza farsi pregare costui avrebbe parlato di guerra con Bonaparte, di geologia con Cuvier, di teologia con Bossuet ...». Dunque non un genio, ma un presuntuoso. Ma tra quelli che non vedon chiara ancóra la statura del gigante, Stendhal ha già veduto e da Civitavecchia scrive: «Il medesimo spirito non dura più di duecento anni. Nel 1978 Voltaire sarà Voiture. Ma il Père Goriot sarà sempre il Père Goriot». Comunque, tutta la critica del tempo esalta, contro il romanzo, due vaudevilles che sono stati tolti dalla prima parte del Père Goriot e rappresentati con successo d’ilarità al teatro delle «Variétés». Per i critici letterarii il capolavoro narrativo di Balzac è opera (parole di Jules Janin!) «miserabile e assolutamente mancata». E lo stesso Janin giudica le prime pagine del più grande romanziere del mondo scritte «non già con vivacità ed ingegno, ma con una certa abilità che è anche una forma di talento». E, per non lasciare scampo a Balzac, un altro, nella Chronique de Paris, afferma che Balzac «è un rabberciatore abilissimo, un plagiario che sa dove rubare. Eugénie Grandet non è altro che la riduzione d’un romanzo scozzese, The Usurer’s daughter (la figlia dell’usuraio) ...». E qualche rigo sotto concede: «Balzac copia, questo è certo. Ma bisogna riconoscere che sa portare a perfezione tutto ciò che gli piace di copiare ...».

 

 

  Lucio d’Ambra, Cinquant’anni, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 190, 11 Agosto 1931, p. 3.

 

  E, sempre più voltando le spalle, Stendhal si sfoga a guardare lì fuori, dietro la finestra illuminata. Balzac che lavora. Bravo! Così adoperarle, le donne! Farle a pezzi nei romanzi, descriverle ben bene ma starne lontano, inventarcele di sana pianta, personaggi e non persone, come ai nostri gusti d’uomini esse più si confanno. Il capitano spagnolo ora parla di guerra, sfoggia eroismi. […]. Se Amore ha vent’anni, meno ancóra ne ha Marte. L’obeso non ha gloria né in un’alcova né sul campo. Ben fa, Balzac. Obeso, scrive. Escluso dalla vita fatta per chi è giovane e bello, si fa lui una vita bellissima, da sé, solo per sé, romanziere che inventa e crea quel che gli pare, uomo che fantastica e sogna, rivale di Dio.

 

 

  Lucio d’Ambra, False e vere. La più bella romana, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 295, 12 Dicembre 1931, p. 3.

 

  Giunonica e pomposa, col bel volto ridente e quieto, pelle color di rosa e capelli ala di corvo, l’ha vista per la prima volta a palazzo Farnese, a tre file di poltrone da lui, in una delle stupende, sale affrescate dai Caracci e mentre Michelangelo Caetani. duca di Sermoneta, leggeva e commentava da par suo un canto della Divina Commedia. Per Dante lui, Onorato di Balzac, anche prima di venire in Italia e a Roma, ha sempre avuto gran cordialità. Il gran Dante appare in fondo a Onorato un suo illustrissimo «confrère» fiorentino, specialmente riavvicinato a lui da qualche cosa che li riunirà nel tempo e farà sì che sempre, nominandosi uno dei due, l’altro appaia in fondo alla scena della memoria: prestigio della voluta analogia di due titoli, quello d’un gran poema in tre cicli di terzine e quello di un gran ciclo di cinquanta romanzi: la Divina Commedia e la Commedia Umana. Ma con tutto l’antico amor di Dante e la recente amicizia per il gran dantista romano, al quale dedicherà più tardi la Cugina Betta, Balzac non levava gli occhi dalla nuca stupenda della sconosciuta che, tre o quattro volte, come attirata da una calamita, s’era rivolta a contemplarlo; e sùbito il gran romanziere l’aveva in cuor suo battezzata: romana e raffaellesca a quel modo, la sorella stessa della Fornarina, Fornarina II.

 

***

  E vuol seguirla. Balzac, vuole all’uscita ad ogni costo sapere chi essa sia e dove vada. Così non indugia, dopo l’ultima terzina dantesca, fra diplomatici illustri e adorne dame che fan complimenti, pigiandosi attorno alla bigoncia, al duca di Sermoneta, ma invece si precipita giù per le scalee tutte marmi policromi e servi in livrea per raggiungere Fornarina II, rapida a scappar dalla sala all’eco del primo applauso. E infatti scendendo l’ha già vista fra tutte le altre, l’ha isolata, nella folla, in mezzo alla corte e sta per raggiungerla sotto l’atrio prima che esca e s’avvii verso Campo de’ Fiori, quando d’improvviso una manaccia di ferro, appoggiandoglisi sopra una spalla, l’inchioda al penultimo scalino. Che Dio l’abbia in gloria, è ancóra lui, l’insopportabile podestà d’Avignone che ieri Balzac. quando credeva d’essere ricevuto a quattr’occhi dal Santo Padre, s’è invece trovato a fianco in anticamera e poi anche dentro, alla presenza di Gregorio decimosesto, poiché un grande scrittore e il sindachello, perché tutt’e due francesi, sono stati ammessi insieme, a baciare in ginocchio la pontificale pantofola. Quel dannato podestà gli ha già sciupata, dividendola, l’udienza papale e ora, in fondo alla scalea di palazzo Farnese, per dirgli le sue stolide impressioni sul gran Pontefice, gli fa perdere di vista Fornarina II, gli strappa dagli occhi quella ch’egli ha già nominata, nell’immaginazione. «Venere latina» o «la più bella donna di Roma». Difatti, lasciato a stento l’importuno provenzale che più sa d’olio che non di Petrarca, Balzac invano fruga con lo sguardo piazza Farnese in ogni angolo e cerca in Campo de’ Fiori da ogni parte; inutilmente corre a lungo in su e giù tra il porticato scuro di palazzo Massimo e i bianchi balconi a giorno della Farnesina, spingendosi anche sino al Circo Agonale e cercando torno torno, come la dama avesse potuto nascondersi là dietro, la berniniana Fontana dei Quattro Fiumi. Pene perdute. Nulla da fare. La più bella donna di Roma non c’è più. Fornarina II è sparita. E, per sì gran perdita, sien maledetti il podestà d’Avignone e tutti gli avignonesi, dannatissimi seccatori a cui i Romani hanno persino voluto, chi sa perché, intitolare una strada ...

  Non ci ha dormito la notte, Balzac, nella stanza della Locanda Aliberti tra Babuino e piazza di Spagna, lì dove egli è venuto da Parigi, per la Settimana Santa del 1846 e con cinquantamila forestieri, a raggiungere «madame» Hanska, suo vecchio amore di tredici anni e sua futura moglie per pochi mesi, «madame» Hanska venuta dalla Polonia, con la figlia Anna, a svernare al sole di Roma. Non ci chiude occhio, Balzac, e ha già deciso: cercare ad ogni costo, in tutta Roma. Fornarina II. Breve sarà purtroppo il suo soggiorno nella «Ville Eternelle» di cui ha scritto a sua sorella Laura: «Chi non sarà venuto a Roma per una volta almeno nella vita, nulla saprà mai dell’antichità, dell’architettura, dello splendore e dell’impossibile qui fatti realtà ...». Ha formulato un progetto compatibile col breve soggiorno: veder tutta Roma in gran fretta e riempirsene e farne cornice e quadro d’un romanzo romano ch’ei comporrà a Parigi per ricordar nel buio tanta luce e nelle brume grigie sì dorato sole. Ma adesso al romanzo romano rinunzia pur di non rinunziare «alla più bella donna di Roma». Domattina uscire per tempo. Girare e rigirare ovunque vadano a zonzo e a far le belle le matronali dame romane. E scovarla con qualunque mezzo la sua fantasia di romanziere possa suggerirgli. E la mattina, dopo l’insonnia, il caso gli è favorevole. «Madame» Hanska fa avvertire Balzac: stanca d’aver visitato troppe chiese in un giorno, la dama polacca rimarrà a letto sino a mezzodì: ed Anna sua figlia resterà a tenerle compagnia. Talché Balzac può correre alla via dei Condotti, e infilarsi al Caffè Greco, e chieder notizie al servo che mesce dal bricco fumante. E il servo glindica la passeggiata al Corso, la messa delle undici alla Chiesa di San Marcello, il mercato dei fiori a piazza di Spagna, la libreria inglese all’angolo del Babuino ov’è di moda pei forestieri comprare libri ed effemeridi. E indarno Balzac cerca dovunque. E’ mezzodì passato, l’ora di ritornare alla Locanda Aliberti, ed ei non ha potuto pescar donna alcuna, ma solo un giovane pittore francese ch’è «pensionato» dell’Accademia di Francia alla Villa Medici e che non sa capacitarsi di vedere Balzac, — celebre e certo adulato da centinaia e centinaia di donne, — smaniar così per una qualunque donna romana ...

  – La più bella donna di Roma, — esclama Balzac – passeggiando al braccio del pittore tra la Barcaccia di Bernini tutta perle d’acqua e la Trinità dei Monti tutta smeraldi e rubini di fiori sui suoi scalini, — la più bella donna di Roma non può esser mancata da me che più d’ogni altro sento il fascino dell’amore esotico, della donna diversa da quelle in mezzo alle quali — madri, nutrici, sorelle, spose, amanti — noi siamo nati e cresciuti. Di «madame» Hanska mi prese, ai bagni termali di Neuchâtel, il «fascino slavo». Di una spagnola avvampai a Parigi per il sol di Siviglia. E in questa stupenda italiana, nella più bella donna di Roma, m’innamora di sé l’Italia tutta. Se voi, pittore, l’aveste veduta! Nulla di simile, girando tutta la Francia a palmo a palmo, sarebbe mai possibile trovare. Vi dico: la Fornarina, o sua sorella. E, sì, stufo di donne nostre, io, gran sedentario, trovo che val davvero la pena di correre il mondo se viaggiando si trovano donne siffatte. Che di donne ben m’intendo e non per nulla ho scritto la Fisiologia del matrimonio: senonchè non esiste la donna, ma tante donne esistono per quanti sono i paesi, come non esiste un cielo, ma tanti diversi colori di cielo per quante diverse contrade conta la vasta terra. Ogni paese ha le sue donne com’ha le sue vigne. E con diverse uve e volti differenti si fanno ogni sorta di vini in cantina e d’amori nel talamo.

  Ma, per quanto girasse, Balzac non ritrovò la perduta beltà; e, costretto a ripartire alla volta di Parigi, chiamatovi da debiti e editori per finire in fretta i Paysans. si riprometteva di ritornare, a Roma l’anno seguente, per tutto l’inverno, in una casetta già scelta a Sant’Onofrio, proprio là dove Chateaubriand aveva sospirato di poter vivere e morire scrivendo le Memorie in una cameretta attigua a quella del Tasso, tra aranci d’oro e verdi quercie, con Roma distesa lì davanti. Gran giuramento solenne fatto a sé stesso e nel più curioso modo: «Per quanto adoro «madame» Hanska, giuro che ritroverò Fornarina II ...». E poiché mancano quattro giorni alla partenza per Genova e nota gli è la leggenda della Fontana di Trevi, una mattina, mentre Evelina è a veder quadri al Museo Borghese, Balzac corre all’illustre fontana del Bernini per gettar nell’acqua la moneta destinata ad assicurare il suo ritorno alle sette colline. E — meraviglia! — non appena gettata la moneta nelle tonanti acque, Fornarina II appare d’improvviso nella breve piazza ricurva ove sùbito scontra Balzac: Balzac che non crede ai suoi proprii occhi, e trascolora e avvampa nel volto, e tosto si mette alle calcagna della mirabile donna, seguendola giù per strettissime vie e poi tra la folla a zonzo tra i principeschi palazzoni del Corso: e, tra ombre e silenzii, sole e fontane, le tien dietro sino alla piazzetta delle Tartarughe ove Fornarina II, sorridendo un’ultima volta a Balzac, — o a Balzac così sembra, — s’infila rapida nel portone d’un palazzo e scompare. Invano lì sùbito s’infila anche Balzac, e cerca del guardaportone, e prepara larga mancia per farlo cantare. L’onnisciente Cerbero è assente. Ma Balzac ha l’idea felice di levare la testa in su per guardare la facciata; e così scopre in aria il raffaellesco sorriso della Fornarina che guarda di volo nella piazza e, non appena è scoperta, si getta indietro e richiude di colpo. Ma il romanziere ha ben visto: terzo piano, quarta finestra a sinistra. Sùbito mandarle, dunque, un biglietto: e lì accanto, in un caffè, scrive sopra un foglio, in francese: «Les yeux les plus épris du monde voudraient admirer de près la plus belle femme de Rome». Ma non vuol mandare in francese quel biglietto: a donna romana, romanissimo innamorato. Ma chi mai tradurrà? Roma fu già piena di Francesi. E la padrona del caffè, figlia d’una romana che sposò un tamburo maggiore dell’esercito del Direttorio mandato a Roma da Bonaparte dopo l’assassinio dell’ambasciatore di Francia, traduce per Balzac, che copiando scrive attentissimo a non fare errori: «I più innamorati occhi del mondo chiedono di veder da vicino la più bella donna di Roma». E la padrona avverte: «Ci sarebbe un errore: ma tirate via ...». E poiché Balzac in allarme vuol sapere, l’altra, – denti candidi nella polpa rossa delle labbra. — ride alto con le mani sui tondi fianchi: «O che gli occhi, monsù, non li avete? La più bella son io ...». E Balzac manda col garzone, Mercurio alato, il biglietto. E vien giù pronta la risposta: «Domattina, alle undici. dopo la messa, alla Chiesa del Gesù ...».

 

***

  Pazzo, Balzac, quella notte! E la mattina seguente, a messa compiuta, sbucando dall’ombra fredda della Chiesa, Fornarina II appare nel sole della primavera, in un odor d’incensi e fiori ch’è tutta la Settimana Santa a Roma. E Balzac corre a lei, le mani stese, con parole italiane che ha ben bene mandate a memoria al Caffè Greco: «O bellissima figlia di Roma, o perla della corona dei Cesari ...». Ed è felice! Amato, amato in Italia, dalla più bella donna di Roma, e questa volta non per il suo genio di scrittore, ma per sé stesso, anonimo, sconosciuto ... E, trasecolando, Balzac sente la più bella donna di Roma rispondergli nel più pretto francese di Turenna:

  – Son veramente felice di conoscervi di persona, signor Balzac ... Non solo ammiro i vostri romanzi. Ma sono nata anch’io come voi, a Tours, nella medesima strada, in «rue de l’Armée d’Italie», quattro numeri più in là di casa vostra: il centotré. E mi chiamo Onorina anch’io perché anch’io come voi son nata il giorno che a Tours è gran festa, il giorno di Sant’Onorato ...

 

 

  Francesco Bernardelli, Balzac, il visionario, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 219, 15 Settembre 1931, p. 3.

 

  Balzac fu considerato da molti, e per lungo tempo — e lo è forse ancora nel linguaggio corrente e nei giudizi facili e spicciativi — un colossale scrittore verista, un osservatore cioè e trascrittore di fatti psicologici e sociali, obbiettivo esatto e profondo. Quel suo gusto del particolare pittoresco, perseguito e inciso con una specie di crudeltà d’anatomista e di sperimentatore, quella sua smania di raccogliere tipi e caratteri a centinaia, in ogni strato della società, come per una meravigliosa statistica, quel costruire con fiero cipiglio il suo mondo, compenetrando gli aspetti esteriori, gli ambienti, case botteghe strade città, con un segreto meccanismo storico e sociale, tutto ciò favorì l’illusione. Si constatò con entusiasmo che egli faceva concorrenza allo stato civile; dei suoi personaggi — più di duemila — si compilarono repertori; si pensò di esaminare, indagare, controllare la sua enorme creazione come si scruta la realtà della natura, come della realtà umana si cercano i principi e le leggi. Si credette anzi di poter estendere gli studi antropologici e psichiatrici fra quelle creature romanzesche, quasi esse fossero prosecuzione e controprova dele (sic) creature di carne ed ossa, e si volle infine verificare l’identità della Commedia Umana con i dati e le funzioni della vita, non si sa se per scoprirne le eventuali divergenze, o se per correggere l’esperienza scientifica sulle mirabili invenzioni del romanziere. Il mondo di Balzac fu dunque creduto una cosa a sè, avulsa dal suo inventore, seconda copia della creazione: fu la bazza degli schedari, del positivismo e della critica sperimentale. Sennonché la stessa critica sperimentale, sperimentando sul serio, venne poi a coincidere, nelle scoperte e deduzioni, con l’altra critica, quella che dicesi letteraria, e che non parrà strano debba, bene o male, aver sempre in letteratura l’ultima parola: s’avvide, cioè, che il verismo di Balzac, la sua indagine sociologica e scientifica, il suo citare Buffon e Geoffroy Saint-Hilaire, i presunti documenti umani e l’asserito determinismo vitale, altro non erano che il frutto di una delle più fantastiche tempre di artista che siano mai esistite.

  Abbiamo sotto gli occhi un bizzarro esempio di questa critica sperimentale, un libro di Pierre Abraham (Créatures chez Balzac — Edition de La Nouvelle Revue Française) che fa parte di un’ampia serie di Recherches sur la création intellectuelle. L’autore vuol rintracciare i metodi e le vie della creazione poetica e artistica non in ciò che essa ha di singolare, di unico, ma in ciò che l’accumuna all’attività e alle possibilità fisiologiche e psichiche di ognuno di noi: questo nuovo materialismo, e l’indirizzo della ricerca non ci interessa gran che; ma le conclusioni non sono prive di curiosa evidenza e di qualche sottigliezza. Il sistema di Abraham è antropologico, scientifico, fisiognomico; l'autore inizia il suo studio indagando quanto di vero ci sia nell’inanità messa in piedi da Balzac, ne esamina la morfologia, ne scruta gli aspetti, la figura, il colore degli occhi e dei capelli. Ecco, ad esempio, alcuni risultati: nella società descritta da Balzac il numero di uomini con gli occhi azzurri è superiore al numero di uomini con gli occhi bruni e neri; e vi sono più donne con gli occhi bruni e neri che donne con gli occhi azzurri. La società reale, cui quella fittizia di Balzac si può riferire, è una società a occhi scuri, tra i quali gli occhi a colorazione media sono in maggioranza. La società di Balzac è una società a occhi chiari; gli occhi a colorazione media vi sono in lieve minoranza. Nella società di Balzac vi è una maggioranza di uomini con gli occhi azzurri, perché è una società di uomini d’azione, e anche di avventurieri, e Balzac attribuisce all’azione gli occhi azzurri. Vi sono poi più donne con gli occhi bruni e neri, che donne con gli occhi azzurri perché la popolazione femminile della Commedia Umana è appassionata, e Balzac attribuisce alla passione occhi bruni e neri. Se poi nella società di Balzac, gli occhi a colorazione media sono in lieve minoranza, mentre sono in maggioranza nella società reale, ciò dipende da questo: che la Commedia Umana, opera romanzesca, mette in scena caratteri assai spinti, ai quali l'autore attribuisce in generale occhi molto chiari o molto scuri. Balzac, insomma, immaginava una concordanza, nella natura dell’uomo, tra il fisico e il morale, e stabiliva tale concordanza a suo arbitrio: l'Abraham, con il suo metodo statistico, a base di tabelle e schemi, traccia una rosa dei venti delle passioni, secondo Balzac, nella quale i fattori psichici intersecano e integrano quelli fisiologici. Il tutto conferma con ingenua ma efficace approssimazione due cose già abbastanza note: la meccanicità della psicologia di Balzac e la rispondenza della Commedia Umana alle necessità del romanzo, anziché agli stimoli del reale. Si conclude che Balzac, come tutti gli artisti, cavava il mondo delle immagini e delle illusioni in se stesso, dal profondo di se stesso e non dalla società intorno, dalla fantasia e non da una ipotetica scienza o pseudo-scienza, più o meno sperimentale.

  Lo si sapeva, direte: e sta bene; ma ora si può andare un po’ più in là. Ricercando l’ispirazione di Balzac, il suo segreto germe creatore, l’Abraham si addentra in particolari delicati, e incerti tra spirito e fisiologia: complessità di fenomeni oscuri, nei quali la sessualità fa capolino, con il gusto e la predilezione per un certo ordine di immagini ed eccitamenti. La feconda associazione delle sensazioni sonore alla percezione visiva, e l’io «subliminale» e altrettali cose arcane e dubbie entrano ampiamente in gioco. «Entre Balzac et ses créatures, leur habitat, leurs aventures et leur destin se tracent les mille voies de chair, de sang et de nerfs par où circulent la connaissance et la création». Ma, e questo è il punto, i contatti immediati di Balzac con la misteriosa natura, la diretta folgorazione dell’estro, gl’impeti della pura intuizione sono assai rari; Balzac, a garantirsi la continuità del suo romanzare, costruisce tra la realtà spirituale, caotica, sconcertante, tumultuosa, e il mondo delle forme da lui prescelte, una zona razionale e convenzionale, intessuta di riferimenti banali e sistematici, una sociologia e una ideologia di maniera, una specie di palcoscenico; «cette carte lisible, abstraite, intellectualisée, le satisfait comme représentation valable de la nature; il s’en contente; et s’il advien (sic) qu’en un point la surface s’interrompe, risquant de faire apparaître la cavité obscure et d’en laisser monter une bouffée suspecte, il prend soin d’y assujettir (sic) un plancher nouveau et d’y prolonger lui-même la cartographie. Il se gardera de percer au travers du plancher et d’aller vérifier les correspondances effectives de la carte avec la réalité changeante qu’elle recouvre». Ciò gli permette di elaborare in grandi cicli libreschi gli spunti profondi della sua genialità, ciò gli assicura il successo presso le più vaste categorie di lettori, e ciò infine illumina curiosamente l’automatismo già deprecato della sua opera. Egli è in questo senso l'anti-poeta. Se Goethe, poeta integrale, simboleggia la tipica e sorvegliatissima difesa della fantasia da tutte le forme dell’automatismo mentale, Balzac è l’anti-Goethe. I suoi personaggi nascono così da una traduzione intellettualistica dell’istinto creatore: il personaggio di Balzac — osserva bene l'Abraham — è il frutto di una contaminazione dell’individuo — suggerito dalla poesia — con un tipo, rappresentante aprioristico di questa o quella categoria di vizi, passioni, sentimenti, voluto dalla tendenza organizzatrice, raziocinante e romanzesca dello scrittore. Egli in sostanza non è meno soggettivo di Proust; ciò che distingue dalle creature di Proust la creatura di Balzac è l’esteriorizzazione; il fatto che la creatura di Balzac per staccarsi dall’autobiografia, dal dilagante incontrollabile e anti-sociale psicologismo, si sottomette alle leggi di un certo tipo sociale prestabilito, rivesto un’apparenza fisica predeterminata, si riduce ai tratti fisionomici e alle strettoie imposte da quel certo piano intellettualistico di cui si è detto, ossia dalla macchina del romanzo.

  Il ritmo dei personaggi, il loro movimento, è così tutto esposto; dà l’illusione di una perfetta autonomia vitale, ed è invece legato a una preconcetta stesura di elementi romanzeschi e di sistemi e pseudosistemi scientifici e razionali, più o meno inconsci, più o meno dichiarati. L’infausta fusione dell’estro con la meccanicità si compie in una atmosfera torbida e oscura, refrattaria così alle chiarezze dell’incontaminata intelligenza, come alle rivelazioni della fantasia. E’ il classico romanzo storico-sociale di Balzac; ma quest’idea di una comoda standardizzazione produttiva ci pare più feconda per la comprensione del grande scrittore, dell’altra, consueta e abusata, delle sue preoccupazioni teoriche e didascaliche. Comunque, l’estro e la genialità non possono venir soffocati del tutto: così costretti accentuano i propri caratteri, li ingrandiscono in una specie di degenerazione immaginativa, in malsimulate enfiagioni, in quella vertigine, in quel girar su so stessi, che altri già rilevò. Deviata dalla sua naturale capacità espressiva compressa in schemi anti-poetici, la facoltà creatrice di Balzac si muta ben presto in eccesso; rode i limiti, intacca la poesia. L’immaginoso, il fantastico Balzac diventa Balzac il visionario.

  Visionario, come lo definì a suo tempo Baudelaire. I personaggi di Balzac sono tutti giganteschi e in qualche modo mostruosi; i simboli, le allegorie, le forze nascoste e le attrazioni operanti del suo mondo – l’oro, l’intrigo, l’avventura – hanno tutte alcunchè di terribile e incommensurabile. Balzac sogna a occhi aperti, ed è sempre, suo malgrado, presente. Non per sottili e accorte trasposizioni, ma involontariamente e brutalmente, oltre gli schemi e le proporzioni della realtà e del romanzo – presente con tutta la sua foga vitale, con tutto il suo genio, stupendo, infantile, affascinante. Abbandonato all’impeto o intento alla formula, egli getta nell’impasto fosco e incandescente della sua prosa tutto ciò che gli passa pel capo: figure e fantasie, acutezze psicologiche, mirabili intuizioni sociali, situazioni assurde, e, travolto e travolgente, sfiora il ridicolo, supera il grottesco, si tuffa nel magico e nel sublime. Così egli si realizza perché, come dice l’Abraham, la fusione di Balzac con l’universo è totale; ma essa non lo immette nell’universo reale, ma in un universo fittizio, nell’universo che egli stesso ha creato. Con i furori di un istinto poetico deformato, e solo a tratti libero di sé, e con gli schemi razionalistici interposti tra la verità spirituale e il mondo dell’esperienza, egli si è inventato un regno della visione e della passionalità. Di quel regno arbitrario egli è il signore assoluto, delizioso e sorprendente.



  Il Bibliografo, Balzac, “Eugenia Grandet” – Collezione Romantica, Edit. Mondadori, Milano, L. 20, «Il Secolo XX. Rivista settimanale», Milano, Anno XXX, N. 35, 19 Giugno 1931, p. 32.

 

  È il settimo volume della collezione mondadoriana, tradotto dalla Deledda. Balzac scrisse questo suo capolavoro nel ’33, a trentaquattro anni, nella stagione cioè più piena e felice della sua ispirazione, ch’egli stesso sentiva in sé come risulta da frasi delle sue lettere di quel tempo: «Sono in grande vena». «Vivo in un’atmosfera di pensieri, d’idee, di piani, di lavori». Scritto tra il giugno e il novembre, con una foga nella quale entrava anche il proposito di far fronte, con la pubblicazione del romanzo, a un impegno finanziario, egli mise nel libro anche l’amore, o meglio l’alta tonalità amorosa di cui vibrava per Madame Hanska: e senza l’amore per costei, la figura della giovine Eugenia, e l’amore per Carlo, forse non gli sarebbe balzata nella fantasia con quel potente rilievo che ha. Almeno così la pensano i critici biografici, con un po’ di ragione ma anche un po’ di torto. «Eugenia Grandet — osserva giustamente nella breve e succosa nota il Borgognoni - raccoglie, si può dire tutti i temi classici del romanzo balzachiano: le grandi fortune ammassate dalle famiglie borghesi attorno al 1793, la fanciulla umile, l’artigiano trasformato in capitalista, gli avidi del denaro, il cacciatore di doti». Ma più che il romanzo di Eugenia, questo è il romanzo dell’avaro, di Grandet, di questo gigante sospettoso, ammassator di denaro, teso al guadagno con una febbre e un impegno che solo Balzac – creatore di figure dense, rettilinee, a tutto fondo, monumentali — avrebbe potuto immaginare e scolpire. Monumento di monomania è Grandet; sul quale pesa come un macigno, il giudizio che Balzac scrive a pag. 112: «Gli avari non credono nella vita futura, poiché per essi il presente è tutto, e questo stesso concetto diffonde una luce orribile sul mondo odierno, ove più che mai il denaro domina leggi, politica e costumi». Giudizio che pesa su Grandet e sull’epoca, pronunciato da un moralista nel cui cuore forse aveva più di un’eco la morale cristiana. Perciò il romanzo è, oltre che un’opera d’arte, l’esegesi d’un’epoca, la critica d’una categoria civile, e attinge un alto significato morale — come nota giustamente il Bor­gognoni.

 

 

  Massimo Bontempelli, Il dramma del 31 aprile ovvero Delitto e castigo. Romanzo d’avventure, in La Vita intensa. Romanzo dei romanzi. Terza edizione, Milano, A. Mondadori, editore, 1931 («I Libri azzurri», 15), pp. 67-85.

 

  p. 70. Cfr. 1919.

 

  Paul Bourget, Balzac nouvelliste par Paul Bourget[3], in Honoré de Balzac, Nouvelles … cit., pp. 9-11.

 

  On trouvera dans ce volume réunies quelques-unes des meilleures nouvelles qu’ait écrites Balzac. Elles offrent ce caractère rare dans l’histoire de la littérature, d’être égales en beauté à ses grands romans. Il est à remarquer que le talent du récit court et celui du récit long ne se rencontrent pas souvent chez un même auteur. Pour citer quelques exemples empruntés seulement à la France, l’un des meilleurs faiseurs de nouvelles que nous ayons eus, Mérimée, a été incapable d’écrire un roman étendu à la dimension d’un volume. Flaubert n’a été qu’un nouvelliste très distingué, le Cœur simple en témoigne: il était un romancier supérieur. Ce fut l’inverse pour son plus brillant disciple, Guy de Maupassant. Balzac, lui, manie les deux formes avec un maîtrise pareille et qui ne résulte pas seulement d’une puissance innée. Ayant profondément étudié la technique de son métier, il savait qu’une nouvelle n’est pas un roman court et qu’un roman n’est pas une longue nouvelle.

 

***

 

  La raison de cette préférence donnée aux thèmes violents sur les autres dans des récits de brève dimension est facile à concevoir. La terreur est de toutes les émotions humaines celle qui a le moins besoin du temps. Le sursaut est même la condition la plus favorable à sa naissance, comme la durée est la condition la plus favorable à sa guérison.

  Un long roman ne peut produire la terreur que par accident. Une courte nouvelle y excellera, précisément parce qu’elle est courte. Elle ne comporte ni préparations ni développement. Plus un fait tragique est inattendu, plus il nous étreint d’une angoisse forte. Il y a donc avantage à ce que le sujet d’une nouvelle soit aussi étonnant qu’il est terrible. Balzac a nettement discerné cette loi. Un fils qui se trouve obligé de se faire bourreau de son père, et, sur l’ordre de ce père, le bourreau de tous les siens; — un autre bourreau, professionel (sic) celui-là, cherchant, après l’exécution de Louis XVI, un prêtre proscrit pour qu’une messe soit dite à l’intention du roi-martyr; - une mère attendant, sous Robespierre, son fils fugitif, folle d’anxiété parmi les soupçons qu’elle sent dressés autour d’elle de toutes parts, croyant reconnaître son enfant, dans un jeune homme dont on lui annonce la venue, et tombant morte de douleur quand elle constate que ce n’est pas lui.

 

* * *

  Un des artifices de Balzac a consisté dans l’emploi, infiniment habile, de l’histoire générale. El Verdugo est un épisode de la guerre d’Espagne; le Réquisitionnaire pourrait s’appeler comme le récit qui précède un Épisode sous la Terreur; le Colonel Chabert, le Passage de la Bérésina (extrait de Adieu) s’encadrent dans l’épopée impériale.

  L’auteur est, parti de cette idée que le petit fait individuel et local qu’il va narrer prendra aussitôt une ampleur considérable par ce rapprochement. Toutes sortes de visions s’éveillent en nous, dès que certains événements sont évoqués: le siège de Saragosse, la retraite de Russie, l’exécution de Louis XVI. Balzac le sait.

  Il va ébranler en nous cette touche secrète. La férocité d’El Verdugo cesse d’être le caprice sanglant d’une imagination échauffée. Elle se raccorde à une vaste série d’événements connus dont elle devient le résumé et comme le signe. Par derrière les émotions des personnages du Réquisitionnaire nous apercevons pareillement, toutes les victimes de la Révolution et tous les bourreaux.

  Nous croyons à la réalité du drame qui nous est conté, non seulement à cause de l’accent avec lequel il nous est conté, mais aussi parce qu’il y a la couleur d’un temps. Il prend sa place dans une case ouverte de notre esprit. Le travail nécessaire dans un long roman pour amener une situation aiguë est ici tout fait par la légende qu’une quantité énorme de documents analogues a créée dans notre pensée, presque à notre insu.

  Dans Un Épisode, les premières lignes qui montrent une vieille dame suivant sous la neige une des rues du Faubourg Saint-Martin en janvier de cette même année 93, s’achèvent par cette image: «le quartier était désert. La crainte assez naturelle qu’inspirait le silence s’augmentait de toute la terreur qui faisait alors gémir la France». Il est bien remarquable que les allusions aux grands événements contemporains, qui produisent d’habitude dans un roman développé une impression de factice, ajoutent au naturel dans un court récit.

  Aussi voyez comme Balzac est, adroit, à rappeler, dès les premières lignes de ces récits, la vaste tragédie très authentique qui doit, donner une portée d’histoire à l’accident, qu’il se prépare à narrer.

  Dans El Verdugo, il va jusqu’à écrire les lettres initiales et finales d’un général qui a réellement commandé dans la province où se passe l’action.

  Dans le Réquisitionnaire, et dès la sixième phrase, il a déjà appuyé le cas individuel de son héroïne sur un cas plus général: «En 1793, la conduite de Mme de Dey pouvait avoir les plus funestes résultats. La moindre démarche hasardée devenait alors presque toujours pour les nobles, une question de vie ou de mort.

 

***

 

  Les voyageurs qui ont visité la Brera se rappellent ce Christ mort[4],dont l’anatomie minutieuse tient, dans un demi-mètre carré de toile. Oui, qu’elle est petite, cette toile, et que ce tableau et grand! Je n’ai jamais lu les belles nouvelles de Balzac sans que cette comparaison s’imposât à mon esprit. Si «l’art», comme il l’a dit lui-même quelque part, «n’est que la nature concentrée», n’est-ce pas son chef-d’œuvre que de recréer, comme cette nature le fait dans ses moindres fleurs et dans ses moindres insectes, tout un monde dans un si étroit raccourci d’espace et de matière ?

 

 

  V. Bucci, Romanzi e racconti. Viva San Marco!, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 175, 24 Luglio 1931, p. 3.

 

  [Su: Alessandro Augusto Monti, Viva San Marco!, Milano, Ceschina].

 

  E non mancano episodi avventurosi, nè manca il condimento d’un buon pizzico d’amore patetico, in questo romanzo immaginato con perfetta fedeltà al genere e forse non senza qualche ricordo degli «Chouans» di Balzac.

 

 

  Filippo Burzio, Monsieur Thiers, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 297, 15 Dicembre 1931, p. 3.

 

  [Su: Maurice Reclus, Monsieur Thiers, Paris, Plon].

 

  Thiers è un eroe balzachiano ed io, col dovuto rispetto per il grande artefice, repugno al mondo e alla mentalità di Balzac. Quella Comédie Humaine che egli, non solo rappresenta ma ama e sente come la propria visione della vita, è pure stupida e soffocante: piena di una vana agitazione, di un brillare di diamanti falsi, di orpello. Balzac, arrivista, sia pure sfortunato, snob, sia pure ridicolo; vanitoso e agitato, è egli stesso un eroe balzachiano: tutto alla superficie, tutto sociale, tutto spampanato, pacchiano e senza sfondi. Non sapevo che avesse così presto seguito, studiato, compreso Thiers. Già nel ‘30, non appena, a 33 anni, Thiers è per la prima volta Sottosegretario alle Finanze, Balzac scrive a un amico: «Ce jeune homme a été couvé, a éclos, a grandi sous l’influence des salons de M. de Talleyrand ... il lui faut du talent à tout prix, sans quoi il perdra plus qu’un autre; il s’est fait trop «annoncer» pour ne pas sombrer avec son avenir. J’ose avouer que j’ai confiance en lui».

  L’avvenire non smentisce il pronostico, ciò che prova, del resto, il fiuto di Balzac. Thiers «arriva» rapidamente, e arriva in stile balzachiano. Balzachiano l’episodio del ‘32, quando egli, per la prima volta Ministro dell’Interno, comprando per 500.000 franchi il tradimento di Simon Deutz, riesce a far catturare la Duchessa di Berry; ma poi, per ingraziarsi il legittimista Faubourg S. Germain, distrugge le prove della vasta cospirazione. Balzachiano il contegno suo verso padre e madre poveri e ingombranti: e passi per il padre, ma la madre, che molto ha fatto per lui, riceve dal figlio milionario un assegno di 200 franchi al mese e si vede negato l’accesso al suo palazzo. Balzachiano (benché di tutti tempi) l’intrigo ch’egli, usando di tutte le sue risorse di Ministro, ordisce per farsi nominare all’Accademia. Ma balzachiano soprattutto il matrimonio: nel ‘33, a 36 anni, Thiers sposa la quattordicenne M.lle Dosne figlia della sua Ninfa Egeria, la già intrigante, e presto milionaria, Sofia Dosne. Qui addirittura l’allievo precede il maestro: solo nel '37, infatti, Balzac farà sposare dal suo eroe Rastignac la figlia della propria amante Delfina di Nucingen: e quel Rastignac sarà tutt’uno con Thiers.

  Cos’è che repugna in questi eroi balzachiani dell’arrivismo? Non tanto l’immoralismo quanto la mediocrità. Nonostante la sua grandiosa abilità politica, la vasta cultura, l'eloquenza, Thiers è spiritualmente e moralmente un mediocre, è il prototipo della mediocrità formidabilmente attrezzata al successo. […].

  Flaubert scriveva nel ‘67 a Georges Sand: «Chère amie, rugissons contre M. Thiers! Peut-on voir un plus triomphant imbécile ... Il semble éternel comme la mediocrité, il m’écrase!». Io non so se le ragioni dell’avversione di Flaubert siano, come le mie, di natura demonica. C’è un arrivismo demonico assai vicino nel tempo a quello balzachiano, è l’arrivismo di certi eroi di Stendhal: ma tra un Julien Sorel e un Rastignac-Thiers corre un abisso, tanto il primo è più estroso, profondo, problematico, imprevedibile. […]. Come dice il suo ultimo biografo, Thiers «appartiene in pieno a quella Parigi del 2.o quarto dell’800, quella Parigi che Balzac non ha ancora inventato ma esiste già, tutta viva e fremente; che il genio di un Balzac non inventa mai che il reale. I personaggi balzachiani popolano già i salotti, si affrettano alla conquista delle donne, della ricchezza e del potere».

  Mi viene in mente che perfino Cavour manifesta il lato balzachiano (e cioè deteriore) della sua natura proprio nella Parigi del ‘40, e precisamente (se non erro) sotto Thiers, quando, preso da quella febbre di arricchire e di vivere, gioca e perde in Borsa una somma ingente che, dalla Torino provinciale, suo padre, il Marchese Michele, si affretta a mandare al figliuol prodigo insieme con una mirabile lettera che ne tocca il cuore. […].

 

 

  A. C., Il genio tenebroso di un ministro. Dalla vita monastica a capo di polizia, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 259, 31 Ottobre 1931, p. 3.

 

  [Su: S. Zweig, Fouché, Milano, Mondadori].

 

  Balzac, è vero, aveva già, con bell’impeto romantico, riconosciuto in Fouché la figura più complessa del suo tempo, ma la meno eroica che abbiano avuto la rivoluzione francese e l’epoca napoleonica. Per Balzac Fouché fu un genio singolare, una testa forte, un ministro dallo spirito fosco educato alla dissimulazione monastica, bene addentro nei segreti del partito della Montagna cui apparteneva e nei segreti dei monarchici, ai quali finì con l’appartenere. Egli aveva studiato gli uomini e le cose e dato al Bonaparte consigli utili e informazioni preziose. L'ampiezza del suo genio era prettamente ministeriale, esatta in tutte le previsioni, incredibilmente sagace.

  Nei riguardi di Fouché, Balzac pecca forse dell’eccesso contrario in cui caddero i contemporanei: sembra quasi che l’arte abbia dimenticato la morale e che i successi del politicante facciano obliare i sistemi del poliziotto.



  Franceso Casnati, La vita letteraria. Bourget e Balzac, «L’Illustrazione Vaticana», Città del Vaticano-Roma, Anno II, Num. 21, 15 Novembre 1931, pp. 53-54.

 

  Paul Bourget esamina in uno studio che pubblicano Les Nouvelles littéraires [cfr. Les idées politiques et sociales de Balzac, «Les Nouvelles Littéraires Artistiques et Scientifiques», Dixième année, N° 460, 8 août 1931, p. 1] le idee politiche e sociali del Balzac. Quelle idee, già spregiate («Balzac, en politique comme ailleurs, a fait un roman», diceva il Taine che pur gli era tanto vicino), tornate poi in onore, non potevano avere, oggi, interprete più autorizzato. Se. infatti, l’autore degli Essai» de psychologie contemporaine e di tanti romanzi d’analisi guarda al romanziere della Comédie humaine come a uno dei suoi più indiretti maestri; non meno ne ammira le idee, che ha fatto sue e che propugna, nel disordine presente, come programma di ritorno alla tradizione e quindi di restaurazione sociale. Per questo stupisce che nel suo studio, e in appoggio della sua chiara dimostrazione, egli abbia dimenticato, fra i molti citati, un testo balzachiano di capitale importanza: il discorso del duca di Chaulieu alla figlia nelle (sic) Mémoires de deux jeunes mariées.

  Riassunte con brevi passi di La Peau de chagrin e della «préface generale» le teorie di Balzac biologiste, e mostrato come da quelle lo scrittore arrivasse al famoso parallelo tra «espèces sociales et espèces zoologiques» e, infine, alla concezione del «milieu» come «condition première de santé d’une société», il Bourget deduce da quella concezione una condanna di tutta l’opera dell’89. Questa semplice formula: i diritti dell’uomo, rivela pel Balzac l’errore fondamentale della filosofia del diciottesimo secolo, la quale faceva dell’individuo il principio primo, la cellula generatrice del corpo sociale. Per chi considera che l’individuo vale, ossia è un’entità determinata, in quanto è in funzione di un «milieu», la vera prima cellula sociale appare il «milieu immédiat» in cui l’individuo cresce, e cioè la famiglia. Questa famiglia, a sua volta, è in funzione di un altro «milieu», infinitamente complesso, costituito da condizioni fisiche innanzi tutto, e cioè il ruolo che essa abita. Essa s’è formata in un clima, su un terreno, e vi ha preso abitudini ereditarie. Parimenti, essa ha dovuto adattarti alle necessità di un mestiere. a certe tradizioni. Dietro il «milieu» fisico sta, dunque, un «milieu» morale e anche intellettuale che comanda la sua attività. Per una diagnosi, quindi, che vuol diventare una terapeutica, il buon metodo consisterà nel mettere in rilievo le condizioni che assicurano a questi «milieux» il loro miglior rendimento. che vuol dire la loro azione benefica per l’individuo prima, per la città poi.

  Fra queste condizioni il Balzac mette, beninteso, la religione. Egli riconosce nel Cristianesimo «un système complet de répression des tendances dépravées de l’homme et le plus grand élément d'ordre social». In ciò. commenta il Bourget. egli si avvicina al Taine, che terminava le sue Origines de la France contemporaine con questa dichiarazione: che a ogni diminuzione del Cristianesimo corrisponde una decadenza dei costumi; l’egoismo brutale o calcolatore riprende il suo ascendente, la crudeltà e la sensualità trionfano, la società diventa una biscazza o un lupanare (non sembra storia contemporanea?). Bisogna tuttavia rilevare una differenza profonda fra il Taine e il Balzac. Il primo si tiene unicamente a un punto di vista programmatico, e cioè utilitario (da lui procedono i dottrinarii tipo Barrès e Maurras per i quali, — la parentesi è nostra, — il Cristianesimo è unicamente istituzione di difesa sociale); Balzac, invece, oltre che «docteur des Sciences sociales» è un mistico. L’osservatore non si separa in lui dal credente. Egli non ammette soltanto, come il Taine. che la religione è benefica: egli crede che essa è la verità. profonda, essenziale, e costituisce il grande principio che spiega il reale. «Io scrivo. — afferma egli. — alla luce di due verità eterne, la religione e la monarchia, due necessità che gli avvenimenti contemporanei proclamano, e verso le quali ogni scrittore di buon senso deve cercare di ricondurre il nostro paese ...».

  Concludendo il suo studio, Paul Bourget cita le numerose opere del Balzac che comprovano i varii punti della dottrina di lui: ma prima di procedere oltre è opportuno un rilievo. Dal Taine. il Bourget ha derivato il suo determinismo (che qualche volta gli viene rimproverato), e questo spiega come egli dia tanta importanza alle concezioni sociali del Balzac e sopra tutto alla teoria del «milieu». che si ritrova, sotto sotto, anche in molti suoi romanzi. Ma, per lo specifico caso di cui ci occupiamo, accanto al Taine va ricordato il Bonald, al quale il Bourget. ha dedicato uno studio poco noto: La Réalisation de Bonald. L’autore della Théorie du pouvoir politique et religieux di cui il Direttorio faceva bruciare l’edizione (e questo fu rogo non certo dovuto ai «pallidi terror» del medioevo), mentre Napoleone in segreto la divorava, è, per il Bourget. uno dei maestri della politica scientifica. e poiché lo è anche della politica tradizionale, ecco «la preuve la plus éclatante que ces deux politiques n’en font qu’une». Ora nelle sue alte speculazioni. il Bonald aveva sempre presente «ce petit coin de terre et d’eau qui s’appelle la France» e, in essa, «le Français réel et concret (non quello astratto dei Diritti, per supposta delega del quale si son commesse tante infamie) dans sa famille et sous son toit».

  Si torna sempre a quel punto: si torna al centro della concezione balzachiana: la famiglia, cellula prima dell’organismo sociale. Per questo stupisce, ripeto, che, cercando nello sterminato ciclo della Comédie humaine le opere in cui quella concezione, nelle sue diverse tesi, è mostrata in atto, ed elencando molte di quelle opere, e citando, di esse, determinati personaggi, il Bourget non abbia fatto cenno della grande pagina delle Mémoires de deux jeunes mariées in cui per bocca del duca di Chaulieu, nobile del tempo di Luigi XVIII, il Balzac espone le sue teorie preferite. In due altri punti dello stesso romanzo, si trova quanto segue: «Pendant que tu lisais Corinne (è la moglie saggia che parla alla moglie folle), je lisais Bonald, et voilà tout le secret de ma philosophie: la Famille sainte et forte m’est apparue De par Bonald (sic), ton père (ossia il duca di Chaulieu) avait raison dans son discours». E altrove, la stessa: «La Famille est l’éternelle base des sociétés». Ma veniamo al discorso del duca, che è riferito nella lettera di Louise a Renée del febbraio 1824. Sai tu, bambina mia. — dice il vecchio signore alla figliuola. — quali sono gli effetti più rovinosi della rivoluzione? Tagliando la testa a Luigi XVI. la rivoluzione lha tagliata a tutti i padri di famiglia. Oggi non vi è più famiglia; non vi sono che individui ... Noi abbiamo la scelta fra due sistemi: o costituire lo stato per mezzo della famiglia, o costituirlo per mezzo dell’interesse personale: la democrazia o l’aristocrazia, la discussione o l’obbedienza, il Cattolicismo o l’indifferenza religiosa, ecco la questione in poche parole ... Non si tratta di diritti feudali, come si vuol far credere agli sciocchi, nè di nobiltà; si tratta dello stato, si tratta della vita della Francia. Ogni paese che non ha suo fondamento nel potere paterno non ha esistenza assicurata. Da questo punto comincia la scala delle responsabilità, e di subordinazione, che sale fino al re. Il re, siamo noi tutti. Morire per il re. vuol dire morire per se stessi, per la propria famiglia, la quale non muore come non muore il reame. Ogni animale ha il suo istinto, quello dell’uomo è lo spirito di famiglia. Un paese è forte quando si compone di famiglie che hanno un tesoro, e tutti i membri di esse sono interessati a difenderlo: tesoro di danaro, di gloria, di privilegi, di funzioni; è debole, quando si compone di individui non solidali ...

  In questo estratto del discorso, che il duca di Chaulieu sviluppa ed estende anche ad altre vedute e mette come preambolo ideologico a una sistemazione di famiglia, stanno in riassunto, ma in maggiore evidenza che in ogni altro punto della Comédie humaine, quelle che il Bourget definisce «les idées politiques et sociales de Balzac».

 

 

  Decio Cinti, Prefazione, in Balzac, Cesare Birotteau … cit., pp. 7-11.

 

  L’opera di Honoré de Balzac può giustamente essere considerata, oggi, come molto invecchiata, ma non per questo è ammissibile che sia trascurata, lasciata da parte, ignorata o insufficientemente conosciuta dagli uomini d’oggi e di domani.

  Pochissimi scrittori, in tutti i tempi e in tutte le letterature, esercitarono un’influenza morale, e un’influenza letteraria paragonabili a quelle che Balzac esercitò con la sua gigantesca Commedia umana. E si tratta d’influenze tanto più importanti inquantochè giungono fino alla vita e fino alla letteratura della nostra generazione.

  Dal punto di vista letterario, basti ricordare che Balzac fu il capostipite del realismo. Fin dal 1850, egli indusse gli scrittori, con l’esempio delle parti migliori della sua opera, a guardare la vita, a pensare che in letteratura ciò che si vede ha un enorme valore. Certo egli fu aiutato, in questa sua azione, dalla forza delle cose, poiché il romanticismo durava già da mezzo secolo, è poiché era inevitabile, secondo una legge evidente nella continua evoluzione dell’arte, che ad un periodo di sensibilità e d’immaginazione, succedesse un periodo d’osservazione. Ma l’impulso che egli diede a quel movimento necessario e al nuovo genere letterario a cui si dedicò per temperamento, fu possente e decisivo, quale poteva esser dato da un genio autentico, ed impedì che il romanticismo francese agonizzasse a lungo fra le mani d’imitatori mediocri e impotenti.

  Derivano indiscutibilmente da quel grande monumento di verità che è l’opera balzacchiana tutti i più significanti romanzieri francesi della seconda metà del secolo XIX, compreso Flaubert, che come, genio creatore non è molto inferiore, a Balzac, e che, come artista e come scrittore, gli è infinitamente superiore. E dopo l’autore immortale di Madame Bovary vengono i suoi allievi, i quali potrebbero anche essere indicati senz’altro come allievi di Balzac, poiché il «naturalismo» e il «romanzo sperimentale», che successero al «realismo» senza innovazioni sostanziali, non ebbero, come Balzac, altra volontà artistica che quella di cogliere la verità e di dipingerla con efficacia.

  Alfonso Daudet, i De Goncourt, Emilio Zola e Maupassant sono la posterità diretta dell’autore della Commedia umana, pure avendo ognuno la propria originalità e le proprie caratteristiche personali.

  Non è possibile dubitare che Emilio Zola, ideatore di un grande ciclo di romanzi paragonabile al ciclo balzacchiano, abbia fissata la sua vocazione letteraria studiando Balzac. I punti di contatto o di somiglianza fra l’opera dello Zola e quella di Balzac sono innumerevoli. «Come Balzac originariamente romantico — scrive l’accademico E. Faguet — e come Flaubert ostinato nel voler liberarsi dal virus romantico, senza mai riuscirvi completamente, Emilio Zola, appassionato per le vaste costruzioni, abile nell’agitare le folle, curioso di cogliere la fisonomia delle cose, di una casa, di una via, di un mercato, di un angolo di città, di una città intera, di una provincia, e capace di riuscire malgrado un simbolismo e una specie di mitologismo inutili — a rendere, a farci vedere, tutto ciò, è certamente, fra i successori immediati di Balzac, quello che maggiormente somiglia al grande maestro. Perfino i suoi difetti, che, sono enormi, derivano in qualche modo da Balzac ...».

  Altro romanziere contemporaneo importante che discende da Balzac e che gli somiglia, è, infine, (trascurando altri grandi nomi per arrivare rapidamente ai giorni nostri) Paolo Bourget. Il Bourget non ha, nei suoi romanzi, traccia alcuna di romanticismo superato, nè di «realismo», ma come Balzac, e per evidente influenza di Balzac, a forza di commenti, di considerazioni personali e di dissertazioni, dà ai suoi libri «un carattere un po’ ibrido di narrazione mista con delle conferenze». Inoltre, per accennare a qualche pregio, dopo avere accennato ad un difetto, il Bourget, come Balzac, crea dei tipi che incarnano delle idee o dei principii, fa dei romanzi a tesi, ed è continuamente psicologo.

  Questi rapidi cenni su alcuni grandi romanzieri francesi che derivano da Balzac sono più che sufficienti a dimostrare come sia necessaria, per una sia pur modesta cultura letteraria, la conoscenza dell’opera invecchiata di questo scrittore, dato che il romanzo francese contemporaneo fu innegabilmente seguito e imitato in tutte le letterature, comprese la russa e la nostra.

  Quanto all’influenza morale, ci limiteremo a notare, che Balzac, uomo di fibra eccezionale, ambizioso, sognatore e idealizzatore di grandi fortune raggiunte e di grandi ricchezze conquistate a qualunque costo, a forza di volontà e di intelligenza — e inoltre artista potente, scultore di tipi intensamente veri in ambienti veri — può essere considerato come il padre spirituale degli arrivisti onesti e disonesti, ammirabili o detestabili, che cominciarono a farsi largo e a «salire» nella vita borghese del secolo scorso, e la cui specie si propaga e. sempre più s’impone nel secolo attuale. Molti personaggi balzacchiani, infatti, furono assai probabilmente imitati, nella vita, durante il periodo di maggior voga dei romanzi che li facevano amare, ammirare e invidiare, e si moltiplicarono poi spontaneamente in un’epoca propizia agli uomini abili, pertinaci nelle loro ambizioni e senza scrupoli nella loro volontà d’ascensione e di conquista.

  Balzac fu grandissimo come, creatore di esseri potentemente vivi; ebbe una facoltà d’osservazione singolarmente sviluppata, potentemente personale: ebbe la vera immaginazione, non già quella che si esercita in parole, e fa metafore, e costruisce laboriosamente simboli, ma quella che «veramente crea degli esseri, delle cose, degli avvenimenti».

  «Degli esseri, — così scrisse un critico illustre — poiché gli uomini e le donne ch’egli ci mostra, ci sono familiari come personaggi viventi e che vediamo ogni giorno, e poiché ne vediamo non soltanto ciò che egli ce ne mostra, ma anche ciò che non ce ne mostra affatto … Sono esseri che conosciamo perfettamente e dei quali possiamo ricostituire e ricostruire le parti che egli non ci ha mostrate, esattamente come possiamo immaginare l’infanzia di Achille, la gioventù di Jago e quella di Tartufo, quantunque Omero, Shakespeare e Molière non ce ne abbiano detto nulla.

  «Delle cose; poiché le cose che egli descrive assumono una fisonomia, una vita, un’anima, e poiché certe case che egli ci dipinge sono degli stati d’animo, come per Amiel erano tali certi paesaggi. Una casa è una miseria rassegnata; un’altra è una tomba muta, che sentiamo traboccante d’oro; un’altra è una cordialità dolce e un po’ sonnolenta; un’altra è un orgoglio fastoso e insolente; un’altra è una perfidia insidiosa.

  «Degli avvenimenti; e (quasi sempre) l’avvenimento, in Balzac, è creato dalla sicura logica dei fatti posseduti da uno spirito che l’abbraccia tutta, quella logica, e ne è tanto assolutamente padrone da sembrarne in qualche modo l’autore, e da farci pensare che essa risieda in lui come Minerva nel cervello di Giove».

  Tutti i personaggi di Balzac sono logici, verosimili, completi, e agiscono come devono agire, dicono ciò che devono dire, esattamente secondo il loro temperamento, la loro educazione e l’influenza del loro ambiente. Sono solidi, organici, alcuni più complessi, altri troppo semplici, qualche volta; ma tutti hanno un’anima, tutti respirano e si muovono davanti ai nostri occhi, come già respirarono e si mossero davanti a quelli del loro creatore.

  Balzac ebbe al massimo grado la facoltà, essenziale per un artista, di dare, l’illusione, della vita, quale può derivare soltanto da un profondo sentimento della vita stessa. Tale facoltà era sostenuta ed aumentata in lui da quella, non meno preziosa, di vedere e di rendere i «particolari» degli esseri e delle cose. Senza che ce ne accorgiamo, è appunto dall’osservazione costante e minuziosa, facilitata da una memoria tenace e da un singolare potere d’evocazione, che Balzac ottiene gli effetti di verità che più ci colpiscono. Infatti, certe nostre impressioni d’insieme, giuste ma un po’ vaghe (per esempio: «Il tale ha un’aria di bontà», oppure: «Il tale ha un’aria sinistra») sono prodotte in noi da cento piccoli particolari che non sfuggono alla nostra sensibilità, ma che non fermano nemmeno per un attimo la nostra attenzione. Quei cento particolari, il grande artista li vede tutti; sceglie, e ci dà i più significanti, facendoci esclamare ad ognuno: «Come vero, questo! L’avevo notato anch’io!» Ma non l’avevano notato; la nostra sensibilità ne aveva avuto una fuggevole impressione, e solo nel momento in cui lo scrittore ce lo mostra, quel particolare sorge, espressivo ed importante, dal fondo della nostra memoria.

  Oltre a queste facoltà che sarebbero bastate a fare di lui un grande romanziere, Balzac ebbe il dono di vedere e di saper risuscitare, nella sua mente, dei complessi, dei gruppi umani, quasi delle società organizzate, con le azioni e le reazioni reciproche degli esseri che le compongono. «Ed è questo un dono assolutamente superiore, – dice il Faguet – e si possono contar sulle dita gli scrittori che l’ebbero. Shakespeare e Molière sono fra i più illustri. Quando ha un tal potere, il romanziere è una specie di poeta epico; non si limita più a rendere la vita, a sorprenderla nei suoi più minuti particolari caratteristici: l’abbraccia nel suo insieme, ed ogni essere che ha creato, già vivo per sè stesso, diventa ancor più vivo, per effetto del contatto, dell’attrito e dell’impulso della vita di tutti gli altri esseri». Così Balzac, nella Commedia umana, ci appare come creatore di un suo mondo, piccolo e grande ad un tempo, pieno di una vita molteplice e intensa.

  I personaggi, i tipi principali creati da Balzac furono già troppo descritti, studiati e analizzati da critici, da biografi e da ammiratori d’ogni levatura, perché possa sembrarci opportuno rievocarli in questa prefazione che vuol esser breve. D’altra parte, sono già abbastanza noti al pubblico italiano; pel quale, bene o male, furono tradotti i più famosi romanzi del poderoso scrittore.

  Ci limiteremo a notare che, generalmente, sono tipi semplici; caratteri semplici. Ognuno di questi tipi — alludiamo ai principali — è dominato da una passione unica e grande, o da un vizio unico e capitale, o da una virtù unica e sublime, di cui diventa una specie di personificazione esemplare. Quella passione, o quel vizio, o quella virtù, costituisce la tesi del romanzo in cui campeggia il personaggio che l’incarna.

  I vantaggi d’un tal modo di concepire sono evidenti. Il vantaggio principale, dal quale nascono delle autentiche fulgide bellezze, è che il personaggio concepito e reso così, ha un sorprendente rilievo e rimane veramente tipico. Basti accennare a Vautrin, a Rastignac, a Gobseck, a Goriot, a Grandet, a Brideau, a Birotteau ...

  Abbiamo nominato il protagonista del romanzo balzacchiano da noi scelto per questa collezione di Pagine straniere, e qui ci si offre il destro di notare che la nostra scelta non venne fatta a caso.

  Anzitutto pensammo che, volendo dare a Balzac un posto in una collezione nuova di libri tradotti e adattati nella nostra lingua, convenisse scegliere un romanzo che non fosse già molto noto in Italia, pure essendo uno dei più importanti e dei più tipici della Comédie humaine. Pensammo inoltre che César Birotteau, libro e personaggio, può avere per molte ragioni, in questa nostra epoca di grandi affari e d’intensa vita commerciale, uno speciale interesse, sia pure soltanto come rievocazione curiosa di un’epoca lontana e diversa; e infine, dato che in questo romanzo, forse più che in molti altri, Balzac si abbandona a quel suo grande difetto che consiste nel fare digressioni quasi inutili e descrizioni troppo lunghe, ci sembrò che César Birotteau non potesse che guadagnare, dal punto di vista dell’interesse e. dell’efficacia, quando fosse agilizzato coi criterî che caratterizzano questa Raccolta, nella quale le parti più pesanti e meno vitali delle opere tradotte sono sunteg­giate.

  Il tipo di Cesare Birotteau, giudicato anche dal nostro Carducci uno dei più belli e dei più potentemente scolpiti fra tutti i tipi balzacchiani, è profondamente umano, profondamente vero. Nel far vivere davanti ai nostri occhi quest’uomo qualunque, mediocre e semplice, grande soltanto nel sentimento, pure comune e semplice, della probità, l’arte di Balzac è meravigliosa. I mezzi di cui essa si serve, per dare muscoli, sangue e cuore a quest’uomo che non ha nulla di eccezionale, e per farcelo vedere e conoscere come uno di quelli che incontriamo ogni giorno, sfuggono alla facoltà analitica che può essere in noi, tanto sono esenti da qualsiasi artificio letterario, e perciò appunto raggiungono singolarissimi effetti di verità simpatica e commovente. Cosicché Cesare Birotteau è, come tutti i migliori personaggi di Balzac, realmente un uomo, cioè qualcosa di più e di meglio che un personaggio di romanzo; è un uomo degno di essere conosciuto da noi, un uomo la cui conoscenza c’interessa e ci giova, ed è, artisticamente, una figura senza ombre, abbagliante di luce, che rimane impressa per sempre nella nostra mente, quantunque sia la figura di un eroe modestissimo.

 

 

  G. C. Cosa, Dal genio di Balzac alla politica del Duce, «Vedetta Jonica. Organo della Federazione Provinciale Fascista», Taranto, Anno II, N. 14, 6 aprile 1931, p. 4.

 

  Ma ... torniamo a Balzac. Riferendosi all’opera dell’uomo di governo ideale egli scrive: «Occorre soltanto cui po’ di buon senso per migliorare le condizioni di un comune, di un mandamento, di un circondario; è necessario un po’ di talento per chi amministra la provincia; ma questi quattro enti offrono orizzonti ristretti che persone, intelligenza comune possano facilmente vedere. In una sfera più vasta, tutto giganteggia; lo sguardo dell’uomo di Stato deve dominare completamente la situazione. Mentre per fare buone cose in una provincia, in un circondario, in un mandamento, o in un comune basta prevedere i risultati a dieci anni di scadenza, quando si tratta di una Nazione si deve prevederne i destini nel corso di un secolo».

  Ma chi di noi non ricorda la frase di Benito Mussolini in un suo discorso alla Camera: «Io Credo indegno del nome di Statista — diceva il Duce — quell’uomo di Governo che non prevede e non si occupa e preoccupa delle possibilità politiche e sociali di almeno un secolo […]».

  Il Balzac, per bocca del medesimo Bernassis (sic) si dichiara anzitutto avversario del Governo della folla, del regime democratico e popolare, del suffragio dato senza discernimento alle masse.

«Pur ammirando egli dice — il proletariato per la sua vita laboriosa, sublime di pazienza e di rassegnazione, lo dichiaro incapace di partecipare al potere. I proletari mi sembrano i minorenni di una Nazione e debbono sempre ristare sotto tutela, tutela giusta e necessaria per la difesa della società.

  E però il sistema sociale deve lasciar sorgere dalla folla chiunque voglia salire fino alle classi elevate, ogni potere tende alla sua conservazione. Per vivere oggi come una volta i governi debbono valersi di uomini forti, prendendoli dovunque si trovino».

  Ed ecco in germe enunciato il carattere necessariamente aristocratico, anzi e più propriamente, anti-oligarchico dello Stato totalitario della concezione Fascista.

 

 

  Ugo Cuesta, [Prefazione], in O. Balzac, L’Angelo e il Semidio … cit., pp. 5-6.

 

  L’opera di Balzac ha un particolare vigore di vita, per cui si è indotti a pensare che possa, come finoggi, anche in avvenire adattarsi alla mentalità che varia col tempo. Ogni volta che ci si mette ad esaminarla, par di scuoprirvi del nuovo, e non sono ridicole scoperte, dovute a presuntuosità di critici o di lettori; è che, infatti, Balzac non si abbraccia mai tutt’intero. Questo gigante sfugge all’entusiastica stretta in cui tante generazioni hanno voluto assimilarselo.

  Perciò, traducendo uno dei suoi più singolari racconti — in francese: Les exilés — non ho inteso di compiere una vera e propria rivelazione per il pubblico italiano in genere, ma ho pensato che questo racconto, non certo noto comunemente, ha un fascino cui nessuno potrà mai sottrarsi. Di solito la gente s’innamora di qualche aspetto, di qualche parte del lavoro d’uno scrittore, specie quando lo scrittore è celebre, e trascura altre parti, altri aspetti, magari di maggior potenza, sol perché si cominciò a trascurarli da principio, quali piccoli satelliti offuscati dallo splendore d’un mondo rutilante.

  Invece, nel mondo di Balzac questo racconto che ho creduto di poter intitolare “L’angelo e il semidio” ha, secondo me, una posizione centrale. E sarebbe lungo esporne le cause: basti dire che qui Balzac addimostra in pieno la sua meravigliosa far colta di identificare la vita e la storia, in un connubio perfetto fra il fantastico e il reale. Vita e storia: non la medesima cosa, ma due cose che si susseguono. Fantasia e realtà: non due termini in contrasto, ma due forze di diverso segno da cui scaturisce la scintilla creatrice dell’arte.

  Qui Balzac parte da un episodio storicamente incerto, per giungere a una conclusione storicamente inesistente: ma quanta storia egli non definisce e illumina per via, con la gran luce del suo genio.



  D., Collezioni, nuove edizioni e ristampe, «La Parola e il Libro», Milano, Anno XIV, N. 7-8, Luglio-Agosto 1931, p. 460.

 

  Si registrano le pubblicazioni della traduzione di Eugénie Grandet da parte di Grazia Deledda (‘Biblioteca romantica Mondadori), del 23° e del 24° volume dell’opera di Balzac edita dalla Casa editrice Corbaccio di Milano.

 

 

  Enrico Emanuelli, Palanche, «L’Italia letteraria», Roma, Anno III, N. 14, 5 Aprile 1931, p. 8.

 

  [Su: Paolo Arcari, Palanche. Romanzo, Milano, Treves].

 

  Quasi che il titolo non spiegasse abbastanza, ecco sulla fascetta un altro schiarimento: «Avarizia». […] ho pensato lì per lì alla mente maestra di Balzac quello, tanto per restare tra avari, della Eugenia Grandet.

 

 

  Onorato Fava, Il fanciullo nella letteratura, Firenze, Casa Editrice “Nemi” del Dott. C. Cherubini, 1931.

 

  pp. 125-126. Ed ecco ora due figure di fanciulle, create dall’arte di altri due Maestri: Emilio Zola e Onorato Balzac.

  All’accusa di troppo crudo verismo, l’artista che pure nei Racconti a Ninon aveva dato prova di non essere insensibile alla nota del sentimento, rispose col romanzo Il sogno, dal quale sorge in tutta la sua purezza di giglio la piccola Angelica, una trovatella bionda di nove anni, con gli occhi viola che, rifugiata sotto l’arco d’una porta della cattedrale di Beaumont, vi aveva passata la notte nevosa di Natale e battere i denti, tutta livida di freddo, con le manine e i piedini mezzo morti, non avente più di vivo che il vapore lieve del suo alito. Una fanciulla ideale che vive in un’aspirazione indefinita verso il misterioso regno degli angeli e dei santi e che, nel momento in cui è per toccare la gioia suprema dell’amore, svanisce come un’ombra, rapita dall’ invisibile nell’avverarsi del suo sogno.

  Più umana e dolorosa, colta dalla vita reale da quel poderoso creatore di un mondo di tipi che resteranno immortali nella storia dell’Arte, è Pierina, una delle più commoventi creature sorte dal cervello e dal cuore di Onorato Balzac. Chi intende ed ama le grandi figure di Eugenia Grandet, di papà Goriot, di Orsola Miruet (sic), del cugino Pons, della cugina Betta, di Cesare Birotteau, non dimentichi la piccola bretone con la sua sottana di lana turchina e il grembiale rosa, coi grossi scarponi ai piedi e le mani rosse, che capita, per sua sventura, in casa dei cugini Rongron e vi passa la breve esistenza, che è un calvario di dolore. Rilegga queste pagine che fanno fremere, nelle quali si effonde tutta una sofferenza compressa, che la piccola martire, colpita giornalmente nei punti più sensibili del cuore, è costretta a trattenere il pianto poiché le si chiede conto delle lagrime come di un’offesa verso la bontà dei suoi magnanimi parenti, pagine di così cruda verità che terminano con una desolante constatazione della vigliaccheria e della ingiustizia umana.

  E Felice Vandenesse, la vittima dell’indifferenza materna, nel romanzo Le lis (sic) dans la valléee Luigi Lambert, lo scolaro distratto del collegio di Vendôme, sono altre due creazioni nelle quali il Balzac rievoca ricordi dolorosi della sua infanzia.

 

 

  Attilio Frescura, Diario di un disperato. “Io”: occasione per gli altri. […] Onorato Balzac e Benito Mussolini […], «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 181, 31 Luglio 1931, p. 3.

 

  Ho fatto, in vita mia, molti mestieri, qualcuno umilissimo, perché non mi son mai messo in mezzo alla strada come quell’ubriaco – girava tutto – che aspettava che gli passasse innanzi il portone di casa sua. Non mi meraviglio però che molti se ne meraviglino, dimenticando che Onorato Balzac, per esempio, volle essere tipografo, al numero 17 di rue Visconti, e chiuse con un fallimento, e che Benito Mussolini (mi si perdoni se avvicino i grandi a me) scrisse: «Non bisogna essere troppo abitudinari. Faccio il giornalista da troppo tempo: ho tanti altri mestieri. […]».

 

 

  Attilio Frescura, Gentiluomini in parrucca, dame in crinolina … Diario romantico 1831. Note sentimentali sui dolori e le gioie di una giovane sposa, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 261, 3 Novembre 1931, p. 3.

 

  Fra le vecchie carte di famiglia, che vado da tempo rispettosamente frugando, ho rinvenuto un prezioso diario, che va dal febbraio 1828 al dicembre 1831, cioè dal giorno in cui l’autrice – mia trisavola – compì i quindici anni, al giorno in cui andò sposa. […].

 

21 ottobre.

 

  Ah, io sarò sempre per il signor Onorato di Balzac, che esalta il tipo della donna dotata di tutte le miti, caste, romantiche attrattive della femminilità, anche un poco sciocca, anche un poco frivola.



  G. [Angiolo Orvieto], Marginalia. Spiriti di Balzac in una commedia d’oggi [Alfred Savoir, Banco], «Il Marzocco», Firenze, Anno XXXVI, N. 15, 12 Aprile 1931, p. 3.

 

  Ma Carla non ha la stoffa della vittima, pur essendo una brava figliola che vede ben chiaro nella immoralità mondana e grossolana dello scioperatissimo coniuge; vizioso munito di tale stato di servizio, nonostante la giovinezza degli anni, da disgradarne un eroe di Balzac. […].

  Poco fa si è ricordato Balzac. E non a caso. Queste figure, pure così moderne e vive nei loro tratti di puro novecento ricordano gli spiriti di cui si anima la «Commedia Umana». Segno certo che quest’arte di Alfred Savoir si muove nel solco della migliore sua tradizione.

  Nessun dubbio che de Lussac si potesse chiamare, cent'anni or sono, Lucien de Rubempré o Rastignac o Bridau. ma anche Carla «mezz’angelo e mezzo demonio», per usare lo stile di cent’anni fa, ha rapporti stretti di parentela con le donne di quel mondo frenetico e amaro. E il noiosissimo castellano par ritagliato da un racconto della «Vita di provincia» e i fatti di una cronaca stupefacente e precipitosa, dalle alternative brutali che si avvicendano a una introspezione delicatissima e quasi infallibile ci riportano ai metodi del romanziere a cui fu negata la facoltà di impiegare le sue forze illimitate nel giro obbligato e troppo angusto, per lui, della scena.



  Carlo Emilio Gadda, Libreria di Francia. Pierre Abraham, «Créatures chez Balzac», «L’Ambrosiano», Milano, Anno X, 24 Novembre 1931, p. 3. [Ora in Divagazioni e garbuglio. Saggi dispersi. A cura di Liliana Orlando, Milano, Adelphi Edizioni, 2019, pp. 48-57].

 

  Duemila e sessanta personaggi, secondo i computi statistici di Cerfberr e Christophe: (Répertoire de la Comédie Humaine, riedizione 1925, Calmann-Lévy). Il repertorio balzacchiano, diceva Théophile Gautier, «fa concorrenza allo stato civile». Come si vede, il caso Balzac si presenta come uno de’ più propizi a chi volesse farsi un avvenire impiantando un ufficio anagrafe della popolazione romanzesca. E poi, la natura dei personaggi! appartenenti, nella loro grandissima parte, proprio a quelli che si potrebber chiamare gli strati reali della società, la bruta materia del genere umano. Secondo il Lanson (Historie de la litt. franç.) «Balzac è una natura volgare, robusta, esuberante»: giudizio che mi sembra un po’ fuori fuoco: «il suo dominio è la dipintura dei caratteri-tipo delle classi borghesi e popolari»: e qui naturalmente sottoscriviamo. E più oltre: «... Sfogliando il repertorio della Comédie Humaine, bisogna fare uno sforzo per arrivare a distinguere i personaggi fittizi dalle persone storiche che sono mescolate con essi ...». E un po’ tutta la critica è concorde nel riconoscere il vigore, la coerenza, la tipicità del personaggio balzacchiano.

  Dunque una «popolazione», una folla: ma una folla di visi delineati ciascheduno con tratti inconfondibili, indimenticabili.

  Applicare i procedimenti della statistica e della sociologia, della antropologia e della demografia al repertorio romanzesco è un’idea che non viene in mente se non davanti a una folla. Anche nel Manzoni e nello Shakespeare il personaggio è vivo di vita, è creatura semovente attraverso la validità del sistema rappresentativo: ma il compiuto lor mondo si armonizza di là dai confini del personaggio: si ha la sensazione di un’idea dominante, di un ordine, osservato o turbato anche per entro il travaglio e lo spasimo delle nature. Le idee e le forze morali agiscono «per mezzo» di uomini: i personaggi sono i recipienti d’una sostanza che li integra e li trascende. Il caso Balzac è altro: più volgare, per riprendere il termine usato dal Lanson: più ampio, numericamente più vario: si appoggia proprio sulla diversità, si abbandona al molteplice. La pluralità vive nella Comédie Humaine come tale, vive cioè, oltre che nella potenza de’ suoi tipi, ma anche nel numero, nella quantità di essi. Il lettore ha davanti a sé una folla, come l’ha davanti il maresciallo dei carabinieri in un giorno di sagra, anche se in questa folla si conosce e si distingue gli individui, uno per uno.

  Ecco, credo, come e perché sia proprio il caso Balzac quello che traverso tutto lo strascico di una vastissima letteratura critica può aver primo e più efficacemente suggerito queste idee di «stato civile dei personaggi», di repertorio, di schedario anagrafico, di statistica umana. Anatole France, pubblicando sul «Temps» una sua variazione-recensione relativa al citato Répertoire di Cerfberr e Christophe, chiudeva così: «... La statistica è una scienza rispettabilissima, che, applicata alla società balzacchiana, non mancherà di darci dei risultati interessanti ...». «... E credo che il pubblico sarebbe curioso di conoscere il numero degli adulti e dei ragazzi, dei maschi e delle femmine, dei celibi e dei coniugati. Delle tabelle di mortalità sarebbero tutt’ altro che fuori di posto. Si potrebbe attaccarci anche una planimetria di Parigi e una carta della Francia …». Dunque tabelle e statistica.

  Due generi che non difettano nel volume di Pierre Abraham, per quanto (ed era prevedibile) il metodo, che autore chiama «critique expérimentale», non sia fine a sé stesso. «Questo libro lè noioso e disordinato», dice l’Abraham calunniando, con il primo qualificativo, il suo lavoro: quanto al secondo, non possiamo a meno di riconoscere che il libro ha oltre che un carattere blandamente antologico, ma anche un bel titolo. Senonché Francesco d’Ovidio lo avrebbe addirittura intitolato «Studi balzacchiani»: e tutto andava a posto anche meglio.

  La critica sperimentale, secondo l’Abraham, è quella che deve occuparsi di studiare i mezzi, le modalità di realizzazione dell’opera d’arte, anziché il complesso inarrivabile delle cause; le cause sono inconoscibili, il quod è un mistero: e allora «state contente umane genti al quia»: se no farete della critica ... aristotelica. Tutto questo sproloquio anti-aristotelico mi sembra un po’ un paradosso: anzitutto anche prima della critica sperimentale dello Abraham già si studiavan piuttosto le modalità che le cause, pur senza sottilizzare sulla distinzione dei due termini: in secondo luogo, se si cercavan le cause, non era per fare dell’aristotelismo e per risalirne il «regressus in indefinitum», secondo suonerebbe la locuzione kantiana: ma per spiegar meglio i fatti con chiarire i loro immediati perché, o i loro immediati per come. Se io fossi un grand’uomo, potrebbe interessare al pubblico di conoscere che ho «creato» un velenosissimo agente delle imposte dirette ritraendo il mio tipo da un funzionario «storico», il signor Vacca ad esempio, «perché» l’ho conosciuto alla tavola dell’osteria del Cavallo bianco. «Ma no!», insorge lo Abraham, «questa causa aristotelica non importa un fico: quello che importa è il sapere come, cioè proprio per quali vie e con quali mezzi, e lunghesso quali misteriosi procedimenti e traverso qual sottile modo o filtro, voi, caro il mio signor Gadda, avete tradotto questo Vacca autentico in un vostro stupendo Vacca romanzato!». Ma allora il modo dei modi è un mistero dei misteri, non meno che la causa delle cause.

  Comunque, deve riconoscersi all’Abraham un’intenzione d’acutezza che perviene a dei risultati notevoli: certe sue pagine si possono dire «brillanti». Studiare la «modalità» significa per lui penetrare il meccanismo segreto della creazione che neppure in Balzac, (salutato in letteratura come padre del realismo, come «pittore vigoroso e fedele» (Lanson, op. cit.) d’una parte della società francese dell’800), neppure in Balzac è mera e banale riproduzione, sì misteriosa ricreazione delle fisionomie morali: entro i termini e con i mezzi cui pigramente, evadendo alla fatica dell’indagine, sogliamo dire «propri dell’arte». È evidente che, ricostruiti mediante il pensiero, gli uomini storici si tramuteranno in un sistema di simboli. Discoprire il nesso che intercorre fra simbolo e persona simboleggiata: rifare criticamente il cammino che conduce dagli uomini veri ad una loro espressione, cioè ad una «creatura» letteraria: ecco la finalità dell’Abraham.

  Ci sono dei fatti accessorii, che pur giuocano con peso notevole nel complicato equilibrio del sistema balzacchiano, come in quello di ogni sistema. Le creature derivano piuttosto da un tipo che non siano dei semplici ritratti individuali: pur nella verità e vivacità loro muovono dal genere, sono, per così dire, figlie del genere. E allora Balzac è risalito da una pluralità di individui storici, per astrazione, al tipo: dal tipo è ridisceso al personaggio, che è termine più elaborato e complesso.

  Tutto un capitolo del libro di Abraham è dedicato a cogliere i momenti autobiografici nella vicenda dei personaggi balzacchiani: e per necessità di cose questo capitolo tocca argomenti biografici.

  Osservazioni acute accompagnano l’esposto. Sotto questo riguardo l’Abraham tende a rappresentare la creazione balzacchiana come un graduale processo di liberazione dalle immagini che l’autore ha di sé stesso, per intervalli, ossedenti. Quando finalmente arriva a buttare lo specchio, allora la folla vera e stupenda delle sue creature «libere» irrompe nell’opera. «Fra l’autore e la folla dei personaggi liberi (sic) ch’egli anela a creare, si interpongono, per tappe successive, le immagini della propria di lui persona, che gli sono di ostacolo continuo. Con altro linguaggio, si potrebbe dire che Balzac perviene alla costruzione classica soltanto dopo di aver immolato in sé una successione di fantasmi romantici nei quali egli si reincarna periodicamente ...» (pag. 63). E l’Abraham (critique expérimentale!) ne trae la conclusione che molti eccellenti scrittori non pervengono ad essere dei romanzieri perché troppo occupati di sé.

  Altrove sono oggetto di esame le letture mediche di Balzac, che fu un formidabile lettore di ogni genere di libri: e si pone in rilievo qual profonda impressione abbiano esercitato su di lui i recenti enunciati di Lavater, il «fisiognomonista», e di Gall, il frenòlogo. Gall, com’è noto, aveva creduto di poter stabilire su basi scientifiche una scienza delle correlazioni fra psiche ed aspetti somatici: fra psiche ed ossa craniche. Siamo sulla via che Balzac percorrerà liberamente, trionfalmente: siamo agli inizi propri di uno dei metodi, di una delle «modalità» balzacchiane: dipingere il fisico per risalire all’anima. Questo metodo consiste nello stabilire un parallelismo fisico-psichico e nell’osservarlo con coerenza energica attraverso tutta la vita del personaggio. Efficacissime appunto, in Balzac, le descrizioni della fisionomia: in ciò forse egli palesa la sua natura «volgare», se per volgarità si intenda aver l’occhio agli aspetti primi e brutali della vita, alle notificazioni insomma di tutto ciò che è perentorio e immediato.

  E tuttavia la correlazione balzacchiana è quasi sempre arbitraria: egli non è quel clinico che credeva, pedantescamente, di essere: i misteriosi procedimenti dell’analogia, la necessità della caricatura, le difficili esigenze del risalto, il valore simbolico di certe notazioni (le donne ardenti son brune, perché brune sono in prevalenza le meridionali, ecc.) fanno sì che il ritratto, nella Comédie Humaine sia un ritratto alla Balzac più che una immagine rigorosamente naturalistica. Esso non è per questo meno efficace: l’Abraham sembra acutamente stabilire, ancora una volta, che esprimere non significa fotografare.

  «Non è certo», osservava Le Breton (1906), «se Balzac abbia frequentato Cuvier o Geofffoy Saint-Hilaire» (il naturalista e il biologo evoluzionista), «ma aveva letto e riletto i lavori di Gali e di Lavater. Egli è pedante (sic) nell’osservazione. Eccelle poi nel reperire i segreti accordi fra l’anima e le cose, ma questo rapporto, molte volte, egli lo esagera ...». Più che d’«esagerazione» è il caso forse di parlare, come ho fatto, d’arbitrio rispetto al cànone d’un acerbo realismo. Ma l’arbitrio ha giustificazioni misteriose, pertinenti al meccanismo dell’arte, alle esigenze tecniche del trasferimento storia-pensiero.

  I capitoli più precisamente statistici del libro di Pierre Abraham riguardano la pigmentazione degli occhi e dei capelli nei personaggi principali, maschi e femmine, pregiudicati e incensurati: e si leggono con divertita curiosità e financo talvolta con il sorriso del buon umore: ma l’Abraham tira avanti imperterrito. Tira le sue somme; stabilisce le sue divisioni e suddivisioni; elabora delle tabelle a nove finche; con dei totali parziali e dei totali generali, da far gola al Direttore dell’Ufficio Statistica del Municipio di Milano. La «critica sperimentale» è in pieno lavoro.

  Non mancano i diagrammi né i grafici, il più istruttivo de’ quali mi par essere la «Rosa dei venti» di pag. 160. Esso ci dà, sovrapposti, il mondo balzacchiano e il mondo reale (o teorico?): il grafico del mondo teoricamente-reale è una stella a otto raggi eguali, cioè coi nord-ovest e coi sud-est. A Nord l’idealità, a Sud la materialità, a Est l’azione, a Ovest la passione: (Nord e Sud per fissar su carta le idee, non perché la figura abbia un qualsiasi valore ... geografico). I sud-est e i nord-ovest corrispondono ai caratteri intermedi. Ebbene: la stella balzacchiana, sovrapposta alla teòrica, (dove si assume arbitrariamente una egual proporzione nel mondo storico di idealità e di materialità, di azione e di passione) la stella balzacchiana si palesa deforme, acciaccata secondo la linea equatoriale azione-passione. Ciò che potrebbe condurci a inferire come il movimento (azione- passione) interessi il romanzo balzacchiano più che il contenuto morale in sé (idealità-materialità).

  Notevole, nell’Abraham critico letterario, la dimestichezza con le notazioni scientifiche e con le matematico-ingegneresche: questa è una parentesi che apro in onore di quelli che si spaventano appena parlar numeri o figure, o termini o cose tecniche in gènere: (medicina, diritto, biologia, arte militare, ecc.). Esistono dei paesi a sto mondo, che si chiamano putacaso Francia, Germania, Inghilterra e Stati Uniti, dove un pubblicò medio di persone mediamente colte, non si terrorizza, come il nostro, al primo nominare un parallelogramma, ... o le isole di Langerhans. E l’Abraham parla addirittura per ascisse e ordinate, per massimi e minimi, parla, e non ne impallidisce, delle protuberanze di Gall: imbastisce grafici pieni di evidenza, distende sulla pagina i suoi lenzuoli sinottici e gli vien fatto financo sommare numeri di tre cifre senza imbrogliarsi nel conto: e senza cadere in deliquio.

  Dopotutto, potenti motivazioni culturali (libresche! libresche!) animano la letteratura moderna e qualunque letteratura post-pliocenica: dopotutto sono opere letterarie anche il Timeo e la Divina Commedia: e di Omero sospetto forte sapesse leggere e scrivere, anche che cieco.

  Leibniz epistolava: e gli veniva meglio di certi prosatori-fontana, non ostante avesse escogitato «les petites sensations» ad uso della psicologia, e «les petites différences» ad incremento delle matematiche, gravide già del calcolo differenziale.

  E la Comédie Humaine (guardate! abbiamo l’esempio sul tàvolo!) è un fuoco di buona legna: e per accenderlo più alla svelta può aver servito anche il fiammifero di Gall. E Giulio Verne ha presagito Tommaso Edison: e ha pure trovato il suo pubblico.

  Ma questa è una cattiva parentesi, da indispettire il mio pubblico.

  Il fatto è che Pierre Abraham, paziente organizzatore dell’Ufficio Antropometrico balzacchiano, indagatore sapiente delle «modalità» e trombettiere della critica sperimentale, ha affrontato il suo destino con grande coraggio: ha intrapreso senza batter ciglio lo studio delle iridi gialle ed azzurre, dei capelli neri o castanei: (c’è anche qualche «creatura» che cambia colore strada facendo). E c’è anche il capitolo interpretativo delle similitudini; per le animalesche ci sovviene la tabella di pag. 248: «La Zoologie dans la Comédie Humaine». Divisioni delle similitudini zoologiche secondo i tipi e le classi in direzione ascendente: molluschi e gasteropodi, antròpodi, vertebrati; crostacei ed insetti, rettili, uccelli, mammiferi. Suddivisione secondo gli ordini: ortòtteri e lepidòtteri, sauri ed ofidi, psittacoidi, palmipedi e passeracei: perissodàttili, artiodattili e carnivori.

  Tuttociò ha valore per le conclusioni a cui la solerte acutezza dello Abraham lodevolmente perviene. E il campionario delle similitudini zoologiche è addirittura brillante. «La signorina Cormon aveva un’aria di stupore e di “simplicité moutonnière”». Così anche Laurenza di Cinq-Cygne, collezionista di analogie pecorine: «Una fisionomia molto dolce e una figura tenuta su con le stecche, il di cui profilo offriva una vaga rassomiglianza con una testa di pecora ... Questa dolcezza, per quanto nòbile, pareva raggiungere la stupidità dell’agnello ...» (pag. 253).

  E gli occhi gialli, in Balzac, son quelli dei felini e dei malvagi: il collo del cigno gli serve per le duchesse un po’ stagionatene: la signora Grandet «dà prova di una rassegnazione da insetto, tormentato dalla malvagità dei ragazzi» (pag. 244). E chi è «vestito di nero come un coleottero», e chi procede «con la lentezza, ma con la tenacia di un insetto». Le mani di Raoul Nathan sono «incordate di mùscoli, immobili come le zampe di un granchio ...». Ecco il crostaceo. E ci sono camaleonti e serpenti, cicogne ed allodole, vipere ed orsi, da continuare all’infinito.

  Ma basteranno gli esempi, se potremo concludere con ribadir l’idea che il merito essenziale dello Abraham consiste nell’aver acutamente accertato che la correlazione fra i mezzi espressivi e la cosa rappresentata trascende la semplice pittura. Il padre del realismo, sembra affermare lo Abraham, si vale, ad esprimere la «realtà», di modi meno o più che realistici: l’analogia ed il simbolo operano potenti anche in Balzac. Acuto commento all’indagine. Anche nel ricettacolo intimo della piazzaforte realistica vi è qualche cosa di simbolico e di analogico, di «caricato» o comunque di spàstico, che pertiene non a «capriccio» ma piuttosto a una necessità, intrinseca all’opera letteraria: ricreare la vita con i mezzi e dentro i termini propri del pensiero.

  Questi mezzi non sono in Balzac sì preziosi né sì tendenziosi, che l’Abraham non possa riconoscere all’opera di lui la caratteristica della facilità: essa è «aperta» davanti l’intelligenza media del pubblico (pag. 298) in paragone ad es. di quella di Proust, che sarebbe «chiusa», cioè speciosa, tanto da riuscire ermetica. A proposito di similitudini tolte dalle arti figurative, ecco qua: 120 in totale: 36 affettano l’antichità greco-romana; 33 il nostro Rinascimento; 14 i fiamminghi e gli olandesi. Balzac non suole pescar nel difficile «... On se promène dans le Musée du Louvre ...» (pag. 298). Mentre Proust, «per mettere in scena il suo personaggio, riesuma il frammento raro, prelevatolo da un lavoro ignoto, nascosto in qualche chiesa lontana ...». L’ottocento romantico si rivolge, io aggiungo, alla folla, «all’Europa». Il novecento è più addottrinato, conosce anche i giacimenti remoti e poveri: e poi reagisce all’ossessione dell’università popolare e della scienza per tutti con la chicane del preziosismo: dà nel bibelot e nella rarità con Wilde e con D’Annunzio, con France e con Proust.

  Il capitolo ultimo e conclusivo del volume trae dall’analisi dei modi e dei mezzi alcune affermazioni critiche di alto interesse, nelle quali non si scorge sempre vivo il legame con la materia statistica delibata in precedenza. «Questo libro è disordinato», aveva detto lo Abraham. Ma è questo il capitolo migliore del libro.

  Con permeante acume, in un esposto denso di idee vigilate, lo Abraham mira a distinguere nell’opera letteraria, «l’automatismo» dalla «creazione»: mira a cogliere Balzac, «il non-poeta» (pag. 310) nella crisi del suo metodo, a collocarlo sulla premessa della sua routine di «omogeneo», fra il cumulato materiale di ciò che si impara e il poco o pochissimo che si «inventa» o crea. A queste pagine vien sovvenendo una buona disciplina filosofica del pensiero: psicologia e filosofia non sono motivi ignorati allo Abraham. Impossibile un riassunto, che ci condurrebbe ... a una trascrizione, fra le proteste generali dell’assemblea.

  Raccomandiamo questo capitolo alla indulgente benevolenza di chi suol periodare sulle cose dell’arte.

 

 

  Francesco Geraci, “Tu sarai la diletta …”. Evelina Hanska compagna fedele di Onorato Balzac, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 175, 24 Luglio 1931, p. 3.

 

  Ecco delle pagine rilevatrici su Balzac che dobbiamo in gran parte alla Principessa Caterina Radziwill, nata Rzewuska e nipote della vedova dell’immortale scrittore, infatti, le lettere pubblicate in questo volume di Juanita heim Floid — diciassette lettere inedite — appartengono alla corrispondenza scambiata fra Madame Hanska e il fratello di costei, Adam Rzewuska (sic), padre della Principessa Radziwill, la quale ha fedelmente tradotto dall’inglese questa opera di considerevole importanza storico-letteraria: Les femmes dans la vie de Balzac (Plon, Editore - Parigi) « Ces lettres donnent la clef du mystère qui, jusq’ici (sic), a entouré la vie de M.me de Balzac durant les quelques mois que dura son union avec le grand homme auquel elle avait inspiré une affection si profonde et qu’elle aima de son côté avec tant d’ardeur».

 

Primavera d’amore.

 

  Balzac conobbe molto, moltissimo donne nella sua vita che fu in sostanza tutto un romanzo vissuto da una grande e complessa esistenza. Ma nella maggior parte furono amicizie così dette letterarie: con la Desbordes-Valmore, con la Duchessa d’Abrantès — alla quale Balzac suggerì di scrivere le famose memorie del periodo napoleonico —; con la Principessa Belgioioso, con la Sand, con Madame Rossini, con la Récamier, la contessa Visconti; la contessa Maffei, la contessa di S. Severino, la baronessa di Rothschild. Egli ebbe poche relazioni sentimentali. Le donne che Balzac amò furono tre: la De Berny, che creò in una parola, lo storico nel romanziere ed esercitò notevole influenza sulla produzione dello scrittore sociale: la Duchessa De Castries e Madame Hanska. Le prime due le amò col cervello, in quanto esse, con la loro erudizione e il loro buon gusto artistico eccitavano la fantasia del geniale romanziere. L’unica che egli amò col cervello e col cuore fu Madame Hanska.

  L’amicizia di Onorato di Balzac per Evelina Hanska nacque attraverso una corrispondenza anonima che la Radziwill — nipote prediletta e cresciuta, si può dire, in casa Balzac alla Via Fortunée — rivela con abbondanza di dati e di particolari. La prima lettera di Evelina giunse a Balzac il 28 febbraio 1832. E questa amicizia si trasforma col tempo in un vero e grande amore che culmina il 14 marzo 1850, il giorno in cui la giovanissima e bellissima vedova diventa la signora Honoré de Balzac.

 

Desideri inespressi.

 

  La incognita — che aveva allora 26 o 28 anni — abitava al castello di Wierszchownia in Polonia. Lettrice entusiasta delle Scene della vita privata, indirizzava per la prima volta a Balzac una lettera presso l’editore Grosselni (sic) e firmata l’Etrangère. Più tardi, essa gli scriveva nuovamente e dava il mezzo sicuro per ricevere una risposta: «Una vostra parola nel Quotidienne mi assicurerà che voi siete in possesso di questa mia lettera e che posso scrivervi senza esitazione. Rispondete: A l’E. ... H. B.» Evelina Rzewuska, moglie del Maresciallo Hanska (sic), non era in quel periodo che una semplice fedele ammiratrice del romanziere al quale scriveva sotto l’impressione della lettura della Fisiologia del matrimonio.

  Balzac risponde all’anonima e nelle sue lettere si rileva sempre più il desiderio di fare di quella donna la compagna della sua vita. M.me Hanska entra in un momento psicologico nella vita dello scrittore. Fin dalla giovinezza egli aveva aspirato alla celebrità e ad essere amato e a questa nuova strana amicizia gli dà la speranza di aver finalmente trovato la donna che sognava. E da quell’istante, Balzac diventa lo schiavo dell’Hanska, la quale era completamente differente dalla buona, devota e romantica De Berny, dalla spirituale D’Abrantès e dalla frivola e couquette (sic) Duchessa de Castries. La polacca, dotata di una grande forza morale e fisica, e in ciò superiore alle sue rivali, fece di Balzac «le mugik de sa bien-aimée» ed egli risponde firmandosi: Honoreski. «Tu sarai la diletta e già io ti chiamo la prediletta». Durante il soggiorno a Ginevra, il romanziere scrive quasi tutta la Duchesse de Langeais e una gran parto di Seraphita (sic), ispiratogli dalla donna che amava o alla quale lo dedicò: a A m. Eveline de Hanska née comtesse Rzewuska ... je suis heureux, en vous la pouvoir vous donner témoignag[e] (sic) de la respecteuse affection que vous m’avez permis de vous porter». Nella primavera del 1834, Balzac continua la sua corrispondenza con la sua dolce amica che faceva raccolta di autografi di uomini celebri e il romanziere le donò un album per raccoglierle.

  Il nomade, se è felice perché sa di essere amato come voleva lui, è però cotidianamente alle prese coi creditori. Il lavoro non è sufficiente a colmare le lacune del suo bilancio. Lavora senza posa e per resistere lunghe ore allo scrittoio beve molto caffè, la bevanda che doveva un giorno contribuire a scuotere fortemente il suo sistema nervoso ed a minarne il forte organismo. Eccolo a Firenze, da dove scrive a Madame Hanska: «Cara, voi mi parlate spesso della mia vita agitata e delle corse o del mondo. Io viaggio quando mi è impossibile di svegliare il mio stanco cervello. E quando riprendo le mie facoltà, non esco più di casa e lavoro notte e giorno ...».

 

Verso il matrimonio.

 

  Intanto, com’era logico, la corrispondenza fra i due impressionò il Maresciallo de Hanska, il quale fece comprendere a sua moglie che la ammirazione per il celebre scrittore era troppo calorosa ... Ma fu lo scrittore che rassicurò ... del contrario il sospettoso marito.

  E quando il Maresciallo morì, tutti gli amici di famiglia consideravano già sicuro il matrimonio di Evelina con Balzac. Ma sorsero degli ostacoli imprevisti — nota la Radziwill — in parte creati dalla famiglia di mia zia che giudicava il grande scrittore come un semplice romanziere, e da quella del defunto marito che avrebbe ostacolato, per interesse, un matrimonio per la ricchissima vedova. Mia zia, per tagliar corto, fece donazione all’unica figliuola, di tutta la fortuna che le aveva lasciata il marito, riservandosi una rendita vitalizia. Finalmente, per la ferma decisione della vedova, le due famiglie furono costrette ad acconsentire e il matrimonio ebbe luogo il 1° marzo 1850 in Polonia. Balzac, al colmo della gioia (era quella l’unica donna che egli amava follemente) scrisse alla sorella: «Da 24 ore esiste una Madame Honoré de Balzac, nata contessa Rzewuska».

  Ma egli temeva per questa sua perfetta felicità e al ritorno in Francia il triste presentimento diventò purtroppo una tremenda realtà. La febbre cerebrale gli impediva di lavorare e la sua magrezza era spaventosa. Visse ancora, perché l'amore lo alimentava. Nelle lettere alla mamma ed alla sorella non cessava dall’esaltare la coppia felice: «... E’ impossibile trovare una coppia così perfetta come unione, amore reciproco, delicatezza e bontà ...».

  Quello sposo felice, tre mesi dopo li matrimonio, moriva, senza aver prima esclamato con piena coscienza: «Non è che l'ultimo amore di una donna che può soddisfare il primo amore di un uomo».

 

 

  Pierre La Mazière, Sulla via della gloria. Come vissero Balzac e Flaubert. L’eterno miraggio – L’autore della «Comédie humaine» ha bisogno di duemila franchi – Un romanzo in venticinque giorni – Consigli per avere la felicità.(Trad. di M.[ario] B.[onfantini?]), «La Stampa della sera», Torino, Anno 65, Num. 155, 1 Luglio 1931, p. 3.

 

  Per i comuni mortali, non vi è esistenza più favorita, più invidiabile di quella dello scrittore.

  Non è che un miraggio, ed il più demoralizzante!

  Per chi non voglia lusingare la folla, ma soltanto servire la sua arte, la vita dello scrittore è un vero apostolato, e comporta un tale seguito di prove e di scoraggiamenti che i più dotati, i più robusti sono caduti sfiniti prima d’avere percorso la strada ch’essi avevano intravista all’inizio della loro carriera, in quell’ora beata, in cui tutto sembra possibile.

 

Gusti modesti.

 

  Per convincersene, apprendiamo a conoscere la biografia degli scrittori, Non quella degli sfortunati, la dimostrazione sarebbe troppo comoda, ma quella dei più grandi, dei più gloriosi, di quelli che maggiormente amiamo, e dei quali la riuscita fu lampante, scegliamo Balzac e Flaubert, quei due geni, orgoglio delle lettere francesi i cui nomi saranno onorati fino a che vi saranno nomini per parlare e leggere la nostra lingua.

  Flaubert è indipendente. Egli gode d’una certa agiatezza. I suoi gusti sono modesti. Durante trentacinque anni egli si rinchiude nel suo studio, privandosi di tutto quanto forma il fascino della vita per gli altri uomini, imponendosi un lavoro, al quale non si oserebbe piegare un galeotto, Egli non ha che uno scopo: servire l’arte.

  Per ricompensarlo di tanta abnegazione, lo si perseguita, lo si fa sedere per le «audaces de Madame Bovary, sui banco del ladri». A cinquant’anni egli soccombe al suo compito.

  Balzac è povero, e per vivere egli prende la penna. Genio immenso, disordinato, egli escogita (per poter uscire dalle terribili difficoltà di danaro, in mezzo alle quali si dibatte), le più pazze, le più impreviste combinazioni finanziarie e commerciali. Egli ha la divinazione di certe industrie, che lungo tempo dopo la sua morte produrranno fortune, non riuscendo, ad ogni tentativo, che a indebitarsi maggiormente. Per liberarsi, egli riempie una biblioteca delle sue opere, e quando, a cinquantun anno, la morte viene a sorprenderlo, egli è curvo ancora sulla sua pagina.

  Penetriamo nel loro gabinetto da lavoro, passiamo a tutta prima la porta di quello di Flaubert, nella piccola casa di Croisset, che egli occupava con la madre, chiniamoci sopra la spalla dello scrittore e vediamolo lavorare. Quando egli ha l’idea d'un romanzo, comincia col fare un consumo formidabile di ogni genere d’opere che possano giovargli. Egli legge tutto: storia, viaggi, manuali speciali, filosofia, trattati di medicina, di storia naturale. Poi, avendo un piano molto dettagliato, egli scrive uno scenario. Ben presto seguito da un secondò, da un terzo. Allora soltanto egli traccia la sua bozza, sulla quale fatica mesi, ricoprendola di aggiunte, di cancellature, convertendo ogni foglietto in uno scritto inintelligibile. Quando quell’enorme lavoro è terminato egli fa una seconda bozza col medesimo fastidio, i medesimi scrupoli. Infine redige. Noi possediamo tutte le note, tutti i piani, tutti i manoscritti dell’«eremita di Croisset» e possiamo seguirlo passo passo nella dolorosa sua carriera, vedere quello che ogni linea della sua ammirevole prosa costò di pena. […].

 

Le peregrinazioni di Balzac.

 

  Ora seguiamo Balzac nei tanti alloggi che egli occupò a Parigi e dove i creditori venivano a scovarlo appena era installato, obbligandolo a fuggire, ed a cercare un altro riparo ... Noi lo vedremo privarsi d’ogni piacere, d’ogni uscita, d’ogni relazione, non potendo neanche andare verso la donna alla quale ha votato l’amore più ardente che si possa concepire; poiché egli non ha il diritto di lasciar cadere la sua penna non fosse che un’ora.

  Egli scrive a Madame Hanska (Lettres à l’Etrangère) ... «Mi sono messo a lavorare diciotto ore, alzandomi a mezzanotte, coricandomi alle sei di sera. Ho sostenuto questo durante quindici giorni ... Rimango sovente venticinque ore seduto! ... Son tre giorni che non ho preso aria».

  Prendete il Padre Goriot nella vostra biblioteca, Pesate il volume. Vedete il numero di pagine che lo compongono» Ed ora leggete codesto:

  «Nel mio desiderio di conquistami venticinque giorni di libertà, ho fatto il Padre Goriot in venticinque giorni».

  E così durante anni, malgrado quel formidabile lavoro, malgrado le somme enormi ch’egli guadagna, l’infelice è sempre nella miseria.

  «Bisogna ch’io vi lasci per scrivere La Muse du Département, poiché la stamperia ha bisogno del manoscritto, entro le otto. Non mi si paga che ad opera terminata ed io ho spaventevolmente bisogno di duemila franchi per sabato, e siamo a giovedì!».

  La lamentela monotona ritorna sempre malgrado i mesi che fuggono.

  «… Io non ho che orribili lotte da raccontarvi, sofferenze, passi inutili, giorni senza sonno, A sentire la mia vita, un demonio piangerebbe!».

  Per liberarsi, Balzac fa le peggiori imprudenze; osservando una deplorevole igiene, privandosi di sonno e, per tenersi sveglio, assorbe quantità enormi di caffè. Il padre della Comédie Humaine, malgrado la sua robustezza, non regge a questa vita.

 

Un esempio ammonitore.

 

  «... La mia salute è in questi giorni gravemente alterata. La natura ben si vendica del mio sdegno per le sue leggi: i miei capelli cadono a pugnate; essi imbianchiscono a vista d’occhio, la profonda inazione del mio corpo mi fa ingrassare oltre modo. Sono stato molto malato; non potevo più muovermi, poi la debolezza è stata più intensa. Questa volta essa è stata vicina alla morte, ed ecco dieci giorni che io sono in convalescenza ... burlandomi del mio dottora che mi diceva: «Voi morrete come Bichat, come Béclard, come tutti coloro che hanno abusato delle forze umane».

  Il dottore aveva ragione: la morte non attese punto che Balzac avesse raggiunto l’età alla quale egli doveva giungere, data la sua costituzione. Venticinque anni, almeno, prima del termine assegnato, essa venne a fargli un cenno. E, senza dubbio perché nulla gli fosse risparmiato, il disgraziato assistette prima di morire al crollo del suo sogno d’amore: quella che tanto aveva idolatrata, quella che aveva rivestita delle più belle qualità, della quale aveva fatto la sua Beatrice, era indegna di lui – ed egli non l’ignorò …

  Non vi è gloria più pura e più alta di quella dei due genii di cui noi abbiamo provato a rievocare la dolorosa esistenza: essi hanno la sicurezza di vivere, malgrado gli anni, nella memoria degli uomini, il loro esempio deve incitare l’artista s’egli vuole che il futuro gli conservi quel nome, allo sforzo continuo, alla perseveranza, che nulla stanca.

  Il cammino della gloria e il più rude di tutti ed i giovani che nutrono l’ambizione, ben legittima, della felicità, del benessere, non la Strada delle lettere dovranno scegliere ...

 

 

  A.[rmand] L.[andini], Honoré de Balzac, in Honoré de Balzac, Nouvelles … cit., pp. 5-9.

 

  I. Biographie.

 

  D’un père languedocien, originaire d’Albi, et d’une mère parisienne, le jour de Saint-Honoré, au nom bien sonnant et de bon augure, le 17 (sic) mai 1799, venait en ce monde dans la belle ville de Tours, sur les bords fleuris de la Loire, le créateur de la «Comédie Humaine» et le père de tous les romanciers: Honoré de Balzac. Ce petit garçon frais, vermeil et bien portant, aux yeux brillants et doux, mais que rien ne distinguait des autres, en rien prodige, n’annonça pas prématurément qu’il ferait revivre dans une douzaine de chefs-d’œuvre trois générations du siècle qu’il avait vu naître.

  A sept ans, au sortir d’un externat de Tours, il fut mis au collège de Vendôme, tenu alors par les Oratoriens. Dans Louis Lambert (1832), sorte de roman autobiographique, Balzac se plaint de cette existence où sa vie rêveuse était meurtrie à chaque instant par une règle inflexible. Balzac y fut un médiocre élève. Avec la complicité tacite ou grâce à la négligence d’un répétiteur de mathématiques en même temps bibliothécaire, cet enfant de 12 ou 13 ans, emportait dans sa chambre tous les livres qu’il voulait, n’importe lesquels. Ses devoirs d’écolier étaient négligés. Les pensums et les retenues le privaient non seulement, des promenades sur les bords du Loir, mais même des récréations. Avec ses lectures fiévreuses et le manque d’air, les belles couleurs s’en allèrent bientôt et quand la famille vint le retirer du collège, elle se trouva devant un enfant maigre et chétif, qui, sous le coup d’une congestion d’idées, paraissait imbécile. A Tours, au sein de sa famille, le repos, les distractions d’une petite ville très originale, les types de province qui attiraient déjà la curiosité de l’adolescent, tout contribua à le rétablir. Peu à peu ses lectures se classèrent. Sa famille étant retournée à Paris, Balzac fut mis en pension. Ses études secondaires terminées, il fut placé chez un avoué et ensuite chez un notaire, choisit un stage de deux ans. Après ses examens de droit, le jeune Honoré, dont on voulait faire un notaire, choisit la carrière mois rémunératrice mais plus glorieuse d’homme de lettres.

  Son père lui accorda deux ans pour faire ses preuves et lui alloua la modique pension de 30 francs par mois. Le fruits de ce travail, dans une mansarde perchée rue Lesdiguière (sic), n° 9, fut tout autre qu’un chef-d’œuvre ; une tragédie, un «drame», Cromwell. Après sa lecture en famille, le jugement unanime fut «que le jeune homme fît quoi que ce fût, excepté de la littérature». Le futur grand romancier ne se rebuta pas. S’il ne pouvait devenir l’égal de Racine ou de Corneille, son imagination de visionnaire, son génie créateur égal ou presque à celui de Shakespeare ou de Molière, lui indiqua une autre voie: il se lança dans le roman. Pour se «faire la main», il écrivit alors les plus absurdes romans d’aventures sous divers pseudonymes (Horace de Saint Aubin, etc.). Il menait en même temps une vie de pauvre hère: «Trois sous de pain, deux sous de lait, trois sous de charcuterie m’empêchaient de mourir de faim et tenaient mon esprit dans un état de lucidité singulière. Mon logement me coûtait trois sous par jour; je brûlais trois sous d’huile par nuit». Ses promenades avaient pour but le cimetière du Père-Lachaise ou le Jardin des plantes. Cette vie n’était guère tenable. Ses romans ne rapportaient presque rien. Quand ce squelette, au teint jaune et hâve, rentra à la maison paternelle, le veau gras fut tué eu l’honneur de cet enfant peu prodigue. Ça le changea un peu de la «vache enragée» de la mansarde. Cette existence misérable lui avait montré toutefois que la «littérature ne nourrit pas son homme». Son stage de deux ans auprès de l’avoué et de l’avocat l’avaient d’ailleurs initié à la vie des affaires. La spéculation le tenta.

  Sans sortir de l’industrie du livre, Balzac, d’auteur, devint éditeur — c’était renverser les rôles — mais l’argent ne vint pas quand même. Les dettes (75.000 frs de cette époque) qu’il fit pour imprimer les œuvres de Molière et La Fontaine dans une édition en un volume et à bon marché, augmentèrent, avec la création d’une fonderie de caractères et rivèrent, à la chaîne de «forçat» pour 25 ans ce jeune homme de cinq lustres. Le devoir de payer ses dettes, l’expérience acquise au contact direct avec la société, stimulèrent le génie de cet «imprimeur et fondeur manqué», heureusement pour les lettres. Enfin l’année (1829) vit l’apparition des «Chouans», sa première œuvre signée, et qui obtint un grand succès. Alors commença cette vie fébrile de production littéraire: les romans succèdent aux romans, presque tous des chefs-d’œuvre, qui portant aux nues le nom de l’auteur, servent peu à peu à éteindre malgré tout sa «dette courante», tantôt en hausse, tantôt en baisse, selon une nouvelle publication où les nouvelles spéculations du romancier (mines d‘argent en Sardaigne, plantation d’ananas près de Paris, achat d’une villa «les Jardies»). Balzac n’a jamais eu un train de vie bien réglé. Il se ruinait par un luxe inouï, des manies de richard achat de vieux meubles, de tableaux, de nombreux voyages: Russie, Allemagne, Suisse, Italie). Pour payer tout cela, un travail de nègre, de bénédictin plutôt, dont il portait, le froc. Cloîtré pendant des mois entiers, Balzac disparaissait de la circulation; fenêtres et volets fermés barricade contre tous, il travaillait dix-huit, heures par jour, n’accordant au sommeil que six heures par nuit, se couchant à sept heures pour se lever a une heure du matin. Après une «claustration» d’un mois, il retournait dans le monde, chez des amis, dans les salons, à l'Opera, un chef-d’œuvre de plus en librairie, et avec quelques kilos de graisse de plus sur son corps d'athlète, ce corps trapu, aux épaules larges, aux cheveux abondants, au regard audacieux, à la bouche sensuelle, au rire fréquent et bruyant. Un contemporain l’appelle un «sanglier joyeux» et une contemporaine «il divino Balzacco». Cotte force animale qui surabondait en lui se déversait dans ses romans où la vie circule non seulement dans les artères de ses personnages plus étonnants que s’ils étaient réels, mais où les choses elles-mêmes se dressent devant nos yeux et s’impriment dans notre mémoire. C’est cette reconstruction de l’homme et de son milieu (rue, maison, quartier, petite ville, etc.) qui donnent cette apparence de réalité à toutes les œuvres de ce créateur de génie, doué d’une imagination de visionnaire et d’une profondeur d’observation peu communes. Ce n’est pas en vain qu’il se vantait de faire «concurrence l’état civil».

  «Tous ses personnages (plus de deux mille) il semble les avoir vus dans leur milieu particulier, hôtel princier ou bouge infect, boulevards mondains ou ruelles sinistres, avec leur costume, leurs gestes. Il les a entendus parler, chacun avec son accent, sou style, ce style qui est l’homme même, ses figures et ses images caractéristiques, son accent provincial et étranger».

  Et tout vit sous sa plume: depuis la grande dame jusqu’à la plus humble femme du peuple, en passant à travers tous les échelons de l’échelle sociale, le banquier et le pauvre diable, l’homme de génie et le maniaque, ou le visionnaire. Il n’est sujet qu’il n’ait traité, il n’est condition sociale qu’il n’ait profondément analysée. Où a-t-il puisé toute cette expérience de la vie, ce cloitré, «ce forçat de la copie», comme il s’appelait ironiquement lui-même ? Certes son champ d’action a été très limité, mais cet esprit visionnaire portait en lui tout un monde. Comme Cuvier dans une autre science, lui, à un seul geste devinait tonte une âme, à laquelle il délivrait acte de naissance et donnait état civil. Ses analyses, ses déductions, ses portraits sont-ils tous exacts ? Naturellement, pour grande que soit l’imagination créatrice, l’intuition des choses et des êtres, il est toujours impossible à l’homme de se passer de l’expérience. Rien d’étonnant alors que le monde aristocratique de Balzac se ressente un peu de son âme et de ses manières de «gros sanglier». Tout est fait à sa mesure. Ses nobles, ses ministres, ses magistrats, ses gens d’église tiennent de cette origine un peu peuple et bourgeoise, qui est restée le fonds de notre auteur. Mais où Balzac excelle en maître, où il est créateur en même temps que réaliste absolu, c’est dans la peinture de la classe moyenne, celle qu’il avait sous les yeux chaque jour. Et tout le monde de la chicane, du commerce, de l’industrie, bureaucrates et gens de province, employés et agioteurs, commis-voyageurs, huissiers et usuriers, tous pêle-mêle comme dans la rue, passent devant, nos veux et restent imprimés dans notre mémoire comme de vieilles connaissances. Balzac a peint toutes les classes de la société et «les bons et les mauvais». A côté de grands coquins, que de belles âmes, malheureusement à peine ébauchées! à côté de maniaques ou de vrais fous que de jeunes filles et de jeunes femmes idéales et vraiment sympathiques! Eugénie Grandet à côté de ce coquin et cet avare de «Père Grandet» Joséphine à côté de ce maniaque de Balthazar Claës (dans: la Recherche de l’absolu), etc., etc.

  Il fallait, à Balzac un tempérament égal à son génie pour publier en vingt ans, quatre-vingt-dix-sept ouvrages; si obtinément (sic) remaniés puisqu’il râturait chaque fois dix ou douze épreuves. Il mourut à la tâche, le 18 août 1850, d’une hypertrophie, un an près (sic) avoir fini de payer ses dettes et cinq mois seulement après son mariage avec une veuve polonaise, la Comtesse Hanska, avec laquelle il avait entretenu une correspondance de 17 ans.

 

  II. Œuvres.[5]

 

  Voici, classés par Balzac lui-même, les principaux romans dont se compose la Comédie humaine (titre sous lequel il a réuni ses romans).

  Scènes de la vie privée. - Le contrat de mariage (1835). - Béatrix (1839). Le Pére Goriot (1834).

  Scènes de la vie de province. - Ursule Mirouet (1841). - Eugénie Grandet (1833). - Illusions perdues (1837-1843).

  Scènes de la vie parisienne. — César Birotteau (1837). - Les Employés (1837). - La cousine Bette (1846). - Le cousin Pons (1847).

  Scènes de la vie politique. — Une ténébreuse affaire (1841). - Le député d’Arcis (1847). – L’Envers de l’histoire contemporaine (1842-1848)

  Scènes de la vie militaire. — Les Chouans (1929 [sic]).

  Scènes de la vie de campagne. — Le médecin de campagne (1833). – Le curé de village (1839-1846). - Les Paysans (1844).

  Études Philosophiques. — Adieu (1830). - La peau de chagrin (1831). La Recherche de l’absolu (1834).

 

  «La Comédie humaine est un vaste tableau de la société française à la fin du premier Empire, sous la Restauration et sous le gouvernement de Juillet. Balzac y représente tous les milieux (vie des salons, mœurs bourgeoises, populaires et paysannes) et toutes les professions (médecins, avocats, journalistes, prêtres, commerçants, banquiers, domestiques, etc.) Il y peint non pas seulement l’amour, ainsi que tant de romanciers, mais les passions diverses qui peuvent tyranniser les âmes; et comme tous les sentiments humains, parvenus à un certain degré d’intensité, deviennent dominateurs, il y peint aussi bien les déformations proprement dites du cœur (par exemple, la jalousie, l’avarice (Grandet) ou l’ambition (Birotteau), que les exagérations des sentiments les plus légitimes, par exemple, l’amour paternel (Père Goriot) ou l’amour de la vie ... Observateur des hommes et créateur de vie, Balzac demeure le maître incontesté du roman réaliste. Son œuvre restera comme un recueil de documents précieux sur la société de son temps et de l’éternelle humanité, avec ses 2000 personnages, qu’il eut l’idée géniale de faire reparaître d’un roman à l’autre». (M. Braunsching).

 

  III. Son style.

 

  Balzac est souvent diffus, prolixe, surtout lorsqu’il se pique de bien écrire. Ses œuvres réalistes (et ses nouvelles) n’ont pas ces défauts. Du reste, songe-t-on seulement, en le lisant, à la valeur du style? Les personnages ou la scène s’évoquent si vigoureusement que le plaisir proprement littéraire s’efface. Avec des mots Balzac bâtit la réalité, il ne bâtit pas des phrases. Son style, c’est l’homme même, celui qu’il représente. (René Canat).

 

  IV. Son influence.

 

  On n’a pas écrit en France ou ailleurs de romans qui ne semblent procéder du roman de Balzac. Le genre psychologique ou intime, se retrouve dans les Lys dans la vallée; il y a quelque chose d’Eugénie Grandet ou de la Cousine Bette dans tous les romans qui se donnent comme une étude de caractère; et c’est à la Dernière incarnation de Vautrin que remonte la généalogie de tous nos romans policiers; à moins qu’ils ne dérivent d’Une ténébreuse affaire. Mais il y a mieux encore: toute une génération d’hommes qui avait appris à lire dans les romans de Balzac, y a comme appris à vivre. Ses personnages sont devenus des «types prophétiques», depuis ses «Gaudissart» jusqu’à ses «Rastignacs». Nous les coudoyons encore dans la vie quotidienne; ils se sont modelés sur les héros de Balzac, et c’est ainsi que, bien plus qu’il ne le croyait lui-même, «il a fait concurrence à l’état civil»; ce qui est sans doute le suprême éloge que l’on puisse donner à un artiste créateur. (D’après F. Brunetière).

 

 

  Achille Loria, Keynes sulla moneta, «La Riforma Sociale. Rivista critica di economia e di finanza», Torino, Anno XXXVIII, Volume XLII, 1931, pp. 113-120.

 

  p. 115. Marx osserva a tale proposito che Balzac si dimostra anche una volta profondo conoscitore della psiche economica, quando fa che l’usuraio Gosbeck incominci a tesoreggiare solo dal giorno in cui è divenuto al tutto demente.



  Martelletto, In punta di penna, «Il Ponte di Pisa. Giornale settimanale di Pisa e Provincia», Pisa, Anno XXXIX, Num. 43, 21-22 Novembre 1931, p. 1.

 

  Granelli di esperienza.

 

  L’amore non consulta mai i registri dello Stato civile. Nessuno ama una donna perché ha questa o quella età, perché è bella o brutta, zotica o spirituale. Si ama perché si ama. (Balzac).

 

 

  Patrizio Patrizi, I grandi romanzieri. Balzac e Giorgio Sand, «Il Regime fascista. Cremona Nuova», Cremona, Anno X, N. 146, 19 Giugno 1931, p. 5.

 

  «... Io non ho mai mirato in alto come te. Tu vuoi scrivere per il futuro ed è giusto! Io ... credo che fra cinquant’anni sarò completamente dimenticata e forse anche duramente misconosciuta ... E’ il destino delle cose che non sono di prim’ordine, e io non mi sono mai creduta di prim’ordine: Il mio ideale è stato piuttosto di agire sui miei contemporanei o almeno ... su qualcuno per farlo partecipe del mio ideale di dolcezza e di poesia ...». Così scriveva settantaduenne dal suo eremo di Nohant, con tenerezza e malinconia insieme, Giorgio Sand, la popolare scrittrice che tanti cuori ha fatto palpitare, la donna che tante battaglie affrontò con coraggio virile, la grande innamorata che del suo «romanzo vissuto», o come oggi si dice, della sua «vita romanzata» ha riempito il mondo, la soave creatura al cui fascino, malgrado i capricci e le eccentricità, nessuno seppe sottrarsi.

  Cinquant’anni sono trascorsi dalla sua scomparsa — per essere esatti cinquantaquattro. — Ma non è dimenticata nè misconosciuta come temeva.

  Sarebbe inutile adulazione asserire che Giorgio Sand sia letta oggi come cinquant’anni fa. Ma Leila, Lavinia, Valentina, Metella, l’Indiana, L’Ultimo (sic) Aldini, Consuelo, nei quali sono affrontati con spregiudicata disinvoltura tanti problemi psicologici e morali, hanno ancora editori lettori É lettrici il che fa testimonianza della vitalità di questa romanziera romantica così prodiga di ogni dono.

  Se Tourghenieff ne fu tanto innamorato da non esitare ad affermare non esistesse sulla terra un essere come lei, certo è che tutti i maggiori scrittori e artisti del suo tempo furono con lei nei più cordiali rapporti e resero omaggio alla sua grazia e al suo talento.

  Alessandro Dumas figlio la predilesse.

  Flaubert, pur così diverso da lei nei gusti, nell’estetica e nel carattere trovò in lei una creatura soave che lo amò come si ama un figlio adottivo, una consolatrice che spesso lo chiamò presso di sè a placare l’amarezza della sua solitudine normanna e fu per lui il suo rifugio, il suo sostegno morale, la sua confidente e consigliera, la creatura sovrana con la quale divide il suo tormento spirituale.

 

* * *

  Aveva poco più di vent’anni quando cominciò a scrivere romanzi e novelle.

  Riuscì subito a farsi notare in un momento in cui i maggiori romanzieri si contendevano la popolarità e la fama nel tumulto della vita parigina e Hugo e De Musset e Stendhal e Balzac e Delcroix (sic) riempivano Parigi del loro nome.

  Al Figaro ebbe subito cordiali accoglienze e l’Indiana con cui fece il suo «debutto» incontrò il favore del pubblico.

  Certo la sua audacia spregiudicata spesso irritò, talora provocò violente reazioni ...

  Che importa?

  Acclamata o derisa, attaccata o calorosamente difesa non piegava nè si arrendeva. Gli attacchi; anche più violenti o più maligni non avevano presa sul suo spirito.

  — Che importa, diceva a Dumas, che uno abbia centomila nemici, se è amato da due o tre amici buoni?

 

* * *

  Amò molto, lo sappiamo, lo sanno tutti, ardentemente appassionatamente.

  I suoi amori con Alfredo De Musset e il famoso intermezzo veneziano col dottor Pagello che di tanto in tanto fanno capolino nelle cronache letterarie sono, oramai leggendari. La sua veemente passione per Chopin, la sua tenerezza : per l’operaio-poeta Edoardo Plouvier, la sua ebbrezza romantica per Michele De Burges, appartengono da tempo alla storia come il suo matrimonio poco felice col barone Dudevante (sic), come, il suo abbandono del tetto coniugale giovane, e povera dopo pochi e agitati anni, come molte sue eccentricità simili a quella di vestire l’abito maschile, vezzo cui si abbandonò di buon’ora, come il disprezzo che ella ebbe anche nella primavera della giovinezza di ogni civetteria.

  Ciò che molte potrebbero imparare da lei è il culto della bontà.

  Chè se abbandonò la sua giovinezza alle tempeste della passione, fra procelle angosciose e spasimi acuti, ella ebbe sempre qualche cosa di materno.

  In un romanzo nel quale ha fatto di sè stessa e di Chopin una pittura, che il grande musicista non le perdonò mai, Giorgio Sand fa dire all’eroina del romanzo — Lucrezia Florianti — che essa voleva essere la «madre» dei suoi amanti e a Enrico Amie confessava:

  — «La mia passione dominante è stata la maternità». In tutti gli amori della mia vita c’è qualche cosa della passione materna, qualche cosa della passione protettrice che ci fa credere che quelli che amiamo già ci appartennero ...».

 

* * *

  Quale tempra a (sic) quale cuore avesse Giorgio Sand lo dice il suo epistolario pubblicato dieci anni dopo la sua morte.

  Sei volumi: mille e trecento lettere nelle quali palpita la sua grande limpida anima, la infinita bontà del suo cuore generoso e altruista, sempre pronto al sacrificio.

  Pure a cinquant'anni di distanza c’è ancora dell'inedito.

  Le Nouvelles Littéraires pubblicavano pochi mesi fa alcune lettere di Giorgio Sand e di Balzac le quali confermano, quanto del resto già era noto, e cioè i cordiali rapporti che si stabilirono, nè mai si smentirono, appena conosciuti, fra i due scrittori pure così diversi in tutto.

  Un solo grande spasimo ebbero comune: la febbre del lavoro che li divorò.

  Balzac inchiodato come un negro sedici ore del giorno al suo scrittorio — quando non erano diciotto o venti — per inseguire un sogno di ricchezza chimerica, attraverso le più svariate fantasie e i più disastrosi affari, Giorgio Sand passante la notte ad annerire cartelle su cartelle per guadagnare qualche migliaio di franchi, destinati ad essere rapidamente inghiottiti da uno dei tanti carichi dei quali volontariamente e altruisticamente si era assunta il peso.

  E’ lo stesso autore della Commedia Umana che narrando all’adorata Eva un suo breve soggiorno presso Giorgio Sand scrive:

  «Ella è a Nohant da un anno molto triste e lavora enormemente. Ella stessa conduce una vita press’a poco come la mia. Si corica alle sei del mattino e si alza a mezzogiorno. Io mi corico alle sei della sera e mi alzo a mezzanotte. Ma io naturalmente mi sono uniformato alle sue abitudini, e per tre giorni abbiamo chiaccherato dalle cinque del mattino, sicché io l’ho più conosciuta, e lei altrettanto, in queste tre conversazioni che durante i quattro anni in cui ella ... amava Giulio Sandeau e dopo il suo legame con De Musset».

  Con quest’ultimo, secondo Balzac, ella è stata ancor più infelice che con Sandeau.

  «Ed ora, eccola ancora in piena solitudine condannando nel tempo stesso il matrimonio e l'amore perché nell’uno e nell’altro ella non ha avuto che dei disinganni! ...

  Non era l’innamorato, come ho detto che parlava, era l’osservatore riuscito a penetrare e a comprendere quell’anima dolorante tanto delicata.

  I due grandi spiriti si erano compresi.

  Ella sentì per Balzac tutta l’ammirazione ch’egli meritava. Lo ha dimostrato quando scrisse:

  «Il romanzo è stato per Balzac il quadro e il pretesto per un esame quasi: universale delle idee, dei sentimenti, dei costumi, delle abitudini delle legislazioni, delle arti, dei mestieri, dei luoghi, insomma di tutto ciò che costituì la vita dei suoi contemporanei».

  La corrispondenza con Balzac è piena di grazia di amabilità di civetteria.

  Si scambiano le loro impressioni scusandosi, umiliandosi.

  — «Ecco, signora, l’esemplare — (era Luigi Lambert) — scrive Balzac a Giorgio Sand, che vi ho promesso del mio libro, se libro c’è giacchè io sono giunto a non vederne che i difetti e i pensieri che vi sono male espressi; ma ci lavoro ancora, e alla prossima ristampa spero di potervi inviare qualche cosa di meglio».

  E lei di rimando ringraziandolo del dono del quale si riserva di parlargli quando lo avrà letto tutto ...

  — «Allora verrò io stessa a ringraziarvi e a portarvi Valentina una ben cattiva cosa dopo tante belle cose che avete scritto voi ...».

  Un’altra volta inviandogli Indiana ella gli aveva scritto:

  — «Graditelo; ma. non leggetelo. Mettetelo in un cantuccio come un nostro ricordo; ma non scuotetene mai la polvere ... Vorrei portarvelo io stessa: ma per cambiare sono malata e da parecchi giorni ne attendo uno di salute par consacrarvelo.

  Per guarirmi inviatemi la Donna di trent’anni che non ho potuto procurarmi e se passerete qualche volta il vostro vecchio ponte ricordatevi di una povera malatina che vorrebbe vedervi! ...».

  Quanto gli fossero graditi gli inviti della graziosa camerata lo dice questa letterina:

  — «Cara, ricevo la vostra amabile lettera oggi: Sarò sabato verso le sei della sera pronto a vivere sotto le leggi della Castellana di Nohant.

  Prendete intanto tutto ciò che io mette, qui di grazioso e di vecchi ricordi e mi renderete felicissimo».

  Tutta la corrispondenza fra Balzac e Giorgio Sand trabocca di galanteria di amabilità e di tenerezza.

  Mai una nube turbò l’amicizia dei due scrittori durata un ventennio per quanto la discussione delle loro opere spesso li portasse a sostenere opinioni diametralmente opposte.

  Ma erano due spiriti così elevati così superiori che in essi; sempre prevalse la equità e la bontà.

  E’ Giorgio Sand che scrisse un giorno di Balzac e bene: —

  «Dire di un uomo di genio che fu essenzialmente, buono è il più grande elogio che io sappia fargli ..: La pazienza e la dolcezza sono la forza. Nessuno è stato più forte di Balzac».

  Ella si rese giustizia in vita e dopo. Ogni sua parola è una testimonianza di affetto e di ammirazione per lo scrittore di genio che ha lasciato un’orma così profonda nella storia del pensiero.

  Ecco perché bisogna essere indulgenti con questa consolatrice che nei momenti dello spasimo seppe trovare la parola dolce del conforto e anche la carezza che placa e incoraggia.

 

 

  Weiss Pergolini, Una stella: Ninon De Lenclos, «Giornale di Basilicata. Settimanale delle Province di Potenza e Matera», Potenza, Anno XXI, N. 2, 10-11 gennaio 1931, p. 2.

 

  Amare vuol dire consacrarsi a una donna senza sperare nessuna ricompensa, vuol dire vivere sotto un altro sole con la paura di arrivare a toccarlo — dice Balzac.

  Chissà se pensarono così gli uomini che amarono Ninon, fulgida stella di Parigi sotto Luigi XIV.

 

 

  Carola Prosperi, La pallida principessa [Cristina Trivulzio Belgioioso], «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 51, 28 Febbraio 1931, p. 3.

 

  La Sand, simpatizzante per la causa italiana e per le idee democratiche, la portava ai sette cieli; Balzac, che era ostile alle donne politicanti e scrittrici, l’ammirava meno […].



 Alberto Romano, Un amore di Balzac, in Scritti letterari, Napoli, Alfredo Guida Editore, s. d. [1931?], pp. 81-85.

 Cfr. 1927.


 

  Alfredo Rota, I Salotti dell’Ottocento. La bella Antonietta Costa, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 262, 4 Novembre 1931, p. 3.

 

Da Balzac a D’Azeglio.

 

  Anche a Genova, sotto la Repubblica: il popolo non rassomiglia forte a quei bambini a cui ai raccontano le favole prodigiose ed essi – paghi — non chiedono altro? Gli spiriti allora erano divisi — come del resto lo saranno sempre – ma non vi era «ulcerazione nei cuori».

  Poi la «scena» è mutata e altri personaggi appaino sulla ribalta della sua vita. Ricorda uno strano forestiero: piccolo, grasso, fastoso come un Rajà, con una enorme canna da passeggio tempestata di grosse gemme e dentro la quale si celavano piccole reliquie d’amore; aveva molta fantasia e oltre duecento mila franchi di debiti «reali». Si era fino allora chiamato Orazio di Saint Aubin, lord R’hoone o De Villerglé e un bel giorno. spalancando le finestre del mondo letterario aveva gridato alla folla stupita: «Mi chiamo Onorato de Balzac!» Egli era il «colosso del romanzo moderno». Ma a Genova non era venuto a affatto a studiare dei documenti umani ... Vi era venuto per ottenere il materiale abbandonato, da secoli, nelle miniere argentifere della Sardegna e sperava trovare a Banchi e a Ponte Reale i capitili per l’impresa avventurosa. A Genova però veniva «sequestrato» e cacciato «in quarantena» nel vecchio lazzaretto della Foce, che gli lasciava il più orribile ricordo! — «Che noia — scriveva — in questa città piena di mercanti e di burbanza!» — Quando venne liberale e tornò in via Carlo Felice, cambiò parere: quale «Onorina» reale aveva fatto il prodigio?

 

 

  Guido Ruberti, Storia del teatro contemporaneo, Bologna, Editore Cappelli, 1931.

 

  Cfr. 1920 e 1921.

 

 

  Margherita G. Sarfatti, Un nuovo romanzo di Stendhal [Le rouge et le blanc], «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 203, 27 Agosto 1931, p. 3.

 

  La quotidiana lettura del codice Napoleone era dunque per Stendhal, uomo e artista, un duplice modo di avvicinarsi al suo idolo — Napoleone — e di «prenderne il la» per l’azione diretta. Sul suo scrittoio, il magniloquente Balzac aveva una statuetta dell’Imperatore, con la iscrizione: «Ciò che egli non potè fare con la spada, io riuscirò a farlo con lo penna». Stendhal era troppo timido per azzardarsi a simili truculenze. Forse, le avrebbe ritenute di cattivo gusto; e veramente occorre tutto il colossale genio del Balzac perché si possa ammirarle, invece di sorriderne. Non è meno vero però che Napoleone fu il prototipo, il grande «professore d’energia», di Stendhal come di Balzac; come lo fu in fondo di tutta la Francia e di tutta l’Europa intelligente e romantica per due generazioni […].

  Emilio Zola una volta, mi pare canzonasse Balzac per la sua famosa lettera a Stendhal!, che pure è il solo alto riconoscimento ottenuto dalla Chartreuse de Parme mentre l’autore aveva il torto di esser vivente. Invece, il Balzac con profetica ragione la definiva «un grande affresco». Queste opere veramente hanno carattere monumentale e architettonico; di tale portata e di tale ampiezza che il gigantesco Balzac al confronto appare quasi un pittore fiammingo. Non dirò che somigli i piccoli maestri olandesi, con la moltitudine delle sue tele affollate di persone, di mobilio e di particolari, ma in confronto alla nitida semplicità delle sintesi stendhaliane, egli fa pensare a Rembrandt. Come Rembrandt, lirizza con l’ombra e la luce della sua propria anima un mondo vile e banale, lo fa apparire prodigioso di mistero e di bellezza, pur servendosi di vile materia: pochi e brutti tipi di pezzenti, in fondo, ma trasformati perché somigliano a lui, ma grandi e maravigliosamente ricchi del suo proprio dramma.

  Intorno a Balzac, sta la borghesia industriale e capitalista in ascesa, con la parola d’ordine del suo tempo: arricchitevi! Ed egli stesso crede in questa parola d’ordine, ne sente fanaticamente il valore, partecipa alla febbre degli affari e dell’oro, che egli insegue e che gli sfugge di tra le dita La più parte degli artisti del suo tempo disprezzano l’epopea eminentemente materiale e prosaica del denaro, a cui assistono in quell’epoca. Daumier la satireggia, Monnier ne fa la caricatura. Vittor Hugo la flagella, Lamartine e Musset ne sono gli usignoli sperduti e isolati.

  Ma Balzac ne canta il poema epico. I suoi Joseph Prudhomme si chiamano Grandet e Birotteau; camminano sul filo di rasoio del ridicolo, ma invece sono grandi, e si moltiplicano nel poliedro dei suoi tipi immortali.

  Sì, ma dalla oscura ganga, il cui divenire geologico Balzac ha saputo renderci così prodigiosamente interessante, Stendhal cava il puro oro.

 

 

  Lionel de Sassy, Stranezze e celebrità del tempo che fu. Mazze, bastoni e bastonate, «La Stampa», Torino, Anno 65, Num. 173, 22 Luglio 1931, p. 3.

 

  La canna di Balzac ebbe una vera storia (che fu romanzata da Emile de Girordin [sic]). Essa era straordinaria, colossale, monumentale, con un pomo enorme. Faceva voltare i passanti. Aveva un grosso anello d’oro, un anello misterioso che conteneva una ciocca di capelli biondi. Essa era stata donata a Balzac da una sconosciuta e proprio sull’anello prezioso era incisa questa strana parola: «Indovinate». Balzac non riuscì mai a indovinare, ma il bastone enigmatico fu compagno inseparabile di tutta la sua vita.



  Americo Scarlatti, “Et ab hic et ab hoc”. II. Il Castello dei Sogni. Ristampa stereotipa, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1931.

 

Capitolo terzo.

Le migliori ricette per vivere a lungo, pp. 91-120.

 

  p. 101. Dicesi che l’abuso del caffè abbia ucciso Balzac, ma Voltaire ottuagenario non ne beveva meno di dodici tazze al giorno, e grandi consumatori dell’amaro e rio liquore che accendeva nel Redi un poetico sdegno furono anche Kant e Schopenhauer, i quali tuttavia giunsero essi pure a invidiabili età

 

Capitolo settimo.

Polvere e fumo, pp. 187-225.

 

  p. 213. Più avveduto di Brofferio, il grande romanziere francese Balzac, innamoratosi egli pure di una signora accanita tabaccatrice, la pregò di lasciarlo fiutare anche lui, adoperando nella sua preghiera parole che nell’opera sopra citata, il Tabacco vendicato, sono riportate come segue: «Madama, permettete che le mie ditali estremità s’insinuino nelle tabacchiche vostre cavità, per attingervi questa polvere sottile che dissipi e sciolga gli umori del mio pantanoso cervello!».

 

Capitolo decimo.

Il grande tranello!, pp. 270-286.

 

  pp. 282-283. L’amore, insomma, è una cosa intorno alla quale si è detto e scritto immensamente […].

  […] anche si è venuti fuori con qualche boutade, come quella attribuita a Napoleone perché si trova nel Volume Maximes et pensées de Napoléon, recueillies par J.-L. Gaudy, il quale Gaudy non è altri che Balzac, uno scrittore che certamente vi ha messo molto del suo: «L’amore è una sciocchezza tanto grossa che per poterla compiere bisogna mettercisi in due» […].

 

 

  Americo Scarlatti, Altre curiosità statuarie, in “Et ab hic et ab hoc”. XII. Curiosità artistiche, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1931, pp. 68-80.

 

  pp. 71-72. A pag. 640 della Revue Parisienne del 1840, Onorato Balzac, che ne era allora direttore, scriveva: «Voi sapete che gl’Inglesi hanno obbligato il Governo napolitano a mettere dei calzoni di bronzo a Venere Callipigia», e aggiungeva ironicamente: «On ne la déshabille que sous permission»!



  Adriano Tilgher, Arte e vita. Risposta a Leo Ferrero, «Solaria. Rivista mensile di letteratura», Firenze, Anno Sesto, N. 9-10, Settembre-Ottobre 1931, pp. 42-47.

 

  pp. 42-44. Tutta la mia estetica riposa su una semplicissima distinzione, con la quale sta o cade: la distinzione tra amore di oggetti e amore di vita.

  Un ambizioso che aspiri a conquistare potenza, ricchezza, onori, donne, un Rastignac di carne e d’ossa, ama le donne, gli onori, la ricchezza, la potenza, oggetti della sua ambizione, ma non ama affatto la sua stessa ambizione: questa è, anzi, per lui uno stato di insoddisfazione, d’insufficienza, di deficienza, di bisogno, di dolore, dal quale anela e si sforza di uscire. E se mi si obbietta che ciò che Rastignac ama veramente non sono gli oggetti cui s’appunta la sua ambizione, ma è il vivo e fluente processo grazie al quale egli riesce a ridurli in suo potere e a farne strumenti del suo piacere, io replico che è verissimo che ciò che dà gioia a Rastignac non è l’oggetto in sé e per sé materialmente considerato, ma lo svolgersi trionfale dell’attività sua, grazie al quale egli riesce a sottomettersi l’oggetto, ma che è altrettanto vero che perché quest’attività si svolga le è essenziale appuntarsi su oggetti nei quali soltanto essa veda il mezzo di trasformare l’insoddisfazione in soddisfazione e gioia. Ammettiamo pure che ciò che dà gioia a Rastignac è la conquista e non il possesso: ma egli non conquisterebbe mai se la sua attività non si polarizzasse verso certi oggetti e non li facesse oggetti del suo amore e non si configurasse come amore di quegli oggetti. L’attività pratica dello spirito, ciò che si suol dire Vita tout court, è amore di oggetti (presa, s’intende, la parola oggetti nel più vasto senso possibile, intendendo per oggetto, ad esempio, lo stesso sforzo ascetico di liberazione dello spirito dall’attrazione di ogni possibile oggetto materiale ed empirico).

  Supponiamo ora che il movimento vitale col quale Rastignac si porta alla conquista delle donne, del potere, degli onori, del denaro, torcendosi, direi quasi, su sé stesso, faccia di sé stesso l’oggetto del suo amore. Amando sé medesimo come quel movimento di vita che è, esso, evidentemente, non aspira più ad uscire da sé medesimo, non aspira più all’oggetto nella conquista del quale si annullerebbe come quel movimento di vita ch’esso è; da amore di oggetti esso si trasforma in amore di un movimento di vita in quanto tale, di un ritmo vitale in quanto tale, in amore di vita. È lo stato d’animo, non più di Rastignac in carne ed ossa, ma di Balzac nell’attimo in cui crea il personaggio di Rastignac. È lo stato d’animo estetico, artistico, poetico.

  Posta Vita=amore di oggetti e Arte=amore di Vita, è chiaro perché tra Vita e Arte io ponga incompatibilità assoluta. La Vita, in quanto è amore di sé come puro ritmo vitale, non è amore di oggetti, e viceversa. In quanto e fino a quando Rastignac ama le donne ecc., non può amare il suo amar le donne ecc. perché, se amasse il suo amar le donne ecc., non cercherebbe di uscire dal suo stato d’animo con la conquista di ciò che, soddisfacendolo, lo distrugge come quello stato d’animo che è. Balzac vive esteticamente lo stato d’animo di Rastignac in quanto egli ama l’amar le donne ecc. di Rastignac, ama l’ambizione di Rastignac, e perciò non avverte quell’amore delle donne ecc. come uno stato di tormento, d’insoddisfazione, come un bisogno, da cui urge uscire con la conquista delle donne ecc., il che vuol dire che quello stato d’animo di Balzac non aspira ad oggetti (donne, ecc.) grazie ai quali da insufficienza diventare sufficienza, ossia non è vita, è il contrario della vita, è arte.

  Finché la Vita è amore di oggetti non è amore di sé, e viceversa. Dalla Vita non si passa all’Arte, come, per quanto si moltiplichi all’infinito il numero dei lati di un poligono, non si arriverà mai al circolo: questo o si pone come circolo fin dal suo più piccolo segmento o non si pone affatto come circolo. Così lo stato d’animo artistico o è artistico fin dal primo suo balenare o non è artistico affatto. Arte e Vita sono incommensurabili come poligono e circolo. In questo senso — ma in questo senso soltanto — la mia estetica è ultraclassica, in quanto fa dell’Arte tutt’altra cosa dalla vita vissuta. Ma è poi ultraromantica in quanto non fa dell’Arte il prodotto di una speciale potenza o facoltà dello Spirito; per essa, l’Arte è nient’altro che Amore, come la Vita, è nient’altro che Vita, solo che la Vita è Amore di oggetti e quella special Vita ch’è l’Arte è Amore di Vita e perciò stesso non è amore di oggetti.

 

 

  O.[rio] V.[ergani], Viaggi per i sedentari. “Ecco Parigi”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 107, 6 Maggio 1931, p. 3.

 

  [Su: Arnaldo Fraccaroli, Ecco Parigi, Milano, Treves, 1931].

 

  Parigi è cambiata — nevvero? — e la ronda romantica batte un ritmo di melanconia. Ma, per questo, non bisognerà amarla più? E’ proprio vero che il suo volto nuovo, ancora indefinito, che non ha avuto ancora il suo Murger o il suo Balzac, non debba essere quello in cui, un giorno, i nostri nipoti troveranno forse un dolce colorito romantico, per il quale il 1930 assomiglierà al 1830?

 

 

  Orio Vergani, I cento anni dell’acropoli padovana. Il caffè Pedrocchi e il suo fondatore, «Corriere della Sera», Milano, Anno 56, N. 137, 10 Giugno 1931, p. 3.

 

Un personaggio padovano di Balzac.

 

  Singolare uomo Antonio Pedrocchi, degno della penna di Balzac, fratello padovano di Cesare Birotteau. Egli era invaso dal demone del caffè, dominato, come ebbero a scrivere i suoi biografi, da una «tormentosa idea di gloria». Come Cesare Birotteau nel romanzo balzachiano vuol farsi una immortalità attraverso la vendita dei profumi, così Antonio Pedrocchi, portato dal suo mestiere ad essere tutto il giorno a contatto con le maggiori illustrazioni dell’Ateneo patavino, volle farsi un monumento attraverso il caffè. Più fortunato e più riflessivo del profumiere parigino, egli seppe sempre far giusti i propri conti: uni, si disse, la sapienza del risparmio alla poesia della generosità. Sviluppò il proprio commercio fino a permettersi un giorno il lusso di essere il Mecenate maggiore della città. Sognò di fare del suo lo cale il nuovo foro cittadino, il luogo di ritrovo di ogni arte, d’ogni scienza e d’ogni discussione intelligente.




Adattamenti radiofonici.


 

  Un episodio sotto il Terrore. Un atto di Ferdinando Nozière. Cartellone Drammatico delle Stazioni dell’E.I.A.R. Stazione Roma-Napoli, 5 novembre 1931. Personaggi: Lo Sconosciuto: E. Pergiovanni; L’Abate di Myral: M. Felici Ridolfi; Suor Maria (al secolo signorina Michelet): G. Scotto; Suor Agata (al secolo signorina De Langeais): N. Bonora.

 


[1] Si ritrova una suddivisione in capitoli, ma solamente in tre capitoli, del romanzo nell’edizione pubblicata nella «Revue de Paris» (mai 1831), nella prima edizione in volume (Gosselin, 1831) e nella seconda edizione in volume (in Le Livre des douleurs, Werdet, 1835, 1840).

[2] Cfr. Aristide Marie, Balzac et Henry Monnier, «Les Nouvelles Littéraires Artistiques et Scientifiques», N. 438, 7 mars 1931, p. 8.

[3] Extraits d’une étude de Paul Bourget à propos d’une édition anglaise de dix nouvelles de Balzac (1905). Notre édition comprend quatre des nouvelles de l’édition anglaise, plus le Colonel Chabert. Le choix de l’éditeur anglais n’était pas pour la Jeunesse. [N.d.A.].

[4] de Mantegna. [N.d.A.].

[5] Parmi les romans de Balzac qui peuvent être lus par des personnes d’âge raisonnable on peut citer: César Birotteau, les Chouans, Le Colonel Chabert, le Cousin Pons, le curé de village, le deputé d’Arcis; l’Envers de l’histoire contemporaine, Eugénie Grandet, Facino Cane, Gaudissart II, Golseck (sic), La Grenadière, la Maison du chat qui pelote, le Médecin de campagne, La messe de l’Athée - La Recherche de l’absolu, Le Réquitisitionnaire, Un épisode sous la Terreur, une Ténébreuse affaire, Ursule Mironet (sic) - Abbé L. Bethléem, Romans à lire et à proscrire. (Ed. Revue des Lectures, Paris, 1828 [sic]). [N.d.A.].


Marco Stupazzoni

 

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