domenica 11 dicembre 2016


1911


Traduzioni.

  Onorato Balzac, Babbo Goriot, «Il Romanzo». Supplemento a «Le Cronache letterarie», N. 57 del 14 Maggio 1911, Supplemento A-Letteratura amena, Anno I, Num. 25, pp. 1-16; 96 colonne.
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  Il modello di riferimento di questa (anonima) traduzione de Le Père Goriot è quello della seconda edizione Werdet pubblicata nel maggio 1835, dove il romanzo è suddiviso in quattro capitoli.
  Già nella traduzione delle prime sequenze testuali che formano l’incipit del romanzo, risulta palese in quale misura questa versione italiana del capolavoro balzachiano risulti grossolanamente infedele rispetto al testo originale.

  Balzac, Il Deputato d’Arcis. Romanzo, Milano, Fratelli Treves, Editori (Tip. Treves), 1911 («Biblioteca Amena», N. 812), pp. 338.

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  Questa traduzione (anonima) de Le Député d’Arcis, che reputiamo fedele e corretta, si fonda verosimilmente sul testo di una tra le edizioni del romanzo pubblicate dagli editori Houssiaux, Michel Lévy e Calmann-Lévy nelle quali il testo originale di Balzac è «noyé dans une suite plus longue de Rabou». Il solo testo a stampa del Député d’Arcis edito prima della morte di Balzac è quello pubblicato ne «L’Union monarchique» dal 7 aprile al 3 maggio 1847. L’opera è suddivisa in 17 capitoli mantenuti anche nelle prime edizioni in volume (de Potter, 1854-55) ai quali Charles Rabou aggiunge, dopo la scomparsa dello scrittore «une fin interminabile»: Le Député d’Arcis (4 voll.); Le Comte de Sallenauve (5 voll.); La Famille Beauvisage (4 voll.). Dei tredici volumi, soltanto il primo e l’inizio del secondo appartengono a Balzac.
  In questa edizione italiana del romanzo, la parte di sicura paternità balzachiana termina, con il capitolo XVII della prima parte (L’Elezione), a p. 111; seguono il capitolo XVIII e i 24 capitoli che formano la Parte seconda, intitolata: Lettere edificanti.
  Alla fine del volume (p. 336), l’anonimo compilatore segnala, in nota, ma in maniera imprecisa, che «con questo capitolo incomincia la terza parte: Il conte di Sallenauve» (p. 287); questa nota rimanda ad una successiva annotazione del traduttore (p. 336) nella quale si afferma che: «Questa parte e l’altra scena, La famiglia Beauvisage, – che continua e chiude il ciclo dell’azione che ha in suo centro nella gigantesca e veramente balzacchiana figura di Giacomo Collin, – il quale muore ministro di polizia in un principato italiano, ucciso dal falso monetario Schirmer – sono dovute alla penna di Carlo Rabou, letterato parigino (1803-1871) legatissimo al Balzac, da cui fu incaricato di terminare i romanzi da lui lasciati allo stato di abbozzo», (N. d. T.).

  Onorato Balzac, La Grenadière. Traduzione di Guido D’Acaja, «Il Romanziere Popolare. Grande giornale di letteratura internazionale», Milano, Società Editoriale Milanese, Anno I, Num. 11, s. d. [1911], pp. 1-6.

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  Traduzione alquanto imprecisa, approssimativa e lacunosa del racconto balzachiano: il testo di riferimento è quello dell’edizione Furne del 1842. Si consideri, a conferma di quanto affermato, l’esempio seguente:
  p. 422 (edizione della ‘Nouvelle Pléiade’ curata da A.-M. Meininger, t. III, 1976):
  Ce chemin creux est terminé par une seconde porte de style gothique, cintrée, chargée de quelques ornements simples mais en ruines, couvertes de giroflées sauvages, de lierres, de mousses et de pariétaires. Ces plantes indestructibles décorent les murs de toutes les terrasses, d’où elles sortent par la fente des assises, en dessinant à chaque nouvelle saison de nouvelles guirlandes de fleurs. […]
  À droite est une vaste salle à manger boisée à l’antique, dallée en carreau blanc fabriqué à Château-Regnault ; puis, à gauche, un salon de pareille dimension, sans boiseries, mais tendu d’un papier aurore à bordure verte. [Il corsivo è nostro].
  p. 1. Questa strada fonda è terminata da una seconda porta di stile gotico, piena di ornamenti semplici, ma in ruina, coperta di viole selvatiche, di liane, ecc. Queste piante indistruttibili decorano i muri di tutti i terrazzuoli, disegnando ad ogni stazione nuova, nuove ghirlande di fiori. […].
  A destra è una vasta sala da pranzo in stile gotico; a sinistra, un salone di identica dimensione, senza guarnizioni in legno, ma ricoperto d’una tappezzeria verde.
  Nella parte finale del racconto, la traduzione del D’Acaja rimane abbastanza aderente al modello balzachiano fino alla sequenza in cui Mme Willemsens invoca, prima di morire, il conforto di un sacerdote. Da questo punto e fino alla fine dell’opera, il testo originale subisce una radicale censura da parte del compilatore attraverso la soppressione di ampie sequenze testuali e l’arbitraria intromissione da parte del traduttore che incidono negativamente sull’intero tessuto della narrazione. Le pp. 441-443 della novella di Balzac (da: «Louis réveilla la vieille Annette» a «Il était devenu père») sono così tradotte:
  p. 6. Il martedì mattina si fece la sepoltura. La vecchia Fanny, i due fanciulli, accompagnati dalla moglie del custode, seguirono soli il corpo di una donna il cui spirito, la beltà, le grazie, avevano una rinomanza europea.
  Sul tumulo fu una semplice croce di legno:
Qui giace
Una donna sfortunata,
morta a 36 anni
che aveva il nome Augusta nei cieli
Pregate per lei!

  E la Grenadière fu abbandonata. Un mese dopo, tutto disposto a dovere, Luigi Gastone era in qualità di novizio su un bastimento dello Stato. Tosto si trovò solo e perduto in mezzo all’oceano come lo era nel mondo e nella vita.
  – Non bisogna piangere! gli disse un lupo di mare, c’è per tutti un Dio!
  Il ragazzo ringraziò. Poi abbassò il capo, e si rassegnò alla vita marinara. Era divenuto padre.


  Appendice dell’ “Avanti”. Onorato Balzac, L’Illustre Gaudissart di Onorato Balzac, «Avanti! Giornale del Partito socialista», Roma, Anno XV, Numeri 49-50-52-54-56-59; 18, 19, 21, 23, 25, 28 Febbraio 1911, p. 4/6.


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  Questa traduzione (anonima) de L’Illustre Gaudissart si fonda sul testo dell’edizione Furne (1843): di questa versione, è difficile formulare un giudizio positivo a causa delle soppressioni che lacerano in più luoghi il testo balzachiano.


  Onorato di Balzac, Gl’impiegati. Romanzo di Onorato di Balzac. Prima traduzione italiana di L. Agnes, Milano, Casa Editrice Sonzogno, 1911 («Biblioteca Universale», N° 199-200), pp. 196.
  Cfr. 1890 e successive ristampe.

  Onorato Balzac, L’interdizione di Onorato Balzac, «Il Romanziere Popolare. Grande giornale di letteratura internazionale», Anno I, Num. 9, Milano, Società Editoriale Milanese, Anno I, Num. 9, s. d. [1911], pp. 1-15.

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  Questa nuova traduzione (anonima) de L’Interdiction è condotta sul testo dell’edizione Furne (1844): essa, per quanto, nel complesso, sufficientemente corretta sotto il profilo linguistico, presenta tuttavia numerose imprecisioni e frequenti errori soprattutto per quel che riguarda la trascrizione dei nomi proprî. Riportiamo, a questo proposito, alcuni esempî:
  Bianchon trascritto in Blanchon; marquise d’Espard […] née Blamont-Chauvry in marchesa d’Espard […] nata Blamont-Chambry; Mme Rabourdin in signora Raborordin; Gobseck in Gobsech; Rue du Petit-Banquier in Via du Petit-Banguier; Villeparisis in Villeporisis; Maraist in Mariant.


  Appendice dell’ “Avanti”. Onorato Balzac, L’Israelita di Onorato di Balzac, «Avanti! Giornale del Partito socialista», Roma, Anno XV, Numeri 175-76-77-78-79-80-81-83-84-85-86-87-88-89-90-91-93-94-96-97-99-200-01-03-05-06-09-11-12-13-16-18-20-21-22-23-24-25-26-27-28-29-30-31-32-33-34-35-36-37-38-39-40-42-43-44-45-46-47-48-49-50-52-53-54-55-58-59-60-61-62-63-64-65-66-67-68-69-70-71-72-73-74-75-76-77; 25, 26, 27, 28, 29, 30 Giugno; 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 16, 17, 19, 20, 21, 23, 25, 26, 29, 31 Luglio; 1, 2, 5, 7, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30 Agosto; 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 29, 30 Settembre; 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 Ottobre 1911, p. 4/6.


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  Questa traduzione (anonima) del romanzo giovanile balzachiano: Clotilde de Lusignan ou le Beau Juif sarà pubblicata in volume nel 1912 dagli editori Treves di Milano. (cfr. 1912). Essa è esemplata sul modello dell’edizione Souverain del romanzo: non è presente la traduzione del Prologo che precede il primo dei ventinove capitoli che formano l’opera.


  Appendice dell’ “Avanti”. Onorato Balzac, La Musa del Dipartimento. Novella di Onorato Balzac, «Avanti! Giornale del Partito socialista», Roma, Anno XV, Numeri [60-61-] 62-63-66-67-68-69-70-71-73-74-75-78-80-81-83-84-86-87-89-90-91-92-94-95-96-97-103-04-08-18-20 […]; [1, 2,] 3, 4, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 14, 15, 16, 19, 21, 22, 24, 25, 27, 28, 30, 31 Marzo; 1, 2, 4, 5, 6, 7, 13, 14, 18, 28, 30 […] Aprile 1911, p. 4/5/6.


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  Anche nel caso di questa versione italiana di La Muse du Département, il lavoro di traduzione è stato condotto con estrema libertà e imperizia nei confronti del modello originale (Furne e Souverain, 1843) a causa delle frequenti omissioni di particolari e delle altrettanto numerose soppressioni di intere sequenze testuali.


  Balzac, Piccole Miserie della Vita Coniugale, Milano, Fratelli Treves Editori (Tip. Fratelli Treves), 1911 («Biblioteca Amena», N. 615), pp. 306.
  Cfr. 1901; 1909.

  Onorato Balzac, Pietro Grassou di Onorato Balzac, «Il Romanziere Popolare. Giornale di letteratura internazionale», Milano, Società editoriale milanese, Anno I, Num. 9, s. d. [1911], pp. 16-23.

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  Nel complesso abbastanza fedele al testo francese (Furne, 1844), questa anonima versione italiana di Pierre Grassou si caratterizza per la presenza di frequenti errori formali nella trascrizione dei nomi proprî (cfr. L’Interdizione) e per l’omissione di alcune sequenze testuali rispetto al modello originale.

  Onorato Balzac [?], Porta Fortuna, «Il Romanziere Popolare. Grande giornale di letteratura internazionale», Milano, Società Editrice Milanese, Anno I, Num. 11, s. d. [1911], pp. 7-22.

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  Si tratta della traduzione italiana – che, nel complesso, può ritenersi corretta – de L’Amour masqué, racconto inedito attribuito a Balzac pubblicato in prima edizione dall’editore Guillemin nel 1911. La pubblicazione di quest’opera, strutturata in 12 capitoli, ha destato vasta eco presso la critica non soltanto francese, ma anche, come si vedrà nella sezione dedicata agli studî ed ai riferimenti critici, presso larga parte della pubblicistica italiana.




Studî e riferimenti critici.

  “Amore (L’) in maschera”, romanzo inedito di H. de Balzac, in Enciclopedia Contemporanea Illustrata. Serie I, Vol. I, Fasc. I, ABBEY-ANESTESIA, Milano, Casa Editrice Dottor Francesco Vallardi («Lessici Vallardi»), 1911, pp. 46-47.


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  Nel mese di marzo 1911 è stato pubblicato a Parigi un romanzo inedito di Honoré de Balzac, intitolato l’A. in maschera. Assai curiosa è la storia di questo romanzo e del suo rinvenimento. Il fecondo romanziere, volendo un giorno fare un dono originale alla duchessa di Dino, nipote del famoso ministro Talleyrand, per ringraziarla dell’accoglienza amichevole che riceveva in casa sua, scrisse in pochi giorni il romanzo ora accennato, fece rilegare con lusso il manoscritto e l’offrì alla sua protettrice. Per più di mezzo secolo l’A. in maschera rimase inedito nella biblioteca della duchessa di Dino; poco tempo fa, Maurizio di Talleyrand Périgord, duca di Dino, diede il manoscritto a Luciano Aubanel, amoroso cultore delle memorie del grande romanziere, e l’Aubanel provvide alla pubblicazione dell’opera. La tela de l’A. in maschera è la seguente: Una sera di carnevale Leone di Préval, giovine ufficiale di cavalleria, s’imbatte in una maschera che si è smarrita e l’aiuta a ricercar gli amici. È una maschera enigmatica: non vuol essere corteggiata, e detesta ogni legame, ha giurato di rimanere libera, nessun uomo la farà venir meno al suo proposito; ma intanto interroga il giovane, lo stuzzica, gli dà appuntamento per il ballo di mezza quaresima, e lo pianta in asso. Per tre settimane Leone cerca indarno nei ritrovi mondani la sconosciuta; la notte del secondo ballo la ritrova col domino bianco e il viso celato nel ridotto dell’Opéra. Il breve colloquio è ancor più enigmatico del primo. Il giovine ufficiale rimane di stucco ad udire che la sconosciuta ha nel frattempo assunte informazioni sul suo conto e che gli deve imporre una suprema prova prima di concedergli il dolce appuntamento; l’ufficiale non si è riavuto dalla sorpresa, che già la maschera è scomparsa. Il giorno dopo gli viene recapitata una lettera. Il convegno gli sarà accordato se giura sull’onore di rispettare alcune condizioni: lasciarsi guidare con gli occhi bendati in un luogo segreto, impegnarsi a non esigere alcuna spiegazione, a non cercare in alcun modo di portare con sé la spada. Un negro silenzioso lo viene a prendere a mezzanotte, gli benda gli occhi, lo conduce in vettura in un quartiere remoto e l’introduce in un salottino profumato. Una donna velata in veste da camera lo attende, e, tolta la benda, egli riconosce la mascherina, ma quando fa per sollevare il velo, la lampada si spegne. Non conviene essere indiscreti, osserva il romanziere: basti dire che la sua felicità oltrepassa ogni sua speranza, e che non gli lascia nemmeno il tempo di mancare alla sua promessa. Non se ne ricorda che alcune ore più tardi: ma la sconosciuta scompare dietro una porticina segreta e il negro inesorabile lo riconduce via, rimettendogli la benda sugli occhi. È stato un sogno? Leone se lo chiede ansiosamente per varie settimane, in preda a una fiamma che lo divora: ed ecco, dopo un’angosciata attesa, la lettera che distrugge ogni sua speranza. La sconosciuta gli rivela che un matrimonio infelice le ha reso insopportabile ogni vincolo. Vedova a venticinque anni, ricchissima, libera, ha provato il rammarico di non esser madre, ed ha voluto procurarsi le gioie materne, senza rinunziare alla sua libertà e alla sua riputazione. Poiché ella può scomparire prima che l’erede della sua sostanza sia in grado di goderne, non vuole privare il nascituro del suo protettore naturale; ovunque egli sia gli farà pervenire un anello spezzato, la cui seconda metà sarà consegnata al figlio. Parecchi mesi dopo, in una triste città di provincia, ove è di guarnigione, Leone si vede capitare innanzi il negro misterioso che gli consegna un plico e poi si dà di sprone al cavallo. L’anello contenuto nel foglio porta incisa una data e reca incastonato uno smeraldo: è il segno convenuto per indicare la nascita d’una bambina. Una sottile malinconia rode l’anima dell’ufficiale che dispera di ritrovare la bella mascherina; ma alla vigilia di una guerra con la Spagna è richiamato a Parigi come aiutante di campo di un generale, e sospetta che l’inattesa promozione sia dovuta alla segreta influenza della donna amata ed ignota. Parte col generale per la guerra, senza avere riconosciuto in un salotto amico la misteriosa madre della sua bambina nella signora Elinor de Roselis, che, sposa a sedici anni di un ricchissimo colono della Martinica, e rimasta vedova dopo un’unione disgraziata, era venuta a stabilirsi a Parigi. Aveva concepito durante il viaggio l’ardito progetto di una maternità libera, l’aveva attuato senza destare il sospetto nemmeno nell’amica più intima, poiché nel frattempo si era ritirata in una villa in Turenna, e vi ritornava solo a riabbracciare la sua bambina. Un pentimento l’ha indotta a seguire di lontano la carriera dell’ufficiale e per conservare alla bambina il padre, si è adoperata per sottrarlo ai pericoli della guerra: ha tremato di emozione, udendo discorrere nel salotto amico della loro avventura attribuita a un compagno e nell’apprendere quanto egli sia buono e leale. Ora che lo sa sul campo di battaglia è straziata a sua volta dall’ansia, dal rimorso, dalla trepidazione più angosciosa e corre a rifugiarsi nella villa. Un’amica che la raggiunge stupisce della sua maternità nascosta, le strappa il suo segreto, la rimprovera e resta a condividere il suo dolore. Di Leone non si sa più nulla; è scomparso dopo un combattimento sanguinoso. Ma un giorno un servo batte al cancello della villa e chiede ospitalità per un infermo: è Leone, ferito, febbricitante, forse moribondo. In una camera della villa, nelle ore di delirio, egli rievoca la donna amata e la figlia: Elinor a stento resiste al primo impeto del suo cuore; non si svela, ma non abbandona più il capezzale dell’infermo, gli prodiga ogni cura, offre alle sue carezze la piccina in cui egli crede di veder l’immagine della figlia e un bel giorno ha la grata sorpresa di sentirsi amata da lui. Ed è anche il suo gaudio maggiore quando, per essere fedele alla sconosciuta, Leone vuol soffocare l’amore nascente per la bella infermiera. Indarno l’amica impaziente la spinge a svelarsi: ella lo lascia partire per Parigi. Vi si reca ella pure, persuade l’amica a condurre Leone al ballo in maschera all’Opéra, a lasciarlo solo nel ridotto, e gli appare come la prima volta dinanzi col domino bianco. Ma prova ad un tempo la più profonda amarezza e il più dolce conforto: Leone, freddo, grave, rifiuta di sposarla, perché non può dimenticare la donna che lo ha salvato dalla morte e in cui ha trovate le qualità più affascinanti, la tenerezza e la bontà. Egli accetta appena un invito a colazione per conoscere la sua bambina; e lo stesso Balzac rinuncia a descrivere la gioia dell’incontro con la donna due volte amata e con la piccina nel salottino, ove i due amanti, ora sposi, avevano trascorsa la notte indimenticabile.

  Onorato di Balzac, in Onorato Balzac, Babbo Goriot … cit., p. 1.
  E’ il pensatore più poderoso, il più completo romanziere dei tempi moderni.
  La massima parte de’ suoi scritti forma quella Commedia umana, ch’è la maggiore e più perfetta opera di osservazione e di filosofia della vita vissuta: opera colossale per elevatezza di concetto, per forza di sentimenti, per grandiosità di linea. Il romanzo che noi pubblichiamo [Babbo Goriot] è l’inno all’amore paterno, capace di qualunque folle abnegazione, pronto a qualunque disperato sacrificio per il bene delle creature amate.

  Onorato Balzac, in Onorato Balzac, L’interdizione … cit., p. 1.
  Malgrado il pretenzioso di aristocratico con cui comunemente si fa precedere il cognome del celeberrimo romanziere francese, egli non potea vantare alcuna origine aristocratica: figlio di umili contadini del dipartimento del Tarn [sic?!], egli vide la luce a Tour (sic) il 27 floreale dell’anno VII della prima repubblica (18 [sic] maggio 1799) e morì a Parigi il 20 (sic) agosto 1850. Ebbe vita stranamente avventurosa e movimentata, né sempre la fortuna volle mostrarglisi benigna. Fu volta a volta, editore, compositore, fonditore di caratteri ma non certo per questi suoi vari mestieri egli meritò la fama da cui è circondato il suo nome.
  Essa gli derivò dai suoi romanzi che con prodigalità ammirabile produsse nel corso della sua relativamente breve esistenza ed in cui la società francese dei suoi tempi è tratteggiata e scolpita a tocchi sapienti e poderosi. L’amara filosofia da cui è pervasa l’opera di Balzac e che, tuttavia, non dilaga mai in querimonie, dà ai personaggi balzachiani una caratteristica impronta ed una vitalità che conservano intera anche oggi, malgrado il tempo trascorso.
  Fare l’elenco delle opere lasciate dal celebre romanziere ci ruberebbe qui troppo spazio: ci limiteremo a ricordare le più note: Papa Goriot, I tredici, Il cugino Pons, La Cugina Betta, Fisiologia del matrimonio, ecc.

  Marginalia. L’uva di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XVI, N. 3, 15 Gennaio 1911, p. 5.
  Accanto alla casa tranquilla dove tanto Balzac abitò e lavorò, in fondo a Passy, nella via Raynouard, c’è una piccola vigna. Alcuni fedeli del romanziere, come è noto, han trasformato la casa in un museo ed ogni autunno in picciol numero vengono a vendemmiar la vigna. Alcune graziose dame vengono a spiccare religiosamente i grappoli rari. La cerimonia è semplice e gentile. Un cappellone di paglia basta a contener tutta la raccolta e i gravi profumi dionisiaci che volteggiano su i ceppi della Gallia Narbonese non infastidiscono i visitatori della pacifica via Raynouard. Léo Larguier scrive nella Revue Bleue di aver mangiato in questi giorni un grappolo d’uva della vigna di Balzac, conservato religiosamente dall’ultima raccolta e offertogli alla fine d’un pranzo da un amico ammiratore di Balzac[1]. Quando fu giunto il momento del dessert, l’ospite si levò da tavola ed andò a cercare egli stesso il grappolo prezioso. I dolci e le frutta senza storia non furono gustati quanto l’uva, che sembrava inviata in dono dal maestro stesso. L’uva della vigna di Balzac! Mangiarla non equivale a mangiare, per un egittologo fanatico, del pane fabbricato con frumento trovato nel sarcofago di una regina? È l’uva di Balzac creatore. Balzac crea, infatti, come Dio. Un giorno un amico entra bruscamente nel suo studio e annunzia la signora Marneffe, la signora Marneffe della Cousine Bette! Balzac si ravvia i capelli, s’accomoda l’abito e dice ingenuamente: «Fatela entrare!» Non mentiva mai: quel che affermava esisteva in lui. Cenava una sera a casa di M.me De Girardin e poiché si parlava a tavola di storia naturale, Balzac immaginò una bestia inventata di sana pianta e si mise a parlarne … Gli ospiti rimasero assai stupiti. Allora il poeta Méry venne in soccorso del romanziere e con la sua prodigiosa erudizione citò Plinio, Buffon, Cuvier e interessò i convitati ai costumi dell’animale sconosciuto. Raccontò storie di viaggi, di scienziati, di naturalisti, snocciolando citazioni cervellotiche. Quando tutti si levarono da tavola, Balzac prese il braccio di Méry e gli sussurrò all’orecchio: «Ma davvero quell’animale esiste?» «Perché no? – rispose Méry – Non esistono forse Rastignac e De Marlay (sic)?» Il grappolo d’uva balzacchiano eccitò talmente il cervello dei due amici ch’essi immaginarono di veder tutti i personaggi della Commedia Umana muoversi, agitarsi e vivere, come esseri reali e visibili.


  Riviste e giornali, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36°, Num. 15, 15 Gennaio 1911, p. 2.

  La straordinaria inesauribile fantasia di Balzac non si sbizzarriva soltanto nelle opere del grande scrittore, ma aveva campo di mostrarsi anche privatamente, negli amichevoli conversari. Un singolare aneddoto è riferito, a questo proposito, dal «Marzocco», che lo riporta dalla Revue Bleu (sic). Balzac cenava una sera in casa di M.me de Girardin e poiché si parlava a tavola di storia naturale, Balzac immaginò una bestia inventata di sana pianta e si mise a parlarne ... Gli ospiti rimasero assai stupiti. Allora il poeta Mery venne a soccorso del romanziere e con la sua prodi­giosa erudizione citò Plinio, Buffon, Cuvier; e, interessò i convitati ai costumi dell’animale sconosciuto. Raccontò storie di viaggi, di scienziati, di naturalisti, snocciolando cita­zioni cervellotiche. Quando tutti si levarono da tavola, Balzac prese il braccio di Méry o gli sussurrò all’orecchio: «Ma davvero quell’animale esiste?» «Perché no? rispose Méry —. Non esistono forse Rastignac e De Marsay?».


  Marginalia. Liszt aneddotico, «Il Marzocco», Firenze, Anno XVI, N. 4, 22 Gennaio 1911, p. 5.
  Il centenario di Liszt, come tutti i centenari, ha fatto ripullular gli aneddoti e i ricordi. […] Un giorno che Balzac andò a Nohant a visitare la Sand, si fece raccontar subito lo stato delle relazioni Liszt-d’Agoult e la Sand gli disse: «Voi dovreste farci sopra un romanzo; io non posso; ma voi nulla avete che ve lo impedisce. Vi posso suggerire anche il titolo: I Galeotti o gli Amori forzati». Balzac intitolò questo romanzo: Beatrice probabilmente perché M.me d’Agoult si attribuiva su Liszt la stessa influenza ispiratrice di Beatrice su Dante. Questa pretesa, sostenuta ostensibilmente dall’Arabella di Liszt, gli aveva fatto esclamare un giorno: «Che Dante! che Beatrice! Sono i Danti che creano le Beatrici. Le Beatrici vere muoiono a diciotto anni!» Così nel romanzo di Balzac si possono riconoscere la Sand, M.me d’Agoult, Liszt. «La Sand – scrisse Balzac nelle Lettres à l’étrangère – ne è arcicontenta; prende una piccola vendetta dell’amica. Mano qualche variante la storia è vera». Balzac e Liszt erano tuttavia in buone relazioni. Liszt invitando Balzac ad un suo concerto gli diceva: «Mi ci vogliono uditori come voi, e, in mancanza d’uditori al plurale, mi ci vuol voi al singolare». Tuttavia di là a qualche tempo Balzac, sapendo che Liszt si proponeva di andare a visitare la Hanska a Pietroburgo, la previene contro di lui: «Uomo ridicolo – le scrive – ma talento sublime. È il Paganini del piano, ma Chopin gli è superiore assai … Dà luogo ad opinioni contraddittorie …, recita la commedia …».

  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 22, 22 Gennaio 1911, p. 3.
  Cfr. scheda precedente.

  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 55, 24 Febbraio 1911, p. 3.
  Ancora a proposito del centenario di Jules Sandeau. Comoedia ricorda questo grazioso aneddoto[2]. Balzac era un grande amico di Sandeau. Essi dividevano con onore la loro miseria. Un giorno Balzac disse a Sandeau. «Ho bisogno di un luigi. Vado ad una serata. Trovamelo. Cerca in fondo alle tue tasche, fruga in tutti gli angoli, sgozza un editore … ma mi abbisogna». Era pieno inverno. Sandeau aveva un mantello, al quale teneva molto. Uscì. Andò a cercare un rivendugliolo col suo mantello. E porto con sé il luigi. Più tardi Balzac dovendo passare la sera presso qualche duchessa, domandò – come era naturale – al suo amico: «Prestami il tuo mantello». «Ah! no – rispose Sandeau – non posso imprestarti il mio mantello». «Tu non vuoi! Ebbene sia …». Ma improvvisamente, ricordandosi, gli disse con la voce che quasi gli tremava: «Ti domando perdono».

  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 59, 28 Febbraio 1911, p. 3.
  E’ noto che tra le tante bizzarrissime cose attribuite al grande Balzac, v’è la storiella che egli si divertisse a tenere accese in sua casa non meno di cento candele per volta. Si tratta proprio di una storiella, sebbene motivata da un episodio vero. Balzac si era incontrato più volte al «foyer» della «Comédie Française» con un faccendiere che aveva la tarantola delle scommesse: Scommetto di sì; Scommetto di no; scommetto pro’; scommetto contro; il valent’uomo non usciva mai di lì. Balzac risolvette di castigare la costui monomania. Una sera fa accendere 300 candele nel suo salotto, indi se ne va al «Théâtre Français»; trova quel parlatore; si trattiene alquanto con lui e poscia gli dice: – Me ne vado perché, mentre io sto qui con voi, ho 300 candele accese in casa. – Baie! – La pura verità. – Scommetto di no. – Quanto? – Quanto volete. – Vada per 500 franchi, e venite con me: «Merle» ci accompagnerà per comprovare il fatto. – Si monta in vettura, si giunge in casa di Balzac e vi si trovano infatti le 300 candele accese. Il parlatore tirò fuori i 25 napoleoni, ma si vendicò non chiamando più Balzac che l’uomo delle candele.


  Recentissime. Da Parigi. Un romanzo inedito di Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36°, Num. 73, 14 Marzo 1911, p. 6.

  Ci telefon. da Parigi, 14 marzo, mattina:

  Fra poco verrà pubblicato un romanzo ine­dito di Balzac: L’amore bendato di cui fino a poco tempo fa non si sospettava nemmeno l’esistenza. Il celebre autore lo aveva dato in dono regalmente alla duchessa di Dino per ringraziarla delle cortesie e della defe­renza con cui lo riceveva nel suo salotto.

  Scrivere un libro intero e offrirlo in dono per riconoscenza, è un tratto veramente de­gno di Balzac, che volle così regalare quanto aveva di più prezioso: e tutti sanno che egli era stretto dal bisogno e doveva logorarsi la salute, al tavolino per far fronte ai suoi im­pegni.

  Per più di mezzo secolo il romanzo inedito rimase nella biblioteca della duchessa di Di­no, accanto a vari manoscritti di De Musset, e solo pochi amici della famiglia ne poteva­no avere visione. Più tardi l’erede della du­chessa lo regalò a un amico, che lo mise ul­timamente a disposizione dell’editore.

  Ecco l’episodio su cui s’impernia la favola dell’Amore bendato.

  A un ballo all’Opera un giovane ufficiale di cavalleria, Préval, è l’eroe d’una avven­tura galante con una sconosciuta che non si toglie la maschera nemmeno nell’intimità. Più tardi egli apprende che la sconosciuta aveva voluto soltanto procurarsi, malgrado il suo matrimonio sterile, le gioie materne: gli si farà conoscere un giorno, grazie ad un gioiello, se verrà alla luce un maschietto o una femmina. All'annunzio che è stata una bambina, il Préval è preso dal desiderio irre­sistibile di svelare il mistero.

  La scoperta di un romanzo inedito del celebre scrittore sarà certo considerata co­me uno degli avvenimenti letterari più importanti di questi ultimi tempi.


  “Gesù in croce”, la donna querula e “Gennarino l’acquaiolo” interrogati all’Assise di Viterbo, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 83, 24 Marzo 1911, p. 4.

Intermezzo di pianto sacerdotale.
  La previsione che quest’oggi sia per essere interrogato Abbatemaggio ha fatto accorrere maggior folla nell’aula. Poiché le tentazioni, come dice Balzac, sono più forti dei propositi delle donne, molte signore hanno finito di smettere la sdegnosa indifferenza per il dibattimento ed hanno sollecitato il biglietto d’invito per la seduta d’oggi.


  Corriere parigino. […] La più bella età per la donna, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36°, 3 Aprile 1911, p. 3.

  Il fiore dell’età femminile per Balzac si spiegava a trent’anni; il celebre scrittore espose la sua tesi perfino nel titolo d’un suo romanzo.


  Marginalia. Balzac a Issoudun, «Il Marzocco», Firenze, Anno XVI, N. 15, 9 Aprile 1911, p. 5.
  Balzac fece a Issoudun parecchi soggiorni. Vi andava a trovare la sua amica M.me Carraud, la quale era la proprietaria di Frapsele (sic), un piccolo podere con una vasta casa distante un chilometro dal paese. La casa è un piccolo castello ad un piano dalle mura bianche che paiono uscir dall’erba e la circondano gli alberi d’un parco che sembra isolarla dal mondo. M.me Carraud era una donna di piccola statura – scrive Maurice Serval nel Mercure de France[3] – vivace, dall’andatura un po’ zoppicante che adorava suo marito ed i suoi figli ed aveva scritto qualche romanzo morale ad uso dei fanciulli[4]. La sua affezione per Balzac era pura e disinteressata, d’un carattere tutto speciale di maternità. Spesso ammalato, scoraggiato, perseguitato dai creditori, Balzac giunse a Frapesle in cerca di conforto e M.me Carraud gli diede coraggio con dolci parole che lo calmavano e gli rendevano la voglia di vivere e di lottare ancora. La sua riconoscenza per lei fu così viva quanto l’amicizia che la ispirava. Non dobbiamo dimenticare la lettera così commovente che Balzac indirizzò a M.me Carraud dalla Polonia pochi giorni dopo il suo matrimonio con M.me Hanska, lettera tutta profumata di soavi sentimenti e piena dell’offerta di tornare da lei e riscaldarsi l’animo presso la sua bontà – offerta inutile poiché tre mesi dopo Balzac aveva cessato di vivere … A Frapesle egli occupava due camere: una camera da letto e una stanza di studio. Lo studio aveva tre finestre, delle quali una sul giardino, cosa che piaceva molto al romanziere che poteva così vedere in tempo e da lontano i suoi visitatori importuni. Una scala comunicava dalla camera da letto al giardino e per mezzo d’essa, la notte, Balzac poteva andar liberamente a far qualche passeggiata per i dintorni. Le sue passeggiate notturne avevano determinato i sospetti d’un vecchio messer Badinot, il quale aveva per figlia una bellissima ragazza e la custodiva gelosamente. Questo Badinot aveva promesso di tirare una volta o l’altra una fucilata nella schiena del romanziere che, secondo lui, solo per mal fare usciva la notte. Poi invece le cose s’accomodarono e Balzac e il vecchio divennero buoni amici, tanto che una volta trovandosi il Badinot in lite col fisco, Balzac propose seriamente d’indirizzare all’amministrazione a difesa di lui un rapporto in versi. Non ne fece naturalmente più nulla ed il vecchio Badinot poté dire di averla scampata bella.


  Attraverso le arti sorelle. Letteratura, «Ars et Labor. Musica e Musicisti», Milano, Anno 66, Vol. I, 15 Maggio 1911, p. 390.

  Venne pubblicato un romanzo inedito di Balzac (sic): L’a­more bendato [L’Amour masqué], di cui fino a poco tempo fa non si sospet­tava nemmeno l’esistenza. Il celebre autore lo aveva dato in dono regalmente alla duchessa di Dino per ringraziarla delle cortesie e della deferenza con cui lo riceveva nel suo salotto.


  Notizie, libri e recenti pubblicazioni. Francia, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLIII – Della Raccolta CCXXXVII, Fascicolo 946, 16 maggio 1911, pp. 377-378.
  p. 377. Nella casa di Balzac la signora Vera Starkof tenne una conferenza sull’argomento: «Balzac nel romanzo russo».


  [Notizia], «Avanti! Giornale del Partito socialista», Roma, Anno XV, Numero 167, 17 Giugno 1911, p. 2.

  Pubblicheremo a giorni, in una accurata Versione italiana, L’Israélite di Onorato di Balzac. [cfr. supra].

  Trattasi d’uno dei più squisiti romanzi dell’immortale autore della Comédie humaine, il quale ci trascina sulle ali della fantasia verso la deliziosa epoca cavalleresca, piena di sogni ardenti e di passioni intense.

  Alla vicenda viva, attraente, squisitamente fantastica, si aggiunge il pregio smagliante della forma, densa di osservazioni fini e suggestive, fiorita d’una psicologia profonda, d’una magistrale conoscenza del cuore umano.

  Dalle peripezie più strane, dalle angosce più strazianti d’una passione che tutto congiura a contrastare e ad ostacolare implacabilmente, balza vivo e delizioso lo idillio di due anime giovini, uno di quegli idilli che solo sa intessere il meraviglioso autore delle “Scene di vita Parigina” (sic).

  E le spire dell’intreccio incalzano e stringono dal principio alla fine il lettore colle risorse d’una fantasia inesausta, sicchè l’attenzione è sempre desta, la curiosità sempre viva, il diletto artistico sempre intenso.


  Notizie. Gli originali di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XVI, N. 30, 23 Luglio 1911, p. 6.
  Balzac lavorava dal vero e spesso i personaggi dei suoi romanzi non paresse realmente esistite (sic?). Nella Peau de Chagrin quattro celebri dottori parigini, Brissot, Maugredie, Caméristus e Bianchon son chiamati al letto di Raffaello morente. Brissot – afferma la Revue Bleue[5] – rappresenta probabilmente il gran dottor Broussais e ce ne fa convinti l’identità scrupolosa delle sue dottrine con quelle espresse dal personaggio balzacchiano. Caméristus, rappresenta il dottor Recamier poiché, notiamolo, uno dei nomi è la traduzione latina dell’altro ed anche qui notiamo la stessa identità di dottrine. Per Maugredis si può quasi affermare ch’esso non è il dottor Magendie ma è una finzione composita con i caratteri di vari medici noti a Balzac. Tutto questo dimostra che la potenza immaginativa del romanziere poggiava spesso su una documentazione personale.

  Marginalia. L’idea fissa del padre di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XVI, N. 34, 20 Agosto 1911, p. 4.
  Una leggenda s’è formata che attribuisce al padre di Balzac la prima idea dell’Arco di trionfo innalzato a Parigi sulla piazza della Stella. Invece l’erezione dell’Arco della Stella fu decretata da Napoleone dopo la battaglia di Austerlitz il 2 febbraio 1806 e la prima pietra fu posta il 13 agosto dello stesso anno. Ma se non è il padre di Balzac che ebbe l’idea dell’Arco di trionfo, è nondimeno esatto ch’egli aveva cercato di far innalzare un monumento gigantesco alla gloria dell’imperatore. L’Intermédiaire lo dimostra con documenti. Oltre al progetto esposto in un opuscolo diventato rarissimo: «Mémoires sur deux obligations à remplir par les Français», Honoré de Balzac padre, che era amministratore dell’ospizio di Tours, scrisse una lettera conservata negli Archivi nazionali. Essa prova quali passi Balzac padre aveva fatto per interessare l’imperatore stesso al suo progetto. Scriveva egli il 1° agosto 1809 a S. E. il ministro dell’interno Cretet: «Elevare la nazione al grado di grandezza che le appartiene e trasmettere ai popoli di tutti i secoli le prove della sua celebrità, sviluppare, fortificare, diffondere lo spirito liberale e filosofico, sempre soffocato dalla ruggine divorante del cattivo genio e far sgorgare i sentimenti di riconoscenza verso il fondatore della felicità del genere umano, questo è lo scopo ch’io mi son proposto nello stampato qui accluso». Eran due copie del «Mémoires» e Balzac padre lasciava capir di sperare che una copia sarebbe stata consegnata proprio all’imperatore. In una nota poi egli faceva conoscere che si trattava «d’innalzare una piramide più gigantesca di quelle conosciute oggi e di consacrarla a S. M. l’imperatore». Il ministro dell’interno rispose al Balzac così: «Ho ricevuto, signore, la lettera che m’avete fatto l’onore di scrivermi e l’opuscolo accluso. Vi prego di ricevere i miei ringraziamenti per questo invio ed ho l’onore di salutarvi». Niente altro. Non si poteva avere una risposta più fredda ed evasiva di questa. Ma Balzac padre non si perdé di coraggio. Non riuscendogli l’affare della piramide, cambiò d’ammirazione e di oggetto. Nel 1816 scrisse un nuovo opuscolo «Sulla statua equestre che i francesi debbono erigere per perpetuare la memoria di Enrico IV». La rivoluzione aveva distrutto quella che si trovava sul Ponte Nuovo e Napoleone aveva concepito il progetto di sostituirla con un obelisco alto dugento piedi. Balzac voleva far dimenticare che aveva fatto parte della Comune di Parigi nel 1793? Checché ne sia, egli aveva una voglia matta di rendersi celebre in un modo o in un altro e di tramandare ai posteri il suo nome. Non ci riuscì; ma ci riuscì suo figlio per lui.


  La scoperta dell’ombrello, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36°, Num. 232, 22 Agosto 1911, p. 3.

  Chi sa che i lettori del Wells non credano, parimente, che Onorato di Balzac abbia scritto dei romanzi, dopo Diderot, per diletto delle sartine nei pomeriggi domenicali; e che Gustavo Flaubert abbia composto Madame Bovary per alimentare la sentimentalità delle signore maritate in provincia e che Zola non si sia mai sognato critica sociale, di propaganda di letteratura militante […].


  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 234, 24 Agosto 1911, p. 5.

  Cfr. scheda precedente.

  Giornali e riviste, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 244, 3 Settembre 1911, p. 3.
  [Sull’Archivio del conte Giuseppe Primoli].
  Sugli scaffali troviamo una gran parte della biblioteca di Stendhal quand’era console a Civitavecchia e passava il suo tempo nei salotti di Roma ch’egli per il primo riconobbe come quelli di Cosmopoli. Fra una pagina e l’altra dei suoi libri, Stendhal ha introdotto alcuni fogli bianchi su cui riassumeva le impressioni della sua lettura. Di Balzac ci son lettere inedite, pagine di manoscritti vergate col grosso ed energico carattere d’improvvisatore, quasi senza cancellature. Con quale commozione in molte pagine si scorge il cerchio tondo delle tazze di caffè con cui il grande scrittore sosteneva i suoi nervi nella fatica colossale delle sue notti di lavoro! Ed accanto a questi manoscritti di Balzac, ecco quelli di Dumas figlio, dei Goncourt, di Maupassant, di Bourget.

  Marginalia. Balzac dal matrimonio alla tomba, «Il Marzocco», Firenze, Anno XVI, N. 37, 10 Settembre 1911, p. 4.
  Balzac morì la domenica 18 agosto 1850. Egli si era da poco ammogliato – ricorda il Temps[6] – ed avrebbe certo desiderato di vivere ancora; ma soffriva d’una malattia di cuore, che aggravata dal lavoro erculeo doveva ucciderlo. Invano il suo medico, il dottor Nacquart, gli prodigava i più affettuosi consigli e i più premurosi ammonimenti. Prometteva di correggersi e poi ricadeva nei suoi eccessi di lavoro. Improvvisò la Cousine Bette in sei settimane, il che fece esclamare al dottore: «È spaventevole questo stravizio di cervello. Accadrà qualcosa di fatale?» Non contento dei suoi lavori e delle sue preoccupazioni finanziarie, Balzac si occupava allora anche di politica. La rivoluzione del ’48 aveva destato in molti letterati ambizioni parlamentari e Balzac fu tra coloro che non sdegnarono di porre innanzi una propria candidatura, senza però far nulla che valesse a farlo prendere per uno spregevole procacciante. Naturalmente fece fiasco. Se ne consolò appunto prendendo moglie. Era fidanzato da diciassette anni, da quel giorno in cui un editore gli aveva trasmesso una lettera a lui indirizzata e firmata misteriosamente: «La Straniera». Balzac, superstizioso, notò che quel giorno era la festa della sua patrona Santa Onorina. La lettera, timbrata d’un blasone e d’una corona comitale, portava i suggelli della posta russa e l’effigie dell’imperatore Nicola. Balzac rispose prima con una «Piccola Corrispondenza» inscritta nella Quotidienne, poi con una serie di lettere il cui insieme costituisce la più veridica e commovente delle autobiografie. Un giorno la Straniera lasciò le steppe dell’Ukraina per l’occidente più abitabile e Balzac le scrisse «ferma la posta» a Neuchâtel, pronto a raggiungerla in Svizzera. L’incontro avvenne un giorno di settembre del 1833 e Balzac si affrettò a scrivere a sua sorella le lodi della fidanzata, «il vestito violetto; i più bei capelli neri del mondo; la pelle soave e deliziosamente fine delle brune; un cuore di ventisette anni ingenuo». Era la contessa Rzewuska e non aveva che un sol difetto: era maritata al conte de Hanski. Balzac giurò di aspettare che fosse libera del marito, che avesse messo a posto la figlia Anna … ed aspettò infatti diciassette anni. Il matrimonio fu celebrato solo il 14 marzo 1850 a Berditchef in fondo all’Ukraina, e per la prima volta Balzac si sentì veramente felice. Avrebbe però voluto essere dell’Accademia. Victor Hugo, che lo raccomandava agli accademici, venne a trovarlo pochi giorni prima della morte. Balzac si dichiarò legittimista, condusse il poeta a fare un giro in giardino e gli mostrò una porta che dava sur una chiesetta dove egli si recava a sentir la messa. Qualche giorno dopo Balzac si sentì male e fece chiamare un prete che gli somministrò i sacramenti. Il 18 agosto il grande scrittore moriva lasciando la moglie sopravvivergli sino al 1882.

  Società italiana “Cines”. “Giovanna la pallida”. Dal celebre romanzo di Onorato di Balzac. Film di grande arte – Serie “Princeps”, «La Vita cinematografica», Torino, Anno II, N. 17 10 Ottobre 1911, p. 8.[7]
  Il Duca Ottavio di Landon, avendo conosciuto Giovanna che viveva con uno dei suoi zii, diventa perdutamente innamorato di essa e la sua corte, essendo accettata, non vi è alcuna difficoltà affinchè il fidanzamento sia concluso. Chiamato in tutta fretta al reggimento Ottavio, prima di partire per la guerra, prega l’amico suo intimo Salviati (un ufficiale che restava a Parigi al Ministero) di sorvegliare e all’occorrenza di proteggere Giovanna. Trascorso qualche tempo dalla partenza d’Ottavio e per un seguito di circostanze che a lui dovevano essere fatali, Giovanna s’incarica di far le veci di madre ad una piccola bambina orfana di una amica sua carissima. Nello stesso tempo Salviati, tradendo la pura amicizia di Ottavio, fa una violenta dichiarazione d’amore a Giovanna, ma, essendo sdegnosamente respinto, egli si vendica vilmente scrivendo a Ottavio che Giovanna l’inganna con un altro, e che da questa relazione n’è nata una fanciulla. Ottavio, alla triste notizia ed accecato dall’ira e dalla gelosia, corre presso Giovanna e, trovandola coll’orfanella nelle braccia, crede alla di lei infamia, la maledice e l’abbandona fuggendo disperatamente a cavallo. Nella sua folle corsa per raggiungere il reggimento, Ottavio cade da cavallo a Chamblj (sic), davanti alla villa della marchesa d’Arneuse. Soccorso, curato, Eugenia, la figlia della marchesa d’Arneuse, s’innamora di Ottavio e ben presto le nozze sono concluse. Trascorso un anno da questo matrimonio Ottavio riceva una lettera che mette il suo cuore al colmo della disperazione. Salviati, prima di morire, ha confessato la sua bassa calunnia verso l’innocente Giovanna. Ottavio dimentica tutto, abbandona sua moglie e il bambino, raggiunge Giovanna a Tours e, approfittando della confusione che la rivoluzione aveva arrecato agli Atti dello Stato Civile, sposa Giovanna sotto il semplice nome di Ottavio Landon.
  Eugenia, venuta a conoscenza della lettera di Salviati, si reca a Tours e, approfittando di una assenza di Ottavio, si presenta a Giovanna in qualità di cameriera e viene subito accettata. Giovanna prende moltissima affezione su questa nuova cameriera sempre triste e piena di cure per lei, ma il ritorno di Ottavio precipita la catastrofe. La madre di Eugenia, venendo a reclamare i diritti della figlia Giovanna, apprende d’improvviso la crudele verità e muore col cuore spezzato dall’immenso dolore.

  Notizie, libri e recenti pubblicazioni. Francia, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLVI – Della Raccolta CCXL, Fascicolo 957, 1° novembre 1911, pp. 172-173.
  p. 172. È stato adattato per le scene da Michel Carré e Pietro Decourcelle uno dei più noti romanzi di Onorato di Balzac: Plan du chagrin (sic!).

  Rassegna settimanale della stampa. Per fuggire i creditori …, «Minerva. Rivista delle Riviste», Roma, Società Editrice Laziale, Anno XXI, Vol. XXXI, N. 49, 3 dicembre 1911, pp., p. 1175.
  Al n. 47 in via Raynouard, in un quartiere lontano di Parigi, il signor de Julienne, ricco finanziere e protettore di pittori e di ballerine (e inventore della zuppa che ricorda il suo nome), aveva fatto costruire nel 1753 una casetta misteriosa e graziosa, per nascondervi le più belle tele del Watteau e i migliori campioni del corpo di ballo dell’Opéra. Questa «folie» - così si chiamavan galantemente nel secolo XVIII i nidi discreti – fu acquistata nel 1757 dal «fermier général» Dupin che la offrì a un’attrice della Comédie; poi restò chiusa e disabitata nei giorni terribili, fin che nel 1825 un onesto commerciante ritiratosi dagli affari, il signor Grandemain, acquistava la casa e si stabiliva borghesemente nell’appartamento che guarda sulla via, lasciando disabitato un piccolo padiglione nel giardino.
  Una sera d’inverno del 1840, regnando Luigi Filippo, un certo signor de Brugnol si fece annunziare al signor Grandemain: era ancor giovine, ma corpulento, aveva capellatura scomposta e ribelle, viso tondo e colorito; veniva da Ville-d’Avray, con una signora, e voleva prendere in affitto il padiglione nel giardino.
  Conchiuso il contratto, i signori de Brugnol si stabilirono nel padiglione: il proprietario notò che mancavano di tutto e dovette prestar loro una sua pentola, perché vi cuocessero un po’ di minestra. Avevano però un gran candeliere a sette bracci, alla cui luce ol signor de Brugnol spesso vegliava tutta la notte, vestito di bianco come un domenicano, e scriveva, scriveva, scriveva … «Chi sarà?» si domandava il signor Grandemain; e volle indagare. Così seppe che il de Brugnol non era de Brugnol, perché era Balzac.
  Per fuggire alle ricerche delle «gardes de commerce» e dei creditori fastidiosi, s’era nascosto là, sott’altro nome, condannandosi ai capolavori forzati per molti anni. Tanto ben nascosto, che un ricco ammiratore inglese, il marchese d’Hartford, che lo ricercava per pagargli i debiti, non lo potè trovare. Qui, nella sua miseria, Balzac si vendicava creando tipi di uomini vittoriosi, conquistatori, dalle mani tanto piene d’oro quanto le sue tasche n’eran vuote; qui scrisse talune delle sue opere più grandi. Ed ecco perché, narra il Temps, sabato 25 novembre [?], sotto la presidenza di autorità costituite, nella piccola casa di Passy si è commemorato solennemente Onorato Balzac. Le autorità hanno materne indulgenze per le scappatelle dei grandi letterati …


  Augusto Agabiti, Le inumazioni precoci, «Rassegna Nazionale», Firenze, Volume CLXXXI, Anno XXXIII, N. 5, Maggio 1911, pp. 59-83

  p. 60. L’ ipocrisia degli eredi costretti dalle convenienze sociali, a sovrapporre, sull’anima giuliva, un viso afflitto, e ad ostentare angoscie, descrittaci dal Balzac, e la feroce cupidigia della gente d’affari, così detta pratica, che sa trarre dalla morte di un compagno, di un collega, di un concorrente, di un amico, benefizio illecito ed inatteso, disprezzata con tanta potenza di rappresentazione drammatica dal Becque, sembrano, insieme alla paura individuale, gli unici e reali effetti della sparizione di un uomo dalla scena della vita. […]. Diciamo che, eccettuate pochissime persone sincere, l’ironia del Balzac e il sarcasmo di Becque, rispecchiano tutta la realtà.

 

  Antonio D’Amore, Scioperi e riformismo, «La Conquista. Settimanale Socialista di Terra di Bari», Bari, Anno XI, N. 29, 16 luglio 1911, pp. 1-2.

  p. 1. «Il critico letterario ha letto tante opere, ne ha visto passare tante, si è così abituato a vedere pagine scritte, ha subite tante coercizioni, ha visto tanti drammi, ha scritto tanti articoli senza manifestare il suo pensiero, e ha tradito così spesso la causa del­l’arte a favore delle sue amicizie o inimicizie, che egli è arrivato al più profondo disgusto di ogni cosa, o pur nientemeno continua ancora a giu­dicare».

  Questo, che Honoré de Balzac scri­veva del critico letterario in uno dei romanzi della Vita parigina, può be­nissimo dirsi per la tendenza rifor­mista che da parecchio tempo si va manifestando, in seno al partito so­cialista italiano. E non senza ragione.


  Luigi de Anna, Il Verbo francese e la sua teoria dal IX al XX secolo. Studio critico-storico-filologico. Volume Terzo. La Coniugazione morta, Roma-Milano, Società Editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati & C., 1911.
  In questo accurato studio sui cosiddetti “verbi irregolari e difettivi” della lingua francese, sono presenti numerose citazioni desunte, come esempî, dalle opere di Balzac (e, in modo particolare, da Eugénie Grandet). L’edizione di riferimento per le citazioni è quella delle Oeuvres complètes pubblicate da Calmann-Lévy nel 1900.

ALLER.
  Nota 7, pp. 7-8; p. 8. Nella lingua moderna infatti Je vas appartiene al linguaggio popolare e dialettale; esso si è spesso continuato ad adoperare fino alla metà del XIX secolo, e lo si continua tuttora, ma più di rado, da qualche scrittore contemporaneo. […]. Trovo ancora in H. de Balzac, Eugénie Grandet pag. 230: – Allons, la mère tu peux passer la journée avec ta fille, je vas à Froidfond […].
  […]
  p. 17. Il verbo aller compie tuttavia le funzioni di un vero ausiliare, quando è unito ad un infinito, per esprimere un futuro immediato: […].
  – Je vais savoir, dans l’instant, si Pauline aime monsieur (sic) Ferdinand.
  (H. De Balzac, La Marâtre II.4).

BÉER.
  pp. 33-34. Questo verbo non è ora più usato che al solo participio presente e come aggettivo verbale: béant, béante. […].
  – Charles se réveilla, vit sa cousine et resta béant de surprise.
  (H. De Balzac, Eug. Grandet pag. 168).

BOUILLIR.
  Sulla forma del participio passato boullu invece di bouilli :
  p. 47. Cfr. ancora in H. De Balzac, Eugénie Grandet pag. 194 questo es.: C’est du café boullu, dit Nanon.

CHOIR.
  pp. 61-62. Choir, dice l’Accademia, non è adoperato che all’infinito presente e al participio passato. […].
  – Grande bête, lui dit son maître, est-ce que tu te laisserais choir comme un autre, toi?
  (H. De Balzac, Eugénie Grandet pag. 36).

GÉSIR.
  p. 207. – Il les tournait aussitôt vers la porte du cabinet où gisaient ses trésors, en disant à sa fille …
  (H. De Balzac, Eugénie Grandet pag. 244).

VERBI IN –NDRE.
  Poindre [nel senso di spuntare, cominciare ad apparire, sorgere].
  p. 279. – Les lointaines espérances qui pour elle commençaient à poindre dans son coeur fleurirent soudain.
  (H. De Balzac, Eugénie Grandet p. 92).

PLEUVOIR.
  p. 329. In senso figurato significa pure affluire, arrivare in abbondanza: […].
  – Il pleut des louis, en sachant ce qu’un rayon de soleil, ce qu’une pluie opportune lui en apporte.
  (H. De Balzac, Eugénie Grandet pag. 7).

PUER.
  p. 349. Ce salon pue le peuple; ne viens-je pas d’y voir des acteurs? Autrefois, ma chère, on les recevait dans son boudoir; mais au salon fi donc?
  (Balzac, in Larousse, Diction. XIII.398 [citaz. tratta da La Paix du ménage]).

QUÉRIR.
  p. 355.
  Requérir […].
  – Si aucun créancier ne requiert du tribunal un jugement qui déclare le susdit négociant en faillite, qu’arriverait-il?
  (H. De Balzac, Eugénie Grandet p. 141).

REPENTIR (se).
  p. 368. – Je ne me repentirai jamais, dit le meurtrier d’une voix sonore et en levant fièrement la tête.
  (H. De Balzac, La femme de trente ans pag. 195).

SUFFIRE.
  p. 429. – Oh! mon Dieu! mon Dieu! comme tout cela s’embrouille. Dit madame Hamel à madame Gargarou, ma pauvre tête n’y suffira pas.
  (H. De Balzac, Le Vicaire des Ardennes pag. 288).

TISTRE.
  p. 452. – Rien de plus naturel, de plus fortement tissu, de mieux préétabli que les attachements profonds dont tant d’exemples nous sont offerts dans le monde entre une une femme comme la marquise et …
  (H. De Balzac, La Femme de 30 ans p. 128).

TRAIRE.
  p. 459. – Aussitôt Eugénie descendit, et courut à Nanon qui trayait la vache.
  (H. De Balzac, Eugénie Grandet pag. 83).

TRESSAILLIR.
  p. 465. – Ce cri échappé à sa femme fit tressaillir le général.
  (H. De Balzac, La Femme de trente ans pag. 191).

Verbi in –UIRE.
  Déduire. […].
  p. 469. – Monsieur des Grassins, après avoir déduit les sommes que lui devait le tonnelier pour l’escompte des cent cinquante mille francs …
  (H. De Balzac, Eugénie Grandet pag. 2914).
  Instruire. […].
  p. 473. – Il fallait donc que j’instruisisse ma sœur de toutes les barrières qui nous séparaient.
  (H. De Balzac, Le Vicaire des Ardennes, pag. 125).
  Produire. […].
  p. 475. – Les lueurs du couchant diversement réfléchies par les masses de différents verts produisaient un magnifique mélange de tons pleins de mélancolie.
  (H. De Balzac, Le Curé de village pag. 81).

VENIR.
  Devenir. […].
  p. 504. – Celle du bien d’autrui qui devenait leur bien par abus.
  (H. De Balzac, Les Paysans II. 6).

VÊTIR.
  p. 510. – Voilà que, quand il arrive en haut du pont qui est sur le torrent, un grand vilain barbu, vêtu tout en noir, le jette dans l’eau.
  (H. De Balzac, La femme de trente ans, p. 160).

VOIR.
  p. 526. – Mais, ma chère enfant, je vais voir l’hôtesse, lui demander la chambre voisine, nous serons seules dans cet appartement.
  (H. De Balzac, La femme de trente ans pag. 227).
  Pourvoir. […].
  p. 530. – Tenez, le voilà qui descend pourvoir aux provisions.
  (H. De Balzac, Eugénie Grandet 68).
  Revoir. […].
  p. 531. – Quand ces yeux qui te revoient avec tant de bonheur seront à jamais fermés …
  (H. De Balzac, Les ressources de Quinola I. 10).

VOULOIR.
  p. 545. – Elle ne vit que pour lui, s’occupe de son avenir, lui veut une belle vie, la lui ordonne glorieuse.
  (H. De Balzac, La femme de trente ans pag. 129).
  – Que me veut-on ? ne puis-je être un moment seul ?
  (H. De Balzac, Vautrin III. 10).

  Giorgio Barini, La donna nella vita e nell’arte di Francesco Liszt, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLVI – Della Raccolta CCXL, Fascicolo 957, 1° novembre 1911, pp. 96-111.
  pp. 105-106. Certo si è che nel romanzo di Balzac Béatrix, ou les amours forcés, in cui sono posti in azione, sotto veli molto lievi, la Sand e la d’Agoult, Liszt, Gustavo Planche, e lo Chopin, in modo tale a far dire al Liszt come, letto quel libro, egli, che credeva conoscer molto bene la contessa, la avesse compresa assai meglio; in quel romanzo, tanto vero, Felicita des Touches (la Sand) è dimostrata già amante del musicista Conti (Liszt), il quale convive con Beatrice di Rochefide (la d’Agoult): una scena violenta tra le due donne sarebbe la riproduzione di quella che il Liszt ricordava, per spiegare la causa del dissenso che aveva turbato la sua amicizia con lo Chopin: «Le nostre innamorate si erano bisticciate e noi, da buoni cavalieri, eravamo in dovere di prenderne le parti».

  Mario Bassi, Intimità balzachiane, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 210, 31 Luglio 1911, p. 3.[8]

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  Nel mese di agosto ricorre il sessantesimo anniversario della morte dell’artefice della Comédie humaine: Honoré de Balzac si spense, com’è noto, a cinquantun anno, la notte dal 18 al 19 agosto 1850. Il giorno dopo, uno dei massimi fogli parigini pubblicava, per tutto necrologio, questa modesta noticina, perduta in seconda pagina, tra l’ingombro delle notizie di politica:
  «Uno degli scrittori più fecondi e più celebri dei nostri giorni, il signor de Balzac, è morto. Le esequie avranno luogo mercoledì 21 agosto, alle ore 11, nella chiesa di Saint-Philippe-du-Roule.
  Il corteo si radunerà nella cappella del quartiere di Beaujou (sic), via Saint-Honoré, 193».
  Non si potrebbe dare una cronaca più scarna e incolore: se alla metà del secolo scorso fossero già esistiti gli Echi di cronaca, verrebbe il dubbio si trattasse di un annunzio a pagamento. Ma ciò che il cronista parigino non crede interessante riferirci, noi possiamo apprenderlo per altre varie fonti, che tutte raccoglie il dottor Cabanés (sic) in un capitolo del suo recente volume su Balzac ignoré: prima di tutto, per le notizie, diciamo, mediche, le note del dottor Nacquart, medico curante e intimo amico dello scrittore, e per le notizie, diciamo con moderna espressione giornalistica, di colore, le impressioni che riferisce Victor Hugo in Choses vues: poche pagine, gravi di accorata tristezza, tanto più frementi di emozione quanto meno appesantite da quella magniloquenza retorica che è caratteristica e spesso vizio dello stile victorhughiano.
  «Il 18 agosto 1850 – narra l’Hugo – mia moglie, ch’era stata nella giornata a trovare la signora de Balzac, mi disse che il signor de Balzac era morente. Accorsi …». Balzac abitava nel quartiere Beaujou, al numero 14 di via Fortunée. Hugo suonò alla porta di strada: «La via era deserta. Nessuno venne ad aprire. Suonai una seconda volta. La porta si aprì. Apparve una fantesca, reggendo una candela.
  «– Che cosa vuole il signore? chiese. Piangeva. Io dissi il mio nome. Ella mi fece entrare nel salone a pianterreno … Un’altra donna sopraggiunse, che anche piangeva, e che mi disse: – Muore. La signora è rientrata in casa. I medici da ieri l’hanno abbandonato. Egli ha una piaga alla gamba sinistra. C’è cancrena. I medici non sanno ciò che si fanno …». E la donna narra l’ultime cure e gli ultimi tentativi e il processo irrefrenabile del male; «… Allora essi (i medici) hanno detto: è perduto! e non sono più tornati. Si è andati da quattro a cinque inutilmente. Tutti hanno risposto: non c’è nulla da fare …».
  Hugo chiede di poter visitare il morente. Gli vien fatto attraversare un corridoio, salire «una scala d’un tappeto rosso e piena d’oggetti d’arte»: è dinanzi a una porta: ne viene un rantolo «alto e sinistro»: è nella camera ove Balzac muore.
  «Un letto era in mezzo di questa camera, un letto di mogano, che aveva ai piedi e alla testa delle traverse e delle carrucole, che davano a vedere un apparecchio di sospensione diretto a muovere il malato. Il signor de Balzac giaceva in questo letto, la testa appoggiata sur un cumulo di guanciali, a cui erano stati aggiunti alcuni cuscini di damasco rosso presi da un canapé nella camera. Egli aveva la faccia violacea, quasi nera, reclinata a destra, la barba non fatta, i capelli grigi e tagliati corti, l’occhio aperto e fisso … Sembrava così l’Imperatore.
  Una vecchia donna (era la madre del romanziere), la infermiera e un domestico erano ritti ai due lati del letto … Un odore insopportabile esalava dal letto …».
  L’odore della cancrena, che dissolveva quel povero corpo idropico: odore di morte, prima che la morte avesse piombato nel bujo quella mente che aveva generato e nutrito un mondo. E i due giganti, che avevano pensato di costituire insieme con Napoleone le somme personalità del loro secolo, furono per l’ultima volta a fronte, nell’umile realtà di quella desolata scena. Non un dialogo platonico sulla fugacità della vita, sulla vanità di tutte le cose: il rantolo senza tregua, sinistro, del morente, il silenzio mesto del povero amico; e nell’aria solo quell’odore, quell’insopportabile odore … Fuori, il vespro d’agosto indugiava, trascolorando su Parigi tumultuosa. Ma di quel tumulto della metropoli – pur tanto meno vasto e meno intenso e meno vivo di quello che aveva suscitato nell’immensa sua opera l’artefice morente, concettore di tutta una società – di quel tumulto non una eco giungeva nella camera remota: lontano l’artefice morente era già dal mondo, come quel mondo, che ignorava quale fiamma si estinguesse con l’estinguersi del giorno, era lontano da lui. Solitudine e silenzio sempre circondano le vette.
  E il giorno dopo, per tutto necrologio, la noticina di cronaca, perduta in seconda pagina di un foglio cittadino, tra l’ingombro delle notizie di politica.
***
  Il Balzac ignoré del dottor Cabanès mi è giunto di questi giorni; e per la quasi coincidenza con l’anniversario della morte del grande letterato, mi è apparso un poco come una commemorazione di lui. Non è un gran libro: è un libro curioso, interessante appunto sotto l’aspetto della curiosità. Il dottor Cabanès è abbastanza noto come autore di opere ch’egli ha chiamato di «medicina storica» – ricordo: Le cabinet secret de l’histoire, Les morts mystérieuses de l’histoire, Moeurs intimes du passé – e di storia medica – Remèdes d’autrefois, Les curiosités de la médecine –; oggi, con questo nuovo studio, egli ferma la sua attenzione su Balzac, considerandolo senza scostarsi dal suo genere preferito: genere di letteratura medico-istorica, cui non conosco confronti in Italia, e che deriva dal suo intento il suo pregio e, al tempo stesso, il suo difetto: intento di volgarizzazione della medicina e della storia; e nulla, come le volgarizzazioni, può riuscire curiosamente interessante per i profani e disaggradevole per gli specialisti. Noi, senza discutere, accettiamo il lavoro del Cabanès per quello che esso vuole essere: accettiamolo come profani di medicina e di storia, e ne troveremo piacevole la lettura, anche se esso manca delle doti desiderabili di profondità scientifica e di eleganza letteraria.
  Il Cabanès prende in esame Balzac come uomo e come letterato: come uomo ne studia i parenti, i primi anni della vita e lo spirito nomade e zingaresco, l’ultima malattia e la morte; come letterato ne studia l’igiene di vita e di lavoro, lo spirito megalomane; pone in luce un Balzac fisiologo, un Balzac occultista, un Balzac chimico e precursore scientifico … Sicuro! il dottor Cabanès ha scoperto, e porta innanzi buone ragioni per sostenere in Balzac un precursore di Cesare Lombroso riguardo alle teorie del delinquente nato, del criminale per abitudine e del criminale d’occasione, e del contagio del delitto –; certo, però questo, di precursore di Lombroso, non sarebbe titolo bastante a formare la gloria d’un letterato, mentre, d’altro lato, io non so quanto possa, come titolo scientifico, avvalorare le teorie lombrosiane il fatto ch’esse hanno avuto a precursore semplicemente un letterato … Ma abbiamo detto di non discutere. E, così, seguendo la prima impressione, io dichiaro che nel libro del Cabanès il capitolo che meglio mi ha interessato è quello dedicato all’«igiene di Balzac». Sotto questo titolo lato il medico autore ha compreso ogni aspetto del tenore di vita del letterato e il suo modo di lavoro e i suoi criteri e i suoi pregiudizi igienici. Già Sainte-Beuve, Taine e Gautier – per non citare che i primi e i maggiori – ci avevano informato su l’uno o l’altro di questi punti: il Cabanès, però, oltre a recare qualche nuovo documento di testimonianze ed altre, per il fatto che si occupa di proposito, e non incidentalmente, dello speciale argomento, e se ne occupa sopratutto dal suo punto di vista medico, ci offre una descrizione e un racconto che nel loro insieme pajono anche più originali che non siano, di cui certo mette conto riferire alcuni particolari ed episodi, che, per quanto assai più curiosi che importanti, illuminano nuovamente qualche atteggiamento dell’intimità balzachiana, e principalmente la inesauribile ma estenuante, febbrile, meravigliosa attività dello scrittore.
  E’ noto che Balzac fu uno dei più ardenti e costanti lavoratori nella categoria dei letterati: basta pensare, per convincersene, che quella piccola biblioteca d’una sessantina di volumi, che forma l’opera sua, fu messa insieme in poco più di vent’anni. Costretto implacabilmente al lavoro, alla produzione forzatamente rapida e intensa dal bisogno – ricordate Taine? «Il denaro, dovunque il denaro, sempre il denaro; questo fu il persecutore e il tiranno della sua vita; egli ne fu la preda e lo schiavo per bisogno, per cuore, per desiderio, per speranza; questo dominatore e questo carnefice lo abbattè sul suo lavoro, lo incatenò ad esso, lo ispirò in esso, lo perseguitò nella sua stanza, nelle sue meditazioni, ne’ suoi sogni, snebbiò i suoi occhi, ammaestrò la sua mano, fuse la sua poesia, animò i suoi caratteri, e sparse su tutta la sua opera i torrenti de’ suoi splendori» –; costretto, dicevo, ad un’eccezionale laboriosità dal bisogno, Balzac sentì la necessità d’imporsi una regola di vita, una disciplina particolare, un’igiene speciale, in grazia alle quali la sua pur robustissima costituzione potesse resistere alla fatica. Il dottor Cabanès dice di non sapere altri, all’infuori di Walter Scott e di Lamartine, che abbiano quanto Balzac surmené il loro cervello; ma Walter Scott soccombette al forsennato lavoro, e, più disgraziato di lui, Lamartine sopravvisse a sé stesso solo per offrire il tragico spettacolo d’una miserabile decadenza fisica e intellettuale. Balzac trionfò di ogni esaurimento per la forza di volontà con cui seppe applicare la disciplina propostasi: semplicissima disciplina, che si compendia in tre parole, che per lui costituirono tre massime capitali e assolute: regolarità, sobrietà, castità.
  Balzac stesso descrive la sua giornata in una lettera alla signora Evelina Hanska, l’ammiratrice appassionata e fedele, la devotissima amica, che, dopo diciott’anni di amore dappresso e da lunge, divenne sua moglie cinque mesi prima che egli morisse: «… Coricato alle 6 ore, dopo pranzato, alzato a mezzanotte, io sono qui, curvo su questa tavola che tu conosci, seduto su questa poltrona che tu sai, presso questo camino che da sei anni mi scalda, lavorando sino a mezzodì. Dopo, vengono gli appuntamenti d’affari, le minute cure dell’esistenza di cui bisogna occuparsi; poi, spesso alle 4, un bagno; poi, alle 5, il pranzo. E ricomincio intrepidamente, nuotando nel lavoro, vivendo in questa veste da camera bianca, con la cintura di seta, che tu devi conoscere …». Così, lontano dal mondo, cui non si concedeva che in rare occasioni, fuggitivamente, Balzac veniva costruendo il monumento di cui ci stupiscono le proporzioni ciclopiche; pensava e scriva, e correggeva e ricorreggeva, inappagato e tormentato non meno dell’Ariosto, non meno di Leonardo; nel silenzio claustrale della sua stanza, non altro che il fruscio della penna scorrente sulle pagine bianche, ricercando ogni cantuccio che potesse ancora comprendere una parola, un segno, nelle bozze di stampa.
  A mezzodì l’infaticato faceva colazione: qualche ovo al guscio, un bicchier d’acqua, e una tazza di caffè, senza zucchero. Balzac, come Napoleone, non beveva vino, o quasi; e, come Napoleone e Voltaire, prediligeva il caffè, ch’era, a suo avviso, l’eccitante cerebrale più efficace; egli ne saltava le doti rare: «Il caffè cade nel vostro stomaco; da questo momento, tutto si agita; le idee si slanciano come i battaglioni della Grande Armata sul campo d’una battaglia, e la battaglia ha luogo. I ricordi giungono a passo di carica, stendardi al vento; la cavalleria leggera delle imagini si spiega con un magnifico galoppo; l’artiglieria della logica accorre con il suo treno e le sue cartuccie; i giuochi di spirito sopraggiungono come fucilieri; le figure si allineano, la carta si copre d’inchiostro, poiché il conflitto comincia e finisce con torrenti d’acqua nera, come la battaglia con la sua polvere nera …». E’ naturale, in conseguenza di questa predilezione, che Balzac vigilasse la qualità, anzi le qualità, e la preparazione del suo caffè, le cui numerose tazze valevano a tenerlo desto e ad eccitarlo nelle lunghe veglie laboriose, con cura del tutto speciale. Andava lui in persona a fare acquisto delle tre qualità dalla cui mistura risultava il suo caffè, in tre negozi diversi, di cui ciascuno era stato eletto dopo ripetuti esperimenti; comperava il Bourbon in via Mont-Blanc, il Martinica in via des Vieilles-Handriettes, il Moca, in via de l’Université. Quindi, ancora lui stesso, volta a volta preparava la bevanda; e non era meno orgoglioso e geloso delle sue ricette di infusione e di decozione, di quello che lo fosse Rossini della sua ricetta per cucinare e condire i maccheroni alla napoletana. Dopo il caffè, la bevanda preferita di Balzac era il tè. Egli ne usava una qualità che dichiarava essere quella riservata al Figlio del Cielo! La Cina non avrebbe prodotto di questo tè se non in una sola provincia, e questa provincia non ne avrebbe fornito che poche libbre, riservate a S. M. Imperiale e ai figli primogeniti della sua augusta casa; però, per concessione specialissima, l’Imperatore della Cina ne avrebbe inviato alcuni pacchetti allo Zar di Russia; e sarebbe stato per mezzo di un ministro di questo Sovrano e di un ambasciatore amico che il tè incantato sarebbe giunto al letterato. Il quale esigeva un’opportuna iniziazione per farne gustare, ma di rado, ai profani; e usava avvertire, perché non replicassero la tazza, che, senza scherzi, a prenderne tre volte si diventava orbi, e sei volte si diventava ciechi; al che un invitato, un giorno, graziosamente rispose, sporgendo la tazza:
  – Arrischio un occhio; ma versate!
  Non si riesce a stabilire con certezza se Balzac avesse l’abitudine o no del tabacco. Lamartine scrisse che egli aveva «i denti ineguali, rotti, anneriti dal fumo dello sigaro»; ma Balzac stesso scriveva nel 1833, in una lettera alla signora Hanska: «… io non ho mai conosciuto l’ubriachezza se non in conseguenza di un sigaro che Eugène Sue mi ha fatto fumare mio malgrado». Gautier afferma che «Balzac malediva la pipa e condannava lo zigaro … Il narghilè asiatico solo trovava grazia presso di lui, e ancora a Balzac sono attribuite queste affermazioni: «Lo zigaro infesta l’ordine sociale» e «il tabacco distrugge il corpo, attacca l’intelligenza e inebetisce le nazioni»; mentre d‘altro lato, il dottor Tripier testimoniava personalmente al Cabanès che Balzac annusava tabacco nel modo più sregolato e graveolente, citando il caso che all’esposizione dell’Hôtel de Ventes, dove egli si recava quasi tutte le domeniche, verso il 1844, lo sentiva all’odore prima di avvistarne l’immenso fazzoletto a quadri azzurri e rossi … Dunque? E’ ragionevole concludere che se Balzac si concedeva il vizio del tabacco da naso, detestava però quello del fumo; e che l’affermazione di Lamartine non è che una semplice induzione, cui l’autore delle Méditations fu tratto osservando i denti di Balzac, i quali erano sì, in pessimo stato, ma in conseguenza del gelo e dell’umido che il romanziere, fanciullo, aveva sofferto in collegio a Vendôme e più tardi nella soffitta di via Lesdiguières; scrivendo di qui alla sorella egli diceva: « … ho avuto … spaventosi dolori di denti. Ad essi è seguita una flussione che presentemente mi rende mostruoso». E che Balzac non amasse il fumo, lo potrebbe anche dimostrare il fatto che dei personaggi, ch’egli, vivificandoli, ci ha descritti in ogni loro più secondario atteggiamento, nessuno fuma, nemmeno quelli nella cui personalità potrebbe logicamente e, magari, efficacemente rientrare quest’abitudine: né Vautrin, né Trompe-la-Mort, né Rastignac, né Rubempré: solo Marsay, eccezionalmente, «ètait (sic) occuper à fumer des cigares»: è l’unico cui il suo autore conceda questo vizio; ed evidentemente non è a lui che lo concede, ma al suo dandysmo tipico.
  Un punto sul quale non pare possa nutrirsi dubbio, è la casta astinenza dell’autore di Béatrix. Il signor Ferry ha potuto scrivere un libro su Balzac et ses amies; il visconte di Lovenjoul nel suo Roman d’amour dichiara che Balzac tentò l’impossibile per creare la leggenda … de’ suoi costumi d’anacoreta, e lo accusa di avere «tentato di abusare della credulità di quelle donne che si illusero di conquistare il suo unico amore»; ma le amiche di Balzac appajono troppe volte proprio soltanto tali, circonfuse di veli di sentimentalismo platonico, veli che sono barriere a tutto ciò che non è sentimentalismo e platonismo; e il visconte di Lovenjoul afferma e insinua senza addurre né testimonianze né prove. Mentre, per contro, una donna – e questo forse è il caso in cui la testimonianza d’una donna, quale donna! ha valore speciale – George Sand scrisse: «Sobrio sotto tutti gli aspetti, egli (Balzac) era di costumi purissimi, avendo sempre condannato il disordine come il nemico dell’ingegno, e amato quasi sempre le donne unicamente con il cuore o con la testa, anche in giovinezza». E Gautier convalida: «Egli ci predicava una strana igiene letteraria. Bisognava …, vivere sopratutto nella castità più assoluta; egli insisteva molto su questa … raccomandazione. Secondo lui, la castità reale sviluppava in sommo grando (?; sic) le potenze dello spirito, e dava a coloro che la praticavano facoltà nuove. Noi obbiettavamo timidamente che i massimi geni non si erano vietato né l’amore, né la passione, neppure il piacere, e citavamo nomi illustri. Balzac scuoteva il capo e rispondeva: – Essi avrebbero fatto ben altre cose senza le donne! – La massima concessione che egli ci accordò, e rimpiangendola ancora, fu di vedere la persona amata una mezz’ora all’anno. Egli permetteva le lettere: queste valgono a formare lo stile». E Balzac scrisse molto, anzi, moltissimo alle donne. Per formarsi lo stile? Con il Cabanès io credo, piuttosto, per dare effusione a quell’esuberanza sentimentale che in lui teneva il posto della sensualità. La testimonianza surriferita del Gautier è irrefutabile, e, del resto, corrisponde con ogni più certa notizia che noi abbiamo sul modo di pensare e di sentire, a questo proposito, di Balzac. Egli si attenne sempre, impeccabilmente, ai suoi principii? Homo sum …– avrà pur detto anche lui in qualche ora di tregua e di abbandono; e il Vangelo ammonisce che solo chi è senza peccato … Ma resta, capitale, il fatto che egli quei principii affermò, e praticò in linea di massima; e resta, interessante, questo giudizio ch’egli esprimeva su Victor Hugo in una lettera alla signora Hanska: «Egli ha molto perduto delle sue qualità, della sua forza, del suo valore, per la vita che ha condotto: egli ha assai amato».
***
  Nella placidità degli ozi estivi, il rievocare l’austera infaticata attività balzachiana, suona un poco rimprovero e molto ammonimento a colui che, resupino sull’erba, segue con l’occhio la nuvola fuggente, l’ondeggiar d’una frasca, e, bocconi, scruta il meraviglioso mondo che s’accoglie e vive intorno ad un filo d’erba … Mah! Quando l’artefice della «Comédie humaine» giacque sul suo letto di morte, fu chiamato un modellatore, perché riproducesse in gesso lo stampo della sua mano: una grassoccia, non sottilmente aristocratica, ma regolare e affusolata mano. Il modellatore, rimettendo alla famiglia, insieme con l’eseguito lavoro, la nota delle spese, segnò in essa il nome dello scrittore, così: «Monsieur Balzaque».
  Ahi, gloria! una sessantina di capolavori non bastano a salvare il proprio nome dal ridicolo di una storpiatura, su di una nota da pagare!

  Francesco Biondolillo, La Macaronea di Merlin Cocai. Saggio critico, Palermo, Libreria Editrice Ant. Trimarchi, 1911.
  p. 183. Dicesi che Balzac stesse lungo tempo a trovare i nomi dei suoi personaggi e che, trovatili, non potesse più essere in sé per la gioia. Lo stesso, credo, si potrebbe congetturare a proposito del Cocai.

  Emilio Bodrero, La crisi estetica, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLI – Della Raccolta CCXXXV, Fascicolo 937, 1° gennaio 1911, pp. 100-109.
  p. 104. Diceva Voltaire: «Le roman est la production d’un esprit faible, écrivant avec facilité des choses indignes d’être lues des esprits sérieux». […]. Rammentando queste espressioni, pensando che non ostante l’opinione del Voltaire son glorie dell’arte Balzac e Flaubert […].

  G.[iuseppe] A.[ntonio] Borgese, Cronache letterarie. Eterne leggi, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 18, 18 Gennaio 1911, p. 3.
  [Su: Clarice Tartufari, Eterne leggi, romanzo].
  Quella mentalità sociologica e scientifica ha già un che d’arretrato: ma basta pronunciare in astratto la parola «romanzo» perché si presentino alla nostra memoria in tutta la loro concretezza, le opere di Balzac, di Zola, di Verga.

  G. A. Borgese, Cronache letterarie. Un romanzo inedito di Balzac, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 113, 24 Aprile 1911, p. 3.[9]

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  V’è subito qualcosa che commuove in questo romanzo inedito di Balzac: ed è la breve storia della sua origine. Amico intimo della signora Talleyrand-Périgord, duchessa di Dino, lo scrittore immortale, – così narrano gli editori, – volle offrire un dono prezioso. Scrisse dunque L’amour masqué, ovvero Imprudence et bonheur, e glielo diè manoscritto. Per più di mezzo secolo, il piccolo libro rimase ignorato nella biblioteca dei Talleyrand, finchè il figlio della duchessa non ne fece dono a uno studioso, Luciano Aubanel, il quale a sua volta l’ha ceduto a un editore. Or ecco sessantun anni dopo la morte di Balzac, ancora una primizia: una primizia di questo scrittore da cui tutti i prodigi potevano aspettarsi, fuorchè quello dell’inedito. Lavorando sotto la frusta dei creditori, e in preda al tormento di necessità senza tregua, suscitando in diciotto ore di fatica diurna e notturna centinaia di personaggi e migliaia di eventi che parevano procedere da una superba volontà creatrice e rifluire verso la vita invece di muoversi dalla vita vissuta verso la mente di un osservatore, come potè questo gigante schiavo mettersi in vacanza per fare la gentile sorpresa alla duchessa di Dino? Una gentile sorpresa che era tutto un piccolo libro? Forse e senza forse egli l’ha scritto in un sol giorno e ha creduto di riposarsi, come un pittore che la sera in un crocchio di amici abbozza delle caricature, come il poeta che per bizzarria combina un acrostico. Egli che intrecciava le passioni senza averne, talvolta, meditato la catastrofe, che descriveva l’ambiente senza ancora conoscere con assoluta precisione i personaggi che l’avrebbero popolato, che inventava il mondo senza aver avuto il tempo di guardarlo, e mandava il romanzo prima di averne meditato il titolo, egli, che secondo l’umile ragione dei più, avrebbe dovuto attendere un giorno d’ozio come un saturnale, si riposava scrivendo un romanzo per giuoco.
  Questa è la cosa che fin dal principio commuove nel romanzo inedito di Balzac. E’ l’uso di quei piccoli fatti che rendono ragione di tutta una grande vita. La servitù di questo Ercole era anche la sua divinità: compiute le dodici fatiche, ne escogitava una tredicesima per suo sollazzo. E questo è il facile segreto – facile ad intendersi, arduo ad imitarsi – di tutti i grandi lavoratori tormentati. Essi han sempre saputo, come seppe Balzac, mettersi al lavoro per un triste bisogno, e continuare a lavorare con una superbia gioia. Una sola emozione gli occupava il cervello; e se per un istante quella emozione era il disgusto della necessità, subito dopo soverchiava l’orgoglio della creazione. Ciascuno in verità cerca le catene che gli convengono: Alfieri si fa legare alla seggiola per scrivere tragedie, Balzac si dà mancipio ai creditori per comporre la Comédie Humaine. Ed è stolto andare indagando che cosa mai avrebbe scritto di perfetto Balzac, se avesse avuto ordine e tranquillità nella sua vita. Non era nato per levigare la frase e per comporre con euritmia: deplorare la mancanza dell’ordine lapidario di Flaubert nella prosa di Balzac è peggio che andar cercando le farfalle sotto l’arco di Tito. La sua scultura è di torsi, il suo disegno è di abbozzi: il ritmo frenetico della sua vita economica e morale è anche quello della sua fantasia. Tra l’uomo e l’opera non v’è discordanza; e si direbbe con una formula paradossale, nella quale è pure un granello di verità, che Balzac non scriveva frettolosamente i romanzi per poter pagare i troppi debiti, ma contraeva troppi debiti per potere scrivere frettolosamente i romanzi.
  Il proprio della sua natura era quell’instancabile voluttà del favoleggiare; e non se ne potrebbe addurre prova migliore di questo piccolo romanzo, scritto non per necessità di denaro né per ispirazione di genio, ma per galanteria e per giuoco.
  Si sente che è stato scritto per giuoco. Vulcano, sdraiato, scherza con gli attrezzi della sua fucina. Si sente anche l’eco di qualche conversazione mondana, tra sofistica e sentimentale. La conversazione, a quanto possiamo supporre, è di quelle che udrebbe con appassionata curiosità Ada Negri, la quale pochi giorni or sono sosteneva la tesi che la donna non ha diritto al matrimonio, e nemmeno ha diritto all’amore, che son poi cose illusorie e malvagie, ma ha diritto alla maternità. Ogni donna anche senza matrimonio, anche senza legami costanti abbia un figlio: e la società la rispetti. Balzac, no, non è di questa opinione; ma comprende che in un momento di fantasticheria ultra-romantica, una donna possa pensare così. Il romanzo si aggira tutto quanto su questa stravaganza della bellissima madame Roselis. Ella è nata in paese d’oltremare, ha sposato un colono ricchissimo e crudele ed abbietto; ha avuto le schive negre per rivali; è rimasta vedova a venticinque anni, è venuta in Francia con un audacissimo proposito; poiché dell’amore ella conosce tutto il male e soltanto il male, vuole ora esperimentarne tutto il bene e soltanto il bene, cioè la maternità. Qualche cosa di simile avviene nella Confessione di Massimo Gorki, e non ricordo se avvenga, ma potrebbe avvenire in qualunque dramma d’avanguardia. Ma in Gorki e nei drammaturgi moderni le donne che hanno questo ubbio per il capo, negano tutta quanta la società, e le si volgono contro, scapigliate e ribelli, mentre Balzac che ha voluto scherzare ha fatto di madame Roselis una donna ricca, giovane, bella, corteggiata, ricevuta nel mondo. Ella ha una sola ragione di farsi parte per sé stessa – il desiderio della maternità senza matrimonio –; per tutto il resto la Società, così organizzata com’è, non le spiace. Cerca dunque di mettere d’accordo il diavolo con l’acqua santa, d’essere lasciva nei balli, in maschera, casta nei salotti di Parigi, madre in una villa di provincia. Proprio in un ballo in maschera ha conosciuto il bel signor De-Preval (sic), ufficiale languido e ardente, rispettoso ed audace. La mascherina gli consente di sperare; poi, assunte opportune informazioni sul suo conto, e convintasi che da lui può nascere una creatura sana d’anima e di corpo, lo attrae in un romanzesco agguato: lo invita in una casa misteriosa e solitaria ove egli giunge accompagnato da un negro, e con gli occhi bendati, e, velata, irriconoscibile, gli si dà.
  Appunto questa rivoluzionaria stramberia mista a questa più che conservatrice cura delle convenienze sociali, mostra l’animo scherzoso dello scrittore. S’egli avesse preso sul serio i sentimenti della sua eroina, non avrebbe penato un istante ad accorgersi come una donna, la quale osa distinguere fra la maternità e l’amore e si concede premeditatamente a un uomo ch’ella non ama e che non l’ha mai guardata nel volto, non possa poi pensare quel che pensano tutte le altre donne: cioè che la castità e l’onore sono una sola cosa. Se ha avuto cuore di trasgredire il più imperioso dei divieti sentimentali, deve anche aver cuore di trasgredire i piccoli divieti sociali. Ricca e indipendente com’è non deve importarle nulla di peccare pubblicamente e non deve nascondere in provincia la figlioletta, frutto di un peccato che le è gloria, ma deve condurla a passeggio per i giardini di Parigi, esempio ed ammonimento alle donne che non sanno spezzare le catene. Deve essere insomma una Furia, e non una Grazia.
  Tutto ciò Balzac lo sapeva mille volte meglio di noi. Ha voluto mantenere la contraddizione per trastullarsi, ed ha introdotto una tesi tragica che fa pensare ad Ibsen in una storiella galante che ricorda De Musset. Con quale futile artificio s’intrecciano gli eventi gloriosi e lacrimosi! La bella Roselis, che è già tutta quanta nel suo dolce nome (splendore di rosa e candore di giglio) s’è permessa quella sua scappata di carnevale con perfetta innocenza, e non ha creduto di far male, ed è sicura che ogni cosa anderà per la sua china. Ma il bel signor De Preval, se è perfetto cavaliere, fino al punto di mantenere scrupolosamente la parola data a una donna ignorata, e da non strapparle né la maschera né il velo, è anche amante perfetto e languisce come un tenore, e non si darà pace finchè non s’imbatta nella morte gloriosa o nella felicità misteriosa. Eccolo dunque, nella guerra di Spagna, gravemente ferito, disperso, curato da mani benefiche; costretto a fuggire, reduce in Francia. Lo strapazzo della lunga via lo rimette in pericolo di vita; chiede asilo alla prima casa che sembri ospitale. E qual è mai questa casa se non quella ove vivono madame Roselis e la bambina? E com’è possibile che madame Roselis non curi il ferito così amorosamente da innamorarlo? Il più straziante dei conflitti passionale da opéra comique spacca in due il ben fatto essere del signor De Preval: si manterrà egli fedele alla ignota che l’ha fatto padre di una creatura ignota, o amerà la bella provinciale che gli ha ridato la vita? Fortuna che la bella provinciale e l’amante ignota, l’infermiera e la maschera sono tutt’una. I sentimenti per breve ora in contrasto si unificano in un leggiadro finale; e un bel matrimonio, in cui alle solite benedizioni del cielo – ricchezza, gioventù, beltà, passione – s’aggiunge anche la paternità preventiva, corona questo bell’edificio di stucco dorato.
  Vulcano ha scherzato dunque coi suoi arnesi; Balzac ha mostrato ancora una volta di saper essere futile e leggero, di saper sorridere pur sentendosi gravato dal peso di tutto un mondo. Ha dato così – ancora una volta – il segno della sua forza sovrumana, che come tutte le forze di quell’empito, come quella di Shakspeare (sic), per esempio, sa divenire obliosa di sé stessa e compiacersi perfino di una favola assurda o di un folle giuoco di parole. Talvolta nell’Amour masqué i motivi spiritosi e concettosi si allineano in così gradevoli simmetrie che di momento in momento parrebbe dovesse scoccare una rima: la rima di De Musset.
  Ma non era questa la possibilità di Balzac. Per scrivere un perfetto idillio tra sentimentale e scherzoso gli mancava, oltre alla grazia dello stilista, l’indifferenza dello scettico. Anche nell’Amour masqué s’affaccia di tanto in tanto il moralista Balzac, e guasta lo scherzo. Pur mentre si balocca, egli vuol farci sapere che non l’ha abbandonato la fede nella necessità della legge morale e sociale; che madame Roselis è stata imprudente a giuocare in quel modo con l’amore e con la maternità; che tutto le è andato bene e che Balzac era di buon umore quel giorno, ma che, se Balzac avesse fatto sul serio, una ben’altra catastrofe avrebbe conchiuso la sua folle avventura. E nell’ultima pagina, negli ultimi righi, la tesi sociale riassume il sopravvento: «non ne parliamo più, soggiunse la signora Roselis, ne sono ben persuasa, oramai; solo a spese della sua felicità una donna può tentare di rompere le gravi catene che furono imposte al suo sesso». Riemerge l’incessante preoccupazione di Balzac che è poi tutta quanta la sua arte: quella dell’individuo in una società che fermenta. Lo scherzo è già dimenticato; la domenica del creatore è finita.

  G. A. Borgese, Cronache letterarie. Un giovane, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 120, 1° Maggio 1911, p. 3.
  [Su: Vincenzo Gerace, La Grazia].
  Questo è il modo di raccontare di un solitario e di un provinciale: di uno che ha letto molte volte l’Inferno dantesco e ha letto poco Balzac e Flaubert. I personaggi e gli eventi sono visti di scorcio, illuminati di sbieco e subito risommersi nel mistero.

  G. A. Borgese, Cronache letterarie. Un evangelista di Tolstoi, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 201, 22 Luglio 1911, p. 3.
  [Su: Romain Rolland, Vie de Tolstoi].
  Che Guerra e Pace e Anna Karenina, che la Sonata a Kreuzer e la Morte d’Ivan Ilic siano capolavori di prim’ordine, non è una affermazione che basti ad esaurire la personalità di Tolstoi. Capolavori sono anche quelli di Balzac e di Flaubert; capolavori, e forse di lega più pura, sono quelli di Dostoievski.

  G. A. Borgese, Cronache letterarie. L’Impeccabile, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 294, 23 Ottobre 1911, p. 3.
  Veramente tutti i modi spirituali di Gautier divennero mode, e, sebbene il suo genio fosse molto minore di quello di un Hugo, di un Balzac, di un De Musset, la sua seduzione fu più tenace, la sua efficacia più diffusa.

  Giosuè Borsi, Il Diadestè. Apologo in un atto e in versi (da Onorato di Balzac), «Acropoli. Rivista mensile di cultura», Firenze, La Rinascita del Libro, Casa editrice italiana di A. Quattrini, Anno I, Volume VI-VII, Giugno-Luglio 1911, pp. 542-560.
  Questo apologo in un atto e in versi discende direttamente dal Post-scriptum alla conclusione della Méditation XXX della Physiologie du mariage[10] che riprende il racconto Jadesté pubblicato, fra il 1801 e il 1809, da François Noël e da Pierre-Bernard de Lamare nell’Almanach des prosateurs.


  Emilio Cecchi, Il segreto di Flaubert, «La Voce», Firenze, Anno III, N° 21, 25 Maggio 1911, pp. 577-578.[11]

  p. 577. O il Flaubert di Madame Bovary, che purifica, affina il metodo di Balzac, sgombra dalla scoria ciò che in Balzac restava contaminato, e piega garbatamente ciò che là era contorto, e definisce ciò che là era approssimativo?

  Emilio Cecchi, Cronache di letteratura. Teofilo Gautier, «La Tribuna», Roma, Anno XXIX, I Settembre 1911, p. 3.[12]
  Balzac? Possibile passare accanto a Balzac senza essere scossi dalla convulsione della sua forza? Possibile vivere accanto a Balzac senza essere assordati dallo scroscio della sua vita formidabile? È come star su una corazzata che spara fiancate con tutti i pezzi, e non sentire rumore e credere di sedere in una poltrona di velluto rosso, alle Folies Bergères. E Gautier riesce a questo incredibile tour de force di placidità, di stare accanto a Balzac senza sentire la Commedia Umana.
  Tutto ci descrive Balzac: la fisionomia, l’andatura, la piccola mano di canonico aristocratico, i capelli, la fronte maestosa, la gran tonaca di cascimirra, la catena d’oro a cintola con appesi le forbici d’oro e il sigillo d’oro, la casa, il piccolo misterioso saloncino rotondo tutto imbottito di velluto cremisi … Ci narra di Balzac che passeggia, di Balzac a tavola, di Balzac nel bagno, di Balzac a lavoro, ma non del Balzac che ci importa. […].
  In nessun’altra epoca si sono viste produzioni cacciate, ventre a terra, all’andatura vertiginosa alla quale cacciava avanti la sua produzione disperata Balzac. E badate che Balzac fu di quelli che soffrirono meno da questa fretta, da questo premere di bisogni, pel fatto stesso che era nel carattere della sua opera di essere la negazione della liricità, della concentrazione; di essere, pagina per pagina, comune, e piatta, per riuscir vera nel complesso, come la vita, giorno per giorno, è piatta e comune, e ciò non ostante, quando ci voltiamo a guardarla nel suo insieme, la ritroviamo composta misteriosamente nei drammi più concitati, sollevata nei più vivaci contrasti, animata dei significati più reconditi e profondi.

  Emilio Cecchi, Cronache di letteratura. Balzac giornalista, «La Tribuna», Roma, Anno XXIX, 31 Ottobre 1911, p. 3.[13]

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  Non bisogna mica immaginare che gli scritti balzacchiani, pubblicati recentemente da Louis Lumet, in una collezione di «Curiosità letterarie e pagine poco note», edita dalla Bibliopolis rappresentino qualcosa di fondamentale, per la conoscenza perfetta dell’autore della Commedia Umana. No, ma essi pure, nella loro esiguità a momenti sbadata, sono qualcosa che sa interessarci in modo straordinario, come tutto ciò che si accompagna alla nostra conoscenza dalla suggestione immensa ed ancor poco precisata del nome di Balzac.
  Consistono in un Trattato della vita elegante (pubblicato nella «Moda», nel 1830), di una Fisiologia del rentier parigino e di un’altra dell’Impiegato. Infine, di due articoli minori, intorno ai Boulevard (sic) di Parigi ed a Parigi che dispare. Sono composti, in gran parte, all’epoca dei primi saggi non rinnegati dall’autore, che usciva allora dalla spaventevole serie di quaranta e più romanzi, anonimi o pubblicati con nomi falsi, la quale riempì lo spazio di tempo che corre fra le sue disastrose esperienze commerciali, Les Chouans e infine la deliziosa Maison du chat qui pelote. L’editore ha arricchito il volume di queste ristampe, con atroci e grottesche caricature di Daumier, di Gavarni, di Bertall. E promette un volume di schizzi e saggi letterari, nel quale presto studieremo comodamente Balzac sotto gli aspetti specifici del critico e del polemista.
  Oggi, intanto, lo vediamo sotto l’aspetto di virtuoso improvvisatore. Aveva capito bene Sainte-Beuve, e lo rese chiaro in alcuni articoli critici, che cosa fosse veramente la così detta «erudizione» di Balzac, quella erudizione che il Taine, un po’ leggermente, prese per qualche cosa di positivo, di scientifico, di documentario, ma che il Brunetière, in quel suo volume del 1906 che è forse il lavoro più equo ed acuto, uscito intorno a Balzac, mise definitivamente nel suo vero valore. I balzacchiani ebbero torto a rifarsela con le riserve che il Sainte-Beuve espresse, forse, con acidità, ma che in fondo non contribuivano che a dar maggior risalto alle qualità inventive del romanziere.
  Balzac avrebbe, sì, voluto partir sempre dalla documentazione precisa del materiale primo che doveva servirgli per costruire i suoi romanzi, avrebbe voluto veramente seguire, come scrisse nella Prefazione alla Commedia Umana, il metodo di Saint-Hilaire e di Cuvier. Fosse riuscito a questo, di cui la sua arte non aveva però bisogno, il corpus delle sue conoscenze di fatto avrebbe costituito davvero la «erudizione» di cui parla il Taine. Ma le necessità della sua produzione vertiginosa furono tali da obbligarlo a sfruttare fino all’inverosimile le sue esperienze, mentre gli limitarono il proseguimento della «documentazione» che sarebbe appunto consistita nella diretta partecipazione nella vita. Non so più chi ha detto, secondo me, con molta verità: «Balzac non ebbe tempo di vivere». Che, in altre parole, potrebbe significare, non ebbe tempo di documentarsi.
  Non ne ebbe tempo, ripeto, perché non ne ebbe bisogno.
  Egli procedeva, ed era naturale, non dall’oggetto, osservato con occhio scientifico, alla rappresentazione, sibbene da una intuizione primitiva, generica e vilupposa all’intuizione definitiva, limpida e perfetta. E poiché era costretto a produrre in quantità enormi, e con rapidità febbrile, non poteva sempre raschiare dalla sua opera tutte le opache tracce della prima, a fianco dei segni guizzanti e luminosi della seconda. Si vede sempre che quando egli fa pompa dei cosidetti «documenti», in realtà, è quando non ha ancora trovato come mettersi davanti al suo lavoro, quando è ancora freddo, quando la fornace interiore è ancora spenta. Come descrisse efficacemente Taine, egli veniva, poco a poco, con pazienza feroce, ravvivandola, cacciandovi dentro di tutto. Perché il suo metodo, veramente, fu questo: togliersi dall’incertezza che gli proveniva dalla stessa esasperazione della sua fecondità, buttandosi dapprima su rappresentazioni di ambienti, di fisionomie, di luoghi, ammassando quanto più materiale fosse possibile, il molto inutile ed il poco utile, con abbondanza che a momenti ci soffoca e ci respinge. Ad un tratto, il suo cervello si metteva in moto la sua fantasia si accendeva. E allora egli lasciava in asso le descrizioni e le documentazioni, per creare con quella sua vigorosa maniera sommaria che dà al lettore un piacere tanto dinamico. Osservate come i suoi ambienti sono quasi sempre dipinti totalmente, romanzo per romanzo, una volta per tutte, e non ritoccati, abbelliti, spostati nelle varie luci, pagina per pagina, come facevano, per esempio, Maupassant e Zola. Maupassant, Zola, sì, si documentavano. Zola che, secondo molti, nonché secondo se stesso, fu il continuatore di Balzac, volle trovare appunto nella rappresentazione realistica degli oggetti e dei fatti, in uno stile tutto cose, la sua forza di suggestione principale. Rammentate la sua simpatia per Manet, per Cézanne, e gli altri impressionisti, che, come lui, volevano rifugiarsi nella natura, nell’oggetto in sé. Quel che Zola non ha, e Balzac invece ha in sommo grado, è ciò che differenzia appunto la documentazione dall’invenzione, la facoltà di crear situazioni nuove, movimento, vita. Con tutto il suo naturalismo e realismo, egli riesce infinitamente più letterario di Balzac. Dà cose immobili, personaggi schematici, non turbine di vita. Il suo mondo è puramente animale, e in Balzac, invece, sopra le rappresentazioni pedestri, sopra le accidentalità sgomentanti di un’opera mostruosa, dove il sublime è mescolato al ridicolo, e il grottesco è spesso preposto al meraviglioso sta la concezione di un mondo umano, convulso, tragico ma pure nella sua eccezionalità, tutto organizzato …
  Importa persuadersi che la vita dell’opera di Balzac non è dovuta in nulla alla fedeltà a «documenti», non alla rappresentazione dell’oggetto in sé, non al metodo di Saint-Hilaire, che quest’opera va guardata dalle frenetiche sommità delle passioni dei personaggi mostruosi che vi son rappresentati, che Balzac è vero, in quella misura ch’è lirico, cioè, arbitrario.
  Tutto ciò ch’egli può fare, quando la sua fantasia non è riscaldata, quando il suo cuore dorme, quando il suo interesse non è suscitato, quando egli osserva e appunta semplicemente, è mostrare la sua bravura di uomo di spirito, la sua sagacia di scrittore capace di fare echeggiare il vuoto dei concetti più comuni con tutte le sonerie di un vocabolario straordinario, in altre parole, ciò che egli fa nel Trattato della vita elegante, nella Fisiologia del rentier e negli articoli della serie di cui vi ho parlato privi di seria volontà inventiva, con un diffuso carattere slegato nella loro frequente bellezza, lo stesso carattere dei quaderni di abbozzi sui quali un pittore fissa gli aspetti di qualche oggetto per illudere le ore di distrazione dalle sue fatiche maggiori.
  Parte da un motto di spirito, da una trovata paradossale, da una classificazione caricaturale, e avviluppa, poco a poco, le cose più comuni, delle fila della sua eloquenza; qualche volta con un lavoro forzato, slavato, grigiastro, più spesso con precisione miracolosa, tessendo filigrane nitidissime ed eleganti. Fa un’opera di reticolato, di ricamo, per entro la quale quelle cose banali, se restano, in sé, quel che sono, appaiono abbellite, trasparendo dall’intrico fantastico e luccicante. Sa renderle in qualche modo imprevedute, sa accidentarle. La sua fantasia disoccupata giuocando sur uno scacchiere monotono, riesce pure a crearvi una qualche bizzarra e nuova combinazione.
  Ecco che egli ritrae l’«antropomorfo» rentier in giro mattinale per le vie di Parigi.
  «Piantato intrepidamente sulle gambe, come si piantano i suoi pari, assiste, a naso ritto, alla caduta di una pietra, sotto la quale un manovale fa forza, con una leva, in cima a un muro; e non va via, finché la pietra non sia caduta: ha fatto un patto segreto seco stesso e con la pietra, e quando la caduta è compiuta se ne va, eccessivamente felice, come sarebbe felice un accademico, per la caduta di un dramma romantico».
  Il patto segreto, la caduta accomplie, l’eccessivamente felice, sono invenzioni minime, ma serban nella loro tenuità l’impronta del sigillo regale; trovate da grande scrittore, costretto o costrettosi a batter l’oro delle scioccherie in mille eleganze e mille finezze, a «laminare dei nulla», come dice appunto Balzac in una sua frase di genio, sempre a proposito del rentier che, nelle ore di ozio, fra colazione e pranzo, «dora i suoi minimi istanti di una felicità meravigliosamente inutile, vasta e senza profondità».
  «Alle nove il boulevard si lava i piedi su tutta la linea, le botteghe apron gli occhi, mostrando uno spaventevole disordine interiore. Pochi momenti dopo è affaccendato come una civettuola, alcuni paletots intriganti solcano i suoi marciapiedi … Verso le undici i calessi corrono ai processi, alle esattorie, agli studii legali, scarozzando dei fallimenti in boccio … degli intrighi dalle fisonomie pensierose …, delle felicità assonnate nella redingote abbottonata …».
  La traduzione vi sembra insopportabile? E avete ragione. Fra la nostra lingua e la francese già tanto è ampio il tratto che, passando da una all’altra, queste futilità stupende si sconnettono, si appesantiscono. La loro grazia, perfetta di vivacità ridente e maliziosa nel francese, si scombina in elementi volgari. Le trasposizioni immaginose si sciolgono dalle loro inespresse relazioni, sottili e valide di ironica nervosità. La libertà consentita nella lingua violenta di Shakespeare è certo ben lontana dalla compostezza inseparabile dalla lingua di Foscolo. Ma la lingua nella quale scriveva Balzac sembra poter partecipare della libertà di quella, e, a un tempo, della quadratezza di questa altra.
  Effetto analogo all’effetto che si prova estraendo quelle brillanti frasi descrittive dalla loro naturale atmosfera, si ha slacciando anche un momento gli assiomi fondamentali, nei quali Balzac formula la sua teoria dell’eleganza, dal contesto mondano e paradossale. Ci sono, nel Trattato della vita elegante, motti acuti, osservazioni che rivelan la potenza psicologica dell’autore della Fisiologia del Matrimonio e di Eugenia Grandet. Ma vanno lasciati al loro posto. Valgono come teoremi sognati. E il pregio principale dell’operetta è stilistico, con quella sua comica impostatura teoretica, e con già nelle prime pagine il presentimento della rapidità indiavolata con la quale nella Fisiologia sarà fatto lo stupefacente conteggio delle donne autentiche di Francia e la loro separazione dalla plebe delle donne spurie. Manca del tutto la portata profonda di questa Fisiologia, dove i lettori che conoscono Balzac hanno saputo facilmente ritrovare, dissimulato sotto il riso moderno un caldo amore della serietà e della spontaneità degli affetti antichi; e sotto la licenza del rivoluzionario la satira del reazionario. Gli articoli sul rentier e sull’impiegato, ordinati e partiti secondo classificazioni di genere e specie, uso Linneo e Cuvier, son piacevoli essi pure, e mostrano come Balzac si fosse facilmente impadronito delle caratteristiche caricaturali di classi che, si può dire, nascevano allora nel tipo nel quale oggi le vediamo.
  Piacevolezze, macchiette, bravure, cavatine insomma, ecco il contenuto di queste pagine di giornalismo balzacchiano, e, sopratutto, quel che Balzac soleva prodigare scrivendo a freddo: teorie.
  Qui, naturalmente, son teorie spicciole, data la levità degli argomenti; teorie da burla, ironiche, teorie che si mangian la coda. Balzac le rizza e le disfà, a quel modo che si costruisce un castello di carte per buttarlo giù con un biscottino. Ma il giuoco si svolge con tanta eleganza che non vi adontate della sua futilità, del suo continuo risolversi in nulla.
  Ghirigori che lo scrittore stupendo segnò alla brava, non li paragonereste alla minima delle opere nelle quali sentiste passare un soffio della sua anima commossa. Ma vi guardereste bene dal trascurarli. E forse li preferite al capolavoro di uno scrittore di secondo ordine, perché se, come il fregio alla base delle colonne, come le modanature in cima la mole dell’edificio, restano quasi fuori della Commedia nascosti dalla sua massa enorme, schiacciati nell’ombra, perduti, all’occhio di chi li ricerca amorosamente si scuopre, sempre in qualche tratto vigoroso, in qualche lieve adornezza, tanto da testimoniar la viva presenza dello stesso spirito che ideò e costrusse i fastigi della mole.


  Elisa Cibrario, Leggendo “Nell’arte e nella scienza”, «Rivista di Roma. Politica. Parlamentare. Sociale. Artistica», Roma, Anno XV, Fascicolo XXXIV-XXXVI, Dicembre 1911, pp. 398-400. 

  p. 399. Colossale appare all’occhio critico di Sighele l’opera di Balzac, di quel Balzac precursore, maestro, che poteva gloriarsi di aver portato una società intera nel suo cervello, che ha saputo trasfondersi nei suoi personaggi pur restando nell’ombra con un raro esempio di auto-suggestione. In quest’opera grandiosa e multiforme lo scenziato (sic) non può che raccogliere e riunire le idee gettate qua e là dando loro unità di sistema; così dopo aver citato molte definizioni sull’amore e sulla donna, passa ad esaminare le opinioni politiche di Balzac, opinioni che nel loro cinismo hanno pur troppo qualche luce di verità: «Pour les rois et pour les hommes d’Etat il y a, comme l’a dit Napoléon, une grande et une petite morale» ; e più in là: «Un grand politique doit être un scélérat abstrait, sans quoi les sociétés sont mal menées». Lo scetticismo che ha per la politica, lo segue nelle sue opinioni sulla giustizia, ch’egli concepisce «come la missione che una classe privilegiata deve esercitare senza l’intrusione della volontà popolare», per cui trova assurda l’istituzione del giurì che «manca alla sua missione perché incoerente ed indulgente». Nelle descrizioni di delinquenti vi sono aperte allusioni all’antropologia criminale; parlando d’un assassino. Balzac dice: «Un «trait de sa physionomie confirmait une assertion de Lavater sur les gens destinés au meurtre: il avait les dents de devant croisées».

  Troppo lungo per l’àmbito di questo breve studio sarebbe seguire l’analisi serrata di Scipio Sighele, che dopo aver definito il personaggio di Vautrin «un Napoleone della criminalogia», considera il fenomeno della coppia criminale, cioè l’istinto che fa scegliere a Vautrin il complice, la creatura, «pour l’aimer, la façonner, la pétrir à son usage afin de l’aimer comme un père son enfant»: istinto prepotente dell’uomo che non vuol esser solo e che a malgrado de’ suoi delitti osa dire: «J’ai la passion de me dévouer pour un autre!».


  Cini, La chicca (Tribunale Penale di Torino), «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 16, 16 Gennaio 1911, p. 4.
  L’amore non è una fede, che per Chatterton, non è una scienza, che per il Balzac.

  Cini, Come una canzonettista torinese fu costretta alla virtù, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 45, 14 Febbraio 1911, p. 4.
  Anche la signorina Linda Landa ha avuto il suo romanzetto d’amore […].
  Io non so se la signorina Linda Landa abbia mai letto la Fisiologia del matrimonio, di Balzac. Lo dubito.

  Cini, Figurine che passano. L’amore è una catena (Pretura urbana e Tribunale penale di Torino), «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 64, 5 Marzo 1911, p. 3.
  Protagonisti di questo fatto di cronaca torinese di tradimenti sentimentali sono Amina Scala e il suo amante Vincenzo Cavaliere.
  Diffidate [è Amina che parla] sempre, per esempio, o signore, dei maschi vostri quando ostentano una antipatia od anche soltanto una completa indifferenza per le grazie fisiche della vostra amica più intima, avverte Balzac. Diffidate sempre ad ogni modo degli uomini che vi vogliono convincere del loro disprezzo troppo puritano per donne, che dovete riconoscere leggiadre e piacevoli.

  Cini, Reati e pene. Il processo del piccolo rapsodo valsusino omicida per amore (Corte d’Assise di Torino), «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 128, 10 Maggio 1911, p. 4.
  E’ di profondo studio il processo psicologico per il quale [Stefano Ala] si determinò al delitto. Poeta, quasi rapsodo fuori tempo, ha una coltura abbastanza vasta, specialmente letteraria. Conosce le opere di Balzac, di Chateaubriand, Carducci, Cavallotti, Graf, D’Annunzio […].

  Cini, Reati e pene. Ofelia ha detto una bugia! (Tribunale Penale di Torino), «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 184, 5 Luglio 1911, p. 5.
  Quale fu dunque la bugia di Ofelia?
  Con animosità improvvisa ed incomprensibile, Ofelia ha accusato il suo innamorato di aver avuto intempestivamente quel momento di libertinaggio, pel quale, dice J. J. Rousseau, tutti gli uomini devono passare. […].
  Ma il buon presidente volle saper chiara la verità […]. Egli sa che la verità è sempre molto, molto in fondo al parlare d’una donna […]. Egli sa questo perché ha letto Balzac. Egli sa che molta gente pudibonda porta sul capo la bombola del latte di Pierina.

  Cini, Il colchico, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 194, 15 Luglio 1911, p. 3.
  Un’altra piccola storia d’amore [tra Agostino e Amalia]. […].
  Agostino non si sentiva portato ancora pel matrimonio. Ben disse, per lui, Balzac quando disse che il matrimonio non è lo stato naturale dell’uomo se occorre per compierlo una particolare maturità d’animo. Egli, Agostino, con modestia, si confessava e si confessa ancora punto maturo.

  Cini, Reati e pene. La sciarpa azzurra, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 254, 13 Settembre 1911, p. 5.
  Ancora una cronaca di tradimenti coniugali che, qui, vede protagonista Terenzio Diandinetti.
  Egli aveva reso felice per otto anni, sin allora, sua moglie. Un bel merito, avrebbe esclamato Balzac, da vantare dinanzi a Dio nel giorno del supremo giudizio […].


  Corte-Giano, Ritagli e scampoli. Una scommessa di Balzac, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXV, N. 61, 2 Marzo 1911, p. 3. 

  E’ noto che le tante bizzarrissime cose attribuite al grande Balzac, v’è la storiella che egli si divertisse a tenere accese in sua casa non meno di cento candele per volta. Si tratta proprio di una storiella, sebbene motivata da un episodio vero.

  Balzac si era incontrato più volte al «foyer» della «Comédie Française» con un faccendiere che aveva la tarantola delle scommesse. Scommetto di sì; scommetto di no; scommetto pro’; scommetto contro, il valent’uomo non usciva mai di lì. Balzac risolvette di castigare la costui monomania.

  Una sera fa accendere 300 candele nel suo salotto, indi se ne va al «Théâtre Français»: trova quel parlatore; si trattiene alquanto con lui e poscia gli dice: - Me ne vado perché, mentre io sto qui con voi, ho300 candele accese in casa – Baie! – La pura verità. – Scommetto di no. Quanto? Quanto volete. — Vada per 500 franchi e venite con me; «Merle» ci accompagnerà per comprovare il fatto. Si monta in vettura, si giunge in casa Balzac e vi si trovano infatti le 300 candele accese. Il parlatore tirò fuori i 25 napoleoni, ma si vendicò non chiamando più Balzac che l’uomo delle candele.


  P.[ietro] Croci, Un romanzo inedito di Balzac, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36, Num. 74, 15 Marzo 1911, p. 3.

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Parigi, 14 marzo, notte.
  L’attività prodigiosa del romanziere che domina con la sua opera formidabile la letteratura francese del secolo decimo nono è nota anche a chi conosce soltanto il numero dei volumi da lui dati alle stampe: un centinaio. Per quasi trent’anni la febbre del lavoro gli accese la fantasia, lo soggiogò, mentre l’avversa fortuna lo incalzava non concedendogli tregua, costringendolo a logorarsi la salute e l’ingegno non tanto per il suo meraviglioso sogno di gloria quanto per tenere a bada i creditori.
  E sotto la mole della sua opera titanica, venutogli meno il conforto che egli sperava dal tardivo amore, piegò a cinquant’anni lasciando il più raro esempio di laboriosa tenacia. Nemmeno i suoi più fervidi ammiratori avrebbero però potuto sospettare che tra mille persecuzioni del destino egli avesse trovato il tempo di scrivere un intero volume per una persona sola, per une lettrice. Generoso e povero, il fecondo scrittore, che accarezzava indarno i progetti più fantastici per accumulare ricchezze favolose, volle un giorno manifestare la sua riconoscenza a una gran dama la cui cortese protezione lo rincorava: come altri regala una gemma, le fece dono di una perla del suo ingegno: scrisse per lei sola un romanzo.
  Lo si è ritrovato dopo circa tre quarti di secolo per un caso. La cattiva sorte non ha abbandonato Balzac nemmeno dopo la morte e di recente la proprietaria della casa in cui egli visse per poco non impose lo sfratto ai suoi ultimi cultori che vi hanno aperto un piccolo museo. Per evitare la profanazione della modesta casa e la dispersione dei cimeli alcuni volenterosi fondarono una «Società degli amici di Balzac» per raccogliere con una esigua quota personale qualche migliaio di lire all’anno, quanto bastavano per placare l’impaziente proprietaria dello storico villino.
  Tra i sottoscrittori vi fu anche un erudito, Luciano Aubanel, già segretario del duca di Dino, il quale colse l’occasione per rivelare agli zelanti cultori delle memorie di Balzac l’esistenza di un manoscritto ignoto e inedito conservato nella biblioteca del duca.
  Un editore intraprendente, che ha iniziato una lussuosa pubblicazione delle opere complete del grande romanziere, ottenne per mezzo dell’Aubanel la cessione del manoscritto e lo dà oggi alle stampe in un volumetto a prezzo popolare, gettando sul mercato mezzo milione di copie. L’ombra di Balzac, che si dilettava di cifre, deve fremere di compiacenza.
  La gran dama a cui egli rese l’omaggio singolare fu la duchessa di Dino, nipote di Talleyrand, il celebre ministro, intorno al quale ella lasciò un volume di memorie che l’anno scorso, pubblicato per la prima volta, suscitò il più vivo interesse[14]. Intelligente e buona, fu tra le poche dame dell’aristocrazia che apprezzarono subito l’ingegno di Balzac e lo accolse con deferenza nel suo frequentatissimo salotto. Poiché era avvezza all’omaggio di ogni poeta, una sera chiese a Balzac se non avrebbe scritto per lei qualche pagina. Il romanziere le promise un dono originale, scrisse in pochi giorni un intero racconto, fece rilegare sfarzosamente il manoscritto, vi fece apporre l’ex-libris della famiglia principesca e lo portò una sera all’illustre amica. Così da oltre sessant’anni esso giaceva noto solo a qualche privilegiato in uno scaffale della biblioteca dell’avito castello di Sagan in Germania.
***
  L’amore in maschera, a cui l’autore secondo la moda dei tempi aveva dato anche il sottotitolo di Imprudenza e felicità, è un racconto di carattere romanzesco e sentimentale, quale poteva essere offerto a una bella signora in un’epoca in cui fioriva la scuola romantica. E’ un racconto delicato dai capitoli brevi a cui facilmente la feconda fantasia dello scrittore avrebbe potuto dare un più ampio sviluppo, ma si direbbe quasi che egli non abbia voluto imporre alla cortese lettrice una soverchia fatica degli occhi.
  Una sera di carnevale Leone di Preval (sic), giovane ufficiale di cavalleria, si imbatte in una mascherina che si è smarrita e l’aiuta a ricercare gli amici. E’ una mascherina enigmatica: non vuol essere corteggiata, detesta ogni legame, ha giurato di rimanere libera, nessun uomo la farà venir meno al suo proposito; ma intanto interroga il cavaliere, lo stuzzica, gli dà appuntamento per il ballo di mezza quaresima e lo pianta in asso. Per tre settimane Leone cerca indarno nei ritrovi mondani la sconosciuta; la notte del secondo ballo la ritrova col domino bianco e il viso celato dalla maschera nel ridotto dell’Opéra. Il breve colloquio è ancor più enigmatico del primo. Il giovane ufficiale rimane di stucco all’udire che la sconosciuta ha nel frattempo assunto informazioni sul suo conto e che gli deve imporre una suprema prova prima di concedergli il dolce appuntamento: l’ufficiale non si è riavuto dalla sorpresa, che già la maschera è scomparsa.
  Il giorno dopo gli viene portata una lettera. Il convegno gli sarà accordato se giura sull’onore di rispettare alcune condizioni: lasciarsi guidare cogli occhi bendati in un luogo segreto, impegnarsi a non esigere alcuna spiegazione e non cercare in alcun modo di scoprire il mistero. Al fervido giovanotto è dato il permesso di portare con sé la spada. Un negro silenzioso lo viene a prendere a mezzanotte, gli benda gli occhi, lo conduce in vettura in un quartiere remoto e lo introduce in un salottino profumato. Una donna velata in veste da camera lo attende e, tolta la benda, egli riconosce la mascherina, ma quando sta per sollevarle il velo la lampada si spegne.
  Non conviene essere indiscreti, osserva il romanziere: basti il dire che la sua felicità oltrepassa ogni sua speranza e che non gli lascia nemmeno il tempo di mancare alla sua promessa. Non se ne ricorda che alcune ore più tardi: ma la sconosciuta scompare dietro una porticina segreta e il negro inesorabile lo riconduce via rimettendogli la benda agli occhi.
  E’ stato un sogno? Leone se lo chiede ansiosamente per varie settimane, in preda a una fiamma che lo divora ed ecco dopo una angosciosa attesa la lettera che distrugge ogni sua speranza. La sconosciuta gli rivela che un matrimonio infelice le ha reso insopportabile ogni vincolo. Vedova a venticinque anni, ricchissima, libera, ha provato il rammarico di non essere madre, ed ha voluto procurarsi le gioie materne, senza rinunziare alla sua libertà e alla sua riputazione. Poiché ella può scomparire prima che l’erede della sua sostanza sia in grado di goderne, non vuole privare il nascituro del suo protettore naturale: ovunque egli sia, gli farà pervenire un anello spezzato la cui seconda metà sarà consegnata al figlio.
  Parecchi mesi dopo in una triste città di provincia, ove è di guarnigione, Leone si vede capitare innanzi all’improvviso il negro misterioso che gli consegna un plico e dà di sprone al cavallo. L’anello contenuto nel plico porta incisa una data e reca incastonato uno smeraldo: è il segno convenuto per indicare la nascita di una bambina. Una sottile malinconia rode l’anima dell’ufficiale che dispera di ritrovare la bella mascherina; ma alla vigilia di una guerra con la Spagna è richiamato a Parigi come aiutante di campo di un generale, e sospetta che l’inattesa promozione sia dovuta alla segreta influenza della donna amata e ignota. Ma col generale parte per il teatro della guerra senza aver riconosciuto in un salotto amico la misteriosa madre della sua bambina nella signora Elinor de Roselis che, sposa a sedici anni di un ricchissimo colono della Martinica e rimasta vedova dopo una unione disgraziata, era venuta a stabilirsi a Parigi. Aveva concepito durante il viaggio l’ardito progetto di una maternità libera, lo aveva attuato senza destare il sospetto nemmeno nell’amica più intima, poiché nel frattempo si era ritirata in una villa in Turenna e vi ritornava solo a riabbracciare la bambina. Un pentimento l’ha indotta a seguire da lontano la carriera dell’ufficiale e per conservare alla bambina il padre si era adoperata per sottrarlo ai pericoli della guerra: ha tremato di emozione udendo discorrere nel salotto amico della loro avventura attribuita a un compagno e nell’apprendere quanto egli sia buono e leale. Ora che lo sa sul campo di battaglia è straziata a sua volta dall’ansia, dal rimorso, dalla trepidazione più angosciosa e corre a rifugiarsi nella villa. Una amica che la raggiunge stupisce della sua maternità nascosta, la rimprovera e resta a condividere il suo dolore. Di Leone non si sa più niente: è scomparso dopo un combattimento sanguinoso.
  Ma un giorno un servo batte al cancello della villa e chiede ospitalità per un infermo: è Leone, ferito, febbricitante, forse moribondo. In una camera della villa, nelle ore di delirio, egli invoca la donna amata e la figlia: Elinor a stento resiste al primo impeto del suo cuore; non si svela, ma non abbandona più il capezzale dell’infermo, gli prodiga ogni cura, offre alle sue carezze la piccina in cui egli crede di vedere l’immagine della figlia e un bel giorno ha la deliziosa sorpresa di sentirsi amata da lui. E ancora più sottile è il suo gaudio segreto quando, per essere fedele alla sconosciuta, Leone vuole soffocare l’amore nascente per la bella infermiera. Indarno l’amica impaziente la spinge a svelarsi: ella lo lascia partire per Parigi. Vi si reca ella pure, persuade l’amica a condurre Leone al ballo in maschera all’Opéra, a lasciarlo solo nel ridotto e gli appare come la prima volta innanzi nel domino bianco. Ma prova a un tempo la più profonda amarezza e il più dolce conforto: Leone freddo, grave, rifiuta di sposarla perché non può dimenticare la donna che lo ha salvato dalla morte e in cui ha trovate le qualità più affascinanti: la tenerezza e la bontà.
  «Che sarebbe di me, si chiede ella con terrore, se il caso non mi avesse concesso di ottenere in un’altra forma la sua stima e il suo affetto?»
  Egli accetta solo un invito a colazione per conoscere la sua bambina: «lo stesso Balzac rinuncia a descrivere la gioia dell’incontro colla donna due volte amata e colla piccina nel salottino ove i due amanti, ora sposi, avevano trascorso una notte indimenticabile.
  «Ora sono ancora più convinta – osserva l’amica testimone della scena – che soltanto a spese della propria felicità una donna può cercare di sottrarsi agli impacci severi imposti al suo sesso».
  E’ la dimostrazione più romantica dell’antico adagio che l’eccezione conferma la regola e nulla vieta di pensare che il fecondo romanziere abbia voluto rendere all’ospite bella e illustre l’omaggio di commentare con un racconto originale una massima da lei pronunciata nel suo salotto fra dame, poeti e letterati.


  P.[ietro] Croci, Una visita a Gabriele d’Annunzio, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36°, 11 Aprile 1911, p. 3.

Parigi, 9 aprile.

  La casetta di Ville d’Avray, sulla boscosa collina di Sèvres, ove morì Gambetta, venne costrutta da Balzac. Il grande romanziere so­gnava un asilo quieto in cui avrebbe potuto attendere, lontano da ogni cura, all’erezione della sua immensa mole letteraria e accogliere di tanto in tanto con larghezza signorile gli amici. Era ancora carico di debiti, e la casa riuscì assai più modesta del progetto: ma poiché una fedele amica gli rimproverò lo sperpero di nuovi fondi, il romanziere candidamente le rispose: — L’ho fatto per eco­nomia: in città non posso muovermi senza prendere una vettura: qui non ve ne sono, e debbo accontentarmi della corriera: tanto di guadagnato.

  Non furono nè quelle piccole economie nè i grandi titanici sforzi del suo ingegno che districarono l’autore della «Commedia Uma­na» dalla rete in cui si era aggrovigliato.

  Provò molle amarezze, si logorò il 'corpo, dovette lottare fino all’estremo, ma ebbe al­meno una fortuna: ai suoi tempi la stampa non era pettegola e invadente, non si sbizzar­riva a frugare con una curiosità malsana nelle faccende private degli uomini cari al pubblico, e non allettava i lettori, battendo la gran cassa a colpi di titoli sesquipedali, ad una gazzarra di indiscrezioni incresciose.

  Ho pensato alla singolare fortuna dì Balzac passando accanto a Ville d’Avray per recarmi a visitare d’Annunzio nel romitaggio ove egli torna ogni sera dopo aver assistito e partecipato con una attività costante, intensa, alle prove del San Sebastiano.


  P.[ietro] C.[roci], Corriere teatrale. Novità francesi. […] “La pecorella smarrita”, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36°, Num. 321, 20 Novembre 1911, p. 3.

  Maupassant soleva dire che ogni suo libro di novelle era una miniera di drammi e di commedie; ma la sua opera è ancora troppo recente nella memoria perché la si possa sfruttare. I romanzi di Balzac costituiscono un'altra miniera: anche autori di valore non esitano a cercarvi fortuna. Il parroco del villaggio del grande romanziere ha ispirato contemporaneamente due drammaturghi. Il primo, Gabriel Trarieux, già noto per alcuni buoni lavori, dà ora alla «Comédie Française» la sua versione intitolata La pecorella smarrita, che ha almeno il merito di far ri­leggere il romanzo di Balzac, di cui non ha potuto rendere la profonda psicologia. Vi si vede la moglie di un ricco banchiere avaro di provincia, Veronica, nata da umile famiglia, circondata dalla stima universale, che si innamora di un giovane contadino. Per fuggire con lei il giovane vuol impadronirsi di un tesoro, ma ne deve uccidere i custodi ed è arrestato. Egli si guarda però dallo svelare il nome della donna amata e non lo confida che in confessione al parroco del vil­laggio. Veronica, rimasta vedova, cerca in­darno di salvare il giovane. Il procuratore generale, che le fa la corte, indovina il suo segreto e, respinto da lei, fa condannare a morte l’omicida, che si impicca in carcere. Veronica stessa, al colmo della disperazione, rivela a tutti il mistero ed il buon parroco la salva dal suicidio inducendola ad espiare la colpa con le buone opere.


  Lucio D’Ambra, Il calendario della vita di Roma. Agosto. – Salotti “en plein air” e salotti chiusi, «Varietas. Casa e Famiglia. Rivista mensile illustrata», Milano, Anno VIII, N. 88, 15 Agosto 1911, pp. 281-282.

  p. 282. Questa parte dell’archivio letterario segreto del conte Primoli non potrebbe essere più curiosa e più intelligente. Non meno curiosa è la parte che riguarda Balzac. Ci sono lettere. Ci sono lettere inedite, appunti preziosi, pagine di manoscritto dell’autore della Comédie Humaine, scritte col suo grosso ed energico carattere d'improvvisazione e quasi senza cancellature. Quando si scolpisce un monumento colossale l’artista non ha tempo d’arrestarti a guardare se il colpo di scalpello è stato dato a perfezione Egli si affida per questo all’istinto sicuro del suo genio. Ed ecco lettere alla contessa Hanska, ed ecco interi manoscritti di romanzi di Balzac. Con quale commozione, quasi su ogni pagina, ho ritrovato il cerchio tondo delle tazze di caffè con cui il grande scrittore sosteneva i suoi nervi nella fatica colossale delle sue frenetiche notti di lavoro, delle sue miracolose febbri di geniale improvvisatore.


  Renato Di Centallo, Femminismo e sport, «La Stampa Sportiva», Torino, Anno X, N. 17, 23 aprile 1911, p. 13.
  Lo sport ha avuto certo grande influenza sul cambiamento del concetto dell’individualità della donna, che si nota da un secolo fa ai giorni nostri.
  Da Balzac, il quale, d’accordo con i suoi contemporanei, dice nella Phisiologie (sic) du mariage, che la vera donna non deve pensare ad altro che à lisser ses cheveux, à leur fair (sic) exhaler des odeurs énivrants, à brosser ses ongles roses: deve, tutto il dì mollemente sdraiata, fuggire la luce e il rumore, non saper camminare ed agire, ma essere e restare soltanto oggetto di lusso; ai giorni nostri la differenza è, se Dio vuole, ben grande.


  Faledro, Ritagli e scampoli. La vigna di Balzac, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXV, N.° 29, 29 Gennaio 1911, p. 3. 

  Accanto alla casa tranquilla dove tanto Balzac abitò e lavorò, in fondo a Passy, nella via Raynouard, c’è una piccola vigna. Alcuni fedeli del romanziere, come è noto, hanno trasformato la casa in un museo ed ogni autunno, in piccolo numero, vengono a vendemmiare la vigna. Alcune graziose dame vengono a spiccare religiosamente i grappoli rari. La cerimonia è semplice e gentile. Un cappellone di paglia basta a contenere tutta la raccolta ed i gravi profumi dionisiaci che volteggiano sui ceppi della Gallia Narbonese non infastidiscono i visitatori della pacifica via Raynouard. Léo Larguier scrive nella «Revue Bleue» di aver mangiato in questi giorni un grappolo d’uva della vigna di Balzac, conservato religiosamente dall’ultima raccolta e offertogli alla fine di un pranzo da un ammiratore di Balzac.

  Quando fu giunto il momento del «dessert» l’ospite si levò da tavola e andò a cercare egli stesso il grappolo prezioso. I dolci e le frutta senza storia non furono gustati quanto l’uva che sembrava inviata in dono dal maestro stesso. L’uva, della vigna di Balzac! Mangiarla, non equivale a mangiare, per un egittologo fanatico, del pane fabbricato con frumento trovato nel sarcofago di una regina? E’ l’uva di Balzac creatore!

  Un giorno un amico entra bruscamente nel suo studio ed annunzia Madame Marneffe, Madame Marneffe della «Cousine Bette!». Balzac si ravvia i capelli, si aggiusta l’abito e dice ingenuamente: «Fatela passare!».

  Non mentiva mai, quello che affermava, esisteva in lui.

  Cenava una sera a casa di Madama De Girardin e poiché si parlava a tavolo di storia naturale, Balzac imaginò una bestia inventata di sana pianta e si mise a parlarne. Gli ospiti rimasero assai stupiti. Allora il poeta Méry. venne in soccorso del romanziere e con la sua prodigiosa erudizione, citò Plinio. Buffon, Cuvier. Raccontò storie di viaggi, di scienziati, di naturalisti, snocciolando citazioni cervellotiche. Quando tutti si levarono di tavola Balzac prese il braccio di Méry e gli sussurrò all’orecchio: «Ma davvero quell’animale esiste?» - «Perché no?, rispose Méry.

  Il grappolo d’uva balzacchiano eccitò talmente il cervello dei due amici, che essi immaginarono di veder tutti i personaggi della «Commedia Umana» muoversi, agitarsi, vivere, come esseri reali e visibili.

 

  Faledro, Ritagli e scampoli. Come e quando bisogna dormire, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXV, N.° 137, 19 Maggio 1911, p. 3. 

  Uno scrittore ha detto che se Balzac avesse dormito di più, la sua opera sarebbe riuscita più concisa e più salda.


  Giustino L. Ferri, Rassegna drammatica. […] “I vincitori” di Emile Fabre. […] “Il Giglio”, di P. Volff e di G. Leroux […], «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLI – Della Raccolta CCXXXV, Fascicolo 937, 1° gennaio 1911, pp. 152-156. [pp. 150-162].
  p. 155. C’è un momento, cito di memoria da non so più quale dei romanzi di Balzac, c’è un momento, nelle più penose malattie, in cui il pudore fisico scompare. Così c’è un genere di lavori teatrali, vere malattie infettive della scena, in cui il pudore estetico svanisce. Il Giglio appartiene q queste infermità vergognose […].

  Giustino L. Ferri, Rassegna drammatica. […] “Una telefonata”, di D. Signorini, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLI – Della Raccolta CCXXXV, Fascicolo 938, 16 gennaio 1911, pp. 325-327. [319-327].
  p. 325. Nella Peau de chagrin di Balzac si narra della fondazione di un gran giornale che s’inaugura con una specie di cena di Trimalcione seguita da un baccanale formidabile: ora sapete quale era il capitale con cui era fondato questo giornale che nelle intenzioni del grande romanziere doveva essere l’attuazione di un’idea gigantesca? Trecentomila franchi.
  Gli azionisti dei grandi giornali moderni sorriderebbero, se leggessero La peau de chagrin. Ma nel mondo giornalistico tutto è possibile, e se ognuno di noi consultasse la sua memoria, troverebbe ricordi non meno bizzarri del gran giornale balzacchiano fondato con trecentomila franchi di capitale che allora, al principio del secolo XIX, rappresentavano a dir il vero forse la presentazione di una temeraria cambiale allo sconto della credulità dei lettori. Adesso trecentomila lire a un gran giornale sarebbero appena un fondo per andare avanti i primi mesi, rimandando a più tardi il pagamento delle macchine per l tipografia e facendo un grosso debito col fornitore della carta.
  Pare che qualcuno degli spettatori più letterati abbia trovato molte analogie fra il Pietro Sani, l’avvocato Aribelli, il critico teatrale Guazzini d’Una telefonata e i giornalisti di cui formicola La commedia umana, il cui autore non li amava troppo, come non li amava Arturo Schopenhauer. […].
  La Vedetta non è un gran giornale: probabilmente Pietro Sani l’ha comperato per una somma assai minore delle trecentomila lire che Balzac aveva arrischiato ai suoi tempi, adoperando le sue prodigiose lenti d’ingrandimento alla loro massima potenza, trattandosi d’un romanzo semi-fantastico qual è La peau de chagrin. Più tardi Balzac ne ha descritto di altri giornali, quello per esempio in cui scrive Lousteau e di cui non mi ricordo più il titolo, e La Vedetta ne continua oggi, accanto ai colossi della stampa commerciale, la miserabile tradizione.


  Lino Ferriani, Un matrimonio mancato, «Corriere delle Puglie», Bari, Anno XXV, N.° 194, 15 Luglio 1911, p. 3.

  Aveva ragione Balzac dicendo che l’epoca del fidanzamento è la più bella della vita!


  [Riccardo Forster], Antonio Fogazzaro, «L’Indipendente», Trieste, Anno XXXV, N. 58, 10 Marzo 1911, pp. 1-2.

  p. 1. Per riprodurre un tale microcosmo in un libro [Piccolo mondo moderno] ci voleva forse l’energia condensatrice, la divinazione quasi profetica, la facoltà da padre eterno delle lettere di creare tipi immortali, le possenze insomma, che ebbe, affasciate e sparpagliate, il Balzac.


  Antonio Fradeletto, Malattie d’Arte, in Conferenze. […], Milano, Fratelli Treves, Editori, 1911, pp. 1-44.
  pp. 32-33. Ma nelle buone ore, quando non lo prostra l’accidia né lo esaspera l’amarezza, l’artista impotente per sé, diviene un consigliere prezioso per gli altri. Chiamatelo dinanzi ad un lavoro già compiuto o avviato a compimento: egli ne avvertirà di colpo i difetti, egli saprà suggerire le opportune correzioni ed anche rapidamente eseguirle. Questo contrasto fu reso col vigore consueto dal Balzac nella scena del «Chef-d’oeuvre inconnu», in cui mastro Frenhofer (il pittore ridotto al nulla dall’incontentabilità) posto in faccia al quadro di Franz Porbus, ne discerne immediatamente le languidezze e gli errori, e afferrando tavolozza e pennelli, ritocca ed avviva. E s’intende. Liberati che siano dall’ossessione di dover condurre da capo a fondo in maniera irreprensibile l’opera propria, – ossessione che ne tronca le energie, – questi ingegni riacquistano tutta la finezza del loro giudizio e la appuntano efficacemente sull’opera altrui.

La Letteratura e la Vita, pp. 97-156.
  pp. 122-123. Ma il beneficio massimo del risveglio storico, fu quello di avere indefinitamente ampliato e illuminato il senso estetico. Perché, se un uomo d’altre età ricomparisse improvvisamente fra noi e leggesse, poniamo, una scena dello Shakspeare (sic), un capitolo del Balzac, una novella di Edgardo Poe, una lirica del Rossetti, egli spregerebbe o non riuscirebbe a pregiare convenientemente qualcuna di codeste creazioni, riferendole ad un tipo prestabilito di bellezza, mentre noi le comprendiamo e onoriamo tutte, come espressioni diverse ma egualmente legittime dell’anima e della vita. […].
  p. 137. […] la letteratura drammatica più ricca, quella della Francia, ha un solo scrittore il quale s’accosti alla profondità umana del Balzac o all’altezza dell’arte di Gustavo Flaubert?

  Gicap., Fra libri vecchi e nuovi. Henri d’Alméras: “La vie parisienne sous Louis Philippe”. – Paris, Michel, 1911, «Minerva. Rivista delle Riviste», Roma, Società Editrice Laziale, Anno XXI, Vol. XXXI, N. 38, 17 settembre 1911, pp. 908-909.
  p. 909. Jules Lecomte, corrispondente dell’Indépendance belge, manda nel 1837 al suo giornale le Lettres sur les écrivains français[15], ove descrive Victor Hugo e il suo salotto, Balzac, bavard et menteur nella conversazione e insaziabile bevitore di caffè, Alfonso Karr e il suo famoso cane di Terranova, la Sand ed Eugenio Sue ed Alessandro Dumas padre e tanti altri.

  Olindo Guerrini (Lorenzo Stecchetti), Divorzio, in Brandelli. Nuova edizione su quella di A. Sommaruga, Milano, Casa Editrice Libraria Modernissima “Floreal Liberty” di Rossi Arturo, 1911, pp. 162-166.
  Cfr. 1883.
  Rabelais in Italia, pp. 277-282.
  Cfr. 1879.
  Nella lotta, pp. 296-299.
  p. 296. Il romanzo ha soffocato la novella, e sapete che i romanzi si fanno lunghi. Walter Scott ne ha fatti di buona misura, Balzac si può quasi dire che ne abbia fatto soltanto uno e lunghissimo col ciclo della Commedia umana.


  Index, La Cronaca dei libri, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36°, Num. 353, 22 Dicembre 1911, p. 3.


Pel centenario di Carlo Dickens.

  Anch’egli, come il Balzac, ha dato alle lettere una meravigliosa «Commedia umana»: se non che gli uomini del Balzac: sono universali, mentre gli uomini del Dickens hanno quasi tutti la caratteristica impronta anglo-sassone. Diversità del genere d’arte; ma la somiglianza è nella prodigiosa ric­chezza di osservazione e d’immaginazione di entrambi.


  Achille Loria, Negli imperi della bellezza, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLII – Della Raccolta CCXXXVI, Fascicolo 944, 16 aprile 1911, pp. 602-617.
  p. 607. V’ha chi della declinante beltà mascolina accagiona i severi scientifici studi […]. Balzac, che ha studiate con tanta tenacia le più varie manifestazioni della persona umana, ha avvertito appunto che l’alto pensiero ha una influenza potentissima a regolarizzare la fisonomia e che il volto irregolare e le fattezze repellenti si riscontrano, non già n’ pensatori supremi, ma fra i pedanti predatori di sillabe, o fra le vestali del dizionario. […].
  p. 614. Ed anche è più vero che la scienza, [...] la scienza nelle sue manifestazioni più eccelse, è ispiratrice preziosa delle artistiche concezioni. La medicina ispira a Manzoni le classiche pagine sulla peste; l’economia politica detta i migliori romanzi di Balzac e di Sue […].

  G.[ian] P.[ietro] Lucini, L’Ora topica di Carlo Dossi. Saggio di critica integrale, Varese, A. Nicola & C., 1911.
  Scapiglitura, Bohème: «vi troverete dentro delli scrittori, dei diplomatici capaci di rovesciare i progetti della Russia, delli amministratori, dei generali, dei giornalisti, delli artisti. Tutti i generi di capacità vi si rappresentano; è un microcosmo!» Ricordate la definizione di Balzac in Un Prince de la Bohème? Di Balzac, buon ospite milanese che si era deliziato dell’aria fresca e del bel verde del giardino di casa Porcìa «sul Corso (57) di Porta Orientale, dieci case più in là della contessa Bolognini», cui dedicò Une fille d’Eve; mentre a Clara Maffei, destinò La Fausse maîtresse, Les Employés alla Sanseverina, al conte Porcìa, Splendeur et misère (sic) des Courtisanes, allo scultore Puttinati, La Vengeance?
  Là, lo aveva trovato Giovanni Raiberti, nell’estate del 1838, a tener conferenze ed esperimenti di magnetismo, vantandosi egli espertissimo in quella pratica e convinto mesmeriano; e, là, un gobbetto, che il medico milanese gli aveva apprestato a burla, «gobbo (58) davanti e di dietro, e bistorto in modo che al suo confronto il francese Mayeux è un Apollo» il sor Gattino astutissimo, gli scroccò parecchi luigi, fingendo il sonno ipnotico e millantando la soperchieria in una scena comicissima, in cui il dialogo francese-meneghino raccontato dal Raiberti, aggiunge alle risa la satira: Balzac furoreggiava: «Il y a quelque chose de maladroit dans ce sacré bossu!». E l’esperienza non gli riusciva; e il nano ghignava ed intascava. […]
  E perché ogni letterato è sempre un determinista, rimena, in un solo crogiuolo, le essenze del Bene e del Male per la sintesi del concetto balzacchiano dell’Utile.
  [Note].
  (57) H. Balzac, Lettre à M.me Hanzka (sic).
  (58) L’uomo grande ed il nano. Appendice all’opuscolo: «Il Volgo e la Medicina», altro discorso popolare. Cfr. anche 1851.

  G.[iuseppe] Molteni, Balzac, in Pagine rivoluzionarie e romantiche, Milano, Libreria Editrice Milanese, 1911, pp. 248-253.
  Il volume che Ferdinando Brunetiére (sic) (ed. Calmann-Levy [sic]) ha dedicato all’opera di Onorato di Balzac[16] è certo propizio alle discussioni più vivaci e inattese sui criteri estetici e i fondamenti della critica da cui l’autore appare guidato nell’esame e nel giudizio dell’opera monumentale, colossale addirittura, del grande rinnovatore del romanzo moderno.
  Il Brunetiére non è un critico biografo: «l’opera del Balzac esiste per sé stessa, a così dire, e all’infuori di lui, dunque: per questo è Balzac; s’egli non fosse Balzac, avrei cercato di scrivere la sua biografia: scrittori assai mediocri hanno talvolta un’esistenza interessantissima, e narrandola si dimentica la mediocrità della loro opera; ma davvero avrei creduto mancare al mio preciso dovere di critico e di storico parlando nel nostro caso più e altrimenti di quanto fosse rigorosamente necessario alla intelligenza della opera sua».
  Ma questa rinuncia al grande tesoro di elementi interessanti e curiosi che serbava la vita agitata e febbrile di quel portentoso scrittore che in cinquant’anni trovò il modo di dare alla sua Commedia umana, senza contare tutto il resto, novantasette romanzi in cui non scarseggiano i capolavori non ha tolto suggestività e valore all’analisi critica: il Brunetière osserva cos’era il romanzo prima del suo autore, che cosa ne ha fatto il geniale innovatore, l’azione efficace che egli ha dispiegata sul pensiero e sull’arte non della sua età soltanto, ma di tutto il suo secolo. Egli ne indaga le caratteristiche estetiche e il substrato filosofico, e pone bellamente in rilievo i suoi rapporti di affinità intellettuale col suo contemporaneo Augusto Comte, il patriarca del positivismo.
  Il romanzo balzacchiano, nel suo triplice aspetto, estetico, sociale e morale, non poteva desiderare indagine più acuta e chiosatore più profondo.
  Il Brunetière ha ragione quando scrive che il romanzo deve a Balzac la sua vita: prima di lui esso minacciava di morire di inanizione tra le strette deprimenti di un soggettivismo ad oltranza, o si gonfiava grottescamente nelle fantasie della pseudo storia: il Balzac ha portato nell’arte la vita, ha fatto del romanzo una pagina di esistenza realmente vissuta, al dominio dell’io ha sostituito l’impero della realtà esteriore ed obbiettiva: egli è il padre insomma del romanzo naturalista.
  Il naturalismo del Balzac non deve per altro confondersi con le degenerazioni del verismo: l’aver egli voluto ritrarre nell’opera sua la vita qual è non gli ha impedito di ritrarne come i foschi anche i limpidi aspetti, i lati buoni come quelli vergognosi: egli non ha calunniato la vita.
  E poi questa possente riproduzione della verità ambiente che il suo occhio enorme percepiva nei contorni così netti e ben definiti non gli vietava di avere e di esprimere il suo pensiero, i suoi principî politici, sociali, religiosi: in un’epoca in cui l’individualismo imperava egli è stato l’apostolo della solidarietà: egli ha intuito che essa è insieme una necessità e un dovere, una legge fisica e una legge morale del mondo e della vita, della natura e della società: e ne ha ricavato un canone estetico. Tutta la Commedia umana è infatti una dimostrazione di sodarietà (sic?): e malgrado dei suoi squilibri e dei suoi difetti, delle sue lacune e delle sue esuberanze l’opera di Balzac non è soltanto completa, ma è anche organica; appunto per questo. È opera completa perché tutti i multiformi aspetti della vita sociale e della natura umana vi si riflettono; non è solo l’amore che vi si studia ed analizza, quell’amore che era stato ed è tuttora per tanti artisti l’unico motivo di ispirazione e di esame: anzi l’amore non è il fatto che abbia maggiormente eccitato la sapiente curiosità del Balzac: egli fecegli nel suo romanzo precisamente quel posto non preminente che esso occupa nella vita; ma l’ambizione, l’odio, la passione dell’oro, le bassezze della politica, la vanità del gran mondo, gli impeti dell’orgoglio, le audacie dello spirito ribelle, l’umile realtà cotidiana della vita borghese, le gioie e le miserie della esistenza dei campi, tutto insomma il poliedro della vita ha trovato il pittore incomparabilmente geniale. E quest’opera completa è opera organica: non riflette soltanto la vita, ma è vitale; non è uno specchio, ma un microcosmo fremente e pulsante. Il fondamento di questa organicità consiste appunto in questa filosofia della solidarietà che ne è lo spirito animatore: in essa consiste la ragione per la quale l’opera del Balzac, aristocratico e realista, ammiratore fervente del De Maistre e più del Bonald, è opera profondamente democratica: tale perché il romanzo del Balzac non fornisce solo l’esempio tipico del romanzo naturalista, ma pure del romanzo sociale.
  Pensando a questo noi potremo dare un’equa soluzione al quesito della moralità dell’arte sua: è noto che allo scrittore dei Contes drolatiques, della Phisiologie (sic) du mariage, di Un ménage de garçon la accusa di immoralità è stata lanciata sin dal suo tempo addolorandolo molto. Il Brunetière conclude la vexata quaestio così: «Concludiamo dunque, circa la morale dei romanzi del Balzac, che essi non sono, a dire il vero, né morali né immorali, ma sono quelli che sono e che dovevano essere, in quanto sono la rappresentazione della vita del suo tempo. Essi sono immorali come la storia e come la vita, ciò che vuol dire anche che sono morali come quelle, giacchè a un dato momento della loro evoluzione, esse non possono essere diversamente da quello che sono. Certo è lecito pensare che le lezioni che esse danno – se pure è loro compito di dar lezioni, ciò che parmi abbastanza dubbio – non erano le migliori, e neppure vere lezioni, cioè tali da dover seguirsi. Ma io non vedo che di ciò si possa fare rimprovero alcuno a chi, come il Balzac, si è limitato a registrarle; per lo meno, anche una volta, non è la sua moralità che si incrimina in questo caso, ma la concezione che egli si è fatta della sua arte, e ciò che si contesta è il valore, la legittimità di questa concezione. Ma noi abbiamo cercato di mostrare che ciò non sarebbe possibile nel nome di ideali estetici oramai tramontati». Queste giustificazioni ispirate a criterî puramente estetici, meraviglieranno probabilmente molto coloro che nel Brunetière ricordano il critico più vivace ed acre contro il naturalismo nell’arte. Non si può forse con l’uguale ragionamento giustificare anche il romanzo del Flaubert, e quello dello Zola?
  Una difesa migliore della moralità dell’arte del Balzac si può invece cercarla al suo valore, al suo contenuto sociale: la sua filosofia della solidarietà si basa sul pernio dell’unità domestica: la famiglia, ecco pel Balzac la grande forza della vita, la fiamma da tener continuamente accesa, la fonte da non lasciar essicare in perpetuo. Sotto questo aspetto il pensiero di Onorato Balzac ha rapporto di intimità più profonda col pensiero del sociologo Le Play, che non quello del filosofo Comte.

La «Dilecta» di Balzac, pp. 271-277.
  Cominciarono Hanotaux e Vicaire co, curioso e interessante volume su Balzac imprimeur[17] a lumeggiare la figura riservata della melanconica signora di Berny; ora il libro di Genoveffa Ruxton «La Dilecta del Balzac»[18] frutto di un lungo studio e di un grande amore, richiama pienamente l’attenzione del pubblico su colei che Onorato di Balzac chiamò la Diletta, che fu l’ispiratrice di tanti suoi romanzi, la sua buona fata e l’eroina di quel capolavoro che è il Lys dans la vallée.
  L’argomento delicato non poteva essere trattato con la necessaria squisitezza di tocco, con la sottile penetrazione delle nuançes (sic) psicologiche che da una donna. Come dice bene Giulio Lemaitre (sic), questo studio sul Balzac, «sulla sua lenta e dolorosa formazione, sul suo genio e la sua volontà rara come il genio, sulla sua vita di fuoco e segretamente tragica, sulle sue corrispondenze e l’opera sua e il suo grande amore, è un libro infiammato, commovente, colorito e ricco di rivelazioni … Raccontanto (sic) tutto ciò, ella ha scoperto, meglio di quanto si era fatto sinora, l’eroico candore, la dolcezza, la bontà e le delicatezze intime di questo osservatore congestionato e terribile scultore di maschere, sapiente come un demiurgo e ingenuo come un fanciullo». Dal canto suo la Ruxton dichiara con lodevole modestia di non aver cercato altro che di evocare il sorgere e l’ingrandirsi di una amicizia che fu la dolorosa felicità di due esistenze e di seguire pel corso di tre lustri dal 1821 al 1836 – non breve oevi spatium – la storia di una vibrante anima di sensitiva, la storia di una donna che seppe restare l’amica, la consolatrice, l’impareggiabile consigliera del povero e possente artista.
***
  In Madame Firmiani, che il Balzac dedicava ad Alessandro di Berny l’amico suo coetaneo e consocio nelle sfortunate imprese editoriali, il figlio della sua patrona, abbiamo il ritratto di Laura Antonietta di Berny: «Affabile e sorridente, la sua cortesia non ha nulla di forzato, la sua premura nulla di servile; ella riduce il rispetto a non essere che un’ombra dolce; ella ha il secreto di non annoiarsi mai, e di lasciarvi soddisfatti di lei e di voi. La sua grazia soave è impressa nelle cose che la circondano. Presso di lei, tutto lusinga la vista e voi respirate come l’aria del vostro paese natale. Questa donna è la naturalezza fatta persona. In lei niente sforzi, niente pose; e i suoi sentimenti sono espressi con semplicità perché sono schietti. Amica della verità, ella sa tuttavia evitare le offese dell’amor proprio; e accetta gli uomini come Dio li ha fatti, compiangendo i malvagi, perdonando ai difetti e alle ridicolaggini, non irritandosi di nulla, poiché la sua finezza sa preveder tutto. Tenera e gaia al tempo stesso prima ancor di confortarvi ella ha già accaparrata la vostra gratitudine. E voi sentite di amarla tanto che se quest’angelo dovesse commettere una colpa vi sentite subito pronti a trovarne la giustificazione».
  Questo è il ritratto di madama di Berny che il Balzac ha conosciuto nella primavera triste e tempestosa dei suoi sogni e della sua vita, quand’ella non era ancora consunta dall’amore e dal dolore, piegata dalle bufere dell’esistenza, arsa dalla mortale fiamma interiore che la ridusse al sepolcro; ma per completare il quadro occorrerebbe mettere al fianco della signora Firmiani la signora di Mortsauf, la dolce e mestissima protagonista del Giglio della (sic) valle. Il capolavoro è stato scritto mentre la povera donna sempre più affranta dalla crisi del suo spietato mal di cuore curvavasi ogni giorno più verso la terra. «Presso l’amica toccata dalla morte egli ritrovò il suo passato, tutto il poema della sua giovinezza supplichevole; ed ecco che, per la prima volta forse, gli apparve in tutta la sua realtà dolorosa il destino di colei che tanto lo aveva amato. Una grande pietà invase la sua anima e oltrepassando questa povera vita a lui cara si allargò sino ad abbracciare il destino non di una donna, ma della donna. Allora scrive alla signora Hanska: «La donna ha coll’uomo un duello in cui se non trionfa, muore. Muore se cade. Muore se è infelice. È orribile». La signora di Mortsauf è qui in queste parole; come la signora di Mortsauf anche la Dilecta è una vinta della vita; dal suo amore e dal suo dolore, dall’agonia di colei che si abbandona all’agonia di colei che si rifiuta, per l’opera di una pietà e di una dolcezza immensa, nasce il capolavoro che è la glorificazione del sacrificio».
***
  Questo affetto è stato il conforto della giovinezza triste e amara dell’autore della Commedia umana. La storia del Balzac giovine è nota: la sua vocazione letteraria era in contrasto con la volontà della famiglia; e ai suoi immensi sogni di gloria non rispondevano che le più tristi miserie concrete. Egli gridava, come invaso dalla febbre, come inseguendo una visione ingannevole che sempre gli sfuggiva: «Etre aimé et être célébre (sic)» e la celebrità non veniva e l’amore non lo curava. In una stamberga parigina, lottando con la miseria, cingendosi come di una corazza della sdegnosa fierezza che gli impediva di confessare alla sua famiglia la disfatta del proprio sogno, affaticandosi in mille tentativi, cercando febbrilmente, in una continua altalena di scoraggiamenti e di esaltazioni, la propria strada, la strada della vittoria, egli stava per darsi vinto, e abbandonata la grande sirena, la metropoli immensa in cui invano aveva cercato di farsi innanzi, e tornato alla pace campestre di Villeparisis andava forse seppellendo nell’oblio – a venti anni – i suoi fantasmi d’amore e di gloria, quando incontrò sul suo cammino madama di Berny.
  «Oui, plus tard – è una pagina del Lys dans la vallée – nous aimons la femme dans une femme, tandis que dans la premiére (sic) femme aimée nous aimons tout : ses enfants sont les notres (sic), sa maison est la nôtre, ses intérêts, son malheur est notre plus grand malheur … Ce saint amour nous fait vivre dans une autre, tandis que plus tard, hélas ! nous attirons une autre vie en nous-mêmes, en demandant á (sic) la femme d’enrichir de ses jeunes sentiments nos facultés appauvries».
  A noi piace figurarci l’affetto di madama di Berny – ella è già nonna quando conosce il Balzac ed è ormai vicina ai quarantacinque anni – come un sentimento materno di devozione e di protezione. E infatti ella ci appare come l’amica il cui patronato si esercita sulla vita e sull’ingegno dell’amico con una costanza ed una intensità mirabili. Scoppiano, divampano e poi languono le passioni violente; ma questa fiamma perennemente alimentata e che mai non si spegne non è fuoco divoratore, è luce che rischiara e che riscalda.
  Questa è stata appunto, pel Balzac, il consiglio illuminato e provvido di colei che seppe ridargli la fede nel suo ingegno, e seppe infondergli l’energia necessaria ad affermar le magnifiche qualità del suo spirito.
  Considerata sotto questo punto di vista, di ispiratrice e plasmatrice di quelle che poi nell’organismo complesso dell’opera del Balzac appariranno come idee-forze, come criteri fondamentali, la signora di Berny ci apparirà doppiamente benefica per l’efficacia esercitata sul pensiero e la vita del Balzac.
  Egli infatti nella sua prima giovinezza, vero figlio del secolo che sentiva ancora nel suo sangue l’arsura della febbre rivoluzionaria, andò per qualche tempo barcollando, affascinato e al tempo stesso insoddisfatto e quasi ripugnando, tra gli errori dello scetticismo filosofico, dell’indifferentismo religioso e della ribellione politico-sociale. Fu l’opera salutare della sua prima ispiratrice che dissipò dal suo spirito conturbato e incerto le larve maliarde e morbose e gli rivelò la sua vera essenza, le sue tendenze originarie, la sua calda e schietta passione pel tradizionalismo in ogni campo della vita, così in quello religioso come in quello sociale, nella filosofia e in politica, nel mondo delle idee e dei sentimenti e in quello dei fatti e delle moltitudini.
  Per giudicare la Dilecta ad una giusta stregua non bisogna dimenticare da un lato l’efficacia decisiva esercitata sul genio e sull’opera del Balzac e dall’altra (sic) l’inesauribile intima angoscia e il doloroso dramma interiore che questo affetto rappresentò nella di lei vita.

  Nemi, Tra libri e riviste. M.me de Girardin, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLI – Della Raccolta CCXXXV, Fascicolo 938, 16 gennaio 1911, pp. 370-372.
  p. 372. Dopo aver gustato per lungo tempo «le bonheur d’être belle», Delfina gustò quello d’esser buona: ella impedì che Hugo si guastasse con Lamartine, protesse Balzac, incoraggiò Gautier, consolò Giorgio Sand.

  Nemi, Tra libri e riviste. L’influenza di Chateaubriand, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLI – Della Raccolta CCXXXV, Fascicolo 939, 1° febbraio 1911, pp. 564-565.
  p. 564. Tracce dell’influenza di Chateaubriand, vive e parlanti, sono in Giorgio Sand e in Mérimée, in Balzac e in Musset […].

  Nemi, Tra libri e riviste. La tomba di Balzac, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLV – Della Raccolta CCXXXIX, Fascicolo 955, 1° ottobre 1911, pp. 510-511.

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  Il 18 agosto u. s. si commemorò al cimitero di Père-Lachaise il 61° anniversario della morte di Balzac, il celebre romanziere della commedia umana. Balzac morì infatti il 18 agosto del 1850 in una casa di via Fortunée, che oggi chiamasi via Balzac.
  Un collaboratore del Temps[19] ha colto questa occasione per ricordare alcuni particolari interessanti degli ultimi anni di vita del grande scrittore.
  Ammogliato da poco, il romanziere avrebbe desiderato vivere ancora, ma era inesorabilmente minato da una malattia al cuore, aggravata dall’enorme lavoro a cui egli si sottoponeva. Inutilmente il dottor Nacquart gli prodigava le cure più affettuose, e gli si raccomandava di non lavorare. Il Balzac prometteva di ubbidire, ma poi tornava al lavoro con maggior lena di prima. Basti dire che la Cousine Bette la scrisse in sei settimane. Questo eccesso di lavoro, come prevedeva il medico, lo condusse innanzi tempo al sepolcro.
  Il Balzac non fu soltanto un letterato, ma ebbe anche ambizioni politiche. La rivoluzione del 1848 aveva suscitato negli animi dei letterati un’emulazione generosa: tutti volevano rendersi utili alla patria. I poeti e i prosatori dichiarandosi «operai del pensiero» si gettavano con ardore nelle battaglie elettorali. Vittor Hugo, Alessandro Dumas, Lammennais (sic), Pierre Leroux, Michelet, Féval, furono candidati a Parigi, mentre A. de Vigny, E. Pelletan, E. Quinet, Montalembert si contentarono di suffragi provinciali. Alcuni di essi erano più o meno democratici o pedagoghi: Balzac era reazionario. «Che la nuova repubblica – gridava egli – sia potente e saggia!» E per concretar meglio le sue idee, inviava al Constitutionnel una lettera, nella quale diceva di mettersi a disposizione del suo paese. Ma in seguito, l’autore del Député d’Arcis si guardò bene dall’immischiarsi in tutto ciò che avesse avuto anche lontanamente relazione con le campagne elettorali. Sei giorni prima della votazione, il segretario del Club de la Fraternité Universelle l’invitò «a manifestare i suoi sentimenti politici» in seno al Club. Balzac rispose laconicamente così:
  «Il y a des hommes que les votes vont chercher, il y en a d’autres qui vont chercher les votes … Quant à moi, je désire ne tenir mon élection que de suffrages volontaires et non sollicités …»[20].
  Il romanziere fu troppo scrupoloso e naturalmente non venne eletto. L’autore di Illusioni perdute se ne consolò tuttavia sposandosi una donna che amava da diciassette anni. Diciassette anni infatti erano scorsi dal giorno in cui Gosselin gli aveva consegnata una lettera, vibrante d’affetto e di ammirazione, e firmata con questo misterioso pseudonimo «l’Etrangère». La lettera recava impressa sul sigillo una corona da conte, e portava il timbro della posta russa con l’effigie dell’imperatore Nicola.
  Il Balzac si mise subito in corrispondenza con la sconosciuta: prima le scrisse sul Quotidienne, poi le inviò una lunga serie di lettere che sono l’autobiografia più fedele del romanziere francese. Queste lettere ci fanno assistere giorno per giorno alla vita letteraria di Balzac, al suo furore di produzione, ai suoi scoramenti innanzi alle opere compiute, all’esaurimento delle sue energie, all’avidità di guadagno e di gloria che lo tormentava perennemente, alle alternative di successi e di sconfitte, a tutti quei drammi che fanno della sua esistenza agitata e della sua opera tumultuosa, un eterno soggetto di ammirazione e di stupore.
  Un giorno «l’Etrangère» lasciò le steppe dell’Ucraina per recarsi in Isvizzera. Balzac le scriveva a Neuchâtel, fermo posta, ma la sua mica era troppo vicina perché non andasse a farle una visita. Egli la vide per la prima volta in una bella giornata di settembre (1830) su le rive del lago di Neuchâtel, e ne riportò tale gioia che scriveva subito alla sorella annunciandole il suo fidanzamento. «… Essa (l’Etrangère) indossa un abito color viola; ha i capelli splendidamente neri, la pelle soave e deliziosamente fine, una piccola mano d’amore, e un cuore di ventisette anni».
  All’ombra di un grande albero si scambiarono un furtivo bacio giurandosi fedeltà eterna.
  Lei si chiamava Evelina, contessa Rzewuska, nata il 16 gennaio 1805: giovane ricchissima e maritata a certo Vinceslao Hanski. Questi era un perfetto gentiluomo: amava molto la musica di Rossini, ed era assai generoso. Una volta offrì a Balzac, in segno d’amicizia, un calamaio di malachite. Quando l’Hanski morì (10 novembre 1841) i due amanti, benché liberi, non poterono sposarsi subito, poiché la giovane vedova dovette sostenere lunghi processi per i diritti di successione e perché volle occuparsi prima dell’educazione e del matrimonio della figlia Anna. Il matrimonio fu finalmente celebrato il 14 marzo 1850, dopo un intervallo di diciassette anni!
  Il povero Balzac attese lungamente, ma in compenso, una volta tanto in sua vita si sentì felice. Il matrimonio lo liberò dal demone del guadagno e gli procurò grandi soddisfazioni. Ma pochi mesi dopo fu colto disgraziatamente dalla morte. Vittor Hugo lo visitò pochi giorni prima che morisse; Balzac si mostrò gaio, affettuoso, espansivo. Ma nei giorni seguenti peggiorò, e il 19 agosto gli amici appresero la morte dello scrittore con un avviso così concepito:
  «M.
  Vous êtes prié d’assister au convoi, service et enterrement de Mr. Honoré de Balzac, décédé le 18 août 1850, à l’âge de 51 ans, en son domicile, rue Fortunée, 14, qui auront lieu le mercredi 21 courant, à onze heures du matin, en l’église Saint-Philippe du Roule, sa paroisse.
  On se réunira à la chapelle du quartier Beaujon (sic), rue du Faubourg Saint-Honoré, 193.
De profundis.
  De la part de Madame Eve de Balzac, née Rzewuska, sa veuve, et de toute sa famille».
  La vedova gli sopravvisse fino al 9 aprile 1882, e ora anche lei riposa nel cimitero di Père-Lachaise, in quella stessa tomba, su la quale gli ammiratori del Balzac hanno deposto in questi giorni una corna di fiori.

  Enrico Nencioni, Scritti critici di letteratura italiana di Enrico Nencioni preceduti da uno scritto di Gabriele D’Annunzio, Firenze, Successori Le Monnier, 1911.
  La letteratura mistica, pp. 1-37.
  p. 32. Cfr. 1892.
  Niccolò Tommaseo, pp. 323-335.
  pp. 324-325. Cfr. 1882.
  L’umorismo e gli umoristi, pp. 175-202.
  pp. 183 e 191. Cfr. 1884.
  La musica nella letteratura, pp. 241-268.
  pp. 243-244; 249. Cfr. 1885.

  Alfredo Niceforo, La voce e le canzoni della città. Immagini d’oro, in Parigi. Una città rinnovata, Torino, Fratelli Bocca, Editori, 1911 («La Civiltà contemporanea», N. 10), pp. 84-86.
  pp. 85-86. Chi non sa che anche il Balzac … non sapeva il francese? Così hanno dimostrato quei pedanti i quali hanno pubblicato dozzine di pagine per allineare, gli uni dopo gli altri, gli errori di lingua del Balzac. Ma il Balzac, intanto, rinnovava il romanzo e la lingua — sicuro, la lingua! — in Francia. E perché? Per una ragione assai semplice. Sapere il francese, o, in generale, conoscere una lingua, non si­gnifica per nulla saperla come la sanno i pedanti, vale a dire conoscere a fondo tutto il vocabolario della lingua nobile e la grammatica. In questo caso chi sa, sa zero. Una lingua si compone di cento lingue. V’è la lingua nobile; v’è la lingua delle diverse classi sociali, poiché ogni classe ha una lingua; v’è la lingua delle diverse professioni; v’è anche la lingua dei malfattori e dei derelitti; v’è la lingua del marciapiede, della prigione, dell’osteria, dell’officina; v’è la lingua saporosa della regione geografica — monte, vallata, riviera: — vi sono cento e cento lingue accanto alla lingua cristallizzata dei pedanti, o nel sotto­suolo, ignorato, di essa! Sapere una lingua, dunque, è sapere tutte queste lingue. Conoscere soltanto la lingua cristallizzata è saper nulla. E scrivere una lingua e rinnovarla, come ha fatto il Balzac, come ha fatto in parte Victor Hugo, come ha fatto lo Zola – significa prendere tutto ciò che vi è di vivo, di agile, di meraviglioso, di espressivo, di lucente, di policromo, nei cento e cento linguaggi che vivono a fianco o sotto la cristallizzazione accademica della lingua, e portare tutto questo afflusso di sangue purpureo nella vita del linguaggio e nello stile.
  I grandi hanno fatto così. E così hanno dato vita e immagini d’oro alla lingua, quando la lingua sembrava dovesse morire.

  Francesco Oddone, Cavour, negoziante in granone!, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 263, 22 Settembre 1911, p. 3.
  [Su una raccolta di lettere scritte da Cavour tra il 1837 e il 1840].
  Siamo nel 1839. In Francia, Onorato Balzac trova il parlamentarismo già sulla via della decadenza, e colloca precisamente nel ’39, la scena di quel fine e satirico capitolo della «Commedia umana» che è Le Député d’Arcis.


  Ugo Ojetti, Henri de Régnier e l’Italia, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36°, Num. 53, 22 Febbraio 1911, p. 3.

  Dov’è oggi in Francia uno Stendhal, un Balzac, un Hugo?


  Ugo Ojetti, I diritti della nonna, «Corriere della Sera», Milano, Anno 36, 24 Giugno 1911, p. 3.
  [Su: Marcel Prévost, L’automne d’une femme].
  In pieno romanticismo la donna a venticinque anni era una donna stanca, più o meno delusa, certo pronta, a ritirarsi nella maternità, o nella fedeltà verso un uomo o verso la memoria d’un uomo. […].
  La femme de trente ans, lasciando da parte l’omonimo romanzo di Balzac, era una pazza, quasi una suicida, se ricominciava ad amare.

  Domenico Oliva, Note di uno spettatore, Bologna, Nicola Zanichelli, 1911.

  Carlo Goldoni (25 febbraio 1907), pp. 1-16.
  p. 10. Appena per la vastità del quadro gli si può paragonare il Balzac, per la fertilità dei tipi e degl’intrecci il Dickens […].

  Sior Todero Brontolon.
  Teatro Quirino, 18 Gennaio 1907.
  Compagnia Veneta di Ferruccio Benini, pp. 45-51.
  p. 48. Sior Todero non ha nella letteratura che un solo personaggio a cui possa essere paragonato, il Père Grandet del Balzac: direi che il Balzac procedette per imitazione s’egli avesse conosciuto il teatro italiano. Ma tra i due preferisco Sior Todero, anche perché, con solenne ingiustizia, è meno famoso.

Vittoriano Sardou (8 novembre 1908), pp. 87-94.
  p. 89. Eravamo ai tempi del Secondo Impero, e si voleva sopra ogni cosa godere, ridere, dimenticare: si pretendeva anche essere realisti: il Sardou passava come un realista a fianco del Dumas juniore e dell’Augier, i suoi illustri compagni; i suoi illustri rivali, e il Dumas juniore e l’Augier e il Sardou non si accorgevano di continuare il romanticismo, mettendoci dentro qualche pizzico del Balzac, il quale d’altronde era anch’egli un romantico, almeno romantico era spesso […].

Rabagas.
Teatro Costanzi, 28 ottobre 1903.
Compagnia Mariani-Zampieri, pp. 111-117.
  pp. 112-113. Penso ch’egli [Sardou] non si sia nemmeno accorto di quanto fosse realmente l’opera e che non ne abbia inteso la significazione e prevedute le conseguenze. La quale opera […] è più vera oggi di quello che non fosse allorchè cominciò a vivere la vita della scena: è più vera, perché il pubblico vi scorge rappresentato, quasi senza caricatura, il radicalismo contemporaneo e il socialismo di questi primi anni del secolo ventesimo, un nuovo genere di speculazione, come il Balzac anch’egli precursore, faceva dire al suo Mercadet.

La Pesta.
Teatro Argentina, 30 Marzo 1906.
Drammatica Compagnia di Roma, pp. 119-124.
  p. 121. Qual è la formola del teatro francese della seconda metà del secolo decimonono? L’ha escogitata un critico, Doumic, ch’è poco simpatico, sopra tutto ai giovani, ma che di tanto in tanto la indovina. Combinare il romanzo del Balzac col vaudeville dello Scribe: ecco la formola. Ora nel teatro del Sardou il romanzo del Balzac non c’è per niente […].

I Ventri dorati.
Teatro Argentina, 9 Dicembre 1906.
Drammatica Compagnia di Roma, pp. 205-214.
  p. 207. […] i critici francesi sostengono che il realismo del Fabre è quello del Balzac, il quale realismo dopo tante speranze, dopo tanti tentativi, dopo tante illusioni, dopo tante delusioni, sale finalmente sul teatro coll’integrità della sua formola, col suo processo d’intendimento, col suo sdegno delle regole della composizione e dell’euritmia artistica, colle sue predilezioni per la meccanica sociale, colla sua genialità shakespeariana che si modernizza, colla sua creazione saint-simoniana che si democratizza.

Gli affari sono affari.
Teatro Nazionale, 24 Novembre 1904.
Compagnia del teatro della “Gaîté” di Parigi, pp. 229-237.
  pp. 231-232. «Les affaires sont les affaires» è commedia che deriva dalla letteratura del Balzac e di Emilio Zola, come quest’ultima è, o meglio vorrebbe essere, francamente realista, come quella del Balzac si fa ingrandire un carattere, per crearne un tipo significativo e spaventevole, e che potrebbe anche possedere la bellezza dell’orrido. La «Commedia umana» formicola d’uomini d’affari, di banchieri, d’intraprenditori, di mercanti, d’usurai, alcuni dei quali hanno proporzioni gigantesche: parmi che il Mirbeau abbia inteso fondere e Nucingen e Grandet e Mercadet, non dimenticando il Saccard dell’«Argent» d’Emilio Zola, né il magnifico Tessier di quel capolavoro ch’è la commedia «I Corvi» del povero Enrico Becque. Il suo Isidoro Lechat, che non è avaro come Grandet ed è ben lungi dall’essere ridotto ai comici espedienti di Mercadet, ha tuttavia lo spirito di questa genìa, lo spirito rapace e inventivo, l’umore beffardo e ironico, l’amoralità organica e fondamentale, la passione dei grandi colpi e delle grandi devastazioni, la voluttà del dominio per mezzo del denaro, cui si aggiunge la vanteria, la fanfaronata, la «blague» […].

  Domenico Oliva, “Il suo Primo Viaggio” dei Signori Xanroff e Guerin (Compagnia Galli-Guasti, Ciarli Bracci – 9 Novembre – “Teatro Nazionale”), in Il Teatro in Italia nel 1909, Milano, Dott. Riccardo Quintieri – Editore, 1911, pp. 334-339.
  p. 337. S. M. aveva notato all’Opéra una ballerina della seconda quadriglia, un rat come si dice da oltre un secolo, i rats abbondano anche nei romanzi del Balzac […].


  Antonio Palin, Rassegna artistica. Oscar Wilde e Gabriele d’Annunzio a Parigi, «L’Indipendente», Trieste, Anno XXXV, N. 126, 31 Maggio 1911, p. 3.

  A Parigi, l’elegante «writer of fictions» [O. Wilde] inanella i suoi capelli come il Nerone del Louvre, indossa lavorando una lunga ve­ste bianca come Balzac, e la figura se­mitico orientale di Sarah Bernhard lo esalta e lo affascina.


  Gino Pestelli, Il “Principe dei critici”, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 211, 1° Agosto 1911, p. 3.
  Se poi Jules Janin non volle avere troppi amici, egli s’ebbe certo molti nemici. Alessandro Dumas e Balzac non gli perdonarono mai gli aspri giudizî sulle opere loro […].

  Vincenzo Picardi, La crisi del romanticismo in Gustavo Flaubert, «Acropoli. Rivista mensile di cultura», Firenze, La Rinascita del Libro, Casa editrice italiana di A. Quattrini, Anno I, Volume II, Febbraio 1911, pp. 188-201.
  p. 189. […] il romanzo si rinnovava con Han d’Islande, Notre Dame de Paris, con Rouge et Noir (sic), con Indiana della Sand e il Balzac poneva le basi della Comèdie (sic) Humaine, e Théophile Gautier in Mademoiselle de Mausin (sic) avvicinava ancor più che gli altri l’arte alla vita. […].
  pp. 198-200. Leggendo i Miserables (sic) si esaspera di tutto quel che vi è di falso e superfluo: «Ce sont des mannequins, des bouchommes en sucre! – esclama – Et les digressions! Y en a-t-il? Y en a-t-il! … Il n’est pas permis de peindre si faussement la société quand on est le contemporain de Balzac et de Dikens (sic)… […]»[21]. […].
  E così al romanzo pittoresco, melodrammatico, personale, fantastico, di Victor Hugo, ove un’allucinazione di colori nasconde l’assenza di psicologia: alla Comédie Humaine del Balzac, composta più di scienza che d’arte, colossale monumento di analisi umana priva di perfezione formale; al romanzo di Théophile Gautier più vicino che Hugo alla verità, ma ancora prolisso e personale, sostituì la sua opera mirabile, avvicinandosi ancor più alla natura e confondendo in essa il proprio io, risalendo nel tempo con la cultura, discendendo nel cuore umano con l’analisi, fuse il romanticismo formale con il realismo senza stile, integrando l’eloquenza di Victor Hugo con l’analisi spietata di Onorato di Balzac.

  G.[iovanni] Rabizzani, Un meccanismo umana, in Pagine di critica letteraria, Pistoia, D. Pagnini, Libraio-Editore, 1911, pp. 203-212.
  p. 204. L’evidenza di qualche rappresentazione realistica, nel Balzac, nello Zola, nel D’Annunzio, nel Tolstoi, in dieci altri; l’analisi psicologica di qualche personaggio anormale, – e tutti i personaggi d’arte sono in certo modo anormali, – trassero in inganno lo scienziato, che ricercò le proprie leggi in opere che non obbedivano a legge alcuna, se non a quella legge estetica che genera la creazione d’arte e s’identifica con essa.

  Ernesto Ragazzoni, Il rifugio di Balzac (Nostra corrispondenza particolare), «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 359, 28 Dicembre 1911, p. 3.


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Parigi, dicembre.
  47, rue Raynouard.
  Si è celebrata, uno di questi giorni, sotto la presidenza di parecchi rappresentanti delle autorità più costituite, e colla pompa dei migliori discorsi, la gloria di Balzac, in quella piccola casa di Passy dove l’autore della Comédie humaine si rifugiò per sfuggire alle persecuzioni dei suoi creditori.
  I creditori, aveva melanconicamente osservato Balzac, ci sanno trovare assai meglio ed assai più prontamente dei nostri amici; vengono spesso per una piccola somma là dove gli altri non vengono che per una grande affezione.
  Costretto, in seguito al disgraziato esito di una speculazione edilizia, a lavorare, se possibile, il doppio di quanto lavorava, il grande romanziere si diede a cercare un asilo modesto, discreto, quasi secreto, vicino a Parigi, e ad un tempo lontano dai boulevard (sic), dove non potessero rintracciarlo né i creditori né gli importuni, genìa anche più terribile dei creditori, e trovò questo rifugio in fondo ad un giardino ombroso di Passy, che la capitale allora non aveva ancora divorato.
  Era il triste inverno del 1840. A quell’epoca la casetta di rue Raynouard (che si chiamava rue du Roc) apparteneva ad un agiato possidente, certo signor Grandemain, antico negoziante. Ora, una sera di novembre del detto anno 1840, il signor Grandemain terminava tranquillamente la sua giornata accanto al fuoco, preparandosi a ritirarsi di buon’ora nella sua camera da letto, quando alla porta si sentì improvvisamente suonare il campanello. A malgrado dell’ora indebita l’ex negoziante consentì ad aprire al visitatore attardato. Questo sconosciuto era un uomo sulla quarantina, di forte complessione, quasi corpulento, dai capelli folti ribelli, dal volto pieno, colorito. Dichiarò di chiamarsi de Brugnol e di avere l’intenzione di affittare il piccolo padiglione in fondo al giardino Grandemain. Veniva da Ville d’Avray ed era accompagnato da una signora. Il contratto fu concluso ed il giorno dopo il signore e la signora Brugnol prendevano possesso dei locali nelle condizioni stabilite. Il proprietario, allora, non potè a meno di notare che i suoi simpatici inquilini mancavano di moltissimi oggetti che sono necessari alla esistenza quotidiana delle coppie regolari, e gentilmente offerse però, per cuocere il pranzo, alcuni utensili presi alla sua propria batteria di cucina. Il signor de Brugnol, ottimo uomo, molto espansivo, sempre colla mano tesa e col cuore sulla mano, non volle essere da meno in cortesia del suo accoglievole padrone di casa, ed in attestato di profonda riconoscenza, regalava qualche tempo dopo alla signora Grandemanin, per la sua prima comunione, un bel libro da messa dorato ai margini.
  Una delle cose più notevoli, nel mobilio del signor de Brugnol, era un candelabro a sette rami d’argento vermeil; alla luce di questo candelabro ieratico, il signor de Brugnol vegliava per notti intere, scriveva continuamente, coprendo colla sua scrittura febbrile risme di carta bianca. A traverso i vetri illuminati del padiglione solitario, si poteva scorgere lo strano individuo, vestito tutto di bianco come un domenicano, stretto alla vita da un cingolo monastico; e così camuffato, coi capelli scarmigliati, il volto congestionato dalla tensione cerebrale e dalla continuità di lavoro enorme, il pover uomo scriveva, scriveva, scriveva …
  «Non è una cosa naturale», pensò il signor Grandemain. «Bisogna che io veda chiaro in questo mistero».
  Dopo un’inchiesta, condotta celermente ma colla massima discrezione, l’egregio proprietario apprendeva un fatto che lo faceva trasecolare.
  Quel pover uomo era un grand’uomo e si chiamava, non de Brugnol, ma Onorato Balzac.
***
  Avete voi mai sognato – se nell’età in cui ancora si sogna vi accadde di trovarvi fra mano qualche volume della «Commedia umana» – di essere Daniele d’Arthez e di coprirvi di gloria e di opere per essere consolato un giorno di tutte le tristezze di una giovinezza povera da una Diana duchessa di Maufrigneuse, la sublime principessa di Cadigna (sic)? O piuttosto, più ambizioso e meno imbevuto di letteratura, vi siete mai augurato, voi, di vedere, novello Rastignac, le porte dell’alta società aprirsi dinanzi alle vostre cupidigie, grazie alla chiave d’oro sospesa al braccialetto di Delfina di Nucingen? Romantico, avete voi mai sospirato verso l’angelica tenerezza di una Enrichetta di Mortsauf, ed assaporato in pensiero, le dolci emozioni di fiori colti, di confidenze scambiate, di strette di mano furtive in riva ad un’acqua azzurra e lenta, in una valle lontana, di cui la vostra amica fosse come il candido giglio, l’ideale castissimo fiore? Tra le fanciulle intorno a voi, non avete mai cercato il puro sorriso di Eugénie (sic) Grandet? Non avete mai sussultato, dinanzi all’enimma di certi sguardi, pensando che potevate trovarvi in presenza al tragico mistero di una Honorine o di una Veronique (sic)?
  O voi tutti che l’opera di Balzac ha fatto o sognare, o pensare, o fremere, non dimenticate, se mai la sorte vi conduce a Parigi, di fare un pellegrinaggio in compagnia di un devoto delle reliquie e dei ricordi di Balzac, il signor de Royaumont, il quale ne è anzi il pio custode, e quelle ore mi sono fra le più care che io m’abbia trascorse. Nella casa vuota, e pur così piena della grande anima che l’ha abitata, eravamo noi due soli. Il cielo livido, di fuori, era sconvolto dalla tempesta. Gli alberi, che le raffiche parevano voler strappare, davano schianti. La pioggia infuriava ai vetri e quasi a lunghe scariche di pallini. Sulle cose era calato come un crepuscolo doloroso. Così forse Balzac, intorno al suo asilo, mentre chino allo scrittoio vegliava inseguendo le sue fantasie sentiva ruggire e minacciare la vita. Quello scrittoio c’è ancora; c’è ancora il suo seggiolone, vecchio mobile sdruscito, di cui un rigattiere non darebbe due lire ma su cui vorrei vedere chi avrebbe l’audacia di sedersi; e ancora si vedono raccolti in una vetrina accanto il suo pesante calamaio di metallo, la sua penna, e pagine di bozze raschiate di correzioni e fogli di manoscritti su cui si è fissato il suo pensiero.
  Gli anni passati da Balzac in questo rifugio di Passy, dal 1840 al 1847, furono i più laboriosi della sua carriera. Pochi amici vedeva e raramente. Théophile Gauthier (sic), Alessandro Dumas, Gerard (sic) de Nerval, Marceline Desbordes-Valmore, Leon (sic) Gozlan, che scrisse il «Balzac in pantofole», furono quasi i soli che poterono penetrare fino a lui. Una volta ci venne a far colazione il celebre poliziotto Vidocq, ma era l’epoca in cui Balzac scriveva «L’ultima incarnazione di Vautrin» ed aveva bisogno di documentarsi. Balzac si era di se stesso condannato ad un regime di lavoro forzato. «Lavorare, cara contessa», scriveva egli a madame de Hanska, la gran passione della sua vita, «lavorare vuol dire, per me, levarmi ogni notte a mezzanotte, scrivere fino alle otto, far colazione in un quarto d’ora, rimettermi al tavolino fino alle cinque, desinare, coricarmi e ricominciare il domani. Da questo lavoro escono cinque volumi in quaranta giorni …».
  E così, in sette anni nacque tra la febbre, gli entusiasmi, le angustie, le lagrime, un’intera serie di capolavori.
  Ursule Mirnet (sic), les Memoires (sic) de Deux Jeunes Mariées, la Rabouilleuse, Modeste Mignon, Les Paysans, Splendeur (sic) et misères des courtisanes, Beatrix (sic), Mercadet, la Cousine Bette, le Cousin Pons, le Deputé (sic) d’Arcis, – non cito che i maggiori – sono stati creati qui.
  Titano inchiodato alla sua propria fatica, divorato dal suo proprio genio, Balzac si ammazzava. E lo sapeva. «Non ho che la bara in prospettiva», egli scriveva, «ma il lavoro è un nobilissimo sudario».
  Ed eroicamente continuava.
***
  Tutti i suoi libri non formano che un libro, libro vivente, concitato, profondo, dove va, viene, si agita, tumultua tutta la nostra civiltà contemporanea, libro potente che l’autore ha intitolato «Commedia» e che avrebbe potuto intitolare «storia» e che prende tutte le forme, assume tutti gli stili, ora l’asprezza amara di Giovenale, ora l’intensità tragica di Shakspeare (sic), ora la lucidità di Swedemborg (sic); a quando, la fantasia di un novellatore orientale, il fervore cristiano di un apostolo, la precisione di uno scienziato, e che si corona colla larga sana risata di Giovanni Boccacci (sic) e di Francesco Rabelais.
  Si è detto di Balzac che, coi suoi personaggi, egli ha arricchito lo stato civile di un popolo.
  Ero qui nel luogo istesso dove nacque dalla sua mente, questo popolo; nello studio, ora deserto, donde o bruciate da una passione o illuminate da un ideale, o tormentate da un rimorso, le sue mille anime si diffusero pel mondo; e ad un tratto, mentre il tempestoso crepuscolo invernale faceva scivolare dai vetri agli angoli dei soffitti le prime ombre e le prime malinconia, mi immaginai vedervele, una dopo l’altra, ritornare come a ricercarvi il loro creatore.
  Ciascuna passa col suo amore, colla sua speranza, col suo delitto, colla sua chimera, col suo mistero.
  Baldassarre Claes (sic), il «chercheur d’absolu», guarda tra le sue dita la gemma distillata dai suoi crogiuoli, meno pura e meno preziosa della lagrima che splende nella pupilla di sua figlia sacrificata. Il vecchio Grandet stende le sue mani avide al suo oro. Z. Marcas, nato a dominare il mondo e che la sorte relega in una soffitta, sospira: e che altre, se non la circostanza, mi è mancato per essere Napoleone? Contro la colonna di bronzo di piazza Vendôme, grida il colonnello Chabert: e riconoscetemi, son io che ho sfondato i quadrati prussiani ad Eylau. La bella marchesa d’Espard sorride sicura e perfida. Non è lei che ha detto: «due parole di una donna possono far uccidere due uomini?» Birotteau, il grande profumiere, di avvia coll’illustre Gaudissart, il celebre commesso viaggiatore. L’abate Bonnet, prega; Bridau distribuisce sciabolate ed intriga; la Palférine fa all’amore collo spirito di Lanzun, Louis Lambert bussa alle porte chiuse degli arcani di Pitagora. Giunto dal nulla alla dignità di pari di Francia, con 300 mila franchi di rendita, Rastignac, l’arrivista sentenzia: «Non c’è virtù assoluta: ci sono solo circostanze in cui l’uomo è virtuoso». Passano: il cugino Pons, il povero sant’uomo malato di ghiottoneria; i notai del Contrat du (sic) Mariage, nobili e grandi come eroi; il barone Nucingen, personificazione di Rotschild; il vecchio Goriot, più sventurato padre del re Lear, chè a lui manca persino la consolazione di Cordelia; Gobseck, che ha l’anima di Shylock; Vautrin che ha la mente di Talleyrand e il fegato di Coriolano; e le fanciulle e le vecchie zitelle, le grandi dame come la duchessa di Langeais che diventa suor Teresa; e le portinaie come la fosca madame Cibot; gli uomini di genio infelici come Daniel d’Arthez ed i mediocri fortunati, come Pierre Grassou … tutta la società, tutta la «Commedia umana» … Al sommo, sulla scala dove Giacobbe ha veduto scendere gli angeli, Seraphita (sic), questa sorella di Lohengrin, intona il grande inno: «salve o pietra, tu sarai fiore! Salve o fiore, tu sarai la donna! Salve o donna, tu sarai l’amore. Salve o tutti voi che sarete il dolore e la redenzione!».
  La sera era ormai scesa. Non rimanevano in luce, contro la finestra, nello studio deserto, che il vecchio seggiolone sdruscito e la tavola vuota. Tutto intorno era l’ombra. Non ho io inteso anche una voce, uscire da quest’ultimo residuo di luce:
  «Ho veduto», diceva la voce, e ripeteva parole che Balzac aveva scritto di se stesso, «ho veduto assai giorni di angoscia e di miseria, ma colla mia volontà e sopratutto colle illusioni, ho sempre avuto la forza di tirare innanzi».

  Ernesto Regazzoni (sic?), Il dramma di un matrimonio letterario, «La Stampa», Torino, Anno XLV, Num. 114, 25 Aprile 1911, p. 3.
  La letteratura è una cosa e la realtà è un’altra. Balzac, che ha fatto la fortuna del barone Nucingen, che ha ideato i colpi di mano di Gobseck, che ha architettato le audaci speculazioni di papà Grandet, Balzac finanziere senza pari in teoria, non valeva nella pratica l’ultimo erbivendolo illetterato. Tutta l’acuta psicologia di Robert Sherard non gli è servita a penetrar nulla […].

  Federico de Roberto, L’albero della scienza. Nuova edizione riveduta dall’autore, Milano, Fratelli Treves, Editori, 1911.
  Raccolta di novelle pubblicate, in prima edizione, dalla Libreria ed. Galli di Milano nel 1890. L’indicazione delle pagine si riferisce alla recente edizione dell’opera pubblicata, a cura di Rosario Castelli, dalla Edizioni Lussografica di Caltanissetta.

Il gran rifiuto.
[Cfr. «Lettere e Arti», Bologna, n. 32, 11 agosto 1889].
  p. 91. Balzac, nella sua curiosa statistica coniugale, dopo aver calcolato che in Francia vi sono quindici milioni di donne, riduce la cifra di nove milioni, perché nove milioni di esseri «offrono bensì a prima vista tutti i caratteri attribuiti alla specie umana; hanno l’osso joide, il becco coracoide, l’acromio e l’arcata zigomatica; è permesso dunque ai professori del Giardino delle Piante di classificarle nel genere bimane; ma che noi le consideriamo come donne! … ecco ciò che la nostra fisiologia non permetterà mai!».

La Salvazione.
[Cfr. «Lettere e Arti», Bologna, n. 44, 3 novembre 1889].
  p. 163. Fermatosi [Alberto Gismondi] ancora una volta, si trovò dinanzi allo scaffale dei libri. […] V’era lì un palchetto pieno di romanzi, in ciascuno dei quali ricordava qualche dato conforme alla presente realtà. Balzac, con la sua Fisiologia del matrimonio, gli dava consigli, metteva a sua disposizione un arsenale di mezzi inquisitorii, di strumenti tirannici, ai quali lo stesso autore non credeva.

  Ettore Romagnoli, Carducci e i nuovi sofisti, «Acropoli. Rivista mensile di cultura», Firenze, La Rinascita del Libro, Casa editrice italiana di A. Quattrini, Anno I, Volume II, Febbraio 1911, pp. 129-153.
  p. 144. Dice Balzac che l’uomo di genio vede e intende tutto, e che i mediocri s’ingegnano di scavizzolare quello a cui egli meno rivolse l’attenzione per illudersi di pur essergli in qualche cosa superiori.
  Critici della sintesi spirituale, attenti che a ciò non si riduca la vostra teoria della limitazione.

  Ettore Romagnoli, Libri di versi, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLV – Della Raccolta CCXXXIX, Fascicolo 956, 16 ottobre 1911, pp. 588-604.
  p. 598. Balzac quando presenta un eroe un poeta un uomo di spirito, […] li fa parlare come eroi, come poeti, come uomini di spirito. Perciò è Balzac.

  Giovanni Rosadi, Oscar Wilde in carcere, «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti», Roma, Direzione della «Nuova Antologia», Quinta Serie, Volume CLV – Della Raccolta CCXXXIX, Fascicolo 955, 1° ottobre 1911, pp. 407- 426.
  p. 408. Miss Jane Francesca Elgee, dalla quale Oscar nacque a Dublino nel 16 ottobre del ’54, era una donna assai strana. Il reverendo Carlo Maturin, un romanziere che il Baudelaire non meno che il Balzac ammirava, […] era suo zio.


  Franco Sabelli, Le memorie di un editore, «Illustrazione Popolare. Giornale delle famiglie con Album fotografico», Milano, Anno 42, N. 21, 18 a 24 Maggio 1911, pp. 328-329.

  p. 328. Chi fu Werdet, che pubblicò quasi tutti i volumi di Balzac, e ne parlò senza amarezza il giorno in cui l’autore della Commedia umana, dopo di averlo dissanguato, lo abbandonò? Chi seppe mai il turbamento di Werdet per Balzac, quanto denaro gli costò la sua fama, come logorò per lui tutta la sua stessa esistenza, il suo avvenire?

  Edoardo Scarfoglio, Le terre barbariche, in Il Libro di Don Chisciotte. Nuova edizione riveduta dall’autore con prefazione e documenti inediti, Napoli, “Il Mattino”, 1911, pp. 17-79.
  Su Balzac, pp. 56-67. Cfr. 1885.


  Nicola Serena di Lapigio, Le Cronache. Cronache di prosa [Su Sfinge, L’anima gemella], «Rassegna Pugliese di Scienze, Lettere ed Arti», Trani-Roma, Anno XXVIII, Vol. XXVI, N. 12, Dicembre 1911, pp. 409-412.

  p. 411. Qui vien fatto di domandarsi: Siamo o non siamo in provincia? Si tratta o no di una fanciulla ben sorvegliata? A Sfinge non è certo ignota la osservazione del Balzac: «Un des plaisirs les plus vifs en province, et que chacun poursuit avec le plus d’achernement (sic) est la découverte des secrets en amour». [Citazione tratta da La Grande Bretèche. Les Trois Vengeances; cfr. Autre étude de femme].


  Scipio Sighele, Leggendo Balzac, in Nell’arte e nella scienza, Milano, Fratelli Treves editori, 1911, pp. 37-102.
  Cfr. 1908.

  Aldo Sorani, Amore in maschera. Il romanzo postumo di Balzac, «Il Marzocco», Firenze, Anno XVI, N. 13, 26 Marzo 1911, pp. 3-4.[22]

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  Un romanzo nuovo di Balzac? Non mi maraviglia. Balzac era uomo capace di tutto, anche di scrivere romanzi, non per pagare dei creditori, ma per offrir doni alle belle dame e nasconderli agli occhi del pubblico. Dalla sua potente macchina cerebrale che valse ad edificare un’opera ciclopica potrebbero essere usciti altri dieci volumi che non conosciamo perché la sua potenza era varia, inesorabile e sempre fluente a tal punto che possiamo talvolta sognarla ancora in azione, come se il romanziere, mal contento del suo sepolcro, divincolantesi fra le strette della morte, spandesse ancora a larghi flutti il suo genio sul mondo. Maraviglioso di fecondità, Balzac è come il genio della creazione: la sua arte e il suo destino sono un continuo procreare ed egli genera inesauribilmente allineando a battaglioni i suoi personaggi, inventando a gruppi le sue favole, esprimendo fuor da tutte, le viscere una umanità evocata e raffigurata con spiriti giganteschi.
  Ciò bisogna intendere e ricordar bene per poter assegnare a questo nuovo suo romanzo, o meglio a questa sua antica novella, rimasta inedita per miracolo: l’Amour masqué, quel posto che si merita nella densa e multiforme compagine dell’opera totale del romanziere.
  L’Amour masqué son pagine scritte in una tregua dalla rude fatica diurna e notturna cui Balzac si costringeva per riuscire a sostenere il peso del suo cervello e della sua esistenza, scritte in uno di quei momenti in cui lo spirito gli si raccoglieva dalle vaste figurazioni nelle oasi brevi cui lo attiravano alcuni affetti sentimentali, o alcuni problemi della sua spicciola filosofia. Una piccola opera riposa da una grande opera, un piccolo amore riposa da un grande amore, un piccolo quesito sociale riposa dalla grande metafisica anche il portentoso animo di Balzac. Ed ecco Balzac imbastire per un omaggio alla duchessa di Dino l’Amour masqué, che doveva, sotto una magnifica legatura, testimoniare riconoscenza e rispetto alla dama aristocratica e benigna. Il manoscritto del romanziere doveva valere come una bella gemma e valere per lei sola. Una semplice favola raccontata ad una magnifica dama nella solitudine d’una reverenza senza sottintesi e senza malintesi, questa che chiude il volume e vorrebbe dargli tutta l’ispirazione: «solo a spese della propria felicità una donna può cercar di sottrarsi agli impacci severi che furono imposti al suo sesso».
  Mi dispiace per Balzac, e più assai mi dispiace per la duchessa di Dino: la morale dell’Amour masqué dimostra precisamente che una donna, anche sottraendosi agli impacci imposti al suo sesso, può raggiungere la propria felicità: dimostra cioè proprio il contrario di quel che doveva dimostrare. L’eroina di Balzac è Elinor de Roselis, una piacevole e romantica donna la quale, essendosi disgustata delle sue prime infauste nozze con un vile uomo violento e sprezzante, alla morte di costui si ritrova sola e delusa dinanzi alla vita, senza che nemmeno il marito le abbia lasciato un figlio o una figlia a consolarla. Anima ardente – sbocciata là dove tante altre anime romantiche avevano l’abitudine di sbocciare a servizio dei romanzieri – sotto il corrusco cielo della Martinica, Elinor de Roselis insofferente della sua solitudine senza scopo e senza gioie medita un’impresa nuova e arditissima che le permetta di divenir madre senza aver la noia di avere un altro marito che potrebbe essere così sprezzante e violento come il primo d’infelice memoria. Chi potrebbe darle le gioie della maternità senza farle subire il peso del suo perfido potere maschile? Elinor de Roselis va a cercare il suo uomo-perla proprio dove cotesti uomini non son soliti radunarsi, ai balli dell’Opéra. Ma Elinor è fortunata: ha subito il piacere d’imbattersi in un cavalleresco, prudente e saggio capitano di cavalleria che si innamora del mistero chiuso dentro un domino e sotto una maschera e che si figge nella memoria per più giorni la donna dalle belle parvenze che gli fece l’onore al ballo di richiedergli il braccio. Léon de Préval non sa nulla della bella maschera che lo induce in tentazione e che, in cambio delle confidenze che egli le fa, non risponde che con mezze parole e con fughe improvvise; ma finalmente un giorno l’incognita lo porta al colmo della gioia concedendogli un intimo colloquio in una casa tutta buia dove egli si era adattato ad andare con la benda agli occhi e dove non ha visto nulla, non sa nulla. Ma che importa? Egli è felice del suo nuovo possesso e non immagina neppure per sogno quel che qualche tempo dopo un’epistola straordinaria della sua incognita gli rivelerà: egli ha servito a dare un figlio ad una donna dalla «testa viva» e dell’«anima in calore» la quale aveva bisogno d’un rampollo consolante che egli dovrà conoscere un giorno, se questo rampollo verrà. La posizione del povero Préval è abbastanza strana ed imbarazzante e dolorosa. Dopo il tempo necessario e convenuto, egli viene a sapere d’essere padre d’una bambina che non ha mai vista, che non sa dove sia, che non sa con quale cooperazione abbia generata! Roba dell’altro mondo; di quello romantico. Egli è in felicissimo e qualunque altro lo sarebbe stato per molto meno.
  Molto infelice invece non è Elinor de Roselis che ha finalmente una figlia e può finalmente in qualche modo combattere il tedio della vita. La sua imprudenza, così ben calcolata, l’ha fatta felice, benché Balzac alla fine del romanzo dica il contrario. Ella può essere ben contenta: è madre, e non è moglie, ha una figlia che è la sua gioia, e non ha un marito che potrebbe essere la sua disperazione. Non chiedeva di più: ha avuto tutto quel che chiedeva e sarebbe più felice ancora se pensasse che la bontà di Léon de Préval è un’eloquente smentita alla sua teoria della eterna generale cattiveria degli uomini. Ma ci penserà … Préval, disperato, s’arruola per la guerra, naturalmente in Ispagna, e un giorno, due anni dopo l’inizio della sua straordinaria paternità, si trova, durante il viaggio di ritorno dalla guerra, a cadere esausto e quasi moribondo proprio – indovinate un po’ dove? – proprio dinanzi al castello in cui Elinor de Roselis si è rifugiata con sua figlia. È una combinazione come un’altra. Léon de Préval è curato, guarito, custodito dalla sua bella incognita e dalla sua più incognita e più bella bambina; ma Elinor finalmente si innamora di lui e decide di rivelargli l’essere suo. La rivelazione non avviene subito. Balzac vuol riportarci ad un nuovo ballo all’Opéra. Léon de Préval ci è andato, invitato a proposito. Si vede ripreso pel braccio dalla sua maschera d’un tempo, s’induce a ritornar nella casa misteriosa e ritrova nell’incognita, finalmente svelata, la sua infermiera, e fa l’ambita presa di possesso di una figlia graziosissima e di una moglie che è per lo meno originale …
  Se voi credeste che Balzac abbia voluto scherzare scrivendo quest’Amour masqué sareste in un grave errore. L’Amour masqué è una cosa serissima e Balzac credette di aver scritto un’avventura nuova alla cui peregrinità egli annetteva l’importanza che annetteva sempre, almeno per un’ora, ai suoi piani finanziarî fantastici e spettacolosi; alle sue incongruenze mirabolanti; alle sue costruzioni logiche bislacche e barocche. Tutto ciò che fioriva dalla sua immaginazione tumultuosa appariva ai suoi occhi sotto aspetti della più alta serietà, dalla più convivente rispettabilità ed egli si lasciava, prima d’ogni suo lettore, illudere e affascinare dalle sue favole romantiche che dovevano talvolta, secondo il suo pensiero, scompaginar l’ordine dei tempi e sommuovere i destini degli uomini.
  L’Amour masqué va dunque preso sul serio, nello stesso senso in cui lo prendeva Balzac, il quale era potentissimo a dimenticare un’ora dopo tutto ciò che lo aveva entusiasmato un’ora e se fosse oggi vivo ci consiglierebbe da sé di correr subito da quest’ultima novella alla Cousine Bette o al Père Goriot; cioè di prender sul serio l’Amour masqué, fino ad un certo punto … Solo a Balzac noi possiamo permettere certe dimostrazioni di originalità riposata e meditata e la pesante disinvoltura con la quale egli vuol svolgerci dinanzi agli occhi le sue favole impostate a colpi di cervello.
  L’Amor (sic) masqué diverte per mezz’ora, ma Balzac deve essersi certo più divertito a scriverlo che noi a leggerlo. Mi par di vederlo tutto grave e tutto disordinato, tutto tempestoso e tutto sorridente, cercare in fondo alle vastità della sua immaginazione in qualche cosa, un Amour masqué straordinario e piccante, da rilegare sotto un lucido cuoio bulinato, con bei nastri dai colori vivi.
  L’Amour masqué avrebbe potuto essere un bel romanzo, forte d’impostatura e di esecuzione, pieno di passione e di verità. Ma il romanzo bello grande potente sarà scritto domani. Oggi, questa notte, è meglio pensare alla stemmata e sola legatura …

  Aldo Sorani, Balzac maestro di eleganze, «Il Marzocco», Firenze, Anno XVI, N. 22, 28 maggio 1911, pp. 3-4.

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  Chi abbia la fede e la costanza di compiere intorno alle fondamenta della portentosa Comédie Humaine di Balzac, che Balzac stesso disse corrispondere architettonicamente ad una cattedrale come quella di Bruges, scavi un po’ sistematici, avrà la fortuna di scoprire ancor oggi larghi strati di documenti e di saggi d’una sostanza che reca l’impronta delle stesse pietre angolari dell’edificio, e che sarebbero importanti anche se solo recassero questa impronta. Sono invece, sovrapposti senza ordine e senza disegno, forti strati lapidei in cui si scorgono ancora le vene del liquido fuoco traboccato dai crateri d’un vulcano sempre in eruzione e che, anche solidificati, rosseggiano d’una luce ancor talvolta sanguigna; hanno ancora talvolta riflessi abbaglianti. In essi voi potete riconoscere non solo la qualità della materia onde l’artefice pieno di inesauribile vigoria plasmò a colpi di genio i suoi mondi e le sue figure; ma anche la potenza dell’ardore ch’egli vi soffiò dentro con cuore titanico.
  Uno studioso, Louis Lumet, ha tentato di recente uno di questi scavi ed ha tratto alla luce un primo volume di pagine ignote e curiose di Balzac[23] – per lo più articoli di giornali effimeri e perduti – in cui si addensa un singolar saggio dei materiali che servirono a Balzac per la costruzione del suo edificio, come in quelli nei quali il romanziere ha affigurato e scolpito in bassi rilievi d’una evidenza e d’una spontaneità mirabili la folla degli uomini ch’egli incontrava per le strade di provincia e della capitale e tutta l’ha frugata e sondata suddividendola e classificandola per tipi, per abitudini, per caratteri e per aspetti, dagli abiti ai cuori.
  Non voglio occuparmi delle lunghe pagine spesso vivacissime in cui Balzac fa la psicologia dei più varî rentiers o dei più varî impiegati e descrive minuziosamente le diverse società che si mescolavano e s’incrociavano su i boulevards della sua Parigi; ma solo soffermarmi a ricordare che dalla osservazione quotidiana di questa umanità composita ed arruffata in cui Balzac pose l’ordine della sua arte e del suo desiderio di filosofeggiare, venne fuori un giorno uno scritto più curioso degli altri: un Trattato della vita elegante, pubblicato in parte da un giornale di moda nel 1830, La Moda, e rimasto incompiuto[24].
  Non vi maravigliate che Balzac abbia scritto un Trattato della vita elegante. Balzac era capace di scrivere tutto. Passava da Eugenia Grandet alle Pene di cuore d’una gatta inglese; dal Giglio della (sic) valle agli Studi di costume secondo i guanti; dalla Fisiologia del matrimonio al Trattato dell’incesso [Théorie de la démarche] o magari al Trattato della Cravatta considerata in sé ed in rapporto con la società e gli individui. Balzac scriveva tutto e da per tutto: filosofia, romanzo, dramma, politica, arte, moda, nel giornaletto settimanale come nella rivista mensile, in sei volumi come in un foglio volante. Dunque Balzac ha scritto anche il Trattato della vita elegante che ora il Lumet pubblica nella prima parte del primo volume di questi articoli (Paris, Bibliopolis, 1911).
  La filosofia dell’eleganza non è un’invenzione di Balzac. Ha culminato teoricamente con Carlyle, praticamente con Brummel, con d’Orsay, con Oscar Wilde; ma l’umanità sembra abbia sempre saputo, da Adamo, che l’abito fa l’uomo. Balzac confessa tranquillamente che l’idea di scrivere il suo trattato gli è stata suggerita, e quasi disposta sopra un piano di attuazione, da Brummel stesso che egli si sarebbe recato a visitare nel rifugio francese dove, crivellato dai debiti, scendendo sempre più la china della propria decadenza, l’amico e l’emulo di Giorgio IV d’Inghilterra trascorreva gli ultimi suoi giorni pieni d’ombra. In un modo o in un altro, direttamente o indirettamente, Balzac deve a Brummel e al dandismo del suo tempo l’idea madre del trattato, il quale egli non disegnò, come Brummel avrebbe voluto, per occuparsi solo della toilette personale e degli abiti, ma per comprender tutta intiera la vita elegante; e non per riconoscere, come Brummel avrebbe sostenuto, che la vita elegante non è possibilità attuabile che da chi nasce naturalmente con l’istinto dell’eleganza cui poco accresce l’abitudine e lo studio; ma quasi per dimostrare la necessità sociale e generale dell’eleganza, il dovere di diffondere la «scienza delle maniere».
  Non soffermiamoci troppo sull’impostatura che Balzac dà al problema di questa scienza. Tutti sappiamo che Balzac imbastiva teorie spessissimo e volentierissimo, a diecine a diecine, e che la sua più grande gioia era quella di costruire armature sociali, politiche, e magari religiose, a contenere la freschezza dei frutti della sua spicciola e profonda osservazione e l’agilità delle sue favole. A sentirlo, egli è un grande costruttore di sistemi politici e magari metafisici e noi non gli lo perdoneremmo se non conoscessimo la sua natura e non avessimo imparato a sorridere bonariamente dinanzi ai castelli in aria delle sue filosofie.
  Nel Trattato della vita elegante egli, con la consueta disinvoltura che non ha sempre torto e che si basa anzi non di rado nel vero, descrive al genesi della vita elegante del suo tempo e ce ne spiattella le varie fasi da quando l’eleganza dei modi e degli abiti fu introdotta come arte e vita di corte in Francia dalle regine de’ Medici, fino a quando la Rivoluzione spazzò via furiosamente tutti gli orpelli dei privilegi, dei titoli, delle decorazioni, delle privative, e ridusse tutto a carta monetata, e fino a quando i nuovi ricchi, essendo diventati oziosi, ricondussero l’eleganza e i bei costumi in onore e rintracciarono le antiche separazioni, sebben su altra scala. Ma il Balzac stesso, dopo averci detto questo, non rifugge dal confessare che la vita elegante non è frutto della triplice aristocrazia del danaro, del potere e dell’ingegno e non nasce dalla Rivoluzione; ma proviene dalla natura umana, è un bisogno dell’anima umana, poiché anche il selvaggio ha le sue piume, i suoi tatuaggi, i suoi archi lavorati …
  Quel che Balzac riesce ad assodare nel suo spirito, fuor dalle costruzioni sociali che avran fatto spalancar gli occhi dalla maraviglia ai lettori della Moda di Émile de Girardin, è che la vita elegante o, più precisamente diciamolo alfine, l’eleganza per l’eleganza, è un derivato dell’ozio, è l’arte dell’uomo che non fa nulla, è il contrario della vita operosa ed occupata e della vita d’artista, che almeno è occupata dal pensiero.
  Ma non ogni ozioso può essere elegante, concede Balzac a Brummel. Bisogna aver avuto, lo ripetiamo, da natura un certo dono e averlo accresciuto con lo studio; bisogna aver obbedito e obbedire a certe leggi essenziali, essere stati almeno fino al liceo, per esempio; non essere né uomo d’affari, né professore di belle lettere; non essere avaro, non essere banchiere; e bisogna andare spesso a Parigi! Chi non va sovente a Parigi non potrà mai «diventare completamente elegante». La prima cura, certo, e Balzac lo concede ancora a Brummel, deve consistere nell’osservanza e nel culto della propria toilette. Dal modo di portare il bastone a passeggio si capisce se un uomo è elegante o no. Sterne non ha esitato un momento ad affermare che un uomo barbuto non ha le stesse idee dell’uomo rasato. La toilette investe e rappresenta tutto il mondo morale e intellettuale d’un uomo. Una donna in vestaglia e in abito da ballo non è più la stessa donna. Sono due donne!
  Balzac pensava di svolgere il suo trattato soffermandosi ampiamente a studiar la toilette in tutte le sue parti, quella degli uomini e quella delle donne, consacrando paragrafi speciali ai profumi, ai bagni, alla pettinatura e dedicando anche un capitolo ad una teoria completa dell’incesso e della posa … Il Sue gli avrebbe poi fornito le sue osservazioni per un capitolo intitolato: «Dell’impertinenza considerata nei suoi rapporti con la morale, la religione, le arti e la letteratura»! E il libro sarebbe infine terminato con un’«arte di ricevere» e un’«arte di far le visite! …». Balzac è qualche volta impagabile d’umorismo.
  Perché la toilette sia elegante davvero bisogna che obbedisca a tre regole: sia semplice, armonica, appropriata. Il lusso non è elegante; la vanità non è elegante. C’è, secondo Balzac come secondo Brummel, molto divario tra il fasto pomposo e l’eleganza, che deve essere sobria, senza contrasti. La toilette non deve mai essere un lusso come non deve mai rivelare l’economia ed è chiaro che è più costosa la vera eleganza che il lusso. Tutto sta a ben comprendere questo aforisma: «Il bruto si copre; il ricco si adorna; l’uomo elegante si veste».
  Del resto, per l’elegante, la toilette e l’eleganza non consistono tanto, afferma Balzac ossequente ai principî del dandismo, nel vestito; ma nel modo di portarlo. E Balzac ha ragione. Già Barbey d’Aurevilly aveva osservato che il dandy porta i suoi abiti come se fossero imponderabili, come se non li portasse … «Un dandy può mettere dieci ore a fare la sua toilette, ma una volta fatta la dimentica. Sono gli altri che debbono accorgersi ch’egli è ben vestito». E i concittadini di Brummel non trovavano nell’insolente e arrogante principe dell’eleganza nulla di strano o di sorprendente, tanto che potevan credersi capaci di vestire lo stesso, con molta facilità. Ma il tatto, il tono di Brummel erano inimitabili come il suo sussiego, il suo disdegno, la sua suffisance. E Brummel era elegante nel carattere e nel portamento; faceva la moda senza sorpassarla; non rimaneva vittima della sua toilette, non era mai la caricatura di sé stesso.
  Brummel aveva quello che Balzac chiama, con intrusione grossolanamente umoristica della moda, nella teologia o della teologia nella moda, tutta la grazia: la grazia sufficiente, la grazia essenziale, la grazia divina e concomitante! E poi non era un tipo; era il creatore d’un tipo e il prototipo d’un tipo …
  Ma se Balzac rispettava Brummel, non rispettava, almeno così egualmente, il dandismo che era per lui soltanto «un’eresia della vita elegante» un’affettazione della moda. «L’uomo che vede solo la moda nella moda è un imbecille» dice Balzac e noi sappiamo ch’egli nella moda vedeva anche la teologia.
  La toilette, l’eleganza erano per lui l’espressione dell’anima e della società. Balzac, a malgrado di tutte le sue boutades anche filosofiche, anche metafisiche, vuol restar nel semplice, nel giusto, nel sano. È un uomo che vede il lato relativo delle cose umane mentre i dandy (sic) s’elevano al disopra dei mortali non per spaziare largamente in giro; ma per affisare un idolo solo, e specializzarsi in una sola contemplazione. Balzac voleva la virtù, non la virtuosità dell’eleganza; l’arte, non l’artificio dell’eleganza. Gli piacevano quelle stranezze che solo potevan sembrare atti di eroismo e di originalità coraggiosissima; non i gesti fatui e le movenze da «parvenu». Si sarebbe inchinato pieno d’entusiasmo dinanzi a Giorgio IV che si faceva fare due o tre salassi prima di andare a render visita alla sua bella per apparirle più pallido; ma largamente e robustamente avrebbe riso del piccolo rentier che comprava poltrone dorate per tenerle in un salotto chiassoso, coperte di tela, al riparo della polvere e scoprirle nell’ora delle visite.
  Ma lo vedete voi il Balzac corpulento, «gros de partout et court de taille», coi capelli arruffati e scompigliati sulla testa leonina, con la larga tonaca da frate aperta sul collo gonfio, tutto grave e pesante e selvaggio, e legato accanitamente al suo tavolo, come un titano e come uno schiavo alla sua fatica e al suo supplizio formidabile, lo vedete voi maestro d’eleganza, filosofo e teorico della toilette? Non sorprendetevi di quest’uomo sorprendente. Egli vorrebbe essere, non solo tutto quello che è; ma anche tutto quello che non è; come vorrebbe rifare il mondo, ricreare l’uomo, riedificare cattedrali e piramidi dove vede bassure ed abissi. E vorrebbe soprattutto rifare sé stesso! Assimila dalla vita per creare la vita e gli sorride in fondo all’anima popolata di desiderî la malinconia di diventare un altro Brummel, di dettare le leggi del bel mondo, di regnare sul più alto regno, d’essere principe, d’essere grande, d’essere Honoré de Balzac.


  Oreste Tommasini, Il Machiavelli scrittore, «Rivista di Roma. Politica. Parlamentare. Sociale. Artistica», Roma, Anno XV, Fascicolo XXVIII-XXX, Ottobre 1911, pp. 325-331. 

  p. 328, nota (3). Balzac scrisse sul Rouge et Noir (sic) del Beyle: «C’est le chef-d’œuvre de la littérature à idées, le Prince moderne, le roman que M. (?) écrirait s’il vivait banni de l’Italie au XIX siècle». […].

  Circa l’influenza del M. sul Balzac, veggasi il suo Avant-propos à la Comédie humaine, p. 9. Nei Parents pauvres descrive poi (p. 143) la cousine Bette «simple, rude, mais non pas méchante, qui au commencement s’élève peu à peu jusqu’à un idéal de machiavélisme et de perversité infernale». E nei Contes drôlatiques: «cy est démonstré que la Fortune est toujours femelle». Nei suoi (sic) Etudes philosophiques, Sur Catherine de Médicis (p. 21): «Ce fut le plus bel âge de cette politique dont le code a été écrit par Machiavel comme par Spinoza, par Hobbes comme par Montesquieu», e per tutto il libro si atteggia ad un manierato machiavellismo conservatore. 


  Clement Vantel, Il Palazzo della Pace, «Scuola Italiana Moderna. Rivista settimanale d’insegnamento primario», Brescia, Anno XX, N. 4, 4 Novembre 1911, p. 29.

  La costruzione del palazzo della pace a l’Aja fa grandi progressi ... Ma è una cosa inquietante. […].

  A differenza della «Peau de Chagrin» di Balzac più l’edificio s’ingrandisce più la situazione si aggrava.


  Alfredo Vinardi, Nel Mondo dei Titani. Eroi della Bellezza. Eroi dell’Azione. Eroi dell’Idea. Eroi del Pensiero e della Fede. Ritratti ... Raccolte ... Studi ... Pensieri (Lettere e autografi inediti), Milano, Editrice A. Solmi, 1911.

 

L’Arte del Poeta, pp. 181-185.

 

  pp. 183-184. Il poeta – è risaputo – porta nel suo cervello tutto un mondo; il grande scrittore, dobbiamo convenirne, vive una vita mille volte più intensa di qualsiasi altro uomo, poiché egli osserva, pensa, confronta, giudica ed ammonisce insieme ... «... J’aurai porté une société toute entière dans ma tête ...»; la frase orgogliosa, ma vera, di Onorato Balzac, parmi all’uopo significativa, eloquente! …

 

Intorno a Stendhal. Il suo epistolario, pp. 331-340.

 

  p. 340. Taluno disse di Stendhal, ch’egli fu un letterato senza letteratura ed un filosofo senza filosofia, ed il giudizio potrà anche essere vero in un certo senso, quando si voglia parlare di uno stile letterario, di quello stile che, secondo Balzac, mancava a Stendhal, e di un sistema filosofico vero e proprio; [...].

 

Dostojewsky nel suo epistolario, pp. 343-348.

 

  p. 345. Ma tosto la lettura di Balzac lo trasportò in un mondo di visioni superiori, lo fa esclamare: «Onorato di Balzac è grande! Solo la intelligenza dell’universo ha potuto produrre quei suoi caratteri meravigliosi. Solo migliaia di anni di lotta possono produrre un tale meraviglioso risultato in un cuore umano! ...».

 

L’epistolario di Emilio Zola. Ricordi e riflessi dell’«affaire» (1895-1896-1908), pp. 371-385.

 

  p. 372. Dopo la «Commedia umana», del Balzac, l’opera zoliana ci ha rappresentato tutte le forze, tutte le tendenze generate dalla società moderna [...].

 

Intorno a Flaubert, pp. 391-397.

 

  p. 392. Nelle mani di un artista di prim’ordine, discendente diretto di Balzac e di Stendhal, la formula naturalista, che già aveva potuto rappresentare al vivo nella «Commedia umana» di Balzac stesso, in un quadro di verità e di moralità sociale, la società francese della Restaurazione e di Luigi Filippo, non doveva che esser portata a compimento; [...].

  p. 393. Come Onorato di Balzac, il Flaubert subordinò la psicologia alla fisiologia, e riprodusse l’ambiente fisico: uomini, cose, istinti, temperamenti, forze del sangue, influenze carnali.

 

Per due poeti [...], pp. 439-446.

 

  p. 439. Come Balzac, il grande poeta inglese [Byron] si irritava, ad esempio, per una critica ostile, ed abbandonò infatti la patria per non udire la voce dei retori venali.


  Alfredo Vinardi, Un romantico dell’azione (nel centenario di Teofilo Gautier), «L’Italia Centrale. Quotidiano della democrazia di Reggio Emilia», Reggio Emilia, Anno XLIX, N. 293, 30 Ottobre 1911, p. 2.
  Caro al Balzac, il Gautier non ne condivise intieramente i principii e però s’inchinò davanti al concetto informatore della «Commedia umana», titanico ed incrollabile, edificio d’umanità, d’arte e di pensiero.



   [1] Cfr. Léon Larguier, La Vie en bleu. Les Raisins de Balzac, «Revue politique et littéraire. Revue Bleue», Paris, 49e année, 1er septembre 1911, pp. 28-30.
   [2] Cfr. Echos. Le centenaire de Jules Sandeau, «Comoedia», Paris, 20 Février 1911, p. 3.
   [3] Cfr. Maurice Serval, “La Rabouilleuse” de Balzac. Les sites et les gens, les personnages ; Balzac à Issoudun, «Mercure de France», Vol. XC, 1er Avril 1911, pp. 491-515.
   [4] Cfr. Maria Giulia Longhi, L’educazione esemplare. Zulma Carraud, un’amica di Balzac, scrive per l’infanzia, Fasano, Schena, 1984.
   [5] Cfr. Joachim Merlant, Notes sur les originaux de Balzac. Quelques médecins (1831), «Revue politique et littéraire. Revue bleue», Paris, 49e année, N° 24, 1er semestre, 17 juin 1911, pp. 752-755.
   [6] Cfr. G. D., Le tombeau de Balzac, «Le Temps», Paris, N° 18311, 20 Août 1911, p. 2.
   [7] Cfr. Sezione : Filmografia per l’anno 1910.
   [8] De Cabanés (sic): Balzac ignoré. – Paris, A. Michel éd., 1911 (In Torino, presso la Libreria F. Casanova e C.). [N. d. A.].
   [9] Honoré de Balzac: L’Amour masqué ou Imprudence et Bonheur. Roman inédit. Paris, La Renaissance du Livre. [N. d. A.].
   [10] Riprodotto nella edizione della ‘Nouvelle Pléiade’ (t. XI) curata da Arlette Michel e da René Guise alle pp. 1201-1205.
   [11] Ora in: Aiuola di Francia, Milano, Il Saggiatore di Alberto Mondadori, 1969 («Saggi di arte e di letteratura», 22), pp. 73-79.
   [12] Ora, con il titolo di: Centenario di Gautier, in  Aiuola di Francia … cit., pp. 66-72.
   [13] Recensione di L. Lumet, Scritti minori di Balzac, Paris, Bibliopolis, 1911. Ora in: Aiuola di Francia … cit., pp. 22-27.
   [14] Cfr. Souvenirs de la Duchesse de Dino publiés par sa petite-fille la Comtesse Jean de Castellane. Préface de Étienne Lamy, Paris, Calmann-Lévy, s. d.; Chronique de 1831 à 1862, publiée avec des annotations et un index biographique par la princesse Radzwill, née Castellane, Paris, Plon-Nourrit et Cie, 1910.
   [15] Cfr. anche Van Engelgom [Jules Lecomte], Lettres sur les Ecrivains français, Bruxelles, 1837.
   [16] Cfr. Ferdinand Brunetière, Honoré de Balzac, 1799-1850, Paris, Calmann-Lévy, 1906, pp. VI-330.
   [17] Cfr. Gabriel Hanotaux et Georges Vicaire, La Jeunesse de Balzac. Balzac imprimeur. 1825-1828, Paris, Librairie des Amateurs, 1903.
   [18] Cfr. Geneviève Ruxton, La Dilecta de Balzac. Balzac et M.me de Berny, 1820-1836, Paris, Plon-Nourrit et Cie, 1909.
   [19] Cfr. nota 6.
   [20] Cfr. «Journal des Débats» du 19 mars 1848.
   [21] Cfr. G. Flaubert, Lettre de juillet 1862 à Edma Roger de Genettes.
   [22] Balzac, L’Amour masqué, Paris, Gillequin, 1911. [N. d. A.].
   [23] Cfr. H. de Balzac, Traité de la vie élégante. Physiologie du rentier à Paris. Physiologie de l’Employé. Les Boulevards de Paris avec une préface et des notes par L. Lumet. Illustrations de Daumier, Gavarni, Trimolet, Bertall, Paris, Bibliopolis, 1911.

   [24] Cfr. H. de Balzac, Traité de la vie élégante, «La Mode», 2-9-16-23 octobre e 6 novembre 1830 [non firmato].

Marco Stupazzoni

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